Medioevo n. 333, Ottobre 2024

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Mens. Anno 28 numero 333 Ottobre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IL NOVELLIERE TRE FRATI E UN TRANELLO

ITINERARI LA VIA DEI MALASPINA

GIAN GALEAZZO VISCONTI UN DUCA PER L’ITALIA

ARALDICA INCHIESTA SU UN FONDO ORO

SANTI IN ARMI IL MISTERO DI SAN GALGANO

IL TEMPO DELLA TRANSUMANZA

DOSSIER

SALADINO IL VERO VOLTO DEL

CONDOTTIERO CHE SCONFISSE I

CROCIATI

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€ 6,50

MEDIOEVO n. 333 OTTOBRE 2024 SALADINO GIAN GALEAZZO VISCONTI SAN FRANCESCO A VENEZIA DOSSIER ALLEVAMENTO E TRANSUMANZA

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 3 OTTOBRE 2024



SOMMARIO

Ottobre 2024 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

LA RELIQUIA DEL MESE Maria, l’apostolo e un ladro sventurato

IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/7 Nese, o della passione fatale

di Federico Canaccini

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Una pieve antica e potente

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MOSTRE «Scrivi frate Leone!»

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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di Corrado Occhipinti Confalonieri

48

a cura della Redazione

48

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VENEZIA San Francesco A Venezia, sulle orme di Francesco di Debora Gusson

84

PROTAGONISTI

Gian Galeazzo Visconti di Tommaso Indelli

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Una spada impossibile da impugnare

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di Paolo Pinti

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LIBRI Lo Scaffale

112

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32

84 CALEIDOSCOPIO ITINERARI Tesori nascosti fra le vigne di Chiara Parente

ALLEVAMENTO E TRANSUMANZA C’è un tempo per migrare di Jean-Claude Maire Vigueur

20 LUOGHI

Un duca per l’Italia

di Niccolò Orsini De Marzo

Dossier

STORIE LIBRI Saladino I mille volti del sovrano cavaliere

ARALDICA Matrimonio con mistero

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SA N A FR

MEDIOEVO n. 333 OTTOBRE 2024

VE AN NE CE ZI SCO A

MEDIOEVO www.medioevo.it

IL NOVELLIERE TRE FRATI E UN TRANELLO

ITINERARI LA VIA DEI MALASPINA

GIAN GALEAZZO VISCONTI UN DUCA PER L’ITALIA

ARALDICA INCHIESTA SU UN FONDO ORO

SANTI IN ARMI IL MISTERO DI SAN GALGANO

IL TEMPO DELLA TRANSUMANZA

DOSSIER

SALADINO IL VERO VOLTO DEL

CONDOTTIERO CHE SCONFISSE I

CROCIATI

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SALADINO GIAN GALEAZZO VISCONTI SAN FRANCESCO A VENEZIA DOSSIER ALLEVAMENTO E TRANSUMANZA

Mens. Anno 28 numero 333 Ottobre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Debora Gusson è studiosa di arte e storia. Tommaso Indelli è dottore di ricerca in diritto romano e cultura giuridica europea. Jean-Claude Maire Vigueur è storico del Medioevo. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Parente è giornalista. Paolo Pinti è studioso di oplologia.

IN EDICOLA IL 3 OTTOBRE 2024

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20/09/24 14:16

MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 333 - ottobre 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina (e p. 21); Album/Collection NB/ Kharbine-Tapabor: pp. 28/29; Electa/Sergio Anelli: p. 39; Electa/Sergio Anelli-Cortesia MiC: p. 44; Erich Lessing/K&K Archive: p. 53; Touring Club Italiano/ UIG: p. 64; Fototeca Gilardi: pp. 70/71; Album: p. 74; Electa/Paolo e Federico Manusardi-Cortesia MiC: pp. 90/91 – Doc. red.: pp. 5, 22 (basso), 23, 26, 28, 33, 34-37, 40, 48-49, 50/51, 52, 57, 60-63, 65, 68/69, 71, 73, 75, 76, 78-81, 93, 107, 108, 110; Giorgio Albertini: pp. 54/55 – Cortesia CIDIC-Centro per l’Innovazione e la DIffusione della Cultura, Università di Pisa: pp. 6-8 – Cortesia Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 10-11 – Shutterstock: pp. 24/25, 30-31, 40/41, 42-43, 45, 51, 58/59, 66/67, 72, 76/77, 82-83 – National Gallery of Art, Washington: p. 32 – Riccardo Roiter Rigoni: pp. 84-89 – Cortesia degli autori: pp. 92, 94 (alto), 95, 96, 98-105, 106, 109 – Cippigraphix: cartina a p. 22 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 94. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina ritratto di Saladino, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. 1552-1568. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente iconografia mariana

Quando la Madonna imbraccia le armi

san francesco

luoghi

Il giullare di Dio

Tesori di Cuneo medievale


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

OTTOBRE

Maria, l’apostolo e un ladro sventurato

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l mese mariano per eccellenza è maggio, ma anche ottobre ha un legame con la Vergine, in quanto è il mese del Rosario e, tra le sue ricorrenze, annovera, il giorno 7, la festa della Madonna del Rosario. Seguendo questo filo, torniamo dunque a occuparci delle reliquie legate a Maria, concentrando l’attenzione su quella che è oggi uno dei vanti della città di Prato. Una tradizione voleva che la Madonna, al momento della sua assunzione, avrebbe donato la propria cintola – simbolo di castità, ma anche di umanità – a san Tommaso, l’incredulo, il quale, anche in questo caso dubitò del racconto dell’ascensione della Vergine: l’apostolo chiese un segno e ricevette dal cielo la cintola. Questo racconto appare in alcuni testi monastici della fine del Duecento, ma anche nel Codice Nerucci, conservato a Prato, in cui si narra che il pellicciaio pratese Michele Dagomari avrebbe portato tale manufatto da Gerusalemme in Toscana nel 1141. Fino alla metà del Trecento la cintura era stata conservata personalmente dal preposto della pieve, ma poi fu spostata e sistemata all’ingresso della Cattedrale, dove tuttora si trova. Lo spostamento richiese l’intervento di papa Clemente VI e avvenne a causa di un tentativo di furto a opera di Giovanni, figlio di un dipendente della Propositura, il quale voleva verosimilmente rivenderla ai Fiorentini per vendicarsi di torti subiti dai canonici. Resosi probabilmente conto che nessuno avrebbe acquistato una simile reliquia senza scatenare un caso diplomatico, confessò il misfatto al castaldo della Pieve, sperando di poter evitare la cattura, ma, il 28 luglio del 1312, il podestà lo condannò a morte. Affinché la vicenda e la conseguente pena divenissero esemplari, l’intero episodio venne rappresentato sulle campate della cattedrale di Prato e poi, nel corso del tempo, il racconto si arricchí di nuovi particolari, in

MEDIOEVO

ottobre

parte miracolosi, in parte raccapriccianti. Lo sfortunato ladro, soprannominato Musciattino – ma solo a partire dalla fine del XV secolo –, subí una fine particolarmente cruenta, forse come monito per l’esecrabile furto: venne trascinato per le strade della città da un somaro, gli furono amputate entrambe la mani e, infine, fu arso vivo. Una delle due mani, vuole una tradizione piú tarda, sarebbe stata lanciata contro il Duomo e, per volere della

Vergine, lasciò impressa sulla pietra bianca una macchia rossastra che è ancora visibile! Come per molte altre reliquie, Prato non è l’unica città a esporre la famosa Cintola della Madonna: altre cinture, o parti di essa, si potevano un tempo trovare a Montserrat, Parigi, Chartres, Le Puy, Arras, Assisi e perfino a Homs, in Siria, dove i monaci monofisiti che lí vivono ne espongono ancora oggi un’altra, naturalmente integra. Consegna della Cintola, episodio del ciclo con storie della Vergine e della Cintola affrescato da Agnolo Gaddi nella cappella della Sacra Cintola del Duomo di Prato. 1392-1395.

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il medioevo in

rima

agina

Una pieve antica e potente ARCHEOLOGIA • Si è conclusa con risultati di estremo interesse la prima

campagna di ricerche del Gallicano Project, mirata a documentare la storia della pieve di S. Cassiano. Che nel Medioevo fu un polo religioso di riferimento per l’intera valle del Serchio, in Garfagnana

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ono tornati alla luce in Garfagnana, nel territorio di Gallicano (Lucca), i resti della pieve di S. Cassiano, oggetto delle ricerche condotte dagli archeologi della divisione di paleopatologia dell’Università di Pisa impegnati nel Gallicano Project, diretto da Antonio Fornaciari (Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia). Edificato nell’XI secolo,

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dell’imponente edificio, abbandonato nel XIV secolo e ormai completamente scomparso, non si avevano piú notizie documentali dalla fine del Quattrocento. «La pieve di Gallicano – spiega il professor Fornaciari – era a capo di un vasto territorio, che corrispondeva alla porzione apuana della Val di Serchio, nella bassa Garfagnana, e aveva ben 23 enti religiosi alle sue dipendenze. Grazie agli

Gallicano (Lucca). Lo scavo di una sepoltura del XII sec. scoperta nell’area della pieve di S. Cassiano.

ottobre

MEDIOEVO


scavi condotti fino a oggi, sappiamo che la chiesa, nella sua fase romanica era larga 18 m e lunga circa 23, dotata di un’abside e di tre navate intervallate da due file di quattro colonne».

Casse litiche e fosse «Lo scavo – prosegue Fornaciari – ha permesso inoltre di individuare i resti di un edificio

MEDIOEVO

ottobre

anteriore all’XI secolo, intorno al quale si dispongono alcune sepolture a cassa litica e a fossa semplice. Si tratta, con ogni probabilità, della pieve altomedievale che venne distrutta e inglobata nella piú grande fabbrica “romanica” nel corso dell’XI secolo». «I risultati ottenuti in queste prime quattro settimane – conclude il direttore degli scavi

In alto ricostruzione della pieve di Gallicano cosí come doveva presentarsi nell’XI-XII sec., elaborata sulla base dei dati restituiti dallo scavo. A sinistra l’homepage del sito web del Gallicano Project, ricco di informazioni e sul quale è stato pubblicato il diario di scavo.

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La squadra Guidati sul campo da Letizia Cavallini e Rossella Megaro e da Francesco Coschino ed Alan Farnocchia, hanno preso parte agli scavi studenti del corso triennale in Scienze dei Beni Culturali, della Laurea Magistrale in Archeologia e della Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università di Pisa: Alessio Andreazzoli, Alessia Bonfanti, Roberta Callipari, Pietro Franci, Maria Laura Genchi, Lucrezia Migotto, Letizia Pellicci, Giorgia Ranieri. Il progetto archeologico beneficia, inoltre, della collaborazione degli storici medievisti Ilaria Sabbatini (Università degli Studi di Palermo) e Paolo Tomei (Università di Pisa), di Monica Bini (Università di Pisa) per gli studi geomorfologici e di Adriano Ribolini (Università di Pisa) per gli studi geofisici. Gli scavi del Gallicano Project sono stati eseguiti in accordo con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Lucca e Massa Carrara (funzionaria di riferimento, Marta Colombo). Inoltre, il progetto può contare sul sostegno del Comune di Gallicano, dell’Unione dei Comuni della Garfagnana, dell’Istituto Storico Lucchese-Sezione di Gallicano, dell’ARVO Archivio Digitale del Volto Santo, di Toscana Matildica, dell’Università degli Studi di Palermo e dello Young Historians Festival. – non sarebbero stati possibili senza la disponibilità dei proprietari dei terreni, Giovanna Verciani, Luigi Guazzelli e Sabrina Poli, che hanno aderito con entusiasmo al progetto archeologico, e la collaborazione di tutta la comunità di Gallicano. In particolare, di Fabrizio Riva, Sauro Simonini e Alvaro Simonini che, assieme ad altri abitanti, ci hanno aiutato nell’organizzazione del cantiere. A tutti loro vanno i nostri piú sentiti ringraziamenti, cosí come un grande ringraziamento va alla sezione di Gallicano dell’Istituto Storico Lucchese ed al Comune di Gallicano». Il Gallicano Project conclude cosí la sua prima campagna di scavo con risultati di notevole rilievo. Oltre ai resti della chiesa di S. Cas-

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siano, infatti, gli archeologi dell’ateneo pisano hanno riportato alla luce anche un’ampia area cimiteriale annessa alla pieve, nella quale sono state individuate sepolture che coprono un arco temporale compreso tra l’Alto Medioevo e il XIII secolo. Grazie alle analisi dei resti scheletrici rinvenuti, sarà possibile conoscere la dieta, le malattie e le abitudini di vita della popolazione locale nel corso dei secoli. Cosí da ricostruire la storia demografica e sanitaria della popolazione di Gallicano e contribuire a svelare il potenziale informativo di un sito centrale per la ricostruzione degli assetti insediativi dell’area garfagnina tra Alto e Basso Medioevo. (red.)

Emergono dallo scavo i resti della facciata della pieve medievale di S. Cassiano.

ottobre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

«Scrivi frate Leone! » MOSTRE • Con queste parole san Francesco

accompagnò la dettatura di uno dei piú celebri componimenti della letteratura italiana, il Cantico delle Creature, protagonista di un’esposizione allestita nel Museo di Roma di Palazzo Braschi

O

ttocento anni fa Francesco d’Assisi dettava a frate Leone il Cantico di frate Sole (o Cantico delle Creature) e la ricorrenza ha ispirato il progetto espositivo culminato nella mostra appena inaugurata in Palazzo Braschi, a Roma. L’esposizione prende le mosse dal piú antico manoscritto del Cantico – tra i primi testi poetici in volgare italiano giunti a noi – e propone un itinerario, costantemente accompagnato da una narrazione multimediale, attraverso 93 opere rare del Fondo antico della Biblioteca comunale di Assisi conservate presso il Sacro Convento. È l’occasione per raccontare la profonda dimensione filosofica e spirituale che da sempre guida l’Ordine francescano e, allo stesso tempo, illustrarne l’impegno intellettuale espressosi nell’ambito della riflessione scientifica, come DOVE E QUANDO

«Laudato Sie: Natura e Scienza. L’eredità culturale di frate Francesco» Roma, Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 6 gennaio 2025 Orario martedí-domenica, 10,00-19,00; lunedí chiuso Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it; www.museiincomune.it; www.laudatosie.com

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attestano i numerosi trattati tramandati nei preziosi manoscritti esposti. Il visitatore può, quindi, soffermarsi sulla sintesi filosoficoteologica dei primi pensatori francescani, filosofi e teologi, sul tema della natura, fino a focalizzare l’attenzione sulla maniera nelle quali le singole scienze, nei secoli, hanno portato a osservare il mondo e su come gli stessi francescani abbiano favorito questo sguardo.

Il percorso espositivo Dopo le due sezioni introduttive – Laudato sie: lo stupore riconoscente di fronte al Creato e L’ispirazione delle

In alto la piú antica stesura del Cantico delle Creature, nel Codice 338 della Biblioteca del Sacro Convento di S. Francesco ad Assisi. XIII sec. In basso pagina di un’edizione in latino delle opere del chirurgo francese Ambroise Paré. Francoforte, 1594.


Altre opere del Fondo antico della Biblioteca comunale di Assisi conservate nel Sacro Convento. A sinistra, Isidoro di Siviglia, Etymologiarum opus (Venezia, 1483); a destra, Galileo Galilei, Opere (Padova, 1744). del proprio tempo. Soprattutto, si consente di comprendere come il Cantico della Creature, vero e proprio «manifesto» di un approccio empatico e fraterno nei confronti della natura, possa, ancor origini: Bibbia, teologia e filosofia – le vere e proprie radici sulle quali poggia l’intero impianto della mostra, prendono forma le altre sezioni espositive: I francescani e il sapere enciclopedico; Sora luna e le stelle: l’astronomia; Del numero e della visione: matematica e ottica; Nel mondo tutto è in movimento: la fisica; Gli elementi, i minerali, i metalli e la loro trasformazione: l’alchimia; La Fabrica del corpo: medicina, anatomia e chirurgia. L’esposizione si chiude con una sezione riassuntiva, che ricollega lo sguardo olistico e celebrativo della ricchezza del mondo proprio del Cantico, declinato secondo l’ottica propria delle scienze della vita: Cum tucte le tue creature: piante, animali e uomini. La mostra permette di toccare con mano come nei secoli vi sia stata sempre la presenza nell’Ordine francescano di una «curiosità» intessuta di senso religioso e meraviglia in linea con l’intuizione poetico-mistica del Cantico di frate Sole, accompagnata però dal rigore critico, dall’attenzione per il dato concreto e dall’assunzione di metodologie coerenti, di volta in volta, con gli sviluppi della scienza

MEDIOEVO

ottobre

oggi, trovare consonanza con le aspirazioni di moltissimi uomini e donne al di là della distanza cronologica e culturale con il santo di Assisi che lo compose. (red.)

Una sgargiante età di Mezzo N

el Basso Medioevo, a partire dal XII-XIII secolo, in Italia si sviluppa una colorata rivoluzione: si diffonde l’uso di una piú ampia palette cromatica. Nei secoli precedenti al Mille ci si limitava, infatti, a utilizzare i tre colori polari: bianco, nero e rosso. Dal Duecento in poi la tavolozza si amplia e l’uso degli altri colori si radica sempre piú nell’arte figurativa, nelle miniature, nell’araldica e nell’abbigliamento femminile e maschile. A ciascun colore sono associati particolari significati allegorici e simbolici, positivi e negativi, ma anche specifici lavoratori e mestieri. La veste cromatica delle città muta, con nuovi colori per gli edifici religiosi e non, e per la popolazione. E proprio attorno al tema «I colori nel Medioevo» ruota la quarta edizione della Festa libro medievale e antico di Saluzzo, in programma da venerdí 25 a domenica 27 ottobre, con tappe di avvicinamento nelle settimane precedenti ed eventi nei giorni successivi. Un viaggio nei colori nel Medioevo che sarà presentato attraverso diversi sguardi, aspetti, collegamenti ed espressioni e a partire dal loro valore simbolico per approdare a quello materiale. Fra le novità della quarta edizione della rassegna vi sono la presenza, per la prima volta, di ospiti internazionali e gli appuntamenti di avvicinamento: coinvolgeranno diversi comuni che fanno parte del Marchesato, come Manta, Rifreddo, Staffarda e Revello, e proporranno reading, incontri e lezioni a tema, per iniziare a immergersi nelle atmosfere e cultura medievali sin dai giorni precedenti la manifestazione. Info salonelibro.it; visitsaluzzo.it

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ANTE PRIMA

Dove la storia prende vita I

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

padiglioni di Ferrara Expo tornano ad accogliere «Usi&Costumi», il 9 e 10 novembre, rassegna alla quale parteciperanno oltre 200 espositori provenienti da tutta Europa, operanti principalmente nella tutela dell’artigianato storico. Esiste un vero e proprio mondo, composto da storici, falegnami, fabbri, sarti, calzolai, appassionati, sportivi, che a cadenza piú o meno settimanale passano il proprio sabato e domenica indossando armature da legionario romano, vesti da sacerdote, uniformi della prima o seconda guerra

mondiale piuttosto che napoleoniche o risorgimentali. Un mondo che si basa su un metodo di ricerca, prima, e applicazione, poi, che rende i rievocatori storici strumento efficace e sempre piú utilizzato nell’ambito della divulgazione storica, di qualsiasi epoca. A questi si aggiungono anche gli appassionati di musica storica, arte, spettacolo di strada; per non parlare poi di quanti si occupano di enogastronomia tradizionale che offrono al visitatore ricette antiche e pietanze locali, laddove il cosiddetto «Food&Beverage» sta a sua volta diventando attrattore essenziale per i viaggiatori di tutto il mondo. Questi ormai non si mettono piú in cammino per andare solamente al mare o in montagna, non è piú il riposo bensí la sete di conoscenza a muovere le masse turistiche del terzo

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millennio: e quale migliore attrattore di un luogo di eccellenza archeologica storica, reso vivo, e quindi piú comprensibile al vasto pubblico, dalla presenza di operatori adeguatamente formati, abbigliati ed equipaggiati, circondati dai giusti suoni, odori, sapori? «La conferma presso la fiera di Ferrara di “Usi&Costumi” – ha dichiarato Andrea Moretti, Presidente di Ferrara Expo – rappresenta la convalida del rapporto profondo che lega il mondo della rievocazione storica, rappresentato con grande autorevolezza dall’evento, con la meravigliosa città estense che sta valorizzando la propria storia tramite molteplici iniziative a carattere culturale, fra le quali l’evento fieristico si inserisce perfettamente. In questo quadro la presenza in città di moltissimi cultori della storia arricchisce il panorama turistico di qualità e premia gli sforzi degli organizzatori dando lustro all’importante obiettivo di nobilitare la storia e le tradizioni del nostro ricco passato». «Usi&Costumi» è quindi un momento di ritrovo irrinunciabile per chi opera nella salvaguardia e valorizzazione dei Beni Culturali, ma anche una duegiorni dove chiunque può addentrarsi nell’universo delle tradizioni nostrane, certo di incontrare eccellenze storiche, ricostruttive, artigianali ed enogastronomiche. «Usi&Costumi», che gode del Patrocinio del Comune di Ferrara e della collaborazione del main sponsor «FerraraTua», rimarrà aperta sabato 9 novembre dalle 10,00 alle 19,00 e domenica 10 novembre, dalle 10,00 alle 18,00, insieme alle collaterali «Via HistoricaFiera del Turismo Storico», «Sagitta Expo» (area destinata al Tiro con l’Arco), e a «Scripta ManentPiccolo Salone del Saggio e del Romanzo Storico», prima iniziativa in Italia dedicata a questo particolare settore dell’editoria, che sta avendo sempre maggiore successo. In contemporanea anche «SoftAir Fair», Fiera Nazionale del SoftAir, che ha in Ferrara la sua ormai storica location. Per informazioni: tel. 345 7583298 o 333 5856448; e-mail: info@usiecostumi.org; www.usiecostumi.org ottobre

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AGENDA DEL MESE

Mostre ALESSANDRIA ALESSANDRIA PREZIOSA. UN LABORATORIO INTERNAZIONALE AL TRAMONTO DEL CINQUECENTO Palazzo del Monferrato fino al 6 ottobre

Dopo «Alessandria scolpita» (2019), esposizione dedicata al contesto artistico alessandrino tra Gotico e Rinascimento, questa nuova mostra racconta la civiltà creativa della città piemontese tra Cinque e primo Seicento, focalizzandosi in particolare sulle arti suntuarie, a ridosso dell’avvento del manierismo internazionale negli anni della Controriforma cattolica.

a cura di Stefano Mammini

l’avvento del manierismo internazionale foriero di un nuovo senso della realtà e della forma, attraverso oreficerie e oggetti in metallo, ma anche dipinti su tela e tavola e sculture in legno e marmo che meglio dialogano con le arti preziose; il secondo focus del progetto è quello di mostrare e dimostrare come l’attuale territorio della provincia di Alessandria fosse luogo di convergenza di forze e culture diverse, che non sfiguravano al confronto di altre piú gloriose città padane, ma anzi rappresentava una felice eccezione, in cui influenze nordiche si misuravano con quelle provenienti da Firenze e Roma. Alessandria e il suo territorio fungevano da cerniera tra Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro, mentre proprio alle porte della città era sorto il convento di Santa Croce a Bosco Marengo, voluto da papa Pio V, che racchiudeva in sé il clima artistico di provenienza tosco-romana. info e prenotazioni e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it URBINO

e disegni di Barocci, illustrando tutte le fasi della sua lunga carriera. info tel. 0722 2760; e-mail: gan-mar@cultura.gov.it; www.gallerianazionalemarche.it TRENTO DÜRER E LE ORIGINI DEL RINASCIMENTO NEL TRENTINO Castello del Buonconsiglio fino al 13 ottobre

del Rinascimento urbinate, dominata da artisti quali Piero della Francesca, Bramante e Raffaello, offrendo le primizie di una pittura nuova che caratterizzerà l’età barocca. Non a caso il primo direttore di Palazzo Ducale, Lionello Venturi, aveva in animo di organizzare una mostra monografica, annunciata in occasione dell’apertura del museo nel 1913. L’evento poi non ebbe luogo e solo oggi il museo dedica una esposizione al maestro marchigiano. Grazie a prestiti che arricchiscono la collezione già molto importante della Galleria Nazionale delle Marche, la mostra raccoglie 76 tra dipinti

Il Castello del Buonconsiglio ha scelto Albrecht Dürer come protagonista della mostra simbolo del centenario del museo, nato nel 1924. Il grande pittore e incisore scoprí Trento e il Trentino negli anni 1494-95, rimanendo affascinato dai paesaggi e dalle atmosfere di questi luoghi, di cui catturò l’essenza in una celebre serie di acquerelli. Ad attrarre il Norimberghese fu un principato nel quale l’arte e le arti erano coltivate con grande passione e dove il Rinascimento veniva declinato in modo del tutto originale da artisti trentini e da «foresti» che vi giungevano perché attratti dal prestigio e dalle committenze della corte dei principi vescovi e delle élites

FEDERICO BAROCCI URBINO. L’EMOZIONE DELLA PITTURA MODERNA Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 6 ottobre

«Alessandria preziosa» si articola in sette sezioni composte da circa ottanta opere, in cui protagoniste sono le sculture in metallo prezioso, evidenziando il ruolo determinante svolto dalle arti suntuarie, dall’oreficeria alla toreutica, dall’arte degli armorari all’intaglio delle pietre dure. L’obiettivo della mostra è duplice: da un lato delineare

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Pittore, straordinario disegnatore e innovativo incisore, per quasi un secolo Federico Barocci (1533-1612) segna la scena artistica italiana ed europea. Per la città ducale, Federico Barocci ha sempre rappresentato un debito di riconoscenza, perché la sua figura umana e artistica è di straordinaria importanza: con la sua opera egli chiude idealmente la grande stagione ottobre

MEDIOEVO


economiche. Il progetto espositivo fa rivivere quel viaggio e quel magmatico, creativo momento della storia dell’arte di una terra tra i monti. Nell’esposizione, la presenza di Dürer in Trentino è ricordata da disegni, acquerelli – tra cui la magnifica veduta proprio del Castello del Buonconsiglio proveniente dal British Museum –, incisioni e dipinti: l’arte del grande tedesco non passò inosservata ma stimolò gli artisti qui attivi a ripensare la loro arte. Partendo dallo spettacolare «caso Dürer», il percorso espositivo si estende infatti a indagare le origini di quel Rinascimento originale, sui

generis, che si sviluppa in Trentino tra 1470 e 1530/40. A prendere forma è uno stile nuovo, o meglio, l’insieme di tanti nuovi linguaggi, influenzati da artisti, opere, mode e modi che risalgono dall’Italia alla Germania, alle Fiandre e viceversa. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it TRENTO CON SPADA E CROCE. LONGOBARDI A CIVEZZANO Castello del Buonconsiglio fino al 20 ottobre

L’esposizione racconta la storia

dei Longobardi in Trentino attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della «principessa» e del «principe» di Civezzano riuniti per la prima volta. Una mostra nata dalla collaborazione tra il

Castello del Buonconsiglio e il Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, che custodisce molti manufatti di provenienza trentina e con la quale si è mantenuto e consolidato negli anni un rapporto di grande collaborazione. La rassegna offre un’occasione per riesaminare i dati storici e i materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze incrementate grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali, ma anche di approfondire

MOSTRE • Siena: La grande stagione della pittura, 1300–1350 New York – The Metropolitan Museum of Art

fino al 26 gennaio 2025 (dal 13 ottobre) info www.metmuseum.org

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orte di oltre cento dipinti, sculture, oreficerie e tessuti, la rassegna – prima grande mostra mai dedicata alla pittura senese del Trecento negli USA – approfondisce un momento straordinario agli albori del Rinascimento italiano e il ruolo cardine svolto da artisti senesi come Duccio, Pietro e Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini nella definizione della pittura occidentale. Nei decenni precedenti la catastrofica epidemia di peste attorno al 1350, Siena fu teatro di straordinarie innovazioni e attività artistiche. Per quanto spetti solitamente a Firenze la designazione di centro principale del Rinascimento, questa presentazione offre una rilettura dell’importanza di Siena, dalla profonda influenza di Duccio su una nuova generazione di pittori allo sviluppo di pale d’altare narrative, alla diffusione di stili artistici fuori dai confini italiani. Attingendo alle collezioni del Metropolitan e della National Gallery di Londra (dove l’esposizione verrà riproposta dall’8 marzo al 22 giugno 2025), oltre che a prestiti di decine di enti internazionali, la mostra spazia da grandi opere realizzate per essere esposte al pubblico a oggetti intimi pensati per la devozione privata. Tra i capolavori che si possono ammirare, ricordiamo la Madonna Stoclet di Duccio, l’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti e riunificazioni storiche di fondamentali complessi pittorici, come la predella posteriore della Maestà di Duccio e il Polittico Orsini di Simone Martini.

