Medioevo n. 331, Agosto 2024

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PI AZ I S VE ZA EG NE SA RET ZIA N ID M I AR CO

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

MEDIOEVO VISIONARIO UMANI E TRANSUMANI

SIENA IL RESTAURO DEL FONTE BATTESIMALE CANOSSA LE SANTE AMICIZIE DI MATILDE DOSSIER

UNA COSTA DA

DIFENDERE

IL NOVELLIERE COME L’OPERAIO DIVENTÒ... NOTAIO MEDIOEVO NASCOSTO A SARZANA, SULLE ORME DI DANTE NUOVA SERIE I RACCONTI DELL’ARALDICA

NAPOLI • GAETA • AMALFI • SORRENTO

LA RISCOSSA DEI DUCATI

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PIAZZA SAN MARCO FONTE BATTESIMALE DI SIENA CORREGGIO AD ALBINEA ARALDICA DOSSIER I DUCATI TIRRENICI

SANTI IN ARMI LA SPADA DI MATTEO L’ESATTORE

Mens. Anno 28 numero 331 Agosto 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 331 AGOSTO 2024

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 2 AGOSTO 2024



SOMMARIO

Agosto 2024 ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE Una madre onnipresente di Federico Canaccini

CALEIDOSCOPIO SCOPERTE Correggio è stato qui

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Un capolavoro da trecento ducati 6

ARALDICA Cose da Pazzi

ARCHEOLOGIA Quante storie sotto quella piazza...

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Una lancia contro gli dèi falsi e bugiardi

di Giampiero Galasso

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

STORIE RESTAURI Siena L’esagono delle meraviglie a cura della Redazione

di Niccolò Orsini De Marzo

36

12 16

STORIE Canossa Un santo per amico di Paolo Golinelli

36

COSTUME E SOCIETÀ 24

24

96

di Giuseppe Ligabue

IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/5 Millantando si guadagna di Corrado Occhipinti Confalonieri

50

di Paolo Pinti

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LIBRI Lo Scaffale

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Dossier

DUCATI TIRRENICI Una costa da difendere di Gerardo Sangermano, con un contributo di Rosalba Miranda

50 LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Sarzana Sulle orme del sommo poeta di Chiara Parente

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MEDIOEVO n. 331 AGOSTO 2024

MEDIOEVO

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MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 331 - agosto 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Giampiero Galasso è giornalista. Paolo Golinelli è presidente dell’Associazione Matildica Internazionale. Giuseppe Ligabue è socio della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi. Rosalba Miranda è architetto. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Chiara Parente è giornalista. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Gerardo Sangermano è stato professore ordinario di storia medievale all’Università degli Studi di Salerno. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 80/81) e pp. 38/39, 42 (piena pagina), 54/55, 56-57, 61, 64/65, 73, 74/75, 76/77, 78/79, 81, 82-85, 88/89, 90 (alto), 91, 92 – Doc. red.: pp. 5, 36/37, 39, 41, 42 (riquadro), 43, 45, 46, 52-53, 62/63, 66-69, 77 (alto), 86-87, 97, 100 (basso), 110 (alto), 111 (alto) – Cortesia Ufficio stampa: pp. 6-9 – Cortesia Soprintendenza ABAP per il Comune di Venezia e Laguna/Semper srl: pp. 12-14 – Cortesia Ufficio stampa Opera Laboratori: pp. 33, 34 (basso, a destra), 35; Mattia Mercante: rendering 3D alle pp. 24/25; OPD/Cristian Ceccanti: pp. 26, 26/27; Bruno Bruchi: pp. 27, 28-29, 30 (destra), 34 (basso, a sinistra); OPD/Camilla Mancini: pp. 30 (sinistra), 31; Laura Speranza: p. 32 – Cortesia degli autori: pp. 40 (alto), 96, 98 (e particolare a p. 99), 100 (alto), 101, 102-105, 106 (alto), 108, 110 (basso), 111 (basso) – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: p. 40 (basso) – Alamy Stock Photo: pp. 44, 107 – Mondadori Portfolio: Electa/Antonio Quattrone: pp. 50/51; Album/Collection Kharbine-Tapabor: p. 54; Album/Oronoz: p. 72; Theo/Opale.photo: p. 109 – Minneapolis Institute of Arts, Minneapolis: p. 58 (sinistra) – The Metroplitan Museum of Art, New York: p. 58 (destra) – Cortesia Comune di Sarzana: pp. 90 (basso), 93, 94 – Primo Montanari: pp. 98/99 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 65, 70/71, 78 e 89. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina la Torre Normanna di Maiori, un poderoso bastione la cui costruzione si data tra il 1250 e il 1300.

