Medioevo n. 332, Settembre 2024

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MEDIOEVO n. 332 SETTEMBRE 2024

FE L ST A X G IV E U AL D B DE IZIO BI LM N O ED E D IO EL EV O

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

INGHILTERRA

UNA CORONA PER LA VERGINE DI NORVEGIA

Mens. Anno 28 numero 332 Settembre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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DA LUOGO DELL’INNOCENZA AL TRIONFO DEI SENSI

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ORVIETO IL «PIÚ BEL DUOMO D’ITALIA»

MEDIOEVO VISIONARIO NOVELLIERE UMANI ILE TRANSUMANI LA VENDETTA DEL MERCANTE DI SANTI IN ARMI VENEZIA LA SPADA DI MATTEO L’ESATTORE MEDIOEVO NASCOSTO I DUE VOLTI DI BIELLA

IN EDICOLA IL 3 SETTEMBRE 2024



SOMMARIO

Settembre 2024 ANTEPRIMA

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LA RELIQUIA DEL MESE Quel sangue come un fiume in piena di Federico Canaccini

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Festival del Medioevo

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MOSTRE Frate Hugo, un virtuoso dell’arte orafa

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE

ORVIETO Duomo «Il piú bello d’Italia»

MARGHERITA DI SCOZIA Una corona per la «vergine della Norvegia»

MEDIOEVO NASCOSTO Biella Bugella la guelfa

di Gianna Baucero

di Giuseppe M. Della Fina

26

Dossier

LUOGHI

di Chiara Parente

34

92

26

92 CALEIDOSCOPIO ARALDICA Dietro l’immagine

di Niccolò Orsini De Marzo

COSTUME E SOCIETÀ IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/6 Cassapanca con sorpresa di Corrado Occhipinti Confalonieri

48

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Floriano, martire pompiere

100

di Paolo Pinti

108

LIBRI Lo Scaffale

112

GIARDINI Un rifugio dove il tempo si è fermato di Franco Cardini e Massimo Miglio

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MEDIOEVO n. 332 SETTEMBRE 2024

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Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

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Hanno collaborato a questo numero: Gianna Baucero è scrittrice. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Franco Cardini è storico del Medioevo. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è vice presidente della Fondazione per il Museo «Claudio Faina» di Orvieto. Massimo Miglio è stato professore ordinario di storia medievale all’Università degli Studi della Tuscia, Viterbo. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Parente è giornalista. Paolo Pinti è studioso di oplologia.

IN EDICOLA IL 3 SETTEMBRE 2024

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MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 332 - settembre 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. 26/27) e pp. 5, 32, 49, 50-51, 53, 56, 60/61, 62-65, 66, 68/69, 71, 75, 76-77, 82-85, 88-91, 92/93, 94/95, 96-97, 98 (basso) – Cortesia CIDIC-Centro per l’Innovazione e la DIffusione della Cultura, Università di Pisa: pp. 6-8 – Cortesia Ufficio Stampa Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge: p. 12 (alto e centro); © Numérisé par l’Atelier de l’Imagier avec le soutien de la direction du Peps: pp. 10-11, 12 (basso), 13, 14 – Mondadori Portfolio: Fine Art Images/Heritage Images: pp. 28, 30; Album/British Library: pp. 29, 33; Album/Quintlox: p. 48; AKG Images: pp. 52, 67, 68, 70/71, 74, 87; Album/ Oronoz: pp. 54/55, 59; Fototeca Gilardi: pp. 60, 72/73; Heritage Images: p. 79; Cortesia MIC/Electa/Antonio Quattrone: p. 100; Erich Lessing/K&K Archive: p. 101 – Carlo Rossini: pp. 34/35, 42-45 – Shutterstock: pp. 36, 37, 38 (alto), 95, 98/99 – Cortesia Opera del Duomo, Orvieto: pp. 38 (basso), 39, 40-41 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 73 – Stefano Mammini: pp. 80/81 – Cortesia Archivio fotografico ATL Biella: p. 98 (alto); Fabrizio Lava: p. 94 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 102-109 – Alamy Stock Photo: p. 110 – National Gallery of Art, Washington: p. 111 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 37, 92. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina vetrata policroma raffigurante Margherita di Scozia (1283-1290), The Maid of Norway (la «vergine della Norvegia»). Lerwick (isole Shetland, Scozia), Municipio.

Prossimamente costume e società

Giocare alla guerra

genova

dossier

Un nuovo museo per il Medioevo

La cronaca di Novalesa


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

SETTEMBRE

Quel sangue come un fiume in piena

V

erso la metà del III secolo il cristianesimo ha ormai assunto un ruolo centrale nel panorama religioso dell’impero: Roma conta almeno 155 sacerdoti che proclamano il messaggio evangelico e, in quegli stessi decenni, esplodono alcune fra le piú sanguinose persecuzioni, promosse da Massimino il Trace, Decio e Valeriano. Il cristiano non può naturalmente servire come miles, dal momento che l’unica battaglia che è tenuto a combattere è quella spirituale. Il gesto di Cristo che disarma Pietro nel Getsemani fu interpretato come l’obbligo per ogni soldato di deporre la spada e perciò di abbandonare l’esercito, accettando la sorte di qualsiasi altro cristiano, pronto ad affrontare l’eventuale martirio armato solamente della propria fede. Le vite dei martiri dei primi secoli erano ritratti di uomini che obbedirono ai dettami di Cristo, contravvenendo alle leggi della società civile, rifiutando di eseguire anche il proprio mestiere di soldato, anteponendo sempre il messaggio di Gesú. Sono soldati martiri Sebastiano, Massimiliano, Martino e Maurizio, primicerius a capo della cosiddetta Legione Tebana, composta da 6000 uomini, di cui si festeggia la memoria il 22 settembre, trucidata ad Agaunum (oggi Saint-Maurice, nel Cantone Vallese, in Svizzera), alla fine del III secolo. Durante una spedizione guidata dall’imperatore Massimiano e diretta contro i cristiani della Gallia, Maurizio avrebbe ribadito che, in quanto cristiano, era tenuto ad avere una coscienza pura: ciò impediva di obbedire agli obblighi militari. L’insubordinazione sarebbe costata loro la vita. Le reliquie dei martiri sarebbero state viste in sogno, un secolo dopo, dal vescovo Teodoro il quale doveva gestire i pellegrini che giungevano nelle Alpi per onorare san Maurizio. Nel corso del V secolo fu scritta la Passio Acanuensium martyrum e ad Agaunum, nello stesso periodo, nacque anche una comunità cenobitica. Il sito prescelto si sovrappose a un luogo di culto pagano legato a una fonte d’acqua sorgiva, ma, nel VI secolo, Sigismondo, re dei Burgundi, fece del monastero uno dei piú importanti insediamenti religiosi dell’area alpina, come attesta la ricchezza del Tesoro, composto da preziosi reliquiari. Tra questi spicca un prezioso vaso in agata sardonica, databile al I secolo a.C., impreziosito in epoca merovingia con oro, che connette il culto di Maurizio a quello di Martino, il quale, giunto ad Agaune, avrebbe richiesto una reliquia di Maurizio. Al rifiuto dei monaci, Martino avrebbe conficcato un coltello nel terreno, facendo sgorgare un fiume di sangue che poi raccolse in due fiale. Il sangue, però, non cessava di sgorgare e cosí un angelo sarebbe giunto dal cielo e avrebbe consegnato un calice per raccoglierne ancora, con l’ordine di lasciarlo ad Agaune, assieme al coltello: cosa che puntualmente avvenne, come si può verificare oggi visitando la chiesa che conserva l’uno e l’altro.

In alto il vaso in agata sardonica nel quale, secondo la tradizione, san Martino avrebbe raccolto il sangue di san Maurizio che aveva cominciato a sgorgare miracolosamente dal terreno.

Uno scorcio dell’abbazia di S. Maurizio d’Agauno a Saint-Maurice (Cantone Vallese, Svizzera).

MEDIOEVO

settembre

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il medioevo in

rima

agina

Festival del Medioevo INCONTRI • Dal 25 al 29 settembre Gubbio ospita la decima edizione della

manifestazione, con un tema, «Secoli di luce. Siamo nani sulle spalle di giganti», che ribadirà la vera natura del millennio medievale, un’epoca tutt’altro che «buia»

S

arà una lezione della storica Maria Giuseppina Muzzarelli ad aprire la decima edizione del Festival del Medioevo, in programma a Gubbio dal 25 al 29 settembre 2024. «Secoli di luce» è il titolo scelto nel 2024 per quello che, negli anni, si è accreditato come il piú importante appuntamento nazionale dedicato alla corretta divulgazione storica dell’età medievale. Piú di cento i protagonisti: storici, scrittori, scienziati, filosofi, architetti e giornalisti impegnati a fare finalmente luce sui famigerati «secoli bui» evocati per la prima volta da Francesco Petrarca e rilanciati come luogo comune alla fine del Novecento grazie a una fulminea

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sintesi giornalistica di Indro Montanelli. Le lezioni di storia del Festival del Medioevo 2024 seguiranno il filo della celebre metafora attribuita al filosofo Bernardo di Chartres, che agli inizi del XII secolo esortava i suoi allievi allo studio attento del passato: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, cosí che possiamo vedere un maggior numero di cose e piú lontano di loro, tuttavia non per l’acutezza della vista o la possanza del corpo, ma perché sediamo piú in alto e ci eleviamo proprio grazie alla grandezza dei giganti». Il Festival del Medioevo è impegnato da dieci anni a sfatare il piú persistente dei pregiudizi: quello di una Età di Mezzo raccontata ancora

Nella pagina accanto immagini delle attività organizzate nell’ambito del Festival del Medioevo.

settembre

MEDIOEVO


Gubbio, capitale dei mondi medievali A fine settembre, ogni anno, i mondi medievali si incontrano a Gubbio, la splendida città dell’Umbria che affascina ogni anno migliaia di visitatori. Come il grande scrittore Hermann Hesse, che quando visitò la città, nel 1907, ne ricavò un indelebile ricordo: «La grandiosa, quasi temeraria audacia di questa architettura produce un effetto assolutamente sbalorditivo e ha qualcosa di inverosimile e conturbante. Si crede di sognare o di trovarsi di fronte a uno scenario teatrale e bisogna continuamente persuadersi che invece tutto è lí, fermo e fissato nella pietra». Hesse scrisse che a Gubbio si può tornare a «sentire con i propri sensi il passato come presente, il lontano come vicino, il bello come eterno». Il Festival del Medioevo, ideato e diretto dal giornalista Federico Fioravanti è organizzato ogni anno in modo congiunto dalla Associazione di Promozione Sociale Festival del Medioevo e dal Comune di Gubbio. La manifestazione gode del patrocinio scientifico dell’Istituto storico italiano per il Medioevo (ISIME), della Società italiana degli storici medievisti (SISMED), della Società degli Archeologi Medievisti Italiani (SAMI) e della Associazione Italiana di Public History (AIPH). Assicurano il loro patrocinio istituzionale la Regione Umbria, la Camera di Commercio dell’Umbria e la Fondazione Giancarlo Pallavicini Onlus Umanitaria e Culturale. Partners per il settore didattico sono la Fondazione Giuseppe Mazzatinti di Gubbio e l’Università

Santissima Maria Assunta (LUMSA). Grazie alla loro collaborazione, il Festival del Medioevo rilascia attestati di partecipazione a studenti e docenti. La RAI, con RAI Cultura e il canale RAI Storia è stato per tutte le edizioni il principale media partner della manifestazione, insieme alle riviste di divulgazione storica «MedioEvo» e «Archeo». Collaborano in modo stabile con il Festival del Medioevo anche Italia Medievale, portale web impegnato da molti anni nella promozione del patrimonio storico e artistico del Medioevo italiano, MediaEvi, pagina Facebook specializzata nell’analisi dei cosiddetti medievalismi, Feudalesimo e Libertà, fenomeno social di goliardia e satira politica e l’Enciclopedia delle donne, un’opera collettiva sul web che raccoglie le biografie di donne di ogni tempo e paese. Sostengono la manifestazione il Comune di Gubbio, la Regione Umbria, il Gruppo Azione Locale Alta Umbria (GAL), la Fondazione Perugia e la Camera di Commercio dell’Umbria. Gli sponsor principali sono il Gruppo Financo, con Colacem, Colabeton, Park Hotel ai Cappuccini e CVR – dal 1980 l’edilizia in buone mani. Sostengono il Festival anche la Fondazione Giancarlo Pallavicini Onlus umanitaria e culturale, Metalprogetti e Tecla. Il sito della manifestazione www.festivaldelmedioevo. it e la relativa pagina Facebook @FestivalDelMedioevo sono gli indirizzi on line dedicati alla divulgazione storica del Medioevo piú visitati in Italia.

come oscura, maligna e barbarica. Un’epoca cosí calunniata da non meritare nemmeno un nome: il «Medio Evo» che i manuali di storia e il dibattito pubblico confinano ancora fra gli inarrivabili splendori dell’antichità e le «magnifiche sorti e progressive» di un mondo moderno costretto invece, come è sempre avvenuto in ogni vicenda dell’uomo, a fare i conti anche con le guerre, le epidemie, le violenze quotidiane e i pregiudizi di ogni genere.

Grandi uomini e grandi donne Un Medioevo lontano dalla banalità degli stereotipi, visto attraverso il racconto dei grandi uomini e delle grandi donne che hanno se-

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Gli ospiti Ecco, in ordine alfabetico, un primo elenco (in corso di aggiornamento) dei protagonisti della decima edizione del Festival del Medioevo: Gabriella Airaldi; Andrea Augenti; Duccio Balestracci; Alessandro Barbero; Marco Bartoli; Antonio Brusa; Alberto Casadei; Patrizia Bovi; Franco Cardini; Paolo Chiesa; Pietro Colletta; Beatrice Del Bo; Fulvio Delle Donne; Angelo De Nicola; Tommaso di Carpegna Falconieri; Dario Fabbri; Riccardo Facchini; Riccardo Fedriga; Amedeo Feniello; Aldo Ferrari; Franco Franceschi; Alessandra Foscati;

Isabella Gagliardi; Rossana Guglielmetti; Davide Iacono; Alessio Innocenti; Geraldina Leardi; Gaetano Lettieri; Umberto Longo; Andrea Mazzucchi; Luca Molà; Carlo Lucarelli; Marina Montesano; Maria Giuseppina Muzzarelli; Massimo Oldoni; Cristiana Pasqualetti; Veruska Picchiarelli; Marco Piccat; Gabriella Piccinni; Mario Prignano; Stefano Rapisarda; Serena Romano; Silvia Ronchey; Francesca Roversi Monaco; Matteo Saudino; Andreas Steiner; Claudio Strinati; Carlo Mario Tosco; Sergio Valzania; Alessandro Vanoli; Virtus Zallot e Ortensio Zecchino.

gnato dieci secoli della nostra storia. Un lungo tempo di innovazioni e trasformazioni. E di continui «rinascimenti», in tutti i campi del sapere, dall’arte alla politica, dalle istituzioni pubbliche alla vita quotidiana. Mille e piú anni di grandi viaggi, pellegrinaggi e commerci fra mondi lontani e diversi, caratterizzati da una miriade di innovazioni e scoperte. Secoli nei quali sono nate anche le lingue d’Europa, le nazioni, le banche e le università e nei quali straordinari pensatori hanno sviluppato le basi della moderna cultura scientifica.

Il programma Mostre, mercati, spettacoli, rievocazioni, focus tematici e attività didattiche arricchiscono cinque giorni del Festival del Medioevo insieme ad alcuni speciali appuntamenti:

• La Fiera del libro medievale, con la parte-

cipazione di una quarantina di case editrici: i grandi classici e le ultime novità editoriali, con tutto quello che c’è da leggere sul Medioevo. • Scriptoria, l’appuntamento dedicato all’arte della miniatura e della calligrafia con i laboratori e le dimostrazioni pratiche dei principali miniaturisti e calligrafi italiani e stranieri. • Medievalismi: l’esplorazione dell’età di Mezzo nella cultura contemporanea: cinema e letteratura, fumetti e canzoni, abiti e architetture, illustrazioni grafiche e giochi di ruolo. Un Medioevo immaginario, reinventato, ricostruito e a volte anche sconvolto attraverso i nuovi linguaggi della politica, del costume e delle mode. • La scuola dei rievocatori, un evento pensato per valorizzare, attraverso l’analisi e la ricostruzione delle fonti storiche, l’appas-

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sionato lavoro di centinaia di associazioni e di migliaia di rievocatori impegnati in ogni regione d’Italia nel far rivivere la storia e le tradizioni del loro territorio. I • l Medioevo dei ragazzi: giochi, letture, animazioni, laboratori d’arte e corsi di disegno riservati agli alunni delle scuole secondarie di primo grado.

L’edizione 2023 della Fiera del Libro medievale.

I temi delle dieci edizioni Dalla prima edizione, il Festival del Medioevo ha affrontato i seguenti temi: La nascita dell’Europa (2015); Europa e Islam (2016); La città (2017); Barbari. La scoperta degli altri (2018); Donne. L’altro volto della Storia (2019); Mediterraneo. Il mare della Storia (2020); Il tempo di Dante (2021); Dinastie. Famiglie e potere (2022); Oriente-Occidente. Le frontiere mobili della Storia (2023) e Secoli di luce. Siamo nani sulle spalle di giganti (2024). settembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Frate Hugo, un virtuoso dell’arte orafa MOSTRE • Fino a ottobre, si possono

ammirare a Parigi, nel Museo di Cluny, le splendide opere realizzate nel XIII secolo dal monaco e orafo Hugo di Oignies per il priorato belga di S. Nicola

P

er il Belgio è una delle «sette meraviglie» nazionali e, in effetti, il tesoro del priorato agostiniano di S. Nicola, a Oignies (cittadina nei pressi di Namur) è un corpus di oggetti che unisce, all’eccezionale pregio, la rara circostanza di essersi conservato quasi integralmente. Fino al prossimo 20 ottobre i reliquiari e le altre suppellettili che ne fanno parte si possono ammirare nel Museo nazionale del Medioevo di Parigi, al quale sono stati eccezionalmente concessi in prestito dal TreM.a (Musée des Arts Anciens du Namurois-Trésor d’Oignies) di Namur e dalla Fondazione Re Baldovino, che dal 2010 è proprietaria del tesoro. Come detto, la sua storia si lega a quella del priorato di S. Nicola, fondato alla fine del XII secolo, e all’incontro di tre personalità notevoli: la mistica e asceta Maria di Oignies († 1213), che fece del

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priorato una importante meta di pellegrinaggio; il prelato Jacques de Vitry († 1240), principale mecenate del priorato; e infine il monaco e orefice Hugo di Walcourt († 1240 circa), piú noto come Hugo di Oignies, per merito del quale il priorato divenne un importante centro di creazione di oggetti preziosi e il cui atelier rimase attivo fino al 1260-1270. Il tesoro si compone di circa cinquanta


Tutti gli oggetti appartengono alle collezioni del Musée des Arts Anciens du Namurois-Trésor d’Oignies di Namur (Belgio). A sinistra reliquiario del latte della Vergine. 1240-1250. A destra mitra in pergamena. 1220-1229. Nella pagina accanto, a sinistra secondo filatterio di sant’Andrea. 1230-1235. Nella pagina accanto, a destra vaso-reliquiario detto «di santa Edvige». 1250 circa.

oggetti, una trentina dei quali sono giunti a Parigi, e comprende per lo piú reliquiari, realizzati nell’atelier del priorato da Hugo, con l’aiuto dei suoi collaboratori oppure da questi ultimi. L’insieme dei preziosi manufatti, che dunque costituisce una testimonianza straordinaria dell’oreficeria della prima metà del XIII secolo nella regione dell’EntreSambre-et-Meuse, ha avuto una storia movimentata. In seguito alla Rivoluzione francese, il priorato fu soppresso e i suoi edifici vennero messi in vendita. Il tesoro rimase nascosto

MEDIOEVO

settembre

in una fattoria a Falisolle, dal 1794 al 1817, per essere poi affidato, nel 1818, al convento delle suore di Nostra Signora, a Namur. Nel 2010, è divenuto proprietà della Fondazione Re Baldovino ed è esposto al TreM.a.

Quattro fratelli Il percorso espositivo si apre con la storia del priorato di S. Nicola, che ha inizio quando a Oignies si insedia una piccola comunità guidata da quattro fratelli venuti da Walcourt: tre sacerdoti (Gilles, Robert e Jean) e il futuro orefice Hugo. Riuniti attorno a una vecchia cappella in legno dedicata a san Nicola, sostituita nel 1204 da una

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ANTE PRIMA A sinistra e qui sotto due immagini del Museo di ClunyMuseo nazionale del Medioevo di Parigi, che, oltre a ospitarla, ha partecipato all’organizzazione della mostra sul Tesoro di Oginies.

In basso calice, attribuito a frate Hugo di Oignies, detto «di santa Maria di Oignies». Argento niellato e parzialmente dorato su anima di legno, 1226-1229.

chiesa in pietra, erano canonici regolari che seguivano la Regola di sant’Agostino. Il primo priore è Gilles di Walcourt († 1234). Vicino al priorato si stabilí anche una piccola comunità di «donne religiose», diretta dalla madre dei fratelli di Walcourt: era uno dei primi beghinaggi, luoghi in cui si riunivano donne pie che, senza seguire una regola, né pronunciare

voti, vivevano di lavoro artigianale e opere di carità. Le comunità di beghine saranno approvate dal papa nel 1216. Maria di Nivelles, la futura beata Maria di Oignies, si unisce a questa comunità nel 1207, ma si stabilisce da sola, in una cella adiacente alla chiesa. Come accennato, altro personaggio cardine nella storia del complesso è Jacques de Vitry (1185 circasettembre

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1240), che arriva a Oignies intorno al 1208, dopo aver studiato a Parigi. Si insedia nel priorato come canonico, ma vi risiede solo occasionalmente. Instancabile predicatore, contro gli albigesi (catari) e a favore della quinta crociata, fu anche vescovo di Acri, in Terra Santa, nel 1216, e poi cardinale-vescovo di Tusculum (Frascati), dal 1229 al 1240. Al priorato di S. Nicola fece dono di molti oggetti preziosi, fra cui reliquie e gemme.

Creatore di tesori Ma il protagonista principale della mostra è però Hugues di Walcourt, fratello di Gilles, Robert e Jean, cioè dei fondatori del priorato di S. Nicola. Il suo percorso prima del 1226-1229, data presunta delle sue prime opere conosciute e già compiute, non è documentato. Nulla sappiamo del suo apprendistato, né dei centri che ha frequentato nelle regioni della Mosa e del Nord della Francia. Frate Hugo ha realizzato pezzi di oreficeria per il priorato di Oignies, almeno a partire dal 1226 e fino

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alla sua morte, sopraggiunta intorno al 1240. Operava da solo o con il suo atelier, installato nel priorato, nel quale dovevano lavorare diversi orafi. Due delle sue opere sono firmate e un’altra contiene una pergamena con il suo nome. Era probabilmente anche un valente miniatore, come suggerisce il suo autoritratto leggendato nell’evangeliario di Oignies, che fa eco a quello di una delle coperte del manoscritto. Hugo si muove nel solco della tradizione artistica del suo tempo, realizzando decori naturalistici e morbidi drappeggi, che ricordano quelli di Nicolas di Verdun. Le sue fonti di ispirazione sembrano poter essere identificate presso Arras e Villard de Honnecourt. Utilizza poco gli smalti, servendosi di gemme e intagli per i colori delle sue opere. Nella selezione degli oggetti in mostra vi sono varie tipologie di reliquiari, come le croci-

In alto, a sinistra altare portatile detto «di Jacques de Vitry». Rame traforato, inciso e dorato, smalto blu, bianco e rosso, vernice e marmo, ante 1216. Qui sopra reliquiario della costola di san Pietro. Argento parzialmente dorato, filigrana, niello, cristallo di rocca, gemme e perle, 1238.

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ANTE PRIMA reliquiari, che sono anche stauroteche, cioè contenenti un frammento della Croce di Cristo. Vi sono poi reliquiari anatomici: i piedi-reliquiari di san Giacomo Maggiore e di san Biagio, il reliquiario della costola di san Pietro e quello della mascella di san Barnaba. Da segnalare anche un curioso reliquiario del latte della Vergine, a forma di uccello.

La produzione tarda All’indomani della morte di frate Hugo, l’atelier del priorato di Oignies continua a essere attivo, fino al 1260-1270. E, pur utilizzando ancora le matrici del monaco orafo e rinnovando l’uso del niello e delle filigrane,

In alto patena «di Gilles de Walcourt», opera di Hugo d’Oignies. Argento inciso, dorato e niellato, 1226-1229. A sinistra calice detto «di Gilles de Walcourt», opera di Hugo d’Oignies. Argento sbalzato, inciso, cesellato e dorato, niello, 1226-1229.

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nel tempo le opere che vengono prodotte si allontanano progressivamente dal suo stile. Il livello qualitativo dei manufatti realizzati dai suoi successori resta comunque assai elevato, con reliquiari di notevole complessità, accanto ai quali, tuttavia, prende piede anche la fabbricazione di pezzi standardizzati. Questa produzione piú tarda testimonia, peraltro, il successo dei reliquiari, nei quali si riflette il bisogno dei fedeli di «vedere per credere»: le custodie ideate per i sacri resti rispondono appieno a questa esigenza, anche grazie alla scelta di inserire in queste «macchine devozionali» vetri o cristalli che permettono di constatare la presenza della reliquia. (red.) DOVE E QUANDO

«Il meraviglioso Tesoro di Oignies: bagliori del XIII secolo» Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 ottobre Info www.musee-moyenage.fr settembre

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ANTE PRIMA

Al tempo del Capitaneato

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

«P

iccole guerre che riescono molto piú dannevoli di regolari combattimenti perché continue e di poco o verun risultamento». Cosí recita la prefazione di un poemetto in ottava rima, La Guerra di Serrezzana, tuttora anonimo, ma che rappresenta una preziosa fonte di informazioni per gli appassionati di storia locale. Narra, infatti, di una contesa militare fra la «Superba Repubblica di San Giorgio» (ovvero la Repubblica di Genova), che aveva riconquistato Sarzana (oggi provincia della Spezia) e la Signoria di Firenze, retta a quei tempi dai Medici, che ne vantava il possesso per averla acquistata nel 1468 da Lodovico Fregoso, per 35 000 fiorini. In apparenza archiviato come una scaramuccia di confine, lo scontro è diventato invece una memoria storica talmente importante, che l’Associazione sarzanese Senza Tempo ormai da quattordici anni ne rievoca le gesta, ricostruendo fedelmente gli eventi narrati nel poema e coinvolgendo gruppi storici provenienti da tutta Italia ed Europa. L’appuntamento di quest’anno è fissato per il 5 e 6 ottobre 2024. In questi due giorni la Fortezza Firmafede e tutta la città di Sarzana tornano alla primavera del 1487 (in un periodo compreso fra il mese di marzo, in una data non meglio precisata, e il 22 giugno). Genovesi e Fiorentini scendono in guerra tra loro per il possesso della città. Gli ultimi combattimenti radono al suolo la fortezza, costruita dai Pisani nel XIV secolo, e al suo posto Lorenzo il Magnifico fa costruire l’attuale Cittadella, completata nel 1492. La vittoria però risulta assai effimera, poiché Sarzana passa nuovamente in mano genovese già attorno al 1494. I vincitori, tuttavia, non governano direttamente i territori appena conquistati, poiché ne affidano il controllo al Banco di San Giorgio, che li amministrerà fino al 1562. Da quell’anno la Superba riprenderà definitivamente possesso dell’intero territorio sarzanese, facendone uno dei suoi Capitaneati. La Guerra di Serrezzana è diventata anche un’opera musicale di Heinrich Isaac (1450-1517; noto anche come Arrigo il Tedesco, o Arrigo d’Ugo), le cui musiche verranno utilizzate come sottofondo della lettura interpretativa del poema a cura dell’attore Matteo Procuranti del Gruppo Blanca Teatro di Carrara. La rievocazione di questi fatti d’arme beneficia del

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Immagini delle passate edizioni di Sarzana Senza Tempo. patrocinio e del contributo del Comune di Sarzana e di Regione Liguria, richiamando appassionati di storia rinascimentale e rievocatori da tutta Italia e da molti Paesi europei. Un’altra grande sfida per l’associazione, dopo il successo del grande evento rievocativo nella città di Nîmes, Les Grands Jeux Romains e le edizioni di Filetto Rinascimentale. L’entusiasmo e la partecipazione del pubblico hanno fatto di Sarzana Senza Tempo – questo il titolo della manifestazione – un appuntamento atteso ogni anno da un numero crescente di spettatori e l’occasione di rivivere due giornate rinascimentali proprio come si svolgevano a Sarzana 500 anni fa. Per l’occasione il Circolo Fotografico sarzanese organizza un contest fotografico (per info: www.facebook.com/p/ Circolo-Fotografico-Sarzanese-100064917871285/), i cui vincitori verranno premiati con un evento dedicato nelle settimane successive alla manifestazione. Parteciperanno all’evento gli iscritti al corso di perfezionamento dell’Università di Pisa-Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, rivolto al mondo della rievocazione ricostruttiva e a chi intende apprendere gli strumenti per operare consapevolmente attraverso i metodi e le pratiche della Public History. Per aggiornamenti e ulteriori informazioani: www.facebook.com/sarzana.senzatempo settembre