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tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia «barbarica». info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it PARIGI IL MERAVIGLIOSO TESORO DI OIGNIES: BAGLIORI DEL XIII SECOLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 ottobre

Una delle sette meraviglie del Belgio, il Tesoro di Oignies, viene per la prima volta concesso in prestito quasi integralmente dal Musée des Arts Anciens du Namurois di Namur e approda a Parigi. Della trentina di pezzi giunti in Francia fanno parte oreficerie – per lo piú reliquiari, come quelli del latte della Vergine e della costola di san Pietro – e una selezione di tessuti. La mostra ripercorre la storia del priorato di Saint-Nicolas d’Oignies, una comunità di canonici agostiniani fondata alla fine del XII secolo, intorno a tre figure centrali: Maria d’Oignies (1177-1213), Jacques de Vitry (1185-1240) e il talentuoso orafo Hugues de Walcourt, detto Hugo d’Oignies († 1240 circa). Le sue creazioni e quelle del suo laboratorio, riconoscibili per l’abbondanza di nielli,

filigrane, motivi naturalistici e di caccia, costituiscono una testimonianza virtuosa del lavoro sui metalli preziosi. Alcuni anni dopo la fondazione del priorato, la mistica Maria d’Oignies vi si stabilisce e piú d’una delle opere esposte evoca il destino di quella che è stata dichiarata beata poco dopo la sua morte e che è ancora venerata oggi. Nello stesso periodo, Jacques de Vitry, brillante predicatore e per un certo tempo vescovo di Acri, in Terra Santa, diventa il principale mecenate del priorato e fornisce reliquie e materiali preziosi. Il suo sostegno permette al priorato di diventare un importante centro di produzione di oggetti d’oreficeria e prima Hugo d’Oignies, e poi il suo laboratorio, sviluppano un’arte in costante evoluzione, come emerge dalla mostra. info musee-moyenage.fr PIAZZOLA SUL BRENTA (PADOVA) L’IMPRONTA DI ANDREA MANTEGNA. UN DIPINTO RISCOPERTO DEL MUSEO

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CORRER DI VENEZIA Villa Contarini-Fondazione G. E. Ghirardi fino al 27 ottobre

Prima di rientrare al Museo Correr di Venezia, delle cui raccolte fa parte, è esposto a Piazzola sul Brenta un prezioso e inedito dipinto ora assegnato ad Andrea Mantegna: la Madonna col Bambino, San Giovannino e sei sante. Tema della composizione, realizzata a olio e oro su tavola e databile intorno agli anni fra il 1490 e il 1495 è la Sacra Conversazione: la Madonna e il Bambino Gesú in muto dialogo spirituale con san Giovanni Battista fanciullo e sei sante. Dal punto di vista strettamente iconografico, il soggetto sembra legarsi al tema figurativo fiammingo della Virgo inter virgines, vivo soprattutto nelle corti di Francia e Borgogna del XV secolo. A Villa Contarini, il piccolo dipinto è offerto anche all’attenzione degli studiosi, che possono tentare di scalfirne i segreti e, soprattutto, indagare la reale natura e misura della forte, personalissima «impronta» che

in esso ha lasciato Mantegna: l’ideazione e il disegno, o anche l’esecuzione di sua mano? Anche in attesa di tali «risposte», la mostra rappresenta l’epilogo del primo atto di una vicenda appassionante, che unisce scoperta, indagine, studio, conservazione, restituzione, valorizzazione. info www.fondazioneghirardi.org TOLOSA «CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025

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Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande respiro, distribuita in due sedi: il Musée SaintRaymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), un episodio che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati provenienti dal Nord, il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto

sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr LONDRA

gruppo di pezzi degli scacchi e un monumentale dipinto murale dalla Sala degli

Appuntamenti

VIE DELLA SETA British Museum fino al 23 febbraio 2025

Carovane di cammelli che attraversano dune desertiche, mercanti che commerciano seta e spezie nei bazar. Sono queste le immagini che vengono alla mente quando pensiamo alla via della Seta. Ma la realtà va ben oltre, a cominciare dal fatto che, come racconta la nuova mostra del museo londinese, la storia dei commerci fra Oriente e Occidente fu scritta lungo molteplici percorsi, le «vie»

SIENA SCOPERTURA DEL PAVIMENTO DEL DUOMO Duomo fino al 16 ottobre

espositivo si sofferma da un lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno caratterizzato la crociata contro gli Albigesi, intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara, senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la

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Ambasciatori di Afrasiab (Samarcanda, Uzbekistan). info www.britishmuseum.org

della Seta, come recita il titolo, un sistema di reti sovrapposte che collegavano comunità in tutta l’Asia, l’Africa e l’Europa, dal Giappone alla Gran Bretagna, dalla Scandinavia al Madagascar. Queste vie sono state utilizzate per millenni, ma l’esposizione si concentra su un periodo ben definito, compreso fra 500 e il 1000 d.C. Lungo il percorso, che si articola in sezioni geografiche, sono distribuiti oltre 300 oggetti e opere d’arte, frutto anche di importanti prestiti, e fra i quali spiccano un antico

La chiesa cattedrale di Siena scopre il suo magnifico pavimento a commesso marmoreo, frutto di cinquecento anni di espressione artistica. Risultato di un complesso programma iconografico, è stato realizzato attraverso i secoli, dal Trecento fino all’Ottocento, tarsia dopo tarsia, sulla base di cartoni preparatori disegnati da artisti quali il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi, Pinturicchio. Il prezioso tappeto di marmi policromi è unico non solo per la tecnica utilizzata, ma anche per il messaggio delle figurazioni, un

invito costante alla sapienza, a partire dalle navate con i protagonisti del mondo antico, scarmigliate sibille e autorevoli filosofi, fino ai soggetti biblici sotto la cupola, nel presbiterio e nel transetto. In occasione della scopertura del pavimento i visitatori hanno inoltre l’opportunità di «deambulare» intorno al coro e all’abside del Duomo, dove si conservano le tarsie lignee di Fra Giovanni da Verona, eseguite con una tecnica simile a quella del commesso marmoreo, con legni di diversi colori, raffiguranti vedute urbane, paesaggi e nature morte, armadi che mostrano gli scaffali interni con oggetti liturgici resi con abilità prospettica. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it

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ANTE PRIMA

Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

CATTEDRALI E ABBAZIE

VO MEDIO E Dossier

MEDIOEVO DOSSIER

IN EDICOLA

CA VIAG TT GI ED O N RA EL LI MED E A IO BB EVO AZ IE

Trento. Una veduta esterna della cattedrale di S. Vigilio la cui costruzione fu promossa dal vescovo Federico Vanga nel 1212.

UN VIAGGIO TRA LUCE E SPIRITUALITÀ

I

UN VIAGGIO TRA LUCE E SPIRITUALITÀ N°63 Luglio/Agosto 2024 Rivista Bimestrale

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CATTEDRALI E ABBAZIE

CATTEDRALI E ABBAZIE

l viaggio proposto dal nuovo Dossier di «Medioevo» attraversa l’intera Italia e non solo e prende avvio dagli spettacolari ricami di pietra realizzati dal maestro Wiligelmo per la cattedrale modenese di S. Maria Assunta, che agli inizi dell’XI secolo prese forma secondo il progetto dell’architetto Lanfranco. È l’inizio di un percorso affascinante, scandito da saggi sul contesto storico e culturale nel quale operarono le fabbriche alle quali si deve la costruzione di monumenti insigni, che tocca luoghi in cui l’anelito religioso si è fatto motore della creazione di architetture e opere d’arte di eccezionale pregio. Le chiese cattedrali e i complessi abbaziali descritti nel Dossier compongono un atlante del cristianesimo occidentale e, al contempo, sono la plastica testimonianza di fenomeni che hanno segnato il millennio medievale, come nel caso della nascita e della diffusione degli Ordini religiosi. Ardite soluzioni costruttive, apparati ornamentali lussuregginati – fatti di statue, affreschi, mosaici – ribadiscono l’importanza di una committenza, quella della Chiesa, senza la quale l’ingegno e la creatività di artisti celebri o tuttora anonimi non avrebbero avuto la visibilità che li ha consegnati alla storia. Da Modena, dunque, a Spoleto, da Milano a Parigi, da Assisi a Monreale, da San Galgano a Cava de’ Tirreni... non vi resta che sfogliare questa straordinaria antologia del bello!

IN EDICOLA IL 26 LUGLIO 2024

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GLI ARGOMENTI

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• Le grandi cattedrali d’Italia e d’Europa • Nascita e diffusione del monachesimo • L’Italia delle abbazie • Un atlante dei tesori da scoprire ottobre

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libri saladino

I mille volti del sovrano

cavaliere

a cura della Redazione

Evocare Saladino divenne sinonimo di sventura per l’Occidente, soprattutto all’indomani della disfatta patita ai Corni di Hattin e della caduta di Gerusalemme. Ma come si era arrivati a quei tragici eventi? E, soprattutto, chi fu davvero il condottiero capace di tenere in scacco gli eserciti cristiani giunti in Terra Santa? A queste e molte altre domande risponde Roberto Celestre in un saggio appena dato alle stampe e che qui presentiamo in anteprima

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alah al-Din Yusuf ibn Ayyub ad-Dawini, ovvero «Salvezza della Fede, Yusuf, figlio di Ayyub da Dwin» nasce a Tikrit, nell’odierno Iraq, nel 1137/38 (il caso vuole che, esattamente 800 anni piú tardi, in un villaggio nei pressi della stessa città, vede la luce l’ultimo dittatore dell’Iraq, Saddam Hussein). Conosciuto come Saladino (a cui si aggiunge l’epiteto di al-Malik al-Nasir, «il sovrano vittorioso») il condottiero di origine curda e di fede sunnita assurge ben presto a figura mitica e idealizzata di tutto il mondo musulmano. La sua impresa piú straordinaria? Difficile dirlo: forse la conquista di Gerusalemme, del 2 ottobre dell’anno 1187 (esattamente dieci anni dopo la sconfitta subita contro i cavalieri crociati nella battaglia di Montgisard) preceduta, tre mesi prima, dalla celeberrima battaglia ai Corni di Hattin, un’altura prospiciente il lago di Tiberiade, in cui il sultano inflisse una

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disfatta ai cavalieri del regno cristiano a dir poco umiliante. Lo storico Ibn al-Athír, un contemporaneo del Saladino, descriveva cosí lo scontro: «Il sabato venticinque rabi’ secondo [4 luglio 1187], il Saladino e i musulmani, montati a cavallo, avanzarono verso i Franchi. Anche questi montarono in sella e i due eserciti vennero a contatto, ma i Franchi soffrivano gravemente della sete ed erano sfiduciati». «Si accese e infuriò la battaglia, con tenace resistenza dalle due parti: gli arcieri musulmani lanciarono un nugolo di frecce, come sciami diffusi di cavallette, e uccisero in questo combattimento molti cavalli dei Franchi. Essi, strettisi coi loro fanti, puntavano combattendo su Tiberiade nella speranza di giungere all’acqua, ma

il Saladino resosi conto di questo loro obiettivo lo impedí, piantandosi con l’esercito in faccia a loro. Egli girava tra le formazioni musulmane eccitandole con ordini e divieti opportuni, e tutti obbedivano ai suoi ordini e si fermavano ai suoi divieti. Uno dei suoi mamelucchi giovanetti fece una terribile carica sui Franchi, e vi compí prodigi di valore finché sopraffatto dal numero fu ucciso; e allora tutti i musulmani caricarono, facendo vacillar le linee nemiche con grande strage. (...) La strage e la cattura furono cosí grandi fra loro che chi vedeva gli uccisi non credeva possibile che ne avessero catturato anche uno solo, e chi vedeva i prigionieri non credeva possibile che anche uno solo fosse stato ucciso. Dai tempi del loro primo assalto

Nella pagina accanto ritratto di Saladino, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. 1552-1568. Firenze, Galleria degli Uffizi. ottobre

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libri saladino Sultanato di Rum

La sacra insegna

(1098-1146)

Piccola Armenia

Edessa

(1138-1375) Adana

Ager Sanguinis 1119

Atabeg di Mosul

Aleppo

Antiochia

Principato ato to Regno di Antiochia di Aleppo

Eufrate

(1098-1268)

Regno di Cipro (1192-1489)

Or

on

Famagosta

(1102-1146)

Nicosia

te

Contea di Tripoli Krak dei

Homs

Tripoli Beirut

Mar Mediterraneo

Tiro

Beaufort

Montfort Chastel Pélerin Cesarea Giaffa Ascalona

Le Chastellet

Damietta

Belvoir

Amman Gerusalemme

Regno di Kerak Gerusalemme (1099-1187)

Califfato fatimide di Egitto (968-1171)

Golfo di Suez

DESERTO DI SIRIA

Ajlun

Gaza

El Mansûra Il Cairo

Regno di Damasco

Damasco

Nimrod

Acri

Palmira

Cavalieri

no

Tra gli episodi che, nell’immaginario cristiano, esasperarono la tragicità dell’evento vi furono la presa e la distruzione di una delle reliquie piú sacre, la Vera Croce, che i cavalieri del Regno di Gerusalemme avevano portato, come insegna, in battaglia. Saladino muore il 3/4 marzo del 1193 a Damasco, all’età di 55 anni, in assenza del suo medico personale che, secondo una fonte, non era altro che il grande filosofo, scienziato e, appunto, medico ebreo, Mosè Maimonide. E ancora oggi, nel centro storico della capitale siriana, un apposito mausoleo custodisce il sarcofago con le sue spoglie. L’effettivo ruolo di Saladino come antagonista vittorioso dei crociati ha sicuramente contribuito a idealizzare se non a romantizzare la sua figura. La storiografia moderna, tuttavia, tende a ridimensionarne lo stereotipo di difensore dell’Islam, sottolineando invece come quell’immagine servisse piuttosto a legittimare le sue aspirazioni e la sua ascesa al potere.

Contea di Edessa

Giorda

al litorale di Siria, nell’anno 491 (1098) a ora, mai i Franchi avevano subito una simile disfatta».

Stati latini d’Oriente Regno di Gerusalemme Contea di Tripoli

Shawbak Petra

SINAI

‘Aqaba

Mar Rosso

Principato di Antiochia Contea di Edessa Principali fortezze crociate Principali fortezze musulmane

In alto cartina che mostra l’assetto geopolitico della Terra Santa al tempo di Saladino, con il regno di Gerusalemme e degli altri Stati latini d’Oriente. A sinistra Processione dei crociati intorno a Gerusalemme, 14 luglio 1099, olio su tela di Jean-Victor Schnetz. 1841. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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Nel quadro delle piú recenti trattazioni sull’argomento si inserisce, ora, un’affascinante indagine intrapresa da Roberto Celestre, autore del volume Saladino. Il sovrano cavaliere, appena pubblicato dall’editore Graphe.it di Perugia, e di cui, nelle pagine che seguono, presentiamo, in anteprima, ampi stralci. Sin dalle prime righe l’autore mette in guardia il lettore: la fama del personaggio – scrive Celestre – «trascende gli eventi che lo videro protagonista»: un’affermazione che sintetizza con estrema efficacia la percezione che di Saladino si è avuta, prima fra quanti furono testimoni delle sue gesta e poi tra i posteri. È questa dunque una delle direttrici lungo le quali si dipana la trattazione che, tuttavia, non si propone di arricchire la già sterminata bibliografia sul fondatore della dinastia ayyubide con un contributo di taglio monografico, ma propone un «percorso espositivo differente». Soprattutto perché il saggio, dopo un ampio e documentato profilo biografico di Saladino, presenta, per la prima volta in traduzione italiana, la Cronaca di Salah al-Din redatta da Ibn Khallikan († 1282), grazie alla quale Celestre «punta a descrivere le vicende del condottiero ayyubide secondo una prospettiva “dall’interno” evidenziando la percezione della sua immagine presso i musulmani del periodo medievale» (vedi box a p. 28).

Il quadro storico

Nella prima parte del volume, l’esordio è dedicato a un inquadramento del contesto nel quale la parabola di Salah al-Din era destinata a svolgersi. In particolare, perché, nella seconda metà del XII secolo, nel convulso scenario delle lotte fra musulmani e cristiani in Terra Santa, il regno franco di Gerusalemme imbocca la via del declino e il principale responsabile della sua decadenza è proprio Salah al-Din, il quale, divenuto governatore di Damasco, «avviò – come ha scritto Franco Cardini – una complessa manovra fatta di congiure e di colpi di

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Miniatura raffigurante una veduta di Gerusalemme, da Advis directif pour faire le voyage d’Outremer. 1458 (?). Parigi, Bibliothèque nationale de France.

testa che lo condusse a conquistare anche il Cairo, dove abolí il califfato fatimide restaurando cosí l’unità sunnita dell’Islam vicino-orientale. Vittorioso sui suoi antichi signori, gli Zenjidi di Aleppo e Mosul, e divenuto a sua volta sultano di Damasco e del Cairo, il Saladino maturò l’obiettivo di cacciare i Franchi da Gerusalemme e impadronirsi della Palestina: ciò gli avrebbe permesso di conseguire la continuità territoriale dei suoi principati». Ecco dunque un passaggio della rassegna delle «forze in gioco» delineata da Roberto Celestre. «L’insediamento dei Franchi nel Levante durante la prima crociata, culminata con la conquista di Gerusalemme (1099) e la creazione

di entità statali (regno di Gerusalemme, principato di Antiochia, contee di Edessa e Tripoli), rappresentò un elemento di novità assoluta negli equilibri della regione. La fondazione di domini cristiani in Outremer di matrice europea stabiliva modelli e principi legali, amministrativi, culturali ed etici del tutto alieni ai preesistenti sistemi statali e organizzativi dell’area mediorientale. Nonostante tutto, la nascita di stati crociati non portò, almeno nella primissima fase, a uno stravolgimento degli equilibri regionali interni al mondo musulmano, non suscitando immediate e significative reazioni tra principi e regnanti musulmani. Nulla infat-

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libri saladino ti mutò alla fine dell’XI secolo e gli inizi del successivo nello scenario politico siro-mesopotamico, caratDidascaliada continue lotte intestine terizzato adi odis ealiquatur dal sorgere di signorie e potentati que vero qui che, purent riconoscendo la legittimità doloreium conectu dell’autorità califfale degli Abbasidi rehendebis eatur di Baghdad (750-1258), approfittatendamusam rono dell’incrinatura del loro preconsent, perspitie politico per esercitastigio morale conseque nis potere in veste di tutore il proprio maxim eaquis che sedeva a Baghdad. ri del califfo Iearuntia primicones ad assumere tale ruolo apienda. i Buwayhidi o Buyidi (Xfurono XI secolo), dinastia di musulmani shi’iti provenienti dalle regioni del Mar Caspio, a cui subentrarono i Grandi Selgiuchidi, turchi islamizzati che invece professavano l’ortodossia sunnita. Nel 1055 i Selgiuchidi di Toghrïl Beg (m. 1063), fondatore della dinastia, fecero il loro ingresso a Baghdad imponendo la propria tutela politica e militare sul califfo abbaside». (...)

seconda del secolo successivo, ponendo fine al cosiddetto “secolo shi’ita” di cui il califfato fatimide del Cairo (909-1171) rappresentò la massima espressione. I Fatimidi erano considerati eretici dalla maggioranza sunnita e rivendicavano la legittimità del califfato shi’ita in opposizione a quello sunnita di Baghdad. Nei cento anni di loro dominio regionale, i Fatimidi estesero la propria egemonia sulla Siria centro-meridionale, sulla regione di Damasco e sull’intera area palestinese compreso il litorale mediterraneo. Anche le città di Aleppo e Mossul, fino a quel momento governate dalla stirpe sunnita degli Hamdanidi in nome del califfo sunnita di Baghdad, nel 1025 vennero soppiantati dalla dinastia shi’ita dei Mirdasidi. L’importanza dei Fatimidi nel complesso quadro regionale merita un approfondimento, seppur breve, al fine di conoscere le origini del movimento e l’affermazione della dinastia in territorio

«Il controllo selgiuchide si estese anche sulla Siria e sulla regione palestinese perfezionandosi tra la seconda metà dell’XI secolo e la

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egiziano fino alla conclusione della loro esperienza politica per mano di Salah al-Din». Nel secondo capitolo vengono quindi ripercorse le origini degli Ayyubidi, il cui avvento matura in un contesto nel quale ebbe grande rilevanza il ruolo dell’emiro zenjide Nur al-Din, alla cui corte si formò Saladino. Il rapporto con Nur al-Din – il Norandino delle fonti occidentali – è decisivo nel percorso del giovane principe curdo. In particolare perché, quando lo zio, Shirkuh, suggerí a Nur al-Din di accettare la richiesta di Shawar, ministro del califfo fatimide al-’Adid, di inviare truppe in Egitto al soccorso dei Fatimidi – attaccati dai Franchi del regno di Gerusalemme – Salah al-Din venne coinvolto nell’operazione. Furono cosí condotte piú spedizioni, l’ultima delle quali, nel 1169, spianò la strada all’affermazione di Saladino, in quanto Shirkuh prese il posto di Shawar come visir del califfo fatimide e il nipote venne associato alle funzioni connesse alla carica. La condivisione del potere fu di breve durata,

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poiché, di lí a poco, Shirkuh morí, ponendo le basi per l’affermazione definitiva di Saladino: «Se da un lato le vittorie in terra d’Egitto rallegrarono Nur alDin, (...) dall’altro probabilmente egli nutriva qualche apprensione quando seppe della nomina a visir di Shirkuh. Le fonti, e anche Ibn Khallikan è esplicito su questo punto, insistono nell’asserire che con l’eliminazione dell’ultimo ostacolo rappresentato da Shawar, Shirkuh vedeva ora concretizzarsi l’ambizione di un proprio dominio. Il rapporto tra Nur alDin e Shirkuh a questo punto iniziò a farsi problematico. Shirkuh, come sappiamo, da sempre aveva sostenuto energicamente l’intervento zenjide in Egitto, cercando tra l’altro il sostegno del califfo di Baghdad che diede il suo scontato benestare, esercitando un’esortazione morale che Nur al-Din recepí a malincuore». (segue a p. 28)

La cosiddetta Torre di Davide, nei nei pressi della Porta di Giaffa, nella Città Vecchia di Gerusalemme.

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libri saladino Gli anni di Saladino

1138 Nascita di Salah al-Din. Najm al-Din Ayyub e Shirkuh entrano a far parte delle forze di ‘Imad al-Din Zenji. 1144, dicembre Conquista di Edessa da parte di Zenji.

Miniatura raffigurante l’assedio di Gerusalemme del 1187, da un codice del Roman de Godefroi de Bouillon di Gugliemo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

1146, settembre Assassinio di Zenji.

1164, Prima spedizione in Egitto di Shirkuh e aprile-ottobre Salah al-Din patrocinata da Nur al-Din. Shawar ottiene nuovamente la carica di visir. 1167, Seconda spedizione di Shirkuh e febbraio-agosto Salah al-Din in Egitto. 1169 Terza spedizione egiziana di Shirkuh e Salah al-Din. I Franchi si ritirano dall’Egitto e Shirkuh fa il suo ingresso al Cairo. Uccisione di Shawar. Shirkuh, nominato visir, instaura l’autorità di

1151 Con la conquista di tutto il territorio della contea di Edessa, Nur al-Din, figlio di Zenji, prosegue la politica di consolidamento del potere attuata dal padre. 1152 Nur al-Din conquista Damasco. 1163, settembre Shawar, deposto dalla carica di visir nell’Egitto fatimide, trova rifugio in Siria e chiede aiuto a Nur al-Din.