Prossimamente protagonisti

itinerari

dossier

Saladino il conquistatore

Biella, il Medioevo ai piedi delle Alpi

Sulle vie della transumanza


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

AGOSTO

Una madre onnipresente

I

l primo capitolo degli Atti degli Apostoli dà conto dell’ultimo episodio in cui compare Maria Vergine: la Madonna, infatti, si trova nel cenacolo tra gli apostoli, in attesa della discesa dello Spirito Santo. Per rintracciare informazioni sulla conclusione della vita terrena di Maria bisogna rivolgersi ai cosiddetti Vangeli apocrifi, in particolare al Protovangelo di Giacomo e alla Narrazione di San Giovanni il Teologo sulla Dormizione della Santa Madre di Dio. Il termine dormizione è il piú antico vocabolo che descrive la conclusione della vita terrena della Vergine, che fu trasformata in una festività nel VII secolo per volere dell’imperatore bizantino Maurizio, per la pars Orientis, e su richiesta del papa Sergio I, per la pars Occidentis. Oggi però, il 15 di agosto, si festeggia la festa dell’Assunzione di Maria in cielo, un’idea che sostituí la Dormitio intorno all’VIII secolo. Tuttavia, la definizione dogmatica di questo mistero giunse però solo nel 1950 per volere di Pio XII. Proprio a motivo della sua assunzione, i resti del corpo della Madonna sono tanto rari quanto quelli di suo figlio Gesú, ma, nonostante tutto, si contano diverse sue reliquie. Svariate località, come per esempio Montevarchi (Arezzo), asseriscono di possedere fiale contenenti il suo latte: nel XVI secolo erano talmente tante che Giovanni Calvino (1509-1564, teologo e riformatore francese, n.d.r.) si chiedeva che, «se anche la santa Vergine fosse stata una mucca e avesse allattato per tutta la vita, con grande fatica avrebbe potuto produrne tanto». Non mancano intere ciocche, o singoli capelli – naturalmente di colori diversi –, esposti almeno in una quindicina di chiese romane, mentre molti altri sono conservati nell’intero Occidente cristiano. Con una ciocca sarebbe stata chiusa una lettera, inviata dalla Vergine ai Messinesi: la lettera sarebbe andata distrutta, ma non i capelli che la sigillavano. Della Vergine, inoltre, possediamo il mantello e la tunica, abbiamo il velo e poi ancora cuffie, scarpe e guanti, mentre a Chartres è custodita la sua Santa Camicia, che non è l’unica esposta in Europa. A Prato si trova la Sacra Cintola, la cintura che la Madonna avrebbe lasciato al momento dell’Assunzione per convincere Tommaso l’Incredulo che, anche in questa occasione, come per il ritorno di Gesú dalla morte, era giunto in ritardo. A Loreto, alla fine del Duecento – in concomitanza con la caduta dell’ultimo avamposto crociato in Terra Santa – sarebbe giunta la Santa Casa di Nazareth, dove Maria nacque, crebbe e dove ricevette la Visitazione: la casa sarebbe apparsa nel 1294 in una macchia di lauro, da cui prende il nome di Loreto.

MEDIOEVO

agosto

Il mercante pratese Michele Dragomari, in punto di morte, dona la reliquia del Sacro Cingolo (la Sacra Cintola) al proposto Uberto I, particolare del ciclo con la Storia della Cintola affrescato da Agnolo Gaddi. 1392-1395. Prato, Duomo, Cappella del Sacro Cingolo. Il venerato oggetto sarebbe la cintura che la Madonna avrebbe dato a san Tommaso come prova della sua Assunzione in cielo.