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AGENDA DEL MESE

Mostre FIRENZE PULCHERRIMA TESTIMONIA. TESORI NASCOSTI NELL’ARCIDIOCESI DI FIRENZE Basilica di S. Lorenzo, Salone di Donatello fino all’8 settembre

Le oltre duecento opere selezionate per la mostra sono una significativa sintesi dell’immenso patrimonio artistico conservato e custodito nel territorio della

a cura di Stefano Mammini

271 000 schede, è stata possibile grazie a una parte dei fondi 8xmille che la diocesi ha destinato a questo scopo. Si possono dunque ammirare autentici capolavori, provenienti dalla città, frutto di ricche committenze, ma anche oggetti piú semplici, realizzati per piccole parrocchie di campagna. Opere quindi molto diverse fra loro, non solo per qualità artistica, ma anche per tecniche di esecuzione e materiali utilizzati: dipinti su tavola e su tela, crocifissi, statue, oreficerie, reliquari, arredi e paramenti, tabernacoli, libri e codici, fino a umili rosari. info www.diocesifirenze.it BOLOGNA CONOSCENZA E LIBERTÀ. ARTE ISLAMICA AL MUSEO CIVICO MEDIEVALE DI BOLOGNA Museo Civico Medievale fino al 15 settembre

diocesi che si estende dalle pendici dell’Appennino toscoemiliano fino a lambire la provincia di Siena. Il progetto espositivo è nato da un importante lavoro di inventariazione e catalogazione avviato nell’ottobre del 2009 che si è concluso dopo dieci anni, nel dicembre del 2019. La ricognizione, che ha portato alla compilazione di oltre

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Nata da un progetto di ricerca scientifica tra Musei Civici d’Arte Antica del Settore Musei Civici Bologna e SOAS University of London, l’esposizione intende valorizzare la collezione di materiali islamici, rari e di altissima qualità, appartenenti al patrimonio del Museo Civico Medievale, e promuovere la riscoperta di vicende e percorsi che, da secoli, costituiscono una parte significativa della storia culturale di Bologna e non solo. Il patrimonio artistico islamico presente in Italia è ricchissimo e tra i piú rilevanti al mondo, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, a

testimonianza di un interesse per le civiltà e arti del mondo islamico che si mantiene vivissimo e duraturo dal Quattrocento al Settecento. Bologna, con la sua antica Università fondata nel 1088, partecipa pienamente al clima di apertura internazionale, svolgendo un ruolo fondamentale nell’acquisizione di opere d’arte e nelle relazioni con le terre islamiche tra il XV e il XVIII secolo. Situata al confine tra lo Stato imperiale e quello papale, la città fu in grado non solo di costruire solidi legami commerciali e alleanze geopolitiche, ma divenne un importante centro di mecenatismo artistico e culturale. La cospicua presenza di oggetti islamici nelle collezioni costituite da illustri personaggi bolognesi fin dalla seconda metà del XVIII secolo testimonia ancora oggi, nella loro ricchezza e varietà, una straordinaria lungimiranza e ampiezza di orizzonti culturali. info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@ comune.bologna.it;

www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @museiarteanticabologna; X: @MuseiCiviciBolo

FANO PIETRO PERUGINO A FANO. PRIMUS PICTOR IN ORBE Museo del Palazzo Malatestiano, sala Morganti fino al 15 settembre

Fano celebra il ritorno in città della Pala di Durante, nota anche come Pala di Fano, dipinta da Pietro Perugino. Per l’occasione, l’opera, che è stata oggetto di un importante intervento di restauro, può essere ammirata, eccezionalmente, ad altezza d’uomo, cosí da poterne apprezzare i dettagli, compreso il retro della tavola centrale, che conserva significative annotazioni. «Primus pictor in orbe» («Primo pittore al mondo»): cosí viene descritto Perugino nel contratto del 1488 che lo portava a lavorare a Fano, dove realizzò due opere eminenti: la Madonna con il bambino in trono e i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena, detta Pala di Durante, e l’Annunciazione. Nella mostra settembre

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sono inoltre esposti resoconti del restauro e confronti fondamentali, grazie a riproduzioni digitali. In particolare, quello con la cosiddetta «pala gemella», realizzata per la chiesa degli Osservanti di Senigallia. Un confronto accattivante, con elementi didattici e scientifici di straordinaria importanza, che ci portano dentro le grandi botteghe artistiche del tempo. info tel. 0721 887845-847; e-mail: museocivico@comune. fano.pu.it; museocivico.comune. fano.pu.it MASSA MARITTIMA IL SASSETTA E IL SUO TEMPO. UNO SGUARDO ALL’ARTE SENESE DEL PRIMO QUATTROCENTO Musei di San Pietro all’Orto fino al 15 settembre

Dopo Ambrogio Lorenzetti, il Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, propone un altro grande appuntamento con l’arte senese, questa volta con Stefano di Giovanni, meglio noto come il Sassetta (attivo a Siena dal 1423 al 1450), l’artista che immise i fermenti del Rinascimento nella grande tradizione trecentesca senese. Come per Lorenzetti, anche questa mostra prende spunto da un’opera facente parte della collezione permanente del Museo di San Pietro all’Orto: l’Arcangelo Gabriele, piccola tavola del Sassetta un tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare. La Vergine Annunciata, protagonista della stessa pala, non ha potuto fare ritorno, sia pur

temporaneamente per ritrovare il suo Angelo Annunciante, essendo oggi patrimonio della Yale University Art Gallery a New Haven. Accompagnano l’Angelo una cinquantina di opere, ventisei delle quali firmate dal maestro senese e le altre da artisti attivi in quegli anni nel medesimo contesto. Fra di loro vi sono il Maestro dell’Osservanza, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Pietro Giovanni Ambrosi e Domenico di Niccolò dei Cori. Si può inoltre ammirare una importantissima «prima», scoperta dal curatore della mostra, Alessandro Bagnoli: una Madonna con Bambino, proveniente dalla pieve di S. Giovanni Battista a Molli (Sovicille), ma originariamente realizzata per una chiesa senese, probabilmente S. Francesco. info tel. 0566 906525; e-mail: accoglienzamuseimassa@gmail.com; www.museidimaremma.it VENEZIA I MONDI DI MARCO POLO. IL VIAGGIO DI UN MERCANTE VENEZIANO DEL DUECENTO Palazzo Ducale fino al 29 settembre

Un uomo, cittadino del mondo in quanto veneziano, grazie al quale l’Oriente è diventato

meno lontano e sconosciuto. È questo il tema della mostra organizzata nell’anno in cui ricorrono i 700 anni dalla morte di Marco Polo. Un omaggio all’uomo ma, soprattutto, la volontà di condividere le suggestioni da lui stesso raccontate nell’opera letteraria Il Milione: una fonte inesauribile di ispirazione per studiosi, esploratori, viaggiatori di ogni epoca. Una vita, quella di Marco Polo, che si riverbera nel racconto di una straordinaria geografia storica, culturale, politica e umana dell’Europa, del Medio Oriente e dell’Asia del Duecento che contribuí a far conoscere. Un patrimonio incredibile di abitudini, usi, costumi e idee che grazie al nostro circolò nella Venezia del XIII secolo quale inestimabile fonte di strategiche informazioni che altri mercanti, dopo di lui, concorsero ad arricchire. Un viaggio nel viaggio, per ricordare gli incontri, reali, inventati, talvolta omessi, con un excursus nei Paesi visitati dall’illustre veneziano e dalla famiglia in oltre vent’anni, attraverso oltre 300 opere provenienti dalle collezioni civiche, dalle maggiori e piú importanti istituzioni italiane ed europee fino a prestiti dei musei dell’Armenia, Cina, Qatar, per condividere, nel modo piú esaustivo possibile, i mondi di Marco Polo. info www.palazzoducale. visitmuve.it/marcopolo PISA LA TORRE ALLO SPECCHIO. LE MOLTE VITE DEL CAMPANILE DEL DUOMO DI PISA Palazzo dell’Opera del Duomo fino al 30 settembre

Ideata e organizzata dall’Opera della Primaziale Pisana in occasione degli 850 anni dalla posa della

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ALESSANDRIA ALESSANDRIA PREZIOSA. UN LABORATORIO INTERNAZIONALE AL TRAMONTO DEL CINQUECENTO Palazzo del Monferrato fino al 6 ottobre

prima pietra del monumento, la mostra – attraverso oltre 100 opere tra disegni, incisioni, dipinti, sculture e fotografie che vanno dal XIII secolo alla contemporaneità – illustra come la percezione del Campanile piú famoso del mondo sia cambiata nei secoli. Le arti figurative testimoniano quanto l’identità della Torre e il significato che le viene attribuito sia profondamente cambiato, con il cambiare della sensibilità e dei tempi. Se fino al XVII secolo la Torre è solitamente raffigurata come parte di un tutto, posta cioè nei pressi del Duomo e dunque identificata come Campanile, architettura che scandisce le ore liturgiche e segna gli appuntamenti degli uomini verso Dio, a partire dal XVIII secolo sempre piú spesso viene raffigurata isolata, separata dal resto degli edifici ecclesiastici. Si è trattato di una sorta di laicizzazione della percezione dell’edificio, che non per caso ha coinciso con la larga diffusione del Grand Tour, fenomeno che, in qualche modo, ha anticipato ciò che il turismo ha comportato per molti luoghi d’arte e di fede. L’architettura pisana si è trasformata cosí da Campanile a Torre, da Bell Tower a Leaning Tower. info www.opapisa.it

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PITIGLIANO LEONARDO IN FORTEZZA Ex Granai fino al 30 settembre

Il genio di Leonardo da Vinci è documentato in mostre da oltre 50 modelli di macchine fedelmente riprodotte seguendo i Codici, grazie allo studio e al lavoro degli artigiani fiorentini della famiglia Niccolai, il cui laboratorio, intorno al 1960, passò dalla produzione di oggetti per gli accessori dell’alta moda italiana alla realizzazione delle repliche delle creazioni leonardesche, avvalendosi anche dei preziosi consigli di alcuni dei piú autorevoli studiosi dell’opera leonardesca. Nel percorso allestito negli ex Granai è possibile ammirare alcune delle piú famose invenzioni del genio fiorentino: l’antenato dell’elicottero, l’aliante; il paracadute; il carrello semovente da usare come apparato scenico; il girarrosto a vapore, una macchina da cucina che sfiora la perfezione della cottura; lo studio degli ingranaggi; il dispositivo per respingere le scale nemiche in difesa delle mura; la vite d’Archimede, la dimostrazione dell’impossibilità del moto perpetuo solo per fare qualche esempio. info www.leonardoapitigliano.it

Dopo «Alessandria scolpita» (2019), esposizione dedicata al contesto artistico alessandrino tra Gotico e Rinascimento, questa nuova mostra racconta la civiltà creativa della città piemontese tra Cinque e primo Seicento, focalizzandosi in particolare sulle arti suntuarie, a ridosso dell’avvento del manierismo internazionale negli anni della Controriforma cattolica. «Alessandria preziosa» si articola in sette sezioni composte da circa ottanta opere, in cui protagoniste sono le sculture in metallo prezioso, evidenziando il ruolo determinante svolto dalle arti suntuarie, dall’oreficeria alla toreutica, dall’arte degli armorari all’intaglio delle pietre dure. L’obiettivo della mostra è duplice: da un lato delineare l’avvento del manierismo internazionale foriero di un

nuovo senso della realtà e della forma, attraverso oreficerie e oggetti in metallo, ma anche dipinti su tela e tavola e sculture in legno e marmo che meglio dialogano con le arti preziose; il secondo focus del progetto è quello di mostrare e dimostrare come l’attuale territorio della provincia di Alessandria fosse luogo di convergenza di forze e culture diverse, che non sfiguravano al confronto di altre piú gloriose città padane, ma anzi rappresentava una felice eccezione, in cui influenze nordiche si misuravano con quelle provenienti da Firenze e Roma. Alessandria e il suo territorio fungevano da cerniera tra Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro, mentre proprio alle porte della città era sorto il convento di Santa Croce a Bosco Marengo, voluto da papa Pio V, che racchiudeva in sé il clima artistico di provenienza tosco-romana. info e prenotazioni e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it URBINO FEDERICO BAROCCI URBINO. L’EMOZIONE DELLA PITTURA MODERNA Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 6 ottobre

Pittore, straordinario disegnatore e innovativo incisore, per quasi un secolo Federico Barocci (1533-1612) segna la scena artistica italiana ed europea. Per la città ducale, Federico Barocci ha sempre rappresentato un debito di riconoscenza, perché la sua figura umana e artistica è di straordinaria importanza: con la sua opera egli chiude idealmente la grande stagione del Rinascimento urbinate, settembre

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dominata da artisti quali Piero della Francesca, Bramante e Raffaello, offrendo le primizie di una pittura nuova che caratterizzerà l’età barocca. Non a caso il primo direttore di Palazzo Ducale, Lionello Venturi, aveva in animo di organizzare una mostra

affascinato dai paesaggi e dalle atmosfere di questi luoghi, di cui catturò l’essenza in una celebre serie di acquerelli. Ad attrarre il Norimberghese fu un principato nel quale l’arte e le arti erano coltivate con grande passione e dove il Rinascimento veniva declinato in modo del tutto originale da artisti trentini e da «foresti» che vi giungevano perché attratti dal prestigio e dalle committenze della corte dei principi vescovi e delle élites economiche. Il progetto espositivo fa rivivere quel viaggio e quel magmatico, creativo momento della storia dell’arte di una terra tra i monti. Nell’esposizione, la presenza di Dürer in Trentino è ricordata da disegni, acquerelli

Trentino tra 1470 e 1530/40. A prendere forma è uno stile nuovo, o meglio, l’insieme di tanti nuovi linguaggi, influenzati da artisti, opere, mode e modi che risalgono dall’Italia alla Germania, alle Fiandre e viceversa. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it TRENTO CON SPADA E CROCE. LONGOBARDI A CIVEZZANO Castello del Buonconsiglio fino al 20 ottobre

L’esposizione racconta la storia dei Longobardi in Trentino attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della «principessa» e del «principe»

monografica, annunciata in occasione dell’apertura del museo nel 1913. L’evento poi non ebbe luogo e solo oggi il museo dedica una esposizione al maestro marchigiano. Grazie a prestiti che arricchiscono la collezione già molto importante della Galleria Nazionale delle Marche, la mostra raccoglie 76 tra dipinti e disegni di Barocci, illustrando tutte le fasi della sua lunga carriera. info tel. 0722 2760; e-mail: gan-mar@cultura.gov.it; www.gallerianazionalemarche.it TRENTO DÜRER E LE ORIGINI DEL RINASCIMENTO NEL TRENTINO Castello del Buonconsiglio fino al 13 ottobre

Il Castello del Buonconsiglio ha scelto Albrecht Dürer come protagonista della mostra simbolo del centenario del museo, nato nel 1924. Il grande pittore e incisore scoprí Trento e il Trentino negli anni 1494-95, rimanendo

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materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze incrementate grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali, ma anche di approfondire tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia «barbarica». info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it PARIGI IL MERAVIGLIOSO TESORO DI OIGNIES: BAGLIORI DEL XIII SECOLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 ottobre

– tra cui la magnifica veduta proprio del Castello del Buonconsiglio proveniente dal British Musuem –, incisioni e dipinti: l’arte del grande tedesco non passò inosservata ma stimolò gli artisti qui attivi a ripensare la loro arte. Partendo dallo spettacolare «caso Dürer», il percorso espositivo si estende infatti a indagare le origini di quel Rinascimento originale, sui generis, che si sviluppa in

di Civezzano riuniti per la prima volta. Una mostra nata dalla collaborazione tra il Castello del Buonconsiglio e il Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, che custodisce molti manufatti di provenienza trentina e con la quale si è mantenuto e consolidato negli anni un rapporto di grande collaborazione. La rassegna offre un’occasione per riesaminare i dati storici e i

Una delle sette meraviglie del Belgio, il Tesoro di Oignies, viene per la prima volta concesso in prestito quasi integralmente dal Musée des Arts Anciens du Namurois di Namur e approda a Parigi. Della trentina di pezzi giunti in Francia fanno parte oreficerie – per lo piú reliquiari, come quelli del latte della Vergine e della costola di san Pietro – e una selezione di tessuti. La mostra ripercorre la storia del priorato di Saint-Nicolas d’Oignies, una comunità di canonici agostiniani fondata alla fine del XII secolo, intorno a tre figure centrali: Maria d’Oignies (1177-1213), Jacques de Vitry (1185-1240) e il talentuoso orafo Hugues

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AGENDA DEL MESE Villa Contarini-Fondazione G. E. Ghirardi fino al 27 ottobre

de Walcourt, detto Hugo d’Oignies († 1240 circa). Le sue creazioni e quelle del suo laboratorio, riconoscibili per l’abbondanza di nielli, filigrane, motivi naturalistici e di caccia, costituiscono una testimonianza virtuosa del lavoro sui metalli preziosi. Alcuni anni dopo la fondazione del priorato, la mistica Maria d’Oignies vi si stabilisce e piú d’una delle opere esposte evoca il destino di quella che è stata dichiarata beata poco dopo la sua morte e che è ancora venerata oggi. Nello stesso periodo, Jacques de Vitry, brillante predicatore e per un certo tempo vescovo di Acri, in Terra Santa, diventa il principale mecenate del priorato e fornisce reliquie e materiali preziosi. Il suo sostegno permette al priorato di diventare un importante centro di produzione di oggetti d’oreficeria e prima Hugo d’Oignies, e poi il suo laboratorio, sviluppano un’arte in costante evoluzione, come emerge dalla mostra. info musee-moyenage.fr PIAZZOLA SUL BRENTA (PADOVA) L’IMPRONTA DI ANDREA MANTEGNA. UN DIPINTO RISCOPERTO DEL MUSEO CORRER DI VENEZIA

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Prima di rientrare al Museo Correr di Venezia, delle cui raccolte fa parte, è esposto a Piazzola sul Brenta un prezioso e inedito dipinto ora assegnato ad Andrea Mantegna: la Madonna col Bambino, San Giovannino e sei sante. Tema della composizione, realizzata a olio e oro su tavola e databile intorno agli anni fra il 1490 e il 1495 è la Sacra Conversazione: la Madonna e il Bambino Gesú in muto dialogo spirituale con san Giovanni Battista fanciullo e sei sante. Dal punto di vista strettamente iconografico, il soggetto sembra legarsi al

tema figurativo fiammingo della Virgo inter virgines, vivo soprattutto nelle corti di Francia e Borgogna del XV secolo. A Villa Contarini, il piccolo dipinto è offerto anche all’attenzione degli studiosi, che possono tentare di scalfirne i segreti e, soprattutto, indagare la reale natura e misura della forte, personalissima «impronta» che in esso ha lasciato Mantegna: l’ideazione e il disegno, o anche l’esecuzione di sua mano? Anche in attesa di tali «risposte», la mostra rappresenta l’epilogo del primo atto di una vicenda appassionante, che unisce

scoperta, indagine, studio, conservazione, restituzione, valorizzazione. info www.fondazioneghirardi.org

LONDRA

TOLOSA

Carovane di cammelli che attraversano dune desertiche, mercanti che commerciano seta e spezie nei bazar. Sono queste le immagini che vengono alla mente quando pensiamo alla via della Seta. Ma la realtà va ben oltre, a cominciare dal fatto che, come racconta la nuova mostra del museo londinese, la storia dei commerci fra Oriente e Occidente fu scritta lungo molteplici percorsi, le «vie» della Seta, come recita il titolo, un sistema di reti sovrapposte che collegavano comunità in tutta l’Asia, l’Africa e l’Europa, dal Giappone alla Gran Bretagna, dalla Scandinavia al

«CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025

Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande respiro, distribuita in due sedi: il Musée SaintRaymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), un episodio che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati provenienti dal Nord, il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto espositivo si sofferma da un lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno caratterizzato la crociata contro gli Albigesi, intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara, senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr

VIE DELLA SETA British Museum fino al 23 febbraio 2025 (dal 26 settembre)

Madagascar. Queste vie sono state utilizzate per millenni, ma l’esposizione si concentra su un periodo ben definito, compreso fra 500 e il 1000 d.C. Lungo il percorso, che si articola in sezioni geografiche, sono distribuiti oltre 300 oggetti e opere d’arte, frutto anche di importanti prestiti, e fra i quali spiccano un antico gruppo di pezzi degli scacchi e un monumentale dipinto murale dalla Sala degli Ambasciatori di Afrasiab (Samarcanda, Uzbekistan). info www.britishmuseum.org settembre

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APPUNTAMENTI • Scopertura del pavimento del Duomo di Siena Siena, Duomo

fino al 16 ottobre info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it

L

a chiesa cattedrale di Siena scopre il suo magnifico pavimento a commesso marmoreo, frutto di cinquecento anni di espressione artistica. Risultato di un complesso programma iconografico, è stato realizzato attraverso i secoli, dal Trecento fino all’Ottocento, tarsia dopo tarsia, sulla base di cartoni preparatori disegnati da artisti quali il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi, Pinturicchio. Il prezioso tappeto di marmi policromi è unico non solo per la tecnica utilizzata, ma anche per il messaggio delle figurazioni, un invito costante alla sapienza, a partire dalle navate con i protagonisti del mondo antico, scarmigliate sibille e autorevoli filosofi, fino ai soggetti biblici sotto la cupola, nel presbiterio e nel transetto. In occasione della scopertura del pavimento i visitatori hanno inoltre l’opportunità di «deambulare» intorno al coro e all’abside del Duomo, dove si conservano le tarsie lignee di Fra Giovanni da Verona, eseguite con una tecnica simile a quella del commesso marmoreo, con legni di diversi colori, raffiguranti vedute urbane, paesaggi e nature morte, armadi che mostrano gli scaffali interni con oggetti liturgici resi con abilità prospettica.

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

CATTEDRALI E ABBAZIE

UN VIAGGIO TRA LUCE E SPIRITUALITÀ

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l viaggio proposto dal nuovo Dossier di «Medioevo» attraversa l’intera Italia e non solo e prende avvio dagli spettacolari ricami di pietra realizzati dal maestro Wiligelmo per la cattedrale modenese di S. Maria Assunta, che agli inizi dell’XI secolo prese forma secondo il progetto dell’architetto Lanfranco. È l’inizio di un percorso affascinante, scandito da saggi sul contesto storico e culturale nel quale operarono le fabbriche alle quali si deve la costruzione di monumenti insigni, che tocca luoghi in cui l’anelito religioso si è fatto motore della creazione di architetture e opere d’arte di eccezionale pregio. Le chiese cattedrali e i complessi abbaziali descritti nel Dossier compongono un atlante del cristianesimo occidentale e, al contempo, sono la plastica testimonianza di fenomeni che hanno segnato il millennio medievale, come nel caso della nascita e della diffusione degli Ordini religiosi. Ardite soluzioni costruttive, apparati ornamentali lussuregginati – fatti di statue, affreschi, mosaici – ribadiscono l’importanza di una committenza, quella della Chiesa, senza la quale l’ingegno e la creatività di artisti celebri o tuttora anonimi non avrebbero avuto la visibilità che li ha consegnati alla storia. Da Modena, dunque, a Spoleto, da Milano a Parigi, da Assisi a Monreale, da San Galgano a Cava de’ Tirreni... non vi resta che sfogliare questa straordinaria antologia del bello! Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

MEDIOEVO DOSSIER

CA VIAG TT GI ED O N RA EL LI MED E A IO BB EVO AZ IE

Trento. Una veduta esterna della cattedrale di S. Vigilio la cui costruzione fu promossa dal vescovo Federico Vanga nel 1212.

VO MEDIO E Dossier

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N°63 Luglio/Agosto 2024 Rivista Bimestrale

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GLI ARGOMENTI

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• Le grandi cattedrali d’Italia e d’Europa • Nascita e diffusione del monachesimo • L’Italia delle abbazie • Un atlante dei tesori da scoprire MEDIOEVO

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storie margherita di scozia

Una corona per la «vergine della Norvegia» di Gianna Baucero

Siamo nelle Highlands, gli altopiani della Scozia, nel settembre del 1290: una delegazione di notabili attende l’arrivo di una nave proveniente dalla Scandinavia. A bordo viaggia Margherita, una bambina di appena sette anni, ma sulle cui spalle poggiano le speranze dinastiche dei regni di Scozia e Inghilterra...

Sulle due pagine vetrata policroma raffigurante Margherita di Scozia (1283-1290), The Maid of Norway (la «vergine di Norvegia»). Lerwick (isole Shetland, Scozia), Municipio.

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l tempo di Enrico III d’Inghilterra (regnante dal 1216 al 1272) e di suo figlio Edoardo I (regnante dal 1272 al 1307), il re di Scozia era Alessandro III (1241-1285), che salí al trono nel 1249. Il 25 dicembre 1251, a soli dieci anni, Alessandro fu investito del titolo di cavaliere e il giorno seguente sposò Margherita, che era inglese e aveva circa un anno piú di lui. Le nozze furono celebrate nella cattedrale di York e, secondo il cronista Matteo Paris, furono grandiose. La sposa era figlia di Enrico III d’Inghilterra ed Eleonora di Provenza e aveva numerosi fratelli, tra cui il futuro re Edoardo I, destinato a diventare famoso per la sua lotta contro la Scozia di William Wallace (Braveheart) e la conquista del Galles. Nonostante tutti i problemi politici che separavano la Scozia dall’Inghilterra, Alessandro III seppe instaurare rapporti positivi con la famiglia di Margherita, al punto che, il 19 agosto 1274, partecipò con la consorte alla cerimonia d’incoronazione di Edoardo I ed Eleonora di Castiglia nell’abbazia di Westminster. Margherita e Alessandro III



storie margherita di scozia ebbero tre figli: Margherita, Alessandro e David. Tutti e tre, purtroppo, ebbero vita breve. La prima, nata a Windsor il 28 febbraio 1261, morí nel 1283 a 22 anni, dando alla luce una bimba a cui fu imposto lo stesso nome della madre e della nonna. Il secondogenito, Alessandro, nato a Jedburgh il 21 gennaio 1264, scomparve a 20 anni nel 1284 e fu sepolto nel villaggio natale. Il piccolo David fu l’ultimo a nascere e il primo a morire: si spense al castello di Stirling nel giugno del 1281, quando aveva solo otto anni. La regina non dovette piangere la scomparsa delle sue creature, perché, quando i tre figli lasciarono questa terra, lei era già morta da tempo (1275).

Un uomo solo sul trono

All’età di quarantatré anni, dunque, il sovrano rimase completamente solo. Tutto ciò che restava della sua famiglia era la nipote Margherita, figlia della sua primogenita e di Erik Magnusson, ovvero Erik II di Norvegia. La bambina, però, era nata e cresciuta nelle terre paterne ed era praticamente un’estranea per il nonno. I genitori della piccola si erano sposati intorno al 31 agosto 1281. In quel tempo Erik aveva tredici anni, mentre la sposa ne aveva venti. La loro bimba era nata a Tønsberg, il 9 aprile 1283, e purtroppo non avrebbe mai conosciuto la madre, che morí nel darla alla luce. Nel 1284, una settimana dopo la morte del principe Alessandro, la piccola Margherita fu riconosciuta come erede presuntiva al trono di Scozia. Aveva allora appena un anno e non aveva mai visto le terre in cui era nata la madre e sulle quali regnava il suo celebre nonno. L’esistenza di un erede al trono avrebbe dovuto rappresentare una garanzia di pace e di continuità, eppure il re non si sentiva tranquillo e decise di risposarsi, nella speranza di generare almeno un

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figlio maschio. Il 14 ottobre 1285, quindi, prese in moglie Iolanda di Dreux, una nobile francese giunta in Scozia nell’estate con il fratello Giovanni. Quel giorno la Chiesa celebrava la festa di san Callisto e l’abbazia era gremita di aristocratici scozzesi e francesi. Le nozze furono celebrate nella bella abbazia di Jedburgh (Roxburghshire), a poche miglia dal confine con l’Inghilterra. La sposa era figlia del conte Roberto IV di Dreux, aveva circa ventidue anni e portava in dote, tra l’altro, il titolo di contessa di Montfort. Ma, soprattutto, offriva allo

sposo la chance di generare un erede al trono che salvasse la Scozia da una guerra per la successione. Tra il 18 e il 19 marzo dell’anno seguente, però, a meno di cinque mesi dalle nozze, accadde un fatto che avrebbe cambiato la storia. Durante il giorno ci fu una riunione al castello di Edimburgo e Alessandro III si trattenne alcune ore con i suoi ospiti. Quando giunse il momento di ritirarsi, decise di non fermarsi al castello, bensí di raggiungere Iolanda, che si trovava a Kinghorn, nel Fife, al di là del Firth of Forth. I cortigiani fecero di tutto per dissettembre

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suaderlo, poiché era tardi, faceva freddo e l’impresa era troppo rischiosa. Ma il re non vedeva l’ora di riabbracciare la giovane sposa e porgerle personalmente gli auguri di buon compleanno. Probabilmente il vento soffiava forte sul fiordo di Edimburgo e la pioggia aveva reso il terreno un insidioso acquitrino nel quale i cavalli procedevano con grande fatica. Incurante dei consigli e del pericolo, tuttavia, il re attraversò in barca le acque del Forth e poi proseguí a cavallo, portando con sé solo «una piccola scorta di tre uomini e due guide». A quanto pare, persino il marinaio e un notabile di Inverkeithing cercarono di convincerlo a concedersi una sosta notturna, in attesa che l’alba rendesse il percorso piú sicuro, ma il re aveva troppa fretta. Che cosa accadde esattamente in quella notte infausta non ci è noto, ma sappiamo che lungo il tragitto Alessandro si allontanò dai suoi uomini e che il giorno dopo fu trovato morto sulla riva, a circa un miglio dal castello di Kinghorn.

