Medioevo n. 335, Dicembre 2024

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S SAIL LE PEC N O IA M NE LE AR D CO I

MEDIOEVO n. 335 DICEMBRE 2024

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

LA PAROLA ALL’IMMAGINE

MAGI

STELLA

CASTELSEPRIO I COLORI DELL’ ALTO MEDIOEVO VENEZIA I MISTERI DEL LEONE DI SAN MARCO

DOSSIER ALLA SCOPERTA DEI TESORI DI ARLES PROTAGONISTI MARGHERITA DI PARMA IL NOVELLIERE CHI TROVA UN AMICO... 40335 9

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LEONE DI VENEZIA I MAGI E LA STELLA MARGHERITA DI PARMA CASTELSEPRIO DOSSIER TESORI DI ARLES

Mens. Anno 28 numero 335 Dicembre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

I E LA

IN EDICOLA IL 3 DICEMBRE 2024



SOMMARIO

Dicembre 2024

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ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE La culla della devozione

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di Federico Canaccini

IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Quattro quarti di bellezza di Stefano Mammini

6

RESTAURI Ritorno a Castelseprio

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MOSTRE Principessa con mistero di Aart Heering

16

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/9 Chi trova un amico... di Corrado Occhipinti Confalonieri

68

STORIE SCOPERTE

Leone di Venezia

Un ruggito sulla Via della Seta di Gilberto Artioli, Roberto Ciarla, Massimo Vidale, Ivana Angelini, Antonella Gnutti e Valentina Cantone

24

68 CALEIDOSCOPIO

24 PROTAGONISTI

Margherita di Parma

La fortuna di Madama Margherita di Aart Heering

54

COSTUME E SOCIETÀ LA PAROLA ALLE IMMAGINI/1 La stella dei Magi di Virtus Zallot

ARALDICA Anonimo e sfortunato

di Niccolò Orsini De Marzo

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Decapitare non basta di Paolo Pinti

104

LIBRI Nemici ma non troppo

intervista a Mario Prignano, a cura di Corrado Occhipinti Confalonieri 44

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Lo Scaffale

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Dossier

COME LIBRI SCRITTI NELLA PIETRA di Elena Percivaldi

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20/11/24 17:02

MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 335 - dicembre 2024 Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Ivana Angelini è professoressa associata di georisorse minerarie e applicazioni mineralogico-petrografiche per l’ambiente e per i beni culturali presso l’Università di Padova. Gilberto Artioli è professore ordinario di mineralogia, cristallografia e scienza dei materiali presso l’Università di Padova. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Valentina Cantone è professoressa associata di storia dell’arte medievale presso l’Università di Padova. Roberto Ciarla, archeologo, è membro del consiglio direttivo dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente-Is.M.E.O. Francesco Colotta è giornalista. Antonella Gnutti è ricercatrice indipendente, Brescia. Aart Heering è giornalista. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Massimo Vidale è professore associato di metodologie della ricerca archeologica presso l’Università di Padova. Virtus Zallot è storica dell’arte e docente di storia dell’arte medievale all’Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. 50/51) e pp. 5, 13, 14, 32-33, 46/47, 48, 52/53, 56/57, 57, 58-59, 60 (basso), 61, 63, 66, 71, 74-75, 88-93, 108-109, 110 – Cortesia Ufficio stampa, Sara Stangoni Comunicazione: pp. 6-10 – Cortesia Studio Esseci: p. 12 – Cortesia Ufficio Comunicazione Historische Huizen Gent: pp. 16-17 – Shutterstock: pp. 24/25, 26 (basso), 27, 76/77, 81 (alto), 82/83 – Cortesia degli autori: pp. 26 (alto), 28-29, 39, 40, 44-45, 49, 50 (alto), 100-103 – Cortesia Ufficio Stampa Club Paradis: pp. 54, 56, 60 (alto), 62, 64-65, 67 – Museum van Schoone Kunsten, Gent: p. 55 – Creative Commons: pp. 79, 84-87, 94-99; Bayerische Staatsgemäldesammlungen-Alte Pinakothek, München: pp. 30/31; Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie/Jörg P. Anders: p. 107 – Ufficio Stampa British Museum: The Trustees of the British Museum: pp. 34 (alto), 35 (basso), 36, 37 (destra); ACDF of Uzbekistan, Samarkand State Museum Reserve: p. 35 (alto); Ashmolean Museum, University of Oxford: p. 37 (sinistra) – Historiska museet/SHM, Stoccolma: Ola Myrin: p. 34 (basso) – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 38 (sinistra), 50 (basso) – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: p. 38 (destra) – Mondadori Portfolio: Album/Quintlox: p. 41; Electa/ Antonio Quattrone: pp. 68/69, 73; Album/Collection Jean Vigne/Kharbine-Tapabor: p. 70; Electa/Paolo e Federico Manusardi: p. 72; AKG Images: pp. 104-105; Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone, Cortesia MiC: p. 106 – Cortesia Office de tourisme Arles Camargue: p. 80 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 81.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina. Padova, Cappella degli Scrovegni. Adorazione dei Magi, scena facente parte delle Storie di Cristo affrescate da Giotto. 1303-1305.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente genova

dossier

Il Museo di Sant’Agostino

Uomo, clima e magia

la parola alle immagini

Le ali degli angeli


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

DICEMBRE

La culla della devozione

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en prima della nascita del cristianesimo, a Roma, intorno al 25 dicembre si festeggiava il trionfo della luce sulle tenebre. Superato il solstizio d’inverno, durante il quale le ore di luce sono appena nove, ci si riuniva per condividere questo passaggio decisivo, mangiando cibi particolari e festeggiando il trionfo della vita sulla morte. All’indomani dell’avvento della religione cristiana, si stabilí di sovrapporre a questa festa pagana il Natale di Gesú, del quale, naturalmente, si ignorava la reale data di nascita: e non sarebbe stata l’unica sovrapposizione di un culto cristiano su uno pagano, sia nel calendario, sia nella topografia dell’Urbe. Sul colle Esquilino, là dove sorgeva un tempio di Giunone Lucina, protettrice delle partorienti, venne edificata la grande basilica dedicata alla Vergine Maria, la chiesa di S. Maria Maggiore. Il luogo sarebbe stato indicato dalla stessa Madonna al patrizio Giovanni e a papa Liberio, mentre la vicenda della miracolosa nevicata avvenuta a Roma il 5 agosto venne inventata nei secoli del Medioevo e non se ne trova traccia nelle fonti antiche. Ciononostante, la tradizione vuole che, per ricordare il presunto miracolo, ancora oggi si faccia cadere una nevicata fatta di migliaia di petali di fiori bianchi. Nella basilica di S. Maria Maggiore si conservano molte reliquie legate alla nascita del Bambino Gesú: la chiesa era detta, in effetti, Sancta Maria ad Praesepem e doveva ospitare una sorta di replica della grotta in cui sarebbe nato Gesú. Intorno alla metà del VII secolo, quando la Terra Santa era minacciata dagli Arabi, sarebbero giunte a Roma alcune preziose reliquie, con lo scopo di assicurare loro maggiore sicurezza: si tratta di alcune assi che formavano la mangiatoia e delle fasce in cui sarebbe stato avvolto il Bambino. La mangiatoia è menzionata dalle fonti solo a partire dal XII secolo: Giovanni Diacono scrive infatti che nella basilica «si trova la culla del Signore nella quale giacque il Bambino», ma già nel corso del V secolo san Girolamo affermava che a Betlemme l’antica culla fatta di argilla era stata sostituita da una in argento. Negli stessi anni, però, le imperatrici Eudossia e Pulcheria ottennero dal patriarca di Gerusalemme alcune fasce in cui sarebbe stato avvolto Gesú Bambino, di cui si hanno varie tracce in giro per l’Europa: un pezzetto,

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dicembre

Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Il reliquiario in cristallo di rocca a forma di culla, progettato da Giuseppe Valadier (1802), nel quale sono custodite cinque asticelle in legno di sicomoro (Ficus sycomorus), parte della mangiatoia in cui venne adagiato il Bambino Gesú. Recenti studi hanno datato i legni a un periodo coerente con la sua nascita. Le preziose reliquie sono all’origine del titolo originario della chiesa, Sancta Maria ad Praesepem. oggi ridotto a pochi filamenti, si trova in Spagna, a Lérida; un altro «Santo Pannolino» è custodito, almeno dal XII secolo, nel Museo Diocesano del Duomo di Spoleto; mentre parte di una benda di lino, un tempo conservata a Costantinopoli, sarebbe stata divisa fra Roma e Aquisgrana, alla corte imperiale. Presso quest’ultima erano conservati anche altri frammenti di tessuti santi e miracolosi, come il lembo di un vestito di lana della Madonna, il perizoma indossato da Gesú al momento della crocifissione e il fazzoletto intriso del sangue del Battista.

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il medioevo in

rima

agina

Quattro quarti di bellezza

ITINERARI • Castiglion Fiorentino, Monterchi, Citerna e Sansepolcro hanno dato

vita al progetto «Rinascimento in Valtiberina e Valdichiana», una proposta che coniuga l’amenità dei luoghi con la presenza di opere d’arte di grandissimo pregio, esito dello straordinario fermento creativo generatosi nel corso del Quattrocento

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n un fazzoletto di terra al confine fra Toscana e Umbria, tra i territori delle province di Arezzo e Perugia, i comuni di Castiglion Fiorentino, Sansepolcro, Monterchi e Citerna custodiscono testimonianze insigni dell’arte italiana – ma non solo –, intorno alle quali è stato costruito il progetto «Rinascimento in Valtiberina e Valdichiana». Un piano mirato alla valorizzazione dei luoghi, accomunati dal fascino di paesaggi incantevoli, e del loro ricco patrimonio culturale. Al di là del pregio delle opere d’arte e dei monumenti che ciascun borgo può vantare, tra i punti forti dell’iniziativa c’è senza dubbio la prossimità reciproca delle quattro località – la distanza fra i due poli estremi, Castiglion Fio-

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rentino e Sansepolcro, non supera i 40 km –, che rende quindi assai agevole e duttile la pianificazione di un itinerario. È dunque un’occasione ideale per partire alla scoperta di un lembo d’Italia che, mai come in questo caso, sarebbe riduttivo, se non addirittura offensivo, definire minore. Alla luce di quanto appena detto, non c’è una scelta logistica migliore di altre e le note che seguono possono essere considerate come una delle molte possibili composizioni di un mosaico le cui tessere sono in tutto e per tutto intercambiabili. Castiglion Fiorentino (Arezzo) sorge sulla sommità di un colle, a poco piú di 300 m slm, e il suo centro storico è tuttora dominato dai re-

Le opere simbolo del progetto «Rinascimento in Valtiberina e Valdichiana», firmate da Bartolomeo della Gatta, Piero della Francesca e Donatello.

dicembre

MEDIOEVO


sti della Torre del Cassero, simbolo della città. La struttura, tipicamente medievale, insiste su un’area frequentata già in epoche ben piú antiche, tanto che, sotto la torre stessa, è possibile visitare lo scavo musealizzato di un edificio sacro databile all’età etrusca. Il sito è stato peraltro oggetto di scavi, che hanno restituito una mole considerevole di reperti, i piú significativi dei quali sono esposti nel Museo Archeologico.

Lo stupore di frate Leone Nel cuore della cittadina, non si deve rinunciare all’affaccio dal Loggiato vasariano, dal quale si gode di un magnifico panorama sulla Valle di Chio e da dove si può quindi risalire alla Pinacoteca. Ed è qui che si può ammirare uno dei quattro alfieri del progetto «Rinascimento in Valtiberina e Valdichiana»: San Francesco

riceve le stimmate, una tempera su tavola dipinta intorno al 1480 dal pittore fiorentino noto come Bartolomeo della Gatta (al secolo, Piero di Antonio Dei). Valorizzata da un recente restauro, l’opera colpisce per il sapiente dosaggio della luce e per il realismo dei particolari: la scena è ambientata in un paesaggio che dobbiamo immaginare simile a quello del Monte della Verna, dove il miracolo ebbe luogo, e pone a confronto il santo di Assisi con frate Leone, del quale Bartolomeo rende in maniera esemplare lo stupore suscitato dal fenomeno di cui si trova a essere testimone. Una dimensione soprannaturale a cui fa riscontro il verismo dell’ambientazione, che ha

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nell’immagine di un barbagianni che assiste alla scena uno dei dettagli piú vividi.

Esaltazione della maternità Risalendo verso nord, basta una mezz’ora per trovarsi al cospetto della Madonna del Parto, l’affresco che Piero della Francesca dipinse, per un committente tuttora ignoto, nella chiesa di S. Maria di Momentana (o in Silvis) di Monterchi (Arezzo). L’opera, realizzata fra il 1450 e il 1465, prese forma in un luogo che, fin dall’antichità, era legato a culti pagani della fertilità: in tempi moderni ebbe una storia piuttosto movimentata, conclusa con la decisione di procedere al trasferimento dell’affresco nell’edificio che oggi

Qui sopra San Francesco riceve le stimmate, tempera su tavola di Bartolomeo della Gatta. 1487. Castiglion Fiorentino, Pinacoteca. In alto e a sinistra vedute di Castiglion Fiorentino (Arezzo).

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Uno scorcio del borgo di Monterchi (Arezzo).

la ospita, il Museo della Madonna del Parto. Nella sua apparente semplicità – gli studi hanno dimostrato, per esempio, l’accurata pianificazione delle geometrie e delle simmetrie che scandiscono la composizione –, l’affresco emana una forza straordinaria, magnetica: mentre gli angeli che la affiancano aprono la tenda, quasi un sipario teatrale, la Vergine sembra venire incontro all’osservatore e con il semplice sfioramento del ventre rigonfio gli trasmette tutta la potenza del messaggio di cui è portatrice. Da lei, da quel suo ventre, nascerà

Madonna del Parto, affresco di Piero della Francesca, dalla chiesa di S. Maria di Momentana o in Silvis. 1450-1465. Monterchi, Museo della Madonna del Parto. A destra elaborazione video che mostra il gioco delle simmetrie applicate dall’artista nella realizzazione del dipinto.

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il Figlio di Dio. Si tratta dunque di un’esaltazione della maternità e, del resto, al di là della connotazione religiosa, sappiamo che Piero della Francesca realizzò la Madonna del Parto anche in ricordo della madre, Monna Romana di Perino, che era originaria di Monterchi.

La giusta intuizione Ancora Maria, questa volta con il frutto del suo grembo, si incontra a Citerna (Perugia), nella chiesa di S. Francesco. È una Madonna con Bambino in terracotta policroma e la sua storia merita d’essere raccontata. Da sempre la statua faceva mostra di sé su una mensola, alle spalle dell’altare maggiore, ma solo in anni recenti si fece strada l’intuizione che ha portato ad attribuirla a Donatello. Tutto eb-

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In alto Citerna (Perugia). L’altare della chiesa di S. Francesco sormontato da un crocifisso ligneo di fattura bizantina (XIII-XIV sec.). A destra Madonna con Bambino, statua in terracotta policroma di Donatello. 1415-1420. Citerna, chiesa di S. Francesco.

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Madonna della Misericordia (particolare), polittico di Piero della Francesca. 1445-1462. Sansepolcro, Museo Civico.

DOVE E QUANDO

Info per informazioni sulla visita delle località coinvolte nel progetto e sulle opere in esse conservate, si può consultare il sito www.rinascimentovaltiberinavaldichiana.it; ulteriori informazioni sono disponibili su: www.museicastiglionfiorentino.it; www.citernaturismo.it; www.monterchiturismo.it; www.madonnadelparto.it; www.meetvaltiberina.it/borghi/sansepolcro; www.museocivicosansepolcro.it

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be inizio con la schedatura degli arredi liturgici della chiesa: la storica dell’arte che ne era stata incaricata rilevò la squisita fattura dell’opera e, soprattutto, fu colpita dal particolare della mano con cui la Vergine sorregge il Bambino: le dita sono infatti separate e una simile scelta richiede un notevole livello di perizia, perché assai piú elevati sono i rischi di crepe o fratture al momento della cottura dell’argilla. Il successivo intervento di restauro rivelò che sotto vari strati di ridipinture moderne si conservava la coloritura originale e, alla fine, riportò la scultura al suo aspetto originario, avallando l’ipotesi che nel frattempo era stata da piú parti avanzata e cioè che la Madonna col Bambino di Citerna fosse stata scolpita da Donatello, fra il 1415 e il 1420. E come tale si può adesso contemplarla, in una stanza attigua all’altare maggiore che per secoli aveva sorvegliato.

Una dinamica fissità Il circuito si chiude a Sansepolcro (Arezzo), città natale di Piero della Francesca, che del maestro custodisce piú di un’opera, fra cui spiccano la Resurrezione e la Madonna della Misericordia, entrambe conservate nel Museo Civico, allestito negli spazi del Palazzo della Residenza o dei Conservatori del Popolo. Opere che rinnovano, in uno svolgimento ideale, le emozioni suscitate dalla Madonna del Parto. Come nell’affresco di Monterchi, anche nella pittura murale della Resurrezione Piero offre un saggio del suo stile inconfondibile, fatto anche in questo caso di simmetrie (i soldati che dormono ai lati del Cristo) e di quella che potremmo definire come una sorta di dinamica fissità. Gesú è risorto ed è uscito dal sepolcro, ma l’invenzione della gamba piegata sul bordo dell’arca trasmette la sensazione di un movimento ancora in atto. Poco oltre, il polittico della Madonna della Misericordia, commissionato all’artista nel 1445, fonde la tradizione tipicamente medievale dei fondi oro con un plasticismo delle figure che è ormai di chiara marca rinascimentale. Va infine ricordato che il Museo Civico di Sansepolcro detiene anche altri due dipinti di Piero: gli affreschi, staccati, raffiguranti San Giuliano e San Ludovico di Tolosa, rispettivamente provenienti dall’ex chiesa di S. Chiara e dal Palazzo Pretorio. Stefano Mammini dicembre

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ANTE PRIMA

Ritorno a Castelseprio

RESTAURI • Gli affreschi altomedievali della chiesa di S. Maria foris portas sono

oggetto di un intervento di monitoraggio e manutenzione. Con il quale si rinnova l’impegno nella conservazione di un corpus pittorico di valore inestimabile

L

a chiesa di S. Maria foris portas a Castelseprio Torba (Varese) è una delle piú importanti testimonianze della presenza longobarda in Italia, tanto da essere stata inserita nel sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)», che, nel 2011, ha ottenuto il riconoscimento ufficiale da parte dell’UNESCO. Ubicata fuori dalle mura del castrum Seprium, nel luogo in cui si sviluppò il borgo altomedievale, la chiesa sorse come edificio aristocratico privato con annessa area cimiteriale. Al suo interno si conserva uno dei piú alti cicli pittorici altomedievali a oggi noti e per il quale è stato avviato un intervento di monitoraggio e manutenzione che durerà fino alla prossima primavera. Il sito resterà comunque aperto ai visitatori, che potranno assistere ai lavori –

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Dall’alto una veduta esterna della chiesa di S. Maria foris portas di Castelseprio Torba (Varese) e l’abside centrale, che accoglie il ciclo affrescato altomedievale attualmente oggetto di un intervento di monitoraggio e manutenzione. dicembre

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programmati in maniera da recare il minor disturbo possibile – durante gli orari di apertura della chiesa. L’intervento consentirà la mappatura completa dello stato di conservazione degli affreschi, la spolveratura e la pulitura a secco, agendo con iniezioni di malta idraulica naturale laddove si rilevassero distacchi dell’intonaco (vedi anche il box qui accanto).

Registri sovrapposti Come accennato, il ciclo affrescato è di rilevante importanza per lo studio dell’arte pittorica medievale lombarda. Sono rappresentate scene dell’infanzia di Cristo con episodi tratti dai Vangeli apocrifi anche piuttosto rari. Il racconto si dipana su due registri sovrapposti, conservati solo in parte. La narrazione inizia, in alto a sinistra, con l’Annunciazione e prosegue con la Visitazione e con la Prova delle Acque Amare, quando secondo le fonti Maria sorseggiò una bevanda misteriosa per attestare pubblicamente la sua verginità. L’autore – forse originario

Le caratteristiche dell’intervento L’intervento tecnico avrà carattere conservativo e manutentivo, tenendo presente che il precedente restauro – ancora molto valido e storicizzato – sarà preservato. Si procederà con un’attenta osservazione degli affreschi accompagnata da una documentazione fotografica preliminare con riprese a luce diffusa e in luce radente per verificare la complanarità dell’intonaco e la presenza di eventuali sollevamenti e decoesioni della materia pittorica. Tramite battitura sarà verificato lo stato di adesione dell’intonaco alle murature con la stesura di una mappatura di ogni scena, redatta digitalmente in formato editabile con relative legende, dove verranno segnalate eventuali zone di distacco, problemi di adesione o di coesione dell’intonachino con l’arriccio e tra l’arriccio e supporto murario. Si interverrà con una leggera spolveratura con pennellesse morbide allo scopo di rimuovere il materiale lipofilo superficiale senza intervenire sulle aree con decoesione ed eventuali sollevamenti della materia pittorica. Successivamente si procederà con una pulitura a secco mediante spugne Wishab per rimuovere la stratificazione lipofila piú tenace. Quindi si procederà con il consolidamento profondo delle zone di intonaco decoeso dal supporto murario con iniezioni di malta idraulica naturale tipo Ledan. Le eventuali zone di decoesione tra intonachino e arriccio verranno risolte con iniezioni di resina acrilica Primal. Le incongruenze materiche riscontrate sul supporto murario nelle zone inferiori saranno rimosse meccanicamente con micro-scalpelli. La successiva stesura materica sarà effettuata con malta a base di calce Lafarge e sabbia selezionata di granulometria e cromatismo simile all’intonaco. Eventuali decoesioni e sollevamenti di materia pittorica saranno risolte localmente mediante l’impiego di nanotecnologie. Luigi Parma, restauratore

Particolari delle scene raffiguranti la Presentazione di Gesú al Tempio (a sinistra) e l’Adorazione dei Magi.

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ANTE PRIMA

DOVE E QUANDO

Altri particolari del ciclo affrescato: dall’alto, il Viaggio a Betlemme e la Prova delle acque amare (che Maria supera bevendo appunto l’acqua che il sacerdote Zaccaria le porge in una brocca).

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di Costantinopoli, dato che i nomi dei personaggi sono riportati in caratteri greci – è a oggi ignoto e il suo modo di dipingere, dotato di forti legami con la pittura classica, risulta originale e con pochissimi paragoni. Data questa assenza di riferimenti, non c’è attualmente accordo tra gli studiosi sulla data di esecuzione di questa impresa artistica. Tre sono le principali ipotesi: l’età tardo-antica (VI secolo), quando a seguito della guerra greco-gotica la penisola fu conquistata dai Bizantini; l’età longobarda (VII secolo), quando, per contrastare l’eresia ariana che negava la natura divina di Cristo, si ribadirono le miracolose storie legate al suo concepimento; e il IX secolo, nel contesto della contrapposizione tra Chiesa orientale e papato sul culto rivolto alle immagini sacre. L’ultimo

Parco Archeologico ed Antiquarium di Castelseprio Castelseprio (Varese), via Castelvecchio, 1514 Info tel. 0331 820438; e-mail: parcoarcheologico.castelseprio@ beniculturali.it; www.antiquarium. castelseprio.beniculturali.it importante intervento di restauro sul ciclo di affreschi, scoperto nel 1944 dallo storico e archeologo Gian Piero Bognetti (1902-1963), risale ai primi anni Novanta e fu eseguito dalla restauratrice Pinin Brambilla (1925-2020). L’attività è sostenuta da Intesa Sanpaolo nell’ambito di «Restituzioni», il programma biennale di restauri di opere d’arte appartenenti al patrimonio culturale italiano. (red.) dicembre

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ANTE PRIMA

Principessa con mistero MOSTRE • La città belga di Gand ripercorre la vicenda

biografica di Giuditta delle Fiandre (o di Francia), figlia di Carlo il Calvo, celebrata come madre della nazione fiamminga. Un omaggio nato dal ritrovamento e dal successivo studio di uno scheletro che potrebbe essere quanto resta dell’illustre personaggio

È

lei, o non è lei? È la domanda che storici e archeologi si pongono da quando nel 2006, durante la costruzione di un parcheggio sotterraneo nel centro di Gand, furono trovati i resti di una donna vissuta nel IX secolo. Faceva parte di un gruppo di sette scheletri, databili appunto fra il IX e il XII secolo, rinvenuti sotto la piazza antistante la chiesa dell’abbazia di S. Pietro, in un’area nella quale, nel Medioevo, vennero sepolti i conti delle Fiandre. Si trattava di individui ben nutriti, quindi appartenenti a classi sociali elevate. Dopo la scoperta, si ipotizzò che la donna potesse essere Giuditta di Francia, moglie di Baldovino I, il primo conte delle Fiandre, ma l’ipotesi fu scartata perché impossibile da provare. Di recente, grazie a nuovi metodi d’indagine, ricercatori dell’Università di Gand sembrano avere reso piú vicina la

soluzione dell’enigma. E il dibattito storico, archeologico e tecnico-scientifico, nonché la biografia della stessa Giuditta, sono ora i temi della mostra allestita nel Museo dell’abbazia di S. Pietro, «Giuditta, una principessa carolingia a Gand?». Giuditta nacque intorno all’844 da Carlo il Calvo (823-877), re dei Franchi Occidentali e (dall’875) imperatore. All’età di 12 anni fu data in moglie al re Etelvulfo del Wessex, per suggellare una coalizione franco-sassone contro i Normanni, che stavano allora devastando sia la Francia che l’Inghilterra. Dopo la morte del re, A destra Giuditta, moglie di Baldovino I, olio su tela di Albrecht De Vriendt. 1889. Anversa, Museo reale di belle arti. In basso calzature a uso liturgico. IX sec. Delémont (Svizzera), Musée jurassien d’art et d’histoire.