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Nur al-Din in Egitto [gennaio]. Morte di Shirkuh e successione di Salah al-Din alla carica di visir [marzo]. 1171 Morte di al-’Adid e fine del califfato fatimide. Ritorno del sunnismo in Egitto [settembre]. Salah al-Din muove verso la fortezza di Shawbak. Prime tensioni con Nur al-Din [ottobre-novembre]. 1173 Turanshah, fratello di Salah al-Din, sopprime la rivolta nell’Alto Egitto e penetra in Nubia [giugno-agosto]. Salah al-Din attacca Kerak [giugno]. Morte di Najm al-Din Ayyub, padre di Salah al-Din [settembre]. 1174 Turanshah conquista lo Yemen in nome di Salah al-Din [febbraio-maggio]. Cospirazione contro Salah al-Din al Cairo [aprile]. Morte di Nur al-Din [15 maggio]. Inizia il dominio della dinastia degli Ayyubidi. Morte di Amalrico I, re di Gerusalemme [14 luglio]. Succede al trono Baldovino IV. Salah al-Din entra a Damasco [28 ottobre] e conquista la città siriana di Hama [dicembre]. 1175 Primo tentativo di assassinio di Salah al-Din da parte della setta degli Assassini [gennaio]. Salah al-Din conquista Hims e Ba’albekk e sconfigge le forze zenjidi a Qurun Hama [marzo]. Accordo di tregua tra Salah al-Din e al-Salih di Aleppo [maggio]. 1176 Salah al-Din sconfigge a Tell al-Sultan le armate zenjidi di Mossul e Aleppo [aprile] e ratifica dell’accordo di pace con al-Salih di Aleppo [luglio]. 1177, Sconfitta di Salah al-Din nella 25 novembre battaglia di Montgisard a opera di Baldovino IV, nei pressi di Ramla. 1179 Vittoria di Salah al-Din sui Franchi a Marj ‘Uyun. 1180 Morte di Sayf al-Din, signore zenjide di Mossul. Tregua tra Salah al-Din e i Franchi. 1182 Attacchi delle forze ayyubidi ai territori del regno di Gerusalemme [maggioluglio]. Edessa, Rakka, Nisibin, Hisn Kayfa e Sinjar si arrendono a Salah al-Din [settembre-ottobre].

1185 Muore Baldovino IV e nuova tregua tra Salah al-Din e i Franchi [aprile]. Campagna di Salah al-Din nell’Alta Mesopotamia e resa di Mayyafariqin [aprile-dicembre]. 1186 Mossul riconosce la signoria di Salah al-Din [marzo]. Guido di Lusignano viene incoronato re di Gerusalemme [settembre]. Salah al-Din insedia i figli al-Afdal alla signoria di Damasco, al-’Aziz al Cairo e al-Zahir ad Aleppo. Nomina del fratello al-’Adil a tutore del figlio al-’Aziz che siede al Cairo. 1187 Rinaldo di Châtillon, signore di Kerak, attacca una carovana di pellegrini musulmani in transito tra il Cairo e Damasco. Fine della tregua stabilita. Salah al-Din reagisce attaccando i territori di Kerak [gennaio]. Battaglia di Hattin e sconfitta delle forze crociate [4 luglio]. Cadono in mano ayyubide le città di Acri, Haifa, Cesarea, Arsuf, Giaffa, Tibnin e Sidone [luglio]. Conquista di Beirut e Jubayl [agosto], Ascalona, Gaza, Darum e Ramla [settembre]. Assedio e conquista di Gerusalemme [20 settembre-2 ottobre]. Assedio di Tiro [12 novembre-1 gennaio]. 1188 Campagna di Salah al-Din nella Siria settentrionale e conseguente conquista di numerose fortezze. Resa di Kerak, Safad e Kawkab [novembre]. 1189 Presa di Shawbak [aprile]. I Franchi iniziano l’assedio ad Acri [29 agosto]. 1191 Riccardo I [al-Anktar] re d’Inghilterra giunge in Terra Santa e muove verso Acri [giugno] che si arrende ai Franchi [12 luglio]. Sconfitta di Salah al-Din ad Arsuf. Distruzione di Ascalona da parte delle forze musulmane [settembre]. 1192 Il trattato di Ramla sancisce la tregua tra i Franchi e Salah al-Din [settembre]. Riccardo I lascia la Terrasanta [ottobre]. 1193 Salah al-Din muore a Damasco [4 marzo]. Il regno ayyubide viene ripartito tra i figli e il fratello al-’Adil.

(questo riassunto dei fatti principali è tratto dalla Cronologia compresa negli Apparati del saggio Saladino. Il sovrano cavaliere)

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libri saladino La versione di Ibn Khallikan

Salah al-Din nel Wafayat al-a’yan Ibn Khallikan, al pari dei suoi contemporanei, aveva una grande ammirazione per il sovrano ayyubide e a dimostrarlo vi è il suo profilo biografico che è di gran lunga il piú corposo dell’intera opera. Le biografie riportate nel Wafayat al-a’yan (Dizionario di persone illustri) hanno una lunghezza variabile dalle poche righe sino a numerosi fogli, ma con le sue 28 pagine manoscritte autografe del codice del British Museum (MS607 = Or. 1281, folio. 114-142), la cronaca di Salah al-Din è infatti la piú estesa. Lo stile fluido della cronaca non deve indurre a dubitare del lavoro di ricerca maniacale svolto dall’autore. Oltre alle fonti tradizionali tramandate in forma scritta, Ibn Khallikan infatti consultò documenti di diversissima natura: epistole, atti testamentari, certificati di nascita, alberi genealogici e persino epigrafi su muri e stele funerarie rammentate dall’autore nel corso dei suoi viaggi. Nella biografia di Salah al-Din l’enfasi di tale ricerca è ancora piú evidente rispetto ai profili di altri notabili. L’autore riuscí infatti ad aggiungere degli importanti elementi biografici non riscontrabili altrove, in particolar modo per quanto concerne le origini del gruppo familiare di Salah al-Din. In alto dirham battuto al tempo di Saladino con l’immagine del sultano seduto. 1190-1191. Il dirham era una moneta d’argento diffusa nel Medioevo presso i popoli musulmani, equivalente a 10 o 12 dinar.

«Le preoccupazioni del principe zenjide ebbero però vita breve. Il 23 marzo 1169, a distanza di soli due mesi dalla sua investitura a visir, Shirkuh, noto per il suo insaziabile appetito, morí per un’indigestione al termine di un banchetto dopo aver fatto un bagno caldo». (...) «Tre giorni dopo la morte di Shirkuh, il califfo al-’Adid convocò Salah al-Din per conferirgli la nomina di visir. Tale gesto colse di sorpresa lo stesso Salah al-Din e l’iniziativa sembrerebbe sia stata presa da al-’Adid senza aver consultato Nur al-Din. Il califfo fatimide ave-

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va d’altronde pieni poteri, almeno in teoria, e decise la nomina in piena autonomia cosí come aveva fatto in occasione dell’investitura di Shirkuh. Salah al-Din dapprincipio rifiutò, non sentendosi in grado di poter far fronte alle responsabilità derivanti da quell’incarico, ma le insistenze di suo padre Najm al-Din lo convinsero ad accettare. Salah al-Din indossò quindi le vesti cerimoniali di visir ricevute direttamente da al-’Adid che gli conferí anche l’appellativo di al-malik alnasir, “il principe soccorritore”, titolo con cui egli è passato ai posteri e che porterà fino alla morte». Il nuovo visir assunse il titolo che era stato di Shirkuh – al-Malik al-Na-

sir, «il signore vittorioso» – e dette inizio alla costruzione della propria personale leggenda di mujahid (combattente per la guerra santa), fino a diventare il campione dell’ortodossia sunnita. Parallelamente, si dedicò alla gestione del Paese e nel volume non mancano importanti notazioni sul suo operato politico e amministrativo. «In ambito amministrativo, Salah al-Din cercò di affidare gli incarichi di rilievo a musulmani. Fino a quel momento, i ruoli chiave dell’apparato burocratico erano riservati a cristiani copti e a ebrei la cui provata esperienza risultava però indispensabile nella gestione della complicata struttura amministrativa dello stato egiziano. Con ottobre

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Miniatiura raffigurante Saladino e i prigionieri cristiani, da un codice del Roman de Godefroi de Bouillon di Guglielmo di Tiro illustrato dal Maestro di Fauvel. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

accortezza Salah al-Din si convinse però che un cambio repentino e radicale delle figure chiave avrebbe potuto comportare enormi difficoltà nella gestione dello stato. Soltanto nel 1172, dopo la caduta del califfato fatimide, egli decise la rimozione di tutti i non musulmani dalle loro cariche, sebbene tale misura non trovò mai completa applicazione nella consapevolezza di non compromettere l’efficacia amministrativa garantita dalla perizia degli ufficiali copti ed ebrei». Un passaggio altrettanto cruciale coincide con la morte di Nur al-Din. Il potere acquisito grazie al controllo dell’Egitto e poi della Siria aveva reso sempre piú tesi i rapporti fra Sala-

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dino e l’emiro zenjide, al punto che quest’ultimo aveva anche ipotizzato di organizzare una spedizione in terra egiziana. Saladino, aveva reagito inviando il fratello Turanshah alla conquista dello Yemen, per garantirsi una via di fuga nel caso di un’invasione, ma la scomparsa improvvisa dell’ormai nemico Nur al-Din aveva di fatto risolto la questione.

Uno scontro inevitabile

Negli anni successivi, costante è anche il confronto con le forze occidentali presenti in Terra Santa: una situazione di belligeranza latente, solo parzialmente attenuata da accordi di tregua come quello raggiunto all’indomani della morte di Baldovino IV.

In questo quadro, spiccano, naturalmente gli episodi della battaglia combattuta ai Corni di Hattin, presso il lago di Tiberiade, nel 1187, e la successiva riconquista di Gerusalemme. La battaglia si tradusse in un trionfo per Saladino e un’efficace cronaca di quanto avvenuto – già citata in apertura – ci è giunta dallo storico Ibn al-Athir, piú volte citato da Celestre e che fu anche una delle fonti principali di Ibn Khallikan. Il tracollo si trasformò nel prologo della caduta della Città Santa. «La conquista di Gerusalemme, al-Quds per i musulmani, si prefigurava essere un’impresa piú agevole, nonostante la capitale del regno franco fosse munita anch’essa

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libri saladino di solide mura. La disfatta di Hattin l’aveva infatti privata di forze e uomini sufficienti alla difesa e quanti riuscirono a sfuggire al massacro trovarono riparo in gran parte nella fortificata città di Tiro». (...) «La città offrí quindi la resa e il 2 ottobre 1187 venne siglato un accordo che garantiva la libertà a ogni uomo a fronte del pagamento di un riscatto valutato dieci dinari,

cinque per ogni donna e un dinaro per ogni bambino. A quanti riuscirono a pagare il riscatto fu concesso di lasciare incolumi la città portando con sé soltanto i beni di prima necessità lasciando però le proprie armi e i cavalli. Coloro che non riuscirono a pagare il riscatto vennero fatti prigionieri, sebbene Salah alDin garantí la libertà a molti di essi. Ai cristiani delle chiese orientali venne concesso di rimanere pacificamente in città. A differenza di quanto avvenne nel 1099 quando

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le forze cristiane, dopo la conquista della Città Santa, si abbandonarono al massacro indistinto dei suoi abitanti, Salah al-Din non consentí alcun spargimento di sangue. Il volto di Gerusalemme cambiò. Le chiese vennero riconvertite in moschee, alcune divennero scuole coraniche, eccezion fatta per la Basilica del Santo Sepolcro di cui venne rispettata la santità del luogo. Tutte le iscrizioni e le opere che rimandavano al culto cristiano furono rimosse. La moschea di al-

In basso Damasco. Monumento equestre in bronzo in onore di Saladino, inaugurato nel 1993, nell’ottavo centenario della morte del condottiero ayyubide.

Aqsà, dove i Templari vi avevano stabilito il loro quartiere generale, riacquisí la sua sacralità. La Cupola della Roccia, trasformata dopo la conquista del 1099 in luogo di culto cristiano, ritornò all’Islam e la mezzaluna che domina tutt’oggi la sua cupola dorata sostituí la croce che venne rimossa».

parteciparono, fra gli altri, Riccardo I d’Inghilterra (il futuro Cuor di Leone) e Federico Barbarossa. «Papa Urbano III, già malato, morí poco dopo aver saputo della disfatta delle armate cristiane a Hattin e la cattura della Vera Croce caduta in mano infedele. La notizia della caduta di Gerusalemme non era ancora giunta in Europa che il successore al soglio pontificio Gregorio VIII indisse una nuova crociata, infervorando non poco gli animi con l’encicli-

Appello alla riscossa

L’impresa non poteva non avere conseguenze e infatti venne indetta una nuova crociata, la terza, alla quale

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Da leggere Roberto Celestre, Saladino. Il sovrano cavaliere, Graphe.it Edizioni, Perugia 2024

L’interno del mausoleo di Saladino, a Damasco.

ca Audita tremendi che in pratica bandiva una nuova spedizione in Terrasanta assicurando l’indulgenza plenaria e la protezione da parte della Chiesa di Roma dei beni di quanti avrebbero preso la croce. L’appello di Gregorio VIII, deceduto poco la promulgazione della bolla papale, venne ripreso dal suo successore Clemente III che invitò i regnanti d’Europa a impegnarsi concretamente in armi contro Salah al-Din per riscattare i Luoghi Santi».

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L’esito della spedizione andò ben al di sotto delle aspettative cristiane, con successi su entrambi i fronti e un accordo di pace siglato a Ramla nel 1192. Furono, quelle, le ultime prove affrontate da Saladino, perché, rientrato a Damasco nel novembre del 1192, di lí a poco si ammalò e morí. «Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio iniziò l’agonia di Salah al-Din, descritta e documentata con le parole tramandate dallo stesso Ibn Shaddad e riportate da Ibn Khallikan. Quella notte ven-

ne colpito da febbre alta (...) Tra il sesto e l’ottavo giorno di malattia, le sue condizioni peggiorarono sensibilmente fino a che non cadde in stato di incoscienza. Il suo stato di salute peggiorò sensibilmente e rapidamente e i suoi medici compresero che non c’era piú molto da fare». (...) l’agonia di Salah al-Din volgeva al termine, dopo un breve periodo in cui riprese conoscenza. All’alba del 4 marzo 1193, subito dopo la preghiera del mattino, spirò». F

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protagonisti gian galeazzo visconti Abile stratega, signore volitivo e determinato, illuminato mecenate delle arti e delle lettere: sono questi alcuni dei tratti distintivi di Gian Galeazzo Visconti. Ai quali si unisce, ripercorrendo la sua vicenda umana e soprattutto politica, un insospettato anelito all’unità nazionale, pur sotto il ferreo controllo della signoria milanese

Un duca per l’Italia di Tommaso Indelli

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P P

rotagonista della storia dell’Italia medievale, Gian Galeazzo Visconti si pose l’obiettivo di assoggettare a Milano gran parte della Penisola, al fine di ripristinarne l’unità, venuta meno con la fine dell’impero romano d’Occidente, nel 476 d.C. Tuttavia, la sua figura non può essere adeguatamente compresa se non viene inserita nel piú ampio contesto dell’«età delle signorie» (vedi box alle pp. 38-41). La stirpe nobiliare da cui Gian Galeazzo discendeva aveva origini prestigiose e, molto probabilmente, il cognome Visconti aveva un’origine funzionariale: risaliva, cioè, all’epoca in cui la famiglia aveva rivestito l’ufficio di «visconte» (X secolo). Agli inizi dell’XI secolo, trasferitisi a Milano dalla località di Mariano, di cui erano originari, i Visconti entrarono a far parte della corte dei vassalli del vescovo – militia sancti Ambrosii – e, al servizio della diocesi, esercitarono molte incombenze amministrative. Alla fine del secolo, con la nascita del comune (1097 circa), i Visconti entrarono nell’agone politico e fecero parte del ceto dirigente cittadino, rivestendo importanti magistrature e manifestando una simpatia per l’impero germanico che li portò, molto presto, a militare nel fronte ghibellino e ad assumere la guida di una vasta coalizione nota come Lega della Motta.

Inizia un lungo dominio

Nel 1277, con la battaglia di Desio, Ottone Visconti († 1295) – che, dal 1262, era anche vescovo di Milano – sconfisse la Credenza di Sant’Ambrogio – fazione avversaria di simpatie guelfe, guidata dalla famiglia dei della Torre – e s’insignorí della città, dando inizio al lungo dominio visconteo. A Ottone successe il pronipote, Matteo († 1322), il quale, nel 1294, grazie ai buoni uffici dello zio, ottenne la concessione del titolo di vicario imperiale dall’imperatore germanico Adolfo di Nassau (1291-1298). Cosí la posizione costituzionale dei Visconti all’interno della compagine cittadina si perfezionò e la stirpe – oltre al titolo di vicario imperiale – monopolizzò anche le principali funzioni pubbliche del comune milanese, ossia l’ufficio di podestà e quello di capitano del popolo. Nel 1354, morto il signore Giovanni Visconti

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Nella pagina accanto placca in bronzo con il profilo di Gian Galeazzo Visconti, attribuita a un artista di ambito milanese. XV sec. Washington, National Gallery of Art. In basso stemma visconteo con il biscione che divora un bambino, affresco nel portico del cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco di Milano. Di sfondo la «raza viscontea», il sole splendente, impresa di Gian Galeazzo, primo duca di Milano, che, come il sole, fu fonte di vita per i suoi sudditi.

(1339-1354), gli successero i nipoti Matteo II, Galeazzo II e Bernabò, figli del fratello Stefano († 1327). La scomparsa improvvisa di Matteo, nel 1355, lasciò agli altri due fratelli il compito di spartirsi i domini e il titolo vicariale: Bernabò ottenne Milano e i domini orientali, mentre il fratello Galeazzo II si stabilí a Pavia, con autorità sui domini occidentali. Alla morte di Galeazzo II, nel 1378, Bernabò ereditò tutti i domini di famiglia, ma, nel 1385, venne esautorato dal nipote Gian Galeazzo e, rinchiuso nel castello di Trezzo, fu poi avvelenato. Nato a Pavia nel 1351, Gian Galeazzo era figlio di Galeazzo II e di Bianca di Savoia († 1387), sorella del conte di Savoia Amedeo VI (1343-1383), uno dei piú valenti condottieri del tempo. Esautorato e soppresso lo zio, Gian Galeazzo ereditò il titolo vicariale e riuní nelle sue mani tutti i domini viscontei. Nel 1372, rimasto vedovo della prima moglie, Isabella di Valois, figlia del re di Francia Giovanni II il Buono (1350-1364), sposò la cugina, Caterina Visconti († 1404), figlia di Bernabò.

Alleanze matrimoniali

Al fine di consolidare i rapporti diplomatici con la Francia, Gian Galeazzo decise di dare in sposa la figlia avuta con Isabella, Valentina († 1408), a Luigi († 1407), duca di Orléans, fratello del re Carlo VI di Valois (1380-1422) e reggente del regno. Valentina portò in dote al marito la contea d’Asti e quella di Vertus – o «Virtú» – nella Champagne, che Isabella di Valois aveva già portato in dote a Gian Galeazzo. Ormai saldamente insediato nella signoria, Gian Galeazzo avviò subito una politica espansionistica che, nel giro di pochi anni, rese Milano la città piú potente

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protagonisti gian galeazzo visconti Sulle due pagine particolare del ciclo di affreschi di un anonimo pittore, convenzionalmente designato come Maestro di Angera. Fine del XIII sec. Angera (Varese), Rocca, Sala di Giustizia. A destra, Ottone Visconti e i suoi soldati; nella pagina accanto, Ottone Visconti rientra a Milano, accolto dal popolo attraverso le sue rappresentanze religiose e politiche.

della Penisola. Infatti, nel corso di un decennio, sottomettendo città e altre piccole signorie, Gian Galeazzo aggregò a Milano un territorio immenso, che andava dal Piemonte orientale al Veneto, oltrepassando gli Appennini e raggiungendo l’Emilia, la Toscana e l’Umbria. Riuní i migliori condottieri dell’epoca sotto il suo comando: Jacopo dal Verme († 1409), Facino Cane († 1418), Ottobono Terzi († 1409) e Cabrino Fondulo († 1425) militarono ai suoi ordini. Nel 1387, Gian Galeazzo attaccò Verona, ne cacciò l’ultimo signore scaligero – Antonio (1381-1387) – e si impossessò della Marca veronese: Treviso, Vicenza, Padova, Feltre, Belluno e Verona stessa caddero in suo potere. Sentendosi minacciata, Venezia reagí formando una vasta lega comprendente molte città padane, Firenze, gli Estensi di Ferrara, i duchi di Savoia, i marchesi del Monferrato, e persino il re di Francia, Carlo VI. Benché affidate al comando di abili condottieri

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come l’inglese Giovanni Acuto († 1394) e il francese Giacomo († 1391), conte d’Armagnac, le milizie della lega furono sconfitte, nel 1391, ad Alessandria e, da quel momento, nulla poté arrestare Gian Galeazzo.

L’incoronazione solenne

Nel 1395, il signore di Milano, dietro corresponsione di 100 000 fiorini, si vide riconosciuti dall’imperatore germanico Venceslao IV di Lussemburgo (1378-1400) il titolo di duca di Milano e Lombardia e il diritto di designare un successore, secondo la linea di discendenza genealogica legittima. L’incoronazione ducale si tenne in S. Ambrogio, alla presenza dell’arcivescovo, quasi si trattasse di un’incoronazione reale. Infatti, per quanto sprovvisto del titolo regio, Gian Galeazzo – a detta delle cronache dell’epoca – ambí sempre a essere incoronato «re» della vasta compagine territoriale che andava forgiando col suo genio e col suo esercito. ottobre

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I Visc

Tra il 1396 e il 1399, il duca fomentò in Piemonte una vera e propria guerriglia contro i Savoia e il marchese del Monferrato e, nel 1400, iniziò una controffensiva che gli consentí di occupare Pisa, Porto Pisano, Livorno e Siena, minacciando Firenze. Pisa fu ceduta al Visconti dal suo signore, Gherardo d’Appiano († 1405), per 200 000 fiorini. Nel 1400, il duca di Milano occupò anche Bologna, Perugia e Assisi e, nel 1401, sotto le mura di Brescia, inflisse una dura sconfitta al nuovo imperatore Roberto del Palatinato (1400-1410), il quale, mutando la politica del suo predecessore Venceslao IV, era sceso in Italia per arginare l’espansionismo di Milano. Nel 1402, dopo aver riportato a Casalecchio un’altra vittoria su Bologna e Firenze, Gian Galeazzo morí a Melegnano, probabilmente a causa della peste. Secondo le sue ultime volontà, i domini conquistati vennero spartiti tra i figli, sottoposti, per breve tempo, alla reggenza della madre Caterina: Filippo Maria e Giovanni Maria – che poi fece avvelenare la madre – si divisero

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onti

L’albero genealogico dei Visconti: il dominio della casata su Milano ha inizio con Ottone (1207-1295), ma le prime testimonianze della famiglia risalgono all’Xl sec. La signoria raggiunse il massimo splendore con Gian Galeazzo, creato duca nel 1395.

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l’intero dominio tranne Pisa e la Toscana viscontea, assegnate a Gabriele Maria, figlio naturale – poi legittimato – del duca e dell’amante Agnese Mantegazza, appartenente a una nobile famiglia milanese. Morto Gian Galeazzo, il titolo ducale andò a Giovanni Maria – che si stabilí a Milano – mentre Filippo Maria fu nominato conte di Pavia. Dopo la morte dei fratelli Gabriele, nel 1408, e Giovanni, nel 1412, entrambi assassinati – Filippo Maria (1412-1447) assunse il titolo ducale e tentò di ricostruire il dominio paterno, che, nel frattempo, era andato in frantumi, perché città e signorie minori avevano riconquistato l’indipendenza. Il disegno politico di Filippo Maria, però, naufragò miseramente, a causa dell’opposizione di Firenze e Venezia, ancora una volta alleate contro i Visconti.