Rovesci del destino

Enrico III d’Inghilterra sul trono, con, ai lati, l’abbazia di Westminster e campane che suonano, e, sotto, l’albero genealogico della sua discendenza, da un codice della Chronicle of England di Peter de Langtoft. 1307-1327 circa. Londra, British Library. Nella pagina accanto il matrimonio fra Enrico III ed Eleonora di Provenza, da un codice dei Chronica majora di Matteo Paris. 1250-1259. Londra, British Library.

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L’incidente lasciava la Scozia orfana del suo sovrano e Iolanda vedova del suo prestigioso marito: era stata regina consorte soltanto per quattro mesi e 14 giorni e ora si trovava sola in un Paese che le era pressoché sconosciuto. Qualche tempo dopo si scoprí che la giovane aspettava un figlio e, quindi, che il popolo scozzese poteva ancora sperare di vedere sul trono un erede diretto di Alessandro. Anche quella volta, tuttavia, il destino volle frapporsi tra il sogno e la realtà: la creatura tanto attesa nacque morta, o forse Iolanda ebbe un aborto spontaneo, e il trono rimase vacante. Robert Bruce e John Balliol cercarono di impossessarsene, ma la maggioranza degli Scozzesi si oppose, schierandosi dalla parte della piccola Margherita, che restava l’erede presuntiva.

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storie margherita di scozia L’incoronazione di Alessandro III, da un codice dello Scottichronicon di Walter Bower. Cambridge, Corpus Christi College. Nella pagina accanto il sigillo di Iolanda di Dreux, poi di Scozia, dopo le nozze con Alessandro III, da Histoire de Bretagne composée sur les titres et les auteurs originaux... di Guy-Alexis Lobineau.

puntati sul viaggio della Maid of Norway, la «vergine di Norvegia», come poi sarebbe stata ricordata la piccola Margherita. Il re d’Inghilterra affidò al vescovo di Durham l’importante compito di organizzare l’accoglienza della delegazione norvegese e inviò gioielli per la futura nuora. Sul fronte scozzese i magnati si prepararono a radunarsi all’abbazia di Scone, nel Perthshire, un luogo che sarebbe diventato famoso anche fuori dai confini locali. L’abbazia, infatti, ospitava la Stone of Destiny, la pietra sulla quale venivano incoronati i re di Scozia. A proposito della piccola, va detto che, due anni prima di morire, Alessandro III aveva cominciato ad accarezzare un sogno: concedere la mano della bambina a Edoardo di Caernarfon, l’ultimogenito di Edoardo I d’Inghilterra ed Eleonora di Castiglia. Si sarebbe trattato, ovviamente, di un matrimonio politico, volto a rafforzare il legame che già esisteva tra le famiglie dei due sposi, un legame piuttosto stretto, poiché la nonna di Margherita era la sorella del padre di Edoardo. Attraverso le nozze, però, Alessandro puntava soprattutto a unire le rispettive corone e scongiurare il pericolo di una guerra civile.

Nozze combinate

La morte della creatura che Iolanda portava in grembo all’epoca della tragica fine del coniuge decretò la vittoria della piccola Margherita su tutti gli avversari politici e le spianò la strada verso l’altare. Presto Erik II di Norvegia ed Enrico III d’Inghilterra presero a comunicare tra loro tramite messaggeri e, nel

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1289, cominciarono le trattative prematrimoniali. Il 6 novembre di quell’anno la corte d’Inghilterra e gli emissari di Erik II si incontrarono a Salisbury e stabilirono che le nozze sarebbero state celebrate entro dodici mesi. Nella primavera seguente, a Brigham, si decise che Margherita ed Edoardo sarebbero stati considerati marito e moglie non appena la bambina fosse arrivata in Scozia e che la loro unione sarebbe stata ritenuta legale nonostante l’età inadeguata degli sposi. Dal momento dello sbarco di Margherita in terra scozzese, inoltre, Edoardo sarebbe diventato il nuovo sovrano di Scozia, anche se il governo sarebbe stato affidato a un viceré. Poco dopo il consiglio di Brigham, si seppe che la nuova sovrana aveva lasciato la terra natale e stava navigando verso il suo reame, il che sembrò appianare alcune delle divergenze che ancora separavano gli Scozzesi dagli Inglesi in materia di castelli e di indipendenza. Gli occhi ora erano

E la nave tornò indietro

Verso la fine di settembre una rappresentanza di Inglesi e Scozzesi si riuní nella parte piú settentrionale delle Highlands per assistere allo sbarco della bambina, la cui nave aveva deviato verso le Isole Orkney, modificando la sua rotta all’ultimo momento a causa del maltempo. Mentre tutti si disponevano a festeggiare il grande evento, fu annunciato che la bimba era morta, forse per un malanno contratto in mare o forse a causa di cibo avariato. Aveva soltanto sette anni. Negli ultimi istanti di vita aveva avuto accanto il vescovo Narve di Bergen, partito con lei dalla Norvegia nel settembre di quel tragico 1290, lo stesso anno in cui sarebbe morta anche la madre del promesso sposo. Mentre gli emissari delle corone di Scozia e Inghilterra tornavano verso sud, annientati dal dolore, la nave di Margherita salpava verso la Norvegia, per riportare la piccola alla sua terra natale. Poco settembre

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tempo dopo Margherita fu sepolta accanto alla madre, nella navata nord della chiesa di Cristo, a Bergen. Prima delle esequie, Erik II di Norvegia volle vedere la salma e riconobbe le sembianze della figlia, poi mestamente si separò da lei. In seguito quel riconoscimento si rivelò determinante, perché nel 1300, quando Erik era morto da un anno, si presentò a Bergen una sconosciuta che sosteneva di essere Margherita. La donna doveva avere circa quarant’anni, piú del doppio dell’età che la Maid of Norway avrebbe avuto se fosse stata ancora

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Iolanda di Dreux

Ritorno in patria Dopo la morte del marito, Alessandro III, Iolanda di Dreux non si trattenne a lungo in Scozia. Tornò nella sua terra d’origine e nel 1294 si risposò. Il secondo consorte si chiamava Arturo, era figlio del signore della Bretagna, aveva già avuto una moglie (la viscontessa Maria di Limoges) e aveva piú o meno la stessa età della sposa. La nuova coppia ebbe sei figli, cinque femmine e un maschio. Nel 1305 Arturo ereditò il titolo paterno e governò le sue terre fino alla morte, che lo colse nel 1312. Gli successe uno dei tre figli avuti dalla prima moglie. Iolanda continuò ad amministrare da lontano le terre scozzesi ottenute sposando Alessandro III. Morí, verosimilmente, tra il 1324 e il 1330.

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storie margherita di scozia

L’abbazia di Jedburgh, nel Roxburghshire (Scozia). Qui, il 14 ottobre 1285, nel giorno della festa di san Callisto, si celebrarono le nozze tra Alessandro III di Scozia e Iolanda di Dreux.

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Edoardo II d’Inghilterra riceve da una figura piú piccola (forse una personificazione del Galles) un’altra corona, forse quella di Scozia, da un codice della Chronicle of England di Peter de Langtoft. 1307-1327 circa. Londra, British Library. La scena potrebbe alludere all’incitamento da parte del Galles (di cui il re era principe) ad attaccare la Scozia, cosa che Edoardo in effetti avrebbe poi fatto.

viva, eppure molti le credettero. Un anno dopo, comunque, la sconosciuta fu smentita, processata e condannata al rogo. Con la morte di Margherita tramontava il sogno di vedere sul trono un erede del defunto Alessandro III e si apriva una grave crisi politica. Finivano anche i progetti vagheggiati dalla corte inglese: Edoardo di Caernarfon non sarebbe piú diventato re di Scozia e non ci sarebbe stata alcuna unione tra i reami dei due sposi, almeno per il momento. Il primo re a essere contemporaneamente sovrano di Scozia e d’Inghilterra fu il successore della grande Elisabetta I, Giacomo, ma la sua ascesa al trono avvenne solo nel 1603. Cosa sarebbe accaduto se la piccola Margherita fosse sbarcata nelle terre del nonno, sana e sal-

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va, pronta a incontrare il promesso sposo? Quali fatti ci racconterebbero, oggi, i manuali di storia? Sono domande intriganti, alle quali tuttavia è impossibile rispondere.

L’onta della deposizione

Sappiamo che Edoardo nel 1307 diventò re Edoardo II, che fu il primo sovrano d’Inghilterra a subire l’onta della deposizione (1327) e che forse fu assassinato per volere della moglie Isabella di Francia. È lecito supporre che, se avesse sposato Margherita, il suo destino sarebbe stato diverso e che, con lei al suo fianco, avrebbe avuto ben altra sorte. Forse, però, non sarebbe nato il dibattito che divide gli storici in merito alla figura del re: morí davvero a Berkeley nel 1327? O, come sembra, fuggí dalla sua prigione, attraversò l’Europa

sotto mentite spoglie e finí i suoi giorni in un eremo del Nord Italia (vedi «Medioevo» n. 295, agosto 2021; on line su issuu.com)? A proposito di primati, vale anche la pena ricordare che nel 1301 Edoardo fu il primo membro della famiglia reale inglese a ricevere il titolo di principe del Galles, che da allora spetta di diritto a tutti gli eredi al trono d’Inghilterra. Sul fronte scozzese, la scomparsa della Maid of Norway pose fine al lungo regno dei Dunkeld iniziato con re Malcolm III nel 1058 e avviò una lunga e tormentata fase della storia. Negli anni a venire i chiari ruscelli e i verdi declivi delle Highlands si sarebbero tinti del sangue di valorosi guerrieri in lotta per il trono e per l’indipendenza. Ma questa è un’altra storia.

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«Il piú bello d’Italia» di Giuseppe M. Della Fina

Cosí il grande storico e critico d’arte Cesare Brandi definí il Duomo di Orvieto: un giudizio netto e non necessariamente da tutti condiviso, ma che esprime bene lo straordinario valore architettonico e artistico della chiesa cattedrale sulla «città della rupe»

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l racconto del Duomo di Orvieto può seguire strade diverse: il ruolo di cattedrale che accoglie il Corporale, la reliquia del miracolo di Bolsena, al seguito del quale venne proclamata la festività del Corpus Domini; la dimensione architettonica, con la posa della prima pietra nella giornata del 13 novembre 1290; la presenza della pittura e della scultura al suo interno, con testimonianze che vanno dal Trecento al Novecento. O, ancora, l’analisi del cantiere, il cui tempo quotidiano era scandito dall’automa presente ancora oggi sulla sommità della Torre di Maurizio; il ruolo avuto dalle maestranze al lavoro per la Fabbrica nelle scelte dell’artigianato artistico orvietano durante i secoli; la funzione di simbolo di una città, con la facciata del Duomo riprodotta ovunque almeno dall’Ottocento, persino sulle etichette dei fiaschi del vino, peraltro, altra eccellenza locale da tempo. Basti pensare ai giudizi lusinghieri di Sigmund Freud. Per il mio racconto ho scelto un filo conduttore ulteriore: le impressioni e le considerazioni di personaggi che hanno avuto modo di osservarlo e visitarlo. Non solo scrittori, ma anche storici dell’arte e dell’architettura, archeologi, viaggiatori. Non vuole essere una chiave di lettura dotta, elitaria, ma utile per andare in profondità nella comprensione della (segue a p. 38) La navata centrale e la tribuna del Duomo di Orvieto, dove, nel 2019, sono state ricollocate le statue dei dodici Apostoli e l’Annunciazione scolpita da Francesco Mochi.

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duomo di orvieto A sinistra una veduta di Orvieto, dominata dal Duomo, intitolato alla Vergine Assunta. In basso, sulle due pagine l’inconfondibile profilo di Orvieto, in una veduta che lascia facilmente intuire le ragioni dell’epiteto di «città della rupe».

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duomo di orvieto cattedrale. Come si vedrà, sono giudizi che si possono condividere o meno, o fare propri solo in parte, ma che spingono a riflettere.

Sulle orme degli Etruschi

Parto dalle considerazioni di una donna, Elisabeth Hamilton Gray (1800-1887), meno nota di altri autori sui quali mi soffermerò, ma una pioniera per quanto concerne il racconto del viaggio in Italia nel mondo culturale anglosassone. Hamilton Gray non era venuta in Italia alla ricerca del Medioevo o del Rinascimento, ma per conoscere gli Etruschi, che aveva incontrato, per la prima volta, in una mostra che i fratelli Campanari, originari di Tuscania, avevano allestito nel 1837 a Londra, nella galleria Pall Mall. Il suo Tour to the Sepulchres of Etruria in 1839 venne pubblicato a Londra nel 1840 e nacque di getto. Ecco, in quelle pagine, la descrizione del Duomo: «Visitammo la cattedrale due volte, spendendo lí la sera di un giorno e la mattina del successivo, in modo da vederla mediante entrambe le luci, senza le quali è impossibile renderle giustizia. Si trova da sola in una piazza, ed è la piú bella del genere in Italia. La facciata è in uno stile gotico elaborato, con archi normanni e pinnacoli, e la costruzione è interamente in marmo bianco e nero, intarsiato con splendidi mosaici». E ancora: «L’interno di questa chiesa è degno del suo esterno, e ho a malapena bisogno di aggiungere

Le demolizioni ottocentesche

«Abbiamo dato lo sfratto ai Santi» La scelta di cancellare – quasi totalmente – le fasi cinquecentesca, seicentesca e settecentesca fu presa dalla Commissione Provinciale di Belle Arti il 26 settembre 1877 e la Deputazione dell’Opera del Duomo la fece propria il 28 ottobre dello stesso anno. In novembre ebbero inizio le demolizioni dalla navata nord. Piú tardi si decise di espellere anche il ciclo statuario. D’altronde Luigi Fumi, storico e archivista, nel 1891, scriveva: «E non tarderà molto, si spera, che tutto ciò che è opera

degli scalpelli del secolo XVII sgombri dal nostro Duomo». Lo stesso Fumi, con apprezzabile capacità autocritica, scrisse poi nella sua monografia Orvieto (1918): «Mai piú avverrà che il piccone ignobile, con tanta disinvoltura, porti la distruzione sulle opere dell’ingegno e della mano di buoni maestri del loro tempo, per cedere il posto alla scialba tinta degli imbianchini. Abbiamo abbattuto gli altari, abbiamo dato lo sfratto ai Santi. È rimasta isolata, come in un deserto, la maestà di Dio, in un grande vuoto».

In alto la spettacolare facciata del Duomo, scandita da quattro pilastri, le cui basi sono decorate da altrettanti preziosi rilievi. A destra la controfacciata del Duomo intorno al 1877, prima delle demolizioni.

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Uno scorcio della cappella di S. Brizio, alla cui ricca decorazione lavorò Luca Signorelli, chiamato a portare a termine l’opera lasciata incompiuta dal Beato Angelico.

ricco e bello. È diviso in tre parti da due file di colonne di marmo pregiato con capitelli molto curiosi, e l’acquasantiera è posta su una colonna scolpita, o ara. Alla sinistra del transetto si trova la cappella del Santissimo Corporale, e alla sua destra quella della Madonna, una meraviglia del mondo, che sono incapace di descrivere e di esaltare allo stesso modo come merita. Se la cattedrale non avesse posseduto nient’altro, questa cappella da sola sarebbe stata la gemma d’Italia».

Gente allegra e pulita

Non manca, nella scrittrice inglese, l’osservazione delle tradizioni locali: «Gli abitanti della città hanno un sincero orgoglio nel mantenere la loro cattedrale in perfetto stato. Quando la vedemmo era in tutta la sua gloria e tutte le persone erano in gala, perché era l’ottava del Corpus Domini, considerato in Italia come la scena di chiusura delle feste pasquali. Il vescovo cardinale, nelle sue ricche vesti, portava l’ostia consacrata, seguivano un numeroso clero e un’immensa folla di persone. È una bella cosa vedere una città italiana in un giorno di festa, perché le strade sono affollate, con la gente non solo allegra, ma vestita in modo pulito; i velluti e le sete, l’oro e il rosso scarlatto, non sembrano piú ricchi delle quantità di mussolina indossate dalle donne, che appaiono pulite e graziose. In quelle

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la cappella di s. brizio

Uno specchio del tempo Il simbolo piú forte di Orvieto è senza alcun dubbio il Duomo e, al suo interno, un luogo particolare è la cappella di S. Brizio, affrescata da Luca Signorelli, ma alla quale ha lavorato anche il Beato Angelico: uno spazio speciale. Chiunque visiti la cattedrale resta ammirato dalla macchina scenografica creata dal pittore, che, tra l’altro, documenta una trasformazione profonda nelle società italiane tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento: una realtà diventata complessa e sempre piú conflittuale. occasioni, esse esibiscono sempre lunghi veli bianchi o grandi fazzoletti bianchi, oppure grembiuli lavorati con ampio uso di mussolina, e, a volte, tutti e tre insieme. A Orvieto, però, sul capo era costume indossare un piccolo scialle scarlatto orlato di nero o di giallo, e, con mia sorpresa, fatto di lana pettinata». Sono quindi andato alla ricerca di un altro scrittore che avesse descritto il Duomo nell’Ottocento e sono stato fortunato: ho rintracciato George Dennis, l’autore di The Cities and Cemeteries of Etruria (pubblicato

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per la prima volta a Londra nel 1848), che fu anche archeologo e diplomatico. L’opera di Dennis ebbe una preparazione lunga, con soggiorni in Italia e la frequentazione del prestigioso Instituto di Corrispondenza Archeologica fondato a Roma nel 1829. Va tenuto presente, inoltre, che Dennis rivide in profondità il testo in occasione della seconda edizione, pubblicata sempre a Londra, nel 1878, e poi riproposta nel 1883: una revisione che si accompagnò a nuove escursioni. Preparando la seconda edizione, l’autore raggiunse di nuovo Orvieto alla fine del 1875 e quin-

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di solo due anni prima che venisse presa la decisione d’intervenire sull’interno della cattedrale, cancellandone le fasi del Cinquecento, del Seicento e del Settecento (vedi box a p. 38). Ecco le sue impressioni: «Come posso tacere davanti al Duomo? (...) Potrei dire molto dell’interno e delle sue decorazioni scolpite; della sua grandiosa vastità popolata di ombre, invitante alla devozione piú di altre Cattedrali dell’Italia centrale; delle solide colonne a strisce, con gli originali capitelli; delle pareti e delle cappelle affrescate, e dei molteplici tesori d’arte; la disettembre

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Particolari degli affreschi della cappella di S. Brizio. 1499-1504. A sinistra, sulle due pagine, Resurrezione della carne; in alto, Predica e fatti dell’Anticristo.

gnità e la semplicità della Vergine del Mochi; l’intensità del sentimento nella Pietà dello Scalza, e la sua ben contrastante divinità e umanità; la delicatezza, la tenerezza e la celestiale purezza di Frate Angelico; e soprattutto vorrei dilungarmi sulle glorie di Luca Signorelli». Passando al Novecento, e toccando un genere del tutto diverso, si può ricordare il racconto poliziesco Ladro contro assassino di Giorgio Scerbanenco (1911-1969), un giornalista e scrittore di origine ucraina, nato a Kiev, ma stabilitosi in Italia a sedici anni. Uno dei protagonisti, insieme alla fidanzata raggiunge Orvieto: «C’era sole,

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ma con vento, che aumentava man mano che salivano e divenne quasi tempestoso davanti al Duomo, un vento gelido, anche con qualche favilla di sole. Da appassionata, efficiente milanese, Caterina comprò nel negozio davanti al Duomo tutti i fascicoli e fascicoletti che parlavano di Orvieto, delle sue chiese, dei suoi splendidi palazzi (...) Entrarono nella basilica, non c’era vento, lí dentro, ma faceva piú freddo che fuori. Ma lo spettacolo era di una bellezza inimmaginabile».

Come la mano di un profeta

Si può citare, ancora, un grande poeta polacco, Zbigniew Herbert (1924-1998). In Un barbaro nel giardino (titolo originario Barbar zynca w ogrodzie, 1962), in corso di pubblicazione da Adelphi, osserva: «La cattedrale sta (se questo verbo immobile è appropriato per qualcosa che lacera lo spazio e fa girare la testa) in una vasta piazza. Gli alti edifici che la circondano dopo un po’ svaniscono, si smette di notarli. […] Su tutto domina il Duomo, simile alla mano sollevata di un profeta».

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La tribuna del Duomo, nella quale si può ammirare il ciclo con episodi della vita della Vergine affrescato da Ugolino di Prete Ilario e aiuti sul finire del Trecento.

Ho rintracciato quindi alcune occasioni che avvicinarono Cesare Brandi (1906-1988), insigne storico dell’arte e scrittore, al Duomo di Orvieto e su esse mi soffermerò, dato che consentono di entrare nella spinta creativa della cattedrale. Vorrei evidenziare un’occasione, poco nota: una conferenza tenuta proprio a Orvieto, nel pomeriggio di giovedí 5 ottobre 1978. Il titolo dell’intervento era Il duomo di Siena e il duomo di Orvieto e costituiva l’inaugurazione dell’anno accademico 1978-79 dell’Istituto Storico Artistico Orvietano, l’associazione culturale fondata dallo storico dell’architettura Renato Bonelli, poco piú che trentenne, nell’agosto del 1944. Potrebbe apparire un’occasione di routine, ma non lo fu: l’incontro era stato voluto dallo stesso Bonelli. In quel pomeriggio si confrontarono uno storico dell’architettura e uno storico dell’arte di valore notevole e originari, tra l’altro, rispettivamente di Orvieto e di Siena. Bonelli nato nel 1911 e l’altro maggiore solo di qualche anno.

Echi della tradizione classica

La consapevolezza del livello di meditazione della relazione è testimoniata dalla scelta di Cesare Brandi di pubblicarla subito nella rivista Palladio e poi di consentirne la riproposizione nel Bollettino dell’Istituto Storico Artistico Orvietano. Lo stesso intervento è stato presentato di nuovo – in ristampa anastatica – in occasione di una giornata di studi per ricordare il centenario della nascita di Cesare Brandi (11 ottobre 2006). Nella relazione – dovendo tentarne una sintesi – si possono evidenziare l’osservazione che la primitiva cattedrale orvietana non s’innesta «direttamente nello sviluppo formale sincrono dell’architettura che si chiama gotica», ma trae spunti invece dalla tradizione dell’architettura classica e che il successo – anche popolare – del successivo intervento di Lorenzo Maitani sia stato dovuto soprattutto alla sua volontà e capacità di aggiornare in senso gotico il monumento. In questa sede preme sottolineare soprattutto come per Brandi, il primo progettista del Duomo (da poco si è tornati a parlare di frate Bevignate da Cingoli; si veda Parrini, 2019), diverso da Lorenzo Maitani, provenisse «da una tradizione che ancora affondava le radici nel passato romano» per la quale «quel che contava non era la morfologia dell’arco acuto e delle nervature, ma lo slancio verticale e la luminosità dell’interno» e come, in fondo, tutta l’architettura orvietana – anche anteriore al Duomo – risentisse di un «solenne richiamo ad una architettura classica fondata sull’arco e le colonne». Tale intuizione di Brandi, con l’esplicito richiamo all’architettura classica (o meglio romana) per il progetto originario della cattedrale orvietana, va considerata, o, almeno, mi sembra, nella valutazione della

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duomo di orvieto Da leggere Cesare Brandi, Terre d’Italia, Bompiani, Milano 2006 Lucio Riccetti, Opera Piazza Cantiere. Quattro saggi sul Duomo di Orvieto, Edicit, Foligno 2007 Guido Barlozzetti, Giuseppe M. Della Fina, Orvieto, Mario Adda Editore, Bari 2011 Vittorio Franchetti Pardo, La cattedrale di Orvieto: origine e divenire. Scritti editi e inediti, Opera del Duomo di OrvietoDeputazione di storia patria per l’Umbria, Orvieto-Perugia 2014 Laura Andreani, Alessandra Cannistrà (a cura di), Le statue nel Duomo di Orvieto. Quando la memoria ha un futuro, Palombi Editori, Roma 2019 Matteo Parrini, Fra Bevignate da Cingoli e le origini contese della Maior Ecclesia. L’impronta benedettina nel primitivo progetto

del capolavoro di Orvieto, in Altastrana. ArteStoria-Letteratura, 4, 2019, pp. 9-24 Laura Andreani, Maestranze straniere nel cantiere della Cattedrale di Orvieto tra Trecento e Quattrocento, Il Formichiere, Foligno 2020 Piero Cimbolli Spagnesi (a cura di), Studi sull’architettura del Duomo di Orvieto, Sapienza Università Editrice, Roma 2020 Raffaele Davanzo, La Cappella di San Brizio a Orvieto, Il Formichiere, Foligno 2021 Giuseppe M. Della Fina (a cura di), Orvieto. Il museo della città. 50 opere della sua storia, Officina Libraria, Roma 2021 (le voci dedicate al Duomo sono di Maurizio Damiani, Giovanna Bandinu, Stefania Furelli, Raffaele Davanzo, Corrado Fratini, Silvio Manglaviti, Giampaolo Ermini, Laura Andreani, Giusi Testa, Giordano Conticelli, Alessandra Cannistrà, Roberta Galli).

scelta di ricollocare nella navata – dopo un lungo e acceso dibattito – il ciclo statuario che vi era stato realizzato tra gli anni Cinquanta del Cinquecento e gli anni Venti del Settecento. Una soluzione certo non estranea alla tradizione di Roma antica.

La cappella del Corporale. Al centro, in alto, è collocato il tabernacolo in cui è custodita la reliquia legata al miracolo di Bolsena.

La passione di Simone per l’antico

A questa osservazione vorrei aggiungere che l’impresa di adornare l’interno del Duomo con sculture scaturí da un gruppo di lavoro raccolto inizialmente intorno a Simone Mosca e nel quale figuravano Raffaello da Montelupo, Francesco Mosca, subentrato alla morte del padre nella direzione dei lavori, e Ippolito Scalza. Simone Mosca nella testimonianza di Giorgio Vasari, che lo conobbe personalmente e «che portò sempre amore al Mosca», era appassionato di antichità. Vasari, in particolare, ricorda che, fatto venire a Roma da Antonio da Sangallo per lavorare nella chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, trascorreva «massimamente i giorni delle feste e quando poteva rubar tempo, a disegnare le cose antiche di quella città». Vasari aggiunge: «Non passò molto che disegnava e faceva piante con piú grazia e nettezza che non faceva Antonio stesso». Voglio dire che un conoscitore profondo dell’architettura romana antica quale Simone Mosca, nella testimonianza di Vasari, potrebbe avere intuito l’opzione «classica» del primo progettista del Duomo ed essergli sembrata, in una qualche misura, «coerente» la scelta di arricchire lo spazio con un ciclo statuario, soprattutto dopo lo spostamento del coro medievale dalla navata alla tribuna realizzato nel 1536.

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Vi sono state altre occasioni d’incontro tra Cesare Brandi e il Duomo di Orvieto, a parte ovviamente le due sintesi Disegno della pittura italiana (1980) e Disegno dell’architettura italiana (1985), e tra esse segnalo un lungo articolo apparso inizialmente nella rivista Epoca (11 gennaio 1975) e piú volte ripreso: come testo guida per un documentario televisivo con la regia di Folco Quilici realizzato nel 1976 (L’Italia vista dal cielo. Umbria), nella raccolta di scritti Umbria vera, curata da Vittorio Rubiu (1986), e nelle diverse edizioni di Terre d’Italia. In tale occasione l’interesse sembra concentrarsi sulla facciata: «Orvieto dove l’arte senese posò il Duomo piú bello d’Italia, quella facciata immensa e minuta, come una miniatura scolpita, come una pagina che non si può voltare, e la guardi senza fine e qualcosa ti si scioglie dentro, in silenzio come una comunione». E ancora: «Poi, nel Duomo, un altro Duomo, il Reliquario senese d’argento e d’oro e di smalti traslucidi come se l’acqua si fosse rappresa, come se il mare diventasse vetro: quasi annegati i gentili profili lorenzettiani, di una civiltà senza pari». Quindi il riferimento agli affreschi di Luca settembre

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Signorelli («i nudi incoercibili della fine del mondo») e alle non apprezzate porte in bronzo di Emilio Greco.