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DOVE E QUANDO

«Giuditta, una principessa carolingia a Gand?» Gand, abbazia di S. Pietro fino al 19 gennaio 2025 Info https://historischehuizen. stad.gent In alto l’abbazia di S. Pietro a Gand, da Flandria Illustrata di Antonius Sanderus. 1641. Gand, Biblioteca Universitaria. In basso sedia pieghevole di stile carolingio. IX-X sec. Pavia, Musei Civici del Castello Visconteo. nell’858 Giuditta sposò suo figlio Etelbaldo, il quale, a sua volta, morí due anni dopo. Rientrò quindi in Francia e re Carlo la fece entrare nel convento di Senlis, da dove, nell’861, fu rapita – a quanto pare consenziente – da un cavaliere noto come Baldovino Braccio di Ferro. Furioso, il sovrano fece scomunicare la giovane coppia, che si rifugiò alla corte di Lotario II, re di Lorena e cugino di Giuditta. Durante un pellegrinaggio a Roma, papa Nicola I annullò la scomunica dei due giovani, che nell’862 poterono dunque sposarsi. Carlo riconobbe allora Baldovino come suo genero e

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gli diede in feudo il pagus flandrensis, una zona sperduta e paludosa che poi si sarebbe trasformata nella ricca contea delle Fiandre.

Strappata all’oblio Dopo l’879 non si hanno notizie su Giuditta e, mentre di Baldovino sappiamo fu sepolto a Saint Omer, nelle Fiandre francesi, l’ultima dimora di sua moglie restava

sconosciuta. Anche la figura stessa di Giuditta finí nel dimenticatoio. Fino al 1830, quando il nuovo regno del Belgio avverti la necessità di darsi una storia patria e Giuditta fu promossa a madre fondatrice della nazione fiamminga. Ecco perché il ritrovamento del suo presunto scheletro ha suscitato un cosí vasto interesse. La mostra racconta la vita di Giuditta attraverso oggetti come scarpe, armi, gioielli, oltre allo scheletro stesso e a possibili ricostruzioni del suo volto e ritratti idealizzati. Accanto ai dati storici e archeologici, ampia attenzione viene data alle analisi bioantropologiche. In particolare, l’analisi isotopica delle ossa ha permesso di accertare non solo la provenienza (franca) della defunta, ma anche il fatto che in gioventú aveva vissuto altrove, probabilmente in Inghilterra. Informazioni che, tuttavia, non bastano a sciogliere i dubbi. E cosí gli organizzatori della mostra hanno lasciato la questione in sospeso, invitando i visitatori a formulare le proprie conclusioni. Aart Heering

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AGENDA DEL MESE

Mostre TOLOSA «CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025

Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande respiro, distribuita in due sedi: il Musée SaintRaymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (12091229), un episodio che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati provenienti dal Nord, il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto espositivo si sofferma da un lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno caratterizzato la crociata contro gli Albigesi, intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara,

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a cura di Stefano Mammini

senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr ROMA LAUDATO SIE: NATURA E SCIENZA. L’EREDITÀ CULTURALE DI FRATE FRANCESCO Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 6 gennaio 2025

Nel 1225 Francesco di Assisi compose il Cantico di frate Sole o Cantico delle creature – tra i primi testi poetici in volgare italiano giunti a noi – e in vista dell’ottavo centenario dell’evento il Museo di Roma a Palazzo Braschi propone un itinerario, costantemente accompagnato da una narrazione multimediale, attraverso 93 opere rare del Fondo antico della Biblioteca comunale di Assisi conservate presso il Sacro Convento. Il percorso espositivo, cadenzato dalle diverse sezioni, racconta la profonda dimensione

filosofica e spirituale che da sempre guida l’Ordine francescano e, allo stesso tempo, ne illustra l’impegno intellettuale espressosi nell’ambito della riflessione scientifica, come attestato dai numerosi trattati tramandati nei preziosi manoscritti esposti. È quindi possibile soffermarsi, seppur brevemente, sulla sintesi filosofico-teologica dei primi pensatori francescani, filosofi e teologi, sul tema della natura, fino a focalizzare l’attenzione sulla maniera nella quale le singole scienze, nei secoli, hanno portato a osservare il mondo e su come gli stessi francescani abbiano favorito questo sguardo. info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, ore 9,00-19,00);

www.museodiroma.it; www.museiincomune.it; www.laudatosie.com

TRENTO CON SPADA E CROCE. LONGOBARDI A CIVEZZANO Castello del Buonconsiglio fino al 12 gennaio 2025

La storia dei Longobardi in Trentino viene narrata attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della “principessa” e del “principe” di Civezzano, esposti assieme per la prima volta. Nata dalla collaborazione tra il Castello del Buonconsiglio e il Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, la mostra offre l’occasione di riesaminare i dati storici e i materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze dicembre

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incrementate grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali, ma anche di approfondire tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia “barbarica”. Ciò che venne ritrovato a Civezzano nell’Ottocento, quando il Trentino era parte dell’impero asburgico, è conservato al Ferdinandeum di Innsbruck; quanto rinvenuto all’inizio del secolo successivo e acquistato dal museo imperiale di Vienna è invece giunto al Castello del Buonconsiglio, dopo l’istituzione del Museo trentino. L’esposizione unisce idealmente i due musei proprio nel momento in cui quello trentino festeggia il primo centenario della sua istituzione e il Ferdinandeum ha appena concluso le celebrazioni del bicentenario. La ricerca parte dalla scoperta nella località

NEW YORK

piemontese di Testona, sul finire dell’Ottocento, di una necropoli i cui reperti furono attribuiti a popolazioni germaniche, oggetti che servirono a identificare quelli rinvenuti a Civezzano nella tomba “principesca” nel 1885. Dal museo di Innsbruck, ma anche dai musei reali di Torino, sono giunti a Trento reperti davvero straordinari, testimonianze rarissime di alte manifatture dei primi insediamenti longobardi in questi territori. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it

influenza di Duccio su una nuova generazione di pittori allo sviluppo di pale d’altare narrative, alla diffusione di stili artistici fuori dai confini italiani. Attingendo alle collezioni del Metropolitan e della National Gallery di Londra (dove l’esposizione verrà riproposta dall’8 marzo al 22 giugno 2025), oltre che a prestiti di decine di enti internazionali, la mostra spazia da grandi opere realizzate per essere esposte al pubblico a oggetti intimi pensati per la devozione privata. Tra i capolavori che si possono

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SIENA: LA GRANDE STAGIONE DELLA PITTURA, 1300–1350 The Metropolitan Museum of Art fino al 26 gennaio 2025

Forte di oltre cento dipinti, sculture, oreficerie e tessuti, la rassegna – prima grande mostra mai dedicata alla pittura senese del Trecento negli USA – approfondisce un momento straordinario agli albori del Rinascimento italiano e il ruolo cardine svolto da artisti senesi come Duccio, Pietro e Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini nella definizione della pittura occidentale. Nei decenni precedenti la catastrofica epidemia di peste attorno al 1350, Siena fu teatro di straordinarie innovazioni e attività artistiche. Per quanto spetti solitamente a Firenze la designazione di centro principale del Rinascimento, questa presentazione offre una rilettura dell’importanza di Siena, dalla profonda

ammirare, ricordiamo la Madonna Stoclet di Duccio, l’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti e riunificazioni storiche di fondamentali complessi pittorici, come la predella posteriore della Maestà di Duccio e il Polittico Orsini di Simone Martini. info www.metmuseum.org FERRARA IL CINQUECENTO A FERRARA. MAZZOLINO, ORTOLANO,

GAROFALO, DOSSO Palazzo dei Diamanti fino al 16 febbraio 2025

Tema portante dell’esposizione sono le vicende artistiche del primo Cinquecento a Ferrara, dagli anni del passaggio di consegne da Ercole I d’Este al figlio Alfonso I (1505) fino alla morte di quest’ultimo (1534), committente raffinato e di grandi ambizioni, capace di rinnovare gli spazi privati della corte come quelli pubblici

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a causa della loro fragilità, ai quali è stata affiancata una selezione di importanti dipinti, concessi in prestito da istituzioni prestigiose, quali il Museo del Louvre, la National Gallery di Londra e la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia: un insieme che offre la possibilità di seguire il percorso artistico di Raffaello, dalle prime commissioni fino alla morte, che lo colse, prematuramente, nel 1520. Le opere grafiche del maestro urbinate facenti parte della collezione del Palais des Beaux-Arts – sottoposte a della città. La scomparsa della generazione di Cosmè Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti aveva lasciato Ferrara alle prese con la difficile sfida di un ricambio di alto livello. Nel 1496 la scelta di ingaggiare Boccaccio Boccaccino indica la volontà di adottare un linguaggio piú moderno, addolcito e morbido. All’inizio del nuovo secolo si sviluppa cosí una nuova scuola, meno endemica e piú aperta agli scambi con altri centri, che ha come protagonisti Ludovico Mazzolino, Giovanni Battista Benvenuti detto Ortolano, Benvenuto Tisi detto Garofalo e Giovanni Luteri detto Dosso. Mentre Garofalo e Dosso sono noti al pubblico, e il loro percorso è stato approfondito in maniera organica in diverse occasioni espositive, per Mazzolino e Ortolano si tratta di un debutto assoluto, e quanto mai necessario per illustrare compiutamente e comprendere meglio il variegato panorama della pittura ferrarese dei primi decenni del XVI secolo. info tel. 0532 244949: e-mail: diamanti@comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it

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restauro in occasione della mostra – sono funzionali a illustrare il processo creativo dell’artista, in cui il disegno funge da punto di partenza per la composizione di dipinti, spesso di grande formato. Questa significativa scelta di materiali originali è integrata da filmati e apparati multimediali, fra i quali spicca la ricostruzione virtuale della Pala Baronci, smembrata e perzialmente perduta, alla quale Raffaello lavorò poco piú che diciassettenne. info https://pba.lille.fr/ LONDRA VIE DELLA SETA British Museum fino al 23 febbraio 2025

Carovane di cammelli che attraversano dune desertiche, mercanti che commerciano seta e spezie nei bazar. Sono queste le immagini che vengono alla mente quando pensiamo alla via della Seta. Ma la realtà va ben oltre, a cominciare dal fatto che, come racconta la nuova mostra del museo londinese, la storia dei commerci fra Oriente e Occidente fu scritta lungo molteplici percorsi, le «vie» della Seta, come recita il titolo, un sistema di reti sovrapposte che collegavano comunità in tutta l’Asia, l’Africa e l’Europa, dal Giappone alla Gran Bretagna, dalla Scandinavia al Madagascar. Queste vie sono LILLA ESPERIENZA RAFFAELLO Palais des Beaux-arts fino al 17 febbraio 2025

Cuore del progetto espositivo sono i disegni che il pittore e collezionista Jean-Baptiste Wicar (1762-1834) lasciò in eredità a Lilla, sua città natale. Si tratta di una quarantina di fogli, molto raramente esposti dicembre

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state utilizzate per millenni, ma l’esposizione si concentra su un periodo ben definito, compreso fra 500 e il 1000 d.C. Lungo il percorso, che si articola in sezioni geografiche, sono distribuiti oltre 300 oggetti e opere d’arte, frutto anche di importanti prestiti, e fra i quali spiccano un antico gruppo di pezzi degli scacchi e un monumentale dipinto murale dalla Sala degli Ambasciatori di Afrasiab (Samarcanda, Uzbekistan). info www.britishmuseum.org PARIGI FAR PARLARE LE PIETRE. SCULTURE MEDIEVALI DI NOTRE-DAME Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo fino al 16 marzo 2025

Fin dalla sua creazione, il Museo di Cluny è stato il principale luogo di conservazione delle sculture della cattedrale parigina di Notre-Dame. Nella sala dedicata al monumento sono riuniti i frammenti scultorei piú significativi ritrovati nel 1977 sotto un palazzo, tra cui le famose teste dei re, che sono andati ad affiancare gli elementi architettonici ornamentali che già facevano parte della raccolta museale. Queste opere non erano state oggetto di studi, né di restauri da quasi quarant’anni e sono state invece riesaminate in occasione del progetto di ricostruzione di Notre-Dame avviato all’indomani del devastante incendio del 2019. Nel 2022 il Museo di Cluny ha quindi promosso un programma di studio e

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restauro di una selezione dei pezzi, realizzato in collaborazione con il Centro di ricerca e restauro dei musei francesi (C2RMF) e il Laboratorio di ricerca dei monumenti storici (LRMH). La mostra offre ora l’opportunità di fare luce sui materiali della raccolta e, oltre alle opere normalmente esposte nella sala delle sculture di NotreDame, vengono presentati molti pezzi inediti, fra cui spiccano i frammenti di un tramezzo risalente al 1230 rinvenuti nel corso di un intervento di archeologia preventiva condotto dall’Inrap (Istituto Nazionale per la Ricerca Archeologica Preventiva) dalla primavera del 2022. Le sculture selezionate

PARIGI SFOGLIARE NOTREDAME. CAPOLAVORI DELLA BIBLIOTECA MEDIEVALE Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo fino al 16 marzo 2025

per la mostra – piú di 100 – permettono dunque di scoprire il ricco apparato decorativo originale, esterno e interno, della cattedrale parigina, nelle forme in cui si presentava prima degli interventi e delle distruzioni di epoca moderna. info www.musee-moyenage.fr

La storia della cattedrale di NotreDame non è solo quella del suo celebre edificio, ma è anche quella dei libri, dei manoscritti e delle opere a stampa che servivano al culto o allo studio. Un patrimonio che, dal 1756, è conservato in gran parte nella Biblioteca nazionale di Francia, i cui fondi comprendono, in particolare, circa 300 manoscritti. La mostra allestita al Museo di Cluny offre adesso un saggio

eloquente della ricchezza di questa collezione, di cui è stata selezionata una quarantina di pezzi. Documenti di grande pregio e valore documentario ai quali sono affiancati fogli miniati provenienti dalle collezioni dello stesso Museo di Cluny, registri capitolari che documentano la gestione dei libri della cattedrale, manoscritti e una pianta concessi in prestito dall’Archivio di Stato, nonché un manoscritto miniato proveniente dall’Archivio storico dell’arcivescovado. Il percorso espositivo offre dunque una sintesi della ricchezza della vita intellettuale, artistica e religiosa di Notre-Dame durante il Medioevo. info www.musee-moyenage.fr

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GLI ARGOMENTI

MEDIOEVO SPECIALE

rtú e i cavalieri della Tavola Rotonda godono, ancora oggi, di una fama che sembra resistere, piú di altre, all’usura del tempo. Un fenomeno che ha pochi confronti e che, almeno in parte, può spiegarsi con il fatto che, fin dalle prime apparizioni letterarie, essi furono considerati la piú nobile incarnazione dell’ideale cavalleresco. E, di conseguenza, vennero visti come un esempio da imitare. L’aver incarnato i principi della cavalleria, però, non basta a giustificare un successo che si protrae ormai da molti secoli, ed è proprio per ampliare la prospettiva che il nuovo Speciale di «Medioevo» affronta la questione analizzando tutti i suoi aspetti principali e tracciando il profilo dei molti e nobili protagonisti. Pur nella consapevolezza di avere a che fare con personaggi di fantasia, appare fin da subito evidente la loro umanità. Un’umanità che, di conseguenza, oltre a farli gioire per il compimento di gesta nobili e valorose, non li sottrae a dolori, delusioni e pene d’amore. Per questo Artú, Lancillotto o Galahad, quando non sono coinvolti in sortilegi o duelli con creature fantastiche, possono essere percepiti come simili, quasi come fratelli maggiori. Altrettanto forte – e decisivo nel determinare la fortuna del mito arturiano – è poi l’intreccio con la religione, che si coglie innanzitutto nella missione piú importante alla quale i cavalieri della Tavola Rotonda sono chiamati: il ritrovamento del Santo Graal, vale a dire del calice che si riteneva fosse stato utilizzato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere le gocce del sangue di Cristo sgorgate dalla ferita al costato. Né può essere considerato secondario il ruolo giocato dalle portentose armi imbracciate da Artú e dai cavalieri: la spada estratta dall’incudine nel cimitero della cattedrale di Winchester e l’invincibile Excalibur… C’è insomma un universo di fascino e suggestioni da scoprire, ripercorrendo un’avventura senza tempo, intessuta di simboli e di segni misteriosi. Misteri la cui decifrazione può aiutare l’uomo di oggi come quello di un remoto passato a capire se stesso.

Una veduta dei resti del complesso monastico di Glastonbury, nel Somerset (Inghilterra sud-occidentale). Secondo la tradizione, qui si troverebbe la tomba di re Artú e della regina Ginevra.



scoperte leone di venezia

Un ruggito sulla Via della

Seta

di Gilberto Artioli, Roberto Ciarla, Massimo Vidale, Ivana Angelini, Antonella Gnutti e Valentina Cantone

È il simbolo di Venezia e della Repubblica Serenissima. E, dall’alto di una colonna, domina da secoli una delle piazze più famose al mondo. Eppure, le origini del celebre leone alato sono rimaste avvolte nel mistero per secoli. Fino a qualche mese fa, quando una serie di indagini scientifiche hanno aperto la strada a una nuova, affascinante ipotesi... Veduta di Venezia, con le colonne di San Marco in primo piano, sormontate dal Leone e dal Todaro (denominazione popolare della statua raffigurante san Teodoro, di origine bizantina).

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a baffi sottili e vibranti sopra un ghigno inquietante e un muso che sembra in parte scimmiesco, ma anche un po’ diabolico e umano al tempo stesso, una criniera brulicante di bassi riccioli e strane orecchie umanoidi riempite di ciocche di pelo: è il «mostro» di quasi 3 tonnellate e 4 metri di lunghezza, ma praticamente invisibile, che sorveglia immobile il brulicare dei turisti che affluiscono a Venezia da ogni parte del mondo. Al di là del paradosso, stiamo parlando del grande «leone» di bronzo situato in cima a una delle gigantesche colonne di marmo violetto, forse di origine anatolica, che si affacciano sul porto di San Marco. Tutti vedono la statua dal basso, ma da tale distanza e dalle angolature attuali non se ne apprezzano affatto le enormi dimensioni, né le stranissime fattezze stilistiche. L’ultima volta che era stata vista da vicino da un vasto numero di visitatori risale agli anni 1985-1990, quando l’opera era stata smontata dalla colonna per un completo check up conservativo e il «Leone» ne aveva approfittato, addirittura, per un breve soggiorno londinese al British Museum. La figura lascia ancora oggi sospese nell’incertezza le interpreta-

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zioni sulla sua storia, cosí intimamente legata all’immagine e alle vicende della Serenissima sulle onde del Mare Mediterraneo, dei suoi possedimenti territoriali e della sua espansione commerciale verso il Levante e l’Europa.

Emblema della tradizione

Il Leone di san Marco continua a vivere come emblema ufficiale di Venezia e della Regione del Veneto, e a godere di una indiscussa e vasta popolarità come simbolo identitario della tradizione locale. Eppure la sua storia è quasi ignota e, a quanto pare, ben piú complessa. Sebbene molti studiosi si siano cimentati in ricerche approfondite e siano state scritte varie monografie in proposito, sia di argomento storico sia archeologico, le sue origini sono ancora avvolte nell’oscurità. Le ipotesi finora avanzate includono la sua produzione in una sconosciuta fonderia veneziana del XIII secolo, come propongono alcuni storici dell’arte e archeologi italiani, oppure la realizzazione in Anatolia o nella Siria settentrionale in epoca ellenistica e sotto influenze tardo-assire. In alternativa, sono state suggerite possibili somiglianze e affinità stilistiche con sculture ro-

maniche, gotiche, assire, etrusche, sasanidi e cinesi, ma senza giungere a conclusioni attendibili. La studiosa piú importante e informata sul «Leone» veneziano è stata senza dubbio Bianca Maria Scarfí († 2016), che, nel 1990, ha dato vita a un corposo volume che compendiava in modo mirabile un secolo di studi e dibattiti precedenti, nonché una serie di avanzate analisi metallurgiche condotte nel corso dell’ultimo restauro dai migliori specialisti del tempo. Il gruppo di lavoro aveva ricostruito, per il Leone Alato, una complessa storia di fusioni successive, in parte dovute alla prima realizzazione dell’opera, in parte a integrazioni, eventi e restauri successivi. Tra le modifiche piú evidenti vi erano i segni lasciati dal taglio della parte superiore della testa, in seguito coperti dall’apposizione di un «parrucchino» mosso da riccioli, che ne rialzava la sommità della testa; e, naturalmente, la sostituzione delle ali medievali con altre

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scoperte leone di venezia moderne nel corso di un radicale restauro ottocentesco. La somiglianza con opere funerarie cinesi della dinastia Tang (618-907) era stata rilevata dalla studiosa, ma le analogie erano allora sembrate troppo remote nel tempo e nello spazio per sostenere l’utilità di una ricerca approfondita in tal senso. Secondo lo studio di Scarfí, in ultima analisi, la statua poteva essere la versione ellenistica di un grifone mesopotamico o persiano con testa di leone, databile tra il IV e il III secolo a.C., sul quale sarebbe stata collocata una grande immagine stante del dio anatolico Sandon, divinità della città di Tarsos, in Turchia. Sandon, infatti, compariva raffigurato sulle monete di questa città in piedi, con un’ascia in mano, soIn alto particolari di monete con la raffigurazione di Sandon, dio anatolico della città di Tarso, che appare in piedi, con un’ascia in mano, sulla groppa di un grande felino provvisto di corna.

pra una creatura ibrida: forse, un grosso felino cornuto. La ricostruzione di Scarfí si basava sulla maggioranza delle teorie precedenti, e spiegava in modo complicato ma senza dubbio affascinante, le caratteristiche davvero bizzarre della statua. L’idea, da allora, è stata ampiamente accettata, ed è la versione piú spesso divulgata.

Come nasce un simbolo politico

Il leone alato dell’apostolo Marco compariva da secoli, coronato da un sacro nimbo, insieme all’angelo, al toro alato e all’aquila degli

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altri tre Evangelisti, nelle ricorrenti iconografie apocalittiche dette «Tetramorfi». Fu poi strettamente associato a Venezia sin dall’avventuroso trasporto dei resti mortali del santo da Alessandria d’Egitto nell’829. La sua trasformazione in un potente simbolo politico si data all’indomani del 1261, quando Venezia perse drammaticamente il controllo di Costantinopoli in seguito alla conquista dell’impe-

ratore bizantino Michele VIII Paleologo (1223-1282). Subito dopo questa data, grazie a uno sforzo accuratamente coordinato da Venezia, il leone alato fece la sua comparsa sulle difese di tutte le terre conquistate: Dalmazia e Croazia, le isole Ionie e il Mar Egeo, compresa Creta, e infine Cipro. In breve tempo, tutti i porti della costa adriatica, dell’Epiro, del Peloponneso e di tutte le isole

dominate mostravano la familiare figura del grande felino che afferrava con gli artigli il libro sacro. Negli stessi anni, la medesima immagine figurava sui sigilli di Stato e sui contenitori dal volume standardizzato che sancivano la correttezza delle transazioni erariali: la fantastica creatura si era rapidamente trasformata in un vero e proprio «mostro di Stato». L’immagine infatti combinava l’ascen-

In basso e nella pagina accanto, in basso il Leone Marciano, la scultura in bronzo che sormonta una delle colonne di San Marco.