L’amministrazione dello Stato

I successi militari di Gian Galeazzo non dipesero solo dal suo genio, ma anche dalla crisi delle massime potestà universali dell’epoca – impero e papato – e dal (segue a p. 42)

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protagonisti gian galeazzo visconti La signoria

Genesi e natura di un fenomeno politico La nascita e l’affermazione delle signorie nell’Italia medievale (XIII-XV secolo) sono tuttora al centro del dibattito storiografico, se non altro perché, proprio con l’avvento di tali regimi, i comuni della Penisola incrementarono il processo, già avviato da tempo, di consolidamento burocratico e di espansione militare e territoriale al di là del perimetro murario, in direzione del contado. E non solo. Oltrepassando i confini del contado, i comuni inglobarono il territorio di altre città, favorendo la formazione degli «Stati territoriali» o «regionali», compagini politiche sovracittadine che semplificarono l’assetto geopolitico dell’Italia tra il XIV e il XV secolo. Non tutte le signorie furono però coinvolte in tale processo, perché alcune di esse, come gli Scotti di Piacenza, i Guinigi di Lucca, i Petrucci di Siena – solo per fare qualche esempio – limitarono il loro potere alla città d’origine e al suo immediato contado. L’affermazione di un potere assoluto e autocratico, all’interno dei contesti urbani italiani, fu comunque l’esito naturale di una condizione di conflittualità politica endemica sia tra i comuni stessi, sia all’interno della vita politica cittadina. Non a caso, già prima dell’affermazione delle signorie, le città italiane fecero ricorso a istituti monocratici di diversa tipologia, per contenere il fenomeno della violenza politica tra fazioni contrapposte, come i ben noti guelfi e ghibellini o i magnati e i popolari. Si pensi agli uffici amministrativi del «podestà» e del «capitano del popolo», istituiti in moltissime città tra il XII e il XIII secolo, e affidati generalmente a forestieri, proprio per garantire una maggiore imparzialità nell’adempimento dei compiti istituzionali che implicavano competenze militari, esecutive e

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Bellinzona 1342

Ossola 1331

Como 1335

Novara 1332

MILANO

Torino

Asti

Alessandria 1347

Pavia 1359

Lodi

Belluno

1388

Feltre

Bergamo 1332

Treviso

1387

1337

Verona

Cremona

1335

Vicenza

Brescia

1335

Piacenza Tortona

Trento

1388

Crema

Vercelli 1334

Valtellina 1335

1383

VENEZIA

Padova

1388-1390

1334

Reggio

1336

1347

Parma

Genova

Pontremoli 1333

Ferrara

1371

1346

Modena Ravenna

Bologna

1350-55 1402

1353-56 1421-35

Città di San Marino

Pisa

Lucca

1399

Firenze

Livorno

Arezzo Perugia

Siena

1402

1399

giurisdizionali. Il fallimento di questi esperimenti costituzionali indusse i ceti dirigenti a delegare i pieni poteri, prima distribuiti tra organi diversi – non solo monocratici ma anche assembleari e rappresentativi – a un princeps o senior, ossia a un «signore» – vero e proprio sovrano – titolare della suprema potestà di governo. In genere, il senior apparteneva a facoltose famiglie cittadine o rurali poi inurbatesi, di estrazione borghese o, molto piú spesso, aristocratico-feudale, ma da tempo inserite nella vita politica ed economica comunale, dove avevano avuto modo di costituire vaste clientele ed enormi ricchezze. Salvo rare eccezioni, la nascita dei primi regimi signorili risale alla metà del XIII secolo, attraverso una

Assisi 1402

In alto cartina che mostra la massima estensione dei domini viscontei alla morte del duca Gian Galeazzo nel 1402. Nella pagina accanto l’incoronazione di Gian Galeazzo Visconti nel Messale di Sant’Ambrogio (o dell’Incoronazione), decorato da Anovelo da lmbonate. 1395. Milano, basilica di S. Ambrogio, Biblioteca Capitolare.

procedura consolidata, consistente nel conferimento della carica di podestà o di capitano del popolo, o di entrambe, per lungo tempo o a titolo vitalizio, a una persona di efficace capacità nell’esercizio del potere. Il conferimento della carica avveniva a opera dei tradizionali organi di governo del comune, in genere i consigli (segue a p. 40) ottobre

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protagonisti gian galeazzo visconti

ristretti – consigli di credenza o degli anziani – o l’arengo, cioè l’assemblea cittadina. Non era raro il caso in cui tale conferimento di cariche e poteri rappresentasse l’esito naturale di un precedente colpo di Stato, ordito dal signore e dai suoi partigiani a danno delle istituzioni cittadine. Il cumulo vitalizio di tante funzioni in capo a un solo individuo, in alcuni casi investito anche del diritto di trasmetterle ai discendenti, condusse all’instaurazione di regimi politici dichiaratamente autoritari e monarchici, per quanto la forma istituzionale del comune fosse apparentemente rispettata. Instaurata la signoria, la designazione dei principali ufficiali cittadini divenne prerogativa esclusiva del signore che procedeva alla nomina direttamente oppure, indirettamente, attraverso «raccomandazioni» rivolte agli organi competenti. Oltre a costituire vere e proprie dinastie, i signori mirarono a consolidare la loro posizione istituzionale con la concessione –

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spesso lautamente pagata – di titoli onorifici – vicario, duca, marchese, conte – rilasciata dalle supreme e universali autorità politiche dell’Europa medievale, cioè l’impero germanico e il papato. Fu cosí definitivamente esautorata la forma di governo comunale e presero vita veri e propri principati, ossia domini politici di vaste dimensioni territoriali che ricalcavano, in parte, le circoscrizioni dell’epoca carolingia e che sancirono la definitiva trasformazione dei cittadini in sudditi. Il potere signorile rimase, almeno teoricamente, subordinato alla legge e al vincolo del perseguimento del bene pubblico, al fine di evitare di essere giudicato tirannico e rischiare l’esautorazione, anche se la storia ha offerto numerosi esempi contrari. L’espansione delle città italiane oltre le mura cittadine e il contado, da esse dipendenti, portò, ben presto, alla creazione dei cosiddetti «Stati regionali» – saldamente guidati da un princeps – e, quindi, alla formazione di compagini

In alto pianta di Milano tratta dal Civitates orbis terrarum di Franz Hogenberg e Georg Braun. 1572-1616. Sulle due pagine la facciata del duomo di Milano, dedicato a santa Maria Nascente. Voluto nel XIV sec. da Gian Galeazzo Visconti, il monumento testimonia la grandezza della città nel Medioevo, capitale di un potente ducato.

statali territorialmente molto vaste e con strutture burocraticoamministrative sempre piú complesse, in grado di superare il conflittuale particolarismo cittadino che aveva fino ad allora caratterizzato la geografia ottobre

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politica dell’Italia settentrionale. Inoltre, la formazione di tali compagini, favorendo l’amalgama, intorno alla figura del sovrano, di gruppi umani e sociali che, fino lí, si erano considerati reciprocamente «estranei» o avevano

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avuto relazioni conflittuali, contribuí al sorgere – tra signore e sudditi – di rapporti di fedeltà e obbedienza cementati non solo dal formalismo giuridico di stampo feudale, ma anche da un sentimento collettivo

«proto-nazionale», basato, cioè, sulla condivisione di elementi politici e culturali comuni a tutti gli abitanti di un determinato territorio che, pertanto, si consideravano appartenenti a una medesima «patria».

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protagonisti gian galeazzo visconti A sinistra e in basso, sulle due pagine immagini del Castello Visconteo di Pavia, costruito per volontà di Galeazzo II Visconti tra il 1360 e il 1365.

marasma politico in cui versava la Penisola: a nord, infatti, il particolarismo cittadino e signorile la faceva da padrone, mentre, a sud, la monarchia napoletana era dilaniata dalla guerra civile tra i due pretendenti al trono, Luigi II d’Angiò († 1417) e Ladislao I d’Angiò († 1414). Al centro, lo Stato pontificio – reduce dalla fallimentare esperienza politica di Cola di Rienzo († 1354) – versava nel caos, data la presenza di ben due papi – uno residente ad Avignone, l’altro a Roma –, protagonisti del Grande Scisma d’Occidente (1378-1417).

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Gian Galeazzo fece di Milano un’autentica potenza europea anche grazie a una scaltra politica diplomatica. Le sue conquiste portarono alla costituzione del primo grande Stato regionale della Penisola e il duca ebbe modo di sperimentare le prime forme organizzative della vasta compagine, poi sostanzialmente duplicate, negli anni successivi, anche in altri contesti, salvo particolarità locali. Lo Stato visconteo era fondato su una capitale, Milano, sede ufficiale della signoria e degli uffici di governo centrale – Cancelleria, Consiglio di Stato, Consiglio di Giustizia – da cui si diramavano ordini diretti alla periferia, alle città – e ai corrispondenti contadi – inglobati nelle conquiste viscontee. Le strutture amministrative delle città sottomesse furono sostanzialmente conservate con alcune particolarità: fatta salva l’assoluta potestà del signore, le amministrazioni locali preesistenti rinunciarono a una politica estera autonoma e furono sottoposte sotto ogni aspetto normativo, amministrativo e giudiziario

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In alto la Certosa di Pavia, che sorse per volere di Gian Galeazzo Visconti come cappella di famiglia, collegata al castello tramite il Parco Visconteo. La costruzione iniziò il 27 agosto 1396 e fu il duca stesso a porre la prima pietra.

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al controllo di capitani generali o podestà nominati dal signore e che fungevano da cinghia di trasmissione tra centro e periferia. Gli statuti normativi della città capitale prevalsero su quelli delle città dominate e ciò significò che, a livello periferico, non fu piú possibile una legislazione contrastante con essi, e una parte del reddito fiscale delle città sottomesse confluí nel fisco della città dominante.

Il controllo sulla Chiesa

Gian Galeazzo, inoltre, subordinò le strutture ecclesiastiche, presenti nei suoi domini, alla sua volontà, rendendole funzionali alla sua politica, imponendo il placet ducale per ogni nomina ecclesiastica e conseguente assegnazione di benefici, limitando i privilegi fiscali e giudiziari del clero e confiscando una parte dei beni della Chiesa. Inoltre, evitò sempre di prendere una posizione netta a favore di uno dei due pontefici che, durante il Grande Scisma, si contendevano il trono di Pietro. Questa politica, però, non gli impedí di promuovere superbe opere artistiche in campo religioso, come l’edificazione del nuovo duomo di Milano, delle chiese del Carmine – a Milano e a Pavia – e della Certosa di Pavia, destinata a mausoleo dinastico.

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la politica culturale

Gian Galeazzo, patriota inconsapevole Gian Galeazzo Visconti fu un instancabile patrocinatore di iniziative culturali, come dimostra l’attenzione per lo Studium di Pavia fondato, nel 1361, da suo padre Galeazzo II. Il duca richiese a papa Bonifacio IX (1389-1404) il pieno riconoscimento giuridico dell’ateneo e il papa, con apposita bolla, glielo accordò. Il Visconti fu molto attivo anche nella promozione di una vasta produzione letteraria, in latino e in volgare, di taglio giuridico, politico ed encomiastico, il cui studio è indispensabile per comprendere gli obiettivi della sua politica di conquista. Dall’analisi dei testi – e senza apparire anacronistici – si può affermare che Gian Galeazzo, col suo carisma, riuscí – già alla fine del Trecento e dopo secoli di dominazioni straniere – a far riemergere un carsico sentimento d’«unità nazionale» che appare, oggi, a dir poco straordinario. Dando una scorsa alla letteratura summenzionata, invece, emerge come l’idea e il sentimento di una «patria» italiana, cioè dell’esistenza di una «nazione» forgiata dalle armi e dal diritto di Roma, continuò a sopravvivere anche nel Medioevo, nonostante il crollo dell’impero romano e le invasioni barbariche. Ne consegue che anche se il collasso di Roma aveva determinato la perdita dell’unità della Penisola, l’idea di una «nazione

italiana» non andò smarrita del tutto, ma rimase patrimonio delle élite delle città, dei principati e degli Stati in cui, nel frattempo, l’Italia si era divisa. Ciò è evidente anche dal trattato storico-giuridico De iure monarchiae, composto dal vescovo di Pavia Guglielmo Centueri († 1402), su commissione del Visconti, in cui, ripercorrendo a ritroso la storia della Penisola – e rinvenendone l’unità all’epoca di Roma – si legittimava l’aspirazione del duca a essere riconosciuto come rex Italiae. Argomentazioni analoghe affioravano nell’opera di un altro intellettuale attivo alla corte viscontea, il vicentino Antonio Loschi († 1441), che fu anche cancelliere del ducato. Autore del dramma classico Achilles e di un Commento alle orazioni di Cicerone, Loschi fu uno dei primi umanisti e un attento studioso dell’antichità romana. Il cancelliere elaborò il «manifesto politico» delle conquiste viscontee nel carme celebrativo Imperiose comes, secli nova gloria nostri – dedicato a Gian Galeazzo –, ma, soprattutto, nello scritto Invectiva in Florentinos, in cui si scagliò contro i Fiorentini, principali avversari di Milano, accusandoli di

La dissoluzione dell’immenso dominio visconteo era probabilmente nella natura delle cose e forse imputabile proprio a Gian Galeazzo, il quale, decidendo di dividere i domini tra i figli, fece prevalere le logiche dinastiche – e «feudali» – su quelle politiche. Ciononostante, la grandezza del duca è indubbia. Benché la sua opera politica fosse andata in pezzi pochi anni dopo la sua morte, Gian Galeazzo sembrò, sul momento, superare il particolarismo conflittuale delle città e dei domini signorili in cui era divisa la Penisola, integran-

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fomentare la discordia nella Penisola alleandosi con genti «barbare» – nel caso specifico il re di Francia – e con tiranni – gli Estensi – pur di contrastare i progetti «nazionali» viscontei. Allo scritto di Loschi, rispose il cancelliere della repubblica di Firenze, Coluccio Salutati († 1406), con l’Invectiva in Antonium Luschum Vicentinum, in cui ribaltava le accuse contro i Milanesi. Entrambi gli intellettuali, nei loro scritti, per sostenere le proprie argomentazioni, si richiamavano all’antica Roma, cui attribuivano, non a torto, la «prima» unificazione della Penisola: ma mentre Salutati si richiamava alla Roma repubblicana, Loschi prendeva a modello quella imperiale!

doli in una compagine statale piú ampia, sottoposta alla sua autorità e cementata non solo da un apparato amministrativo capillare, dalla coazione e dalla fedeltà dovuta dai sudditi al proprio signore, ma anche da un sentimento collettivo «nazionale» o «proto-nazionale» che, benché ancora poco chiaro, certamente permeava l’élite del ducato. Come spiegare altrimenti i continui riferimenti all’«Italia» e all’«unità italiana» che campeggiavano sugli stendardi delle milizie ducali o facevano capoliottobre

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Il Castello Sforzesco di Milano, costruito da Galeazzo II Visconti tra il 1360 e il 1370 e ampliato da Gian Galeazzo nel 1392. Nella pagina accanto il ritratto di Gian Galeazzo Visconti inserito, in un tondo raggiato, in una pagina del Libro d’Ore noto anche come Offiziolo Visconti, decorato da pregevoli miniature lombarde, eseguite da mani diverse tra il 1370 e il 1399. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

no nella letteratura di corte? Come spiegare altrimenti il fatto che il duca si servisse esclusivamente di condottieri italiani e che la sua propaganda insistesse, con toni martellanti, sulla contrapposizione tra gli «Italiani» e i «Barbari»? Questi ultimi altri non erano che i Francesi e i Tedeschi, la cui ingerenza secolare nella Penisola Gian Galeazzo voleva annientare.

«Re nostro sacrosanto»

Solo il sorgere e il progressivo rinascere e affermarsi di un sentimento «nazionale» fino ad allora assopito – dopo secoli di oppressione straniera e divisioni intestine – può spiegare perché Gian Galeazzo fosse appellato, dagli intellettuali al suo servizio, come «re nostro sacrosanto», «Cesare novello», «sposo d’Italia», «inviato da Dio» per dare unità e pace all’«italica gente» (vedi box a p. 44). E non si trattava certamente di puri esercizi letterari o formule di stile! L’obiettivo del duca fu, molto probabilmente, quello di creare un vero e proprio «Regno italico», indipendente da ingerenze d’Oltralpe e a capo del quale vi fosse un sovrano veramente «autoctono» e non piú «francese» o «tedesco». Vale anche la pena ricordare che l’avversione del duca verso i «Barbari» non gli impedí di instaurare relazioni diplomatiche con la Francia e l’impero, ogniqualvolta ve ne fosse la necessità e in nome del piú schietto realismo politico! D’altronde, lo stesso titolo di

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Da leggere Guido Cappelli, L’Umanesimo italiano da Petrarca a Valla, Carocci editore, Roma 2010 Giorgio Falco, La polemica sul Medioevo, Guida Editori, Napoli 1974 Francesco Somaini, Geografie politiche italiane. Tra Medioevo e Rinascimento, Officina Libraria, Milano 2012 Nino Valeri, L’eredità di Giangaleazzo Visconti, Società Poligrafica Editrice, Torino 1938

duca, fatto proprio da Gian Galeazzo, nel 1395, derivò da una specifica investitura da parte dell’imperatore e determinò, sul piano costituzionale, l’inserimento del ducato di Milano nella compagine dell’impero. Allo stesso modo, nel 1396, Gian Galeazzo non esitò a cedere Genova alla Francia, pur di rendere piú sicuri i confini occidentali del ducato di Milano. È quindi condivisibile il giudizio che il medievista Giorgio Falco († 1966) ebbe modo di esprimere sulla «signoria» – come regime politico – e su Gian Galeazzo Visconti come legislatore e condottiero. Per l’insigne studioso, entrambi furono in grado di produrre, sul piano storico, due importantissimi risultati: la creazione di solide compagini statali, nell’immediato, e, in prospettiva, la creazione di una nazione finalmente unita.

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il novelliere di giovanni sercambi/7

Nese, o della passione

fatale di Corrado Occhipinti Confalonieri

La piacente moglie di un conciatore pisano suscita gli appetiti di tre frati per i quali il precetto della castità non rappresenta, evidentemente, un ostacolo. La donna, però, non ha alcuna intenzione di cedere alle avances dei religiosi e decide di punire il terzetto, organizzando un ben orchestrato tranello. La trappola scatta inesorabile e Sercambi confeziona un finale di partita a dir poco macabro San Nicola da Tolentino, tempera su tavola attribuita a un artista di ambito pisano. Seconda metà del XIV sec. Bari, basilica di S. Nicola. Il dipinto raffigura il santo che afferra i dardi scagliati dal demone della pestilenza contro Pisa: la città è identificabile, tra l’altro, dal Duomo, dal Battistero, dalla Torre pendente e dall’Arno. Nella pagina accanto un conciapelli pulisce la pelle dalla quale otterrà una pergamena, particolare degli affreschi realizzati tra il 1425 e il 1440 da Niccolò Miretto e Stefano da Ferrara nel Palazzo della Ragione di Padova, in sostituzione del ciclo originale eseguito da Giotto, distrutto da un incendio il 2 febbraio 1420.

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el Novelliere, la brigata dei Lucchesi benestanti è fuggita dalla peste e viaggia lungo la penisola italiana, agli ordini di un unico preposto, eletto all’unanimità. Durante le soste di questo incessante peregrinare, il narratore (lo stesso Sercambi) racconta una o piú novelle; strumentisti e danzatori allietano le soste anche con la lettura di brani poetici; oltre a celebrare messa, i religiosi dispensano consigli morali, anche sotto forma di canzoni dal fine didattico. In alcune novelle dedicate al clero, Sercambi fa da contraltare alle prediche di questi religiosi per mostrare come, in realtà, il «secondo Stato» sia lo specchio di quel mondo corrotto che ha causato la punizione divina del pestifero morbo. A Pisa (novella XI), nella contrada di San Nicolò, vive Ranieri «pellaio e cartaio, lo quale avea una sua donna bellissima e onesta nomata madonna Nese, la quale divotissimamente andava ogni die in san Nicolò a udire la parola di

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Dio». Nel Medioevo le pelli sottili degli animali come gli agnelli e le capre venivano conciate e utilizzate come pergamena: ecco perché Ranieri è sia pellaio che cartaio.

Onesta e bella

Un giorno «essendo venuti alquanti frati dell’ordine in nella ditta chieza fra’ quali fu un frate Zelone da Pistoia e uno frate Anastagio da Firense, vedendo la ditta madonna Nese venire alla chieza tanto onesta e bella, disseno a uno giovano frate pisano chiamato Ghirardo assai screduto [miscredente]: “Questa è una bella donna!” Frate Ghirardo dice: “Ella è nostra vicina e moglie di uno Ranieri pellaio”. Frate Zelone disse ch’ella sare’ sufficiente per la sua bellessa a una badia di frati. Frate Ghirardo disse: “Per certo le buone vostre parole me ll’han fatta piú che mai comprendere quanto ella è piacevole”». Sebbene Sercambi non lo specifichi, l’ordine monastico dovrebbe essere quello degli Agostiniani che

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ancora oggi gestisce la chiesa di S. Nicola a Pisa. La peste nera del 1348 colpí duramente la congregazione, causando la morte di oltre cinquemila frati. Al fine di colmare questi vuoti, iniziarono a essere ammessi nell’ordine anche postulanti privi di vocazione, che portarono a un allentamento della Regola, rendendo meno ferreo il precetto della castità. Dopo avere recitato le orazioni, Nese esce di chiesa, «frate Zelone e frate Nastagio si puosero in sulla porta per vedere là u’ la donna entrava, e cognosciuto la casa esser assai vicina de luogo, salvo la piassa in messo, comincioron

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a pensare in che modo la potessero avere. Frate Ghirardo, accorgendosi di frate Zelone e di frate Nastagio che vagheggiavano [desideravano] madonna Nese, disse: “Per certo io sarò il primo che li canti il mattino [il mattutino] in sul corpo [metafora sessuale perché il mattutino era la prima preghiera della giornata]”; e pensò la mattina rivenente dirle suo volere sensa farlo ad altri asentire [sentire], guardandosi de’ compagni. Frate Nastagio disse che se lui potea sensa frate Zelone avere l’amore della donna, che li parea esser papa. Frate Zelone, desideroso di giungersi colla donna a nude carni, pensò di volere solo in chieza sempre ottobre

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In alto particolare della facciata della chiesa pisana di S. Nicola. A sinistra miniatura raffigurante un monaco impegnato in una predica, da un codice dei Sermons sur la Passion et Traites Divers del teologo e filosofo Jean de Gerson. XV sec. Valenciennes, Biblioteca Municipale.

stare per potere la sua imbasciata fornire con la donna [per potere rivelare il suo intento a Nese]». Nese «non sapendo quello che li tre frati aveano in pensieri, com’era usata se n’andò alla chieza. Frate Ghirardo, ch’era piú pratico della venuta della donna, trovandosi in sulla porta, alla donna disse che volentieri li cantare’ lo mattino in sul corpo e altre dizoneste parole li disse». La donna pensa che quelle parole non siano rivolte a lei, entra in chiesa e si avvicina all’acquasantiera, dove trova frate Nastagio che le dice: «Se io t’avesse, sarei meglio che papa». Nese fa finta di niente, nonostante sia turba-

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ta, si chiede cosa intendano i religiosi con quelle frasi malevole e si avvicina all’altare per le sue consuete preghiere; frate Zelone si mette al suo fianco e «disseli se lui si potea congiungere con lei a nude carni che sare’ contento; e altre parole disoneste le funno ditte». Sotto gli sguardi concupiscenti dei frati, Nese esce di chiesa, se ne torna a casa e «come savia [poiché assennata], niente si mostrò turbata al marito, pensando quello che ditto li era stato fusseno frasche [chiacchiere]».

Una risposta evasiva

In realtà, qualche giorno dopo, le molestie dei religiosi si fanno ancora piú pesanti e la donna decide cosí di non recarsi piú in S. Nicolò. L’indomani, Ranieri si accorge che la moglie ha rinunciato a quella sua abitudine quotidiana e gliene chiede il motivo, ma Nese gli risponde di avere altre faccende da sbrigare. I frati, non vedendo piú la donna, immaginano che sia rimasta offesa dalle loro parole e «pensando che ’l marito non se ne fusse acorto, frate Ghirardo, come noto della casa, con frate Anastagio un giorno dimostrando andare per lo Campo [Campo San Nicolò dove abitava la vittima] a loro piacere, fine a casa di Ranieri andarono, stimando sapere la cagione [ragione] che monna Nese alla chiesa non era venuta». Quando giungono alla conceria di Ranieri, trovano la vituperata parrocchiana pronta a rispondere alle offese ricevute: «Ben vegnate! Quando canterete voi frate Ghirardo, il mattutino? E vui [voi], frate Anastagio, quando sarete papa?». I frati non rispondono alla provocazione, ma dal volto allegro di Nese intendono le battute a modo loro e se ne tornano in chiesa ancora

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il novelliere di giovanni sercambi/7 piú vogliosi. Ranieri, che ha assistito alla scena, si insospettisce: «Nese, che domestichessa è questa che questi frati sono venuti qui, che mai non ci vennero? Per certo qualche domestichessa dèi aver preso con questi frati». Nese risponde: «Marito mio, prima che io voglia che tu meco [con me] vivi in gelozia e in sospetto, io voglio che túe senti prima la cosa da me che da altri» e gli racconta cosí per filo e per segno le proposte oscene dei frati, il vero motivo della sua ritrosia a tornare nel luogo sacro. Ranieri «sentendo tal parole, come persona che amava il suo onore e quello della sua donna», le dice di andare in chiesa la mattina seguente e di invitare i frati domenica sera a casa, mentre lui finge di essere partito per un viaggio di lavoro a Genova per acquistare delle pelli: «E fa che la venuta di tutti sia diseparata [fa che vengano in ore diverse]. E quando la sera saranno tutti insieme dirai quello [che] ti pare; e cenato non dizonestando [senza disonorarti], quelli frati farai spogliare e lavare avendo fatto l’acqua scaldare. E quando senti l’uscio, metteli in nel calcinaio [la buca che serviva per mettere in calcina le pelli]». Nese è d’accordo con il piano del marito: «Ranieri, lassa fare a me». Questo passaggio prova la grande complicità che lega moglie e marito: Nese lavora nella bottega di Ranieri dove ha incontrato i frati e, quando questi si recano sfacciatamente a casa loro, rivela le offese ricevute per non turbare l’armonia familiare, condividendo con lui la vendetta.

In chiesa per gli inviti

Trascorsa la notte e fattosi giorno, Nese si reca in chiesa, frate Ghirardo le ribadisce quello che vuole da lei e la donna risponde: «Frate Ghirardo, io hoe udito la vostra volontà, e di vero io non avendo il modo non v’ho potuto dire quella buona risposta areste voluto. Ma ora che ’l mio marito va sabbato a Genova a comprare coiame [cuoiame] potrete venire domenica ser a cenare meco e aremo tutta nostra intensione [realizzeremmo i nostri desideri] e nol dite a persona». Ghirardo è tutto contento, compera un paio di capponi che tramite un’anziana donna fa pervenire a casa del conciaio. Quando entra in chiesa, Nese dà lo stesso appuntamento a frate Anastagio che le compera

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Nella pagina accanto capolettera miniato raffigurante cinque monaci che cantano, dallo Psalterium Ambianense (Salterio all’uso di Amiens), dall’abbazia di Saint-Martin-aux-Jumeaux. Fine del XIII sec. Amiens, Bibliothèques d’Amiens Métropole. In basso miniatura raffigurante un monaco che esamina la qualità di una pergamena, da un manoscritto tedesco. XIII sec. Copenaghen, Biblioteca Reale di Danimarca.

qualche gioiello; davanti all’altare incontra frate Zelone e ripete la stessa proposta fatta agli altri due. Nese ha ordito la tela «e pensando di tesserla a casa» racconta tutto al marito, che annuncia al vicinato la sua partenza per Genova il giorno seguente. Gli stessi frati, sentita la notizia, pensano: «Io arò mia intensione di quel fresco giglio d’orto». Sabato, il terzetto vede Ranieri, il fratello e il garzone imbarcarsi alla volta della città ligure e quindi è convinto di essere al sicuro. La sera seguente, frate Ghirardo si presenta all’ora stabilita alla casa del conciaio e, in preda alla passione, cerca di baciare Nese che gli dice: «Assai aremo del tempo; andate là e intanto fi [sarà] cotta la vivanda e ceneremo e poi a letto ce ne potremo andare». Il frate «tutto contento» entra in una stanza; poco dopo arriva frate Nastagio che riceve la stessa accoglienza. Passata l’iniziale sorpresa di ritrovarsi entrambi convocati, dicono fra loro: «Noi stiamo bene , ma frate Zelone pur non godrà questo smiraldo [smeraldo] lustrante (...) Ella n’ha che a tutti ne potrà dare». In realtà, all’ora concordata arriva anche frate Zelone: i compagni si lamentano della sua presenza e quest’ultimo è sul punto di andarsene, ma interviene Nese, che ha udito i discorsi: «E’ ce n’ha per tutti, ancora se ci fusse l’abate con tutti i monaci!». Poi, vedendo i frati contenti, la donna aggiunge: «Ell’è ora che ceniamo; la vivanda è cotta, la mensa posta, i bicchieri e ’l vino aparecchiato. E piú vi dico che è bene cenare tosto [alla svelta] però che [ma] voglio che tutti vi lavate in um-bagno e io con essovoi, e poi ce n’andremo a sollassare: mentre che ’l mio marito navicherà [navigherà], voi navicherete». Dopo cena i frati si immergono nudi nella tinozza e Nese, per non farli insospettire, si immerge «in caottobre

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micia» e mentre i frati si lavano «con desiderio grande», dice loro: «Se Ranieri ora tornasse, col fratello e col garzone, come fare’ io e voi? ». I religiosi rispondono che non lo sanno, la donna espone il piano: «Se tornasse, intrate in quello rinchiuso [in quella buca] che mai non s’apre se non quando vuole metter pelli a pelare, e io apro l’uscio; e partitosi , ci potremo confortare; ben penso che questo venir non debba». I frati appaiono tranquilli, sostengono di aver visto Ranieri e i suoi compagni di viaggio salire sulla barca. All’epoca i commercianti preferivano compiere i viaggi via mare anziché via terra perché le strade non erano sicure e infestate dai briganti. Improvvisamente, sentono bussare all’ingresso: «Nese, aprimi». Si tratta proprio di Ranieri: «La donna tremante uscio dal tinello bagnata; li frati intronno in nella pellaria [nella buca] e la donna andò a l’uscio e aperselo dicendo come’era che non era andato. Ranieri disse: “L’ vento m’ha stroppiato [mi ha impedito di andare], ma tu che se’ si bagnata e in camicia, che vuol dire?”. La donna disse: “Io faccio un bagno per domane e perché non mi trovassi nuda m’ho messa la camicia bagnata in dosso che cavai della caldaia”». I frati udendo questo esclamano: «Odi malisia! [Senti che inganno!]».