Un intervento sciagurato

Infine posso rammentare un articolo apparso anch’esso sul Corriere della Sera (25 luglio 1984), riproposto due anni dopo nel volumetto Umbria vera e, piú tardi, in Il patrimonio insidiato. Scritti sulla tutela del paesaggio e dell’arte (2001), dal titolo esplicito: Orvieto, in Duomo torni il barocco. Qui il tema diviene il ciclo statuario, a cui ho accennato, e la sua espulsione dall’interno della cattedrale: «[le opere d’arte orvietane] ebbero il colpo di grazia dai restauri radicali del Duomo capeggiati dal Fumi, meritorio da un lato e dall’altro gravissimo attentatore dell’unità storica del Duomo stesso; era il gusto del tempo, e si sa come è duro a morire, il ripristino integrale, la cancellazione di tutti i passaggi sistemati fra la nostra e l’epoca iniziale. Si credeva di far bene, e, ahimè, in quel caso, fu conservato il possibile; ma per riconquistare la nudità immaginaria del Duomo senza piú altari nelle cappel-

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le, e, miracolosamente ancora coll’affresco di Gentile da Fabriano, si distrusse il piú grande insieme di pittura e scultura romana del secondo Cinquecento e Seicento. E non si fece grazia neppure dello stupendo gruppo dell’Annunciazione di Francesco Mochi». Sulla possibilità del rientro del ciclo statuario in Duomo tornò in un nuovo articolo sul Corriere della Sera (19 giugno 1986), dove si annunciava come imminente (tali erano le aspettative suscitate!) il rientro dell’intero ciclo statuario nel Duomo: «non solo le due stupende statue dell’Angelo Gabriele e dell’Annunziata di Francesco Mochi, ma addirittura anche le dodici statue degli Apostoli (...) una collezione straordinaria di scultura con i nomi piú insigni del tardo Cinquecento e Seicento (...) per fortuna (...) ancora con i loro piedistalli che permetteranno di ricollocarle in situ senza arbitrii». Il progetto, al tempo, non andò in porto e l’Annunciazione di Mochi e il ciclo statuario degli Apostoli sono stati ricollocati all’interno del Duomo solo durante il 2019. Un auspicio che si è realizzato.

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il novelliere di giovanni sercambi/6

Cassapanca con sorpresa

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Rimasto solo, un anziano mercante veneziano pensa di poter fare affidamento sull’affetto e l’ospitalità delle sue tre figlie, ma si sbaglia: le ragazze – e i loro mariti – dimostrano una ben scarsa capacità di sopportazione, che finisce con l’amareggiare l’incolpevole genitore. Il quale si vendica dell’affronto facendo balenare la prospettiva di una ricca eredità... Cosí, quasi come in una parabola, Giovanni Sercambi stigmatizza il troppo amore per il denaro

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iovanni Sercambi proviene da una famiglia di speziali ed è perciò un uomo pratico e accorto, molto oculato nell’uso del denaro. Tuttavia nel suo Novelliere non si esime dal condannare gli eccessi dell’interesse economico quando sfocia nella cupidigia e, soprattutto quando mina i rapporti familiari. Lo fa con l’ironia che gli è propria, permettendo cosí alla brigata che ascolta le sue novelle di giudicare il comportamento positivo o negativo dei suoi personaggi con leggerezza, nonostante l’intento moraleggiante. Sulla via per Napoli, il narratore (lo stesso Sercambi) racconta l’exemplo LVII, tratto dal Ludus Scacchorum, un’opera risalente al XIII secolo. A Venezia il ricco mercante Piero Sovranso ha tre figlie «ed essendo vecchio sensa donna, non avendo alcuno figliuolo maschio (averne, la speransa li era fallita), pensò di maritare queste sue figliuole a tre mercanti e gentili uomini di Vinegia [Venezia], con dare a ciascuna di dota ducati VI mila. E maritate che l’ebbe, tenendo il ditto ser Piero una servigiale [donna di servizio] in casa la quale ’l servia e per questo dimorò ser Piero piú anni essendo alcune volte invitato da’ suoi generi e dalle figliuole». La quantificazione degli interessi economici in ballo, piú volte ripresa nella storia, serve all’autore per conferire realismo alla vicenda; specificare che i mercanti erano anche «gentili uomini» rivela lo status dello scrittore. L’anziano commerciante vive cosí per diversi anni, finché «pensò volere quel resto di denari che a lui erano avansati dividere tra lle suoi figliuole. E un giorno invitò tutte suoi figliuole e’ generi, dicendo

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Zecchino battuto al tempo del doge Antonio Venier. 1382-1400. Al dritto, il doge in ginocchio davanti a san Marco; al rovescio, Cristo benedicente in una mandorla. Nella pagina accanto particolare di una veduta a volo d’uccello di Venezia, olio su tela di Gian Battista Arzenti. 1620-1630. Venezia, Museo Correr.

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loro: “Figliuoli miei e figliuole miei, a me sono rimasi alquanti denari, e omai [oramai] non sono certo a fare mercantia perché sono vecchio, e non debbo ogimai tenere famiglia. E pertanto, se a voi è in piacere ch’io con voi torni a mangiare mentre che io vivo, vi darò quello hoe [quello che ho] di denari; e vestimenti non vi chieggo [chiedo], però che [poiché] molti me n’ho serbati. E in casa mia mi tornerò a dormire”».

Una spartizione generosa

Dopo una vita di sacrifici, la richiesta del padre al crepuscolo della vita sembra piú che legittima e gli stessi parenti stretti sembrano accoglierla favorevolmente, anche se il motivo non è certo d’amore filiale: «Le figliuole e’ generi, udendo nomar denari, desiderosi quelli avere, disseno che a lloro piacea, che mai non li verranno meno, faccendo gran profferte [promesse]. Ser Piero, pensando che atenessero [mantenessero] quello prometteano, trasse di uno suo arcibanco [cassapanca] ducati XXX mila, riservandosi a sé poga moneta (circa la valuta di ducati C [cento], per poterli spendere alcuna volta in malvagía [malvasia] o in alcuna confessione [confettura]), e fatto de ditti XXX mila ducati tre parte, dandone a ciascuna delle figliuole X mila, le figliuole e’ generi contentissimi, desnaron con allegressa, or dicendo tra loro che uno mese tornasse [alloggiasse] con l’una e un altro coll’altra, e cosí seguisse fine alla morte».

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In alto miniatura raffigurante la preparazione della pasta, da un codice del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Sulle due pagine miniatura raffigurante, nel registro superiore, una famiglia a tavola, da un codice delle opere di Aristotele tradotte da Nicola d’Oresme. 1453-1454. Rouen, Bibliothèque municipale. settembre

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Miniatura raffigurante un chierico che detta le sue ultime volontà, da un codice del Decretum Gratiani. 1286-1289. Tours, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un uomo afflitto dall’insonnia, da un codice del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Trascorso il primo turno di un mese da ciascuna delle figlie, partendo dalla maggiore fino alla minore e «tornando a la prima, la figliuola quasi malinconosa [mesta] lo padre ricevéo». Piero le chiede il motivo di quello stato d’animo: «Perché ’l mio marito vorre’ alle volte mangiar piú tosto [presto] che voi non tornate [di quando arrivate]». Il padre è addolorato perché si mette nei panni della figlia maggiore; tuttavia, rimane un mese a casa con loro per i pasti. Quando tocca alla seconda figlia ospitarlo, Piero si vede accogliere allo stesso modo della prima, ma con il problema contrario: «Il mio marito non vorrebe mangiar sí tosto come voi». Anche in questo caso, l’anziano commerciante rimane dalla figlia di mezzo per il mese stabilito. Pure la piú piccola riceve il padre con lo stesso mesto umore delle altre due sorelle «dicendo che ’l marito non può sostenere a mangiare ogni dí pasta, come volea il padre». Nell’Italia medievale, la pasta – farina impastata con acqua e uova e poi tirata col mattarello – anche se condita con salse diverse o bollita in brodo era conosciuta e apprezzata in ogni parte del territorio. Piero avverte una tristezza mai provata prima per

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l’atteggiamento delle figlie; torna dalla maggiore, che questa volta appare molto infastidita dalla sua visita, tanto da dire sottovoce: «Non morrà mai questo vecchio? O che seccaia [noia] è la sua?». Piero che «ha udito ma non inteso» chiede a una domestica cosa ha detto la figlia: «Ella ha ditto che seccaia è la vostra: or non morrete mai?». L’anziano padre non vuole credere alle proprie orecchie, fa finta di nulla per cercare di capire se quella frase cattiva della figlia è condivisa dal genero: «E stando a spettar di desinare (…) lo genero che sa che ser Piero è ritornato a casa non vi va ma sta saldo a bottega»; Piero intuisce che anch’egli è della stessa opinione, chiede di andare comunque a tavola, ma la risposta della figlia è sgarbata: «E’ non sare’ onesto che io incominciasse la vivanda per voi fine che ’l mio marito non è tornato».

Monta l’insofferenza

Dopo ore di attesa, si sono fatte ormai le tre di pomeriggio, l’anziano padre capisce il motivo del ritardo, ma dice solamente: «Figliuola, io non posso tanto aspettare: fa ch’io mangi. E poi ch’io veggo che ’l tuo marito ha molto che fare, domatina andrò a l’altre miei figliuole, ché

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penso che i loro mariti non aranno tanto da fare». La donna «udendo che si dovea partire, con fatica il dié da mangiare. E mangiato, ser Piero uscío di casa, e a casa sua tornò trovando la fante sua, dicendole che per la sera ordinasse da cena. La fante sensa contrasto la sera l’aparecchiò di buone vivande». La mattina seguente, l’anziano mercante si reca a casa della figlia di mezzo. L’accoglienza è tutt’altro che calorosa: «Or come, sete voi venuto qua che dovete stare con mia sorella? Per certo il mio marito non vel patire’ [non lo permetterà]». Piero è dispiaciuto, non vuole che l’uomo si arrabbi con lei e, per evitare discussioni, se ne va dalla figlia piú piccola.

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Nel frattempo, il genero maggiore quando torna a casa e non vede il suocero, nonostante il turno toccasse a loro, dice alla moglie: «Or ce l’abiamo levato da dosso questa seccagione [seccatura]»; anche il marito della figlia di mezzo è della stessa opinione, anzi, rincara la dose e rivela alla moglie: «Ben hai fatto, ché, quando io il vedea, mi parea vedere il diaule dell’inferno». Quando Piero si reca dalla figlia minore, la trova a tavola col marito; i due sorpresi e contrariati dalla visita inaspettata, gli chiedono come mai fosse lí: «Sono venuto a mangiare con voi». La risposta della donna è spiazzante: «Il mio marito non ha comprato niente per voi stamani, settembre

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Miniatura raffigurante le opere di misericordia, dallo Psalterium Cantuariense (noto anche come Salterio anglo-catalano o di Canterbury). Fine del XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

però che [poiché] sapete che dovavate andar alla vostra figliuola maggiore». Il padre finge di essersi sbagliato: «Figliuoli, io mi credea che anco fusse del mese [pensavo fosse ancora il mese che toccava a voi ospitarmi], e poi che voi dite che è passato, io andrò quine u’ [dove] sarò ricevuto». In realtà, il padre ha bruciato tutte le possibilità di desinare con almeno una delle figlie e scorato se ne torna a casa; la mattina dopo pensa di aver sbagliato a dare tutto il suo denaro a quelle figlie ingrate, decide di vendicarsi e «subito se n’andò a [si recò da] uno gentiluomo e ricco, al quale piú volte ser Piero li avea prestati denari, nomato ser Marco da Ca’ Balda, dicendoli tutto ciò che incontrato [capitato] li era delle [con le] figliuole». All’epoca spesso i mercanti prestavano denaro maturando gli interessi, come se fossero banchieri. Marco promette di aiutarlo e ascolta il suo piano: «Io vo’ [voglio] da voi che voi vegnate dirieto alla mia casa e aregate [portate] con voi ducati L mila [cinquantamila], e mentre che vi pare in nella mia camera intrate (e lle chiavi d’essa a voi darò ora), e quelli denari mettete in nello mio arcibanco, stando voi sempre da pié de’ letto (…) Io condurrò li miei generi e lle miei figliuole in casa, e intrato in camera solo e chiuso la camera, me li lassa innomerare [conterò le monete], e poi ne lli porta [poi porta via i denari] e araimi contento [m’avrai accontentato]». Da questo passaggio, abbiamo la conferma che nel Medioevo la stanza piú importante della casa era la camera da letto. Come ha scritto Chiara Frugoni in A letto nel Medioevo (il Mulino, Bologna; vedi «Medioevo» n. 308, settembre 2022; on line su issuu.com): «Mentre noi abbandoniamo di giorno il luogo dove dormiamo al silenzio e alla solitudine, nel Medioevo la camera da letto era animata da varie attività. La stanza, infatti, si adattava rapidamente ai desideri e ai bisogni di chi ci viveva. Innanzitutto, proprio per la piacevolezza del

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materasso imbottito e per il calore offerto, se necessario, dal fuoco acceso, faceva le veci del nostro soggiorno» e nel caso di Piero anche da studiolo. L’anziano commerciante «dato l’ordine che una domenica mattina fussenno li denari portati, ser Piero stato alquante stimane che a’ generi né alle figliuole niente avea ditto, né ellino a lui per non averne spesa, se n’andò a tutti e tre, invitandoli per la domenica mattina, loro e lle figluole. Li generi accettato, sperando trovare per uno X mila ducati com’altra volta ebeno, volentieri disseno di sí. Ser Pietro che ha [sa] che i generi e le figliuole venir denno, disse a la fante che ordinasse d’aver vivanda per uno onorevil dezinare; e datoli denari, la fante tutto misse in efetto».

La conta ad alta voce

Il giorno prestabilito, Marco porta i cinquantamila ducati, li mette nel «sopidano» della camera dell’anziano mercante e si nasconde con alcuni suoi uomini. Il soppidiano era una cassa di legno in cui si riponevano i vestiti o altro e che si teneva ai piedi del letto. Dopo aver desinato con i suoi familiari, Piero si alza da tavola con una scusa, si dirige verso la camera da letto, dicendo loro di rimanere in sala da pranzo. Apre «colla chiave la camera (alla quale ser Piero avea fatto alcuno pertuzo acciò che dentro veder si potesse) e richiusosi dentro e andato all’arcibanco e di quine trattene con romor e suono una gran tasca di ducati [una grossa borsa di ducati], le figliuole e’ generi che odeno lo romore, faccendosi a’ buchi della camera dove ciascuna figliuola e genero veder poteano, viddeno ser Piero esser al sopidano. E già cavato una tasca di ducati, in su una tavola con tappeti versati, e poi cavò l’altra e poi l’altra, tanto che tutte fuori le trasse. E cominciò a nomerare [contare] forte [ad alta voce], dicendo a quattro a quattro: 1,2,3,4,5,6, tanto che andò fino a CXXV mani, che sono ducati V cento. E dapoi prese uno paio di bilance metendo V cento a la ’ncontra, e poi un M; e per questo modo ser Piero fé L monti [pile] di ducati M per monte. E fatti tali monti (le figliuole e’ generi tutto viddeno sensa dire niente), ser Piero ripuose quelli ducati in nell’arcibanco; e fatta vista di chiuderlo a chiave, si levò e a l’uscio della camera venne e quello aprío». Da questo passaggio possiamo cogliere alcuni aspetti della vita medievale. Nelle case, come abbiamo visto, la stanza piú importante era la camera da letto, tanto che veniva tenuta chiusa a chiave perché custodiva i beni piú preziosi; poteva esserci un tavolo su cui erano posti tappeti, forse di elegante foggia persiana, per rendere la superficie piú attutitile e stabile. Scopriamo inoltre l’uso dei numeri arabi per i conteggi e di quelli romani per i totali. L’utilizzo della numerazione araba e dello zero viene introdotto da Leonardo Fibonacci in Europa nel 1202 e semplificò di molto la contabilità. Le figlie e i generi di Piero tornano in sala tutti allegri, sperando che quei denari toccassero a loro, mentre

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il novelliere di giovanni sercambi/6 Marco se ne va con i suoi ducati uscendo dalla scala sul retro della camera da letto. Dopo essersi lavati le mani, Pietro e i famigliari si mettono a tavola ed egli «alcuna volta dicea: “Io vedrò bene chi di voi m’amerà figliuole miei”. E loro respondeano: “Tutte v’ameremo”. E per questo modo passono il deznare». Alzati dal desco famigliare, Piero cala l’asso: «Io sono ogimai di tempo [anziano], e di vero io non potrei sostenere la fatica che sostenuto ho fino a qui: e però vi prego non vi dispiaccia che io vo’ stare qui in casa , sensa che a voi sia gravessa [dipiaciere]; e come Idio mi chiamerà a sé, il mio [capitale] dé [deve] esser di chi meglio m’arà meglio volsuto».

Una vendetta ben orchestrata

Le figlie e i generi, avendo visto il tesoro che il padre custodiva in camera da letto, fanno a gara nell’ospitarlo a pranzo e cena: «E per questo modo ser Piero non potea tanto mangiare quanto a prova ciascuno li apparecchiava, non per amor di lui ma di quelli nuovi ducati che veduti aveano». Trascorso diverso tempo «non potendo piú la natura sostenere, amalò. E di presente [immediatamente] le figliuole e’ generi funno a lui dicendoli che testamento facesse». Ser Piero, che aveva bene in mente come portare a termine la sua vendetta dice loro: «O figliuole miei e voi, generi, io veggo che dimorare piú con voi non posso; e però io vo’ da voi, in prima che altro faccia, che voi mi promettiate che quello che io disporrò farete». Ovviamente, gli opportunisti parenti sono d’accordo. Qualche giorno dopo l’anziano ge-

nitore fa testamento, presenti come testimoni l’amico Marco e un frate, «dispone che piú di XVIII mila ducati si distribuisseno a povere persone, e VI mila a preti e a frati, e II mila per vestire e onorare le figliuole e’ parenti e ’l corpo; sí che in tutto volea si distribuisseno ducati XXVI mila; lassando in nell’altre cose erede le figliuole». Piero specifica che i suoi generi non avrebbero dovuto aprire la cassapanca in cui era contenuto il tesoro fino al compimento di queste sue volontà, lasciando le chiavi a Marco e al frate, altrimenti avrebbe designato come erede l’opera di San Marco; dettate le ultime volontà e dopo essersi confessato, l’anziano mercante lascia questo mondo. I generi rispettano le volontà del suocero, pensando di avere a disposizione i cinquantamila ducati. Quando però aprono la cassa davanti a Marco e al frate, trovano solo un foglio con su scritto: «Chi sé per altrui lassa, dato li sia questa massa», ovvero, nulla. In questo modo Piero punisce l’ingratitudine delle figlie e dei generi. La brigata di Lucchesi apprezza la «savia casticasione» di ser Piero nei confronti dei suoi parenti serpenti. Il gruppo sta sfuggendo da un’epidemia di peste che Sercambi considera una punizione divina per i mali che affliggono la società: l’egoismo, l’invidia, l’avarizia, la grettezza d’animo. Secondo lo scrittore, anche la famiglia non è esente da questi vizi che è necessario sconfiggere per rifondare la società sull’altruismo e sulla concordia.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Chierici lussuriosi

Cofanetto in legno e ferro. 1490-1500. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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di Franco Cardini e Massimo Miglio

Un rifugio dove il tempo si è fermato Come si trasforma, nel corso del millennio medievale, il locus amoenus sognato e teorizzato dagli antichi? Ispirati al Paradiso descritto nelle Sacre Scritture, influenzati dalla tradizione persiana e islamica, giardini, orti e chiostri rispecchiano un rinnovato rapporto con la natura, legata alla religione ma anche all’ideale di vita, riposo e meditazione Miniatura dal manoscritto Sphaerae coelestis et planetarum descriptio (De Sphaera), attribuito a Cristoforo de Predis, raffigurante l’influenza di Venere: il giardino d’amore e la fontana della giovinezza. 1470 circa. Modena, Biblioteca Estense.


Dossier

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ecinzioni impenetrabili, una fontana perenne, angeli annunzianti, fiere mansuete, e ancora aiuole perfette, alberi sagomati e carichi di frutti, fonti e fontane, animali fantastici, gesti cortesi misurati e lenti, giochi di destrezza e parole d’amore, qualche rara immagine di lavoro. Questi i giardini proposti dalle miniature dei manoscritti medievali. Giardini evocati dalla fantasia, costruiti sui simboli, lontani dalla realtà, dei quali si raccontano i particolari (recinzioni, aiuole, alberi e fiori, fontane), ma che sarebbe sbagliato pensare come proiezioni della realtà. All’origine c’è la Bibbia, il giardino dell’Eden, che interpreta l’aspirazione archetipica dell’uomo di un mondo dove non vi siano animali feroci, non vi siano malattie, non vi sia la vecchiaia, con tanti alberi piacevoli a vedersi e con frutti buoni da mangiare, dove l’acqua dolce non manca mai, con qualche albero dalle virtú eccezionali; un luogo che s’addensa dei piú elementari desideri degli uomini: «Allora il Signore Iddio con la polvere del suolo modellò l’uomo, gli soffiò nelle narici un alito di vita e l’uomo divenne essere vivente. Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che

aveva modellato. Il Signore Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli all’aspetto e buoni a mangiare e l’albero della Vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Dall’Eden usciva un fiume che irrigava il giardino, e da lí si divideva in quattro rami». Il giardino (termine che la lingua italiana mutua dal francese jardin, che a sua volta deriva dal

In basso pagina miniata di un codice del De re rustica di Columella. XV sec. Roma, Biblioteca Vallicelliana.

la lezione degli antichi

I consigli di Columella In età neroniana, Columella dedica al giardinaggio il libro X del De re rustica (De cultu hortorum), che è il fondamento dell’arte imperiale dei giardini; si propone come continuatore delle Georgiche di Virgilio ma, se il De re rustica è in prosa, il libro dedicato ai giardini è in versi. Columella insegna come scegliere il terreno piú adatto per l’orto-giardino, che cosa piantarvi, e quando: alberi da frutto e fiori, «le stelle della terra»; accanto le erbe, sia alimentari che medicinali, delle quali lo scrittore non trascurava di cantare anche la bellezza. Il discorso sugli orti continua nel libro successivo con un preciso calendario astronomico dei lavori della terra, con il consiglio di recingere l’orto con una siepe viva e con notizie su erbe e ortaggi. In un’altra opera, il De arboribus, Columella parla di vigne e di frutteti, che entreranno piú tardi nell’universo proprio del giardino; non è del resto un caso che Columella chiudesse il libro dedicato agli alberi, che si apriva con la vite, parlando della viola e della rosa.

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In alto, sulle due pagine pittura di giardino nel triclinio della Casa del Bracciale d’oro di Pompei. I sec. d.C. La precisione del disegno e la minuzia dei dettagli consentono di riconoscere varie specie di piante, arbusti, fiori, frutti (fra cui corbezzoli, oleandri, allori, viburni, palmizi, platani, rose, gigli e papaveri), fra cui volteggiano uccelli variopinti.

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franco gard, che significava luogo chiuso) nel Medioevo, come lo raccontano le fonti piú accessibili, in immagini e scrittura, è un’idea piuttosto che una realtà, spesso espressione di una perfezione irraggiungibile e di un mondo perfetto. Nel giardino il tempo si ferma: è sempre primavera, nel giardino viene meno ogni necessità. È luogo dell’innocenza e della giustizia, luogo che può dare soluzione al disorientamento dell’uomo, ma in quanto tale è anche il simbolo della sua piú profonda ricerca interiore; è il mistero svelato, la meraviglia e il piacere assoluto; la riconquista di una dimensione perduta. È insieme il luogo della trasformazione della natura a dimensione umana e momento di trasformazione dell’infinito in finito, come tale luogo di tranquillo rifugio,

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sia per l’ordine interno che si contrappone al disordine esterno – il conosciuto allo sconosciuto – sia anche per la dimensione finita che lo rapporta alla vita dell’uomo.

Il trionfo dei sensi

È il luogo dove trionfano i sensi: sfiorare i petali di una rosa, l’odore dei fiori, il gusto di un frutto, il colpo d’occhio di siepi e aiuole, il canto degli uccelli, possono dare un piacere sottile o esercitare a condizionare il corpo e la mente. È difficile capire come fosse nella realtà, quanto fosse diffuso, quali piante vi fossero coltivate e come, se vi fossero tipi diversi da regione a regione; ancora piú labile, la distinzione tra orto e giardino. Solo molto tardi, con il XII-XIII secolo, la terminologia comincia a definirsi e a distinguere, le fonti documen-

tarie cominciano a lasciare testimonianze, piú frequenti in alcune regioni europee. La società romana della pars Occidentis dell’impero, dopo il 476 d.C., da quando i popoli germanici foederati fondarono al suo interno regni nei quali l’elemento romano e quello «barbarico» in vario modo convivevano, continuò a lungo a mantenere i suoi caratteri e i suoi quadri istituzionali, a livello provinciale e municipale, ma vide progressivamente decadere e destrutturarsi quelli socioeconomici e culturali. Mutarono progressivamente, in particolare, le abitudini alimentari, i caratteri produttivi e il rapporto con l’ambiente e con la natura. I popoli insediatisi all’interno del limes sono portatori di un tipo di alimentazione fondato sui grassi animali e sulle proteine,

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Dossier e per ciò occorrevano spazi aperti per l’allevamento di bovini, ovini e caprini; all’agricoltura si sostituí soprattutto un’economia di raccolta. Boschi e brughiere tornano a invadere in parte le aree che in età romana erano state deputate all’agricoltura; scompaiono, o si contraggono, anche quelle piú o meno vaste estensioni di terreno che i Romani avevano adibito (all’interno dei centri demici o, piú spesso, fuori di essi) a horti (per gli antichi un luogo protetto, spesso chiuso, dove erano coltivate le verdure per l’alimentazione, ma anche alberi fruttiferi, fiori e verde per il piacere), a pomaria (frutteti), a viridaria (termine piú generale, ripreso in seguito nel francese antico vergier, che indica un luogo verde per alberi, arbusti ed erbe, al quale corrispondono i nostri orti, giardini e verzieri) e che in rapporto alla loro estensione, al loro aspetto, alla loro funzione, avevano in passato rivestito differenti funzioni: alimentare, igienica, medica, estetica, simbolica; che erano stati insieme luoghi dell’utile e del piacere.

Controllare la natura

L’afflusso di genti abituate al nomadismo, o all’economia fondata comunque sull’allevamento e sulla raccolta, mise in crisi l’antica volontà dell’uomo – sostenuta da una tecnica sapiente – di controllare la natura e piegarla al suo volere governando la qualità delle colture e lo sbocciare, il crescere, il maturare di piante, fiori e frutti, gestendo la qualità dei suoli, l’apporto delle specie animali, il flusso delle acque, in un sapiente ed equilibrato rapporto con i microclimi e con l’avvicendarsi delle stagioni. Tende in altre parole a scomparire, con quello che noi siamo abituati a definire Alto Medioevo (V-IX secolo circa), il prodigioso effetto dell’incontro fra natura e cultura in uno spazio in cui il mondo vegetale, animale e

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Veduta dell’abbazia di Vallombrosa, con orti e giardini, particolare di un affresco di Giovanni Stradano. XVI sec. Prato, Villa Pazzi al Parugiano. Nella pagina accanto monaci al lavoro nell’orto, particolare della Tebaide, tempera su tavola variamente attribuita al Beato Angelico, a Gherardo Starnina o a un imitatore settecentesco. Firenze, Galleria degli Uffizi.

quello delle acque s’incontrano per dar vita al giardino. Gli antichi avevano sognato e teorizzato il giardino. L’idea di un luogo nel quale regna una perenne primavera, e fiori e frutti sono insieme e sempre disponibili per l’uomo, si trova già nell’Odissea di Omero, là dov’è descritto il giardino di Alcinoo nell’isola dei Feaci. L’immagine di un luogo perfetto, con una natura mite, amica e generosa (l’esatto contrario di come di solito la natura si presentava, specie nelle asprezze desertiche del vicino Oriente), era giunta forse ai Greci da notizie relative ad aree nilotiche dell’Egitto, ai giardini pensili di Babilonia, ai pairida‘za (in persiano «parco reale di caccia e di piacere», da cui l’ebraico pard‘s e il greco paradeisos) dei Gran Re iranici, che l’avventura di Alessandro Magno aveva reso famosi anche in Occidente. Un luogo perfetto per abitanti privilegiati, ma an-

che un luogo pericoloso, dominato da un eterno rischio di squilibrio e dunque di sparizione. I poeti latini, da Virgilio a Claudiano, avevano fatto a gara per immaginare giardini splendidi, spesso raccontati sul modello del locus amoenus, che erano diventati suggestione anche per l’incorrotta dimora dei beati, i «Campi Elisi». D’altra parte autori di opere naturalistiche o geoponiche come Catone, Varrone, Columella, Plinio il Vecchio, Marziale e Palladio avevano insegnato come disegnare e organizzare giardini, parchi, frutteti, riserve e giochi d’acqua, sistemi d’irrigazione. Quasi ogni casa romana aveva un giardino, per le necessità giornaliere, ma anche per il superfluo, per fiori e per frutti, per la bellezza del corpo. Sulle pareti di Pompei genietti alati pressano, miscelano, macerano fiori per farne essenze di profumi; nel settembre

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giardino della Casa del Profumiere crescevano ulivi per l’olio in cui far macerare i petali, c’erano piante di mirto, rose, viole, gigli e meli cotogni per distillare profumi. Varrone, discettando delle tenute di campagna nel De re rustica, forniva uno schema di aviarium, di uccelliera, che è rimasto un classico modello di come gli uccelli in gabbia possano armonicamente far parte del panorama d’un giardino, associati a bacini d’acqua, ad alberi e a una tavola da pranzo. Era un modello che egli aveva realizzato realmente nella sua villa di Cassino.