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scoperte leone di venezia A destra rilievo raffigurante il Leone di San Marco, murato nella parete di una casa affacciata sul Rio di San Marcuola. In basso un altro rilievo raffigurante il Leone Marciano, di provenienza sconosciuta. Venezia, Museo Correr.

denza celeste e l’innata ferocia della fiera – che richiamava il potere terreno e militare, spesso spietato, della Repubblica – con la sacralità immanente conferita dal Vangelo. È significativo che lo spazio tra le due colonne veneziane fosse anche quello, in qualche modo impuro, riservato alle esecuzioni capitali. Sappiamo infatti che in età medievale, a Roma, un’altra fiera di bronzo, la Lupa Capitolina, si ergeva, con un simile ringhio minaccioso, proprio sopra il patibolo.

Un silenzio inspiegabile

Se su questa storia vi può essere un generale consenso, essa trascina con sé molte oscure zone d’ombra. Da dove era partita, e come arrivò a Venezia una simile statua, tanto visibile e impressionante? Non è facile spiegare il silenzio delle fonti storiche sull’arrivo, la sistemazione e il sollevamento del bronzo sulla

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cima della colonna a fianco del Todaro (il San Teodoro, di origini bizantine) simmetricamente collocato sulla colonna gemella. Anche la storia delle colonne rimane incerta. Se la tradizione colloca la loro erezione nel 1172, chi le ha studiate a fondo sostiene che potrebbero essere arrivate a Vene-

zia non molto prima del 1261, e che basi e capitelli furono poi appositamente realizzati in loco. Non sarebbe quindi trascorso molto tempo prima che la statua fosse innalzata lassú e avesse già cominciato a deteriorarsi seriamente, tanto da richiedere un costoso restauro. Da allora, il Leone Marciano ha continuato ad accompagnare le sorti della grande Repubblica marinara, nella buona e nella cattiva sorte. È molto probabile che per un certo lasso di tempo fosse stato visibile a terra, perché vi sono almeno tre bassorilievi in pietra, considerate le piú antiche raffigurazioni esistenti a Venezia del leone alato, che sembrano presentare dettagli letteralmente copiati dalla visione frontale della grande immagine bronzea. Si tratta di tre rilievi erratici, due dei quali sono oggi conservati al Museo Correr (uno proviene dal campanile della chiesa di S. Aponal), mentre un terzo rilievo era stato murato su una parete del Rio di San Marcuola (ne è tuttora visibile, ma solo dalle gondole, una copia in posto). Le tre opere mostrano il leodicembre

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ne nel modello iconografico detto in dialetto veneziano «in moleca», cioè sorgente in figura frontale con le ali che si dipartono dalle zampe anteriori e non dalla schiena, con le penne che si schiudono come raggi. Per comprenderne la denominazione dialettale, occorre sapere che le parole moleca (o moeca) indicano ancora oggi il piú comune granchio della laguna, rappresentato mentre avanza, con le chele aperte e le zampe dispiegate come raggi. Per i Veneziani, moeche sono gli esemplari piccoli, che si possono gustare con i gusci molli, durante il periodo della muta. Dopo l’erezione sulla colonna, i dettagli dell’immagine divennero ovviamente meno visibili: già nel corso del XIV secolo, essa sembra es-

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In alto rilievo raffigurante il Leone di San Marco, murato nel cortile dell’ex convento francescano di S. Maria Gloriosa dei Frari, ora sede dell’Archivio di Stato, forse dalla chiesa di S. Paternian. XIV sec. A destra rilievo raffigurante il Leone di San Marco «in moeca». Fine del XIII inizi del XIV sec. Venezia, Museo Correr.

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scoperte leone di venezia sersi adeguata a iconografie leonine piú convenzionali e gradualmente piú lontane dal vero. La statua sulla colonna figura come una lontana sagoma in numerosi dipinti e vedute classiche di Venezia di età piú tarda, come le opere di Francesco Bassano il Giovane (1549-1592), Luca Carlevaris (1663-1730), Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto (1697-1768), Bernardo Bellotto (1721-1780), Jean-Baptiste Camille Corot (1796-1875) e altri.

A Parigi come bottino

Nell’imperante clima illuminista e giacobino della fine del Settecento, il Leone fu preso di mira da caricature e libelli come simbolo ultimo della vecchia e polverosa oligarchia veneziana. Nel 1797,

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alla caduta della Repubblica di Venezia, durante la devastazione napoleonica dei beni cittadini, la statua fortunatamente sfuggí al destino di essere distrutta e rifusa come la maggior parte delle altre opere metalliche. Il colosso fu infatti «catturato» e portato a Parigi come trofeo dai Francesi, insieme ai quattro cavalli della basilica. Lí, Napoleone volle che fosse modificato, abbassandogli la coda, in segno di disprezzo dell’umiliata Venezia, e collocato su una fontana accanto all’Hôtel national des Invalides (un complesso monumentale di origine seicentesca, nato per ospitare i soldati invaldi e che ha poi accolto la tomba dello stesso Napoleone Bonaparte ed è oggi sede del Museo dell’Esercito, n.d.r.).

Piazzetta e Bacino di San Marco, olio su tela del Canaletto (al secolo, Giovanni Antonio Canal). 1736-1738 circa. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek.

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Si dice che nel 1815, quando fu imposto ai Francesi di restituirla, la statua fu appositamente lasciata cadere a terra dagli operai incaricati, schiantandosi rovinosamente al suolo. Riportata a casa in quattordici pezzi, fu rapidamente ricomposta e restaurata dallo scultore Bartolomeo Ferrari (17801844), che già nel 1807 aveva celebrato l’ingresso di Napoleone a Venezia, collaborando alla creazione di un grande arco di trionfo sul Canal Grande. Nell’aprile del 1816 il Leone tornò cosí a stagliarsi sulla colonna originaria come simbolo di Venezia, con la coda nuovamente e felicemente distesa nell’assetto originario. È a questo punto che sono in-

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tervenute informazioni del tutto nuove, inaspettatamente fornite dalla chimica della metallurgia, e non dalle fonti storiche.

L’analisi delle colate

Uno degli scriventi, Gilberto Artioli (Dipartimento di Geoscienze, Università di Padova, in collaborazione con Ivana Angelini) ha effettuato l’analisi degli isotopi del piombo su due campioni della lega bronzea del «leone», rispettivamente appartenenti alle prime due colate originali della variegata scultura (la criniera di riccioli sul fronte della figura), ai quali si è aggiunto un campione delle ali ottocentesche fuse da Bartolomeo Ferrari nel 1815. È molto probabi-

le che le nuove ali tuttora visibili siano state ricavate dalla fusione degli stessi frammenti delle ali, forse trecentesche, che erano andate in pezzi durante lo smontaggio del colosso a Parigi. Il piombo, in natura, è presente in forma di diversi isotopi (atomi degli stessi elementi che variano nella massa, ma occupano lo stesso spazio nella tavola degli elementi) in rocce e mineralizzazioni diverse. In genere, gli isotopi del piombo sono legati tra loro da particolari processi di decadimento, il che permette agli esperti di correlare gli isotopi stessi, e le relative proporzionali quantità, ad aree e zone di estrazione specifiche della superficie terrestre. In breve, i

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rapporti proporzionali tra alcuni isotopi dello stesso metallo, comunemente presenti, anche in quantità minime, nei minerali di rame e nelle leghe che ne derivano, possono essere usati come «firme isotopiche» o «carte di identità» delle singole miniere di provenienza, quindi delle opere che dello stesso rame sono costituite.

Una giusta intuizione

I tre nuovi campioni erano stati a suo tempo prelevati dal Leone Marciano dai tecnici dell’Istituto Centrale per il Restauro di Roma (ICR) nel corso di una indagine conservativa e archeometrica e affidati a Massimo Vidale (ora Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova). Nella pubblicazione curata da Bianca Maria Scarfí nel 1990 già comparivano alcune misurazioni isotopiche del piombo, ma al tempo (piú di trent’anni fa) non si disponeva dei vasti archivi di dati isotopici che sono oggi stati resi disponibili da nuove ed esaustive pubblicazioni.

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Le nuove analisi effettuate dimostrano senza incertezze che il rame utilizzato per la fusione originaria del Leone Marciano era stato estratto da miniere della bassa valle del Fiume Azzurro (nella regione di Shanghai) in Cina. Il dato combacia quindi molto bene con nuove considerazioni stilistiche che identificano le parti originali del Leone Marciano con l’immagine di una creatura ibrida (una «chimera») di epoca Tang (VII-IX secolo). Forse si trattava di uno zhenmushou, cioè di una grande immagine mostruosa apotropaica a guardia di una tomba aristocratica o, forse, addirittura imperiale. Ma chi avrebbe portato questa grande scultura lungo le piste o le rotte della Via della Seta, per migliaia di chilometri, fino a Venezia? Sembra molto improbabile che i pezzi di una mostruosa figura ci(segue a p. 38) In alto, a sinistra riproduzione ottocentesca di una miniatura del XV sec. raffigurante i Polo che consegnano all’imperatore mongolo Kublai Khan la lettera a lui indirizzata da papa Gregorio X, alla ricerca di aiuti per una nuova crociata in Terra Santa. dicembre

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Miniatura raffigurante la partenza dei Polo da Venezia, da Li Livres du Graunt Caam (Il Libro del Gran Khan), versione in francese arcaico del Milione. Inizi del XV sec. Oxford, Bodleian Library. Marco salpò nel novembre 1271, al seguito del padre Niccolò e dello zio Matteo.

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Una grande mostra al British Museum

Le molte rotte di un rapporto millenario Il British Museum di Londra propone, fino al prossimo 23 febbraio, una mostra in cui viene indagata e documentata la storia della Via della Seta, concentrandosi soprattutto sul perché sia piú opportuno ragionare in termini di «vie» e non di una singola direttrice e illustrando le ragioni per le quali appare oggi riduttivo affrontare l’argomento come una semplice ricostruzione dei plurisecolari rapporti commerciali fra Oriente e Occidente. Le Vie della Seta erano infatti costituite da reti sovrapposte, che collegavano comunità umane stanziate in Asia, Africa ed Europa, dal Giappone alla Gran Bretagna, dalla Scandinavia al Madagascar. Il progetto espositivo circoscrive la sua ricognizione al periodo compreso fra il 500 e il 1000 circa e si articola in cinque sezioni, corrispondenti ad altrettanti ambiti geografici. Per l’occasione sono stati selezionati oltre 300 oggetti, scelti fra le collezioni dello stesso

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In alto fronte e retro di tre manoscritti bilingui (pothi), in cinese e khotanese, con figure per metà umane e per metà animali, dalle grotte di Mogao (Dunhuang, Cina): 492 templi scavati nella roccia che conservano una collezione imponente di arte buddhista cinese. 800-900. Londra, British Museum. A destra statuetta in bronzo del Buddha, da Helgö (Svezia). Fine del VI-metà del VII sec. Stoccolma, Historiska museet.

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British Museum e concessi in prestito da altri istituti inglesi e stranieri. Fra le presenze di spicco possiamo ricordare il piú antico set di pezzi del gioco degli scacchi a oggi noto e il monumentale dipinto murale proveniente dalla Sala degli Ambasciatori di Afrasiab (Samarcanda), in Uzbekistan. Oltre alle testimonianze materiali, la mostra offre l’opportunità di «incontrare» personaggi le cui storie sono intrecciate con le Vie della Seta, tra cui Willibald, un ingegnoso contrabbandiere di balsamo dall’Inghilterra, e una leggendaria principessa cinese che condivise i segreti della coltivazione della seta con il suo nuovo regno. Qui di seguito, riportiamo alcuni brani tratti dall’Introduzione al volume pubblicato in occasione della mostra, a cura di Sue Brunning, Luk Yu-ping ed Elisabeth R. O’Connell. «Una delle opere che meglio esprimono l’intreccio di culture e lo scambio di esperienze favoriti dalle Vie della Seta è un piccolo Buddha in bronzo, fuso millecinquecento anni fa. Il Buddha è raffigurato seduto, in

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perfetta calma su un doppio fiore di loto con le gambe incrociate e i piedi rivolti verso l’alto. La sua mano destra poggia sul ginocchio nel varadamudra, il gesto buddista che esprime la realizzazione del desiderio, con il palmo rivolto verso l’esterno e le dita rivolte verso il basso. La mano sinistra,

In alto particolare degli affreschi che ornavano la Sala degli ambasciatori dell’antica Afrasyab (Samarcanda). VII-VIII sec. Samarcanda, Museo Archeologico di Afrasyab. In basso cofanetto in osso di balena decorato con episodi della storia ebraica, della tradizione cristiana e miti romani e nordici, da Auzon (Francia). 700 circa. Londra, British Museum.

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scoperte leone di venezia Stendardo in seta rinvenuto in una delle grotte di Mogao. 700-800. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, a destra statuetta in ceramica smaltata raffigurante un cammello battriano, da Luoyang. Epoca Tang (618-907). Londra, British Museum. L’animale trasporta varie merci, fra cui si riconoscono seta arrotolata, una brocca dell’Asia occidentale o centrale e sacchi coperti con maschere mostruose.

sollevata, afferra il suo sanghati, una veste monastica, che lo fascia in morbidi drappeggi. L’espressione del Buddha è l’immagine della serenità, con labbra sorridenti e occhi che guardano dolcemente davanti a sé. Il bronzista ha evidenziato queste caratteristiche servendosi di argento, stagno e niello nero, in contrasto con la pelle, un tempo dorata, quasi a voler enfatizzare l’aspetto tranquillo del Buddha. Gli occhi stessi potrebbero aver brillato originariamente tra le palpebre semichiuse, come suggeriscono i residui di rame e vetro trovati all’interno. Sulla fronte, il piccolo «bottone» a rilievo, l’urna, un segno di buon auspicio, era anche accentuato da uno strato di metallo prezioso, verosimilmente oro, che tuttora luccica. Dal punto di vista dell’iconografia, la figura appartiene alla tradizione

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artistica della valle dello Swat, nell’odierno Pakistan, dove fu probabilmente realizzata tra la fine del VI e la metà del VII secolo. La valle fu un centro importante del buddhismo primitivo, una dottrina che si diffuse dal subcontinente indiano alla Cina nei primi secoli dell’era cristiana. La figura, tuttavia, non viene dalla valle dello Swat, né da altri centri buddisti allora conosciuti. È stata infatti trovata sulla piccola isola lacustre di Helgö in Svezia, a circa 5000 chilometri dallo Swat. La sorprendente scoperta, fatta durante gli scavi archeologici di edifici databili intorno all’anno 800, invita perciò a riflettere sulla reale portata delle interconnessioni stabilite nel passato e sull’effettivo ruolo svolto dalla cosiddetta «Via della Seta». I laghi e le foreste della Svezia sono lontani anni luce dall’immagine

popolare della Via della Seta, che di solito è fatta di carovane di cammelli che trasportano il prezioso tessuto dalla Cina verso ovest, lungo piste desertiche, oppure di spezie multicolori in vendita a Samarcanda, o ancora di Marco Polo che conversa con Kublai Khan alla corte mongola. In realtà, questa visione è un concetto moderno, che ha preso forma per la prima volta nel XIX secolo. L’invenzione del termine «Via della Seta» (in lingua tedesca, Seidenstrasse) viene generalmente attribuita al geografo Ferdinand von Richthofen (1833-1905), che l’avrebbe coniata nel 1877, sebbene recenti scoperte rivelino che era già in uso prima di allora. Tuttavia, Richthofen forní una definizione piú precisa basata su fonti storiche. Apparve nella sua opera in cinque volumi intitolata China, nel testo vero e proprio e nella didascalia di una Mappa dell’Asia centrale: panoramica dei collegamenti di trasporto dal 128 a.C. al 150 d.C. Su questa mappa furono tracciate due linee, in rosso e blu, per distinguere i percorsi ipotizzati, basati rispettivamente su fonti greche e cinesi. La linea rossa, identificata come «die Seidenstrasse» («la Via della Seta»), correva da Chang’an (l’odierna Xi’an) fino al margine sinistro della mappa, raggiungendo quello che oggi è l’Iran. Per il geografo tedesco, il termine «Via della Seta» era inteso in un’accezione ristretta. Si riferiva, infatti, innanzi tutto alle rotte commerciali lungo le quali la seta si spostava verso ovest dalla Cina della dinastia Han (206 a.C.220 d.C.) all’Asia centrale e oltre. Richthofen scriveva in un periodo in cui l’Asia centrale era al centro della rivalità fra l’impero britannico e quello russo, ed entrambi erano interessati allo sfruttamento delle opportunità commerciali nelle regioni occidentali della Cina appena riconquistate. Dietro la sua mappa e i suoi rilievi c’era una potenziale ferrovia transcontinentale che avrebbe unito l’Europa alla Cina. All’inizio del XX secolo, esploratori e archeologi stranieri come Mare Aurel dicembre

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Stein (1862-1943) intrapresero spedizioni intorno al bacino del Tarim (regione del Turkestan cinese od orientale, oggi nella regione autonoma Uighur del Xinjiang, n.d.r.). Raccolsero reperti che sarebbero finiti nelle collezioni museali di tutto il mondo, incluso il British Museum, e sarebbero arrivati a rappresentare aspetti chiave della Via della Seta in pubblicazioni e mostre successive. Gli scritti di viaggio degli anni Venti e Trenta del Novecento, in particolare The Silk Road di Sven Hedin, contribuirono a far conoscere il termine a un pubblico piú vasto. Da quel momento in poi, l’espressione «Silk Road» iniziò a essere tradotta anche in lingue non europee. Un altro fattore che contribuí alla sua crescente popolarità fu l’industria del turismo. Statuina in terracotta con resti della policromia originaria raffigurante una suonatrice di liuto. 671-730. Oxford, Ashmolean Museum.

Dove e quando «Le Vie della Seta» Londra, British Museum fino al 23 febbraio 2025 Orario tutti i giorni, 10,00-17,00 (venerdí apertura serale fino alle 20,30) Info www.britishmuseum.org

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Ferrovie, piroscafi e autostrade resero i viaggi a lunga distanza piú accessibili ai turisti europei e americani, alimentando l’interesse per la Via della Seta e la sua romantica associazione con l’avventura in terre esotiche. Tuttavia, solo sul finire del XX secolo il termine «Via della Seta» ottenne un vero riconoscimento globale. Dopo la seconda guerra mondiale e poi della guerra fredda, e con la formazione di nuovi Stati sovrani decolonizzati in Asia, la Via della Seta acquisí importanza nello sviluppo delle identità nazionali e nella rivisitazione delle relazioni interregionali e internazionali. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per

l’Educazione, la Scienza e la Cultura, la Comunicazione e l’Informazione (UNESCO), fondata nel 1945, svolse un ruolo chiave nella promozione della Via della Seta come mezzo per incoraggiare l’apprezzamento reciproco e lo scambio tra i Paesi. L’interesse per la Via della Seta continuò a crescere negli anni Ottanta, sostenuto da pubblicazioni, conferenze, mostre, viaggi di studio, progetti di conservazione, film documentari e altri eventi artistici e culturali. Questa breve storia del termine «Via della Seta» prova che, dalla fine dell’Ottocento in poi, l’espressione è stata coinvolta in programmi economici e geopolitici. Contemporaneamente, il concetto si è espanso ben oltre la linea rossa tracciata sulla mappa di Richthofen. Il Buddha di Helgö diventa nient’altro che un pixel in questo concetto espanso di «Vie della Seta», che le definisce come una rete transcontinentale che si estende in tutte le direzioni». (red.)


scoperte leone di venezia A sinistra zhenmushou (scultura funeraria posta a guardia della tomba) in terracotta con tracce di policromia. Seconda metà del VI sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

nese fossero stati rubati a Costantinopoli con i cavalli e il resto del bottino durante il sacco veneziano del 1204. In tal caso, infatti, si deve presumere che tale insieme di grandi frammenti fosse rimasto in deposito, sfuggendo alla rifusione, per mezzo secolo; l’ipotesi, inoltre,

implica un collegamento commerciale diretto tra Costantinopoli e la Cina, risalente al primo Medioevo o alla tarda antichità, del quale sinora abbiamo poche prove storiche o materiali. Quando Marco Polo mise piede sul molo cittadino, 17 anni dopo

In basso statua in marmo bianco di leone guardiano. Dinastia Tang (618-907). Cleveland, The Cleveland Museum of Art.

I zhenmushou sono mostri ibridi, dal corpo di felino, ma spesso con volti dai tratti umani o umanizzanti 38


A destra zhenmushou in ceramica «a tre colori» (sancai), dalla provincia cinese dello Hebei o di Henan. Dinastia Tang (618-907). Atene, Museo Benaki.

la sua partenza, nel 1295, il leone era già stato collocato dove lo vediamo ora. E vi era stato posto da tempo, se è vero che l’unico documento ufficiale che lo menziona, due anni prima, parla già della necessità di restauri, da pagarsi con i proventi dei traffici cittadini di vini e legname.

I Polo a Khanbaliq

A questo punto la nostra storia richiede una intrigante diversione. Gli anni tra il 1264 e il 1268, durante i quali il progetto propagandistico della nuova icona procedeva a ritmo serrato, coincidono con la permanenza a Pechino, allora chiamata Khanbaliq (la Cambaluc di Marco Polo), del padre e dello lo zio paterno di Marco, Niccolò e Matteo. Alla famiglia Polo erano state certamente affidate cruciali responsabilità diplomatiche. In un quadro politico intricato e fortemente conflittuale, le fonti insistono su un interesse dell’imperatore mongolo Kublai Khan, al potere tra il 1260 e il 1294, per possibili alleanze con i Veneziani, il papa e lo stesso imperatore bizantino. Il papato cercava sostegno per una nuova crociata in Terra Santa, che avrebbe addirittura potuto includere importanti progetti di evangelizzazione dei Mongoli stessi. Al volgere del regno di Michele VIII Paleologo, i Mongoli avrebbero addirittura inviato in Grecia un contingente di 4000 mercenari, grazie ai quali i Bizantini riuscirono a riprendere parte dell’Epiro e della Tessaglia. Non sembra impossibile che, tra il 1264 e il 1268, Niccolò e Matteo Polo, oppure qualcuno fra i loro associati, nel visitare presso la corte mongola una fonderia o un magazzino imperiale, si fosse-

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ro imbattuti in pezzi di una monumentale scultura funeraria Tang in bronzo, un grande zhenmushou, la cui imponente testa poteva essere considerata leonina. Nel generale progetto veneziano di creare e diffondere con ogni mezzo il potente simbolo del leone alato, gli emissari veneziani potrebbero aver avuto l’idea – quanto meno spregiudicata – di riadattare il mostro ibrido in una quasi plausibile immagine del leone dell’apostolo Marco. Se e in quale misura il papa e la coeva diplomazia ecclesiastica fossero stati informati di un progetto tanto azzardato e visionario, rimane ignoto. In questa nuova luce, tuttavia, il silenzio delle fonti sull’intera faccenda porebbe essere meno incomprensibile.

Umanamente mostruoso Il zhenmushou è un mostro ibrido, di configurazione corporea felina, ma spesso dotato, nel volto, di tratti umani o umanizzanti; gli arti possono terminare in possen-

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Qui sopra disegno che mostra il Leone Marciano collocato sulla sommità di una fontana, nei pressi dell’Hôtel national des Invalides, a Parigi. In alto un’altra immagine del Leone nella sua collocazione attuale in cima a una delle colonne di San Marco.

ti zoccoli bovini. È accucciato in postura rigida frontale. Possiede grandi orecchie appuntite rivolte verso l’alto, simili a quelle dei pipistrelli, e alte corna ricurve all’indietro, impostate sulla fronte. Due alette laterali, innestate verticalmente sulle spalle, sono ben visibili frontalmente. Le somiglianze maggiori tra i zhenmushou della tradizione Tang e il Leone Marciano, almeno in vista frontale, comprendono l’ampio naso a bulbo con narici dilatate, la strana posizione laterale alta delle orecchie, i riccioli cadenti sotto il mento, la bocca aperta con le fauci digrignanti e quattro potenti canini, le rughe pronunciate e contorte sulla fronte alla radice del naso. Ma le evidenze a nostro avviso piú calzanti sono, abbastanza stranamente, «negative», cioè le assenze: già Bianca Maria Scarfí aveva notato, come si è già detto, che dalla parte superiore della testa, molto probabilmente, erano state asportate due corna. dicembre

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Tavola che mostra il Leone Marciano in piazzetta San Marco, dove era stato calato per consentirne il restauro.

Non si era invece notato come le orecchie, almeno a giudicare dalle fotografie disponibili, potrebbero anch’esse essere state tagliate all’estremità. Le parti superiori dei padiglioni, infatti, terminano con un margine arrotondato e, spesso, i riccioli di pelo che li ricoprono internamente appaiono, proprio sul margine, innaturalmente troncati. Si noti, infine, che l’immagine del Leone Marciano in moeca appare sorprendentemente simile a quella degli zhenmushou che recano sulle spalle e sul dorso, appunto, una «raggiera» di punte fluttuanti e acuminate. Si tratta di una pura coincidenza, oppure di un remoto legame iconografico?