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il medioevo in

rima

Un capolavoro da trecento ducati

agina

MOSTRE • Fano

celebra il ritorno in città della Pala di Durante dipinta da Pietro Perugino. Esposta in Palazzo Malatestiano, all’indomani di un importante intervento di restauro, l’opera può essere, eccezionalmente, ammirata ad altezza d’uomo, cosí da poterne apprezzare i dettagli

Madonna in trono col Bambino e santi, olio su tavola del Perugino (al secolo, Pietro Vannucci), dalla chiesa di S. Maria Nuova a Fano. 1497. L’opera è nota anche come Pala di Durante (dal nome del committente) o Pala di Fano.

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agosto

MEDIOEVO


N

ell’aprile del 1488, Pietro Vannucci, detto il Perugino, firmò un contratto a fronte del quale si impegnava a realizzare una pala per la cappella dell’Annunciazione della chiesa di S. Maria Nuova, a Fano. Nel documento, il maestro venne definito «Primus pictor in orbe» («Il primo pittore al mondo») e quella piú che lusinghiera affermazione è stata scelta come sottotitolo della mostra in corso nella stessa Fano, al centro della quale c’è appunto l’opera realizzata dal Perugino per onorare l’impegno assunto, una Madonna in trono col Bambino e santi, nota anche come Pala di Durante o Pala di Fano. La composizione, un olio su tavola, era destinata, come detto, all’altare maggiore della chiesa di S. Maria Nuova in San Lazzaro a Fano, dove i frati Minori Osservanti si trasferirono nel 1480 dal precedente insediamento in S. Maria al Metauro; nel 1517 venne concessa loro la chiesa in S. Salvatore, ubicata nel centro storico della cittadina, alla quale passò anche il titolo di S. Maria Nuova. Qui vennero spostate tutte le opere esistenti nella sede francescana precedente, compreso il dipinto del Perugino.

Nel coro della nuova chiesa L’opera è costituita da una grande ancona centrale raffigurante la Madonna con il Bambino e i Santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e Maria Maddalena; la cimasa, con il Cristo in Pietà e la predella con cinque episodi della vita della Vergine. All’indomani dello spostamento cinquecentesco di sede dell’Ordine, la pala venne collocata nel coro della nuova chiesa, dove, dalla prima metà del Settecento, occupa il terzo altare a destra. Non si tratta dell’unica opera a essere stata ese-

MEDIOEVO

agosto

guita dal Perugino per S. Maria Nuova: essa fu probabilmente preceduta di qualche anno dall’Annunciazione, tutt’oggi in loco. La storia delle committenze per le due opere è piuttosto complessa ed è attestata da alcuni documenti ritrovati presso l’Archivio di Stato di Pesaro. In origine, infatti, nel 1485, Durante del fu Giovanni Vianutii de Durantibus,

In alto la Pala di Durante (o di Fano), cosí come si presentava prima dell’intervento di restauro. In basso Natività della Vergine, scomparto della predella della Pala di Durante. Alla realizzazione di questa parte dell’opera potrebbe aver collaborato un giovanissimo Raffaello.

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Il restauro Dopo l’arrivo nei laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure, nell’ottobre 2020, la tavola centrale e la lunetta della Pala di Fano, già oggetto di precedenti restauri, sono state sottoposte a una prima campagna diagnostica che ha rivelato la presenza sugli strati pittorici di molti materiali superficiali alterati, tra cui vernici e patinature ingrigite. Lungo le commettiture di alcune assi si osservavano, inoltre, sollevamenti di strati preparatori e pittorici, dovuti a tensioni create dalle traverse metalliche, applicate sul retro in un vecchio intervento, che bloccavano in maniera eccessiva i movimenti delle assi del tavolato, in legno di pioppo. Durante il restauro, avviato a novembre 2021, sono state eseguite ulteriori indagini, a cura del Laboratorio Scientifico dell’Opificio, tra cui la Fluorescenza ai raggi X, utile a identificare i pigmenti, la radiografia, che consente di comprendere l’unione delle assi del tavolato e ancoraggi delle traverse, e alcune indagini micro-invasive tra cui cross sections, che consentono di osservare al microscopio ad altissimi ingrandimenti la sezione di un piccolissimo campione di strati pittorici per osservarne stratificazioni e composizione. Alcune indagini sono state svolte con la collaborazione anche di altri enti di ricerca, tra cui l’Istituto Nazionale di Ottica, l’Istituto nazionale di Fisica nucleare e l’Università di Bologna. Dopo aver ristabilito la continuità materica del supporto ligneo della tavola centrale, sono stati riallineati i margini della pellicola pittorica che presentavano dislivelli in corrispondenza delle commettiture. È stato rimosso il vecchio sistema di contenimento in metallo e applicato uno nuovo in legno, costituito da tre traverse a doppia sezione ancorate con meccanismi elastici e registrabili. Sul retro sono stati inoltre riproposti, sulla base di quella che era la struttura originaria poi manomessa da interventi successivi, gli elementi longitudinali di sostegno che consentono un controllo piú omogeneo del supporto viste le dimensioni del dipinto. L’intervento sul supporto della lunetta, in buone condizioni conservative, è stato invece limitato al risanamento di piccole parti e alla rifunzionalizzazione, con molle a balestra, delle traverse autentiche tenute da un sistema a ponticelli lignei. L’intervento sugli strati pittorici della tavola centrale e della