La vendetta si compie

Ranieri va in cucina, prende il calderone d’acqua bollente e calcina e «sopra il pellaio la gittò per tal modo che i tre frati morinno [morirono]». Uccisi i tre religiosi, Ranieri si pone il problema di come farli sparire: si reca in un’osteria e ingaggia un facchino: «E m’è morto uno frate in casa; io voglio che lo metti in Arno e io ti darò una bella cappa [mantello con cappuccio]». L’uomo di fatica è ben disposto al servizio, mette un frate nel sacco e lo getta nel fiume. Quando torna per la ricompensa, Ranieri gli ha preparato il sacco con un altro frate e gli dice: «Oh ell’è ritornato», il portatore ci crede, afferra un bastone e dà dei colpi al sacco, poi lo getta in Arno. Quando l’uomo di fatica torna da Ranieri per avere la cappa, si sente dire che il frate è tornato un’altra volta: «Se mi vuoi servire, altramente io andrò per un altro», manca infatti il terzo cadavere da far scomparire. Il portatore dice: «Or che diavolo è questo che pur torna», riempie anche questo sacco di bastonate, se lo carica sulle spalle e lo getta nel fiume. Preso dalla smania di ottenere la ricompensa, il facchino si imbatte in «uno prete Andrea, rettore della chieza di San Donato, presso al Ponte Nuovo con uno camice e e con uno libro e una candella accesa, che andava per dire mattino [il mattutino] a San Donato. Scontròsi col portatore: credea che fusse il frate che tornasse, col bastone li dié sulla testa e morto l’ebbe [l’uccise]; e subito presolo, in ispalla sel puose e in Arno l’ebbe gittato [lo gettò]». Il complice racconta a Ranieri: «Ancora [il frate] tornava, ma io li diedi tale in sulla testa che tutte le cervella li fracellai e tutto lo bastone

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il novelliere di giovanni sercambi/7 Porto Pisano agli inizi del Trecento All’incremento dei traffici marittimi si legano, fra gli altri, gli interventi sullo scalo di Porto Pisano, che, per consentire l’attracco dei velieri di grosso cabotaggio impiegati dalla fine dell’XI secolo in Europa al fianco delle snelle galee, Pisa ampliò e cinse di mura e di torri. Dalla grande torre fanale, con funzione di faro (1), partiva una catena che veniva tirata fino alla prima delle tre torri e che chiudeva il varco durante l’inattività o in caso di attacco. Fra le navi piú utilizzate per il trasporto di merci vi era la cocca (2), che poteva stazzare fino a 500 tonnellate. Nel corso del secolo, i bastimenti a vela – denominati semplicemente naves – andarono incontro a un crescente gigantismo (3). Molte navi non attraccavano in porto, ma stazionavano in mare aperto. Le merci venivano trasferite su piccole imbarcazioni da trasporto (4) dirette a Pisa attraverso il corso dell’Arno. Nel Mediterraneo, fino al XVII secolo, la nave da guerra per eccellenza fu la galea (5): mossa da esperti rematori, trasportava soldati generalmente armati di balestra.

m’insanguinò». Il conciaio capisce che ha ucciso qualcuno di estraneo alla faccenda, coglie la palla al balzo: «Or non te lo dicea io?». Il portatore appare soddisfatto e se ne va con la mantella. La mattina seguente, in città non si parla d’altro che della scomparsa di prete Andrea: hanno ritrovato il suo libro, la candela e una striscia di sangue arriva fino a Ponte Nuovo: tutti pensano che sia stato gettato nel fiume. L’abate di S. Nicolò, non trovando frate Ghirardo, frate Nastagio e frate Zelone, chiede di loro, ma nessuno ne sa nulla e «stimando l’abate si fusseno partiti ovvero per la loro catività fatti perire [fatti uccidere], e’ di loro alcuno impaccio non si diede». Ranieri e Nese mantengono il segreto e «mai da tali fu motteggiata». Al termine del racconto, la brigata in sosta ad Arezzo apprezza la novella e mostra compassione verso prete Andrea, colpevole solo di indossare l’abito talare. Questo atteggiamento moraleggiante è in linea con quanto Sercambi vuole dimostrare con il finale truculento dell’exemplo: dopo gli sconquassi sociali causati dalla peste, anche negli ordini monastici la punizione esemplare avviene perché i frati devono osservare tutte le norme imposte dalla Regola – compresa quella di castità – per la loro posizione di maestri, soprattutto rispetto alle donne e ai piú fragili. F

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NEL PROSSIMO NUMERO ● Un astuto adulterio

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di Jean-Claude Maire Vigueur

Pecore al pascolo, particolare del Sogno di Gioacchino, uno degli episodi delle Storie della Vita della Vergine e di Cristo affrescate da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova (vedi immagine intera a p. 65). 1303-1305.

C’è un tempo per

migrare

Sin dalla preistoria, la pastorizia è stata uno dei cardini della sussistenza delle comunità umane. E, nel millennio medievale, una delle sue peculiarità, la pratica della transumanza – lo spostamento stagionale del bestiame – tornò a diffondersi su larga scala, soprattutto nel Nord Italia. Piú di recente, nel 2019, l’UNESCO l’ha inserita fra i beni del Patrimonio culturale immateriale dell’umanità


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ll’indomani della seconda guerra mondiale, si assiste, nell’arco di meno di una generazione, alla scomparsa quasi totale di una forma di allevamento che ha profondamente segnato la vita agraria e il paesaggio di intere regioni dell’Europa occidentale e in particolare dell’Italia: il grande allevamento transumante. Non che lo spostamento stagionale del bestiame sia sparito del tutto. Nelle alte valli alpine persiste, per esempio, l’usanza di trasferire d’estate il bestiame nei pascoli di alta quota. E ancora oggi capita di incontrare, nei dintorni di Roma, e talvolta anche all’interno del Grande Raccordo Anulare, greggi di pecore che si ostinano a pascolare, nei mesi invernali,

l’erba nei pochi spazi risparmiati dall’urbanizzazione galoppante; parlando con i pastori, ci si accorge che il piú delle volte provengono dall’Abruzzo, dove a ogni primavera tornano con le loro pecore caricate su camion che coprono in un giorno la distanza che i loro antenati percorrevano a piedi in due o tre settimane. Spostare il bestiame, che si tratti di bovini o di ovini, là dove l’erba è piú ricca, e quindi mandarlo d’estate nei pascoli di montagna e d’inverno nelle basse pianure, ha rappresentato per lunghi periodi il modo piú razionale di sfruttare le risorse naturali di zone vicine e complementari, come lo sono appunto montagna e pianura. E molto spesso ciò ha indotto Pecore al Pizzo di Claro (Canton Ticino, Svizzera), area in cui le greggi venivano e vengono portate nel periodo estivo.

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Dossier gli storici, per non parlare poi della gente comune, a vedere nella transumanza un fenomeno tradizionale, che si sarebbe protratto senza soluzione di continuità dalla piú alta antichità fino ai giorni nostri o quasi. Un fenomeno, insomma, senza storia, la cui origine si perderebbe nella notte dei tempi. Invece non è cosí. La transumanza era senz’altro praticata nell’antichità ed era sicuramente associata, in tempi ancor piú remoti, a forme di vita nomade. L’allevamento transumante scompare, però, totalmente, in Occidente, con le grandi invasioni ed è solo a partire dall’XI secolo che lo vediamo risorgere. Come e dove? Sono domande alle quali si può oggi rispondere in modo circostanziato grazie a studi dedicati a due aree dove tale fenomeno ha costituito fino a po-

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co tempo fa un aspetto essenziale del sistema agrario: le campagne lombarde da una parte, la zona dei Monti Lessini dall’altra.

Patrimoni ingenti

Cominciamo da una realtà che vale per queste due zone come per l’insieme dell’Italia altomedievale: non esiste nessun testo, nessuna fonte documentaria che, prima dell’XI secolo, faccia il piú vago accenno a spostamenti stagionali di bestiame su lunghe distanze. Si tratta, è vero, di un argomento ex silentio che può dare adito a qualche perplessità. Ma ogni dubbio scompare quando si viene a esaminare la distribuzione geografica degli immensi patrimoni detenuti dai grandi monasteri o dalle famiglie della piú alta aristocrazia carolingia o postcarolingia: ci si accorge infatti

che questi vasti complessi fondiari, come per esempio quello del monastero di S. Giulia a Brescia o della famiglia dei Gisalbertini, comprendono, sí, demani caratterizzati dalla complementarità delle loro risorse – arativi in pianura, oliveti in zona collinare e pascoli nelle Prealpi –, ma che le varie parti dello stesso patrimonio funzionano indipendentemente l’una dall’altra e non sono mai organizzate in modo da permettere la transumanza. Ciò che le fonti lasciano invece chiaramente intravedere, già a partire dall’inizio dell’XI secolo, è lo sfruttamento, da parte di alcune comunità rurali delle valli alpine, delle praterie di alta quota per il pascolo estivo delle loro greggi, le quali per il resto dell’anno sono custodite sulle terre di fondovalle o si spostano al massimo fino alla zona delle

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Pagina miniata con figure di pastori e di pecore, dal Sacramentario del vescovo Warmondo di Ivrea. X sec. Ivrea, Biblioteca Capitolare. In basso, sulle due pagine la fronte del sarcofago di Iulius Achilleus, che si immagina venga accolto nell’aldilà da un paesaggio ideale, popolato da pastori, greggi e animali al pascolo. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

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Dossier monti lessini

Il massaro, vero regista dell’attività pastorale L’area dei Monti Lessini, il massiccio delle Prealpi situato a nord di Verona, presenta, per quanto riguarda lo sfruttamento dell’alpeggio e dell’incolto boschivo, molte analogie con le Prealpi lombarde, ma anche una differenza di spicco, dovuta al ruolo svolto da vari esponenti dell’alta società veronese, in particolare dalla seconda metà del XIII secolo, nello sviluppo del grande allevamento transumante. Vero è che fino a quella data la documentazione certifica soprattutto la messa in valore della fascia inferiore dei Monti Lessini, quella che si estende fra i 650/700 e i 1200/1300 m, oggetto di un intenso sfruttamento da parte delle comunità rurali insediate nelle colline sottostanti. Il periodo d’oro della fascia superiore, occupata da vasti pascoli che arrivano fino ai 2000 m di altitudine, inizia quando il controllo della zona passa nelle mani degli Scaligeri, signori di Verona dal 1260 al 1387, che ne concedono vaste porzioni ad amici colline o della pianura piú vicina, a soli tre o quattro giorni di distanza dal villaggio di provenienza. Siamo quindi in presenza di una forma di alpeggio, analoga a quella che sussiste oggi in Svizzera o talvolta nella stessa Lombardia e che non necessita di lunghi spostamenti. Sembra anche che i contadini delle valli alpine, come per esempio gli abitanti del Val di Sclave o quelli di Borno, in Valcamonica, siano gli unici, a quella data, a praticare questo tipo di transumanza mentre i signori, laici o ecclesiastici, proprietari delle aree montane, si accontentano di incassare l’erbaticum, ossia il prezzo dell’erba. Approfittano quindi indirettamente dello sviluppo della pastorizia ma senza assumere essi stessi i rischi della transumanza. Tutto cambia nell’arco di tempo che va dalla fine dell’XI secolo alla prima metà del XII. I documenti conservati negli archivi di alcuni

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e collaboratori. Questi si associano tra loro costituendo delle «compagnie», nell’ambito delle quali tutte le greggi mandate a pascolare su una determinata area del territorio montano sono affidate alle cure di un unico massaro. Sarà lui che dalla città provvederà al fabbisogno del personale e degli animali, controllerà la qualità dei prodotti fabbricati sull’alpeggio e si occuperà della loro commercializzazione. Lui, ancora, curerà l’adempimento degli obblighi nei confronti del signore, il quale, per esempio, esige dai concessionari di pascoli, durante l’estate, il ghiaccio necessario alla conservazione dei cibi e alla confezione dei sorbetti. Costretto a salire sull’alpeggio almeno tre volte durante il periodo dell’estivazione, il massaro assicura quel costante legame tra città e montagna che ha caratterizzato il rapporto tra alcune città del Veneto, come Verona appunto, ma anche Vicenza e Treviso, e la fascia montana del loro territorio.

monasteri della zona rivelano, a quell’epoca, uno spiccato interesse dei monaci lombardi per le zone di alpeggio. Per acquisto, donazione o scambi di beni, i Vallombrosiani d’Astino, i Benedettini di Vall’Alta, i Cluniacensi di Pontida, Fontanella e Argon, nella diocesi di Bergamo, e altri monaci della diocesi di Brescia, come i Cluniacensi di Rodengo, arricchiscono il loro patrimonio di beni situati nelle due zone complementari delle Prealpi e della pianura e reclutano conversi per badare alle cure del bestiame.

Pecore al pascolo nel Parco Naturale Regionale della Lessinia (Verona). Fra le specie presenti nel territorio del Parco sono presenti anche gli ovini, e, in particolare la pecora Brogna, razza autoctona in via di estinzione.

L’alternativa cistercense

Gli unici a non agire in questo modo sono i Cistercensi che, nello stesso periodo, impiantano i loro monasteri, Morimondo, Chiaravalle e Cerreto, nelle zone umide della pianura, dove inventeranno rapidamente una nuova forma di allevamento, fondata non piú sul(segue a p. 66) ottobre

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Strategie produttive

Onorato, gran signore e grande allevatore Ragioni molteplici, come l’assoluta predominanza del grano nel regime alimentare, il basso rendimento della cerealicoltura, l’organizzazione del lavoro, gli obblighi comunitari in uso nelle campagne occidentali riducono per tutto il periodo medievale e anche oltre lo spazio riservato all’animale e quindi l’importanza dell’allevamento nell’economia agraria. Questo circolo vizioso dell’agricoltura tradizionale

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verrà spezzato solo con la massiccia diffusione delle colture foraggere, che si verifica su grande scala nell’Inghilterra del XVIII secolo grazie al sistema delle enclosures (la recinzione dei campi) oppure, a partire dalla fine del Medioevo e su scala piú limitata, in alcune regioni particolarmente progredite dell’Occidente, come la pianura lombarda. In tali condizioni, non c’era altra soluzione per gli allevatori che

concentrare la loro attività sulle zone rimaste del tutto o parzialmente incolte e quindi, nei Paesi mediterranei, ricorrere alla transumanza per sfruttare le risorse complementari della montagna e delle basse pianure. Detto questo, le eccezioni non mancano. La crisi demografica dell’Alto Medioevo ha, per esempio, dilatato lo spazio riservato all’animale e permesso ai contadini dell’epoca di allevare allo stato ottobre

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Il Sogno di Gioacchino, episodio facente parte del ciclo con Storie della Vita della Vergine e di Cristo affrescato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova. 1303-1305. Nella pagina accanto il castello Caetani di Fondi (Latina), in una foto del 1920. La sua costruzione si fa risalire al 1319, insieme con la ristrutturazione della cinta muraria della città realizzata da Roffredo III Caetani che voleva farne il centro della sua signoria.

brado o semibrado vaste mandrie di maiali. Ma anche nei periodi di maggiore intensificazione delle colture i grandi proprietari avevano sempre la possibilità di sviluppare, sulle vaste superfici incolte del loro patrimonio, un allevamento destinato ad approvvigionare il mercato cittadino di prodotti carnei e caseari. Ne abbiamo un bell’esempio in un inventario della fine del Medioevo, che fornisce il quadro pressoché completo delle

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attività allevatorie di Onorato Caetani, conte di Fondi. Nel 1491, al momento della sua morte, questo grande signore possedeva poco meno di 10 000 capi di bestiame, di cui 5521 suini, 3297 ovini, 422 caprini, 307 bovini, 235 equini e 47 pavoni. Nei monti del Matese e dell’Appennino sannita Onorato disponeva di vasti domini particolarmente adatti all’allevamento degli ovini, mentre

i suoi maiali e le sue bufale erano concentrati soprattutto nelle aree boscose e paludose della contea di Fondi e della provincia di Marittima, nel Lazio meridionale. Dallo stesso documento si ricava l’impressione di un allevamento organizzato in modo molto razionale, grazie all’impiego di personale altamente qualificato, in grado, per esempio, di programmare la riproduzione del bestiame in funzione delle esigenze del mercato.

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Dossier la transumanza, ma sullo sfruttamento intensivo dei prati irrigui. I due tipi di pastorizia sono tuttavia ben lontani dal possedere tutte le caratteristiche che assumeranno nel periodo successivo. Nelle aziende dei Cistercensi, la produzione di fieno non è, infatti, ancora in grado di consentire l’allevamento in stalla di numerosi capi di bestiame bovino; per quanto riguarda la transumanza, le greggi non superano, in estate, la quota dei 1200 o 1300 m di altitudine e in inverno non si avventurano oltre il limite dei fontanali, oltre cioè la linea delle sorgenti che segna, in Lombardia, il confine tra l’alta pianura secca e la bassa pianura

umida. Le stesse greggi, d’altronde, non contano mai piú di qualche centinaio di pecore, né le mandrie superano qualche decina di bovini ed è per questo che riescono a sostentarsi sulle magre lande dell’alta pianura oppure nei boschi e sui terreni incolti della zona collinare che si estende ai piedi delle Prealpi. Si tratta, in altre parole, di una transumanza ancora molto modesta, limitata sia nel raggio geografico degli spostamenti sia nella quantità del bestiame coinvolto e nel numero degli allevatori che la praticano e che, all’infuori dei monasteri, provengono quasi tutti da alcuni villaggi situati al confine tra montagna e pianura.

In fin dei conti, il vero decollo della transumanza non avverrà che nel corso di una terza fase, che inizia con la seconda metà del XII secolo e ha come principali protagonisti non piú i grandi enti ecclesiastici ma gli allevatori delle alte valli alpine, gli stessi che fino ad allora si erano limitati a sfruttare, durante i mesi estivi, i pascoli di bassa e media quota, al di sotto dei 1200-1300 m.

Lunghi viaggi

Da quel momento in poi, infatti, le loro greggi non solo partono ogni estate all’assalto delle praterie di piú alta quota, quelle che si estendono fino ai 2000 m di altitudi-

Una veduta dei pascoli d’altura della Lessinia.

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ne e oltre, ma si spingono anche, durante l’inverno, fino ai grassi pascoli della bassa pianura. Ogni anno i pastori con le loro bestie percorrono nei due sensi la lunga distanza – piú di cento chilometri in linea retta – che separa gli alpeggi dell’alta Val Brembana, dell’alta Val Seriana e dell’alta Valcamonica dalle zone piú basse e piú umide della pianura lombarda. Per alcuni di loro il viaggio si ferma ancora, come era la regola nella fase precedente, sulle poche terre rimaste incolte nell’alta pianura, a nord di Soncino, Orzinuovi e Manerbio. Ma la maggior parte di loro è ormai costretta a proseguire il viaggio molto piú a sud e a tra-

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scorrere l’inverno nel vasto territorio compreso tra l’Oglio e il Po. Lí, dispongono di varie soluzioni per procurare agli animali l’erba di cui hanno bisogno per sopravvivere durante i cinque, sei o sette mesi della permanenza in pianura. Sempre piú spesso, tuttavia, con l’intensificazione delle colture e la diffusione anche in queste zone delle piante foraggere, gli allevatori sono costretti a prendere in affitto vaste parcelle di terre recintate che rendono ai loro proprietari, oltre ai canoni in argento, cospicue quantità di formaggi. Ma questi ultimi non sono i soli ad approfittare della transumanza: tutti i titolari di diritti pubblici sui territori attraversati

dai pastori non mancano di prelevare tasse e pedaggi per consentire il passaggio delle greggi e garantire la loro sicurezza. D’altro canto, la forte concentrazione di greggi favorisce lo sviluppo nelle valli alpine di tutta una serie di attività legate alla lavorazione dei prodotti derivati dall’allevamento. Molti degli allevatori investono nell’industria laniera, nel commercio dei formaggi e dei latticini, nella lavorazione delle pelli e si trasformano in uomini d’affari attivi in tutti i settori dell’economia lombarda che deve dunque, in quel periodo, gran parte della sua prosperità al dinamismo delle élites rurali.

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PICCOLI IMPRENDITORI CRESCONO

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oma, 29 ottobre 1400, Palazzo comunale del Campidoglio, ora non precisata: in presenza e su richiesta di sedici proprietari di bestiame locali, Antonio di Lorenzo Scambi, soprannominato Impoccia, uno dei due o tre notai della Roma che conta, registra la nomina da parte di questi allevatori di tre procuratori incaricati di difendere i loro interessi

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a seguito dei danni recati alle loro greggi nel periodo estivo, mentre pascolavano nei monti dell’Appennino centrale. Ma chi sono gli autori di questi danni? L’atto rogato da Scambi non lo precisa e non siamo abbastanza informati su ciò che è potuto accadere durante l’estate 1400 ai confini del Regno di Napoli con il Lazio per identificarli. Ma poco importa.

Quello che conta, è che disponiamo per la prima volta, grazie all’atto di Scambi, di un elenco, certamente incompleto, di una categoria di persone che occuperà fino all’inizio del XX secolo un posto di prim’ordine nella società e nell’economia romane: quella dei grandi allevatori di pecore. Si tratta tutt’al piú, a quella data, di trenta o quaranta individui,

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Campagna romana, acquerello su carta di Franz Schreyer. 1890. Collezione privata.

appartenenti ad alcune di quelle due o trecento famiglie che a Roma vivono della coltura dei grandi demani ubicati in un raggio di 2030 km intorno alla città ma che, a differenza degli altri imprenditori, danno prova di maggiore dinamismo nella gestione delle loro terre e non esitano a cercare nuove fonti di guadagno, qual è, appunto, il grande allevamento transumante. Alcuni di loro fanno senz’altro parte della nobiltà cittadina, vale a dire di quella categoria della popolazio-

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ne che, senza mai confondersi con le piú prestigiose famiglie baronali (Colonna, Orsini, Savelli, Conti, Annibaldi e poche altre), vanta tuttavia una lunga esperienza del potere e da diverse generazioni possiede uno o piú casali nella Campagna romana.

Origini modeste

Altri, però, e sono quelli piú numerosi, non hanno ancora diritto al titolo di nobilis vir, che i notai riservano ai membri delle piú vecchie famiglie: sono quindi persone di piú modesta origine, ma che in vari modi sono riuscite ad accumu-

lare capitali da investire nei settori piú redditizi dell’economia agraria, prendendo per esempio in affitto vaste estensioni di terre arative, in modo da immettere sul mercato grosse quantità di cereali pregiati, oppure puntando sui diversi prodotti dell’allevamento. Anche se l’atto di procura del 29 ottobre 1400 non lo precisa, tutti gli animali portati a pascolare sui monti dell’Abruzzo erano di razza ovina. Il che non vuol dire che l’allevamento delle pecore fosse l’unico praticato dagli imprenditori agricoli di Roma. Mucche e bufale sono tutt’altro che assenti dalla

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Campagna romana, dove vengono allevate soprattutto per il latte, che serve alla fabbricazione di vari tipi di formaggi, tra cui la mozzarella, già molto apprezzata dai Romani, occupa il primo posto. Ma questo tipo di bestiame, e in particolare le bufale che prediligono le zone umide, è concentrato sui vasti casali della fascia maritti-

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ma della Campagna romana, ricchi di acquitrini. Lí il bestiame vive tutto l’anno allo stato semibrado, come accade ancora oggi nella Maremma toscana, custodito da un personale che evoca gli odierni butteri maremmani. Non è raro che gli armenti contino centinaia di capi e che i loro padroni debbano sborsare somme

considerevoli per ottenere dai proprietari di casali, come il Capitolo di San Pietro o l’Ospedale di Santo Spirito, l’affitto dei pascoli. Ne possiamo dedurre che l’allevamento bovino richiede capitali maggiori di quello ovino per un risultato non meglio garantito, visto che il valore di ogni capo aumenta i rischi di furto o rapina ai quali è esposto il ottobre

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In alto un’area di pascolo nel Parco Naturale Regionale Monti Simbruini, il cui territorio si estende nel Lazio, fra le province di Roma e Frosinone. A sinistra un casale della Campagna romana in una foto scattata intorno al 1880.

bestiame. Sta di fatto che, nel periodo di cui ci stiamo occupando, non conosce una crescita simile a quella dell’allevamento ovino, sul quale convergono invece gli interessi della parte piú dinamica dell’imprenditoria romana. A differenza dei bovini, le pecore possono trovare di che nutrirsi, almeno durante gran parte dell’an-

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no, su tutta la superficie della Campagna romana. Non hanno ovviamente accesso ai campi riservati alla coltura del grano, ma per il resto dispongono di tutti gli spazi incolti nonché dei terreni messi in riposo (i cosiddetti maggesi) e sono anche ammesse, dopo la raccolta, sui seminativi dove, con le prime piogge, un po’ d’erba riesce a crescere in mezzo alle stoppie.

Per nutrire il bestiame

Tutti i casali della Campagna romana, anche quelli a forte vocazione cerealicola, sono quindi in grado di nutrire, durante la stagione umida, un certo numero di ovini, a condizione che il padrone delle bestie disponga di fieno per l’estate, derrata destinata in primo luogo all’alimentazione dei cavalli e degli animali da tiro e da soma, oppure, nei mesi caldi, possa mandare il bestiame nei pascoli montani. Vista la scarsità di fieno nella Campagna romana e la mancanza di foraggi alternativi, la seconda soluzione è l’unica alla quale possa-

no ricorrere i proprietari di pecore quando le loro greggi contano piú di cento o duecento capi. E questo è senza alcun dubbio il caso dei sedici allevatori che cercano, con l’atto del 29 ottobre 1400, di ottenere riparazione dei danni subiti dalle loro greggi nei monti dell’Abruzzo. Rimane da capire come hanno fatto questi allevatori, nati e residenti nel cuore della Roma medievale, a procurarsi, a piú di 100 km di distanza, pascoli sufficienti a ospitare, da maggio a settembre, greggi che contano fino a 5000 capi. La risposta a tale quesito sta negli stessi registri del notaio Scambi. A lui, infatti, e ad altri suoi colleghi, gli allevatori si rivolgono per stilare gli accordi presi con i proprietari di pascoli o con il responsabile della transumanza. E i contratti rogati in quell’occasione si rivelano anche ricchi di informazioni su molti aspetti della transumanza, come il suo costo oppure la divisione dei compiti tra il personale al seguito degli animali. Comincerò con il piú impor-

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Una veduta panoramica di Norcia (Perugia). Nella pagina accanto uno scorcio del borgo di Pescocostanzo (L’Aquila).