Confronti impossibili

Tuttavia, se cercassimo confronti puntuali tra l’icona veneziana e analoghi esemplari cinesi in bronzo resteremmo delusi. Secondo le fonti storiche cinesi, infatti, gran parte delle sculture in bronzo che

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affollavano i templi buddisti e taoisti, tra il VI e il X secolo, scomparvero nel corso di piú ondate di confische, razzie e persecuzioni, mediante le quali varie corti imperiali supplirono a impellenti bisogni di metallo e moneta circolante. È forse per questo motivo che, nel cercare queste analogie, dobbiamo guardare a sculture Tang fatte in ceramica policroma, spesso in modo meno accurato, e cogliere regolarità meno evidenti, al di là della diversità, immediatamente percepibile, delle superfici. La scoperta è stata presentata da chi scrive nello scorso settembre in occasione del convegno «Marco Polo, il Libro e l’Asia», curato dai colleghi dell’Università di Ca’ Foscari. Le ipotesi sull’identità stilistica e storica che abbiamo avanzato, rimangono al momento tali e certamente meriteranno ulteriore cautela e considerazioni piú approfondite. Tuttavia, poiché le nuove informazioni chimiche sulla provenienza del rame usato

nella fusione originaria del Leone Marciano, sono, almeno al momento, incontrovertibili, esse ci aiutano a tentare di spiegare una singolare anomalia storica, che altrimenti rimarrebbe tale, aggiungendo ulteriori dubbi alle già importanti incertezze esistenti. L’origine cinese del Leone Marciano è un valore aggiunto per la straordinaria creazione metallurgica. Da un lato, essa ci appare ancora piú preziosa, in quanto sopravvissuta, con pochi confronti, alle sistematiche distruzioni del passato, e come tale apparirà all’intera cultura cinese contemporanea. Dall’altro, essa identifica il Mare Adriatico, e la Serenissima Repubblica che lo dominava, come un polo terminale essenziale delle Vie della Seta e delle mille vite che a esse, per secoli, si sono intrecciate; ricordandoci, una volta di piú, quanto rimane ancora insondato, se non insondabile, di un passato nemmeno tanto remoto. F

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la parola alle immagini/1

La stella dei Magi T

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ra gli evangelisti, solo Matteo narra dei Magi (non ancora tre e neppure re) e della stella apparsa loro in Oriente, seguendo la quale raggiunsero Betlemme per adorare il neonato Gesú. Sostanziale e scarno, il suo racconto nulla concede alla descrizione dello straordinario viaggio, dei suoi protagonisti e della stella, sulla cui natura e funzione si interrogarono invece narratori e commentatori dei secoli successivi. Che cos’era? Un segno divino o un fenomeno naturale (come sostengono alcuni, tanto da indagarne la storicità e la realtà astronomica)? Un astro appositamente creato o lo Spirito Santo? Forse un angelo (lo stesso che apparve ai pastori) che non voleva e poteva rivelarsi ai Magi in quanto ancora pagani? A sintetizzare tali e altre ipotesi, la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine (redatta nella seconda metà del XIII secolo) ne sottolineava la ricchezza semantica, precisando che «non fu solo stella materiale ma spirituale, intellettuale, razionale e supersunstanziale» e che «differiva dalle altre perché non aveva un posto nel firmamento ma stava sospesa nell’aria, vicino alla terra; ed era cosi splendente che offuscava la luce del sole onde appariva sfolgorante anche in pieno giorno; si moveva poi davanti ai Magi come un viandante, non con un movimento circolare». Gli stessi Magi, secondo il Protovangelo di Giacomo, avrebbero riferito che oscurava le altre stelle,

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di Virtus Zallot

Diamo il via a una nuova serie, dedicata a «dettagli» iconografici. Esaminando non solo gli aspetti estetici, ma anche le implicazioni simboliche e il valore documentario delle immagini. Per l’esordio abbiamo scelto un caso davvero esemplare, quello della cometa che annunciò la nascita del Figlio di Dio

In alto capitello raffigurante i Magi che dormono in un grande letto condiviso: un angelo, apparso loro nel sonno, indica la piccola stella a otto punte. XII sec. Autun, cattedrale di Saint-Lazaire, Sala Capitolare. dicembre

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Nonantola (Modena), basilica abbaziale. Particolare dell’Adorazione dei Magi scolpita sullo stipite destro del portale. XI-XII sec. La stella è raffigurata come un fiore a sei punte, incorniciato in un tondo e posto alla convergenza dei due archi che sovrastano la scena.

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la parola alle immagini/1 Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Particolare della decorazione musiva. VI sec. La stella è qui raffigurata in modo insolito: se ne distinguono non una ma due, inscritte l’una nell’altra, entrambe a otto punte.

«Questa festa si chiama Epifania da epi, che significa sopra, e phanos, che significa apparizione, poiché apparve la stella a testimoniare la divinità di Cristo» (Jacopo Da Varagine, Leggenda Aurea) tanto che «non apparivano piú». Nella sua Storia dei re Magi Giovanni da Hildesheim (1310/13201375; fu teologo carmelitano, maestro alla Sorbona, priore di Kassel e Marienau, e attivo anche alla corte di Avignone, n.d.r.) aggiungeva che gli uomini «erano invasi da gran stupore e meraviglia, poiché vedevano che, all’approssimarsi di quei Re, la notte si faceva giorno».

Funzionale al racconto

La tradizione iconografica medievale raffigurò infatti la stella «vicina alla terra» e avulsa dal cielo naturale, che fino alle soglie del XIV secolo non era del resto considerato. La sua esistenza e collocazione non avevano dunque autonomia astronomica e spaziale, ma rispondevano alle esigenze simboliche, espressive e compositive del racconto figurato. Spiccando in una notte priva di altre stelle, compare negli episodi dedotti dalla storia dei Magi e spesso inclusi nei cicli dell’infanzia di Gesú: l’Apparizione sul monte Vaus e Il riposo dei Magi (i meno raffigurati), il Viaggio verso Betlemme (piú frequente) e l’Adorazione del

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la parola alle immagini/1 Adorazione dei Magi, mosaico di Pietro Cavallini. 1290 circa. Roma, S. Maria in Trastevere. La stella è qui coronata da cerchi concentrici azzurri e blu che, straripando dal bordo superiore del pannello musivo, sembrano sbucare da un cielo superiore.

Bambino (immancabile nelle Storie e, estrapolato dalla sequenza logica e cronologica, proposto anche come tema autonomo). Nel Viaggio verso Betlemme la stella precede i Magi; nell’Adorazione del Bambino brilla sopra la grotta/ capanna/casa di Gesú, dove si arrestò avendo raggiunto la meta. Gli artisti, di necessità, le assegnarono una forma: inizialmente schematica e astratta, quindi, progressivamente ma lentamente, di realistico (per quanto prodigioso) bagliore che illumina l’intorno. Per gran parte del Medioevo fu luce solidificata nella perfetta geometria di un poligono stellato o di una corolla, che emergono dallo sfondo per contrasto cromatico o per il contorno colorato, in scultura rilevato o inciso. Talora è inscritta in un cerchio, non solo ad accen-

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tuarne importanza e visibilità ma anche a estrapolarla, fisicamente e simbolicamente, dal firmamento. Tra i molti esempi di epoca romanica, nell’Adorazione dei Magi scolpita sullo stipite destro del portale della basilica abbaziale di Nonantola è un fiore a sei punte incorniciato in un tondo (vedi foto a p. 45). Collocata alla convergenza dei due archi che sovrastano la scena, pare piú decoro architettonico che non stella calata dal cielo.

Giacigli condivisi

Sullo splendido capitello del XII secolo conservato nella Sala Capitolare di Saint-Lazare, ad Autun, i tre Magi dormono invece entro un grande letto condiviso, come consuetudine nelle locande medievali (vedi foto a p. 44). Un angelo, apparso loro nel sonno, indica la piccola

stella a otto punte scolpita direttamente sull’abaco; fuori scena, dunque, e comunque (nuovamente) visibile e vistosa. Nel mosaico del VI secolo in S. Apollinare Nuovo, a Ravenna, guida i Magi che avanzano conducendo a Gesú (in braccio alla Madre) il lunghissimo corteo di sante martiri (vedi foto alle pp. 46/47). Dorata, ha otto punte e, al centro, un’ulteriore stellina di luce candida. Per distinguersi sul cielo ugualmente dorato, è contornata da un perimetro scuro. Nell’Adorazione dei Magi in S. Maria in Trastevere, a Roma, realizzata da Pietro Cavallini intorno al 1290, è invece coronata da cerchi concentrici azzurri e blu che, straripando dal bordo superiore del pannello musivo, sembrano sbucare da un cielo superiore dicembre

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(vedi foto a p. 48). Analoga piccola stella circondata da una sorta di universo in miniatura compare nella vicina Natività. In questo e in altri casi emana un fascio di raggi indirizzati verso il bambino, indicandone la divinità. Talora, con riferimento alla Trinità, il fascio di luce si dirama in tre direzioni: per esempio nell’Adorazione dei Magi del XIV secolo, realizzata a mosaico, in S. Marco a Venezia. Contrariamente ai casi elencati, nell’Avvistamento della stella della Pala Strozzi (1423, agli Uffizi di Firenze) Gentile da Fabriano evidenziò l’astro dorato sullo sfondo dorato senza ricorrere al contorno o circoscriverlo in forme colorate, ma sfruttando la diversa matericità e lavorazione dell’oro (vedi foto in questa pagina, in basso). Quando i cieli divennero blu, la stella poté invece spiccare autonomamente sullo sfondo: come nella trecentesca Adorazione dei Magi in S. Abbondio a Como, dove è ancora uno schematico poligono stellato a sei punte incapace di emettere luce (vedi foto in questa pagina, in alto).

L’aggiunta della coda

Già era in atto, però, la sua trasformazione in massa o esplosione luminosa: inizialmente piatta, poi in 3D. Giotto, nel ciclo di affreschi (1303-1305) della Cappella degli Scrovegni, le assegnò anche una coda: la stella dei Magi diventò allora stella cometa, probabilmente ispirata a quella di Halley che il pittore ebbe modo di osservare dal vero (vedi foto alle pp. 50/51). Corpo naturale che percorre straordinariamente il cielo, meglio di una stella la cometa si prestava infatti a illuminare il percorso dei Magi: nella storia/leggenda, nelle sue rievocazioni liturgico-teatrali e nella finzione iconografica, dove la sua forma dinamica suggerisce una traiettoria. Altra importante trasformazione maturata nell’arte del tardo

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In alto Adorazione dei Magi, affresco. XIV sec. Como, basilica di S. Abbondio. La stella è resa come un poligono a sei punte, che in questo caso non emette luce. A sinistra particolare della Pala Strozzi di Gentile da Fabriano (veduta d’insieme dell’opera alle pp. 52/53) in cui la stella è evidenziata dall’artista sfruttando la diversa matericità e lavorazione dell’oro. 1423. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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la parola alle immagini/1 Qui sotto Apparizione della stella, scena facente parte delle Storie della Vergine affrescate da Taddeo Gaddi nella Cappella Baroncelli, in S. Croce a Firenze. 1328-1330. L’artista ha qui adottato l’immagine della stella con al suo interno il Bambino Gesú, citata nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine.

Medioevo, anch’essa conseguenza della «rivoluzione» realistica, fu la raffigurazione dei riflessi e delle ombre che la stella produce. Con straordinario dispiego di variazioni e invenzioni formali, tecniche e materiche, Gentile da Fabriano li mise magistralmente in scena nella citata Pala Strozzi, dove pure il cielo è d’oro e la realtà trasfigurata in meravigliosa fiaba (vedi foto e box in queste pagine). La sua Adorazione dei Magi, in particolare, sembra illustrare il seguente brano di Giovanni da Hildesheim, secondo il A destra, sulle due pagine Padova, Cappella degli Scrovegni. Un particolare delle Storie di Cristo, affrescate da Giotto tra il 1303 e il 1305. Si tratta della scena dell’Adorazione dei Magi, nella cui parte superiore splende la stella. L’astro è qui rappresentato con la chioma, forse per influenza dell’apparizione, pochi anni prima, nel 1301, della Cometa di Halley. In basso Viaggio dei Magi, pannello di una piccola pala d’altare dipinto a tempera e oro dal Sassetta (al secolo, Stefano di Giovanni). 1433-1435. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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La versione di Gentile da Fabriano

Un grande disco dorato Cosí ha scritto lo storico dell’arte medievale Andrea De Marchi a proposito delle soluzioni adottate da Gentile da Fabriano nella Pala Strozzi: «La prossimità alla stella, alta sopra il Bambino, giustifica le ombre proiettate degli arbusti contro le pareti della grotta, i tocchi d’oro che ne lumeggiano le foglie, l’oro mezzo della capanna, graffita per segnare le venature nodose dei tronchi, la lamina d’argento fittamente incisa su cui sono dipinte le finte trecce del copricapo di una levatrice, le ciocche dorate sulle tempie della stessa e i capelli dei due giovani più vicini, e via dicendo. La stella stessa è un grande disco dorato a guazzo, scoperto al centro, dove si infittiscono le incisioni puntiformi, velato intorno da una stesura gialla, incisa dai raggi che proseguono a missione, con varia lunghezza, lungo le tracce guida di alcune incisioni radiali, e che sono alonati da una miriade di lapilli dorati, a missione, disseminati all’intorno» (da Andrea De Marchi, Oro come luce, luce come oro. L’operazione delle lamine metalliche da Simone Martini a Pisanello, fra mimesi e anagogia, in Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Medioevo. Natura e Figura: atti del Convegno internazionale di Studi, Parma, 20-25 settembre 2011, Electa, Milano 2015; pp. 701-716). Adorazione dei Magi (Pala Strozzi), tempera e oro su tavola di Gentile da Fabriano. 1423. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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quale la stella «si abbassò tra mezzo i muri di pietra e mattoni, con chiarità e fulgori sí grandi, che, nel tugurio e nella grotta, ogni cosa ne fu illuminata; e, d’improvviso, nuovamente si levò nell’aria e rimase immobile sul posto. Ma ne restò, immenso, lo splendore nella grotta». Lo stesso Giovanni da Hildesheim avrebbe però criticato Gentile da Fabriano, come la maggior parte degli artisti, ritenendo che la stella non fosse stata «nella forma che siamo usati a vedere rappresentata in pittura nei nostri paesi, ma aveva lunghissimi raggi, piú ardenti che fiaccole, e questi raggi andavano roteando quasi come aquila che voli e batta l’aria con l’ala. E portava in sé l’effigie di un bambinello e, al di sopra, il segno della croce». La stella avrebbe anche emanato una voce, che avvisati i Magi della nascita del re dei Giudei, li invitava a recarsi ad adorarlo. La stella con all’interno il

Bambino Gesú era del resto già citata nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine. Adottata raramente, tale versione compare, per esempio, nelle Storie della Vergine realizzate (tra 1328 e il 1330) da Taddeo Gaddi nella Cappella Baroncelli in S. Croce a Firenze.

Le manine del neonato

Nell’Apparizione della stella, la luce che l’astro emana tanto è vera da costringere un magio a schermarsi gli occhi con la mano (vedi foto a p. 50, in alto). Entro l’alone raggiato, il piccolo Gesú ha consistenza e postura altrettanto vere. Si rivolge infatti ai Magi accompagnando le parole con il gesto della manina destra, mentre la sinistra sbuca dalla fasciatura un po’ allentata che lo avvolge come tutti i neonati. Al termine del viaggio, entro l’alone luminoso della stella che brilla sopra la sua casa, del Bambino Gesú appare solo la testolina. Infine, la curiosità di una stella «sbagliata». Nel Viaggio dei Magi attribuito al Sassetta, realizzato intorno al 1433-1435 e conservato al Metropolitan Museum of Art di New York, la stella brilla palesemente fuori posto (vedi foto a p. 50, in basso). Sorta di fiocco dorato un po’ spettinato, spicca sulla roccia chiara di un monte il cui profilo degradante accompagna il cammino del ricco e coloratissimo corteo superiore. Tale stranezza iconografica si risolve ricostruendo la storia dell’opera e, soprattutto, ricostruendo virtualmente l’opera stessa, sconsideratamente divisa in due parti: quella superiore ora al Metropolitan, quella inferiore di proprietà del Monte dei Paschi di Siena. Accostando le due sezioni della tavola la stella tornerebbe al suo posto, sopra la grotta di Gesú. Nel mentre, i Magi a New York continueranno a viaggiare invano. F

NEL PROSSIMO NUMERO • La ali degli angeli

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La fortuna di Madama Margherita

di Aart Heering

Sul finire del 1521 l’imperatore Carlo V si ferma in una cittadina delle Fiandre, Oudenaarde, nella quale allaccia una fugace relazione con la figlia di un mercante che, nove mesi piú tardi, mette al mondo una bambina. L’uomo che all’epoca era una delle piú potenti teste coronate d’Europa non viene meno ai suoi doveri: riconosce la piccola e la fa portare a corte. Inizia cosí la straordinaria parabola di Margherita di Parma, ora celebrata da una mostra allestita nella sua città natale

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alazzo Madama, a Roma, è la sede del Senato della Repubblica Italiana: un nome familiare, citato con cadenza quasi quotidiana nelle cronache politiche, ma del quale pochi sanno che deriva da Margherita di Parma, una delle donne piú potenti del suo tempo. Figlia dell’imperatore Carlo V, fu moglie di due nobili italiani, governatrice dei Paesi Bassi e, infine, signora dell’Abruzzo. Nei Paesi Bassi a lei successe il figlio Alessandro, l’uomo che piú di chiunque altro contribuí alla formazione dell’Olanda e del Belgio attuali. Nel 1521 Carlo V, allora giovane imperatore e re di Spagna (era nato nel 1500), partecipò alla Dieta di Worms, in Germania, dove ascoltò Martino Lutero, l’iniziatore della riforma protestante. Sulla via del ritorno a Bruxelles, capitale dei Paesi Bassi asburgici, si fermò nella città fiamminga di Oudenaarde. Era scoppiata la Guerra d’Italia del 1521-1526 (un conflitto che si inquadra nel piú ampio contesto della contrapposi-

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zione tra Francia e Spagna per l’egemonia sull’intera Europa, n.d.r.) e Carlo si occupò della difesa dei Paesi Bassi contro i Francesi. Durante la sua permanenza a Oudenaarde conobbe Johanna van der Gheynst, figlia di un venditore di tappeti e, alla fine di luglio del 1522, il frutto del loro incontro venne al mondo col nome di Margherita (Margaretha in fiammingo). Quasi subito la neonata fu portata alla corte di Bruxelles, dove Carlo, nel 1529, la riconobbe formalmente come figlia (la madre Johanna ricevette una rendita annua e piú tardi si sposò con un notabile locale con cui avrebbe avuto due figli). Sotto la guida della zia di Carlo, Margherita d’Austria ricevette una seria educazione, che avrebbe permesso all’imperatore di utilizzarla come pedina sulla scacchiera politica europea. L’occasione si presentò nel 1536, quando la ragazza – tredicenne e che già dal 1533 soggiornava a Napoli, nella casa del viceré – fu data in sposa ad Alessandro (segue a p. 60) dicembre

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L’imperatore Carlo V e Johanna van der Gheynst presso la culla della figlia Margherita, olio su tela di Théodore-Joseph Canneel. 1844. Gand, Museo di Belle Arti. Nella pagina accanto Margherita di Parma ritratta in una delle vetrate policrome realizzate da Wouter Crabeth per la chiesa di Sint-Janskerk (S. Giovanni) di Gouda (Olanda Meridionale). 1562.

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protagonisti margherita di parma Le alleanze matrimoniali In basso ritratto di Margherita di Parma, olio su tavola, da un originale di Antonio Moro. 1560 circa. Londra, Royal Collection Trust.

Sulle due pagine ritratto di Ottavio Farnese, olio su tavola di Tommaso Manzuoli. 1550-1551. Hatchlands Park, Cobbe Collection.

MARGHERITA DI PARMA

(1522-1586) figlia di Carlo V e Johanna van der Gheynst

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In alto lo stemma di Ottavio Farnese e Margherita di Parma, dal cosiddetto Album di Bruxelles, una raccolta di disegni che illustrano i festeggiamenti per le nozze celebrate nel 1565 tra Alessandro Farnese (figlio di Margherita) e Maria di Portogallo. 1565-1566. Varsavia, Biblioteca Universitaria In basso ritratto di Alessandro de’ Medici, olio su tavola del Pontormo (al secolo, Jacopo Carrucci). 1534-1535. Chicago, Art Institute.

OTTAVIO FARNESE

(1524-1586) figlio di Pier Luigi Farnese e Gerolama Orsini secondo marito di Margherita di Parma

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ALESSANDRO DE’ MEDICI

(1510-1537) figlio di Lorenzo de’ Medici e Simonetta da Collevecchio primo marito di Margherita di Parma

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protagonisti margherita di parma malines

Uno scorcio dell’edificio nato come residenza di Hiëronymus van Busleyden e oggi sede del museo che ne porta il nome.

L’«altra» Margherita

Principale figura storica di Mechelen (Malines in francese, città non lontana da Oudenaarde) è un’altra Margherita d’Austria (1480-1530), figlia dell’imperatore Massimiliano I, zia di Carlo V e anche lei governatrice de Paesi Bassi. Dopo due brevi matrimoni – con l’infante aragonese Giovanni e il duca Filiberto II di Savoia, ambedue morti prematuramente – governò

A destra scultura in legno policromo raffigurante la Madonna con il Bambino su una mezzaluna. 1520 circa. Mechelen, Museum Hof van Busleyden.

Particolare della Battaglia di Tunisi, arazzo monumentale realizzato per celebrare la vittoria di Carlo V sugli Ottomani da Willem de Pannemaker, su cartoni di Jan Cornelisz Vermeyen e Pieter Coecke van Aelst. 1565-1566. Mechelen, Museum Hof van Busleyden.

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Margherita d’Austria, scultura in gesso di Jean-Joseph Tuerlinckx. 1845 circa. Mechelen, Museum Hof van Busleyden.

facendo del manufatto l’opera d’arte piú costosa mai commissionata dall’imperatore. Una curiosità tipica della Malines della metà del Cinquecento sono le Besloten Hofjes (letteralmente, «Cortili chiusi»), piccoli trittici in cui, dietro i pannelli chiusi, si nascondono scene religiose abbellite da trionfi di fiori e frutti di seta e figurine in legno o alabastro, che creano un’atmosfera paradisiaca. Alcune decine di esemplari di questi manufatti sono esposte in una sala dell’Hof van Busleyden. Usciti dal museo, la città offre un centro medievale vivace, dominato dalla torre della cattedrale di S. Rambaldo, che, dall’alto dei suoi 97 m, offre uno splendido panorama sulla terra piatta delle Fiandre, fino a Anversa e Bruxelles. Si devono salire 358 gradini, ma ne vale la pena. Dove e quando Museum Hof van Busleyden Mechelen/Malines, Sint-Janstraat 2° Info www.hofvanbusleyden.be dal 1507 fino alla morte, nel nome di Massimiliano sino al 1519 e poi per conto di Carlo. Come sede della sua amministrazione, Margherita scelse Malines, che con lei diventò di fatto la capitale dei Paesi Bassi. Nella prima metà del Cinquecento vennero costruiti alcuni dei principali monumenti cittadini, come il Palazzo di Savoia (Hof van Savoye), residenza di Margherita e oggi sede del tribunale. Nello stesso periodo fu costruita la casa del nobile mecenate e umanista Hiëronymus van Busleyden (1470-1517). Dal 1938 il magnifico palazzo è sede di un museo, riaperto quest’anno, al termine di un importante intervento di rinnovamento dell’allestimento, che ha compreso anche il ripristino dell’originario carattere rinascimentale del grande giardino antistante l’ingresso. Gran parte del museo è dedicata al mondo di Margherita, che da un ritratto dipinto da Bernard d’Orley sembra osservare i visitatori con benevola curiosità. Il museo ci proietta nella vita della città cinquecentesca, grazie ai magnifici rilievi di alabastro, le cosiddette poupées de Malines, e al Libro Corale di Margherita. Nel frattempo, vediamo la governatrice come mecenate e – come piú tardi la sua omonima – accorta artefice della sua autopromozione. Una sala è dedicata a un arazzo monumentale, intitolato La Battaglia di Tunisi: tessitori locali lavorarono per ben otto anni alla rappresentazione della vittoria riportata da Carlo V sugli Ottomani nel 1534, A destra ritratto di Margherita d’Austria, olio su tavola di Bernard Van Orley. 1515 circa. Mechelen, Museum Hof van Busleyden.