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lunetta è iniziato dalla pulitura che ha mirato a restituire leggibilità alla pittura, offuscata da numerosi strati alterati e da ridipinture, attraverso la rimozione graduale, parziale e selettiva dei materiali superficiali alterati, non originali. Di pari passo sono state svolte operazioni di fermatura degli strati preparatori e pittorici nelle zone piú fragili, a rischio di caduta, soprattutto lungo le commettiture della Pala. Le lacune sono state integrate con la tecnica differenziata della selezione cromatica, ricostruendo l’unità dell’immagine nel rispetto dell’autenticità dell’opera. L’intervento sulla predella, giunta nei laboratori dell’Opificio nel giugno del 2023 e principalmente sottoposta a una campagna di indagini diagnostiche poiché già recentemente restaurata, è consistito in una leggera revisione della superficie pittorica e nella rimozione di materiale di deposito coeso dal retro. Il restauro ha consentito un grande recupero della leggibilità di questa straordinaria opera, in cui si possono oggi maggiormente apprezzare l’armonia di luci e ombre, gli equilibri cromatici, la profondità dell’imponente architettura, la sapiente resa dei modellati. L’intervento ha permesso, inoltre, di approfondire la comprensione dell’opera, i materiali e la loro stratificazione, la tecnica esecutiva, anche nei suoi aspetti piú nascosti, tra cui le catene dell’architettura della tavola centrale presenti nel disegno preparatorio, poi non realizzate, e un paesaggio montuoso con una città celata sotto la figura di Giuseppe di Arimatea, aggiunta in corso d’opera dal pittore, probabilmente per una composizione piú simmetrica che si legasse in maniera armonica a quella perfettamente armonica e bilanciata della Pala. (red.) agosto

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A sinistra Cristo sul sarcofago tra la Vergine, San Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e San Giovanni, scomparto della predella della Pala di Durante. Nella pagina accanto due immagini del dipinto durante l’intervento di restauro. DOVE E QUANDO mediante testamento, assegnò trecento ducati d’oro veneti per la decorazione della cappella dell’Annunciazione, la quale doveva essere necessariamente realizzata da maestri fiorentini; la somma fu invece dirottata verso il Perugino e finalizzata all’esecuzione della pala, come attesta il contratto stipulato nel 1488, dal quale si evince che Perugino non lavorò per questa committenza presso Perugia come parte della critica aveva affermato, bensí a Fano. La menzione, inoltre, di «uno suo garzono» ha fatto pensare che questi potesse essere il giovanissimo Raffaello, già inserito dal padre nella bottega del Perugino; sono infatti noti i contatti fra questi e Giovanni Santi che per la stessa chiesa di S. Maria Nuova eseguí una Visitazione, la cui datazione oscilla fra il 1484 e il 1490.