In Spagna

Una ricchezza spesa bene Di tutti i Paesi mediterranei, la Spagna è quello in cui la transumanza, sia per la configurazione geomorfologica sia per effetto della Reconquista, ha assunto le dimensioni piú colossali, tali da fare dell’allevamento ovino la prima risorsa del Regno di Castiglia alla fine del Medioevo. Il re, i grandi signori e gli Ordini monastici, tuttavia, non furono gli unici a trarre profitto da quello straordinario sviluppo della pastorizia. Se ne avvantaggiarono anche molti abitanti dei centri situati

in prossimità delle grandi «sierre», che dal Portogallo fino all’Aragona si estendono su tutta la parte centrale della Penisola Iberica. Chi oggi attraversa centri come Sepúlveda, Turégano, Pedraza de la Sierra o Riaza, tutti situati a nord dell’imponente Sierra de Guadarrama, non può non rimanere colpito dalla qualità dell’architettura civile, dallo sfarzo decorativo delle chiese, da tutti i segni, insomma, di una ricchezza spesa bene, utilizzata cioè per

commissionare opere d’arte di altissimo valore e dotarsi di un sontuoso quadro di vita. Lo stesso fenomeno si verificò in Italia centrale. Anche lí centri come Pescocostanzo in Abruzzo, Norcia e Monteleone in Umbria testimoniano non solo dei guadagni ricavati dalla pastorizia, ma anche delle scelte culturali di una borghesia rurale che ha dato prova fino a tempi recenti, con personaggi della tempra di Benedetto Croce, nativo di Pescasseroli, di una non comune apertura intellettuale.

tante, il reperimento dei pascoli. Dal punto di vista geografico, tutte le zone d’alpeggio frequentate dalle greggi romane si estendono sui due versanti della catena occidentale dell’Appennino centrale, a non piú di 100-120 km da Roma. Tale catena, che si divide in quattro massicci corrispondenti ai Monti del Cicolano in Sabina, ai Monti

Carseolani tra Carsoli e Tagliacozzo, ai Monti Simbruini il cui fianco orientale domina il lago Fucino e, infine, ai Monti Ernici, raggiunge i 2166 m con Monte Veglio, e le zone atte all’alpeggio vanno quindi dai 1000 ai 2000 m di altitudine. Il suo versante occidentale fa parte dello Stato della Chiesa, quello orientale del Regno di Napoli, ma

ciò non incide minimamente sulla condizione giuridica delle zone di alpeggio, tutte saldamente controllate da un ristretto numero di grandi famiglie signorili che percepiscono l’erbatico, il «prezzo dell’erba», su tutte le greggi che frequentano durante l’estate le terre sottoposte alla loro dominazione. Ma non sempre queste fami-

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Dossier glie si accontentano dei proventi dell’erbatico. Alcune offrono agli allevatori romani tutta la gamma dei servizi indispensabili per il buon andamento e il massimo rendimento dell’intero periodo della transumanza: propongono quindi di accompagnare il bestiame sia all’andata che al ritorno, di portarlo sempre nei migliori pascoli, di assicurare la sua custodia contro pericoli di ogni sorta, di provvedere alla cura degli animali, alla mungitura, alla fabbricazione dei formaggi e dei latticini, alla tosatura e talvolta anche di commercializzare alle migliori condizioni di mercato i vari prodotti dell’allevamento. Tutto ciò previo pagamento di una somma calcolata in base al numero di capi. Di quali strumenti disponeva il

proprietario del bestiame per verificare, a fine stagione, i conti presentati dal conduttore, non lo sappiamo. Ma non deve stupire piú di tanto il fatto che signori abituati a cogliere anche futili pretesti per depredare il bestiame dei loro rivali e nemici si trasformino in efficaci protettori delle greggi affidate alle loro cure e diano prova di competenze contabili non inferiori a quelle di un imprenditore romano. Sappiamo infatti che molte di queste famiglie possiedono grosse quantità di bestiame costretto a svernare nei casali della Campagna romana, insieme alle greggi degli allevatori della capitale. D’altra parte anche i signori delle regioni appenniniche dipendono, per la commercializzazione dei propri prodotti, dalla cliente-

la cittadina e sono di conseguenza indotti non solo a ragionare in termini di mercato, ma anche ad adottare e assimilare i valori di un’economia mercantile, per non dire liberale. Ci sono dunque buone ragioni per sostenere che la pratica del grande allevamento ha fortemente contribuito ad accorciare la distanza che fino ad allora separava i comportamenti economici dei due ceti, quello della nobiltà signorile e quello degli imprenditori cittadini. Sarei tentato di dire che la transumanza ha avuto, nella lunga durata, un effetto analogo per quanto riguarda l’acculturazione di quella borghesia rurale che, tra fine Medioevo ed età moderna, si sostituirà ai signori nella conduzione della transumanza stessa. Ponte in un paesaggio italiano, olio su tavola di Adam Pynacker. 1653-1654. Londra, Dulwich Picture Gallery. Nella pagina accanto particolare di una delle mappe disegnate dagli agrimensori Antonio e Michele Nunzio per l’Atlante delle locazioni della Dogana delle pecore di Foggia. 1686-1697.

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le dogane del bestiame

Introiti a molti zeri Di regola, nelle società preindustriali, ogni spostamento di bestiame da una zona di pascolo all’altra dava luogo alla riscossione di tasse: pedaggi lungo le vie della transumanza, come su ogni tipo di merci, ma anche imposte, in cambio delle quali l’autorità pubblica garantiva la securitas di animali e pastori. Ben consapevoli dei cospicui redditi generati dal formidabile sviluppo del grande allevamento transumante sulle loro terre, alcuni Stati hanno creato, nel XIV o XV secolo, organismi destinati da una parte a gestire la riscossione di queste tasse, dall’altra a offrire agli allevatori e al bestiame, oltre alla loro protezione, una garanzia di indennizzo in caso di danni e talvolta anche altri servizi, come la locazione di pascoli. Nell’Italia centro-meridionale, questi organismi furono chiamati «Dogane», un nome che non lascia dubbi sul carattere prevalentemente fiscale delle loro funzioni.

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Cosí, nello Stato della Chiesa, i pontefici diedero vita a due Dogane, una per ciascuna delle due province (Patrimonio e Marittima) che si affacciavano sul litorale tirrenico e offrivano, durante il periodo invernale, vaste estensioni di terre umide al pascolo delle greggi provenienti da tutto l’arco appenninico, dall’alta Toscana a nord fino ai monti della Maiella a sud. Nel Regno di Napoli, furono i re aragonesi a dotare, nel XV secolo, la Dogana delle Pecore di nuove regole e a farne uno dei cespiti principali delle loro finanze; si calcola che, tra il primo anno del regno di Alfonso (1442-1443) e la fine del XV secolo, il numero delle pecore accolte nel Tavoliere di Puglia durante i mesi invernali passò da mezzo milione a un milione e mezzo di capi, mentre il gettito per lo Stato superò i 100 000 ducati, contro i 18 000 del 1442-1443.

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L’

UNA GIORNATA IN MASSERIA

allegoria del Buon Pastore, che ha conosciuto un prodigioso successo nell’arte cristiana a partire dal III secolo, si fonda, come è noto, su un passo del Vangelo di San Giovanni, nel quale Gesú designa se stesso appunto come Buon Pastore. Ma l’immagine era già molto diffusa nella cultura antica di età precristiana, che vedeva nel Buon Pastore il simbolo della philanthropia, ossia della generosità e dell’altruismo. E probabilmente non c’è, in tutte le società preindustriali, a eccezione forse del fabbro, una figura professionale che abbia rivestito nell’immaginario dei popoli un ruolo cosí mitico come quello del pastore. Peraltro, ed è appena il caso di dirlo, il suo lavoro si discostava molto dalle raffigurazioni che ne ha dato l’arte sacra, e la sua vita non era poi cosí bucolica come vorrebbero suggerire tante famose opere letterarie. Per lo storico, non ha molto senso parlarne in generale, in quanto la vita quotidiana e le occupazioni dei pastori cambiano a seconda delle regioni e dei mo-

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menti, ma anche (e soprattutto) del tipo di allevamento praticato e della sua collocazione in un determinato sistema economico. Meglio dunque puntare su una categoria ben precisa. Scegliamo allora i pastori della Campagna romana, sui quali disponiamo, grazie ai registri notarili tardomedievali, di un ricco materiaIn alto miniatura raffigurante l’Annuncio ai Pastori, dal manoscritto del libro d’ore Très belles Heures de Jean de Berry. 1380-1450. Torino, Museo Civico di Arte Antica. A destra, sulle due pagine mosaico raffigurante il Buon Pastore. 425-450. Ravenna, mausoleo di Galla Placidia.


le che possiamo integrare senza difficoltà con testimonianze piú tarde, in quanto riguardano tecniche e costumi già in uso in quella prima fase di assestamento della grande transumanza ovina. Solo negli ultimi secoli del Medioevo, infatti, come si è visto nelle pagine precedenti, si è sviluppato nella Campagna romana, per iniziativa di un dinamico ceto di imprenditori agricoli, l’allevamento su vasta scala del bestiame ovino, portato a pascolo, durante

gli aridi mesi estivi, sulle montagne dell’Appennino centrale.

Da un litorale all’altro

A dire il vero, le greggi degli allevatori romani non erano le uniche a frequentare, nel periodo compreso tra settembre-ottobre e maggio-giugno, le vaste pianure umide del litorale laziale. Le condizioni climatiche che spingevano, durante i mesi caldi, il bestiame delle pianure a cercare il cibo sulle alture piú fresche dell’A-

bruzzo e di altre zone dell’Appennino inducevano, per contro, gli allevatori umbri, marchigiani e abruzzesi, almeno quelli piú facoltosi, a mandare, durante i lunghi mesi della stagione fredda, le loro greggi a svernare nei pascoli che si estendono lungo tutto il litorale tirrenico oppure, nel caso di molti allevatori abruzzesi, in quelli del Tavoliere pugliese. Ci sarebbe molto da dire sulla diffusione dell’allevamento ovino nelle zone di montagna e


Dossier Sulle due pagine miniature tratte da un codice del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A sinistra, bestiame al pascolo; nella pagina accanto, la produzione del formaggio.

su come abbia contribuito allo sviluppo economico e culturale delle società rurali. Basterà sapere, per il discorso che qui ci interessa, che accanto ad alcuni grandi signori, titolari dei diritti di pascolo su vaste zone di alta quota e le cui greggi contavano fino a 5000 o 6000 capi di bestiame, la maggior parte degli allevatori montani apparteneva al ben piú modesto ceto di contadini, non privi di un certo benessere e proprietari di alcune centinaia di pecore, ma ben contenti di mette-

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re la loro esperienza a disposizione dei grandi allevatori, fossero romani o di origine signorile, pur di accrescere le risorse della famiglia.

Allevatori specializzati

Sono loro, infatti, i veri specialisti dell’allevamento, ed è quindi a loro che gli imprenditori romani si rivolgono, per reclutare, a ogni livello, il personale di cui hanno bisogno non solo nel corso della transumanza, ma anche durante la lunga permanenza delle pe-

core nei pascoli della Campagna romana, per adempiere a tutte le occupazioni della «masseria», come era chiamata a Roma l’azienda che praticava l’allevamento del bestiame minuto. Vediamo dunque come funzionava ed era organizzata la masseria. Capo assoluto degli animali e degli uomini era il vergaro. È lui che ripartisce e controlla il lavoro di tutto il personale, distribuisce le zone pascolative e prende tutte le decisioni atte a incrementare ottobre

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la prosperità dell’azienda; sceglie quindi gli animali da vendere, da macellare, da tenere per la riproduzione, decide della monta, della tosatura, vigila sulla mungitura e la fabbricazione del formaggio, contratta con gli acquirenti la vendita dei diversi prodotti dell’allevamento e provvede al rifornimento del materiale e delle derrate necessarie alla masseria. La carica esige ottime conoscenze zootecniche, ma anche grande esperienza del mercato e polso fermo. Sempre in moto da un pascolo all’altro o tra la campagna e la città, il vergaro cavalca una mula e dispone di una propria capanna dove, a differenza degli altri pastori, può vivere con moglie e figli.

irto di punte di ferro, che lo mette in condizione di difendersi dal morso dei lupi, i quali tuttavia riescono a ingannare la sua vigilanza quando, di notte e procedendo contro vento, si avvicinano fino al recinto dove riposano gli animali. Di regola, infatti, le pecore sono «arretate», ossia rinchiuse per la notte entro un recinto fatto di corda di canapa fissata a pali di legno. Piantare i pali nel terreno con la mazza è compito del «bagaglione», addetto ai trasporti e ad altri lavori, mentre rientra nelle mansioni del pecoraro e dei biscini sospingere ogni sera le pecore all’interno del recinto. La rete viene spostata di

continuo, almeno ogni due giorni, in modo da distribuire lo stabbio prodotto dagli animali su tutta la superficie del pascolo: nel caso di terreni presi in affitto, i contratti stilati dai notai non mancano di contemplare l’obbligo fatto all’allevatore di cambiare ogni giorno la collocazione delle reti, unico modo, all’epoca, per concimare la terra. Quando il posto scelto per l’arretatura è troppo distante dal centro della masseria per consentire un’efficace sorveglianza del bestiame, uno dei pastori passerà la notte nel capannello, sorta di piccola roulotte trasportabile, alta un metro, nella quale si entra carponi.

Cani e castrati

In una masseria ricca di alcune migliaia di pecore, il personale sottoposto agli ordini del vergaro comprende in generale tre grandi categorie di lavoratori. Ci vuole in media un pecoraro per ogni gregge di 300-350 pecore. Spesso viene coadiuvato da uno o piú «biscini» che lo aiutano a riportare nel branco le pecore sbandate e in tutte le operazioni di cui il pecoraro è responsabile, specialmente la mungitura e l’«arretatura» notturna delle pecore. Il pecoraro dispone inoltre di due ausiliari forse non meno preziosi dei pastorelli: il cane, di razza maremmana nella Campagna romana, e il manziero, ovvero un castrato munito di una campana. Ammaestrato come un cane per ubbidire alla voce del pecoraro, il manziero o guidarello si mette sempre alla testa del gregge e le pecore lo seguono in tutti i suoi spostamenti. Al cane, invece, è lasciata la libertà di correre per stanare la pecora smarrita o minacciare eventuali ladri di bestiame; torna comunque sempre al gregge, al quale è molto affezionato. Porta al collo il roccale, un grosso collare

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Dossier me il personale della masseria e dove si compie anche, due volte al giorno, l’operazione piú delicata di tutta la pastorizia, la fabbricazione del formaggio. Vi sovrintende il caciaro, insieme a uno o piú aiutanti. Il caciaro ufficia nel mezzo della capanna, dove è stata scavata una buca circondata da pietre tufacee: è la fornacella, usata per la cottura degli alimenti e del latte.

Dal latte al formaggio

Finita la munta, il latte di ciascun gregge viene versato nella caldara, un grosso pentolone di rame appeso a un «somaro», rudimentale arnese di legno che consente Sulle due pagine altre miniature tratte da un codice del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A sinistra, la mungitura della pecore; nella pagina accanto, la fase della lavorazione del formaggio consistente nella pressatura della cagliata, che provoca la fuoriuscita del siero.

Oltre all’arretatura, gli altri momenti chiave della giornata sono costituiti, per i pastori in carica di un intero gregge, dalla mungitura o «munta». L’operazione si svolge due volte al giorno, all’alba e al tramonto, all’interno di un’apposita capanna costruita in legname e ricoperta di frasche: è il «vato», sempre collocato al centro della masseria, a poca distanza dunque dal capannone dove verrà trasportato il latte destinato alla fabbricazione del formaggio. È il caciaro, del resto, a dare il segnale della munta battendo con un bastoncino sopra una secchia, ma sono i pastori a mungere le pecore lattare, che rappresentano, di norma, i due terzi o i tre quarti dell’intero gregge: producono latte per circa sette mesi all’anno, in ragione di un litro scarso al giorno. Entriamo ora nella grande capanna circolare, dove vive e dor-

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vita quotidiana

Dalla capanna alla malga Nulla è rimasto, nella Campagna romana di oggi, delle grandi capanne circolari che fino all’inizio del XX secolo fornivano alloggio, durante la stagione invernale, al personale della masseria transumante, proveniente per lo piú dall’Abruzzo. Il che non stupisce, trattandosi di abitazioni temporanee, realizzate con materiali leggeri e destinate a essere trasferite da un posto all’altro in funzione dei pascoli disponibili. Il quadro cambia nel caso delle costruzioni adibite ad alloggio dei pastori chiamati a passare i mesi estivi nei pascoli di alta quota. Capitava molto spesso che tali abitazioni, che mescolano in proporzioni varie l’uso della pietra e del legname, fossero occupate da un anno all’altro dagli stessi pastori che cercavano quindi di migliorare la qualità e la solidità del loro rifugio. Il fenomeno è particolarmente diffuso nelle zone alpine, dove bestie e pastori hanno poca distanza da percorrere per trasferirsi dai loro villaggi di vallata agli alpeggi: le malghe, baite e altri tipi di chalets sono allora costruiti con maggiore cura, accolgono talvolta la famiglia del pastore, comprendono spesso una stalla, un fienile, un locale riservato alla fabbricazione del formaggio, e in breve assumono i caratteri di un habitat permanente, anche se stagionale, che molto spesso è sopravvissuto fino a oggi. ottobre

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di spostare senza fatica il pesante recipiente. Quando il latte è «temprato», cioè ha raggiunto la temperatura di 30/35 °C, il caciaro toglie la caldara dal fuoco, vi versa il caglio e lo mescola accuratamente al latte col «mestico» o «spino». Dopo 15 o 20 minuti, per effetto della coagulazione, il latte si trasforma in «cagliata» o «giuncata», che viene tagliata in tanti blocchi quanti sono i cerchi o cascini nei quali la pasta, dopo vari accorgimenti e un piú o meno lungo periodo di invecchiamento, si trasformerà in pecorino. Ma la qualità del prodotto dipenderà in gran parte dalla cura con la quale il caciaro, con l’aiuto di

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alcuni pastori, avrà proceduto alla pressatura, avrà cioè fatto uscire completamente il siero dalla pasta, bucandola in ogni parte con la «fruga», un pezzo di canna lungo dai 20 ai 30 cm. Ogni caciaro ha poi piccoli trucchi del mestiere, che fanno del suo formaggio un prodotto facilmente riconoscibile, soprattutto se si usa applicare sulla pasta ancora fresca il marchio dell’azienda, un rozzo disegno, fatto di iniziali o di numeri. In una certa misura, il rendimento della masseria dipende dalla qualità dei suoi prodotti e si comprende dunque perché il caciaro occupi nella gerarchia dell’a-

zienda un ruolo di primissimo piano, immediatamente a ridosso del vergaro, che è del resto chiamato a sostituire quando questi si deve allontanare dalla masseria.

Sui banchi del mercato

Il latte, il formaggio e gli altri latticini prodotti dalla masseria nei sette-otto mesi della sua permanenza nella Campagna romana sono destinati al mercato cittadino, dove vengono consegnati quotidianamente, e spesso anche due volte al giorno, alle donne che gestiscono la vendita al minuto di queste derrate. Perché i registri notarili non lasciano alcun dubbio sul fatto che nella Roma dell’epoca, un po’ come nella Parigi di Balzac, sono donne a tenere i banchi di vendita dei prodotti dell’allevamento. Ogni anno, all’inizio dello svernamento, queste commercianti, dotate talvolta di notevoli disponibilità finanziarie, acquistano in anticipo la produzione lattea di un certo numero di pecore, produzione che l’allevatore si impegna a consegnare in città secondo cadenze che tengono conto delle abitudini alimentari dei Romani e del calendario religioso: i contratti notarili, che ci rivelano queste usanze, prevedono, per esempio, che fino a Carnevale l’allevatore farà portare alla pizzicagnola burro e latte la mattina e formaggio la sera, formaggio mattina e sera durante il periodo della Quaresima, latte la mattina e formaggio la sera dopo Pasqua. Incaricati della consegna sono butteri e bagaglioni, i quali spesso si servono di una «gabbia», alta carretta tirata da tre animali che serve a trasportare tutti i prodotti della masseria e quindi, oltre a formaggi e latticini, anche lana, abbacchi, pellami, ecc. Insieme al capannaro, addetto alla lavorazione del legno e alla costruzione di capanne, stalle e recinti, butteri e bagaglioni costituiscono la terza categoria del personale indispensabi-

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Dossier I burons dell’Alvernia

Quasi come un villaggio Oggi molto simili alle malghe dei Monti Lessini, i burons utilizzati in estate dai pastori dell’Alvernia, in Francia, offrivano fino a tutto il XVIII secolo una fisionomia del tutto diversa. Si trattava infatti di edifici sotterranei, talvolta costituiti da piú locali, prolungati e chiusi da muri a

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secco. Abbinati a un orto e a un parco per il bestiame, i burons erano collocati a poca distanza gli uni dagli altri, come se i pastori avessero voluto riprodurre la struttura del villaggio di origine. Sebbene la loro costruzione richiedesse un notevole dispendio di energia, ciascun pastore

aveva a sua disposizione tutta una serie di rifugi di questo tipo, nei quali si spostava nel corso della stessa stagione, cosí da poter affumicare, servendosi dello sterco del bestiame, intorno a ogni buron, una parcella di terra destinata a produrre fieno per i mesi invernali.

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In alto un pascolo d’altura nell’area del Monte Baldo, gruppo montuoso delle Prealpi Venete, tra il lago di Garda e la val Lagarina. A sinistra, sulle due pagine un buron a SaintPaul-de-Salers (Cantal, Alvernia, Francia).

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le al buon funzionamento di una masseria di ampie dimensioni. A eccezione del vergaro, che dispone del proprio alloggio, tutti i lavoranti della masseria dormono all’interno della grande capanna che funge da ricovero, cucina e laboratorio per la fabbricazione del formaggio.

Cuccette a piú piani

Nelle masserie piú grandi, poteva essere necessario costruire piú capanne, tutte comunque di forma circolare e coperte dallo stesso tetto di paglia e di frasche. Per la loro collocazione, veniva scelto un terreno asciutto e in pendio in modo da favorire lo scolo delle acque, il che non era di certo sufficiente a garantire ai pastori condizioni di igiene accettabili. Il personale dormiva su cuccette «a castello», a due o tre piani, le «rapazzole», addossate alle pareti e ricoperte, a mo’ di materasso, di un strato di felci.

Prendeva in comune i due pasti principali della giornata, la mattina e la sera dopo la munta, pasti invariabilmente costituiti da un solo piatto caldo, di solito una zuppa o una minestra, seguito da pane e da ricotta, ottenuta dal caciaro con il residuo della pasta casearia portata ad alta temperatura. C’erano, per fortuna, a intervalli regolari, ricorrenze della vita pastorale che venivano a spezzare la monotonia e povertà di questo tipo di alimentazione: per esempio, il momento della tosatura, eseguita in aprile da una manodopera esterna alla masseria, oppure quello della sfigliatura e della sbacchiatura, operazioni che si ripetevano varie volte durante il periodo invernale e fornivano ai pastori l’occasione di fare bisboccia, in particolare di rimpinzarsi di carne assaporando alcune delle loro ricette piú gustose, come la pecora in umido. V

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storie san francesco in laguna

A Venezia, sulle orme di

di Debora Gusson

Francesco

Secondo la tradizione, il santo di Assisi, di ritorno dall’Egitto, dove aveva incontrato il sultano al-Malik al-Kamil, si fermò su un’isoletta della Laguna, che, in ricordo di quel passaggio, ha assunto il nome di San Francesco del Deserto. Da quel luogo, colmo di pace e spiritualità, parte un viaggio ideale sulle tracce del futuro patrono d’Italia nell’area veneziana


I

n un episodio riferito da Bonaventura da Bagnoregio nella sua Legenda Maior (la biografia ufficiale di san Francesco d’Assisi, scritta su incarico dell’Ordine dei Frati Minori, n.d.r.) – ripreso e diffuso da Andrea Dandolo nella sua Cronaca – si narra di come san Francesco giunse su un’isola della laguna di Venezia nel 1220, mentre era di ritorno dalla quinta crociata. Era alla ricerca di un luogo tranquillo in cui sostare e godere della pace necessaria per potersi

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raccogliere in preghiera. A poca distanza dall’affollata e operosa Burano, si trovava un’isola pressoché disabitata – oggi nota come San Francesco del Deserto – , dove, come racconta Bonaventura, Francesco venne accolto dal canto di una moltitudine di uccelli. Vuole una leggenda che poi, prima di ripartire, il futuro santo avesse piantato qui il suo bastone da viaggio, che si sarebbe miracolosamente tramutato in un pino. Con il tempo, l’albero, che si tro-

vava nel giardino del convento, si seccò e oggi, nel punto esatto in cui si trovava, è visibile un’edicola in cui ne sono conservati alcuni resti (vedi foto a p. 89). Poco dopo la morte di Francesco, avvenuta ad Assisi nel 1226, il patrizio Jacopo Michiel, proprietaPanoramica aerea di San Francesco del Deserto, l’isola della Laguna di Venezia nella quale san Francesco avrebbe fatto tappa sulla strada del ritorno dalla quinta crociata, nel 1220.

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storie san francesco in laguna

rio dell’isola, fece erigere una chiesa in onore del santo e, nel 1233, la donò ai Frati Minori Francescani del convento dei Frari di Venezia, che vi edificarono il monastero. A partire dal 1420, l’isola rimase abbandonata per alcuni decenni e pare sia proprio a questo periodo che si può ricondurre la denominazione «del Deserto». Nei secoli successivi fu abitata sia dai frati francescani che da religiosi di altri ordini, ma, nel 1806, con l’avvento di Napoleone, fu depredata e trasformata in deposito di armi. Nel 1858, venne donata al Patriarcato di Venezia, che consentí ai Minori di rifondarvi il monastero. Qui, tutt’oggi, risiede una piccola comunità di frati che, oltre alle attività religiose, coltivano la terra e allevano alcuni animali. Vi si respira un’atmosfera rara,

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di pace, tra il silenzio della Laguna Nord e il rumore delle onde: uno scrigno, nel quale sembra che il tempo si sia fermato, come in un luogo incantato.