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protagonisti margherita di parma de’ Medici, duca di Firenze e anche lui nato come figlio illegittimo del cardinale Giulio de’ Medici, il futuro papa Clemente VII. Il giovane duca aveva una pessima reputazione, ma tramite questa unione Carlo mirava ad accrescere il suo potere in Italia, terreno di scontri infiniti nella lotta con il re di Francia, Francesco I. Il matrimonio, tuttavia, finí dopo meno di un anno, quando Alessandro fu assassinato da suo cugino Lorenzo, meglio noto come Lorenzaccio per il carattere violento e maligno. Appena un anno piú tardi, Margherita si risposò con Ottavio Farnese, nipote di papa Giulio III e che, nel 1547, dopo la morte del padre Pierluigi, vittima di una rivolta di nobili parmensi, divenne duca di Parma e Piacenza. Da allora sua moglie poté chiamarsi Margherita di Parma, anche se in Italia rimase conosciuta come Madama d’Austria (da non confondere con l’altra Margherita d’Austria, sua prozia; vedi box alle pp. 58-59) o semplicemente Madama.

La discendenza è salva

Il matrimonio con Ottavio non iniziò nel migliore dei modi: Margherita disprezzava il marito, ancora adolescente, e la sua famiglia, una dinastia di condottieri che lei considerava di nobiltà bassa e incolta. A sua volta, Ottavio cercava di passare meno tempo possibile con lei. La coppia tuttavia non si sottrasse ai doveri dinastici e, nel 1545, vennero al mondo due gemelli, Carlo e Alessandro, solo il secondo dei quali sopravvisse. Nel frattempo, Margherita poteva godersi la ricca eredità del primo marito e i castelli dei Farnese disseminati in Italia. Quando era richiesta la sua presenza a Parma, non era però solita soggiornare in Palazzo Farnese, ma nel Palazzo Vescovile. Alla provincia preferiva comunIn alto ritratto di Alessandro Farnese, olio su tela di Antonio Moro. 1557. Parma, Complesso Monumentale della Pilotta, Galleria Nazionale. A destra Veduta Del Palazzo Madama In Oggi Governo Di Roma, incisione di Jean Barbault. 1762 circa.

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que l’atmosfera cosmopolita e acculturata di Roma, dove si stabilí nel palazzo appartenuto ai Medici e che tuttora porta il suo nome. Dal 1538 al 1550, i salotti di Margherita presso piazza Navona e la Villa Madama di Monte Mario divennero centri importanti della Roma politico-culturale, nei quali si incontravano cardinali, ambasciatori e persone del calibro di Ignazio di Loyola, Michelangelo e Vittoria Colonna. Come rappresentante informale del casato d’Asburgo, la duchessa raccolse informazioni e difese gli interessi del padre alla corte del papa, con il quale era in ottimi rapporti, al fine di consolidare il potere imperiale in Italia. Si dedicava inoltre alla beneficenza, collezionava pietre preziose e arazzi fiamminghi e ideava progetti architettonici: era diventata la prima donna di Roma e non esitava a mostrarlo. Come forma di autopromozione, Margherita si fece ritrarre piú volte e ai suoi visitatori regalò camei con la propria effigie, che ora sono oggetti da collezione assai ricercati.

Ritratto di Filippo II, olio su tela di Tiziano Vecellio. 1551. Madrid, Museo del Prado.

Reggente per conto del fratellastro

Nel 1550 tornò nel ducato del marito, non a Parma, ma a Piacenza, dove si occupò della costruzione dell’attuale Palazzo Farnese. Nel 1556 rientrò per alcune settimane nella sua Bruxelles, in pompa magna, con un seguito di 170 persone. Fu ospite del fratellastro Filippo II, che l’anno prima, dopo l’abdicazione di Carlo V (che sarebbe deceduto di lí a tre anni, in Spagna), gli era succeduto come re di Spagna e signore dei Paesi Bassi. Margherita affidò il figlio Alessandro al fratello, affinché fosse educato alla corte asburgica, decisamente piú importante e cosmopolita di quella dei Farnese. A differenza del padre Carlo V, che risiedeva spesso a Bruxelles, Filippo non nutriva particolari interessi per i Paesi Bassi e, nel 1559, partí per la Spagna, portando con sé il giovane Alessandro, per non tornare mai piú. Chiese quindi a Margherita di sostituirlo come reggente dei Paesi Bassi, ma non senza averle imposto un trio di consiglieri fidati, che lo avrebbero tenuto informato di tutto ciò che la nuova governatrice avrebbe fatto o proposto. Per Margherita si trattava di un ritorno alle origini molto difficile. Gli Stati Generali delle 17 province dei Paesi Bassi protestavano ininterrottamente contro le tasse sempre piú alte con le quali il re finanziava le sue guerre contro Francesi e Turchi. Allo stesso tempo si stava diffondendo la riforma protestante, in particolare quella calvinista, ferocemente repressa dal sovrano. Infine l’ambiente era assai meno sofisticato di quello delle corti rinascimentali italiane. La nobiltà dei Paesi Bassi era per lo piú formata da uomini rozzi, interessati alle donne e al vino piú che al buongoverno e alle buone maniere. Un panorama desolante, nel quale però non mancavano personaggi colti e carismatici, come

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il giovane principe Guglielmo d’Orange, con cui Margherita allacciò un solido rapporto. In un periodo di tensione crescente, la duchessa di Parma finí con il trovarsi tra due fuochi. Da un lato gran parte della popolazione – nobili, borghesi e quarto stato – protestava con veemenza crescente contro la persecuzione religiosa. Già Carlo V non era stato tenero con i protestanti, ma suo figlio lo superò di gran lunga. Convinto che l’eresia andasse estirpata a ogni costo, emanò una serie di editti severissimi. Per finire

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sul rogo era sufficiente ascoltare un predicatore protestante, possedere un libro vietato o lasciarsi sfuggire una frase incauta. Mentre Orange cercò di persuaderla a una maggiore tolleranza, il consigliere principale della governatrice, il cardinale Antoine Perrinot de Granvelle, impose la linea dura. Margherita si adoperò invano al fine di mediare. Nelle lettere al fratello chiese moderazione, ma Filippo, spagnolo, bigotto e inflessibile, non ne volle sapere. Una breve tregua si ebbe in occasione del «matrimonio del secolo» tra Alessandro Farnese e la principessa Maria di Portogallo, celebrato a Bruxelles nel novembre del 1565. Verso la fine dei festeggiamenti, che si protrassero per mesi, il 5 aprile 1566, duecento nobili, non invitati, entrarono nel castello di Koudenberg, sede della corte, e consegnarono alla governatrice una Supplica, con la quale chiedevano la sospensione dei decreti. Gli autori confermavano la loro fedeltà al re, aggiungendo però che, se la loro perorazione fosse stata ignorata, una rivolta popolare sarebbe diventata inevitabile. Con il sostegno di Gu-

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Maria di Portogallo saluta Margherita di Parma, disegno tratto dal cosiddetto Album di Bruxelles. 1565-1566. Varsavia, Biblioteca Universitaria.

glielmo d’Orange, che non era tra i firmatari (a differenza di suo fratello, Luigi di Nassau), Margherita annunciò che avrebbe girato le richieste a suo fratello in Spagna, sospendendo nel frattempo i decreti. Per poco tempo regnò un’atmosfera di relativa libertà, fino all’arrivo della risposta negativa di Filippo II.

Contro la Chiesa e le sue gerarchie

Scoppiò allora la rivolta conosciuta come Beeldenstorm, la «Furia iconoclasta». Iniziata il 10 agosto 1566 dai tessitori della Fiandria sud-occidentale, oggi territorio francese, si diffuse in poche settimane in tutti i Paesi Bassi, dove contadini e operai entrarono nelle chiese distruggendo statue, reliquie e fonti battesimali. Era una protesta non solo contro l’«idolatria papista» e la ricchezza della Chiesa, ma anche contro il governo del re di Spagna. Margherita dovette affrontare l’inedita dicembre

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alleanza tra protestanti perseguitati, cittadini tartassati e nobili locali, che vedevano il loro potere eroso dai funzionari spagnoli. Pur non essendo insensibile alle ragioni dei protestanti, la governatrice non riuscí a evitare la ribellione, suscitando l’ira del fratellastro, che la sostituí con il generale Fernando Alvarez de Toledo, duca d’Alba ed ex viceré di Napoli. Delusa, Margherita non poté fare altro che tornare in Italia, nel 1567. Dal canto suo, Alvarez de Toledo scelse la strategia del terrore: dispose migliaia di esecuzioni capitali, devastazioni e roghi, sterminando le intere popolazioni di città come Malines, Zutphen, Naarden e Alkmaar. L’effetto fu però controproducente: la popolazione si considerava sempre piú occupata da un tiranno straniero e regioni e gruppi sociali precedentemente divisi si trovarono uniti nell’odio comune contro lo spagnolo. Prese forma un sentimento nazionale, che trovò il suo

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La furia iconoclasta in una chiesa, olio su tavola di Dirck van Delen. 1630. Amsterdam, Rijksmuseum.

leader nella persona di Orange, il quale, dopo iniziali tentennamenti, aveva preso le parti dei protestanti e degli anti-spagnoli. Non a caso, ancora oggi molti Olandesi osannano il principe come «padre della patria». Dopo ripetute sconfitte, dal 1572 i rivoltosi riuscirono a liberare gran parte di Olanda e Zelanda, le piú ricche e importanti delle 17 province. Per rompere la situazione di stallo, Filippo II richiamò il duca e lo sostituí, prima con il nobile spagnolo Luis de Requesens, che dopo meno di un anno morí, e poi con un altro figlio illegittimo di Carlo V, don Giovanni d’Austria, già vincitore della battaglia di Lepanto contro i Turchi del 1571. Giovanni era un abile militare, ma nel 1578 si spense anche lui, a soli 31 anni. Fu allora la volta di

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protagonisti margherita di parma Ritratto della duchessa Margherita di Parma, olio su tela di Antonio Moro. 1562 circa. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

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economici imposti dalla guerra. Nel 1581 solo le sette province del Nord abiurarono Filippo II come loro sovrano, ponendo le basi per la formazione dello Stato che, dal 1588, assunse la denominazione di Repubblica delle Sette Province. Negli anni successivi Alessandro Farnese occupò gran parte delle Fiandre, dove diverse città si arresero senza combattere, stanche della guerra e dell’estremismo dei calvinisti radicali, come quelli di Gand, che tentarono di fondare una teocrazia protestante, sul tipo di quella affermatasi a Ginevra. Il suo capolavoro fu la presa di Anversa, nel 1585, dopo un assedio durato tredici mesi. Ma il successo si rivelò una vittoria di Pirro, perché gli avversari sbarrarono il fiume Scheldt, con un blocco che sarebbe durato fino al 1795 e che segnò la fine del secolo d’oro di Anversa. Da allora, la stella di Alessandro Farnese iniziò a calare. Nel 1588 fallí la sua ultima impresa nei Paesi Bassi: l’assedio di Bergen op Zoom, città strategica sulla via per la Zelanda e l’Olanda. Partí alla volta della Francia, dove continuò a combattere per il suo re. Nel frattempo, nei Paesi Bassi, Maurizio, il figlio di Guglielmo d’Orange, che era stato ucciso da un sicario nel 1584, riconquistò il terreno perso nel Nord e nell’Est, confermando una divisione tra il Settentrione protestante e indipendente e il Meridione cattolico e asburgico. Secondo una linea di frontiera tracciata pochi anni prima A sinistra Margherita di Parma a cavallo in una incisione. 1567 circa. Parma, Collezioni d’arte Fondazione Cariparma.

Alessandro Farnese, che aveva combattutto al fianco dell’eroe di Lepanto. Come ha scritto uno storico olandese, il figlio di Margherita «si dimostrò subito un grande tattico, che avrebbe causato a Orange piú rompicapi di Alba, Requesens e Don Giovanni messi insieme».

Le divisioni aiutano la Spagna

Farnese mise in pratica una politica che, capovolgendo il celebre motto del generale Carl von Clausewitz, potrebbe definirsi come la continuazione della guerra con altri mezzi. Usò le armi con moderazione, non devastò le città, trattò con gli avversari, offrí l’incolumità a chi si arrendeva e, quando occorreva, pagò i nemici affinché cambiassero casacca. In pochi anni riuscí cosí a riconquistare alla corona spagnola gran parte del terreno perduto. Un obiettivo raggiunto anche grazie all’aiuto involontario degli stessi insorti, che si divisero su numerosi fronti – tra cattolici e protestanti; ortodossi e liberali; fra chi parlava olandese e chi francese; tra nazionalisti e possibilisti; fra sostenitori della Francia, della Germania o dell’Inghilterra –, mentre ogni provincia cercò di sottrarsi con ogni mezzo agli sforzi

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Coppa ricavata da un corno di rinoceronte, realizzata a Goa (India) o nello Sri Lanka, su commissione di Costantino di Braganza. Metà del XVI sec. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte.

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protagonisti margherita di parma La mostra di Oudenaarde

Il Municipio (Stadhuis) di Oudenaarde, affacciato sulla piazza del Mercato Grande (Grote Markt).

Omaggio alla duchessa Oggi Oudenaarde (in francese Audenarde) è conosciuta soprattutto come punto di partenza e di arrivo del Giro delle Fiandre. I negozi della cittadina fiamminga offrono quindi tutto ciò di cui il ciclista può avere bisogno. Oudenaarde possiede anche un bel centro medievale, con monumenti come la gotica chiesa di Nostra Signora di Pamele e la collegiata di S. Valpurga, la cui costruzione in stile gotico iniziò nel XIII secolo. Cuore di Oudenaarde è la piazza del Grote Markt (Mercato Grande), circondata da case antiche. L’edificio piú bello e imponente è lo Stadhuis (Municipio), sorto intorno al 1530 e oggi sede del MOU, il Museo di Oudenaarde, che vanta una ricca

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collezione di arazzi fiamminghi del XVI-XVII secolo, epoca in cui la città era famosa in tutta Europa per i suoi atelier di tessitura. Ma Oudenaarde è anche la città natale di Margherita di Parma, figlia illegittima dell’imperatore Carlo V, che vi nacque nel 1522. Il MOU ha ora realizzato la prima mostra monografica su di lei, «La figlia dell’imperatore tra potere e immagine». L’esposizione non si limita a raccontare gli eventi politici europei nei quali Margherita fu coinvolta, ma concentra l’attenzione soprattutto sullo stile di vita della classe dirigente dell’epoca e della stessa Madama. Delle sei sale dell’esposizione una è dedicata alla sontuosa moda di corte e un’altra alla

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caccia. Come tutti gli Asburgo, anche Margherita era una appassionata cacciatrice e un’amazzone, come si intuisce da un suo ritratto a cavallo. Il gabinetto personale della duchessa di Parma è stato ricostruito riunendo oggetti esotici e lussuosi dalla sua collezione, tra cui un ventaglio d’avorio, un calice di corno di rinoceronte e una brocchetta di agata sardonica. In un’altra sala, stampe d’epoca raccontano i fatti e misfatti del periodo in cui Margherita era governatrice dei Paesi Bassi: la consegna della Supplica da parte dei nobili, la furia iconoclasta, roghi e decapitazioni. Vi è poi spazio per il «matrimonio del secolo» tra Alessandro Farnese e Maria di Portogallo, nel 1565. I vivaci disegni raccolti nel cosiddetto Album di Bruxelles restituiscono l’atmosfera dei festeggiamenti, con tutti i dettagli: vestiti, disposizione dei posti a tavola, danze e pietanze. Non mancano, infine, alcuni dei ritratti con i quali Margherita si fece conoscere nel mondo, fra cui spicca quello concesso in prestito dal re inglese Carlo III. Dove e quando «Margherita. La figlia dell’imperatore tra potere e immagine» Oudenaarde, MOU-Stadhuis fino al 5 gennaio Info www.margarethavanparma.be

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In alto e in basso immagini dell’allestimento della mostra dedicata a Margherita di Parma, visitabile nel MOUStadhuis di Oudenaarde.

da Alessandro Farnese e che, grosso modo, coincide con l’attuale confine tra Olanda e Belgio.

Un quadro sconsolante

Lo scrittore fiammingo Louis Paul Boon (1912-1979) chiudeva cosí, con amarezza, il suo racconto epico della rivolta: «La quiete portata da Farnese alle Fiandre somigliava a un rigor mortis. Le migliori forze vitali dei Paesi Bassi invece, si concentrarono in quel piccolo pezzo di terra a nord dei fiumi. (...) Le Diciassette Province erano separate. Nella zona abbandonata, imbruttita e distrutta apparvero branchi di lupi che attaccavano uomini e animali. Ma nel Nord, il grano maturava sotto il cielo libero, e mietitori e contadini potevano far la raccolta sulla terra libera. (...) E le Fiandre erano sconfitte e morivano» (da Het Geuzenboek, Il libro dei pezzenti, 1979). Margherita, invece, dopo essere tornata in Italia, si stabilí nel feudo d’Abruzzo, a Cittaducale, dove, lontano dagli intrighi della politica, fece costruire numerosi palazzi nobiliari. Nel 1572, Filippo II la nominò «governatrice perpetua» dell’Aquila, dove andò ad abitare nell’edificio che è tuttora noto come Palazzo Margherita ed è sede del Municipio. Lo stesso Filippo la invitò nel 1580 a tornare a Bruxelles per assecondare il figlio nella sua nuova mansione di governatore. Il re era convinto che l’esperienza diplomatica e la conoscenza dei Paesi Bassi di Margherita sarebbero state utili a Alessandro, ma lui, che si era ormai staccato dalla madre, rifiutò ogni contatto con lei, minacciando di rinunciare agli incarichi assunti se fosse rimasta. A Margherita non restò che tornare in Abruzzo e occuparsi della costruzione di un altro palazzo a Ortona, non ancora finito quando morí, il 18 gennaio 1586. Fu sepolta nella chiesa di S. Sisto a Piacenza, dove anche il sontuoso monumento funebre da lei stessa progettato è rimasto incompiuto. F

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Chi trova un amico...

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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...non sempre trova un tesoro! Sembra essere questa la morale della novella in cui Giovanni Sercambi racconta le vicende del ricco Lomoro e di suo figlio Fruosino, attorniato da una folla di amici attratti dalle sostanze del ragazzo e non certo dalle sue qualità umane. Per contro, come insegna la storia dei mercanti lucchesi Giabbino e Cionello, i legami possono anche essere sinceri e duraturi, seppure all’insegna del tornaconto economico

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opo aver visitato Napoli (vedi la puntata precedente, «Medioevo» n. 334, novembre 2024; on line su issuu.com), la brigata di Lucchesi in fuga dalla peste «venuta l’ora del desnare [l’ora di pranzo], con diletto desnaro [pranzarono] e colli stromenti e danse [danze] in nel giardino entrarono». Qui il capogruppo chiede al narratore una novella «acciò che la brigata non stia oziosa» e Giovanni Sercambi sceglie di affrontare uno dei temi che piú gli stanno a cuore, quello dell’amicizia. Nell’exemplo LXXIIII, Lomoro è un ricco uomo di Prato che ha un figlio di vent’anni, Fruosino, «e non avendo altro figliuolo, lassava a questo Fruosino prendere suoi piaceri dandoli balía di spendere, e della casa quello volea non li era divietato [e della casa poteva disporre a suo piacimento]». Stando cosí le cose, molti vicini «apiccatori di fiaschi [parassiti maldicenti], dimostrando verso di Fruosino una grande amicitia, ogni dí desnavano e cenavano con Fruosino, dicendoli: “Noi faremmo per te ogni gran fatto” [noi faremmo ogni cosa per te]». Il giovane «credea tutto ciò che quelli fregatori di lucciole [ipocriti] li diceano, faccendo loro ogni dí cene e deznari, e talora dava loro alcune cosette».

Un manipolo di parassiti

Trascorso diverso tempo, Fruosino pensa che, grazie alla sua ricchezza, sia l’uomo che ha piú amici in città. Lomoro vede il figlio che spende e spande, la casa è piena di «mangiatori [parassiti]» dei quali ha modo di ascoltare le conversazioni: «Noi goderemo quella robba che Lomoro padre di Fruosino ha raunata [raccolto]: noi la spargeremo [consumeremo] non men tosto che lui potesse raunarla». Il padre è molto preoccupato della situazione che si è venuta a creare e riflette sul da farsi: «Se io dico che queste brigate io non voglio, il mio figliuolo disdegnerà meco [mi disprezzerà] e potre’ melo perdere; e pertanto a me conviene trovare modi onesti [maniere adatte] acciò che [il] mio figliuolo si rimagna [penta] di tale bigate e intenda a bene fare [impari cosa è giusto fare]». In questo passaggio, notiamo come Lomoro rinunci all’autoritas paterna sul figlio minorenne (nel Medioevo la maggiore età era fissata a venticinque anni) per un sottile fine pedagogico. Dopo un sontuoso banchetto dei suoi «mangiaguadagno», Lomoro affronta il figlio: «Dimmi figliuol mio, quanti amici credi avere?». Fruosino risponde: «Amici io n’ho piú di L [cinquanta], e non sta se non a me a volerne, che piú di C [cento] ne avrei». Il padre sottolinea: «Se tanti amici hai di sí pogo tempo, tu ti puoi dar vanto; che mai neuno tuo parente non potéo tanto mai fare, non che Uomini conversano sull’uscio di una bottega, particolare dell’Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, ciclo affrescato realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace.

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il novelliere di giovanni sercambi/9 L ne avesse, ma pur uno con fatica se ne potesse trovare. E dicoti che io che ho piú di L anni non ebbi né ho se non uno, e quello è ’l mio compare Taddeo». Fruosino risponde con presunzione: «Padre, voi ci [qui] vivete all’antica, ma lassate fare a noi giovani, che ogni dí n’arei quanti ne volesse». Lomoro ribatte: «O figiuolo mio, io credo che dichi [dica] vero, che penso che credi aver L amici: ma tu non te ne troveresti al bisogno VI [sei]». Fruosino insiste: «Se fussimo alla prova io me ne troverei piú di L». Il padre gli propone un esperimento: «Io vo’ , figliuolo, che de’ tuoi amici facci la prova, e io avendone uno la farò del mio; e chi arà piú amici, o tu avendone tanti o io avendone uno, sia ministratore di tutti i nostri beni».

Un piano ben orchestrato

La prospettiva appare allettante a Fruosino, che, certo di una facile vittoria, accetta la sfida e chiede al padre in cosa consista la prova: «Noi uccideremo il porco che dobiamo insalare e metteréllo [lo metteremo] in uno sacco cosí sanguinoso, e poi te n’anderai a l’amico tuo, qual piú ami, e dirà ’li che a tte [da te] è fatto micidio [che hai ucciso un uomo], e però lo prega [preghi] che quello che hai morto [ucciso] lo porti in nella Marina [fiumiciattolo tra Firenze e Prato] e quine entro lo gitti. E se lui non aconsente, prova l’altro, e tanti ne prova che ti vegna fatto». L’abbattimento del maiale ricorre con frequenza nelle allegorie del mese di dicembre, quando l’animale veniva ucciso cosí da poterne consumarne la carne e i derivati nei freddi mesi invernali, conservandoli con il sale. Dopo aver ucciso il suino, padre e figlio lo mettono in un sacco, poi Fruosino si reca dall’amico che ritiene essere il piú fidato e lo prega di gettare il finto cadavere nel fiume: «Lo primo rispuose che quella gatta [da pelare] non sare’ sua [quell’impiccio non sarebbe stato suo] e che se lui l’ha morto non vegna là u’ elli sia se non vuole che lui lo vada accuzare». La reazione di quello che Fruosino credeva essere il suo migliore amico è peggiore del previsto, perché questi adombra addirittura l’eventualità di una denuncia. Al che il giovane si reca da un altro amico, chiedendogli aiuto, ma cosí si sente rispondere: «A me non possa nuocere! Vatti con Dio che io non me ne impaccerei!»; un terzo replica: «A me non appiccherai questa pelle di volpe [non mi immischierai in questo pasticcio]» e cosí tutti gli altri. Fruosino torna a casa sconsolato e il padre gli chie-

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto, da un manoscritto con illustrazioni attribuite all’artista fiammingo Simon Marmion. 1475. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum. In basso allegoria del mese di dicembre rappresentato dall’abbattimento del maiale, da un Libro d’Ore detto Lescalopier. 1555 circa. Amiens, Bibliothèque centrale Louis Aragon.

de se abbia trovato qualcuno disposto ad aiutarlo, ma la risposta è laconica: «Padre voi cognoscete la gente meglio di me» e racconta dei suoi fallimentari incontri. Lomoro gli dice di andare da Taddeo quella notte stessa e di chiedergli lo stesso favore che i presunti amici hanno rifiutato. L’unico amico di Lomoro, appena ascoltata la richiesta del ragazzo, senza fare alcun commento, si carica il sacco in spalla, esclamando: «O figliuolo, andiamo!» e mentre si dirigono al fiume, si raccomanda con Fruosino di non raccontare a chicchessia dell’omicidio. Quando Taddeo si appresta ad aprire il sacco, il giovane saccente lo ferma: «Compare, torniamo indrieto [indietro], però che [poiché] cotesto è il nostro porco» e gli rivela la verità. La mattina seguente, Fruosino convoca i falsi amici che pensano di essere invitati a pranzo come al solito e, invece, annuncia loro: «Io non vo’ ogimai vostra domestichessa [non voglio vedervi mai piú]». Convinti che il giovane sia un assassino, i compagni minacciano di denunciarlo al podestà. Il giovane pentito ha cosí la conferma che essi non sono solo falsi amici, ma nemici e dice loro: «Io l’ho morto [Io l’ho ucciso] e possovelo mostrare»; li porta in bottega, mostra il maiale e «d’alora innanti Fruosino piú amicitia non volse, ubidendo al padre».