Refrigerio dei beati

Il mondo cristiano, d’altronde, non aveva avuto difficoltà a scorgere nel giardino di Alcinoo, nei «Campi Elisi», nelle varie forme di locus amoenus descritte dalla poesia pagana (il giardino di Flora nei Fasti di Ovidio, quello di Amore in Claudiano) altrettanti modelli sia del Paradiso di cui si parla nel Nuovo Testamento e in molti scritti apologetici e patristici – il luogo cioè nel quale i beati hanno il loro refrigerium – sia dei tre giardini della Sacra Scrittura: il paradisus voluptatis dell’Eden (o «Paradiso terrestre», come è comunemente noto); l’hortus conclusus, cioè il «giardino recintato» che la Sposa descrive nel Cantico dei Cantici; infine il giardino di Giuseppe d’Arimatea nel quale era scavato il Sepolcro del Signore e dove Gesú risorto era apparso, sotto l’aspetto di hortulanus (giardiniere), a Maria Maddalena. I tre giardini scritturali finivano con l’identificarsi fra loro come il luogo dell’assoluta felicità, della perfezione, della salute fisica e della salvezza spirituale. Giardino dell’Eden e Campi Elisi di tradizione classica si incontravano cosí nell’immagine del Paradiso: il refrigerium dei beati, del quale spesso si parla in Acta e Passiones martyrum, era ambientato in scenari di acque vive e freschissime, fiori e frutti –

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quindi un’eternità simboleggiata dalla contestualità temporale di fenomeni di solito presenti in differenti stagioni dell’anno – percorsi da una brezza leggera e costante, con la presenza di animali liberi e amici dell’uomo. Il Paradiso acquistava i tratti del giardino; e il giardino a sua volta veniva costruito, dove e quando fosse possibile, sul modello paradisiaco. E il monastero era immaginato (come già lo proponeva la Historia monachorum) separato dal mondo da spazi deserti e impervi e dal muro che lo

circondava; all’interno pozzi, orti irrigati, tutti gli alberi e i frutti del Paradiso, ricco di quanto fosse necessario per i monaci.

Sentieri in croce

Dal centro del chiostro benedettino, fonte o albero che fosse, si dipartivano quattro bacini d’acqua o quattro sentieri disposti in maniera cruciforme, a memoria dei quattro fiumi del mondo descritti dal Genesi. Il chiostro diveniva cosí immagine del Paradiso terrestre e figura di quel Paradiso eterno del

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Dossier Cosí parlò Isidoro

Mai senza frutto Nelle sue Etymologiae Isidoro di Siviglia definisce l’orto in modo significativo: «Si chiama orto perché vi nasce sempre qualcosa. Negli altri terreni nasce qualcosa una volta l’anno; l’orto invece non è mai senza frutto». L’enciclopedista medievale proponeva in tal modo un rapporto fra il giardino e la nascita (oriens), sottolineava la capacità teomimetica dell’uomo di organizzare la natura in modo da vivere come in un’eterna primavera, e suggeriva ancora come l’uomo potesse – con l’intelligenza e il lavoro, conseguenza peraltro del peccato originale – riproporre a se stesso forme di vita adamitica simili a quelle precedenti al peccato. Rabano Mauro riprendeva alla lettera Isidoro, distingueva tra le nobili erbe dell’orto e quelle vilissime che crescevano spontanee nei campi e precisava come l’orto sia figurazione della Chiesa. Il suo quale la vita monastica doveva già essere anticipazione, di quella Gerusalemme celeste al cui centro è piantato l’albero della Vita e di cui parla l’Apocalisse. Il chiostro rappresentava l’immagine su cui la Sacra Scrittura si apre e quella su cui [essa] si chiude: era l’alfa e l’omega della vita del monaco. Visto dall’esterno, da una povertà dell’animo che dialogava con quella del corpo, l’orto del monastero può sembrare anche per questo un paradiso. Nel suo poemetto Hortulus, Walafrido Strabone, monaco della Reichenau, spiega nel IX secolo come piante, fiori, frutti ed erbe del giardino siano destinati tanto a fornire alimento e benessere quanto a dispensar gioia a chi può goderne e ammirarne forme e colori, aspirarne gli aromi, riposarsi all’ombra nei giorni di calura: la ruta è utile contro i veleni; l’aglio dà sapore ai cibi, aiuta la digestione, toglie la nausea e scioglie i calcoli; l’artemisia ha qualità emostatiche; la nepitella è odorosa e il suo unguento è cicatrizzante; il rafano addolcisce la tosse. Moltissimi mistici e sapienti

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur trattato De rerumtendamusam naturis è spiegazione mistica e storica consent, perspiti e il lettore avrebbe trovato soddisfazione al desiderio di conoscere di ogniconseque cosa la nis realtà e l’allegoria. Rabano maxim eaquis allegoria la terra, i campi, legge e rappresenta secondo earuntia conesdei campi e degli orti. la coltura dei campi; le erbe Tra le erbe cheapienda. crescono spontanee nei campi

è il fieno, che nutre la fiamma, e il fieno indica per allegoria la fragilità della natura umana; il fieno che è bello quando è piú verde e fiorisce ma, quando appassisce, marcisce come gli empi; il fieno che rappresenta la storia del mondo e i peccatori; il fieno rappresenta i nobili che arricchiscono facilmente e vestono con abiti verdi. Ma le erbe dei campi, e il fieno tra esse, crescono virulente nei luoghi incolti e conservano la loro qualità agreste e insipida, come il fieno inaridiscono rapidamente e muoiono presto.

Rami di ciliegio fioriti e con frutti, in un’edizione tedesca dell’erbario di Pietro Andrea Mattioli (1585). Francoforte, 1626. Nella pagina accanto particolare degli affreschi con storie della vita di sant’Eldrado, in cui il santo è raffigurato mentre coltiva la vite in Provenza. XII sec. Novalesa, abbazia dei Ss. Pietro e Andrea.

illustrate nel loro aspetto e nelle loro proprietà terapeutiche, e testi a carattere mistico-allegorico, nei quali a ogni essenza vegetale corrispondevano virtú e poteri divinamente disposti e talvolta magicamente evocati.

Erbe e allegorie

trattatisti nei secoli X-XIII discettano sui giardini: da Herrada di Landsberg a Ildegarda di Bingen, da Alano di Lille a Vincenzo di Beauvais. I trattati, detti Erbari (santa Ildegarda ne compose uno celebre), erano al tempo stesso elenchi ragionati di piante, descritte e

Separate nelle immagini del De rerum naturis di Rabano Mauro da un semplice steccato di legno le erbe dell’orto si distinguono dalle erbe spontanee dei prati. L’orto, cioè l’hortus deliciarum, cioè il Paradiso, rappresenta la Chiesa attuale, ma anche la Chiesa del Genesi e del Cantico dei Cantici; il fiume che nasce in Paradiso è Cristo; i quattro fiumi che irrigano la terra possono essere la prudenza, la temperanza, la fortezza e la giustizia e per alsettembre

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legoria i quattro Vangeli; l’albero della Vita è ancora Cristo; quello del bene e del male il libero arbitrio. Anche le erbe dell’orto hanno i loro significati allegorici: cipolla e aglio segnano la corruzione della mente, il rafano esprime la continenza contro le suggestioni del diavolo, le lattughe indicano le necessità di evitare i perversi piaceri della vita, e cosí continuando per prezzemolo, coriandolo e sedano. Isidoro di Siviglia insegnava che Paradiso, in latino, si traduce dal greco hortus; l’intero monastero può essere allora per allegoria un hortus, il Paradiso. Dove alberi diversi compensano ogni mancanza e imperfezione, e se al tempo opportuno si mangerà un loro frutto, non si avrà piú fame, un altro toglierà la sete, un altro ancora farà scomparire la fatica. E l’ultimo albero, quello della Vita, darà, a chi se ne ciberà, la virtú di non invecchiare, non ammalarsi, non morire mai: l’orto monastico annulla tutte le conseguenze del primo peccato; nel monastero si conquista la vita eterna. Nei monasteri medievali – spe-

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cialmente in quelli benedettini – esistevano piú giardini, che avevano diverse funzioni adombrate nei nomi (viridaria, pomaria, herbaria): la Regula di san Benedetto prescrive che ogni monastero sia sempre provvisto di riserve d’acqua e di un hortus.

Le aiuole dei «semplici»

Nel celebre piano dell’abbazia di S. Gallo, inviato intorno all’anno 820 dall’abate della Reichenau all’abate Gozbert, gli spazi deputati a orti e a giardini sono ampi e differenziati: da quelli in cui si coltivano i vegetali destinati all’alimentazione, alle aiuole nelle quali crescono i «semplici» utilizzati nella preparazione dei farmaci, al cimitero, fino al claustrum chiuso e recintato appunto, al centro del quale stanno il pozzo o la cisterna simbolo del Cristo Fons vitae, oppure un albero, simbolo al tempo stesso dell’albero primordiale della Vita descritto dal Genesi e dell’albero della Croce. Tre spazi sono destinati alla coltivazione, con funzioni e con piante diverse. Un orto (hortus) rettangolare scandito da diciotto

aiuole disposte su due lati, ciascuna con un’essenza: da un lato cipolle, porri, sedano, coriandolo, aneto, papavero, rafano, un secondo tipo di papavero (magones), bietola; dall’altro aglio, scalogno, petrosilla, cerfoglio, lattuga, santoreggia, pastinaca, cavolo, nigella. Un erbario (herbularius), di forma quadrata, con otto aiuole disposte lungo il perimetro e otto all’interno su due fila: lungo il perimetro sono previsti gigli, rose, fagioli, santoreggia, costo, fieno greco, rosmarino, menta; al centro salvia, ruta, gladiolo, puleggio e accanto menta acquatica, cumino, levistico e finocchio. Il terzo spazio, coltivato ad alberi da frutto è il cimitero, con al centro la croce contornata dall’iscrizione: «Tra gli alberi della terra la croce santissima, che in perpetuo dà i frutti della salvezza»; tra le tombe dei monaci avrebbero dovuto esserci quindici piante: melo, pero, prugno, pino, sorbo, nespolo, lauro, castagno, fico, cotogno, pesco, nocciolo, mandorlo, gelso e noce. Alcune di queste piante compaiono nel De cultura hortorum di Walafrido Strabone e comparivano anche nel Capitulare de villis, dove Carlo Magno imponeva che nell’orto ci fossero ben 57 piante e le elencava una per una, aggiungendo che gli alberi da frutto dovevano essere, in molti casi, di tipi diversi per ciascun frutto. Strabone parlerà, in versi densi di nostalgie virgiliane, del cerfoglio, del papavero, della lattuga sclarega, dell’aglio, del rafano, indicandone con attenzione le qualità terapeutiche, i rischi della coltura, descrivendone le forme, la migliore collocazione negli spazi e secondo l’insolazione, ma senza alcuna tensione simbolica o allegorica, anzi proiettando la sua scrittura sulla conoscenza dell’esperienza comune e sull’esperienza del proprio lavoro, nel superamento della tradizione antica.

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QUEL CHE RESTA DELL’EDEN

Acquerello raffigurante l’imperatore moghul Babur che sovrintende all’allestimento del Bagh-e vafa (Giardino della Fedeltà) a Kabul, dal Baburnama (Storia di Babur). 1590 circa. Londra, Victoria and Albert Museum.

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secoli centrali del Medioevo (XI-XIII) segnano anche per giardini e orti occidentali un periodo d’intenso rinnovamento e miglioramento per la convergenza di una serie di cause: il deciso aumento della temperatura in tutto l’emisfero boreale, l’innalzamento del livello demografico e della qualità della vita; l’incremento nella domanda e nell’offerta di generi alimentari come di ogni altro tipo di merce; l’attenzione maggiore, e improntata a maggior fiducia nei confronti della natura (fino ad allora vista come nemica dell’uomo in seguito al peccato originale, e dominabile solo con aspra fatica), alla quale giovarono tanto gli insegnamenti dei teologi e filosofi neoplatonici della scuola di Chartres quanto la nuova sensibilità della proposta di Francesco d’Assisi. In tale contesto, e tra le ragioni principali di un rinnovato rapporto con la natura, deve essere valutata anche la conoscenza di nuovi modelli, tanto di pratica agricola quanto di tecniche, che giunsero agli Europei occidentali dal piú stretto contatto con la cultura musulmana in Spagna, in Sicilia e in Siria-Palestina.

Maestri indiscussi

Arabi e Persiani non erano soltanto abilissimi maestri nelle tecniche dell’irrigazione, delle coltivazioni specialistiche, degli innesti: essi avevano tratto dalle necessità dei loro luoghi d’origine (dove l’aspra e arida natura andava dominata e assoggettata) e dalla loro religione, le motivazioni a essere abilissimi creatori e curatori di orti, giardini, frutteti, vivai, serragli (anche la presenza animale fa parte del

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giardino, fin dai tempi dell’Eden); giardini che servivano per produrre spezie e condimenti, preparare dolci bevande e confetture, colorare filati e tessuti, miscelare profumi e confezionare cosmetici. La raffinata cultura musulmana detta poesie dedicate ai giardini, costruisce architetture di giardini, fa penetrare in case e moschee

stilizzate immagini della natura, disegna iconografie di tappeti che riproducono piante e fiori. Il Corano promette giardini e compagne purissime per i fedeli. Nella sura delle donne: «Ma coloro che credono e operano il bene li faremo entrare in giardini alle cui ombre scorrono i fiumi dove resteranno in eterno, sempre, e avranno ivi spose purissime, settembre

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Miniatura raffigurante la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, da un codice dello Hadîkat üs-Süedâ (Giardini del piacere) del poeta turco Fuzuli. XVI sec. Istanbul, Museo di arte turca e islamica.

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Dossier e li faremo entrare in ombrosa ombra»; nella sura della caverna due «giardini di vigne» propongono invece la parabola del buono e del cattivo fedele; in quella della vittoria: «Nessuna colpa al cieco, nessuna colpa allo zoppo, nessuna colpa all’infermo: ma chi obbedisce a Dio e al Suo Messaggero, Iddio lo farà entrare in giardini alle cui ombre scorrono i fiumi; chi s’allontanerà lo castigherà di castigo cocente». L’Islam aveva ereditato dalla cultura persiana la struttura tipica dei giardini-paradiso di Ciro e di Cosroe, dal cui modello non è forse immune la descrizione dell’Eden nella Bibbia: immensi parchigiardino distinti in quattro parti da due canali perpendicolari che s’incrociano; al confluire dei due bacini d’acqua, un’isola artificiale, su cui sorge un padiglione, ha il ruolo della mitica Montagna Sacra (anch’essa un elemento della geografia simbolica iranica trasmesso all’Islam), cioè dell’Umbilicus Mundi, il centro dell’Universo.

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In basso miniatura raffigurante il Vecchio (o Veglio) della Montagna che ha fatto entrare nel suo «paradiso» quattro giovani, da un codice del Livre des merveilles di Marco Polo illustrato dal Maestro della Mazarine. 1410-1412 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

L’antica consuetudine islamica coniugata con le esperienze bizantine, e soprattutto persiane, aveva collegato quanto del Paradiso si diceva nel Corano e quanto si leggeva in altri testi, soprattutto nel Kitab al Miraj (Il libro della Scala), che descriveva analiticamente il Paradiso e l’Eden; tanto che si è potuto dire che «mentre i Persiani avevano trasformato i giardini in paradisi, gli Arabi faranno del Paradiso un giardino». Il giardino musulmano approdava cosí a una tipologia coincidente con quella claustrale. Ma l’antico modello si rifrangeva nelle molte variabili dell’universo islamico medievale, dalla Spagna alla Sicilia, dove incontrò il mondo cristiano che già lo aveva

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Uno dei magnifici mosaici della camera di Ruggero II nel Palazzo dei Normanni, a Palermo. XII sec.

familiare. Splendidi erano i giardini che i califfi di Cordova avevano fondato nella città-reggia di Madina az-Zahara, e gli emiri siciliani avevano impreziosito Palermo, la loro capitale, dei giardini favolosi della Zisa e della Cuba, che furono ereditati dai sovrani normanni e quindi da quelli svevi.

Ricordi di un cronista

Il persistente fascino del giardino orientale nel mondo occidentale si coglie nella descrizione, velata dalla favolosa bruma del ricordo, che il cronista francescano Salimbene de Adam da Parma offre a proposito del cortile-giardino che ricorda di aver visto in gioventú a Pisa. Ancora piú profondo il fascino, e piú precisa, la favolosa descrizione

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nella palermo araba e normanna

Una Conca d’Oro di nome e di fatto Palermo, tra X e XIII secolo, in età musulmana e normannosveva, è un grande giardino che sorprende e stupisce tutti; è luogo d’incontro di culture diverse che s’esaltano e si perpetuano anche nei giardini. Dappertutto corsi d’acqua e canali, pozzi, mulini, verzieri e giardini di piacere, portici, cortili e logge fiorite. Idrîsî nel XII secolo la descrive attraversata d’ogni parte da corsi d’acqua e ricca di fonti perenni, con canali d’acqua fresca che provengono dalle montagne, giardini e parchi splendidi, frutti che crescono in abbondanza, edifici e strade talmente belli che è difficile descriverli e immaginarli; tutto seduce l’occhio. Quello che le fonti letterarie esaltano è il risultato di un articolato lavoro di sistemazione del suolo nell’area intorno alla città, che permette il controllo, lo sfruttamento e la riduzione delle zone umide e paludose con la creazione di una ragnatela di canali e di bacini d’irrigazione, di peschiere e di pozzi. Non solo Palermo è cosí un giardino, ma anche l’intera Conca d’Oro è coperta di coltivazioni di canna da zucchero, di palmizi da dattero, di giardini d’agrumi e di orti. Anche per questo Palermo è una città ricca: i suoi giardini producono ricchezza. I sovrani normanni e Federico II riprenderanno la tradizione e trasformeranno palazzi e ville, con i loro lussureggianti giardini, anche in raffinati simboli del potere.

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Dossier di giardini in Marco Polo, che molti ne aveva visitati e che cosí descrive quello di un leggendario, terribile signore musulmano sciita, il «Veglio della Montagna»: «Lo Veglio (...) aveva fatto fare tra due montagne in una valle lo piú bello giardino e ‘l piú grande del mondo. Quivi avea tutti i frutti e gli piú belli palagi del mondo, tutti dipinti a oro, a bestie, a uccelli; quivi era condotti: per tale venía acqua e per tale mèle e per tale vino; quivi era donzelli e donzelle, li piú begli del mondo, che meglio sapeano cantare e suonare e ballare. E facea lo Veglio credere a costoro che quello era lo Paradiso». Bisogna tuttavia tener presente che dobbiamo le descrizioni di Marco Polo, che sembra si limitasse a raccontare i suoi viaggi a viva voce, alla penna di Rustichello da Pisa, autore di romanzi cavallereschi. La nuova sensibilità laica per il giardino sottintendeva una rinnovata visione della natura, quale emerge dalla scuola di Chartres, dal francescanesimo e dalla riflessione filosofico-scientifica della scuola francescana di Oxford. Anche a questa dimensione si collega il nascere della cultura cortese che ha nel giardino uno dei suoi luoghi privilegiati: come si coglie nel giardino della Gioia della Corte e nel rito magico che vi si svolge, raccontati, verso il 1170, nel romanzo Erec et Enide di Chrétien de Troyes. Al pari dell’Eden, il giardino monastico poteva essere locus vere terribilis, e tanto piú potevano esserlo i nuovi giardini.

Simbolo di gioia

Tutto ciò è altrettanto e piú evidente nel Roman de la Rose, il romanzo che imporrà «prato» e «verziere» come scenari obbligati degli incontri d’amore; ma se il «verziere» poteva essere luogo d’eros e di adulterio, e quindi di peccato, esso restava metafora edenica: non sorprende pertanto che se ne sia impadronita la stessa letteratura mistica per farne simbolo delle gioie

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spirituali, come in Caterina da Siena. Già Dante aveva consacrato i modelli del nobile «prato degli spiriti magni», della «valletta dei principi», della «divina foresta spessa e viva» e infine del fiume fiorito dei beati. Il tardo Medioevo ha fatto largo uso del trattato filosofico – ma anche giuridico-politico – introdotto e sviluppato nei termini della visio, del sogno che unisce ai

caratteri onirici anche quelli piú propriamente profetici. Il modello di questa trattatistica resta il Somnium Scipionis di Cicerone; ma essa si articola e si sviluppa, attraverso la tradizione cortese vivificata dalla meditazione chartrense sulla natura, in una serie di testi il piú illustre dei quali, e soprattutto il piú diffuso del Medioevo, è il Roman de la Rose. settembre

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Miniature da un codice del Roman de la Rose. 1490-1500. Londra, The British Library. In alto, L’Amante e la Dame Oyseuse (l’Ozio) s’incontrano fuori dalle mura di un hortus conclusus; a sinistra, L’Amante si prende cura di una pianta di rose.

Nella Francia del primo Trecento, l’autore del Songe du vergier (Somnium viridarii) avrebbe ripreso il meccanismo della visio per introdurre un discorso filosoficopolitico e filosofico-giuridico. In Italia la visio avrà un’applicazione d’incalcolabile portata culturale, del resto non immediatamente compresa e apprezzata com’era invece accaduto con il Roman de

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la Rose, nella Divina Commedia, che fornisce gli elementi piú adatti a meglio comprendere in che modo – e in che senso – la via che porta al giardino sia un cammino iniziatico e catartico. La Commedia non comincia in un giardino: è un percorso dalla «selva oscura» (la hyle degli Chartrensi) al Paradiso terrestre, dal quale Dante potrà poi ascendere al Paradiso vero e proprio, dove tuttavia l’idea del fiore e del giardino tornerà spesso, soprattutto nella «candida rosa».

La versione di Dante

Dante ripercorre a ritroso la storia della caduta dell’umanità nel peccato: dalla condizione di peccatore, si libera successivamente dei peccati per liberarsi poi anche di quello originale, già cancellato dal Battesimo, con il passaggio del muro di fuoco che separa il giardino dell’Eden dagli altri piani della montagna del Purgatorio e con l’assunzione delle acque del Lete e dell’Eunoè. La «selva oscura» nella quale il viaggio comincia è, nella sensibilità medievale, il «deserto» nel quale

Adamo fu cacciato dopo il peccato. Nel suo cammino, dalla selva alla «divina foresta spessa e viva» che le si contrappone, Dante s’imbatterà in almeno due «loci amoeni», che in qualche modo rinviano all’idea del prato-giardino, a un ideale di vita aristocratico; non a caso si tratterà dell’Antinferno dove sono gli «spiriti magni» e, nel Purgatorio, della «valletta dei príncipi». Come sempre accade nei loci amoeni, la bellezza della natura nasconde il pericolo. Nel caso dell’Antinferno il pericolo è simbolizzato dalle tenebre, in quello della «valletta dei príncipi» dal serpente della sera. Anche il Paradiso terrestre è luogo pericoloso. Lo è l’Eden biblico, giardino delle delizie ma anche luogo della prova; lo è il Paradiso terrestre dantesco, dove rivive in una processione, che possiamo definire «ierofania», la storia della corruzione della Chiesa, e dove Dante stesso subisce da Beatrice una dura prova iniziatica, l’ultima prima di sentirsi «puro e disposto a salire alle stelle». Nel giardino delle serene conversazioni e degli otia della Firenze tre-quattrocentesca, la prova iniziatica sarà sostituita dalla catarsi filosofica ottenuta attraverso la narrazione di novelle rigorosamente collegate fra loro (Decameron), l’alternanza di narrazioni e di discussioni (il Paradiso degli Alberti), il dibattito politico (gli Orti oricellari). Si tratterà di un progressivo iter di «desacralizzazione», di «laicizzazione». Nel Paradiso terrestre di Dante, troviamo tutti gli elementi caratteristici del giardino medievale: il prato alberato, la fontana, l’albero centrale, la barriera circostante; la descrizione dantesca si attiene al modello proposto dal Genesi, il medesimo al quale si atteneva dal tardo Medioevo il chiostro monastico, uno dei precedenti del «giardino laico» tardo-medievale (feudale, signorile e poi anche borghese).

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Dossier Con due qualificanti differenze, però. L’Eden, quello biblico e quello dantesco, sta interamente dalla parte della natura: è cioè qualificato dalla sua forma, la pianta circolare, forma perfetta di quanto è divino e di quanto attiene direttamente al creato. Ma al cerchio, immagine edenica, si contrappone e poi si accompagna il quadrato, immagine apocalittica. È quadrata la pianta della città ed è quadrata la Gerusalemme Celeste che scende dal cielo, ma che si situa alla fine della storia e che è città degli e per gli uomini. Se la forma circolare rinvia al creato vivente, cioè agli alberi, agli animali, alle acque di cui è fatto il Paradiso terrestre (e anche alla muraglia di fuoco che lo circonda), quella quadrata rimanda alle pietre con le quali sono costruite le città degli uomini: e la Gerusalemme Celeste, edificata d’oro lucente come cristallo e fondata sulle pietre preziose, resta una città a misura d’uomo: dell’eletto, beninteso. La pianta quadrata, con il suo rinvio alla Gerusalemme Celeste, trova riscontro nell’impianto dei chiostri monastici.

Dalla parte della cultura

Ma la seconda differenza su cui insistere, dal momento che dalla fine del Settecento in poi il Landscape Garden ha profondamente modificato per questo aspetto l’intera cultura occidentale, è che, a differenza del Paradiso terrestre, nel giardino dell’uomo tutto sembra, nell’Occidente medievale, misurato e numerato. Se il Paradiso terrestre sta dalla parte della natura, il giardino dell’uomo sta dalla parte della cultura. Da tutto questo nasce un interrogativo inquietante. Qual è o quali e quanti possono essere i messaggi celati dietro questa forma di imitazione-emulazionecorrezione? Imitatio Dei che finisce con l’approdare a una soluzione ascetico-liturgica, e sarebbe il caso

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dei chiostri monastici, neppure loro del resto baluardi sicuri (al centro dell’Eden sta il serpente; nei chiostri si aggira, come ripetono le fonti monastiche, il Tentatore) o, al contrario, la piú antiedenica delle proposte: «Eritis sicut Dei»? Se il giardino monastico è un’umile laboriosa memoria del Paradiso, con i suoi fiori e con le sue piante che restituiscono la salvezza, il giardino filosofico e cavalleresco potrebbe essere per contro un atto profano, una sfida al Signore. Un atto di magia. E ne troviamo, com’è noto, parecchi esempi nella letteratura medievale, prima del giardino nell’isola di Alcina nell’Orlando furioso. Non a

caso sono a loro volta anch’essi teatro di una prova iniziatica. Verso il 1170 Chrétien de Troyes, poeta legato a Maria di Champagne (figlia di quell’Eleonora duchessa d’Aquitania che aveva partecipato alla seconda crociata e in quell’occasione aveva ammirato i bellissimi giardini che circondavano la città di Damasco), scriveva il romanzo cavalleresco Erec et Enide, nel quale si narrava l’ardua prova iniziatica della Gioia della Corte. Il terribile gioco magico consiste nello spezzare un incantesimo legato a un giuramento inviolabile. La prova aveva luogo appunto in un giardino; in un giardino della corte di Champagne, dove si stasettembre

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Affresco raffigurante Cristo in trono al centro della Gerusalemme celeste. XI sec. Civate, chiesa di S. Pietro al Monte.

vano fondando e affinando i ruoli della cultura cortese, luogo per eccellenza della vita raffinata ed elegante dei principi; ma al tempo stesso luogo pericoloso, regno di misteri e di tranelli.