Da vigna a convento

L’isola non è il solo luogo dedicato a san Francesco che possiamo trovare in Laguna: un altro sito altrettanto magico, ricco di storia e di fascino, si trova proprio a Venezia, nel sestiere di Castello: si tratta dell’area in cui sorge S. Francesco della Vigna, rimasta per secoli disabitata e coltivata a vigna, da cui il nome (vedi foto in alto e sulle due pagine). Il terreno venne donato nel 1253 da Marco Ziani ai Frati Minori di san Francesco, affinché potessero costruirvi il loro convento. Il monastero e la chiesa vennero fondati nel 1253 e, fino alla ottobre

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Sulle due pagine immagini del complesso di S. Francesco della Vigna, con la chiesa, il campanile, il convento e gli orti.

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storie san francesco in laguna

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metà del Trecento, erano entrambi dedicati a san Marco. Leggenda vuole, infatti, che proprio qui l’evangelista, in viaggio di ritorno da Aquileia, fosse stato sorpreso da una tempesta e avesse trovato riparo. Gli sarebbe allora apparso l’angelo, predicendo a Marco che il suo corpo, dopo la morte, avrebbe trovato riposo proprio su quelle isole. E ancora oggi, ai piedi del campanile, nell’aerea del patronato, si erge una cappella nascosta e quasi dimenticata: è dedicata a san Marco e a ricordo del suo primo passaggio in laguna. Solo successivamente il complesso assunse il titolo di san Francesco: risale a tale epoca la chiesa gotica delineata da Jacopo de Barbari nella sua pianta di Venezia del 1500. La chiesa venne riedificata dapprima nel 1534, per iniziativa del doge Andrea Gritti, su disegno di Jacopo Sansovino, e poi, nel 1564, l’architetto Andrea Palladio ne realizzò la facciata. Nel 1810, al tempo delle soppressioni napoleoniche, il convento divenne una caserma della Marina e poi, sotto l’Austria, d’artiglieria. In questo periodo molti locali furono demoliti e vennero murate le colonne a tramontana del grande chiostro. Il convento venne riacquistato nel 1881, ma solo negli anni 1953-1956 furono effettuati importanti interventi di restauro: venne demolita la loggia esterna, scoperte tutte le colonne murate nei due lati del grande chiostro, rinnovate le pareti corrose dalla salsedine, rinfrescate le travature annerite dal tempo e demolite altre costruzioni minori. Dal 1989 il convento di S. Francesco della Vigna è sede dell’Istituto di Studi Ecumenici, sorto a Verona nel 1981, e comprende una magnifica biblioteca nella quale, dal 2008, sono confluiti i fondi di quella che si trovava nel convento di S. Michele in Isola, con l’ultima copia rimasta del primo Corano

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L’edicola del convento di S. Francesco del Deserto nella quale si conserva un tronco, che, secondo la leggenda, sarebbe ciò che resta del pino cresciuto nel punto in cui Francesco aveva piantato il suo bastone. Nella pagina accanto la facciata della basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari.

stampato in arabo a Venezia. Attualmente vi si conservano circa duecentomila tomi, quarantacinquemila dei quali sono volumi antichi, provenienti da undici fondi di vari conventi soppressi.

Il primo insediamento

È interessante constatare come l’avvento dell’Ordine Francescano in Laguna non sia stato determinato dal passaggio dell’Assisiate, per il quale, in realtà, si hanno pochissime notizie, tanto da poter essere ritenuto probabile, ma non certo. Verosimilmente, i Frati Minori cominciarono a insediarsi nel centro di Rialto, presso qualche chiesa o sistemazione occasionale, occupandosi di apostolato e vivendo di elemosine e di lavori manuali. Intorno agli anni Trenta del XIII

secolo, invece, la loro presenza risultava stabile ed è attestata da alcuni testamenti, tra cui quello di Pietro Ziani (42° doge di Venezia e padre del già citato Marco Ziani). Nel marzo 1233, come già accennato, ai Minori veniva donata l’isola di San Francesco del Deserto, e, un anno piú tardi, grazie alla donazione di Giovanni Badoer di S. Giacomo dell’Orio, essi poterono stabilirsi su di un terreno comprendente un edificio con una piccola chiesa, nella contrada di San Tomà. Da qui iniziarono a espandersi nell’area attigua, acquistando altri immobili: oggi in questa zona sorge la basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari (vedi foto a p. 88). Nel 1330 ebbe inizio la ricostruzione della chiesa precedente, per aumentarne (segue a p. 92)

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storie san francesco in laguna Polittico dell’Incoronazione della Vergine, tempera e oro su tavola di Paolo Veneziano. Ante 1349. Venezia, Gallerie dell’Accademia. Nella parte superiore quattro momenti della vita di san Francesco: a sinistra, Vestizione di santa Chiara e San Francesco che rende gli abiti al padre; a destra, Stimmate di san Francesco e Morte di san Francesco.

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storie san francesco in laguna Specchiatura di un pozzo decorata con l’immagine di san Francesco che riceve le stimmate. XVI sec.

la capienza, che fu consacrata nel 1492. Purtroppo, le prime notizie riguardanti questo insediamento non ci giungono da documenti originali, bensí da alcune cronache (in particolare quelle di Andrea Dandolo e Marin Sanudo), in quanto un devastante incendio, nel 1369, colpí il convento, distruggendo molti manoscritti e documenti, tra cui quelli riguardanti i primi anni di vita del complesso. Dal 1255, in questo luogo, il culto francescano è documentato nella chiesa dei Frari; nel 1475 si stabiliva in Senato che il 4 ottobre fosse Festa di Palazzo, con proibi-

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zione di lavorare. Il culto per san Francesco proseguí, trovando terreno fertile, tanto che l’Assisiate entrò a far parte dei santi protettori della città di Venezia in occasione delle vicende di Candia, nel 1648.

Immagini rare

Poche sono le raffigurazioni di san Francesco in ambito lagunare: la storia della prima iconografia francescana raramente fa riferimento a Venezia, e ruota soprattutto intorno alla Toscana e all’Umbria, da dove il culto del santo si diffuse. Esiste un mosaico rappresentante Francesco anche nella basi-

lica di S. Marco, tradizionalmente datato intorno al 1250, ma che, su basi iconografiche, può essere considerato piú tardo: il santo reca infatti una croce, elemento che fa la sua comparsa dopo questa data, appunto, proprio ad Assisi. A parte questa immagine musiva, poco si conosce dell’iconografia francescana a Venezia, prima della comparsa del Polittico dell’Incoronazione della Vergine che Paolo Veneziano realizzò nel 1350 per la chiesa di S. Chiara (vedi foto alle pp. 90/91). Ricordiamo l’esistenza di sette tavole, provenienti da Venezia o di influenza stilistica veneottobre

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ziana, che rappresentano l’episodio delle stimmate. Esse costituiscono un capitolo molto importante dell’iconografia francescana e, dalla presenza di particolari comuni, si può pensare a un prototipo piú antico che dovette costituire, almeno per un secolo, il riferimento per artisti veneziani e veneti.

La versione di Paolo

Non si conosce l’evolversi dell’iconografia delle stimmate a Venezia prima degli affreschi della Chiesa Superiore della basilica di Assisi, ma si può dimostrare che, subito dopo, i pittori veneziani elaborarono una loro interpretazione dell’episodio, aggiungendo anche elementi quali i raggi che uniscono le stimmate a Cristo, per esempio. L’episodio piú famoso della tradizione veneziana è quello che compare nel già citato polittico di Paolo Veneziano, nel quale l’iconografia rispecchia quella classica, con il santo inginocchiato, in posizione orante e senza barba, con i sandali e i segni delle stimmate ben visibili. Le raffigurazioni restarono quasi invariate nel tempo, con scene classiche dell’agiografia del santo: Francesco, vestito con il tipico saio, che parla agli uccelli immerso nella natura, accompagnato talvolta da un lupo. Tratto distintivo nella raffigurazione rimase l’episodio che lo ritrae mentre prende le stimmate, inginocchiato con lo sguardo rivolto verso l’alto. La fonte agiografica che ispira l’episodio delle stimmate di san Francesco è, con ogni probabilità, l’inno di Tommaso da Celano Sanctitatis Nova Signa, in cui è colto mentre prega sul Monte La Verna, davanti a una grotta. Ritroviamo questa iconografia inalterata nel tempo, come dimostra la specchiatura di un pozzo cinquecentesco, decorata con quest’immagine, che si trova a pochi passi da S. Francesco della Vigna (vedi foto a p. 92). Il santo del bassorilievo veneziano è genufles-

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Da leggere Federica Benetti, La biblioteca francescana di San Michele in Isola e le sue biblioteche (1829-2008), Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2013 Marcello Brusegan, Le chiese di Venezia: storia, arte, segreti, leggenda, curiosità, Newton Compton, 2007. William R. Cook, La rappresentazione delle stimmate di San Francesco nella pittura veneziana del Trecento, in Saggi e Memorie di Storia dell’arte, vol. 20, 1996; pp. 7–34 Maria Malvina Borgherini, Emanuele Garbin, Architettura delle facciate: le chiese di Palladio a Venezia: nuovi rilievi, storia, materiali, in Carmine Gambardella, Le vie dei mercanti: rappresentare la conoscenza, La scuola di Pitagora, Napoli 2010; pp. 47-54 Silvano Onda, La chiesa di San Francesco della Vigna: guida artistica, Parrocchia di San Francesco della Vigna, Venezia 2003 Riccardo Roiter Rigoni e Debora Gusson, Venezia vista dal cielo, Edizioni Jonglez Versailles 2022 Fernanda Sorelli, Gli ordini mendicanti, in Giorgio Cracco, Gherardo Ortalli, Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, vol. 2, Istituto della Enciclopedia Italiana Roma 1995 https://www.bibliotecasanfrancescodellavigna.it Un’altra raffigurazione dell’episodio delle stimmate, su una lastra in pietra d’Istria in Fondamenta San Gioachin, nel sestiere di Castello.

so su una sola gamba, con le braccia aperte, in posizione orante; ben visibile la cintura di corda con i tre

nodi, il cingolo, tipici dell’Ordine francescano, rimando ai tre voti di obbedienza, povertà e castità.

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dei colli del Tortonese venne reso da uno dei suoi figli piú noti, il pittore Giuseppe Pellizza. Ma, prima di lui, Volpedo e i borghi vicini videro all’opera artisti e architetti ai quali si devono piccoli scrigni di bellezza

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a Via dei Malaspina che, dedicata ai signori dell’Appennino ligureemiliano, collega la città di Tortona a Bobbio, costituisce un interessante percorso di raccordo alla direttrice del Cammino di San Michele. Il tracciato si sviluppa nelle colline del Tortonese (Alessandria), lungo la Strada dei vigneti, dal 2016 riconosciuta Patrimonio UNESCO, e tocca i tre graziosi borghi di Viguzzolo, Monleale e Volpedo. Ad accompagnarci nel cammino incontriamo: pievi millenarie, simbolo della nascita di nuovi liberi centri rurali sostituitisi a vecchie corti feudali, paesaggi immortalati

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ITINERARI • L’incanto

Ses

Tesori nascosti fra le vigne

Novara Vercelli Torino Alessandria Carmagnola Bra Cuneo

Milano

Monleale

Viguzzolo Volpedo

Mondoví

MAR LIGURE

In alto una cappelletta nei pressi di Monleale (Alessandria), lungo il percorso della Via dei Malaspina, che collega Tortona a Bobbio. Sulla destra, il segnavia composto da due strisce accostate, una bianca e l’altra rossa.

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dall’artista Giuseppe Pellizza da Volpedo e morbidi colli vitati. La prima tappa è la pieve di S. Maria a Viguzzolo. Innalzata nel Mille vicino al torrente Grue, in posizione isolata rispetto all’abitato, ora si trova a fianco della Provinciale, accanto a un comodo parcheggio. All’esterno la navata centrale, sottolineata da bassi spioventi laterali e da alcune pietre lavorate, domina la facciata.

Qui sotto una veduta esterna della pieve romanica di S. Maria a Viguzzolo. In basso gli affreschi del catino absidale della pieve di S. Pietro Apostolo a Volpedo.

La statua che annuisce All’interno catturano l’attenzione i lacerti di un affresco del XI secolo, probabilmente un Cristo Pantocratore con ai lati i santi Cosma e Damiano, nel catino absidale, e un Cristo in Croce sopra l’altare. Databile alla metà del Cinquecento, la scultura policroma fu realizzata per terrorizzare e condannare a terribili torture le vittime dei processi avviati dal tribunale dell’Inquisizione, che a Viguzzolo aveva una sede. La statua è curiosa, in quanto il capo, ruotando su un perno di legno infisso nel collo, si muove dall’alto al basso simulando un cenno di assenso. Lo snodo dell’articolazione era in origine mascherato da barba e capelli veri. Una scaletta conduce alla cripta a sala. Forse costruita dopo la pieve, essa risulta divisa in tre navate con quattro campate di ampiezza diversa, sormontate da volte a crociera sostenute da colonnine in pietra con capitelli cubici ad angoli smussati di tipo prelombardo, risalenti ai primi decenni del Mille. Lasciata Viguzzolo il sentiero s’inoltra in un susseguirsi di vigne e raggiunge Monleale. Questa Città del Vino è conosciuta per la produzione del Timorasso Colli Tortonesi, da marzo 2022 denominato Derthona, un bianco autoctono che, prodotto nel Medioevo e poi dimenticato, è stato recentemente recuperato grazie a un manipolo di intraprendenti vignaioli.

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Dediche scritte nella pietra Nella pieve di Viguzzolo, tra la penultima e l’ultima arcata della nave centrale, si possono vedere due epigrafi, murate simmetricamente. Quella a sinistra è un’iscrizione sepolcrale cristiana (VII-VIII secolo), forse posta per volontà del notaio Rikezo vicino a un piccolo monumento, eretto in onore della Vergine per suffragare i defunti Leo Ligalupo e il figlio Joseph. Quella a destra (risalente alla seconda metà del III secolo) è invece la dedica che una madre rivolge a uno o due figli, collocata nel luogo di culto, probabilmente a testimoniare la continuità di sacralità del posto. Infatti è possibile ipotizzare in quest’area la presenza di un precedente sepolcreto romano, sul quale venne poi edificato il tempietto precedente l’attuale. Nella chiesa, oltre alle epigrafi, si osservano anche capitelli e frammenti scultorei di reimpiego, scolpiti in pietra grigia e decorati con elementi vegetali, spirali e volute.

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Cristo in Croce, scultura in legno policromo collocata sopra l’altare della pieve di S. Maria a Viguzzolo. Al pari di Viguzzolo, anche Volpedo, segnalato tra i Borghi più belli d’Italia, vanta una bella pieve romanica. Dedicata a san Pietro Apostolo, questa architettura, eretta in due distinte fasi, una risalente alla metà del X secolo e l’altra alla fine del Trecento, è ornata da un ricco apparato pittorico, realizzato tra il Trecento e l’inizio del Cinquecento. Artefice, nella metà del Quattrocento, delle pitture a fresco nel catino absidale fu l’artista designato come Maestro di Sant’Antonio, che a Volpedo portò all’estrema semplificazione i moduli stilistici degli affreschi dipinti nell’abside dell’abbazia di S.

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Giustina di Sezzadio (Alessandria). A questo frescante spetta il merito di aver dipinto l’immagine di San Michele, scelta come simbolo della Via dei Malaspina (vedi foto in questa pagina, a destra). L’arcangelo è collocato a destra del Cristo Giudice, mentre a sinistra si nota la Vergine. Un’associazione alquanto insolita quella della Madonna e di san Michele e che, di certo ripresa da un modello e adattata al catino absidale di Volpedo senza alcuna mediazione, ha come riferimento il trittichetto, firmato da Jacopino Cietario e datato 1460, nel quale compaiono, negli sportelli laterali, le figure della Vergine e di san Michele. Chiara Parente

San Michele Arcangelo, affresco assegnato al cosiddetto Maestro di Sant’Antonio. Volpedo, pieve di S. Pietro.

Dove e quando Quando le stagioni consigliate sono la primavera e l’autunno Quanto il percorso è di 8 km circa e si può compiere in 3 ore circa, fra andata e ritorno Segnaletica CAI 101, due strisce orizzontali accostate, una bianca e una rossa Come a piedi, a cavallo e in trekking-nordic walking. È consigliabile portare con sé una scorta d’acqua ottobre

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Matrimonio con mistero ARALDICA • L’analisi di un pregevole fondo oro di Nicolò Gerini che qui

presentiamo offre lo spunto per una nuova «inchiesta» sulla possibile identità dei personaggi per i quali l’opera venne realizzata. Almeno uno dei quali dovette appartenere alla antica e nobile casata fiorentina dei Rucellai

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assano di tanto in tanto sul mercato dell’arte opere i cui stemmi sono facilmente riconoscibili anche a chi non abbia un’approfondita conoscenza dell’araldica, per esser state le famiglie che li portano celebri per straordinarie committenze. Fra i piú celebri campioni in questo campo, vi è la famiglia fiorentina

stato consacrato alla storia dell’arte, ed è divenuto celebre nel mondo, per avere incaricato Leon Battista Alberti di progettare, sul sedime delle case familiari con affaccio sull’attuale via della Vigna Nuova, il palazzo e la loggia gentilizi, decorandoli con la celebre impresa della Vela, oltre che con il blasone avito. Giovanni di

Nella pagina accanto Maestà con angeli e Santi, tempera e oro su tavola di Niccolò di Pietro Gerini. 1390-1395 circa. In basso l’impresa della Vela come raffigurata sulla facciata della basilica fiorentina di S. Maria Novella realizzata su progetto di Leon Battista Alberti. Le imprese sono emblemi, personali o ereditari, utilizzati in aggiunta, ma non in alternativa, allo stemma gentilizio.

dei Rucellai, probabilmente originaria di Campi e la cui genealogia documentata rimonta al Duecento, verosimilmente in rapporto con que’ da Figline (come indurrebbe a credere l’affinità araldica: questi ultimi forse in rapporto genealogico coi potenti domini loci Figuineldi?). Di parte guelfa, i Rucellai aumentarono esponenzialmente le proprie fortune già nel Trecento grazie al commercio dei tessuti, alla grande mercatura e alla banca, al pari di molte altre piú o meno antiche schiatte concittadine, dando ben 86 priori e 13 gonfalonieri di giustizia alla repubblica fra il 1302 e il 1531. Il loro nome, tuttavia, è senz’altro

Paolo Rucellai riuscí a far apporre detta impresa anche in altre due celebri architetture albertiane: non solo sul proprio sepolcro gentilizio – che rievocava, sia pure in miniatura, la foggia del Santo Sepolcro di Gerusalemme nella chiesa di S. Pancrazio, accanto al suddetto palazzo di famiglia –, ma addirittura sulla facciata della basilica di S. Maria Novella. Qui, in maniera altrettanto inconsueta, trattandosi di un edificio religioso di fondazione pubblica, un’iscrizione lo ricorda per sempre: IOHA(N)NES ORICELLARIVS PAV(LI) F(ILIVS) AN(NO) SAL(VTIS) MCDLXX. Fu suo figlio (e di Jacopa di Palla Strozzi, della potente schiatta

antimedicea) l’umanista Bernardo, animatore dell’Accademia Platonica nei propri Orti Oricellari, che impalmò niente meno che Nonnina di Cosimo Medici.

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Quelli del colore viola Secondo la tradizione, il gentilizio Rucellai – de Rucellais, de Oricellariis: che si stabilizza tuttavia solo verso la metà del Trecento, essendo in precedenza i membri della famiglia, anche annoverati fra i Priori, designati con patronimici (cosí per esempio Naddo di Giunta nel 1302 e Cardinale di messer – dunque un miles adobatus – Alberto nel 1303) – deriverebbe dall’oricello, ossia dalla tintura violacea ottenuta per ottobre

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precipitazione attivata dall’orina di cavallo dal lichene Roccella tinctoria, usata appunto nell’industria tintoria locale e che, non a caso, ancora contraddistingue la maglia della squadra calcistica della Fiorentina. Si vuole che lo scopritore di detto procedimento sia stato un membro del casato – solitamente identificato in un Alamanno, vissuto nella seconda metà del Duecento –, il quale, trovandosi nelle Isole Baleari e orinando sul suddetto lichene, ne notò il viramento violaceo, intuendone le grandi potenzialità.

Turbanti e maioliche Tuttavia, questa narrazione dai toni leggendari adombrerebbe, a mio avviso, la probabile origine di tale procedimento dal continente africano (si pensi all’analogo processo con cui si ricava l’indaco con cui i Tuareg ancora tingono i propri tipici turbanti-velo, tagelmust): prima di divenire regno di un ramo cadetto della casa aragonese, le Baleari furono infatti in potere di una dinastia berbera mussulmana, gli Almohadi, che ne furono definitivamente scacciati nel 1231 (per quanto vi permangano tuttora isole linguistiche arabe). È evidente un’analoga origine per alcuni procedimenti di vetrificazione della maiolica, che non a caso trae il proprio nome dall’isola di Maiorca (Medina Mayurqua).

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CALEIDO SCOPIO A sinistra lo stemma Rucellai originario come raffigurato da Vincenzo Borghini in Dell’arme delle famiglie fiorentine (Discorsi, Firenze 1755, p. 62). A destra lo stemma Rucellai dipinto sulla predella della Maestà di Niccolò di Pietro Gerini (vedi foto a p. 99).

In alto stemma di quei da Figline, verosimilmente affini a Rucellai, Busini e Franceschi, in Ms. Cappugi 579. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. A destra lo stemma Rucellai come raffigurato nel seicentesco Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo (Milano 2005).

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Lo stemma da identificare dipinto sulla predella della Maestà di Niccolò di Pietro Gerini (vedi foto a p. 99). In basso, a sinistra stemma Franceschi, per l’affinità araldica, anch’essi probabili consorti dei Rucellai (Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo, p. 860). In basso a destra stemma Busini, che l’araldica lascia sospettare consorti dei Rucellai (Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo, p. 349).

Una tradizione araldica, raccolta anche da Luigi Passerini nel volumetto dedicato alla casata (Genealogia e storia della famiglia Rucellai, Firenze 1861), spiega invece la brisura che caratterizza la piú celebre arme portata tuttora dai Rucellai, ovvero quella che brisa il fasciato-increspato d’azzurro e d’oro ponendo nel primo campo (il superiore) di un trinciato un leone d’argento in campo rosso, identico a quello del Popolo senese: si vuole che un Berlinghieri/Bingeri di questa casata abbia ottenuto tale concessione onorifica nel 1318 per i servigi resi a Siena. Quest’ultima arme campeggia, ben riconoscibile, sulla sinistra della predella che raffigura la deposizione di Cristo ai piedi della Croce, di una Maestà con angeli e Santi, dipinto a tempera su fondo oro venduto pochi anni addietro da Sotheby’s (asta New York, 30 gennaio 2020, lotto 6, stimato $ 400-600 000, aggiudicato per $ 1 220 000), opera del prolifico e longevo giottesco fiorentino Niccolò Gerini, attivo fra il 1360 e il 1415 circa, presumibilmente databile agli anni 1390-95 (vedi foto a p. 99).

Un maestro di buone maniere La scheda che accompagna il lotto nel catalogo della vendita all’asta ipotizza invece che lo stemma sulla destra della suddetta predella sia attribuibile ad altra famiglia fiorentina, che si suggerisce possa essere quella dei Della Casa – la famiglia del noto monsignore autore del Galateo –, ovvero dei Bindi – famiglia perlomeno omonima della madre del pittore, che nacque da Niccolò e Giovanna di Agnolo Bindi – o dei Panuzzi. Ciò che non può esser messo in dubbio, tuttavia, è che i due stemmi nei cantoni inferiori dell’elaborata cornice raffigurino – in questo esatto ordine, secondo la consuetudine araldica ben nota e rigidamente osservata – le

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armi gentilizie di marito e moglie: permettendo cosí d’identificare, con gli stemmi, le famiglie degli sposi, e, ove noto o con ricerche d’archivio conoscibile, il termine post quem per l’opera, generalmente non troppo distante dalla data degli sponsali, come intuitivo. Altrettanto

intuitivo è afferrare l’importanza di tali elementi per confortare l’attribuzione a uno specifico artista di un’opera anonima, e per collocarla all’interno del suo percorso artstico. Cerchiamo ora di capire se queste tre famiglie suggerite dalla suddetta

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CALEIDO SCOPIO A sinistra lo stemma Palmieri come raffigurato nel cinquecentesco Priorista Fiorentino Orsini De Marzo (Milano 2010, c. 101r). In basso lo stemma Della Casa come raffigurato nello Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo (Milano 2005, p. 696).

scheda di catalogo Sotheby’s abbiano qualche possibilità di aver dato i natali alla moglie di questo – per ora ancora incognito – gentiluomo di Casa Rucellai. Circa i Della Casa, in realtà, è esistito addirittura un ramo dei Rucellai, estinto nel 1623, che assunse per successione femminile anche il loro gentilizio: esso discendeva da un figlio naturale, Luigi Rucellai, e da Dianora, sorella proprio del succitato Monsignor Della Casa.