Nel segreto del confessionale

La brigata che ascolta il narratore mostra di apprezzare la «piacevole novella», torna a danzare e poi si confessa con i sacerdoti che fanno parte della comitiva. Sercambi sottolinea la pratica della confessione, che dà ai fuggitivi la possibilità di rivelare nel segreto del confessionale se anch’essi si sono comportati da amici fedifraghi, nell’ottica della purificazione dai peccati che la casta vita comunitaria impone. Come spesso capita nel Novelliere, il male è contrapposto al bene e cosí succede anche nell’exemplo CXXXIII che narra della buona amicizia. Si tratta di una delle novelle piú note dello scrittore, di cui non si conoscono antefatti letterari. dicembre

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Sulle due pagine altri particolari del ciclo Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, opera di Ambrogio Lorenzetti e della sua bottega. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico. A destra, il banco di un cambiavalute; nella pagina accanto, due cavalieri.

A Lucca, Giabino e Cionello sono due soci mercanti «li quali avendo ciascuno di loro messo e fatto compagnia di molti denari a l’arte della seta, divenne che, volendo Giabino andar in Ispagna per comprare sete, di volontà di Cionello [d’accordo con Cionello] da Lucca si mosse, con molta qualità di denari, e a Pisa e in s’una galea con certi mercadanti che andavano in Ispagna montò». Dal dettaglio di Giabino che, per raggiungere la Spagna, preferisce imbarcarsi, abbiamo la conferma di come le strade in epoca medievale fossero poco sicure, infestate da ladri e briganti. La galea era una nave a remi e a vela lunga una cinquantina di metri, veloce e leggera, con la prua molto sottile: «E dando de’ remi in acqua e navicando piú giorni, la ditta galea da certe navi di mori e genti pagane assalita fu e ultimamente [alla fine] presa con tutti coloro che quine erano; e in Pagania [il nome definiva le coste dell’Africa che sia affacciavano sul Mediterraneo] per ischiavi funno condutti e la robba rubata. Per la qual cosa a Pisa e a Lucca ne venne imbasciata». Nel corso del Basso Medioevo (XI-XV secolo circa) i mercanti e i pellegrini sostituiscono il denaro contante con la lettera di credito per evitare di essere derubati: in cambio di una somma di denaro, si otteneva questa lettera; con essa, chi aveva ricevuto i soldi garantiva di pagare la somma in un altro luogo e con altra moneta.

Tutto in due esemplari

Nel frattempo, Cionello «col resto della lor compagnia faccendo il lor mestieri, cominciò a guadagnare. E d’anno in anno multipicava intanto che non furono passati XII anni che Cionello avea guadagnati molti fiorini. E vedendosi multiplicare in robba e non sapendo niente di Giabino poi che preso fu, diliberò sempre a Giabino portare fede e lealtà». Per questo motivo, Cionello si fa sempre confezionare due vestiti identici, uno per sé e uno per l’amico scomparso; acquista due cose identiche e una la conserva dentro la cassa «per Giabino, se mai tornasse (...) e multiplicando Cionello in ricchessa, diliberò di fare du’ case che fusseno eguali, l’una appresso all’altra». Ma non solo, il fedele amico «ogni anno facea il conto di tutto ciò che guadagnato si fusse. E cosí dimorò piú di anni XXX che mai di Giabino novelle non s’ebbe». Trascorso questo lungo periodo, una nave cristiana approda a causa di una burrasca nel porto in cui Giabino è ridotto in schiavitú «e’ apalezatosi [dichiaratosi] esser cristiano, pregando il padrone del legno [della nave] che lui dovessero trarre di servitú [togliere dalla schiavitú], coloro mossi da misericordia, quanto piú presto poterno l’ebbero levato». L’anziano mercante sbarca al porto di Ara-

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gona, in Spagna, e per tre anni vive di accattonaggio, passando da una terra all’altra; poi, non potendo «per fatiche sostenute e per lo malvivere, mantenersi sano, li sopravenne alcuna febre per la quale fu costretto per piú d’un anno a stare in uno spidale [ospedale] in Genova». Grazie alla sua tempra, Giabino guarisce e si imbarca per Pisa «dove con accatto la sua vita mantenea. E dimorato in Pisa alquanto tempo, li venne alla memoria lui esser lucchese e che già avea fatto compagnia con Cionello, stimando Cionello esser morto, e simile tutti i suoi parenti, per lo tanto tempo stato fuori». Giabino è combattuto: da un lato si vergogna a tornare nella sua città, perché ha perso il denaro suo e dell’amico, dall’altro il richiamo della patria è troppo forte; decide cosí di rientrare

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il novelliere di giovanni sercambi/9 e «parve a lui che Lucca fosse rimutata [cambiata], tanto era stato che veduta non l’avea». Dopo aver trascorso alcuni giorni mendicando, Giabino si ritrova alla loggia degli Scalocchiati – oggi chiamata di San Michele –, dove convenivano molti cittadini e chiede loro: «O gentili uomini, io vi prego che vi piaccia dirmi se Cionello è vivo». L’amico fedele è seduto nel gruppo e quando sente Giabino chiedere di lui, gli domanda perché voglia saperlo, senza rivelare la propria identità: «Per bene [A fin di bene], però che [poiché] io arei gran voluntà di sapere novelle, che se vivo fusse, penso che una volta il mese mi dare’ per l’amor di Dio da mangiare, posto che male lo meriti, perché io non feci verso di lui quello che far dovea, ben che mia colpa non fusse». Cionello è incuriosito dalla risposta e domanda al presunto mendicante da dove provenga: «Fui da Lucca ma per mia dizaventura, piú di IL [quaranta] anni ne sono stato fuori; e però [per questo] non mi posso di Lucca apellare [dichiarare]». Da questo passaggio notiamo come l’essere cittadino desse un senso di identità nel Medioevo: è come se la lunga lontananza avesse cancellato quella dell’anziano mercante.

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Cionello vuol saperne di piú, porta a casa Giabino per nutrirlo e gli chiede: «Io vorrei sapere da te qual cagione te indusse a domandare di Cionello, però che [poiché] dici esser stato piú di XL anni che a Lucca non fusti». Giabino risponde: «Perché io l’amava [gli volevo bene] quanto me medesimo; ben che a lui io facesse male, sempre di lui mi potei lodare». L’amico ritrovato è sempre piú curioso, vuole conoscere il motivo di questa antica frequentazione e Giabino gli spiega che erano soci in affari: «Noi mettemmo per uno V cento lire, e volendo io andare in Ispagna a comprare seta con VIII cento lire, fui da’ mori preso e i denari rubati e io per ischiavo trent’anni tenuto. E per questo modo disfeci Cionello lo mio compagno che ne fui tanto dolente quanto io potrei».

La grafia come prova

Cionello vuole mettere Giabino alla prova, gli chiede dove avevano la bottega e se avrebbe riconosciuto il suo socio a distanza di cosí tanto tempo: «Al canton Bretti, in nelle case del Busdaghi [l’attuale piazza dei Mercanti] (...) No, ma io conoscerei bene la sua léttora [la sua scrittura] però che [in quanto] Cionello era piú giovano di

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Una galea in navigazione, illustrazione tratta da un codice degli Annali genovesi compilati da Caffaro di Rustico da Caschifellone. XII-XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

A sinistra, sulle due pagine la cosiddetta Carta Pisana, la piú antica carta nautica a oggi conosciuta. 1275 circa. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.

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me ben VI anni e non avea pelo in volto, e ora, se vivo fusse, dovre’ essere canuto come sono io; ma la léttora non dé aver potuto mutare». Da questa risposta, scopriamo come i mercanti sapessero leggere e far di conto nel Basso Medioevo, perché classe sociale emergente. Come ha scritto Chiara Frugoni in Medioevo sul naso: «Il decollo urbano, l’evolversi delle forme politiche che portarono al fiorire dei Comuni condussero alla ribalta nuove figure. La società, non piú divisa nel tradizionale ordine tripartito dell’Alto Medioevo (chierici, nobili e lavoratori, cioè contadini) fece posto, oltre che agli artigiani,

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a mercanti, giuristi, insegnanti, banchieri e notai. Questi nuovi lavoratori parlano, negoziano, intrattengono, disputano, cercano di persuadere, magari anche imbrogliando, come fanno qualche volta i mercanti, ma soprattutto scrivono». Cionello chiede a Giabino se saprebbe riconoscere anche la sua di scrittura, non solo quella del vecchio amico. Alla risposta affermativa, Cionello gli mostra il libro contabile: «Giabino, come l’ebe in mano, disse: “Per certo Cionello è morto ché questo libro era quello della

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compagnia”. E apertolo, la prima scrittura disse: “Questa è di mia mano e quest’altra è di Cionello”». Giabino scorre tutto il libro fino a quando gli mostra che da un punto in poi, la scrittura è solo quella di Cionello perché lui era partito per la disastrosa spedizione. A quel punto Cionello ha la certezza di avere davanti a sé l’amico: «Giabino, mio compagno, io sono lo tuo Cionello, il quale sono stato con tanto dolore poi che mai non sentí bene [sono stato cosí male che non mi sentii bene mai piú]». A queste parole Giabino si mette in ginocchio, chiedicembre

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Veduta aerea di Lucca, città d’origine dei mercanti Giabbino e Cionello, protagonisti di una delle novelle che Giovanni Sercambi dedica al tema dell’amicizia.

e poi fa due parti di tutte le mercanzie. Cionello ha moglie e figli, l’amico gli espone una richiesta: «Io ti prego, Cionello mio, che sii contento di quello che io disporrò [della mia decisione] e pregoti che non tene turbi (...) io non sono atto a predenere donna, ma ben ti prego che a me concedi una fante che mi serva in una di queste case fine che Dio mi chiamerà a ssé, e doppo la morte mia la casa con tutta la robba rimagna a’ tuoi figliuoli; e mentre che io vivo, questi denari e mercantia ti do che li adoperi a utilità di te e de’ tuoi figliuoli, e a me solo la vita mi concedi». Cionello è commosso dall’altruismo dell’amico e «acordati come fratelli, si preseno per mano e alla loggia n’andarono, dove veduti insieme e narrato el fatto, non s’udío mai du’ leali compagni come costoro. E vivendo in amore, finiron loro vita con grande allegressa».

Novelle come moniti

dendogli perdono per aver perso i loro denari e domanda solo che gli dia da mangiare una volta al mese. Cionello fa alzare lo sfortunato amico e con l’aiuto di un servitore gli fa indossare i vestiti uguali ai suoi, poi «avendosi l’uno e l’altro rasi e netti, e presi per mano, Cionello lo menò in una camera dove era una cassa e di quella trasse VIII borse in che avea in ciascuna M [mille] fiorini dicendo: “Di queste VIII te ne tocca IIII prendi qual vuoi” lo stesso fa con i gioielli, vestiti e suppellettili» e aggiunge: «Queste sono II case d’un pari grado: prende quella che piú vi piace»

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Queste due novelle provano come Sercambi intenda l’amicizia in modo piuttosto originale. Allo scrittore lucchese non interessa tanto dimostrare come la vera amicizia, per essere considerata tale, vada messa alla prova, ma vuole mettere in guardia i suoi lettori, in gran parte borghesi, da quei parassiti che vivono alle spalle dei piú ricchi senza dare nulla in cambio. Sercambi utilizza perciò un vasto repertorio di frasi offensive per condannarli: «Fruosino come giovano credea tutto ciò che quelli fregatori di lucciole li diceano»; «Lomoro, che vede il figliuolo essere grande spenditore, e ogni dí la casa piena di mangiatori». L’autore considera falsi amici non tanto quelli che si rifiutano di aiutare Fruosino, ma ancor prima li considera tali, perché vogliono dilapidare il patrimonio suo e del padre, il quale «dipoi sentia che dicevano tra loro: “Noi goderemo quella robba che Lomoro padre di Fruosino ha radunata: noi la spargeremo non men tosto che lui ponesse a raunarla”». Con questa frase, lo sdegno che doveva provare la brigata di ricchi lucchesi nell’ascoltarla dal narratore, diventa quasi palpabile. Anche la seconda novella, sul tema della perfetta amicizia, si allontana da racconti esemplari simili, per l’abbondanza di dettagli concreti, come il puntuale elenco dei beni che Cionello conserva per l’amico scomparso. Il riconoscimento finale per la nobiltà d’animo di Cionello è un vantaggio economico anche in questo caso, perché Giabino rinuncia ai suoi beni a favore della famiglia dell’amico: «Doppo la morte mia la casa con tuta la robba rimagna a’ tuoi figliuoli». Il pubblico di Sercambi è essenzialmente quello mercantile, particolarmente sensibile alla conservazione e al moltiplicarsi della «robba», a discapito di quell’altruismo sociale rappresentato dalla carità su cui la Chiesa insisteva per conquistare un ben maggiore guadagno: il paradiso.

NEL PROSSIMO NUMERO ● I disonesti

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di Elena Percivaldi

La pesatura delle anime da parte dell’arcangelo Michele, particolare della decorazione del portale romanico della cattedrale di Saint-Trophime ad Arles (vedi lo schema grafico alle pp. 84-85).

La cattedrale di S. Trofimo di Arles e l’annesso chiostro sono altrettanti gioielli del ricco patrimonio storico-artistico e architettonico della città francese. Le magnifiche decorazioni scultoree figurano fra le piú alte espressioni dello stile romanico e gotico. E ai fedeli offrivano un vero e proprio racconto per immagini, denso di messaggi simbolici

Come libri scritti nella

PIETRA


Dossier

«I

o sono la porta: chi per me passerà sarà salvato». Questo versetto chiave del Vangelo di Giovanni (Gv 10,9) è alla base di uno degli elementi piú importanti dell’arte e dell’architettura romanica: il portale che orna la facciata di chiese e cattedrali, il luogo varcando il quale, cioè, il fedele cominciava il suo cammino verso la redenzione. Attraverso il suo ricco programma di sculture e iscrizioni, il portale guidava chiunque entrasse in chiesa verso una riflessione piú profonda sulla propria esistenza e sul destino dell’anima, fondendo architettura e fede, simbolismo e catechesi in un unicum che caratterizza profondamente l’arte romanica europea, costituendone una delle manifestazioni piú genuine e profonde. Ed è cosí anche nella cattedrale di Saint-Trophime (S. Tròfimo) di Arles, senza dubbio uno tra i piú insigni esempi del romanico provenzale: un vero e proprio «miracolo di pietra», che sgomenta ancora oggi per la sua vibrante intensità e ricchezza figurativa.

Arelate, capitale romana

Affacciata sulla riva sinistra del Rodano, nel cuore della Provenza al limite settentrionale della pianura della Camargue, Arles è del resto una città che ha «visto passare» la storia, non solo transalpina, ma anche europea. E di questo suo glorioso passato, particolarmente eclatante in epoca romana e nel Medioevo, conserva molte testimonianze. Fondata nel 46 a.C. come colonia romana, Arelate – il nome completo era Colonia Iulia Paterna Arelate Sextanorum – si sviluppò rapidamente grazie alla sua posizione strategica lungo il Rodano, che ne faceva un nodo commerciale di primaria importanza. Augusto fu il primo imperatore a promuovere il grande sviluppo urbanistico

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Uno scorcio del chiostro di Saint-Trophime, con, sullo sfondo, il campanile della cattedrale. Insieme ai monumenti di epoca romana della città, il complesso è stato inserito dall’UNESCO fra i beni del Patrimonio dell’Umanità.


della città, che presto divenne uno dei centri piú floridi della Gallia Narbonense e in seguito una delle capitali dell’impero.

Veduta aerea di Arles, con l’inconfondibile ellisse dell’anfiteatro romano, Les Arènes. INGHILTERRA

Gli edifici per spettacoli

L’influenza romana, profondissima, è tuttora visibile negli straordinari monumenti che caratterizzano il volto di Arles. Il piú «vistoso» è senza dubbio l’anfiteatro romano, anche se i Francesi preferiscono chiamarlo «Les Arènes», «le Arene», perché, come di norma in questo genere di impianti, sullo spazio riservato agli spettacoli si spargeva sabbia, cosí da rendere il terreno adatto alle esibizioni che vi si svolgevano. Costruito intorno al 90 d.C., con una capienza di circa 20 000 posti, ospitava i combattimenti dei gladiatori e le battaglie navali simulate (naumachie), spettacoli che i cittadini apprezzavano moltissimo, tanto che i loro protagonisti erano acclamati come eroi e avevano un seguito paragonabile a quello dei piú celebri campioni dello sport moderno.

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BELGIO GERMANIA Caen Reims Parigi

Brest

Strasburgo

FRANCIA Tours

Digione

SVIZZERA

Lione

ITALIA

Bordeaux

Tolosa

Arles Nizza

SPAGNA

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Dossier Le fasi di costruzione MURATURE ANTICHE FINE DELL’XI SEC.INIZI DEL XII SEC. XII SEC. XIV SEC. XV SEC. XVII SEC. XIX SEC.

Planimetria della cattedrale di Saint-Trophime, nella quale sono evidenziate le diverse fasi di costruzione.


Oltre all’arena, Arelate vantava – oggi sono visibili le rovine – un teatro romano di tutto rispetto, costruito nel I secolo a.C. e capace di ospitare fino a 10 000 spettatori. Il cuore della città romana batteva però, come in tutte le città dell’impero, nel Foro, centro della vita pubblica e politica di Arelate. Del Foro, sulla cui area nel tempo sono stati costruiti molti altri edifici, oggi non rimane quasi nulla a eccezione del cosiddetto «criptoportico», un imponente complesso di gallerie sotterranee, costruito come fondamenta per la grande piazza pubblica sovrastante, esempio davvero notevole della sapienza costruttiva degli ingegneri romani. Con la fine dell’impero romano d’Occidente nel 476 d.C., anche Arles conobbe un periodo di deca-

denza. Tuttavia, la sua importanza come sede vescovile – già nel 314 ospitò un concilio convocato dall’imperatore Costantino per risolvere la controversia donatista (il movimento scismatico che interessò la Chiesa dell’Africa settentrionale, in particolar modo la Numidia, nato tra il 308 e il 311, n.d.r.) – le permise di mantenere un ruolo significativo nel processo di evangelizzazione della Gallia.

Crisi e rinascita

Nel passaggio dall’età antica al Medioevo la città cadde sotto il controllo dei Visigoti nel V secolo e fu poi incorporata nel regno dei Franchi nel VI. Quindi, in epoca carolingia, divenne la capitale del regno di Arles, che includeva gran parte della Provenza e della Borgogna.

Pur vessata dalle frequenti incursioni dei pirati «saraceni» che avevano stabilito il proprio avamposto a Fraxinetum, nei pressi dell’odierna Saint-Tropez – ai musulmani fuoriusciti dalla Spagna di al-Andalus in disaccordo con gli emiri omayyadi si erano uniti diseredati e spiantati di ogni genere –, tra il X e l’XI secolo, la città riuscí a risollevarsi grazie alle riforme promosse dai conti di Provenza e dalla crescente influenza dei vescovi locali. La fondazione di nuovi monasteri e la promozione del commercio lungo il Rodano furono cruciali per il recupero economico e sociale della città, che vide l’erezione di importanti edifici cristiani, il piú importante dei quali era – ed è ancora oggi – la cattedrale. Edificata (segue a p. 86) La place de la République, cuore della cttà di Arles, sulla quale affacciano la cattedrale di Saint-Trophime e il palazzo che è sede del Municipio. Al centro svetta un obelisco di epoca romana, in origine collocato nel circo e che fu trasportato qui nel 1676, inserendolo a coronamento di una fontana.


Dossier Trofimo

Un santo, anzi due Dal punto di vista storico la figura di san Trofimo risulta sfuggente, avvolta com’è da un’aura leggendaria. Nella sua Historia Francorum, scritta nell’ultimo quarto del VI secolo, Gregorio di Tours narra che Trofimo era di origine greca e per ordine di papa Fabiano – siamo nel III secolo – fu inviato a evangelizzare le Gallie insieme ad altri sei missionari, tutti nominati vescovi: ad Austremonio toccò l’Alvernia, a Dionigi la città di Parigi, a Marziale, Limoges, a Paolo, Narbona, a Gaziano (o Graziano), Tours, a Saturnino, Tolosa. Trofimo, invece, fu inviato ad Arles, capitale della Provenza pagana. Dalla metà del V secolo, però, la tradizione locale iniziò ad assimilare Trofimo di Arles a un omonimo discepolo di Paolo di Tarso citato negli Atti degli Apostoli, retrodatandone quindi la vita al I secolo. Grazie a questa identificazione, per quanto spuria, Trofimo ricevette un’aura di grande prestigio che gli derivava dall’essere stato un «discepolo della prima ora», contemporaneo dei Dodici. L’ambiguità di queste informazioni si riverbera anche nella cattedrale a lui dedicata: non solo nel portale, dove Trofimo compare insieme al protomartire Stefano al quale la prima chiesa era inizialmente intitolata, ma soprattutto nel chiostro, dove è raffigurato tra gli apostoli Pietro e Giovanni nel pilastro angolare della galleria In alto il pilastro angolare della galleria nord del chiostro con le figure di san Trofimo, al centro, fra i santi Pietro (a sinistra) e Giovanni. A sinistra particolare del portale con i santi Giacomo Maggiore (a sinistra) e Trofimo. A destra veduta del portale della cattedrale e, in basso, lo schema delle decorazioni.

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Personaggi e interpreti di un capolavoro 1. Cristo benedicente in maestà 2. Angelo, simbolo dell’evangelista Matteo 3. Aquila, simbolo dell’evangelista Giovanni 4. Leone, simbolo dell’evangelista Marco 5. Bue, simbolo dell’evangelista Luca 6. Angeli oranti 7. Tre angeli del Giudizio suonano le trombe che svegliano i defunti 8.Gli apostoli seduti sugli scranni con un libro chiuso 9. Resurrezione dei morti 10. Il corteo degli eletti si dirige verso il Cristo 11. L’angelo conduce l’anima del giusto nel seno di Abramo 12. I tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe portano nel grembo le anime dei giusti 13. Trionfo della Generosità sull’Avarizia 14. L’Arcangelo Michele con la spada fiammeggiante vigila sulla porta del paradiso terrestre 15. Dannati cacciati dal paradiso 16. Il corteo dei dannati si allontana dal Cristo 17. L’inferno 18. Il Leviatano solleva due dannati a testa in giú 19. Lussuria 20. Annunciazione 21. Sogno di Giuseppe 22. Natività 23. Bagno del Bambino 24. Annuncio ai pastori 25. I Magi davanti a Erode 26. Cavalcata dei Magi verso Betlemme 27. Adorazione dei Magi 28. I Magi

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svegliati dall’angelo 29. Fuga in Egitto 30. Strage degli Innocenti 31. San Pietro 32. San Giovanni 33. San Paolo 34. Sant’Andrea 35. San Trofimo 36. Lapidazione di Santo Stefano 37. San Giacomo il Maggiore 38. San Bartolomeo 39. San Giacomo il Minore 40. San Filippo 41. Leone che atterra un uomo 42. Quadrupede 43. Leone, due leoncini e un capro 44. Leone che divora un uomo 45. Un mostro e un quadrupede 46. Leone che divora una vittima 47. Daniele nella fossa dei leoni 48. Leone 49. Leone, arcangelo Gabriele e profeta Abacuc in veste di pellegrino 50. Leone 51. Combattimento tra un leone e un capro 52. Leone 53. Leone attaccato da un centauro 54. Sansone abbatte il leone 55. Sansone e Dalila 56. Il servo di Dalila taglia i capelli a Sansone 57. Leone 58. Ercole rivestito della pelle del toro 59. Leone di Nemea 60. Leone 61. Il peccato originale 62. Pesatura delle anime 63. Ercole e i Cercopi 64. Capitello con quattro angeli 65. Quattro telamoni inginocchiati reggono il pilastro.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

tra il 1100 e il 1152 a ridosso del Foro, su un luogo di culto preesistente (del V secolo) dedicato a santo Stefano protomartire, la chiesa venne in seguito intitolata a Saint-Trophime, in italiano san Tròfimo, un personaggio per la verità piuttosto misterioso, vissuto,

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sembra, nel III secolo e che, secondo la tradizione, fu il primo vescovo di Arles (vedi box a p. 84). Nel corso della sua storia la cattedrale fece da cornice a molti eventi importanti. Nel V secolo fu sede di diversi concili, uno dei quali – nel 475 – si chiuse con la

condanna degli insegnamenti sulla predestinazione del presbitero Lucidus. Quindi, il 17 novembre 597, fu teatro della consacrazione vescovile, da parte dell’arcivescovo Virgilio vicario della Santa Sede in Gallia, di Agostino di Canterbury, tornato ad Arles dopo aver dicembre

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i portali

Di qui si va verso la salvezza

Sulle due pagine il corteo dei dannati si allontana dal Cristo, particolare della decorazione del portale della cattedrale di Saint-Trophime. In alto, a destra un altro particolare della decorazione del portale raffigurante un’immagine infernale: un diavolo trasporta due anime e, fra le sue gambe, una donna nuda cavalca una sorta di dragone.