Cinto dall’aria

Ecco la descrizione del magico verziere: «Esso non era cinto né da un muro né da uno steccato, ma solo dall’aria, che per negromanzia circondava interamente il giardino, sí che non vi si poteva entrare che per un unico accesso: proprio come se fosse stato cinto da un’inferriata. Vi maturavano fiori e frutti tanto d’inverno quanto d’estate: essi, per incantesimo, potevano esser mangiati solo all’interno del giardino, e non era possibile portarli fuori. Chi ne avesse preso uno per portarlo via non sarebbe mai potuto uscire; e non avrebbe mai raggiunto il varco d’uscita fin-

ché non lo avesse ricollocato al suo posto. Inoltre, non v’è uccello che voli sotto il cielo, e che col suo canto affascini e diletti e rallegri l’uomo, che in quel giardino non facesse udire la sua melodia: e ve n’era in gran numero, e di differenti specie. E la terra quant’è grande non produceva spezia o pianta medicinale in grado di guarire qualunque malattia, che non attecchisse in quel verziere e non vi crescesse in gran quantità». Chrétien de Troyes propone la forma archetipica dell’inviolabile «giardino incantato», destinato a ritrovarsi poi in un’infinità di fiabe: inviolabilità, eterna primavera, abbondanza di erbe salutari, canto degli uccelli. Sono le condizioni preadamitiche necessarie a che il giardino somigli all’Eden. Si possono anche individuare possibili radici celtiche nella descrizione, e quindi un collegamento con le cel-

A destra La creazione del mondo e la cacciata dal Paradiso, tempera e oro su tavola di Giovanni di Paolo. 1445. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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Dossier I maestri di Chartres

L’anima del mondo Con il nome di scuola di Chartres si indicano quei maestri che nel secolo XII studiarono e insegnarono nella scuola cattedrale di Chartres e utilizzarono la sua ricca biblioteca: tra questi, Gilberto Porretano e Teodorico di Chartres lavorarono sull’opera di Boezio, mentre Guglielmo di Conches, allievo di Giovanni di Salisbury, elaborò una compiuta teoria sul mondo fisico. La rinnovata attenzione per il mondo naturale, che si sarebbe straordinariamente sviluppata nel Duecento grazie al francescanesimo e alla scuola scientifico-filosofica di Oxford, i cui esponenti, come Ruggero Bacone, erano spesso francescani, ha nei maestri di Chartres il suo primo fondamento. In quel contesto si approfondí il concetto, derivato dal Timeo di Platone, di anima mundi (l’anima del mondo): l’universo è considerato un grande essere animato, pervaso da una forza vitale, che è tramite tra Dio e la materia. L’anima mundi venne tradotta in una vasta serie di rappresentazioni simboliche: ora come splendida ed enigmatica figura femminile che personificava la Natura, ma anche la Vergine Maria; ora come Arbor Vitae, simbolo desunto dal Genesi ma riproposto nel XII-XIII secolo come simbolo dell’origine unica e dell’infinita varietà delle forme che la natura può assumere. I maestri di Chartres sono alla base anche della proposta ideologica trasmessa dal Roman de la Rose, opera di riferimento della «filosofia del giardino» nell’Europa medievale. Miniatura raffigurante Enoch ed Elia in ginocchio ai piedi dell’Arbor vitae, con fiori e melograni sui quali corrono versi, da un codice dei Regia Carmina dedicati a Roberto d’Angiò. 1335-1340 circa. Londra, British Library.

tiche «isole occidentali» dei Beati, abbastanza affini ai Campi Elisi greci e romani; ed è possibile che Chrétien rivestisse un mitema d’origine celtica (presente nei racconti folclorici ai quali sembra attingere) di caratteri descrittivi desunti in-

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vece dal mondo orientale, che le crociate in Siria e in Spagna avevano reso familiare alle aristocrazie cavalleresche francesi. La cultura cortese, maturata tra XII e XIII secolo, fa del giardino, nelle forme del «prato» e del «verziere», il luogo deputato sia agli incontri poetici e amorosi, sia alle discussioni durante le quali si discettava d’amore secondo i canoni d’una cultura nata all’interno della rinascita platonica e della rinnovata tradizione ovidiana; è

una cultura erotico-filosofica che trova la sua maggiore espressione nel De Amore di Andrea Cappellano e nel Roman de la Rose di Jean de Meung. La poesia dei trovieri franco-settentrionali e dei trovatori franco-meridionali celebra l’esplosione della natura risvegliata a primavera, il «bel maggio» guerriero e amoroso, la rosa, flos florum, che è il fiore per eccellenza dell’amore, sacro alla Vergine Maria alla quale si tributa un culto mistico e cavalleresco al tempo stesso. settembre

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LA NATURA IN PUGNO

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orse per il tramite della cultura cortese, ma senza dimenticare i suoi ascendenti scritturali, il giardino entra nelle corti di re e di principi. «Quivi quasi tutta la terra per li raggi del sole temperare era di tende di sete e da varii colori e porpore ornate tutta coperta altamente, colle pareti delle strade ornate d’infiniti capoletti e drapperie, tessute infinite storie, tanto ricchissimamente coperta, con copia grandissima d’infinite frondi e mai, con abondanza inestimabile di svariati olorosi e freschissimi fiori, che tutto lo spazo agiuncato coprieno. E di ridotto in ridotto fontane erano ordinate con aqua dolcissima e chiara, con condotti abondantissimamente in grandissime conche rovesciando e di sopra con infiniti zampilli rinfrescando e ruggiadando tutto l’aiere e le fronde». È questo il ricordo, a distanza di oltre due secoli, e quindi mitizzato dalla sensibilità e dall’esperienza rinascimentale, dei giardini palermitani di Federico II di Svevia. Il giardino è usato nel racconto di Giovanni di Gherardo da Prato come

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simbolo – e non è procedimento certo nuovo – della felice situazione dell’Italia meridionale durante il regno del sovrano svevo; una parte per il tutto a indicare il giudizio dei contemporanei, trasmesso nei racconti delle élites nei secoli successivi, della ricchezza naturale e indotta, del clima temperato, dell’abbondanza dei commerci, dell’industriosità, della cultura artistica. È una trama tutta intessuta di superlativi, non solo temporali e spaziali (come avviene spesso nel racconto dei giardini); una trama che sembra contagiata dall’horror vacui (ancora una volta, come capita spesso in immagini e descrizioni di giardini), ma che fotografa, anche nelle dimensioni dei sensi, lo spazio affollato di una serra.

Un manifesto ideologico

Il procedimento logico di Giovanni di Gherardo nel suo Paradiso degli Alberti, che trasferisce il giardino nella sfera ampia della simbolica del potere, non è arbitrario, e non lo è

Palermo, il Palazzo della Zisa. Ispirato ai canoni dell’architettura araba, il complesso – che prende nome dall’arabo al-aziz, «nobile», «splendido» – fu voluto da Guglielmo II d’Altavilla come luogo di delizie e include anche giardini. XII sec.

tanto piú se riferito all’Italia meridionale e alla tradizione normanno-sveva. Se il giardino di Federico II è nel racconto, anche a distanza di tempo, simbolo delle realizzazioni positive del governo, un incunabolo dell’arte del buon governo, lo stesso giardino è per i contemporanei un’espressione esplicita dell’ideologia politica del sovrano, un mezzo attraverso il quale il potere del principe è presentato, con o senza la mediazione degli intellettuali di corte, ai sudditi. Tradizione antica. Il Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, scritto negli ultimi anni del XII secolo, accompagna, sia come narrazione in versi che come narrazione per immagini, la conquista del regno di Sicilia da parte di Enrico VI figlio

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Dossier del Barbarossa, contro le pretese di Tancredi di Sicilia e dei suoi seguaci. Racconto di forte grana politica. Tra le prime scene descritte è la morte del normanno Guglielmo II. Il lutto di Palermo è rappresentato iconograficamente con l’immagine della Cappella Regia, dei quartieri del Cassaro, di Deysin, di Kalza, del Castello a mare, del porto e del giardino regio, il Viridarium Genoard (che si può forse tradurre dall’arabo come «il giardino del Paradiso terrestre»), che era sulla strada da Palermo a Monreale. L’immagine costituisce per quest’aspetto un’integrazione rispetto al testo scritto; pone in forte rilievo il Viridarium; accosta il giardino ai quartieri della città e lo inserisce nel contesto urbano; utilizza il giardino regio come simbolo del potere; riprende per il giardino motivi della sala regia di re Ruggero, decorata tra 1160 e 1170. Nell’Italia meridionale, dunque, regione d’incontro della cultura araba con quella normanna, sveva e bizantina, il giardino acquista una fortissima dimensione simbolica e politica, tanto da essere personificato. Il Viridarium accompagna il pianto degli abitanti dei quartieri, a significare, nella serenità della sua immagine espressa da piante e animali con i loro simbolismi, quel che restava dell’attività del re.

Raccontare la pace

Sulle due pagine miniature dal De rebus Siculis carmen o Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli. 1195-1197. Berna, Burgerbibliothek. In alto, la morte di Guglielmo II, con immagini di Palermo; nella pagina accanto, animali che si abbeverano alla fonte Aretusa.

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Il giardino, conservando intatto il suo carisma sacro, torna di nuovo nel mondo laico, trasferendo a questo gran parte di valori e significati che aveva avuto nel mondo religioso. Cosí, quando nel terzo libro, dedicato tutto all’esaltazione di Enrico VI, l’autore deve raccontare ai suoi lettori la pace, piú sperata che reale, dell’impero negli anni di Enrico, concretizza l’idea della pace in due immagini successive che sono comprensibili, sia politicamente che iconograficamente, solo se lette insieme. settembre

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La prima immagine (una lunga sequenza di fiori che sovrasta una fonte) trova un senso solo nella lettura dei versi che ricordano la mitica età dell’oro, la terra che produce senza essere lavorata, gli alberi ricchi di frutti, di rose viole gigli sempre in fiore, gli animali (buoi, leoni, gru, aquile, porci, cani, orsi e cinghiali) che si abbeverano insieme alla stessa fonte. La fortissima suggestione veterotestamentaria (Is. XI, 6-8) e i suggerimenti edenici servono a indicare quali saranno i risultati politici di un governo di pace, ulteriormente precisati nell’immagine successiva del Theatrum imperiali palacii. Il discorso è ora tutto politico e amministrativo: il cancelliere raccoglie i tributi delle diverse regioni dell’impero nell’aula regia. L’Indo e l’Arabo consegnano cofani di monete d’oro. Ancora una volta al centro dell’iconografia è la fonte, che riceve però una significativa precisazione nella didascalia: è la fonte Aretusa.

Fontane e vivai

Il chierico Pietro da Eboli colloca come centro ideologico delle due immagini la fonte con tutte le sue implicazioni simboliche e religiose (la fontana dell’hortus conclusus): la fonte Aretusa è la Sicilia, la Sicilia che è il giardino dell’impero, l’hortus dell’imperatore; la fonte è il simbolo della pacifica convivenza, è il centro dell’impero, ma la fonte è soprattutto l’imperatore. Poco aggiunge a questo punto che l’aula regia sia rappresentata – non sappiamo con quanta fedeltà – come un chiostro. La sacralità dell’impero si costruisce con le immagini veterotestamentarie del giardino. Possiamo seguire questa tradizione ancora piú indietro. Tornare al palazzo reale costruito da Ruggero, con le immagini di giardini, per esempio, della Cappella palatina, e ancora meglio, al palazzo della Favara, con il suo ricco vivaio, con pesci portati da varie regioni, con

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l’enorme giardino creato recintando monti e boschi, impiantando alberi e liberandovi daini, caprioli e cinghiali. L’acqua arriva al palazzo da una splendida fontana. Il commento del cronista è che la sapienza del sovrano gestiva la diversità delle stagioni: d’inverno e in Quaresima

viveva a Favara, anche per l’abbondanza di pesce; in estate si distraeva con la caccia nel parco e qui consultava saggi, provenienti da tutto il mondo, esperti d’ogni scienza. I versi dei poeti in lingua araba svelano le diverse componenti ideali di una terra-giardino e dei

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Dossier giardini dei re normanni: la Sicilia è un giardino d’eterna felicità, nei palazzi reali regna la gioia, i giardini inviolati raccolgono tutte le delizie umane, i leoni della fontana versano acqua del Paradiso che si divide in nove ruscelli, gli animali sono degni del Paradiso, gli uccelli cantano dall’alba al tramonto, la primavera ammanta i parchi e corona la reggia di boccioli variopinti, i prati sono drappi di seta, le arance sono fuoco che arde su rami di smeraldo, il vento trasporta profumi, gli alberi sono carichi di frutti, le palme sembrano coppie di amanti. Tutto è reale, ma può sembrare un’invenzione, commenta un poeta.

Il verde è ovunque

Palermo è una città giardino. Per la bellezza del verde degli alberi e per l’abbondanza delle acque. Per i giardini che riempiono ogni spazio di alberi e di frutti, dai quali non è possibile sottrarre lo sguardo per il piacere: vigne rigogliose e generose, orti ricchi di frutti e pozzi colmi d’acque, ruscelli che irrigano le aiuole, e nelle aiuole cetrioli, cocomeri, meloni, zucche. Dovunque si guardi una quantità di piante e alberi (e a quelli descritti potremmo aggiungere cavoli, cipolle, porri, carciofi, melanzane, zucche, carote, ravanelli, rape, fave, albicocchi, meli cotogni, peschi, peri, meli, sesamo e rose): due tipi di melograni, tre di cedri, noci, mandorli, fichi, ulivi, carrubi, palme da dattero, canne da zucchero, limoni, arance; gli alberi d’arancio rosseggiano per la frutta matura, verdeggiano per i frutti dell’anno precedente e hanno i fiori del nuovo anno. Ancora un’immagine del XII secolo, attenta alla caratterizzazione di un giardino dei climi caldi del Mediterraneo e all’esaltazione del principe, ma che rinvia anche a «jardinarii» e «ortolani» che coltivavano in gran numero i giardi-

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ni, ai «gabellotti» che gestivano le proprietà signorili, alle proprietà delle grandi istituzioni ecclesiastiche e delle famiglie aristocratiche, all’importanza dei prodotti dei giardini nell’economia della città, al costo e allo sfruttamento razionale dell’acqua e all’utilizzazione dei terreni paludosi, ai drenaggi dei terreni, ai salari per i lavoratori, alle gabelle dei prodotti, alle tecniche di giardinaggio ereditate dal mondo musulmano e alle specializzazioni del lavori, ai giardini extraurbani accanto a quelli all’interno della città. C’è senza dubbio qualcosa di fiabesco, che rinvia ai romanzi cavallereschi con qualche suggestione orientale, nel giardino di Salimbene da Parma. Era accompagnato da un frate laico che morirà suicida poco dopo o che scomparve forse rapito dal diavolo, in una città che era allora una delle signore del Levante, la Pisa degli anni Quaranta del XIII secolo con strettissimi rapporti con la Siria e con floride colonie sul litorale del regno crociato di Gerusalemme: «Quando abitavo nella città di Pisa, ero giovanetto, una volta un certo frate laico mi condusse con sé alla questua (...) Trovandomi dunque con lui a Pisa, ed andando con le nostre sacche alla questua del pane, capitammo in un cortile nel quale entrammo insieme. Il cortile era tutto coperto da una vite frondosa, il cui verde era delizioso a vedere e la cui ombra era soave per la sosta. C’erano leopardi e tante altre fiere d’oltremare, che osservammo a lungo, perché si guardano volentieri le cose insolite e belle». È un ricordo di gioventú, quasi onirico. Una grande pergola che invade per intero un cortile, leopardi e fiere esotiche, il canto e il ballo misurato di giovani e fanciulle, belli e con bei vestiti, musica insolita e canti in una lingua sconosciuta, nessuna parola scambiata tra ospiti e visitatori, una lunga sosta e la ritrosia ad allon-

tanarsi, intorno il silenzio: il tutto come sospeso al di fuori dello spazio e del tempo, chiuso nel cerchio magico mirabile del ricordo.

La canzone di Lapo

Ma ascoltiamo ancora un’altra voce: «Amor, eo chero mia donna in domino, l’Arno balsamo fino, le mura di Firenze inargentate, le rughe di cristallo lastricate, fortezze alte, merlate, mio fedel fosse ciaschedun latino; il mondo ’n pace, securo ’l cammino: non mi noccia vicino e l’aria temperata verno e state; e mille donne e donzelle adornate, sempre d’amor pregiate, meco cantasser la sera e ’l mattino: e giardin fruttuosi di gran giro, con grande uccellagione, pien di condotti d’acqua e cacciagione, ben mi trovasse come fu Assallonne, Sansone pareggiasse e Salomone, servaggi de barone; sonar viole, chitarre e canzone; poscia dover entrar nel cielo empiro; giovine sana allegra e secura fosse mia vita fin che ’l mondo dura». È una celebre canzone di Lapo Gianni, amico di Dante, poeta fiorentino che si direbbe prediligesse toni aerei e magici se lo stesso Alighieri dedicò a lui e a Guido Cavalcanti il sonetto Guido, io vorrei, tessuto sull’immagine onirica di un viaggio su un aereo vascello in compagnia delle donne amate. Nei versi di Lapo l’immagine di Firenze spira serenità, ricchezza, gioia, perfezione. Dalla città l’immaginazione del poeta si allarga al contado, e dalla signoria dello spazio giunge a vagheggiare una signoria sul campo, che lo renda giovane, sano, felice fino alla fine dei tempi per consentirgli poi di passare, in perfetta gioia, in Paradiso. Un sogno? Certo, la realtà della società comunale del DueNella pagina accanto Noli me tangere, affresco del Beato Angelico. 1440-1442. Firenze, Museo di San Marco. settembre

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Dossier

gli affreschi del camposanto di pisa

Incontri d’amore Poco prima della peste nera del 1348, viene realizzato nel Camposanto vecchio di Pisa un complesso affresco, ispirato dalla cultura domenicana del convento di S. Caterina a esaltazione della vita ascetica, eremitica e contemplativa e a condanna dei ricchi modelli di vita cortese della società pisana. Al centro dell’affresco è la Morte, sotto di lei un cumulo di cadaveri; sul lato sinistro una ricca cavalcata incontra tre bare scoperchiate. Sopra la cavalcata quattro eremiti in un deserto roccioso, a destra

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degli eremiti la bocca dell’Inferno. A destra della Morte, sotto un cielo affollato di angeli e di diavoli, un giardino che ricorda l’atmosfera incantata del giardino di Salimbene. Due amanti, riccamente vestiti, siedono su una panca a scacchi: l’uomo ha un falcone, la dama un cagnolino; sono accompagnati da una brigata di otto persone, tra cui una giovane donna che pizzica un salterio e un uomo che suona una lira da braccio; alle spalle della brigata, una spalliera di melarance mentre un settembre

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cento (e di Firenze soprattutto, che era allora una grande metropoli mercantile e manifatturiera) era ben diversa. L’Arno, già inquinato dai rifiuti e dai prodotti della lavorazione della lana e dei pellami, era tutt’altro che balsamo; e, quanto a muri e strade, se è vero che alla fine del Duecento il Comune adotta rigorosi provvedimenti di ampliamento, razionalizzazione e pavimentazione, è vero altresí che si era molto lontani dall’argento e dal cristallo.

Nitore e trasparenza

prato ricchissimo d’erbe e fiori si stende ai loro piedi. La cultura dell’ispiratore del programma iconografico, che con qualche probabilità dovette essere Domenico Cavalca, individua nel giardino il luogo topico della vita cortese e cavalleresca e vi colloca le attività tipiche e caratterizzanti dell’aristocrazia: incontri d’amore, musica e canti, dolci conversazioni, per condannare i modelli comportamentali della società contemporanea e per contrapporre un ideale di ascesi religiosa.

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Giovani donne, in un giardino, conversano serene, allietate dalla musica, particolare del Trionfo della Morte, affresco realizzato da Buonamico Buffalmacco per il Camposanto di Pisa. 1336-1341.

E allora? Pura città ideale? O delicata quanto fragile immagine onirica? In realtà un’altra chiave di lettura è possibile: quella di un mondo cittadino e comunale sentito come proposta di perfezione, non tanto urbanistica quanto politica, quindi come «nuova Gerusalemme», al pari di quella che scende dal cielo nell’Apocalisse di Giovanni, e che proprio in quanto tale è tutta nitore e trasparenza. In questo contesto, i sognati giardini «di gran giro» (ancora rigorosamente cintati secondo la tradizione medievale dell’hortus conclusus) si animano di condotti d’acqua, di uccelli, di animali selvatici, diventano grandi parchi, sereni Eden ritrovati per un mondo finalmente pacificato. Ma sappiamo che il mondo medievale, dentro e fuori le mura urbane, rispondeva ben poco a queste immagini idilliache. Eppure con la città comunale l’idea di giardino (come natura guidata e dominata dall’uomo) penetra lentamente nella sensibilità corrente, liberandosi dagli opposti poli del vagheggiamento allegorico-metafisico e della diffidenza per la sensualità. Quando, nel XII secolo, la badessa Herrada di Landsberg immaginava il suo Hortus deliciarum, lo proponeva come un sottile pericolo, nel richiamo alla materialità del giardino monastico e, in con-

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Dossier trapposizione, come refrigerio, in quanto simbolo delle intime gioie dell’anima solitaria in preghiera.

Paesaggi che mutano

Verso la metà del Duecento qualcosa sta ormai lentamente cambiando, anche per i reiterati contatti con l’Oriente, e proprio a partire da quei centri urbani che avevano maggiori legami con l’Oltremare. Né in Salimbene, né in Lapo è certo la natura a essere vagheggiata, quanto la perizia con cui l’uomo la domina e la plasma. Cosí qualche decennio piú tardi Petrarca, ammirando il panorama di Genova, coglierà senza dubbio la bellezza dei suoi oliveti e dei suoi vigneti, ma non per contrapporli a torri e palazzi, che anzi gli appariranno omogenei, bensí per metterli in contrasto con l’asperità della scoscesa collina ligure, natura che l’uomo è riuscito a domare. Città e giardino stanno dalla stessa parte, dalla parte dell’uomo contro una natura ostile. Non a caso, come accade nelle descrizioni dei giardini del De-

cameron, la bellezza della natura, addomesticata e piegata al disegno umano, consiste soprattutto nel sembrare falsa, disegnata e colorata ad arte. Dalla natura pericolosa e ostile dei filosofi della scuola di Chartres, attraverso la natura selvaggia la cui bellezza non viene negata ma è sentita dai mistici come un rischio costante e come un richiamo al peccato dei sensi, la natura dominata e «artificiosa» del giardino passa a far parte di un universo antropocentrico nel quale l’uomo è non solo sovrano, ma addirittura creatore. I pochi tratti dell’intensa descrizione di Salimbene sintetizzano gli elementi istituzionali del giardino cortese: la tensione tra bellezza e dolcezza da una parte, tentazione e peccato dall’altra. Una fondamentale condizione edenica incornicia la serenità del cortile ombroso quasi a segnalarne il rischio, implicito nella presenza degli enigmatici leopardi, gli animali di «pel maculato (...) alla gaietta pelle (...) a la pelle dipinta», la pantera profumata, immagine di

La Primavera, tempera su tavola di Sandro Botticelli. 1482-1485. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Iconografia

L’«erbario» di Sandro Botticelli Giardini d’alberi e giardini di fiori; infiorescenze, piccoli fiori e fiori ornamentali. Nelle testimonianze piú antiche, nel mondo egiziano e mesopotamico, vediamo e leggiamo soprattutto palme, loti, papiri e viti, tra i fiori ornamentali solo le rose; nel mondo greco gigli e acanto, in quello romano ancora le rose e gladioli, gigli, papaveri; nelle fonti altomedievali prevalgono i semplici con le loro inflorescenze, come fiori coronari: papaveri, gigli, gladioli e rose. Le illustrazioni dei manoscritti tardo-medievali e le iconografie degli affreschi e delle tavole rinascimentali esplodono di

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fiori, riprendendo forse tradizioni antiche e le suggestioni dei giardini della Spagna musulmana e dei Regni latini d’Oriente, come nel caso del giglio bianco originario del Libano e della Galilea. Nella Primavera del Botticelli sono stati riconosciuti circa 500 elementi iconografici, riconducibili a 52 specie; nella Loggia di Psiche, alla Farnesina, in Roma, affrescata da Giovanni da Udine, sono state individuate 1500 specie, tra cui alcune introdotte da poco in Europa dall’America. È un tripudio di fiori: rosa bianca, rosa di Damasco, rosa strisciante, rosa moscata e rose

selvatiche; narciso dei poeti e narciso selvatico; gigli di Sant’Antonio e gigli martagone; giaggioli; malvarosa e malva; gelsomini; garofani; anemoni; calendule; giacinti; papaveri; cardi; ranuncoli; camomille; clematidi. Difficile stabilire la distanza tra l’immagine e la realtà: negli orti di Palermo sembrano crescere solo rose, lumíe e zagare, melograni; nel giardino poetico di Petrarca fioriscono viole e rose, i fior vermigli e i candidi, in quelli realizzati dal poeta a Valchiusa, Parma, Milano e Arquà issopo, marrubio, salvia e ruta; negli orti del papa sbocciano rose e tante viole. settembre

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libidine e di frode. Il giardino, locus amoenus nel quale l’umanità si è perduta, rischia di apparire da questo momento come un mirabile luogo d’inganni; e non a caso alcuni tratti del cortile pisano tornano, alcuni anni dopo, nel racconto di Marco Polo, trascritto da un Pisano buon narratore di racconti cavallereschi.

Nuove immagini e nuove ambizioni

Nella narrazione di Marco Polo, il carattere edenico del giardino del Veglio si mescola, adulterandosi, con quello della descrizione del Paradiso islamico, ma alimenta

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anche un’immagine del giardino nel quale la natura è fortemente soggetta all’artificio, condizionata com’è dai «palagi» e dai «condotti» che fanno scorrere vino e miele. Ed è un vergier a trovarsi al centro della trama d’amore, di cortesia, d’adulterio e di pentimento della Chastelaine de Vergi, celebre poemetto redatto fra VI e IX decennio del Duecento, molto noto nella Firenze del Trecento, tanto che nel 1395 venne scelto come soggetto per gli affreschi della camera nuziale di Tomaso Davizzi e di Catelana degli Alberti, in Palazzo Davizzi-Davanzati. Le molte descrizioni di giardini

nelle opere di Boccaccio (dal Filocolo all’Amorosa visione, al Decameron stesso) ribadiscono come la cultura architettonica, estetica e ideologica del giardino fosse ormai passata, nel tardo Medioevo, dalle corti (dove peraltro permane, si pensi alla stanza dipinta «a giardino» dei palazzi papali di Avignone) alle dimore di un ceto di nuovi ricchi, che tendeva a emulare i comportamenti dell’aristocrazia signorile, a modellare convivenza e brigate concepite non per «sopravvivere» ma per «rifondare» l’ordine sconvolto dal contagio e dal polverizzarsi delle istituzioni e dei costumi.

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Dossier

MUSEI DELL’IMMAGINARIO

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on è casuale che la scena prima della rifondazione del mondo e dei comportamenti sociali proposta nel Decameron avvenga in un giardino. I giardini del Decameron, descritti con voluttuosa analiticità, hanno un valore preciso nell’economia della redenzione della brigata giovanile. Il mercoledí mattina, cioè il giorno successivo all’incontro in S. Maria Novella, la brigata si porta sul «luogo da loro primariamente ordinato», presentato dal Boccaccio come un sistema complesso di costruzioni e di bellezze naturali: «Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii arbuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini meravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini». La domenica successiva la brigata cambia luogo, muovendosi verso un secondo sistema di costruzioni e di spazi aperti, i quali però risultano piú profondamente razionalizzati di quelli del sistema precedente. Qui il giardino (cioè la natura organizzata dalla volontà dell’uomo) ha un rilievo fondamentale. È un giardino rigorosamente a pianta centrale, collocato accanto al «palagio», cinto di pergolati e di rosai, che racchiude un prato al cui centro è «una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli». Ed è intorno alla fontana, non piú sul prato, che si svolgerà ora

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il novellare. Filostrato si mostra influenzato dal paesaggio che è intorno (un paesaggio di tentanti delizie terrene, che pur richiama, specie nella centralità del prato e della fontana, il giardino monastico), e narra la storia (di un sensualismo che non sempre gli è familiare) della dolce corruzione portata in un monastero di donne da Masetto di Lamporecchio. Un monastero dotato di un «bellissimo giardino ortolano», un «giardino bello e grande». Un giardino di questo tipo non appartiene ancora alla cultura fiorentina; né il giardino monastico né il «verziere» feudale e borghese bastano a giustificarne la presenza, e il rinvio al locus amoenus e al Roman de la Rose (o magari a una serie di giardini rivisitati attraverso la cultura classica o il romanzo cavalleresco) non lascia soddisfatti. Qui, come altrove, il ricordo e la nostalgia del Meridione d’Italia sembrano guidare la fantasia dell’autore. Si pensi al pur fuggevole accenno al giardino della Cuba o al giardino di Castelnuovo, rivisitato in termini onirici nell’Amorosa Visione.

Il Decameron, olio su tela di John William Waterhouse. 1916. Liverpool, National Museum.

Il ricordo delle corti

Le suggestioni letterarie del Boccaccio sono orientali per un verso, classiche (e soprattutto ovidiane) per un altro: ma in molte descrizioni di giardini è vivo in lui il ricordo d’immagini vedute presso gli ambienti di corte angioini. Giardini angioini che dal canto loro altro non erano se non eredi (ma a vari decenni di distanza, e non senza quindi una profonda elaborazione tecnica e culturale) della grande tradizione normanno-sveva, che a sua volta aveva

raccolto e continuato lo splendore dei giardini arabi di Sicilia. Con il Boccaccio l’immagine dei giardini suburbani, o anche urbani, comincia a imporsi, e di uno stile già affermato del giardino privato fiorentino egli sembra parlare quando, nella sesta novella della X giornata, racconta il «dilettevole giardino» che il cavaliere ghibellino Neri degli Uberti, esule da Firenze dopo la cacciata dei suoi, si era fatto costruire a Castellammare settembre

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di Stabia: «forse una balestrata rimosso dalle altre abitazioni», [accanto] a un «bel casamento [...] un dilettevole giardino, nel mezzo del quale, a nostro modo, avendo d’acqua viva copia, fece un bel vivaio e chiaro e quello di molto pescie riempié leggiermente», precisando che era del tipo «quale talvolta per modo di vivaio fanno ne’ lor giardini i cittadini che di ciò hanno destro», e che noi potremmo prendere a modello come tipizzazione dei giardini delle «case da signore»

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fiorentine. Era un giardino tanto noto per la sua bellezza che anche Carlo I d’Angiò volle visitarlo. Il giardino alla fiorentina doveva esser già diffuso, se non ai tempi di Neri degli Uberti, che peraltro era contemporaneo di Lapo Gianni, almeno a quelli del Boccaccio. Di giardini privati nella cinta urbana – come il cosiddetto «Paradiso dei Gaddi», attiguo appunto al palazzo Gaddi, noto per la presenza di piante terapeutiche e significati-

vamente sito fra due vie che ancor oggi si chiamano, rispettivamente, «del giglio» e «del melarancio» – ce n’erano parecchi: la peste del 1347-1350 aveva lasciato all’interno delle città ampi spazi destinati ad aree fabbricabili, rimasti vuoti a causa del brusco calo demografico, e favorito nuove formule abitative aristocratiche, nelle quali trovava posto anche il giardino. Sembrano in tal modo avere un aspetto meno surreale le molte

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Dossier Particolare della Pianta del Buonsignori: una vista assonometrica di Firenze realizzata ad acquaforte su rame nel 1584 su disegno di Stefano Buonsignori e poi aggiornata nel 1594. In evidenza, il giardino di Palazzo Gaddi, noto come «Paradiso dei Gaddi».

descrizioni di città del tempo raccontate come ricche di alberi e di fiori, inimmaginabili per una città dei secoli XII-XIII, piena come un uovo di abitanti. E del resto le abitudini di Firenze non dovevano essere troppo isolate se conosciamo vari esempi di giardini urbani, alcuni espressione di lusso e di ricchezza e con funzione evidentemente ornamentale, altri caratterizzati invece da aspetti funzionali (piante medicamentose e ornamentali), a Palermo, a Genova, a Verona, a Venezia e altrove.