Matrimoni d’interesse Ma costui morí – fatto decapitare da Cosimo Medici – nel 1537, e dunque non è certo a questa coppia che possono riferirsi gli stemmi matrimoniali che decorano la ricca carpenteria della Maestà venduta da Sotheby’s (salvo un assai tardivo e perciò improbabile riciclo araldico). Per quanto le genealogie compilate dal Passerini non riportino un matrimonio Rucellai-Della Casa alla fine del Trecento, il rango dei Nobiles de la Casa mugellani sarebbe stato compatibile, da un punto di vista socio-economico, per giustificare un’alleanza matrimoniale fra le casate. Notiamo tuttavia che il campo dello scudo che adorna la carpenteria della nostra Maestà è d’oro, e non d’argento come

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solitamente è quello dell’arme dei Della Casa: brisura? Successiva ridoratura della cornice in seguito all’ossidazione dell’argento? È un’ipotesi che andrebbe verificata con puntuali esami diagnostici del manufatto. Tale ipotesi appare tuttavia, se non quella corretta, sustanziata da un minimo di fumus, e tuttavia da confermare con ulteriori approfondimenti. Relativamente ai Panuzzi, essi parrebbero di un profilo sociale

alquanto inferiore alla famiglia dello sposo – erano iscritti all’Arte minore dei Rigattieri -, e solitamente è piú probabile imbattersi in legami ipergamici per i membri maschili di un casato, che tendevano cioè a sposare donne di famiglie di condizione socioeconomica, se possibile, superiore alla propria: soprattutto, come nel caso dei Rucellai, nel caso di stirpi in traiettoria ascendente, e non in decadenza. A parte ogni ottobre

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considerazione prettamente araldica, mi pare inverosimile che un Rucellai, per quanto di un ramo minore o naturale, possa esser incorso in una siffatta mésalliance: erano altri tempi, e neppure l’amore – o perlomeno quello coniugale… – era lasciato al caso…

Gli alberi sui monti Circa i Bindi, la famiglia che appare alzare un’arme accampante un albero sostenuto da sei monti all’italiana parrebbe comparire sul proscenio araldico fiorentino (Quartiere San Giovanni, Gonfalone Lion d’Oro) solo in epoca posteriore, forse rampollatta dai Bindi di Giunta (Giunta Bindi), che portavano tuttavia nell’arme una testa di cinghiale. Altre casate fiorentine, oltre ai succitati, portavano un albero come quello descritto sopra: per esempio i Cini di Mattio e i Dal Borgo, che portavano arme identica, tuttavia in campo azzurro; non però i Puccini corazzai, il cui albero rampolla da un tronco stroncato a colpi d’azza, né i D’Altomena, il cui albero è sorretto sí da un monte all’italiana, ma composto variabilmente, ma sempre, di piú di sei poggi. Se però ci allontaniamo da Firenze, e, per esempio, cerchiamo fra le famiglie pistoiesi, ne troviamo ben tre «papabili», con simile mobile: in campo d’argento, i Biagi e i Pinamonti (quest’ultima evidente arma parlante, e forse i primi ramo dei secondi), e in campo di rosso, i Peraccini. Un bel rebus, in poche parole! Vediamo quindi come, senza certezze sui dati araldici (il colore del campo originario e gli smalti prima del processo ossidativo dei metalli e degenerativo dei colori) e senza evidenze matrimoniali fornite dalla genealogia, la prudenza consigli di sospendere il giudizio. Esiste poi anche la possibilità che gli stemmi siano andati soggetti a quello che mi piace chiamare riciclo araldico (si veda il mio articolo

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Lo stemma dei nobili Rossi di Pistoia come raffigurato nel seicentesco Stemmario Orsini De Marzo del Regno di Napoli (Milano 2014, p. 173).

Matrimoni con riciclo, in «Medioevo» n. 227 dicembre 2015; on line su issuu.com): ossia che gli stessi siano stati «aggiornati» in base a successivi matrimoni o passaggi di proprietà dei manufatti.

Date compatibili Se tuttavia dovessi avanzare per forza un’ipotesi in base ai dati noti, non mi dispiacerebbe ipotizzare che possa trattarsi della coppia formata da Jacopo († 1417) di Giovanni del sullodato Berlinghieri/Bingeri e dalla seconda moglie Gemma di ser (probabilmente un notaio, all’uso fiorentino) Lapo Palmieri, sposatisi, giusta le tavole genealogiche compilate dal Passerini, nel 1400: una data non in contrasto con la cronologia ipotizzata per il dipinto di cui si tratta. Piuttosto che un olivo, qual è l’albero dei Della Casa

secondo lo stemmario compilato da Bernardo Benvenuti e da me edito nel 2005 (Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo, p. 696), o un gelso, quale sempre per il suddetto è quello dei Panuzzi (ibidem, p. 744), infatti, l’albero che rampolla dai sei monti all’italiana del nostro stemma parrebbe piuttosto una palma. Potrebbe quindi in tal caso, e facilmente, essere un’arma parlante: che possa poi trattarsi di una variante dell’arme nota di quei Palmieri che discendono dal priore (1318) Maffio, d’Oltrarno, ed ebbero un secondo priore nella persona del vasaio Simone di Palmiere (1362), inurbato in Santo Spirito, è tutto da vedere, e la modestia di tal casato deporrebbe contra; essi sono usualmente presenti nei prioristi con uno stemma che accampa, in

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CALEIDO SCOPIO Ritratto di Maria Albertina de’ Rossi (di Pistoia) nata Rucellai, olio su tela. Fine del XIX sec. In alto, a destra, compaiono gli stemmi dei coniugi, per errore invertiti. Nella pagina accanto ritratto fotografico della medesima Maria Albertina de’ Rossi nata Rucellai. Firenze, Archivio Rucellai.

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famiglia onde tornasse in mani amiche: gli stemmi accollati che lo decoravano sembravano indicare trattarsi di una gentildonna nata dei nobili Rossi di Pistoia – un cui ramo fiorí anche a Firenze in epoca repubblicana dando, fra il 1462 e il 1524, cinque Priori delle Arti, principiando con l’armaiuolo Matteo di ser Giovanni (dal ramo stabilitosi a Napoli uscí invece Porzia de’ Rossi, la madre del grande Torquato Tasso) – entrata per matrimonio nel ramo comitale ancora sussistente dei Rucellai (vedi foto alla pagina precedente). Ciò beninteso considerando che le regole araldiche fossero state seguite, ponendo a sinistra (destra araldica) lo stemma del marito, e a destra quello natale della moglie.

Tra Firenze e Pistoia

cima a sei monti all’italiana, due rami di palma in decusse: ora, se talvolta in araldica si indica la parte per il tutto, in armi parlanti, è plausibile che possa esser esistita anche una variante con la palma tout court. Ma questa può esser solo un’ulteriore ipotesi, tutta da verificare, e il giudizio rimane sospeso, e de hoc satis.

Errori ed equivoci Se al tempo dell’Ancien Régime (termine con cui si indica quel complesso di strutture sociali e istituzionali messe in crisi in primo luogo dalla Rivoluzione Francese)

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la scienza araldica era patrimonio non solo di ogni gentiluomo, ma anche di ogni artigiano, al suo cessare tale universale competenza venne meno, e si produssero, soprattutto a partire dall’Ottocento, dopo la tabula rasa e la damnatio memoriae rivoluzionaria, vistosi errori araldici, non da tutti facilmente rilevabili, e tali da ingenerare equivoci talvolta grotteschi. Cosí è stato per un bel dipinto tardo-ottocentesco che ritrae una gentildonna, passato qualche anno fa a vilissimo prezzo in una vendita all’asta genovese, e che mi premurai di segnalare alla

Una rapida scorsa alla genealogia di questo ramo di Casa Rucellai, tuttavia, chiarí l’equivoco: era la gentildonna a esser nata nell’antica famiglia fiorentina, e il marito rampollo dell’antica casata pistoiese: si tratta infatti del ritratto di Maria Albertina del conte Giovanni Orazio Rucellai, patrizio fiorentino, andata in isposa il 17 aprile 1871 a Giulio di Girolamo de’ Rossi, patrizio di Pistoia. Se tale errore araldico non ha avuto conseguenze rilevanti, abbiamo verificato (anche) nel precedente articolo (Dietro l’immagine, «Medioevo» n. 332, settembre 2024; on line su issuu.com) come invece talvolta l’erronea – e non infrequentemente tendenziosa – interpretazione di tali dettagli araldici comporti pericolose reazioni a catena, con grottesche conseguenze sull’identificazione di personaggi ritrattati e committenza presunta, giungendo a poter inficiare anche certezze attributive: ma Le temps revient, come recitava la divisa assunta dal Magnifico in occasione della giostra del febbraio 1469, ed è amico della verità. Niccolò Orsini De Marzo

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Quando i santi prendevano le armi

Una spada impossibile da impugnare di Paolo Pinti

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e c’è un santo legato indissolubilmente a un’arma, quello è Galgano: parlare di lui equivale a parlare del Medioevo, di cavalieri, di chiese senza piú il tetto, di leggende affascinanti, di spade... L’argomento è talmente ricco che qui possiamo soltanto offrire qualche spunto per possibili approfondimenti, augurandoci che risulti interessante e che contenga nozioni forse inattese. Pochi non sanno della «spada nella roccia» in terra di Siena e della maestosa chiesa dell’abbazia di S. Galgano, priva di tetto (crollato nel 1786), a Montesiepi, ma forse un percorso attraverso le tante rappresentazioni pittoriche arricchirà le conoscenze di molti. San Galgano, al secolo Galgano Guidotti, nacque quasi certamente nel castello di Chiusdino, in provincia di Siena, tra il 1148 e il 1152 e lí morí nel 1181. Tutto quello che sappiamo di lui santo è stato ricavato dagli atti del suo processo di canonizzazione, trascritti dall’erudito senese Sigismondo Ticci (1458-1528), poi pubblicati da Fedor Schneider agli inizi del XX secolo e quindi da Eugenio Susi nel 2021.

Le parole dei testimoni Alcuni esperti ritengono che questi siano i documenti piú antichi che trattino di una canonizzazione: sono trascritte ben venti deposizioni

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di testimoni che avevano avuto contatti col santo ovvero che erano stati miracolati da lui. Galgano proveniva da una famiglia della piccola nobiltà locale legata al vescovo di Volterra. Conosciamo il nome della madre, Dionigia, ma non è noto quello del padre, Guido o Guidotto, che compare solo nel XIV secolo. Pertanto, il cognome Guidotti è una mera supposizione. Sappiamo che i genitori erano devoti di san Michele Arcangelo

Incontro di san Galgano con l’Arcangelo Michele (particolare), affresco di Ambrogio Lorenzetti. Inizi del XIV sec. Montesiepi, Cappella di S. Michele. L’elsa della spada è, curiosamente, arcuata, a differenza del modello reale, che, in teoria, doveva essere sul posto all’epoca dell’esecuzione dell’affresco: viene perciò spontaneo chiedersi perché l’artista non abbia raffigurato l’arma che aveva a disposizione a pochi metri da lí.

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e si recavano in pellegrinaggio sul Gargano, dove, a Monte Sant’Angelo, si trovava il celebre santuario micaelico che vediamo ancora oggi: pertanto ci si chiede se il nome Galgano non sia una derivazione da Gargano. Come per molti signorotti dell’epoca, Galgano fu destinato al mestiere delle armi, probabilmente al servizio del vescovo di Volterra.

Le apparizioni dell’arcangelo Al pari di altri nobili diventati poi santi, si esagera sulla condotta dissoluta e lussuriosa di questo giovane, in modo da rimarcare maggiormente il cambiamento verso una vita al servizio di Dio, dovuto alla visione dell’arcangelo Michele, che gli apparve in due occasioni, nella seconda delle quali vide anche Gesú, i dodici Apostoli e la Vergine Maria, che lo indussero a intraprendere un’esistenza eremitica. L’inizio della stessa sembra risalente alla vigilia di Natale del 1180, quando vide di nuovo l’Arcangelo che lo condusse sul Monte Siepi, vicino a Chiusdino. Giunto sul monte, Galgano cercò di tagliare del legname con la spada, per farne una croce, ma non vi riuscí. Allora infisse la spada in terra, ottenendo una croce – in terram pro crucem spatam fixit – e del mantello fece un saio, iniziando cosí il suo eremitaggio. Come letto aveva la nuda terra e come cibo le erbe selvatiche che riusciva a trovare sul posto. In breve, acquistò fama di uomo santo e virtuoso, tanto che molti pellegrini si recavano da lui per chiedere miracoli. E di miracoli ne fece molti, come riferirono i testimoni chiamati a deporre nel processo di beatificazione: ne citiamo due davvero singolari. L’arcangelo Michele gli apparve ancora una volta dicendogli di seguirlo fino a Montesiepi, dove vide gli Apostoli che lo accolsero in mezzo a loro e gli porsero un libro aperto affinché

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lo leggesse, dimenticando però che Galgano non sapeva leggere. Per ovviare a questo imbarazzante fatto, apparve la Maestà divina che gli disse in chiare parole che avrebbe dovuto insediarsi in quel posto ed edificare un tempio in onore di Dio, della Madonna e di Michele Arcangelo. L’altro miracolo consiste nell’aver risanato un malato (che aveva, comunque, assunto opportuni farmaci...).

L’oltraggio dei tre «invidiosi» Un giorno, mentre era in pellegrinaggio a Roma, da papa Alessandro III, tre malviventi (definiti «invidiosi») cercarono di estrarre la spada dalla roccia, ma senza riuscirci. Allora la ruppero per

Tavoletta di biccherna raffigurante don Stefano, monaco di S. Galgano, inginocchiato davanti al santo. 1320. Siena, Archivio di Stato. Anche in questo caso, la spada è conficcata su una roccia sporgente ed è tipica del XIV sec. o di epoca anteriore, con l’elsa tozza e robusta, il pomo a disco con al centro incisa una croce, e la lama molto larga con sguscio centrale. oltraggiarla, meritando quindi un castigo divino: uno morí annegato, uno folgorato da un fulmine e l’ultimo azzannato da un lupo, ma si salvò raccomandandosi proprio a Galgano. Galgano fu molto contrariato dalla rottura della spada, ma Dio gli apparve per ben tre volte, invitandolo a infiggerla

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San Galgano, pannello della cosiddetta Arliquiera, armadio che custodiva le reliquie, realizzato da Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta. 1445 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale. nuovamente, perché questa volta sarebbe rimasta conficcata piú saldamente di prima. L’impossibilità di estrarre la spada richiama molto da vicino la piú famosa saga di cui è protagonista re Artú: qui va solo rilevato che si parla sempre di terra («in terram» come riferisce testualmente la madre del Santo: «Evaginatoque ense, cum facere de ligno crucem non valeret, ipsam statim in terram pro cruce spatam fixit…») e la roccia compare solo in questo episodio del tentato furto, in scritti del XIV secolo. Gli

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intrecci con il ciclo arturiano sono davvero molti e molto intriganti, tanto che sull’argomento sono stati scritti centinaia di libri e di saggi, con conclusioni diverse circa l’anteriorità del racconto. Certo, se con «in terram» si fosse voluto intendere terra morbida, come quella di un campo, il cambiamento in roccia potrebbe significare la volontà di emulare la saga arturiana. Ma anche di rendere piú credibile la vicenda del danneggiamento dell’arma e dell’impossibilità della sua estrazione. Galgano costruí un romitorio, dove visse piamente fino alla morte, che lo colse il 30 novembre 1181, a poco meno di un anno dalla conversione. Condusse vita ascetica per un periodo

relativamente breve, dunque, ma ben meritò agli occhi dei fedeli, che lo considerarono un sant’uomo. Su iniziativa del vescovo di Volterra, Ildebrando Pannocchieschi, fra l’agosto e il novembre 1185, fu insediata una commissione pontificia presieduta dal cardinale Corrado di Wittelsbach, con lo scopo di raccogliere le prove di miracoli compiuti dall’eremita.

Un’ipotesi suggestiva Come accennato, si discute da tempo se la spada nella roccia sia antecedente al racconto di quella di re Artú – di certo, Galgano è molto simile a Galvano, nome in forma italianizzata di Gawain, personaggio del ciclo arturiano – che ne sarebbe derivata. E molte ottobre

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La spada di san Galgano conservata nell’Eremo di Montesiepi. Secondo Giorgio Lionello Boccia, si tratta di un prodotto risalente al 1170-1180. Questo parere è importante, poiché conferma che l’arma – come modello – ben sarebbe potuta appartenere a Galgano, il quale l’avrebbe presumibilmente acquistata prima del 1180 (anno della conversione) e che l’avesse da un decennio circa, quando era cavaliere e uomo d’arme, all’età di almeno vent’anni. circostanze potrebbero giustificare questa priorità, ma non è l’aspetto che qui interessa: la bella leggenda senese è impregnata di oplologia (la disciplina che studia le armi antiche) per via dell’importanza della spada che ne è protagonista, ma anche l’iconografia relativa è molto interessante, in quanto permette di osservare varie tipologie di spade, ciascuna delle quali rispecchia l’epoca di esecuzione del dipinto. Una panoramica di modelli di spade che va dagli inizi del XIV a tutto il XVII secolo e che, meglio di mille parole, consente di ripercorrere l’evoluzione dell’arma.

Molteplici ingiurie Va detto che la spada di Montesiepi ha avuto una vita travagliata: dopo essere stata spezzata dai tre «invidiosi» all’epoca di Galgano, fu nuovamente spezzata negli anni Sessanta del secolo scorso da un vandalo e ancora il 21 marzo 1991, da un giovane che cercava di estrarla. Anche in passato deve aver subíto ripetute ingiurie, visto che è certo che fosse spezzata in tre parti. È pensabile che sia stato lo stesso Galgano a far restaurare la sua spada, magari da un fabbro locale, per poi infiggerla di nuovo nella roccia. È probabile che si tratti di roccia (magari, ovviamente, sfruttando un sottile fessura nella stessa) perché, se si fosse trattato di terra, i tre malviventi

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In basso disegno degli elementi formanti la spada di san Galgano. Si noti l’estrema semplicità dei pochi elementi che la compongono, tipica del periodo (da Lionello Giorgio Boccia, Eduardo Teixeira Coelho, Armi bianche Italiane, Bramante editrice, 1975). non avrebbero avuto problemi nell’estrarla e portarla via, mentre la rottura è direttamente spiegabile col fatto che l’arma fosse davvero conficcata nella roccia e che, con maldestri tentativi di estrarla, si sia spezzata, cosa altirmenti impensabile. Sono testimoniati vari tentativi, segno che l’arma era alla portata di tutti, ma non si capisce perché la si volesse estrarre: certo, una spada valeva soldi, ma perché arrivare fin lassú, dove peraltro viveva l’eremita, che l’avrebbe difesa (salvo l’unica volta in cui si era legittimamente allontanato)? Occorre dire che questa reliquia è autentica, in quanto, come struttura, è un’arma dell’epoca di Galgano, come ha provato lo studioso Giorgio Lionello Boccia e come gli esami metallografici hanno poi confermato. Naturalmente, non possiamo sapere se quella originale sia stata sostituita anticamente con questa, che, come manufatto, è comunque coevo

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CALEIDO SCOPIO San Galgano, tempera su tavola di Domenico Beccafumi. 1510 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale. Il santo è nell’atto di infiggere la sua spada nella roccia: l’arma è dotata di un’elsa di tipo decisamente piú arcaico rispetto alla data di esecuzione del dipinto. forma sia anche molto diversa dall’originale. Va subito chiarito che il «pomello» è in realtà un «pomo», e come tale va chiamato, e che l’elsa è una parte del fornimento di una spada, che nulla ha a che fare con il pomo. In pratica, l’elsa arcuata non è stata considerata, pur essendo molto evidente. Il fatto, poi, che nel corso dei secoli la morfologia delle spade sui quadri con san Galgano risulti sempre diversa non deve sorprendere, giacché gli artisti ritraevano volutamente armi a loro contemporanee, tanto che la presenza delle stesse consente di datare i dipinti.

Una scelta sorprendente

a Galgano. Il fatto che sia risultata spezzata, come narra la leggenda, ne avvalora l’autenticità. Non c’è motivo di sospettare che quella attuale sia un’arma ricollocata in un secondo tempo per sostituire l’originale, in qualche modo perduta, anche perché ben difficilmente, a distanza di secoli, sarebbe stato possibile trovare un reperto dell’epoca, filologicamente adeguato. Inoltre, c’è il fatto della rottura della lama, coerente con la storia della reliquia. C’è una circostanza misteriosa o, se vogliamo, semplicemente

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curiosa: nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti Incontro di san Galgano con l’Arcangelo Michele, visibile a Montesiepi, nella Cappella di S. Michele (vedi foto a p. 106), l’elsa della spada è chiaramente arcuata verso la lama, a differenza della spada vera, che l’ha dritta. Ebbene, questa stranezza non viene percepita dagli studiosi non esperti di armi, e, almeno in un caso, si è arrivati a dire che nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti «il pomello dell’elsa è identico» a quello della spada lí presente, chiedendosi poi come mai in dipinti successivi la

Le raffigurazioni di san Galgano sono assai numerose, sparse soprattutto in Toscana e nelle regioni limitrofe e vanno esaminate proprio per ricavarne modelli di spade caratteristici delle varie epoche, in una panoplia fra le piú ricche del settore. Le scene sono di due tipi: Galgano colto nel momento in cui conficca la spada nella roccia (le prime attestazioni di questo modello risalgono al Trecento e già si parla di roccia e non piú di terra), oppure Galgano che prega davanti alla spada, che ha già assunto il ruolo di croce. La spada è sempre protagonista. In queste opere successive, i pittori, lavorando nelle loro botteghe, possono aver raffigurato spade moderne, diverse da quella del santo, ma, nel caso di Lorenzetti, questi deve aver lavorato sul posto, a pochi passi dalla spada autentica, e quindi avrebbe potuto/dovuto ritrarla fedelmente. Ma cosí non è stato. Perché? ottobre

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Antonio Musarra Fra Cielo e Terra Gerusalemme e l’Occidente medievale Carocci editore, Roma, 296 pp., ill. b/n

29,00 euro ISBN 978-88-290-2216-8 www.carocci.it

L’operazione compiuta da Antonio Musarra in questo suo nuovo saggio è efficacemente sintetizzata dal titolo e sottotitolo del volume, che riassumono le direttrici principali della trattazione: al centro domina, infatti, la duplice dimensione della Città Santa, da sempre sospesa fra la sua realtà terrena e l’idea che di essa era andata sedimentandosi attraverso le Scritture e che, al contempo, fa da fil rouge alla narrazione, attraverso la quale l’autore mira a «fornire un affresco di ciò che Gerusalemme ha significato per l’Europa cristiana (...) senza tralasciare la pura e semplice contingenza storica». Il percorso si articola dunque in due grandi sezioni, la prima delle quali, dedicata alla dimensione terrena della città, si snoda in chiave cronologica e prende le mosse dall’età romana, riepilogandone le tappe piú significative, prime

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fra tutte l’assedio e il saccheggio del 70 d.C. e, piú tardi, la rifondazione in epoca adrianea, con il nome di Aelia Capitolina. Piú avanti, è naturalmente decisivo il riconoscimento della religione cristiana da parte dell’impero romano, all’indomani del quale, soprattutto al tempo di Giustiniano, Gerusalemme vive una stagione di grande fioritura. Entrando nel vivo del millennio

medievale, diviene cruciale il ripetersi dei passaggi di mano, fra musulmani e cristiani, scanditi anche da episodi bellici particolarmente cruenti e che saranno piú volte il detonatore o il logico sbocco delle spedizioni crociate. La seconda parte del volume esamina invece la dimensione celeste della città, la cui comprensione, come scrive Musarra stesso,

è indispensabile per leggere correttamente la prima. In queste pagine vengono dunque riletti gli eventi raccontati in precedenza, sottolineandone le implicazioni ideologiche e religiose. Una rilettura nella quale si inquadrano quindi i grandi temi del pellegrinaggio ai Luoghi Santi, della ricerca delle reliquie – avviata già nel IV secolo da Elena, madre dell’imperatore Costantino – e, soprattutto, dell’immagine che di Gerusalemme prende forma per i cristiani d’Occidente. Per i quali, nell’età di Mezzo, la Città Santa è un riferimento ineludibile e costante, anche nelle pratiche rituali, se, come si legge nelle pagine finali, è vero che «la liturgia gerosolimitana forní al variegato universo cristiano la norma d’ispirazione primaria per la costruzione delle liturgie particolari». Fra Cielo e Terra ha dunque il merito di aiutarci a rintracciare l’importanza decisiva di un luogo speciale, anche solo nella sua dimensione concettuale, per la formazione della cultura occidentale. Stefano Mammini

Tommaso Braccini Trebisonda L’impero incantato tra storia e leggenda Salerno editrice, Roma 192 pp., cartine b/n

18,00 euro ISBN 978-88-6973-829-6 www.salernoeditrice.it

Sono piú di quattrocento, dal 1204 al 1461, gli anni di vita dell’impero di Trebisonda (oggi Trabzon, in Turchia), la città nata sulle rive del Mar Nero come colonia greca già nell’VIII secolo a.C. Ed è soprattutto sulle vicende succedutesi nel corso di quei quattro secoli e mezzo che si concentra il volume di Tommaso Braccini, lette anche attraverso le molte testimonianze di scrittori, viaggiatori, esploratori o diplomatici che lí transitarono e soggiornarono. Ne scaturisce un racconto di notevole fascino, che fa luce su una realtà di notevole rilievo nel panorama geopolitico euroasiatico eppure forse meno nota di altre. Un racconto nel quale la storia s’intreccia di continuo con le tradizioni leggendarie, poiché, fin dalle origini, un’aura mitica ha avvolto Trebisonda, talvolta deformando la realtà.

Fra i protagonisti principali delle vicende ripercorse dall’autore vi è, per esempio, la dinastia dei Comneni, due dei quali, i fratelli Alessio e Davide, accarezzarono perfino il sogno di assumere il controllo dell’impero bizantino. Poco meno di un secolo piú tardi, la città visse un momento particolarmente felice, quando fece atto di vassallaggio nei confronti dell’impero mongolo: una scelta emblematica della necessità di trovare equilibri vitali in uno scacchiere nel quale le forze dominanti potevano cambiare repentinamente. Tale strategia, però, non bastò a evitare la caduta dell’impero per mano di Maometto II. Un tracollo che però, come si legge nelle pagine conclusive, non impedirà la trasformazione di Trebisonda in un vero e proprio mito. S. M. ottobre

MEDIOEVO



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA la moneta antica arte • propaganda • religione Nonostante il sempre piú diffuso utilizzo dei pagamenti elettronici, le monete sono ancora oggi una presenza familiare, alle origini della quale c’è una storia millenaria. Come racconta la nuova Monografia di «Archeo», infatti, l’introduzione di quei pezzetti di metallo come controvalore di beni o prestazioni ha radici antiche e, nel caso di Roma, la monetazione divenne una delle attività piú importanti – e piú attentamente controllate – dell’amministrazione repubblicana prima e imperiale poi. Al contempo, i monetieri e, soprattutto, i personaggi che si avvicendarono ai vertici del potere, intuirono lo straordinario potenziale propagandistico delle monete, che, proprio perché destinate a una circolazione di ampio raggio, potevano trasmettere anche nelle province piú remote messaggi celebrativi e autocelebrativi ben chiari. Per questi e molti altri motivi, lo studio della numismatica costituisce da tempo un formidabile alleato dell’archeologia e, piú in generale, della storia, forte com’è di un evidente valore documentario. Aspetti che Francesca Ceci, autrice della Monografia, ha passato per noi in rassegna, confezionando un’opera ricca di notizie, curiosità e non poche sorprese. Un universo dal fascino indiscusso, insomma, come del resto dimostra il fatto che le monete sono state e continuano a essere uno dei piú potenti motori del collezionismo, al quale si devono, peraltro, molte delle raccolte conservate in musei italiani e stranieri.

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