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Il portale, ovvero un punto di ingresso che separava fisicamente e simbolicamente lo spazio sacro dal resto del mondo «profano» è sempre stato presente in ogni luogo di culto. Ma è con il romanico, poco dopo il Mille, che esso conosce la sua apoteosi e diventa davvero un luogo cruciale per ogni cristiano: è infatti la prima «stazione» che il fedele deve visitare nel percorso spirituale che questi si accinge a compiere verso la salvezza e la redenzione. Un itinerario che si snoda, dopo aver varcato l’ingresso della chiesa, lungo la navata, percorrendo la quale egli può fermarsi a meditare sulle figurazioni scolpite sui capitelli, che con il loro ricco catalogo di santi e diavoli, figure sacre, mostri, esseri demoniaci e animali usciti dai bestiari, incarnano ora la retta via che conduce l’uomo verso la salvezza, ora le deviazioni che viceversa lo portano alla dannazione. Il viaggio si conclude al cospetto del catino absidale, dove il cristiano può contemplare la visione apocalittica del Cristo nel giorno del Giudizio, trionfante e accompagnato dal Tetramorfo, l’immagine biblica composta dai «quattro esseri viventi» simboli degli evangelisti: l’uomo alato (o angelo) per Matteo, il leone per Marco, il toro (o bue, o vitello) per Luca e l’aquila per Giovanni. Il portale è dunque una sorta di «libro aperto», una forma di comunicazione «per immagini» che, proprio come gli affreschi sulle pareti, nel Medioevo svolgeva una funzione educativa e di monito per i fedeli.

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Dossier La strage degli innocenti raffigurata su un capitello della Porta Miègeville della basilica di Saint-Sernin a Tolosa.

fra arte e simbologia

convertito al cristianesimo il re e la regina d’Inghilterra. L’edificio, che ospitò nel 1178 l’incoronazione di Federico Barbarossa a Re di Arles (o delle due Borgogne) e, nel 1365, quella di Carlo IV, colpisce per il suo eccezionale portale, dominato dalla scena del Giudizio Universale, indubbiamente tra i piú alti e suggestivi capolavori della scultura romanica europea (vedi lo schema grafico e le foto alle pp. 84-85).

Una benedizione ideale

Realizzato tra il 1180 e il 1190, esso ricorda nella concezione e nella struttura, cosí come nella grandiosità della visione d’insieme, i grandi archi di trionfo di tradizione classica, mentre il vigore e la densità narrativa dei bassorilievi sembrano riecheggiare quelli delle colonne celebrative di epoca imperiale. Possiamo quasi immaginare i pellegrini che, avviandosi lungo la via Domiziana sul Cammino che li avrebbe portati a Santiago di Compostella, transitavano sotto la facciata della basilica, e, volgendo lo sguardo verso l’alto, ricevevano idealmente la benedizione dal grande Cristo in maestà che troneggia, racchiuso nella consueta mandorla, al centro della lunetta. Il suo aspetto è quello di un re che governa il mondo presente e venturo: siede infatti sul trono, adorato nell’archivolto dagli angeli, sul capo porta la corona e in mano regge il Libro della Vita, contenente i nomi dei giusti. Il rimando apocalittico è evidente anche nella presenza, al suo fianco, dei simboli dei quattro evangelisti, sublimati come di consueto nel Tetramorfo: mentre Matteo (l’Angelo) e Giovanni (l’Aquila) guardano il volto di Cristo, Marco (il Leone) e Luca (il Bue)

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Saint-Trophime e gli altri: i portali nella Provenza romanica Ricco di allegorie e simbolismi, il portale trova la sua massima espressione in due filoni principali: nelle porte in bronzo decorate e nei portali figurati. Le prime erano popolari soprattutto in Germania – esempio celeberrimo è la porta della cattedrale di Hildesheim, realizzata nel X-XI secolo e fra le piú pregnanti manifestazioni dell’arte ottoniana – e in Italia, sia centro-meridionale (citiamo per tutte la Porta di S. Ranieri a Pisa, opera di Bonanno Pisano), sia settentrionale (le porte di S. Zeno a Verona, di squisita influenza germanica). Il filone del portale figurato, trovò la massima espressione e diffusione soprattutto in Francia, con le sue rappresentazioni scultoree monumentali, influenzando ben presto anche le regioni limitrofe a cominciare dall’Italia padana. dicembre

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Il timpano della chiesa abbaziale di Saint-Fortunat a Charlieu. La composizione è dominata da un Cristo in gloria, circondato dagli evangelisti e affiancato dagli apostoli.

Tra i primi esempi (fine dell’XI secolo) troviamo il portale della chiesa di Saint-Sernin (san Saturnino) a Tolosa, importante tappa dei pellegrinaggi verso Santiago di Compostella, che presenta il portale Miégeville (da miéja vila, mezza città), con capitelli finemente scolpiti con raffigurazioni di scene bibliche, quali la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, la Visitazione e la strage degli Innocenti, mentre la lunetta è decorata con l’Ascensione di Cristo circondato da angeli tra i discepoli che lo contemplano con il viso rivolto verso l’alto. Nel transetto sud si trova invece la Porte des Comtes (Porta dei Conti) decorata con rilievi che raccontano la vita del santo patrono e primo vescovo della città, Saturnino, arricchiti da rappresentazioni simboliche della salvezza e del

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peccato, dalla parabola di Lazzaro e del ricco epulone agli ammonimenti contro l’avidità e la lussuria. Negli anni successivi, i portali francesi divennero sempre piú articolati. Il timpano della chiesa abbaziale di Saint-Fortunat a Charlieu, per esempio, ospita un Cristo in gloria, circondato dagli evangelisti e affiancato dagli Apostoli, in una scena che rimanda alla Parusia (o Seconda venuta) e al Giudizio Finale. Il soggetto, un tempo confinato all’abside, si trasferisce cosí sulla facciata, inaugurando un uso piú didattico e «drammatico» del portale, pensato per istruire e impressionare i fedeli. Dal 1120 in poi, l’architettura dei portali evolve ancora, arricchendosi di nuovi elementi come il «trumeau», il (segue a p. 90)

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Il trumeau (pilastro centrale che sorregge l’architrave) del portale sud dell’abbazia di Saint-Pierre a Moissac.

pilastro centrale che sostiene l’architrave. Questa innovazione permette di espandere i timpani, ospitando programmi iconografici piú articolati e complessi, quasi sempre incentrati sul Giudizio Finale. Ne è un esempio il timpano meridionale della chiesa di Saint-Pierre a Moissac, che ospita un imponente Cristo circondato da angeli, dai simboli degli evangelisti e dai 24 vegliardi dell’Apocalisse, in una rappresentazione quasi miniaturistica della visione dell’apostolo Giovanni a sottolineare l’importanza del Giudizio e della redenzione. Altrettanto complesse sono le raffigurazioni dei portali di Saint-Lazare ad Autun, di Sainte-Foy a Conques – dove il paradiso e l’inferno sono resi in modo particolarmente vivido e dettagliato – e nella chiesa di Santa Maria Maddalena di Vézelay, in

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Borgogna, ancor piú originale perché sulla parete divisoria fra nartece e piedicroce si aprono ben tre portali con lunette scolpite: quella del portale centrale (1125-1130) raffigura Cristo in trono che trasmette lo Spirito Santo agli Apostoli; quella di destra, l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività di Gesú e l’Adorazione dei Magi; infine quella del portale di sinistra, l’Ascensione e la Cena di Emmaus. Una curiosità: la vivacità di alcune di queste lunette – in particolare quelle della cattedrale di Moissac – cosí come del timpano di Vézelay hanno ispirato, nel Nome della rosa di Umberto Eco (e nella sua trasposizione cinematografica a opera del regista francese Jean-Jacques Annaud), la descrizione che il novizio Adso fornisce del portale della misteriosa abbazia in cui è ambientato il romanzo.

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La lunetta del portale centrale della chiesa di S. Maria Maddalena a Vézelay, in Borgogna. Raffigura Cristo in trono che trasmette lo Spirito Santo agli Apostoli.

volgono lo sguardo verso il basso, in quanto, a differenza degli altri due, in vita non conobbero Gesú. La sacra rappresentazione continua sotto la Maiestas Domini, con la teoria dei dodici Apostoli seduti sui loro troni, testimoni della Resurrezione, ai lati dei quali si dipana la storia dell’umanità dal Peccato originale, commesso da Adamo ed Eva nell’Eden, fino all’Ultimo Giorno. Qui passano, come su un nastro, due cortei dal destino opposto: alla destra di Cristo, quindi sul lato sinistro per chi guarda, ecco i beati guidati da un angelo che presenta l’anima di un giusto – rappresentata sotto forma di bambino – ai tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. Sulla destra di chi guarda, quindi alla sinistra di Cristo, c’è invece il trionfo della Generosità sull’Avarizia, l’arcangelo Michele che rifiuta l’ingresso ai reprobi e il loro mesto corteo che si avvia inesorabilmente verso le tenebre e l’inferno. Tra le tante figure colpisce e spaventa quella, mostruosa, del Leviatano, che solleva due dannati a testa in giú per poi divorarli. Sotto la trabeazione un secondo fregio, di altezza inferiore, è dedicato all’infanzia di Cristo: sul lato sinistro – sempre per chi guarda – si riconoscono l’Annunciazione, il sogno di Giuseppe, la cavalcata dei Magi, la strage degli innocenti e la fuga in Egitto; sul lato destro invece il bagno di Gesú Bambino, la Natività, l’adorazione dei Magi, i Magi risvegliati dall’angelo e l’annuncio ai pastori. Al centro del portale, sul pilastro in granito che sorregge la struttura (trumeau) quattro angeli rivolti verso le quattro direzioni. Infine, nel registro piú basso, le figure monumentali di alcuni degli Apostoli – Pietro, Giovanni Evangelista, Giacomo Maggiore, Bartolomeo, Paolo, Andrea, Giacomo Minore e Filippo – e dei due patroni della chiesa arlesiana: Trofimo in veste di vescovo e Stefano,

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Nella pagina accanto uno scorcio degli Alyscamps, la necropoli di Arles situata poco fuori le mura della città, lungo la via Aurelia. Fu luogo di sepoltura di importanti personaggi, in epoca romana e medievale. In basso, sulle due pagine sarcofago paleocristiano sul quale è raffigurato a rilievo il passaggio del Mar Rosso e riutilizzato come paliotto d’altare della cappella di S. Genesio, nella cattedrale di Saint-Trophime.

quest’ultimo rappresentato durante il martirio per lapidazione, nel momento esatto in cui l’anima, abbandonando il corpo, viene accolta da due angeli che la introducono in Paradiso sotto lo sguardo del Padre.

Un cimitero illustre

L’interno della cattedrale di SaintTrophime, con la sua cupola sormontata dal massiccio campanile

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romanico a sezione quadrata, alto 42 m, è austera e solenne nelle sue forme gotiche, che custodiscono come uno scrigno tre preziosi sarcofagi paleocristiani. Il piú antico, risalente al IV secolo, venne reimpiegato come fonte battesimale. Un secondo, di poco piú recente e raffigurante il Passaggio del Mar Rosso, fu riutilizzato come paliotto d’altare della cappella di S. Genesio. Infine l’ultimo, realizzato nel V secolo per l’amministratore provinciale delle Gallie Paulus Geminus, raffigura sotto tre grandi arcate il Cristo in trono in posizione centrale e, ai lati, gli apostoli Pietro e Paolo (o, secondo un’altra interpretazione, lo stesso Geminus mentre adora il Vangelo e la Croce). Questi sarcofagi in marmo, di grande qualità artistica, provengono da un altro dei luoghi-simbolo

della Arles romana e medievale: l’Alyscamps, «i Campi Elisi», la vasta necropoli situata appena fuori dalle mura lungo l’antica via Aurelia. Per secoli ospitò le sepolture dei personaggi eminenti della città, dapprima pagani e poi cristiani, come ancora oggi si può dedurre dall’impressionante numero di sarcofagi conservati ed esposti. Nel Medioevo divenne un’imprescindibile meta di pellegrinaggio e la sua fama era tale che Dante la evoca insieme all’istriana Pola nel IX Canto dell’Inferno (112-120) come paradigma per illustrare al lettore l’eccezionale profusione di tombe disseminate nella Città di Dite: «Sí come ad Arli, ove Rodano stagna / sí com’a Pola, presso del Carnaro, / ch’Italia chiude e suoi termini bagna, / fanno i sepulcri tutt’il loco varo, / cosí facevan quivi d’ogne parte, / salvo che

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’l modo v’era piú amaro; / ché tra gli avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sí del tutto accesi, / che ferro piú non chiede verun’arte». L’autore della Commedia era probabilmente al corrente dell’aspetto della necropoli di Arles grazie al duecentesco Roman de SaintTrophime, poema composto negli anni 1221-1226 in versi provenzali (lingua che Dante conosceva molto bene). Secondo gli Otia imperialia di Gervasio di Tillbury (1145/11551220 circa), inoltre, il cimitero era stato fondato proprio dal protovescovo di Arles, del quale ospitò la sepoltura fino alla traslazione nella cattedrale il 29 settembre 1152. Il luogo aveva una particolarità miracolosa, dice il cronista: «Nessun cadavere posto in una bara può oltrepassare l’estremo sobborgo della città di Arles (chiamato La Roquette), non im-

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porta quanto forte sia la forza dei venti o delle tempeste che lo sospingono; esso gira in cerchio nell’acqua, rimanendo sempre entro il confine, fino a raggiungere la riva o a essere trascinato sulla riva del fiume per essere portato nel santo cimitero». Per questa ragione i corpi dei defunti venivano «inviati da regioni lontane sull’acqua del fiume Rodano, in botti o bare catramate, con del denaro sigillato all’interno, destinato come elemosina per questo santissimo cimitero». Esso divenne quindi «il luogo di sepoltura preferito dai principali governanti secolari e dal clero della Gallia» e tra loro anche i nobili cristiani morti da eroi combattendo i Saraceni nella regione dei Pirenei – la memoria corre alla celebre battaglia di Roncisvalle – o delle Alpi Pennine, le cui gesta riecheggiano nella Chanson dicembre

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A sinistra sarcofago paleocristiano reimpiegato come fonte battesimale nella cattedrale di Saint-Trophime. IV sec. In basso, sulle due pagine particolare del sarcofago di Paulus Geminus: sotto tre grandi arcate, il Cristo in trono, tra gli apostoli Pietro e Paolo (o, secondo un’altra interpretazione, lo stesso Geminus mentre adora il Vangelo e la Croce). V sec. Arles, cattedrale di Saint-Trophime.

de Roland: «Venivano trasportati, alcuni su carri semplici, altri su carri da guerra, pochi a cavallo, e molti seguendo la corrente del Rodano, fino a questo cimitero chiamato “Les Aliscamps”: Viviano, il conte Bertrand, Astolfo e innumerevoli altri uomini famosi riposano lí».

Il chiostro

L’aulica «romanità» di Arles, cosí viva e palpitante nei bassorilievi dei sarcofagi degli Alyscamps, si riverbera però non solo, come accennato, nelle raffigurazioni del portale di Saint-Trophime, ma anche nello splendido chiostro che fungeva da collegamento tra la chiesa, la sala capitolare e il

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dormitorio nel quale riposavano i canonici della cattedrale. Iniziato poco dopo il 1150 e completato alla fine del XIV secolo, nasce da una commistione di stili – romanico e gotico – che ne fa un «ibrido» originale e di grande fascino. Il capitolo cessò di esistere nel 1455, aprendo la strada alla trasformazione delle gallerie del chiostro, ormai inutilizzato, in magazzino e quindi, dopo la Rivoluzione francese, in abitazioni private; la stessa cattedrale di Saint-Trophime subí l’onta della trasformazione in Tempio della Dea Ragione, prima di essere riaperta al culto cattolico nel 1801, purtroppo gravemente spogliata. Ma nonostante gli affronti e le distruzioni subite, il complesso è sopravvissuto fino ai giorni nostri e dopo impegnativi restauri, nel 1981 è entrato, insieme ai monumenti romani e romanici di Arles, a far parte del Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Anche qui ci troviamo di fronte a un «libro di pietra» che ha lo scopo di edificare ma al tempo stesso esaltare la storia della Chie-

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sa provenzale, celebrandone e glorificandone le figure emblematiche e fondanti sin dalla sua nascita. La galleria nord del chiostro, la piú antica (XII secolo) e piú puramente romanica, si apre infatti con il pilastro angolare istoriato con la figura di san Trofimo tra gli apostoli Pietro (di cui, secondo la leggenda, Trofimo era seguace) e Giovanni, che ne certificano il prestigio e l’autorevolezza. Dalla parte opposta della galleria, in posizione simmetrica, troviamo sull’altro pilastro santo Stefano (affiancato dagli apostoli Andrea e Paolo), al quale la precedente

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chiesa paleocristiana era dedicata: si celebra cosí, anche nel marmo, l’ideale passaggio di consegne tra il patrono antico e quello nuovo, sacralizzando una continuità che ricollega la fondazione della cattedra di Arelate direttamente sulla solida pietra della purezza militante del cristianesimo delle origini. Sugli altri pilastri troviamo le suggestive raffigurazioni del Cristo risorto in veste di viandante accompagnato da due pellegrini di Emmaus – con bastone, bisaccia e cappello con la conchiglia, che alludono al pellegrinaggio a Compostella di cui Arles era tappa –,

Sulle due pagine altri particolari della ricca decorazione scultorea del chiostro di Saint-Trophime. In alto, capitello raffigurante la Natività; nella pagina accanto, pilastro raffigurante il Cristo risorto, in veste di viandante, accompagnato da due pellegrini di Emmaus: i personaggi hanno il bastone, la bisaccia e il cappello con la conchiglia, a evocare il pellegrinaggio a Santiago di Compostella, di cui Arles era una tappa.

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Nella pagina accanto una delle gallerie del chiostro di Saint-Trophime. A destra particolare di un pilastro del chiostro di Saint-Trophime raffigurante l’Ascensione e l’apostolo Paolo.

quella del Signore risorto che mostra i segni della Passione (le ferite inferte dai chiodi e dalla lancia) all’incredulo apostolo Tommaso sotto lo sguardo del «collega» Giacomo maggiore.

Condanna e perdono

Seguono le galleria est (fine del XII secolo) e quelle sud e ovest, trecentesche e in stile gotico. Di queste ultime colpiscono in particolare, nella galleria sud, i capitelli ispirati al già citato Roman de SaintTrophime, poema intriso di valori cavallereschi. Oltre a Cristo che benedice il cimitero di Alyscamps alla presenza di Trofimo, viene infatti illustrato l’episodio di un giovane cavaliere condannato a morte da Carlo Magno in persona insieme a nove suoi parenti per aver schiaffeggiato l’arcivescovo Turpino. Mentre gli uomini agonizzano sulla forca, la Grazia divina si manifesta per intercessione di Trofimo: di fronte al portentoso evento, Carlo non può far altro che concedere il suo perdono. Il prodigio, magnificamente istoriato nella pietra, è solo un tassello di quel miracolo ancora piú grande che è il chiostro di SaintTrophime: una perfetta sintesi tra sacro e profano che incarna, insieme con il portale della sua cattedrale, una delle espressioni piú alte, emblematiche e sublimi dello spirito e della sensibilità medievale. Si ringraziano per la collaborazione alla realizzazione del dossier: Provence Tourisme (www.myprovence. fr), la Camera di Commercio Italiana per la Francia di Marsiglia (www.ccifmarseille.com) e il Conseil Departemental des Bouches-di-Rhone (www. departement13.fr)

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CALEIDO SCOPIO

Anonimo e sfortunato di Niccolò Orsini De Marzo

ARALDICA • È questa la sorte toccata all’autore dei pregevoli disegni dei blasoni

riuniti nello Stemmario Archinto. Alcune delle cui carte, trafugate molti anni fa, sono state rintracciate, mentre altre del medesimo araldista sono emerse recentemente Sulle due pagine le carte che qui si propone di assegnare a un Maestro dello Stemmario Archinto, per via delle affinità con le pagine dell’opera suddetta, realizzata nel XVI sec. e cosí battezzata dal nome del nobile milanese Ottavio Archinti. Ogni pagina delle carte contiene nove stemmi, accompagnati, in capo, dal nome del titolare.

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e nell’intervento precedente ho avuto la gioia di poter annunciare l’acquisizione da parte di una benemerita istituzione perugina di un importante nucleo di documenti araldici pergamenacei afferenti all’amministrazione di quel Comune in epoca bassomedievale (vedi «Medioevo» n. 334, novembre 2024; on line su issuu.com), compaiono talvolta sul mercato antiquario opere che possono suscitare qualche preoccupazione circa la legittimità della loro provenienza. Potrebbe essere questo il caso di tre «pagine di manoscritto» incluse nel catalogo della vendita Aste Bolaffi tenutasi a Torino il 23 novembre 2023. Ciascuna delle tre carte (33 x 22 cm) reca, sia sul recto che sul verso, nove stemmi elegantemente delineati e colorati a mano, ognuno dei quali è accompagnato, in capo, dal nome del titolare, vergato in elegante scrittura corsiva. Lo stile con cui erano delineati gli stemmi e la grafia

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dei cognomi, infatti, subito mi evocò quelli del cosiddetto Stemmario Archinto, un importante codice manoscritto cinquecentesco di simili dimensioni che prende nome dal nobile milanese Ottavio Archinti – insignito nel 1634 del titolo di conte di Barate –, poi confluito nelle raccolte di Vittorio Emanuele II e ora nella Biblioteca Reale di Torino.

Una somiglianza sospetta L’opera raffigura 4815 stemmi di famiglie latamente lombarde, da cui diversi decenni fa una mano per certo furtiva aveva sottratto ben sei carte, poi finite per chissà quali vie a Lugano: nel dubbio, mi affrettai dunque a segnalare tale possibilità all’amico Cristiano Collari, all’epoca in forze alla suddetta casa d’aste, che, svolte le opportune verifiche sul suddetto codice, ritenne prudente segnalare il mio dubbio alle autorità preposte alla tutela. Mi resi disponibile per ogni evenienza, e, naturalmente,

nel frattempo il lotto fu ritirato prudenzialmente dalla vendita. A parte la coincidenza stilistica con il suddetto Stemmario Archinto, infatti, era stato il precedente furto dal medesimo a mettermi in allarme: avrebbe infatti ben potuto trattarsi di altra opera dello stesso anonimo araldista, improvvidamente slegata da qualche commerciante di antichità per agevolarne la vendita e realizzare un maggior guadagno totale, un espediente purtroppo frequente, per quanto assai deprecabile. A ogni modo, una veloce verifica effettuata sulle blasonature redatte dal compianto Carlo Maspoli dello Stemmario Archinto, da me pubblicate in volume (Stemmario Archinto. Blasonature, a cura di Carlo Maspoli, Milano 2014) diede un risultato curioso: due delle carte del lotto ripetevano infatti esattamente altrettante carte dello Stemmario Archinto blasonate dal compianto studioso ticinese, mentre la

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CALEIDO SCOPIO A sinistra e nella pagina accanto altre immagini delle carte di mano dell’artista del cinquecentesco Stemmario Archinto. Nella pagina accanto, in basso la sezione del portale Lugano Cultura dedicata allo Stemmario Archinto.

terza non figurava nell’opera del Maspoli. Si trattava quindi di carte provenienti da un differente manoscritto?