Uno status symbol

Il giardino continua a essere segnoinsegna di potere, di ricchezza, di bel vivere, ma anche di meditazione ascetica, di memento mori. Tale senza dubbio – si tratta infatti di un giardino pensato per un interno monastico – doveva essere quello ideato fin dal 1338 da Niccolò Acciaiuoli per la Certosa di S. Lorenzo al Galluzzo presso Firenze. Ispirandosi – come risulta da due lettere del 1356 – ai giardini palermitani e napoletani, ma anche a modelli ammirati in Grecia, l’Acciaiuoli vagheggiava un giardino non lontano da quelli che si trovano anche nelle descrizioni del Decameron che egli conosceva bene. Ma forte doveva anche essere su di lui l’influenza dei classici latini, anche se – viste le frequentazioni elleniche del Gran Siniscalco – è possibile pensare a riferimenti non solo di seconda mano, anche per le fonti antiche greche. Anche la sua conoscenza del trattato dei Ruralia commoda di Piero Crescenzi è tanto ovvia quanto essenziale: era opera ben nota nell’ambiente meridiona-

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le, e alla corte angioina soprattutto, anche perché era stata dedicata a Carlo II d’Angiò. Accanto a essa, va considerata l’influenza degli splendidi giardini palermitani, che l’Acciaiuoli aveva visitato nel 1354 nella spedizione siciliana, esattamente precedente di un anno al primo suo interesse per l’impianto di un giardino nella Certosa; e il rinvio a Palermo è il ponte per la fruizione di un altro modello, quello dei giardini arabi; infine il modello dei giardini di Castelnuovo, che hanno ispirato anche il celebre passo dell’Amorosa visione. Il tardo Medioevo aveva visto fiorire un’ampia produzione geo-

ponica, come dimostra il trattato sui Ruralia commoda, scritto in latino agli inizi del Trecento dal bolognese Piero Crescenzi e presto volgarizzato da un Toscano, probabilmente un Fiorentino, con il titolo di Trattato dell’agricoltura. Il volgarizzamento segna uno dei primi momenti della fortuna di quest’opera, che divenne ben presto un best seller, ed è significativo che sia un Fiorentino del Trecento a cogliere immediatamente l’importanza non solo degli horti, ma anche di pomario e viridario, cioè dei giardini. Dei dodici libri dei quali si compone l’opera, il VI e l’VIII sono dedicati a horti, pomario, viridario per settembre

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petrarca giardiniere

In ricordo di Laura Petrarca pianta, e trapianta, nei suoi orti-giardini di Parma, Milano e Arquà viti, issopo, rosmarino, peschi, meli, peri, prugni, salvia, fieno, spinaci, bietola, finocchi, prezzemolo, ruta, olivi, piú volte lauri; semina un prato (dopo la semina fa rastrellare piú volte, spiana poi il terreno ad unguem, alla perfezione, aggiunge quindi seme e concime scuro triturato fine) e realizza una pergola; fa crescere le viti sugli alberi da frutto. Tutte operazioni di cui dà conto minuziosamente in un suo manoscritto. Le annotazioni che a ogni piantagione, a distanza di giorni o di mesi, aggiunge, indicano bene la volontà di sperimentazione e l’attesa della verifica: «ha avuto successo», talvolta invece il risultato è lento ma ottimo; o piú spesso deve prender nota che tutto è inaridito, che finora non ci sono stati risultati, che infine le piante si sono seccate. Registra anche nuove tecniche (per le barbatelle di viti), eseguite su indicazione di una casuale scoperta di un amico, anche se, annota, contro la consuetudine comune; suggerisce a sua volta tecniche di piantagione che tengono conto delle diversità dei terreni. La volontà di sperimentazione travalica la suggestione degli insegnamenti degli antichi (contro l’indicazione di Virgilio nelle Georgiche e nelle Bucoliche), ma anche le consuetudini locali. Ma accanto alla sperimentazione, c’era anche posto, nel giardino di Petrarca, per uno specimen della sua simbologia poetica: «Spenti sono i miei lauri, or querce et olmi», cosí in morte di Laura. E in ricordo di Laura, ma forse anche della sua coronazione poetica, tentava senza molto fortuna, nel 1357, nel 1359, nel 1369, di mettere a dimora piante di lauro: il ricordo della donna, dell’alloro poetico e anche il simbolo della castità. Il suo spirito di giardiniere dei nuovi tempi si augura che la speranza di una buona riuscita del trapianto sia aumentata dall’imprevisto arrivo di Boccaccio, grande amico suo e del lauro. Ma molto spesso le annotazioni relative al trapianto dei lauri debbono registrare la morte delle piante. la precisione, il VI riguarda le erbe, il libro VIII i giardini. È interessante come Crescenzi introduce (citiamo dal volgarizzamento) la sua trattazione sui giardini: «Ne’ libri passati averno trattato degli arbori e dell’erbe, secondo che sono utili al corpo dell’uomo, ma ora è da dire delle predette cose, secondo che all’animo danno diletto». I giardini per le «persone mezzane», secondo Crescenzi, dovevano essere cinti di siepi sempreverdi e tenuti ad alberi da frutto e a fiori, né si doveva trascurare di piantarvi pergole ombrose. Quelli «dei re e degli altri ricchi signori» dovevano avere una fontana, una selva d’alberi, alte mura di cinta, una

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Miniatura raffigurante Francesco Petrarca che incontra l’amata Laura, defunta, da un codice dei poemi dello stesso Petrarca. Fine del XV sec. Londra, British Library.

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Dossier Sulle due pagine particolari degli affreschi che ornano la Camera del Cervo del Palazzo dei Papi di Avignone, utilizzata come studio da Clemente VI. 1343. Tema del ciclo, opera di maestranze franco-italiane, sono i piaceri signorili e, in particolare, sono presentate varie tecniche di caccia e pesca.

I papi ad Avignone

Giardini veri e giardini dipinti Se a Roma i giardini languivano, ad Avignone esplodevano. Già Giovanni XXIl ne aveva fatto allestire uno, ma soprattutto Benedetto XII dedicò loro cure e attenzioni (tra 1335 e 1341) e ne fece realizzare uno di circa 2000 mq, diviso in due parti, con un giardino inferiore ai piedi della Torre del papa, e una parte superiore che doveva costituire il giardino di piacere e il giardino dei semplici. Le stanze del pontefice aprivano le loro finestre sul giardino, chiuso, protetto ma anche dominato da una possente muraglia e dalla facciata orientale del Palazzo, dove l’ombra doveva proteggere corte e pontefice, ma creare molti problemi al maestro giardiniere nella scelta delle piante. C’erano anche animali selvatici: orsi, due leoni, un cammello, un cinghiale, cervi e un gatto selvaggio.

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Dall’alto della finestra il pontefice poteva godere del colpo d’occhio del giardino e sentire i suoi profumi; un giardino che continuava sulle pareti della sua stanza privata interamente affrescata lungo i quattro lati con tralci di vite e di quercia dove, tra scoiattoli e uccelli, si aprivano eleganti pergolati in legno e voliere appese; tappeti e tappezzerie verdi con rose ros­se arredavano stanze e aule e lasciavano intravedere il pavimento di mattonelle decorate a motivi floreali. Clemente VI creò un nuovo giardino e rinnovò il vecchio (1346). Venne livellato il terreno, portata terra nuova e piantato un prato. Vennero poi costruiti pergolati e graticci in legno, messi a dimora piante, arbusti e fiori (molte rose e violette), ai piedi della Torre delle cucine c’era l’orto dei semplici. Creò inoltre un altro giardino piú piccolo a

meridione, con al centro una grande fontana detta del Grifone con una base di dodici lati, con quattordici bocche d’acqua in bronzo e con intorno un nuovo prato; l’acqua superflua si perdeva in parte verso il giardino. Anche le finestre della camera privata e dello studio (la Camera del Cervo) di Clemente VI aprivano sul giardino, e nella Camera del Cervo il pontefice fece affrescare scene di caccia, il piú aristocratico dei passatempi, con rappresentazioni di caccia al cervo, di uccellagione, di pesca in un vivaio, di falconeria, oltre che con immagini di giovinetti che si bagnano. Il tutto in un tripudio di vegetazione e di animali che costituisce un trionfo della pittura di natura, delle origini aristocratiche del pontefice, e di un nuovo rapporto con il mondo naturale che da Avignone si proietta sull’Europa. settembre

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peschiera, una voliera, un padiglione vegetale; vi andavano messi a dimora alberi esotici come cedri e palme. Se il libro VI è importante per la trattazione delle erbe, fra cui quelle piú misteriose come giusquiamo e mandragora, è il libro XII che va letto, per comprendere come il giardino si avviasse a diventare uno status symbol dei ceti dirigenti della città comunale. Su orti, oleri e verzieri sarebbe tornata ai primi del Quattrocento la Divina Villa del perugino Corniuolo della Cornia, che dedica ai giardini per intero il VII libro. Anche nella Villa «mezzane persone» e «potenti signori» hanno giardini diversi ma, con l’affermazione del potere signorile, il divorzio tra ceto «protoborghese» comunale e gruppi oligarchici dirigenti si era ormai consumato, e la corte andava assumendo un volto sempre piú

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chiuso ed esclusivo. I giardini-teatro, giardini-mito, giardini-mistero del Rinascimento avrebbero sancito il divario tra il «bello» e l’«utile» che ancor oggi si stenta a superare.

Modelli cortesi

Qualcosa cominciò comunque a mutare profondamente nel Quattrocento, allorché – a partire soprattutto da Firenze – il giardino «protoborghese» associato al cortile e accostato alla casa e cinto da un’alta muraglia (come si vede in esempi urbani non meno che nelle «case da signore» del contado) cominciò non solo a ispirarsi progressivamente a modelli cortesi, ma anche a caricarsi sempre piú di elementi simbolici desunti dai testi antichi che affluivano in Occidente, letti e interpretati in modo nuovo. Il nuovo palazzo mediceo di via Larga, costruito nel terzo quarto

del XV secolo, s’ispirava ancora ai modelli arcaici dell’hortus conclusus di sapore monastico; ma nuove e piú articolate esperienze si andavano proponendo, sia da parte degli Alberti con il loro giardino del «Paradiso» nel piano di Ripoli, sia da parte dei Rucellai con la loro villa detta «Lo Specchio» presso Quaracchi e con i famosi «Orti Oricellari» vicini a S. Maria Novella. Che i papi abbiano avuto giardini nelle loro residenze estive della Campagna Romana e del Lazio è piú che probabile ma le prime tracce di giardini pontifici a Roma non risalgono oltre la fine del Duecento, quando il palazzo costruito da Innocenzo III sul colle vaticano fu trasformato da Niccolò III e dai suoi successori in residenza pontificia. In un giardino di grandi dimensioni furono piantati alberi di ogni tipo; all’interno del parco c’erano anche animali esotici: è il primo nucleo dei giardini vaticani. Già nel IX secolo, all’interno delle mura leonine, fatte costruire alla metà del secolo da papa Leone IV (846-855), esistevano prati e luoghi coltivati a orto, frutteto e vigna, mentre all’esterno, verso nord, si estendevano prati e una macchia boscosa. Proprio questa zona, rimasta fuori dalla cinta muraria, costituí il primo nucleo dei giardini vaticani quando Niccolò III ampliò la cinta delle mura leonine con un nuovo bastione che raggiungeva l’altura del vicino monte di Sant’Egidio e comprendeva un frutteto, di cui si ha notizia già durante il pontificato di Innocenzo IV (1243-1254). Durante il periodo avignonese i giardini vaticani caddero in stato di abbandono tanto che Urbano V (1362-1370), in previsione del suo ritorno a Roma, ne ordinò nel 1365 la sistemazione con la messa a coltura dell’orto con viti, alberi da frutto e piante ornamentali di diverse specie. Subito dopo il suo rientro nella Città Eterna, nell’otto-

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Dossier

bre 1367, il pontefice fece piantare, probabilmente nel giardino grande (viridarium), alberi e viti provenienti da Marsiglia. Un libro di conti, contenente i pagamenti dal novembre 1368 al dicembre 1369, riporta le spese sostenute per impiantare una vigna, un giardino e un vivaio per i pesci. Nel novembre del 1367, il doge di Genova invia

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un leopardo in dono al pontefice; l’animale, secondo l’uso trecentesco, venne probabilmente rinchiuso nel grande pomarium.

Bonifacio, papa vignaiolo

Nel periodo immediatamente successivo i giardini vaticani non dovettero vivere un momento

particolarmente brillante. Solo Bonifacio IX (1389-1404) mostra un interesse personale per la vigna: Vespasiano da Bisticci ricorda che Cosimo dei Medici nel potare le vigne nella sua villa di Careggi imitava Bonifacio, che aveva fatto mettere a dimora nuove vigne nei giardini del palazzo papale e che, ogni mattina, al tempo della posettembre

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Belvedere col palazzo et giardino del Papa in Vaticano, incisione di Matthäus Greuter facente parte della serie Palazzi e giardini di Roma. 1623. Amsterdam, Rijksmuseum.

giardino, nel quale sono previsti un teatro, una sala da cerimonie, fontane servite da un acquedotto sotterraneo e una ricca vegetazione con varietà di alberi e di fiori. Trent’anni dopo, sarà Innocenzo VIII ad attuare una decisa azione di rinnovamento dei giardini vaticani, quando, poco dopo il 1484, farà costruire una villa, detta del Belvedere, sull’altura di monte di Sant’Egidio, all’estremità settentrionale delle mura di Nicolò III.

Il loggiato per le soste...

tatura, potava personalmente la vigna pontificia. Si dovrà attendere la metà del Quattrocento perché un pontefice progetti interventi radicali per i giardini vaticani. Tra gli interventi progettati da Nicolò V (14471455) nell’ambito della rifondazione dei Palazzi e del Borgo vaticano, c’è la creazione di un vasto

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Prima villa all’antica nella Roma moderna, il Belvedere è impostato su possenti sostruzioni alte piú di otto metri, e si apre a settentrione (sul versante opposto a Borgo e alla città, verso la campagna e Monte Mario), con un loggiato, adatto a brevi soste durante le passeggiate, che occupa tutta la stretta e allungata costruzione, delimitata alle estremità da asimmetrici corpi di fabbrica leggermente aggettanti. All’interno vi era un cortile piantato ad aranci, rinfrescato da una fontana; all’esterno, un giardino con cipressi e, poco lontano, era il galinarium, dove venivano allevati animali da cortile. Posta in posizione elevata, aperta sul paesaggio, circondata di piante e fiori, la villa sembra contenere tutti quegli elementi che rientrano nell’immaginario e nelle teorizzazioni dell’epoca. All’ombra del loggiato curiali e pontefice avrebbero goduto della vista della campagna circostante, ascoltato il fruscío dell’acqua della fontana e sentito il profumo dei fiori e degli aranci coltivati nel cortile, in un coinvolgimento completo di tutti i sensi. L’opera di sistemazione del Belvedere fu proseguita da Giulio II (1503-1513), nell’ambito dell’intera riprogettazione del complesso vaticano. Il pontefice affidò al Bramante il recupero dell’isolata villa di Innocenzo VIII, che sorge-

va a oltre 350 m di distanza dai palazzi e dalla basilica, dai quali era separata da una profonda, acquitrinosa valletta, seguita da un ripido, irregolarè pendio: uno spazio naturale, che l’architetto urbinate trasformò in un ordinato spazio architettonico, un grandioso cortile rettangolare, la cui lunghezza copre quasi tutta la distanza tra la villa di Innocenzo, dalla quale è separato dal cortile delle Statue, e i palazzi pontifici. Il modello sembra essere quello degli hippodromi, come è tramandato dalla dettagliata descrizione della villa in Toscana di Plinio il Giovane: un raffinatissimo giardino dalla pianta allungata, delimitato sia sui lati lunghi sia sul lato breve ricurvo del fondo, da filari di platani intervallati da piante di alloro, di bosso e da cipressi.

...e una strada pensile

Il cortile era fiancheggiato da due lunghissimi corridoi rettilinei a tre livelli sovrapposti, coperti a terrazza, in modo da costruire una strada pensile: una comoda e pianeggiante via, che i pontefici erano soliti percorrere a cavallo o in portantina con un piccolo corteo. La pendenza del terreno fu evitata articolandola in tre terrazze digradanti e raccordate da rampe di scale, secondo lo schema degli antichi complessi terrazzati come la Villa di Domiziano ad Albano e gli Horti Aciliorum sul Pincio. Il grande invaso a cielo aperto doveva essere un luogo teatrale. La nuova costruzione doveva inoltre ospitare le statue della collezione di antichità iniziata da Giulio II quando era ancora cardinale e in seguito arricchita di alcuni straordinari pezzi, tra cui il gruppo del Laocoonte, rinvenuto nel 1506 nei pressi della Domus Aurea. Si realizzavano cosí, in dimensioni monumentali, il primo teatro stabile, il primo museo all’aperto, il primo giardino architettonico dell’età moderna. V

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medioevo nascosto biella

Bugella la guelfa

di Chiara Parente

Biella conserva una forte impronta medievale, acquisita fra il XIII e il XVI secolo, quando i nuclei abitati della parte alta e di quella bassa della città si fusero in un solo organismo urbano. E dei secoli in cui l’antico insediamento fu uno dei centri piú importanti dell’Alto Piemonte sopravvivono insigni testimonianze architettoniche e artistiche

P P

ia

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vicini andassero ad abitarla. Nel Medioevo il nucleo della vita religiosa e civile di Biella Piano era il Borgo, sviluppatosi nella zona attualmente occupata dalla piazza del Duomo Nuovo. La pieve di S. Stefano, il cui capitolo, sin dal IX secolo, garantiva i rapporti tra l’autorità vescovile di Vercelli (da cui dipendeva) il potere civile da un lato e le comunità

Ses

rotetta a nord dalla lunga dorsale alpina, Biella è una città geminata, divisa tra la parte bassa, Biella Piano, e la parte alta, Biella Piazzo, che, piú comunemente detta il Piazzo, è collegata alla prima da una graziosa funicolare panoramica. Biella Piano, nel Medioevo denominata Bugella, risulta l’erede della città dei Vittimuli, un centro urbano distrutto tra l’VIII e il IX secolo, molto vivo nell’epoca tardo-antica, situato nella regione della Bessa, tra Salussola e Dorzano, sul tronco della via Francisca che univa Vercelli ad Aosta. Citata dall’826 come mansio, villa e pagus nei diplomi, emessi dalla cancelleria imperiale della corte di Pavia, Bugella dipendeva giuridicamente dai vescovi di Vercelli. Risale invece al 1160 la nascita del Piazzo, voluta dal vescovo vercellese Uguccione, che investí feudalmente della collina fortificata la vicinia del locus Bugellae, affinché i

Biella Vercelli Torino

Novara Milano

Casale Monferrato

Carmagnola

Asti

Alessandria

Bra Cuneo

Mondoví

MAR LIGURE

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Il battistero di S. Giovanni, una delle costruzioni piú tipiche dell’arte romanico-lombarda. Fu eretto tra la fine del X e gli inizi dell’XI sec. sul sito di un sepolcreto romano.

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medioevo nascosto biella

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto Madonna del latte con un santo martire, affresco nell’abside maggiore del battistero di S. Giovanni. XIII sec. A sinistra uno scorcio dell’interno del battistero di S. Giovanni.

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locali dall’altro, rappresentava l’edificio religioso piú antico.

Il complesso plebano

Della chiesa, già presente nei secoli V e VI, e demolita nel 1872, si sono salvati una serie di mensole e capitelli, in parte conservati al Museo civico, e quattordici stalli lignei appartenenti al coro, ora incorporati nell’orchestra del Duomo Nuovo. Decorati con motivi floreali e figure simboliche molto prossime a quelle di alcuni cori, i pannelli, eseguiti negli anni 1460-1470 da un medesimo cantiere di lignari attivo tra Lombardia e Piemonte, testimoniano l’influsso della cultura artistica lombarda nell’arte tardo-gotica biellese. Un elegante campanile settembre

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A destra il campanile romanico a otto piani, sei dei quali adorni di doppie bifore e due di monofore, in origine pertinente all’antica pieve di S. Stefano (demolita nel 1872).

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medioevo nascosto biella e un suggestivo battistero sono le sole architetture superstiti, un tempo annesse al complesso plebano.

Da torre a campanile

Il primo, a pianta quadrata, in passato era sistemato nella fiancata sinistra del presbiterio. Formato da otto piani, scanditi in due campi tramite lesene coronate nel lato superiore da una fila di otto archetti pensili, culmina in una cuspide acuminata, contornata ai lati da quattro pinnacoli in cotto. Molto probabilmente impostato su una torre della cinta muraria, è stato innalzato in tre periodi, come sembra attestare la muratura risalente nella zona inferiore al secondo quarto dell’XI secolo, nei due piani soprastanti a qualche tempo di poco posteriore, mentre negli ordini superiori e nel completamento databile alla fine del Mille. Il secondo, dedicato a san Giovanni Battista, si trova a sinistra del Duomo. Edificato fra la fine del X e gli inizi del XI secolo su un sepolcreto romano con ciottoli di fiume, talvolta disposti a spina di pesce, e laterizi legati da abbondante malta, è considerato uno straordinario manufatto romanico. Restaurato nel 2019, ha pianta quadrilatera, con quattro absidi semicircolari separate da robusti

sebastiano ferrero

Un grand commis con la passione per l’arte Sebastiano Ferrero nacque a Biella nel 1438 e morí a Gaglianico nel 1519. Chiavaro di Biella nel 1476 e, in seguito, generale delle finanze alla corte di Savoia, durante la dominazione francese del ducato di Milano fu nominato generale delle regie finanze. Fu questo esimio personaggio a portare tanta modernità in un centro periferico come Biella e in date cosí precoci, nella realizzazione del complesso di S. Sebastiano e nella decorazione interna della chiesa. Infatti, ben inserito nell’ambiente di corte milanese e profondamente segnato dalle presenze di Bramante e Leonardo, Ferrero chiamò

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in città maestranze aggiornate sulle ultime tendenze architettoniche e artistiche lombarde. Il risultato? Gli affreschi con motivi «a grottesca» che si ritrovano negli spazi conventuali, gli elementi decorativi in terracotta, costantemente presenti sia nella chiesa, sia nel convento, e le straordinarie citazioni dell’edilizia lombarda bramantesca della fine del Quattrocento, caratterizzata dalla forte integrazione fra l’architettura e gli elementi decorativi a rilievo e ad affresco, che fanno del complesso di S. Sebastiano un unicum per l’intero Piemonte. settembre

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contrafforti che sorreggono il tiburio ottagonale, sormontato da un lanternino a pianta quadrata con quattro bifore, di epoca piú tarda, a coronare il vertice. Un bassorilievo in marmo raffigurante due putti, proveniente con ogni probabilità dai materiali di scavo d’età romana, emersi durante la costruzione del battistero, ingentilisce il timpano dell’originario portale principale architravato. All’esterno gli elementi della decorazione, riscontrabili in edifici battesimali della metà del Mille nella zona eporediese e torinese, e la tipologia a pianta centrale, diffusa tra il V e il XII secolo nel territorio lombardo e piemontese, sono giustificate dagli stretti legami con il potere religioso vercellese. All’interno, il battistero passa dalla pianta quadrata del corpo inferiore a quella circolare della pianta superiore (cupola) mediante l’impiego di pennacchi sferici triangolari, posti come sostegno a tratti di muro verticale. Negli affreschi che lo decorano, si possono distinguere almeno tre fasi: una Madonna del latte con un santo martire dipinta nel terzo quarto del Duecento, alcune figure di santi risalenti alla prima metà del Trecento e numerose sinopie di pieno Trecento.

Con la parte guelfa

Sulle due pagine immagini della chiesa di S. Sebastiano, la cui costruzione, insieme a quella dell’annesso monastero, fu promossa da Sebastiano Ferrero. In alto, il portale nella cui lunetta compare l’immagine del santo titolare della chiesa.

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In età comunale Biella si schiera dalla parte guelfa, nell’orbita di Vercelli, sino alla dedizione ai Savoia, nel 1379. I secoli XV e XVI sono caratterizzati dall’aggregazione intorno alla città di numerosi comuni del territorio – il nucleo di quello che sarà poi il «Mandamento» di Biella –, dal dominio delle signorie lombarde e dalla presenza dei feudatari legati al ducato di Milano. In questa stagione la tipologia dei cantieri e delle imprese promosse, lo spirito delle scelte operate dai committenti, l’utilizzo dei materiali, delle tecniche impiegate e degli artisti chiamati a lavorare,

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In alto uno scorcio del Piazzo, la parte alta della città di Biella. In basso il monastero di S. Sebastiano, oggi sede del Museo del Territorio Biellese. Nella pagina accanto particolare dell’affresco della Crocifissione nell’omonima cappella della chiesa di S. Sebastiano. Scuola milanese, XVI sec.

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appaiono notevolmente influenzati dai tratti stilistici in auge nel ducato milanese. Ne è prestigiosa testimonianza la costruzione del complesso conventuale di S. Sebastiano, iniziata con il trasferimento della congregazione dei Lateranensi a Biella, alla quale apparteneva (dal 1491) anche Bartolomeo Ferrero, fratello del committente, Sebastiano Ferrero. La basilica fu terminata nel 1504, mentre il convento nel 1540. Oggi gli spazi del monastero ospitano il Museo del Territorio Biellese. Uno scrigno di arte e storia che racconta le vicende della formazione e del popolamento di questa peculiare area del Piemonte occidentale, a partire da quando, cinque milioni di anni fa, un mare tropicale sostituiva la pianura biellese, fino all’età medievale e allo scontro, avvenuto sulle alture di Biella e conclusosi nel 1506, tra la Chiesa ufficiale e l’eresia dolciniana. Il museo è attualmente chiuso al pubblico per consentire l’avvio di un importante progetto di ristrutturazione, ma un’ampia documentazione delle sue collezioni è disponibile

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sul sito internet della struttura: www.museodelterritorio.biella.it. Tra i capolavori custoditi negli spazi dell’ex monastero si possono ricordare: gli affreschi del XII secolo staccati dalla chiesa di S. Maria di Castelvecchio di Mongrando, di cui oggi restano in situ solo alcuni ruderi, i due leoni stilofori in pietra verde d’Oropa provenienti, come i capitelli e l’analogo frammento di archivolto scolpito, dall’antica chiesa plebana di S. Stefano di Biella e il meraviglioso Polittico dell’Incoronazione, realizzato tra il terzo e il quarto decennio del Cinquecento e collocato in antiquo sull’altare maggiore della chiesa di S. Francesco di Biella, oggi distrutta. Pochi minuti di funicolare e si

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raggiunge il Piazzo che, adagiato su un verde poggio tra due vallette convergenti verso Biella Piano e le Prealpi, è strutturato lungo la vecchia strada di Oropa.

Al riparo sotto i portici

Piazza della Cisterna è il fulcro di questo bellissimo borgo medievale, sviluppatosi dall’aggregazione di piú nuclei compositivi costruiti dalla fine del Duecento agli inizi del Cinquecento. Sull’ampio slargo, inquadrato tra due cortine di fabbricati porticati gotici, la cui struttura e decorazione rinvia alla tipologia della dimora signorile e alto borghese del Piemonte orientale, affacciano il Palazzo dei Principi dal Pozzo della Cisterna e il Palazzo del Comune. Bassi e profon-

di, i portici del Piazzo rimandano all’urbanistica medievale padana e rispondono appieno alle esigenze pratiche e funzionali di quando la continuità delle fronti edilizie costituiva un riparo indispensabile contro le intemperie per botteghe, mercanti, artigiani, affari notarili, amministratori di giustizia e raduni della Credenza. F

Dove e quando Informazioni turistiche ATL Terre dell’Alto Piemonte tel. 015 351128 e-mail: infobiella@ terrealtopiemonte.it www.atl.biella.it

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CALEIDO SCOPIO

Dietro l’immagine ARALDICA • Al cospetto di ritratti privi di indicazioni certe, le

proposte di identificazione, seppur plausibili, possono rivelarsi incompatibili con i dati offerti dall’esame di stemmi e simboli, come nel caso di una gentildonna toscana

N

el 1996, lo storico francese Jean-Pierre Delumeau ha dato alle stampe un’opera ponderosa, Arezzo. Espace et sociétés 715-1230 (École française de Rome, Roma), nella quale, fra l’altro, è riuscito a ricostruire genealogie attendibili, talvolta anche per epoche assai anteriori al fatidico anno Mille, una cesura che risulta spesso insormontabile dal punto di vista documentario anche per la ricostruzione genealogica di stirpi comitali e marchionali primarie. Fra le famiglie in questione si annoverano i nobiles di Galbino e poi (1190) di Montauto/Barbolani, il cui capostipite dovrebbe essere un Alberico, già morto nel 1031. Delle vicende duecentesche di questa importante schiatta signorile (verosimilmente di vassalli dei marchiones di Colle, poi detti del Monte Santa Maria e fantasiosamente Bourbon), destinataria anche di diplomi imperiali e che assunse presto il titolo comitale, e dei rapporti della stessa con l’abbazia di Camaldoli e il comune aretino (di cui Guglielmino di Raineri fu podestà nel 1201), tratta anche un piú recente saggio (2010) di Gian Paolo G. Scharf, apparso nell’Archivio Storico Italiano (anche on line su www.retimedievali. it), che attinge, fra l’altro, a un documentato studio dedicato a Signorie e comuni rurali nell’alta valle del Tevere nei secoli XI e XII, apparso a stampa nel 1982, e che si deve

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a un discendente della famiglia, Fabrizio Barbolani di Montauto.