Fra Italia e Svizzera Uno studioso vissuto a cavallo fra Otto e Novecento, il sacerdote don Carlo Santamaria, aveva invece, nel 1926, pubblicato nell’Archivio

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Storico Lombardo un saggio dal titolo Stemmi comunali lombardi: ciò aveva permesso a Maspoli di identificare con certezza come appartenenti all’Archinto le sei carte conservate nell’Archivio Patriziale di Lugano per quelle un tempo legate al termine del primo volume del codice torinese, raffiguranti 84 stemmi di comunità

dell’Italia Settentrionale, di terre ora nel Canton Ticino, e delle sei porte di Milano: esse sono consultabili sul sito di Lugano Cultura (www.luganocultura. ch/oggetti/106221-stemmarioarchinto), mentre sono state raffigurate e blasonate da Maspoli, nell’opera succitata, nel capitolo significativamente intitolato Carte dicembre

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rubate (Stemmario Archinto; pp. 597618). Mi affrettai naturalmente a segnalare il fatto alla Direzione della Biblioteca Reale di Torino, e fui quindi convocato dal Nucleo dei Carabinieri preposti alla Tutela del Patrimonio Culturale: mi auguro che la giustizia faccia il suo corso, e le carte rubate possano infine esser ricongiunte al manoscritto originario, come logico.

La conoscenza come prevenzione Nelle more, possiamo limitarci ad ammirare la perizia araldica dell’anonimo Maestro dello Stemmario Archinto (come mi piace «battezzarlo», nella speranza che emerga ulteriore sua produzione!), confrontando le pagine ritirate dall’asta e qui raffigurate con quelle ancora visibili sul suddetto sito, nell’attesa di un’auspicabile pubblicazione del codice torinese nella sua interezza (per cui mi ero a suo tempo fatto

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avanti: un progetto che vorrei riprendere in mano anche in memoria dell’amico Maspoli): a parte rendere disponibile a un piú vasto pubblico di appassionati,

e non solo agli happy few, un importante stemmario lombardo, ciò, come in altri casi, svolgerebbe anche la funzione – evidentemente per nulla superflua – di antifurto…

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Quando i santi prendevano le armi

Decapitare non basta di Paolo Pinti

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iniato appartiene alla categoria dei santi cefalofori, caratterizzati cioè dal fenomeno miracoloso (molto miracoloso) di avere raccolto la propria testa dopo essere stati decapitati (il termine cefaloforia deriva dal greco kefalos, «testa», e phoreo, «porto»). Di lui si sa ben poco e quel poco è spesso contraddittorio e privo di basi attendibili. Secondo una tradizione, era un soldato romano, mentre per altre era addirittura un re armeno, casualmente passato per Firenze e lí martirizzato nel 250 circa, durante la persecuzione cristiana di Decio (imperatore dal 249 al 251). Per altri, si trattava di un cittadino fiorentino di bassa estrazione sociale, forse di origine greca, giustiziato vicino a un’ansa dell’Arno e diventato poi conosciuto solo dopo molti secoli, con dovizia di aneddoti e particolari fantasiosi. Infine, si pensa che Miniato sia un personaggio derivato dal culto di san Mena, martire egiziano del quale erano venerate le reliquie in S. Miniato al Monte, come si legge in un diploma del 786 di Carlo Magno («basilica martiris Christi Miniatis, sita Florentie, ubi eius venerabile corpus requiescit»). Pur essendo tutt’altro che provata una qualsiasi ipotesi sulla sua vita, non mancano minuziose descrizioni della sua morte, peraltro ricalcate su quelle di altri martiri. Sappiamo a memoria che, di norma, i santi erano sottoposti alle torture piú feroci e complicate, dalle quali uscivano indenni, per poi morire decapitati: sembra che la

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Sulle due pagine San Miniato e storie della sua vita, dipinto su tavola di Jacopo del Casentino. 1320. Firenze, basilica di S. Miniato a Monte. È il dipinto piú famoso riguardante san Miniato: con la mano sinistra tiene il ramo di palma, che simboleggia i martiri, mentre con la destra impugna quella che potrebbe sembrare, a prima vista, una spada, ma priva di fornimento ed è omogenea per l’intera lunghezza. Si tratta di una «bacchetta», che si ritrova anche in altre opere. Nel particolare in questa pagina, una linea rossa attraversa la fronte del santo, segno che forse l’artista volle rappresentare la versione del martirio secondo la quale Miniato non fu ucciso dal colpo di spada del carnefice, ma riuscí a trascinarsi fino al Mons Florentinus, il colle sul quale morí e dove oggi sorge la chiesa a lui intitolata.

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CALEIDO SCOPIO Come già detto, appartiene dunque alla schiera, non particolarmente folta, dei santi cefalofori, che dopo il supplizio della decapitazione vollero raccogliere la propria testa, portandola in un luogo determinato. Ricordiamone alcuni: Emidio, Giusto di Novalesa, Regolo, Nicasio di Reims, Dionigi di Parigi. Osservando con attenzione la tavola cuspidata attribuita a Jacopo del Casentino, conservata nella basilica di S. Miniato (vedi foto a p. 104), composta da otto storie del santo, vediamo che, nel riquadro in basso, sulla destra, Miniato ha la corona del martirio in testa e la fronte – non il collo – attraversata da una sottile linea rossa (vedi foto a p. 105). Possiamo ipotizzare che l’artista abbia voluto rappresentare una versione del martirio secondo la quale il colpo di spada del carnefice, non fu mortale e che il santo riuscí a trascinarsi fino al colle, dove morí.

La spada, la palma e la bacchetta

Storie della vita di Cristo con i santi Giovanni, Gualberto e Miniato, dipinto su tavola di Agnolo Gaddi. 1394-1396. Firenze, basilica di S. Miniato al Monte. Qui san Miniato appare senza spada, in abiti lussuosi ma non regali, con in mano il ramo di palma, quello che sembra un giglio e la «bacchetta», che lo qualifica come «guida spirituale». spada fosse il solo mezzo capace di uccidere questi martiri. Anche nel film Highlander, di Russell Mulcahy e con Christopher Lambert, per uccidere un immortale non si poteva far altro che decapitarlo. Non senza disincanto, verrebbe dunque da credere che il soccorso divino fosse in grado di salvare i martiri dalle torture piú efferate, ma nulla potesse di fronte a una spada.

Supplizi in crescendo Miniato sopravvisse nonostante fosse stato messo in un forno arroventato; si liberò dai ceppi che lo traevano sul cavalletto (strumento di tortura che ha avuto

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un duraturo successo/impiego); ammansí col segno della Croce, o uccise – la cosa non è chiara –, un leone (per alcuni era un leopardo) che doveva sbranarlo; uscí indenne dal piombo fuso che gli venne colato sugli occhi e in bocca, addirittura trovando refrigerio da questo metallo ardente, come se «fosse rugiada». Infine, secondo un copione ampiamente collaudato, fu decapitato. Ma il santo si rialzò subito dopo, raccolse la propria testa e si diresse verso l’Arno, che traversò a guado, per poi raggiungere il Mons Florentinus, dove morí: e lí, oggi, sorge la splendida chiesa di S. Miniato al Monte.

Sappiamo, quindi, che Miniato venne decapitato e che lo strumento del suo martirio è la spada: eppure, pur figurando fra i suoi attributi/simboli, non è facile trovarla da lui impugnata nei dipinti che lo ritraggono. È un fatto difficilmente spiegabile, perché in numerosi casi l’arma del martirio è posta vicino al ramo di palma del martire, contribuendo cosí a identificarlo, ma, altrettanto spesso, non compare: perché questa discriminazione? Eppure nelle scene del martirio, i dipinti raffigurano sempre l’arma, vicino al santo ovvero nelle mani del carnefice, confermando la tradizione che lo voleva ucciso con questa. Tuttavia, non sempre figura fra i suoi attributi/simboli. Un apparente mistero, insomma, al pari della presenza di una «bacchetta» nelle sue mani, come nell’Assunzione della Vergine tra i santi Miniato e Giuliano (14491450) di Andrea del Castagno dicembre

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Assunzione della Vergine tra i santi Miniato e Giuliano, dipinto su tavola di Andrea del Castagno. 1449-1450. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. San Giuliano è il personaggio sulla sinistra di chi guarda, con la spada che simboleggia il suo status di cavaliere, mentre Miniato, sulla destra, è senza ramo di palma e impugna una bacchetta, non la spada, che pure gli competerebbe come attributo, essendo stato martirizzato con tale arma.

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(vedi foto a p. 107), nel già citato dipinto di Jacopo del Casentino in S. Miniato al Monte di Firenze e nel polittico di Agnolo Gaddi, Storie della vita di Cristo con i santi Giovanni, Gualberto e Miniato (1394-1396), anch’esso custodito nella basilica di S. Miniato al Monte. Il mistero della bacchetta, tuttavia, si svela sapendo che la stessa indica una «guida spirituale», di solito un vescovo, per il gregge dei fedeli: Miniato, che vescovo non era, è visto appunto come «guida» per i cristiani e di qui il simbolo della bacchetta, definita in inglese «crozier» al pari del pastorale.

Nella Bibliotheca Sanctorum (o Enciclopedia dei Santi, un’opera ideata nel clima del Concilio Vaticano II, la cui stesura ha impegnato per un decennio circa 300 studiosi, n.d.r.) non si fa cenno a questa «bacchetta», né se ne trovano riferimenti nei testi consultati da chi scrive: eppure, costituisce un vero e proprio attributo di san Miniato, che teoricamente si riferisce a un episodio della vita del santo. Veniva, quindi, da pensare a una verga con la quale fu percosso, ma tale tortura non figura fra quelle note sul suo conto. Mistero, alla fine, svelato.

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Nemici ma non troppo LIBRI • Nel Medioevo il soglio di Pietro si trova a piú riprese al centro di contese

accanite. Dalle quali può non sempre uscire un solo vincitore, e a rivendicare il titolo di papa ci sono due o perfino tre candidati: nasce cosí la figura dell’antipapa, a cui è dedicato un recente saggio di Mario Prignano, che abbiamo incontrato

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iornalista, membro della Società Italiana per la Storia Medievale e dell’Associazione italiana dei professori di Storia della Chiesa, Mario Prignano si è cimentato con il fenomeno degli antipapi. Una vicenda che connota il millennio medievale e che scaturisce dal fatto che monarchi, alti prelati, nobili e anche la gente comune si chiesero talvolta chi fosse davvero il titolare del soglio di Pietro tra coloro che si proclamavano tali. Succedeva infatti spesso che, dopo la regolare elezione di un papa, ne venisse nominato «abusivamente» un altro, dalle vedute politiche opposte

e appoggiato da influenti gruppi di potere, da regnanti e anche da ecclesiastici scismatici. Abbiamo dunque incontrato l’autore del volume Antipapi. Una storia della Chiesa, appena pubblicato per i tipi di Laterza. Prignano, chi erano gli antipapi? «Secondo il Dizionario storico del papato (Bompiani, 1996) antipapa è “chiunque abbia assunto il nome di pontefice e abbia esercitato o preteso di esercitarne le funzioni senza fondamento canonico”. Dall’Annuario pontificio apprendiamo che ce ne furono ben trentasette, tutti concentrati nei primi quindici secoli di vita della Chiesa. Tutto chiaro? Nemmeno per idea. Perché, soprattutto per i primi mille anni, è molto problematico definire con precisione i contorni di quel “fondamento canonico” di cui parla il Dizionario, tanto che lo stesso Annuario pontificio avverte che di quei trentasette antipapi qualcuno potrebbe essere considerato legittimo. Può sembrare strano. Ma bisogna considerare che per la Chiesa ciò che conta davvero è l’autenticità del messaggio evangelico trasmesso al mondo, il rispetto delle norme elettorali viene dopo. Detto questo, prima

di rispondere alla sua domanda, occorre forse chiedersi come avveniva l’elezione papale». Qual era dunque la procedura? «Fino al 1059 il vescovo di Roma, scelto tra i membri piú autorevoli della comunità, veniva eletto per acclamazione dal popolo. Se i candidati erano piú di uno, poteva succedere che gli altri si ritirassero. Oppure no. E allora il popolo si spaccava in due, acclamando due vescovi contemporaneamente. Chi aveva ragione? Difficile stabilirlo, perché anticamente, piú delle regole, poche e variamente interpretabili, valeva il rispetto della tradizione. E la tradizione diceva, per esempio, che l’elezione avvenuta a S. Giovanni in Laterano “valeva” piú di una elezione avvenuta in una basilica minore. Ma diceva anche che l’elezione avvenuta prima “contava” di piú; che il pontificato iniziava solo dopo la consacrazione del neoeletto, e cosí via. Per alcuni secoli fu necessaria anche l’approvazione dell’imperatore: una complicazione non da poco soprattutto dopo il trasferimento della capitale da Roma a Costantinopoli. Risultato: nel primo millennio si contano almeno diciotto elezioni contrastate

A sinistra ritratto di Benedetto IX (al secolo, Teofilatto dei conti di Tuscolo), eletto papa per ben tre volte: nel 1033, nel 1045 e nel 1047. Nella pagina accanto ritratto di papa Gregorio VII (al secolo Ildebrando Aldobrandeschi), in opposizione al quale, nel 1080, fu eletto l’antipapa Clemente III, olio su tela di Giuseppe Franchi. 1600-1624. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante l’antipapa Innocenzo III (al secolo, Lando di Sezze), da un manoscritto latino. XII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. casi, del partito imperiale in Italia. Segno che il collegio dei cardinali era molto piú permeabile alle pressioni esterne di quanto sperasse Niccolò II».

e, inevitabilmente, altrettanti antipapi». Che cosa accadde dopo il 1059? «Nel 1059 un papa molto coraggioso, Niccolò II, ridusse il “corpo elettorale” dall’intero popolo di Roma al gruppo ristrettissimo costituito dal collegio dei cardinali. Lo fece per troncare alla radice le interferenze delle famiglie aristocratiche dell’Urbe, interessate a favorire l’ascesa di questo o quel membro del proprio clan. Non è

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vero, come si sente dire ancora oggi, che Niccolò intese estromettere l’imperatore dalle dinamiche legate all’elezione del papa. Il suo fu un tentativo di sottrarre il vescovo di Roma agli appetiti dei baroni. Ma le tensioni, le doppie elezioni e gli scismi continuarono piú di prima». el secolo successivo vi furono N molti antipapi… «Nel corso del 1100 se ne contano ben undici, espressione sia dei potentati romani sia, in alcuni

uesti antipapi erano Q personaggi negativi? «La parola “antipapa” evoca ancora oggi l’idea di qualcuno che trama nell’ombra, un nemico dei cristiani al servizio di forze oscure, quasi un anticristo. Ma si tratta di un cliché senza alcun fondamento. Gli antipapi erano uomini di Chiesa né piú né meno dei papi legittimi. Tra di essi vi furono personalità di grande spessore, grandi riformatori, autorevoli teologi e canonisti. La fama di santità di Clemente III, eletto nel 1080 in opposizione a Gregorio VII, preoccupò a tal punto i papi che lo ebbero come rivale che la sua tomba dovette essere distrutta e le sue ossa gettate nel Tevere. Un altro, Ippolito, vissuto nel III secolo, è tuttora venerato come santo e martire. Nel 1130 Anacleto II creò dal nulla il regno di Sicilia, che tanta parte ha avuto nella storia d’Italia e d’Europa fino al 1870. Perché sono divenuti antipapi? Perché hanno perso. E hanno perso per i motivi piú disparati: perché sostenitori di posizioni teologiche minoritarie; perché chi li aveva appoggiati ha cambiato politica; perché sconfitti sul campo di battaglia. Oppure perché, come ha detto una volta Glauco Maria Cantarella di Anacleto II, hanno commesso l’imperdonabile errore di morire prima del rivale. Se si vogliono ricostruire le loro storie in modo serio, si deve fare attenzione a non cadere nella trappola mentale di chi sa già come è andata a finire. Alcuni storici hanno proposto per dicembre

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questo di mettere al bando la parola antipapa, che anticipa un giudizio maturato solo a posteriori. Ma è un’operazione assai complicata».

città. La sua storia spiega a sufficienza perché nel 1059 Niccolò II restrinse ai soli cardinali il diritto di eleggere il papa».

agli antipapi cosa possiamo D capire sulla storia della Chiesa? «Moltissimo. I pochi libri in circolazione, oltre ad avere una posizione pregiudizialmente contraria alla “categoria”, si risolvono tutti in elenchi di biografie separate le une dalle altre. La mia ipotesi, invece, è che non solo la storia della Chiesa in quanto tale ma anche il formarsi della sua stessa identità nonché, su un piano pratico, le norme che le hanno consentito di reggere tanto a lungo l’urto del tempo, non possono comprendersi senza guardare con occhi nuovi a questi personaggi».

el 1378 lo stesso collegio N cardinalizio elesse due papi, Urbano VI e Clemente VII. «È per questo che quello scisma rappresenta un unicum nella storia della Chiesa. Oggi la Chiesa non ha dubbi sulla legittimità di Urbano VI e considera antipapa Clemente VII. Ma allora la cristianità piombò in un caos mai visto. Per dirimere la questione, alcuni re organizzarono grandiosi processi con centinaia di testimoni tra cardinali, ambasciatori, curiali, guardie pontificie e semplici cittadini romani. Non serví a nulla, se non a lasciarci una descrizione straordinariamente colorita e dettagliata di quella doppia elezione. Se ne venne a capo solo dopo 39 anni e dopo un concilio che fece tabula rasa dei papi rivali, che nel frattempo erano diventati addirittura tre».

ome mai nell’Annuario pontificio C Benedetto IX compare tre volte? «È una storia che sembra tagliata per una serie TV sul tipo del Trono di spade. Nel 1044, Benedetto IX, della famiglia dei Tuscolani, cade vittima di una congiura ordita dai Crescenzi, che al suo posto insediano Silvestro III. Passano tre mesi e Benedetto caccia Silvestro e riprende il trono di Pietro. Ci resta poco però, perché decide di rinunciarvi (sí, c’è stato un altro Benedetto che si è dimesso prima di Ratzinger) a favore di un tale che probabilmente lo ha pagato per prendere il suo posto e che si chiamerà Gregorio VI. Anche questo papa però dura poco, cosí come il suo successore, Clemente II. Con il campo di nuovo libero, nel 1047 Benedetto torna papa per la terza volta. Ci proverebbe anche una quarta se, dopo essere stato di nuovo cacciato e sostituito con un altro prelato anch’egli morto anzitempo, non incontrasse la violenta ostilità dei Romani che non lo sopportano piú e, con l’aiuto dell’imperatore Enrico III, lo allontanano dalla

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uali meriti possiamo Q riconoscere all’antipapa Giovanni XXIII? «Giovanni XXIII fu uno dei tre pontefici in cui si era divisa la cristianità a partire dal 1409. Ebbe il merito di indire il concilio che ho appena citato, a Costanza nel 1414, e di recarvisi nonostante avesse compreso che lí sarebbe stato giubilato. Deposto d’autorità, finí in prigione, ma venne riabilitato da Martino V che nel 1419, a scisma ormai concluso, lo creò cardinale per compensarlo del suo coraggio». erché papa Roncalli P cinquecento anni dopo prese lo stesso nome? «Per un garbuglio giuridico. La legittimità del primo Giovanni XXIII derivava da un concilio tenutosi a Pisa nel 1409 che aveva deposto i due papi litiganti e ne

Mario Prignano Antipapi. Una storia della Chiesa Editori Laterza, Bari-Roma, 248 pp. 19,00 euro ISBN 9788858155172 www.laterza.it

aveva eletto un terzo, sperando cosí di risolvere lo scisma (che invece si complicò ulteriormente). Oggi la Chiesa considera il concilio di Pisa non rappresentativo dell’intera cristianità. Di conseguenza considera illegittimi i suoi frutti, compreso il papa che ne fu espressione. Ecco perché Roncalli si chiamò Giovanni XXIII e non XXIV». ome mai dal XVI secolo C il fenomeno degli antipapi diventa irrilevante? «È una domanda che mi sono posto anch’io. Di certo, dal Cinquecento il papa somiglia sempre piú a un sovrano rinascimentale, mentre i cardinali, responsabili degli scismi degli ultimi quattro secoli, perdono influenza e potere effettivo. Ma è solo un’ipotesi. Per rispondere compiutamente servirebbe un altro libro». Corrado Occhipinti Confalonieri

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Lo scaffale Beatrice Del Bo Arsenico e altri veleni Una storia letale nel Medioevo il Mulino, Bologna,

304 pp., ill.

17,00 euro ISBN 978-88-15-39034-9 www.mulino.it

Prerogativa non solo dei potenti, e non solo delle donne, l’uso del veleno era comunemente diffuso nel Medioevo. L’arsenico, polvere bianca inodore solubile nell’acqua, ottenuta da due diversi

minerali (il realgar e l’opimento), e isolato per la prima volta dal frate predicatore, medico e naturalista Alberto Magno intorno al 1250, veniva venduto nelle botteghe degli speziali e trovava impiego in una miriade di preparati: cosmetici, vernici, colori per la tintura di stoffe e pelli... Furono le fake news

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su Lucrezia Borgia (persona integerrima, oggi rivalutata), diffuse già nel Cinquecento, e amplificate dagli autori ottocenteschi, ad attribuirne l’impiego prevalentemente alle donne e al mondo delle corti. Il Medioevo fantastico di Walt Disney, tratteggiando la matrigna di Biancaneve, fece il resto. Beatrice Del Bo ricostruisce quindi l’origine e il percorso dei veleni medievali, soffermandosi sui luoghi di vendita, sulle erbe tossiche, sugli animali velenosi, sui sistemi per prevenire l’avvelenamento e sugli antidoti per chi ne fosse stato vittima, sui crimini perpetrati e sulla loro punizione, sul rapporto tra potere e veleno. Ubicate in luoghi luminosi del centro cittadino, o negli ospedali, dotate di insegne riconoscibili da chiunque, le farmacie vendevano articoli di ogni tipo: non solo medicamenti, veleni e cosmetici, ma anche dolcetti di zucchero e pasta di mandorle corroboranti per i malati, miele, cera, sciroppi, colori, spezie. Tra le materie prime trattate anche piccole gemme, coralli, metalli preziosi e perle utilizzati nella

composizione dei medicinali. Luoghi di ritrovo e di chiacchiere, vi si assiepava la clientela piú varia, di ogni ceto. Tra le erbe che vi si vendevano, quelle utilizzate nelle soluzioni anestetizzanti (oppio, papavero, elleboro, mandragola, giusquiamo, cicuta, belladonna), molte delle quali altamente velenose. Numerose ricette per la pratica dell’anestesia nelle operazioni chirurgiche vennero messe a punto da Caterina Sforza, che fu anche la prima a intuire – con secoli di anticipo – le potenzialità anestetiche del cloroformio. Nella cosmesi si utilizzavano invece preparati a base di arsenico, mercurio e piombo (con risultati devastanti). Fornivano veleni di vario tipo anche gli animali (dai serpenti, ai rospi, agli scorpioni, alla tarantola). A tutto questo si faceva fronte con fantasiosi quanto appetitosi antidoti: fichi e noci con l’aggiunta di foglie di ruta, castagne con fichi secchi, ruta con nocciole, o amuleti e gioielli salvavita. L’autrice ripercorre poi vicende di avvelenamenti di personaggi celebri e di persone comuni, molte

delle quali emerse da inediti atti processuali trecenteschi. Altamente «velenose» e dannose per la salute anche le aree circostanti concerie, tintorie e tutti quei poli produttivi che utilizzavano materiali inquinanti (allume, coloranti), i cui scarti contaminavano l’acqua con conseguenze perniciosissime sulla popolazione. Maria Paola Zanoboni Paolo Golinelli Eretici a Milano Quando la gente cominciò a voler dire la sua Ugo Mursia Editore, Milano, 202 pp.

18,00 euro ISBN 978-88-425-6696-0 www.mursia.com

Con un auspicio che ricorda il «Siate affamati. Siate folli» citato da Steve Jobs in un discorso passato ormai alla storia, Paolo Golinelli si augura che questo suo saggio venga letto soprattutto dai giovani, ispirandoli a essere «eretici», poiché, come scrive poco prima, una scelta del genere significa «rifiutare l’omologazione, cercare vie alternative, dare risposte nuove e impreviste a vecchi problemi, guardare oltre». Una speranza che condividiamo

volentieri, unita all’invito – esteso naturalmente anche ai meno giovani – a leggere il volume, perché la trattazione, redatta con stile scorrevole e alieno da specialismi, risulta di estremo interesse, gettando luce su vicende e personaggi ormai lontani, ma che, in filigrana, offrono molteplici spunti di riflessione utili a inquadrare meglio anche certe dinamiche sociali e politiche del tempo corrente. L’excursus tocca argomenti cruciali: dall’operato dell’arcivescovo Ariberto da Intimiano alla nascita della Pataria, dalla missione a Milano di Pier Damiani alla lotta alla simonia, restituendo uno spaccato puntuale e vivace di una stagione cruciale nella storia della Chiesa e delle dispute dottrinarie che animarono il millennio medievale. Stefano Mammini dicembre

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