Il nome dal castello Non da Quarata, ormai alla periferia di Arezzo, come si vorrebbe nel Sommario storico delle famiglie celebri toscane pubblicato a Firenze fra il 1855 e il 1864 a cura di studiosi e genealogisti anche validi, quale Luigi Passerini (e tanto meno da Quarrata fra Pistoia e Prato), bensí da Quarate, presso Bagno a Ripoli, prende invece nome una casata non meno antica, e assai piú nota alla storia dell’arte dei sullodati: i Quaratesi/da Quarate, che, secondo l’uso della nobiltà rurale (presso cui i cognomi, come noto, si fissarono ben piú tardi rispetto alle famiglie cittadine), presero il nome dal castello suddetto. L’affinità araldica ci potrebbe suggerire i Quaratesi fiorentini latamente consanguinei o consorti dei Gianni, e fors’anche dei Buonavolti e dei Martini stanziati nel quartiere di San Giovanni: i primi tre portano infatti nel primo campo del troncato – e poco importa che nel caso dei primi due talvolta esso sia un capo, occupante cioè solo il terzo superiore e non la metà dello scudo – aquile, o grifi, d’argento in campo azzurro, mentre i Martini accampano un leone passante d’oro – e si noti bene che Santa Maria Maddalena, scomparto dello smembrato Polittico Quaratesi, tempera e oro su tavola di Gentile da Fabriano. 1425. Firenze, Galleria degli Uffizi settembre

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tutti questi animali sono sostenuti dalla partizione, e non isolati nel campo. Il gentilizio stesso dei Buonavolti, infatti, che adombra un cambiamento in meglio, potrebbe essere stato adottato allorché un ramo della famiglia si sia fatto di popolo; cosí come lo stemma, identico a quello dei Gianni eccezion fatta per il metallo del troncato inferiore (d’argento pei Gianni, d’oro pei Buonavolti cosí come pei Quaratesi e i Martini), salvo che le due aquilette dal volo abbassato di questi ultimi, simbolo forse troppo ghibellino per una famiglia che voleva far dimenticare le proprie origini signorili per entrare nel governo dei priori delle Arti, divengono, come detto, grifi, ossia animali anfibi, per metà aquila, per metà leone (simbolo guelfo par excellence): come i nostri, già ghibellini, ora fattisi guelfi.

Una bicromia invertita Non resta traccia nella documentazione a me nota di tale cambio di nome e d’arma, ma l’ipotesi non mi sembra inverosimile, e anzi piuttosto logica, calandosi nella mentalità simbolica coeva e in quella temperie politica. La bicromia del troncato dei Quaratesi (cosí come dei succitati Buonavolti e Martini, del resto), per quanto invertita, potrebbe esser mutuata dall’oltracotata schiatta guelfa invisa a Dante degli Adimari, appartenenti al ceto consolare e militare cittadino e già potenti nel XII secolo, ancor prima di esser annoverati fra i magnati: non credo sia documentabile, ma non per questo riterrei improbabile un nesso genealogico di qualche sorta, o di consorteria, coi Quaratesi, se non cogli altri due «cugini araldici», sebbene i prioristi non pongano le dette famiglie contigue, come d’uso se un legame di qualche sorta è acclarato. Tuttavia, sgombrando il campo

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dalle suddette, pur suggestive e interessanti, ipotesi genealogiche, ricordiamo infine, prima di entrare in medias res, le «benemerenze artistiche» – queste sí certe – dei Quaratesi: se Castello – personale che orgogliosamente ricorda le origini militari della casata – di Piero subentrò, ampliandola, all’iniziale fondazione di Luca della Tosa (appartenente a uno dei rami in cui si divise la potente consorteria dei visdomini ereditari della Mensa Vescovile fiorentina, fondatori e patroni dell’omonima chiesa cittadina intitolata a san Michele) del convento francescano di S. Francesco al Monte alle Croci, soppresso nell’Ottocento, il nome della casata è soprattutto legato al

Ritratto di Andrea Quaratesi, disegno su carta di Michelangelo Buonarroti. 1530. Londra, The British Museum. polittico finanziato per testamento dall’avo Bernardo di altro Castello Quaratesi nel 1422 e probabilmente commissionato dal nipote ex fratre Francesco di Andrea nientemeno che a Gentile da Fabriano, che lo ultimò nel 1425, per la cappella gentilizia in San Niccolò Oltrarno (ove pure i sospetti consorti Gianni possedevano altra cappella, sia detto per inciso), purtroppo smembrato nell’Ottocento. Di altro Andrea (di Rinieri) Quaratesi, vissuto nel secolo successivo, ci resta invece il ritratto eseguito a carboncino su carta dal piú grande e tormentato

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CALEIDO SCOPIO dei suoi concittadini coevi (e di sempre: eccezion fatta per Dante, direi), Michelangelo, attorno al 1530, foglio ora al British Museum. Le temps revient fu uno dei motti adottati dal primo protettore del suddetto Buonarroti, Lorenzo de’ Medici, e sfoggiato in occasione della giostra svoltasi con grande dispiego di fasto in piazza Santa Croce a Firenze, nel 1469: a chi si domandasse qual è l’utilità pratica attuale, in fin dei conti, di queste insegne che a volte ritornano dalla proverbiale notte dei tempi, mi piace, finalmente, sottoporre un’interessante case history contemporanea, per Ritratto di una gentildonna nata (o sposata?) Quaratesi, busto in marmo attribuito a Lorenzo Bartolini e realizzato nel decennio a cavallo del 1810 circa.

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In alto stemma dei Quaratesi, dallo Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo (XVII sec.). Milano, 2005.

continuare a mostrare l’utilità dell’araldica per gli studi-storico artistici, e non solo per manufatti molto risalenti nei secoli.

Le temps revient È infatti del principio dell’Ottocento, e d’epoca napoleonica in particolare – e vedremo il perché –, un busto marmoreo recentemente attribuito allo scultore neoclassico toscano Lorenzo Bartolini (1777-1850) da Luca Violo (Le stanze del collezionista. Mostra di opere e oggetti d’arte antica, Firenze 2010, p. 79), che in quella sede identifica la donna ritratta con una Marchesa Barbolani di Montauto (la moglie quindi di un marchese Barbolani, dovremmo desumerne, visto che il titolo è portato dai soli maschi del casato, e non dalle femmine), giungendo a tale conclusione grazie allo stemma posto sul fermaglio da capelli al retro della statua. Lo studioso ipotizza che l’aquila accampata sia rivoltata – ossia volta a destra (la sinistra araldica: nel blasonare, infatti, si adotta sempre il punto di vista non del riguardante, ma dello stemma) – «forse perché il ritratto era stato pensato per una sala di rappresentanza dove gli specchi avrebbero riflesso la corretta settembre

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Stemma dei Barbolani conti di Montauto, dal Codice Pontenani. Arezzo, Archivio di Stato.

posizione dell’arme». Credo invece che l’aquila sia cosí raffigurata nel busto in esame per la congiuntura storica: sono infatti note le simpatie politiche anche del Bartolini – cosí come di molti artisti dell’epoca – per Napoleone, mentre ignoro quelle della committenza (evidentemente non discordanti, presumo, se non altro per ragioni di opportunità: non avrebbe, diversamente, tollerato siffatta arbitraria brisura, da parte dell’artista, del blasone avito!). Certo è che, piuttosto che arrampicarmi letteralmente sugli specchi, credo piú verosimile che l’aquila in questione – per quanto dal volo abbassato – sia stata posta rivoltata dall’autore della scultura per non assomigliare a quella dal volo spiegato piú antica, monocipite, del Sacro Romano Impero (formalmente dissolto

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nel 1806, a differenza di quello austriaco), mutuata dalle legioni romane che adottarono per signum il maestoso uccel di Dio (Dante, Par. VI, 4), ossia l’aquila, animale simbolico di Giove (e poi, forse non a caso, anche dell’evangelista Giovanni): ma a quella invece – rivoltata, appunto! – che adornava le insegne della Grande Armée napoleonica e lo stemma dell’Empereur, tenente negli artigli le saette di Giove, che aveva a sua volta assorbito l’eredità anche simbolica dello Zeus greco.

Autorizzati a battere moneta Quanto all’identificazione dello stemma della gentildonna, la corona – comitale e non marchionale – non contrasterebbe con il titolo portato ab antiquo, come detto, dai Barbolani, anche se effettivamente essi furono in

seguito decorati anche del titolo marchionale (ma diversi testimoni ci attestano l’utilizzo alternativo della corona comitale: forse per l’antichità e il prestigio, anche dal punto di vista politico, del loro titolo originario, a cui fu annesso il diritto, di collazione imperiale, di battere moneta). Ciò che impedisce tuttavia di accettare tale stemma per quello della famiglia aretina – pur simile, a un occhio inesperto, ma ben distinguibile per l’araldista da quello che adorna il busto della nostra ancora ignota gentildonna – sono due dettagli di rilievo incontrovertibile, e non giustificabili con il declino della conoscenza dell’araldica presso gli artefici – decadenza peraltro diffusa – alla cessazione dell’Ancien Régime. Se, infatti, osserviamo lo stemma scolpito della dama con attenzione, rileviamo due cose: in primo luogo, il campo dello scudo – che in tutti i testimoni dello stemma dei Barbolani è unico, sia esso d’oro, che d’argento (variante con campo peraltro caratteristico dell’aquila sveva) – è evidentemente trattato diversamente, essendo la parte superiore del troncato (perché di ciò si tratta, e non di campo di un unico metallo!) liscia, e quella inferiore puntinata (come solitamente si rappresenta graficamente l’oro in araldica, secondo l’uso invalso con la diffusione delle Tesserae gentilitiae, la fondamentale opera pubblicata a Roma nel 1638 dal gesuita Silvestro Pietrasanta); in secondo luogo, è altrettanto evidente che l’aquila è sostenuta dalla sottile linea di partizione del suddetto troncato, e non da una fascia, per quanto ridotta in spessore (come è per i Barbolani, appunto); inoltre, l’aquila di questi ultimi sconfina, piú o meno evidentemente, nella parte inferiore dello scudo, cosa che qui, con tutta evidenza, non accade. Cotante evidenze ci costringono a scartare dunque l’ipotesi Barbolani: non ci resta che cercare di trovare

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CALEIDO SCOPIO a un buon numero di senatori in epoca granducale), porta infatti uno stemma che ha la caratteristica, appunto, di raffigurare sostenuta dalla linea di partizione – e non quindi isolata nel campo superiore del proprio troncato secondo l’uso piú comune – un’aquila dal volo abbassato (meno comune di quella dal volo spiegato), analoga a quella dei sullodati Barbolani, ma, soprattutto, a quella che campeggia nello stemma sul nostro fermaglio per capelli. Il blasone dei Quaratesi, generalmente un troncato, ma col campo superiore in alcuni testimoni ridotto a capo (per ricordare il capo dell’impero, suppongo: aderenza originaria del casato, poi fattosi guelfo e paradossalmente popolare), si blasona troncato d’azzurro e d’oro, all’aquila dal volo abbassato d’argento nel primo, sostenuta dalla partizione: il puntinato dello stemma della scultura combacerebbe quindi con l’oro araldico del campo inferiore dell’arme degli antichi signori la famiglia realmente titolare dello stemma raffigurato sul fermacapelli della nostra scultura. Escono quindi di scena i Barbolani, e fanno il loro ingresso i Quaratesi, già affacciatisi al nostro palcoscenico.

Un lignaggio illustre

In alto variante dello stemma Barbolani di Montauto, da un codice seicentesco riguardante la famiglia. Archivio Orsini De Marzo.

L’antica casata signorile dei domini loci di Quarate, presto inurbatasi e partecipe delle vicende pubbliche fiorentine (può vantare piú di una trentina di priori e nove Gonfalonieri di Giustizia fra 1317 e 1518, oltre

In alto lo stemma dei Quaratesi raffigurato nel seicentesco Priorista Cortonese. Archivio Orsini De Marzo. A sinistra particolare del fermacapelli alle armi che decora il busto di gentildonna attribuito a Lorenzo Bartolini (vedi foto a p. 102).

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del castello di Quarate. Solo un dettaglio non tornerebbe: ossia che, formalmente, quest’ultima pur antichissima e illustre stirpe non risulterebbe decorata che del Patriziato Fiorentino, e di nessun titolo nobiliare, e dovrebbe quindi timbrare il proprio stemma con una mera corona di nobile non titolato.

Gli stemmi Gianni (a destra) e Buonavolti, dallo Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo (XVII sec.). Milano, 2005.

Corona marchionale Recentemente, tuttavia, ho dovuto affrontare un simile «problema» per alcune legature alle armi setteottocentesche transitate sul mercato dell’arte italiano e provenienti – con certezza documentaria – da Casa Martelli (Der liebe Gott steckt im Detail: due stemmi, la filologia e un nome, in: Lucia Pirzio Biroli Stefanelli, La raccolta di «zolfi» del XVIII e XIX secolo proveniente da Casa Martelli a Firenze, Milano 2022; pp. 47-55): anche costoro, ancora ricchissimi nell’Ottocento e già committenti di Donatello, fra l’altro, non ebbero riconosciuto dall’autorità pubblica coeva che il titolo di Patrizio Fiorentino, ma usavano timbrare il proprio stemma con una corona di rango ben maggiore, cioè marchionale (forse in forza di titoli elargiti da potenze straniere non riconosciuti nel granducato e a me ignoti, o, piú probabilmente, per pretensioni ereditarie in linea di successione femminile), pur avendo invece senz’altro diritto a corona di conte palatino (corona di cui fu fatto uso patente, come testimoniato da piú di un sigillo ancora conservato nel Museo di Casa Martelli), stante la palatinia minor conferita ai Martelli nel 1439 da Giovanni VIII Paleologo, a Firenze per il noto Concilio, titolo da portarsi da parte del membro di volta in volta piú anziano del casato (la cosiddetta seniority). Nell’Ottocento, l’araldica non è piú quella di una volta, e molte sono le «licenze poetiche» che si consente: come nel suesposto

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Lo stemma Quaratesi come raffigurato nel Sommario storico delle famiglie celebri toscane (Firenze, 1855-1864).

caso dei Martelli, non dobbiamo perderci quindi d’animo per una corona che non torna, ma cercare testimonianze coeve inoppugnabili di un suo pacifico – per quanto tecnicamente illegale – utilizzo. Ci viene in questo caso in soccorso il succitato, per quanto da prendere cum grano salis, Sommario storico delle famiglie celebri toscane: qui infatti, per i Quaratesi, troviamo raffigurato uno stemma dagli smalti un po’ improbabili, accollato dalla croce dell’Ordine di Santo Stefano di Toscana, ma, soprattutto, timbrato da una corona comitale, segno questo inequivocabile della pretensione a tale titolo da parte almeno dei Quaratesi coevi, a cui dovette appartenere la nostra gentildonna immortalata nel busto marmoreo, opera la cui datazione – senza entrare nel merito dell’autografia – dovrebbe

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CALEIDO SCOPIO Priori e Gonfalonieri di Giustizia usciti da Casa Quaratesi ed elencati nel Priorista Fiorentino Orsini De Marzo.

logicamente collocarsi, come anticipato, nel breve intervallo dell’impero fondato e concluso con la parabola dell’ambizioso ufficiale di Ajaccio. Corollario di tutto ciò, e ulteriore dimostrazione dell’utilità di un corretto e scientifico approccio all’araldica per gli studi storicoartistici, è che quel busto di Madame la Contesse [sic] de Montau [sic] che Elisio Schianta, allievo di Bartolini, nel regesto delle opere piú note dello scultore, ricorda come replicato in due esemplari (uno lo mando [sic] a Parigi, l’altro lo ebbe il principe Demidoff, come riferisce una piú amplia scheda sull’opera prodotta dal commerciante d’antichità che promuoveva l’opera), resta ancora, in ambo le repliche, da trovare: sarà forse utile, ove la ventura si presenti,

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per riconoscerlo, conoscere meglio l’araldica e le sue molte insidie?

Un confronto decisivo Per concludere, il suddetto principe è Anatolio Nicolayevich, discendente dei ricchissimi imprenditori minerari russi Demidov, gratificato dai Lorena del titolo principesco nel 1840, concesso in occasione del matrimonio del suddetto con Matilde Bonaparte, noto collezionista d’arte al pari della moglie napoleonide e committente di Lorenzo Bartolini, mentre la surrichiamata scheda antiquariale identifica ulteriormente, rispetto al vago riferimento a una Marchesa Barbolani di Montauto iniziale, la gentildonna: si tratterebbe infatti, a tenor della stessa, di Carlotta di Federigo Barbolani (1780-1846),

identificata in quella sede anche grazie al ritratto della medesima di Luigi Mussini, datato 1845 e conservato nel succitato Museo di Casa Martelli. Non è quindi superfluo mettere in guardia, per l’identificazione dei ritrattati di opere d’arte, anche dalle somiglianze fisiognomiche: cosí come sopra argomentato nel caso di stemmi. Se maneggiata con competenza (e onestà intellettuale, ça va sans dire!), l’araldica, rispetto alla connoisseurship attributiva in ambito storicoartistico (sempre soggetta – almeno in potenza –, in assenza di prove inoppugnabili, a ondeggiamenti e revisioni), si avvicina meglio, in quanto alle certezze che può fornire, a una scienza esatta. Credo di averne dato, in questa case history, una piccola ma significativa dimostrazione: in seno ai Quaratesi andrà quindi ricercata la nostra gentildonna, approfondendo la genealogia e, soprattutto, le alleanze matrimoniali del casato a cavallo fra Sette e Ottocento, poiché la nostra dama dovrebbe essere o la moglie di un Quaratesi, portando stemma coronato, ovvero, ma credo meno probabilmente – e in tal caso in violazione dell’ortodossia araldica (violazione all’epoca tuttavia non impossibile, con la decadenza di questa scienza e soprattutto della sua conoscenza da parte degli artefici, come anche di molti gentiluomini stessi) –, di una ragazza della famiglia, piú che da marito, probabilmente già accasata con un gentiluomo raffigurato in analogo busto pendant, verosimilmente anch’esso contraddistinto dallo stemma del ritrattato. Esso giace forse negletto e anonimo in qualche collezione pubblica o privata, o in qualche bottega di rigattiere, e, sicuramente – se tale mia ipotesi fosse corretta – infelice di essere stato separato dalla sposa, seppur in effigie, dall’incuria o dalla avidità umana. Niccolò Orsini De Marzo settembre

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Quando i santi prendevano le armi

Floriano, martire pompiere di Paolo Pinti

S

econdo la Passio Sancti Floriani, Floriano era un veterano dell’esercito romano, al quale era stata attibuita la qualifica di princeps offici a Cetia (vicino all’attuale Kirchdorf an der Krems, in Austria), ed era cristiano, pur praticando tale fede di nascosto. All’epoca delle persecuzioni di Diocleziano (284-305), Floriano venne a sapere che a Lauriacum (oggi Lorch in Enns, Austria) quaranta suoi correligionari erano stati condannati a morte a motivo della loro fede: scelse di condividerne la sorte e andò in quella città, consegnandosi ai soldati romani (suoi ex compagni d’arme). Qui il preside Aquilino lo fece interrogare e torturare e, infine, gettare nel fiume Anesius (Enns), dopo che al collo gli era stata legata una macina di pietra (a volte si parla di «mola» per affilare lame: in effetti, la grandezza di questa pietra, nei quadri, ricorda una mola e non la piú grande macina da mulino). Un’aquila vegliò il suo corpo, che si era incagliato in una roccia del fiume, finché la matrona Valeria lo raccolse – cosí come per san Sebastiano, ma qui il santo era davvero morto – e, nel luogo in cui gli diede sepoltura, i vescovi di Passavia fecero erigere l’abbazia di Sankt Florian (presso Linz), che oggi è dei piú celebri monumenti barocchi dell’Austria. Nel 1138, però, le sue spoglie furono portate a Roma e, in seguito, papa Lucio

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III (1181-1185) le fece traslare in Polonia, presso il duca Casimiro II, che volle erigere una chiesa in suo onore a Cracovia. Esiste un documento del XII secolo, il Sermo de invention e sanctarum reliquiarum, nel quale si dice che, nel 1141, i monaci di S. Stefano, a Bologna, rinvennero, sotto il

Martirio di san Floriano, probabile scomparto di un polittico oggi smembrato, olio su tavola di Albrecht Altdorfer. 15161518. Firenze, Galleria degli Uffizi. Si tratta senza dubbio della piú celebre rappresentazione dell’episodio, con san Floriano che sta per essere gettato in acqua con una grossa pietra (mola) legata al collo. Non compaiono altri simboli. settembre

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pavimento di una delle basiliche che formano il complesso, i resti dei quaranta martiri.

L’invenzione di un chierico In verità, non c’è alcuna prova che quei resti fossero di cristiani e potevano ben essere di gente che nulla aveva a che fare con il cristianesimo. Tuttavia, in seguito si volle addirittura precisare che quei martiri provenivano da Gaza e, poiché vicino a una delle salme fu ritrovata una «pulcherrima crux aurea», la stessa fu senz’altro identificata come quella di san Floriano. Studi risalenti a circa un secolo fa hanno attestato che tutto deriva dall’iniziativa di uno sconosciuto chierico di Bologna vissuto nel XIII secolo, che collegò tale rinvenimento alla vita del vescovo Petronio, ritenuto fondatore delle chiese stefaniane: queste erano ritenute fatte su modello palestinese e, di qui, l’idea che le quaranta salme fossero d’origine palestinese. In pratica, nessun riferimento a un Floriano. Va detto che, oggi, si dubita fortemente della concreta esistenza di questo personaggio, che pure agli inizi del XIV secolo fu molto popolare, tanto da essere proclamato protettore di Bologna. Sull’origine di questo culto nel capoluogo dell’Emilia-Romagna abbiamo fonti leggendarie, quali la Passio sancti Floriani et sociorum e la Vita in volgare di san Petronio (entrambe risalenti al XIV secolo circa), che forniscono alcune notizie: il vescovo Petronio, in pellegrinaggio in Palestina, avrebbe acquistato varie reliquie, tra cui quelle di Floriano di Gaza e dei suoi compagni. Nel racconto alcuni particolari non quadrano, poiché i martiri di Gaza, veramente esistiti, furono uccisi nel 638, mentre il vescovo visse al principio del V secolo; per di piú, i martiri furono sessanta e non quaranta. Anche la piú antica biografia di san Petronio,

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scritta nel XII secolo, menziona sí il viaggio in Palestina, ma senza citare l’acquisto delle reliquie. Floriano, insomma, potrebbe non essere mai esistito e, di certo, l’identificazione delle sue spoglie è frutto di fantasia.

Acqua e fuoco Il santo è conosciuto iconograficamente nell’atto di spegnere un incendio e questo perché, secondo la tradizione, da giovane seppe estinguere un incendio con la preghiera, mentre per una diversa leggenda riuscí a spegnerlo utilizzando un solo secchio d’acqua. Naturale, quindi, che sia il patrono dei Vigili del fuoco, particolarmente venerato

San Floriano getta acqua su un incendio avvalendosi di un piccolo secchio, impugnando con l’altra mano uno stendardo, affresco di Leonhard von Brixen. 1459. Tesido (Monguelfo), chiesa di St. Georg. Il santo è in armatura, ma non si vede la spada. in Austria, ma anche nel Triveneto e in Baviera e Polonia. In Italia, è compatrono della città di Jesi. È protettore anche degli spazzacamini – che pure lavorano con i camini e con il fuoco – e, inaspettatamente, con i birrai, in quanto tale bevanda «spegne» la sete, con un’analogia, un po’ forzata, con l’acqua e il fuoco. A essere precisi, sembrerebbe che a essere protetti da san Floriano

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San Floriano, tempera su tavola di Francesco del Cossa. 1473-1474 circa. Washington, National Gallery of Art. L’opera era lo scomparto superiore sinistro del Polittico Griffoni. Nulla richiama la vita del santo, che appare come un nobile quattrocentesco con spada. Nella pagina accanto San Floriano, olio su tela di Anton Cebej. 1765 circa. Lubiana, Galleria Nazionale. Il santo è in armatura completa, con il secchiello d’acqua che gli viene porto da un angioletto. Mancano tutti gli altri simboli. siano i Pompieri Volontari e non quelli «regolari», che godono della protezione di santa Barbara. L’accostamento con i pompieri ha una duplice origine, a seconda delle tradizioni: dal miracoloso spegnimento dell’incendio in età giovanile oppure dal fatto che Floriano sia stato annegato nell’acqua, elemento che spegne il fuoco. Ma c’è un’altra versione, secondo la quale, quando era ufficiale in servizio, il futuro martire faceva parte di un Corpo addetto allo spegnimento degli incendi.

Con la pietra al collo La scena della sua morte è resa famosa nel dipinto di Albrecht Altdorfer, Il martirio di san Floriano conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze (vedi foto a p. 108): il santo è legato, con una catena al collo, a una macina da mulino, che guarda con spavento e che sta per essere gettata in acqua. In questo caso, san Floriano non ha alcun simbolo, a eccezione della macina da mulino (a essere pignoli, è un po’ piccola per essere davvero tale: è dunque piú verosimile supporre che rappresenti una pietra per affilare lame, detta «mola»), che ritroviamo spesso associata alla sua figura; ma in altre opere è raffigurato in abiti militari romani, con uno stendardo e con una spada, a significare la sua condizione di soldato. Frequente è la sua immagine mentre versa un secchio d’acqua su edifici in

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fiamme, consentendo di essere subito riconosciuto. Nel convento di Nonnberg, a Salisburgo, c’è un affresco che lo rappresenta con stendardo, scudo e spada e macina. Nei casi in cui figura, la spada vale come simbolo di Floriano soldato romano e non certo come strumento del suo martirio. Sorprende che l’arma del martirio costituisca (nell’arte) l’attributo, o uno degli attributi, del santo solo a volte. Una disparità di trattamento incomprensibile: all’epoca c’era

la necessità di fare in modo che i fedeli identificassero facilmente il santo raffigurato, tanto che spesso vicino allo stesso era scritto il suo nome (col tasso d’analfabetismo che c’era, tale accorgimento serviva a poco), caratterizzandolo con i suoi attributi/simboli. Ci si deve chiedere perché l’arma del martirio appaia, però, solo per alcuni e non per altri. Altrettanto vale per l’arma che simboleggia la vita pregressa del santo, come nel nostro caso: per alcuni è presente nei quadri e per altri no.

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Lo scaffale Andrea Zezza, Rosanna Cioffi, Riccardo Lattuada (a cura di) Raffaello 500 anni dopo

Officina Libraria, Roma, 424 pp., 150 ill. col., 23 ill. b/n

39,00 euro ISBN 978-88-3367-212-0 www.officinalibraria.net

Il volume dà conto del convegno internazionale Raffaello 1520-2020, organizzato dall’Università

della Campania «Luigi Vanvitelli» in collaborazione con il Museo e Real Bosco di Capodimonte, che, a causa della pandemia da

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coronavirus, si tenne con un anno di ritardo rispetto al progetto iniziale, nel luglio del 2021. Le due giornate di studio e dibattito hanno coinvolto autorevoli studiosi italiani e stranieri, attraverso i cui contributi si è voluto offrire un panorama aggiornato delle conoscenze sul maestro urbinate. Suddivisi in tre sezioni – Nuovi studi su Raffaello, La tecnica,

le indagini, i restauri e La fortuna di Raffaello –, gli interventi ora pubblicati sono l’occasione per constatare quanto l’esegesi dell’opera

dell’insigne artista non possa essere considerata come una sorta di monolite, cristallizzato dalla vasta letteratura critica prodotta sull’argomento. Vi sono, infatti, ampi spazi di manovra, per cosí dire, esplorando i quali si può giungere a riconsiderazioni significative della parabola raffaellesca. Percorsi resi in

Madonna Sistina, olio su tela di Raffaello. 1512-1513. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen Gemäldegalerie Alte Meister.

molti casi possibili dall’evoluzione delle metodologie di indagine ora disponibili, che offrono indicazioni importanti sulla tecnica esecutiva di

dipinti e disegni. Di particolare interesse, nella terza sezione del volume, si rivelano i saggi sulla fortuna di cui l’Urbinate ha goduto già presso i contemporanei e gli immediati continuatori della sua lezione. Un profilo dunque ricco, corredato da un ampio e puntuale apparato iconografico. Stefano Mammini settembre

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