«Pietro Perugino a Fano. Primus pictor in orbe» Fano, Museo del Palazzo Malatestiano, Sala Morganti fino al 15 settembre Orario ma-do, 18,30-22,00; lu chiuso Info tel. 0721 887.845-847; e-mail: museocivico@ comune.fano.pu.it; museocivico.comune.fano.pu.it

Troppo oberato per lavorare da solo La Pala di Fano ha uno sviluppo verticale, che lascia spazio all’architettura dipinta, entro la quale si dispone il gruppo della Madonna col Bambino, assisa su un trono sopraelevato. Una certa convenzionalità nella composizione, unita alla presenza di raffinati dettagli pittorici, suggerisce che la pala sia l’esito di una collaborazione fra maestro e aiuti: Perugino potrebbe aver fornito l’idea della composizione, dell’architettura, nonché i cartoni dei santi e della Vergine, ma, oberato dalle committenze, avrebbe lavorato in maniera discontinua, impiegando i suoi discepoli e integrando poi l’intervento per innalzare il livello qualitativo dell’opera. Di piú alta levatura si rivela la cimasa, nella quale la composizione e l’esecuzione denotano una evidente differenza stilistica e cronologica

MEDIOEVO

agosto

rispetto alla pala, di cui essa è di quasi un decennio posteriore (1497). Sono anni in cui il Perugino è destinatario di commissioni importanti e diversissime che lo allontanarono da Fano, come la celebre Pala dei Decemviri, destinata alla cappella del Palazzo dei Priori di Perugia, ora nella Pinacoteca Vaticana, commissionata nel 1488, ma terminata intorno al 1495 o la Visione di San Bernardo per S. Maria Maddalena dei Pazzi a Firenze, ora all’Alte Pinakothek di Monaco. Inoltre, la cimasa sembra risentire per stile e composizione dei ripetuti soggiorni veneziani del pittore, databili tra il 1494 e il 1497. (red.)

Un particolare dell’allestimento della mostra dedicata al Perugino, visitabile nel Museo del Palazzo Malatestiano di Fano fino al prossimo 15 settembre.

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ANTE PRIMA

Quando Matelica si scoprí «tipografica» L

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

a nascita della stampa e la diffusione dei testi sacri saranno temi centrali della III edizione di Matelica 1473, manifestazione in programma tra sabato 28 e domenica 29 settembre a Matelica (Macerata), dedicata allo studio e alla valorizzazione della stampa a caratteri mobili nel centro Italia. Al centro dell’evento sarà l’incunabolo Vita della Vergine Maria di Antonio Cornazzano, stampato nel 1473 a Matelica, il primo nella Marca Anconitana, a cura del dotto abate benedettino di origine greco-genovese Bartolomeo Colonna da Chio. Il piccolo volume, oggi conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, sarà oggetto di ristampa anastatica e di ulteriori ricerche per capire chi si celi dietro all’attività tipografica che, nel giro di pochi mesi, si diffuse lungo la direttrice del fiume Esino, coinvolgendo anche la vicina città di Jesi. La questione è già stata parzialmente affrontata nel 2023, per capire le ragioni che portarono l’invenzione di Gutenberg in un centro come Matelica, legato alla produzione e ai commerci di pannilani e a una prestigiosa schola grammaticae, nell’area delle celebri cartiere di Fabriano, Pioraco e Santa Anatolia (Esanatoglia). Notevoli le ricerche condotte, di cui l’editore Ciabochi ha edito gli atti, relativamente agli studi di un secolo fa di Augusto Campana

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In alto explab ium nis consedi tatibus audipienimus pro occulliati acient que none coresto comnim am, cus aut evel. In basso explab ium nis consedi tatibus audipienimus pro occulliati acient que none coresto comnim am, cus aut evel is.

In alto e in basso, a destra particolari di salteri del convento di S. Francesco e di manoscritti liturgici miniati conservati presso l’Archivio Storico di Matelica. In basso, a sinistra macchina per stampa a caratteri mobili. sull’incunabolo di Matelica, per passare al viaggio della stampa dal Sacro Speco di Subiaco verso l’Adriatico, fino alla prima stampa musicale a Fossombrone, nel ducato di Urbino, a opera di Ottaviano Petrucci. L’edizione di quest’anno sarà tutta incentrata sul rapido sviluppo della stampa a caratteri mobili nell’ambito religioso e alle ricadute già precedenti alla Riforma luterana. L’argomento sarà approfondito in un convegno in programma per sabato 28 settembre alle ore 17, presso la sala conferenze della Fondazione Il Vallato, dove a intervenire saranno monsignor Francesco Braschi, viceprefetto e dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano e lo storico e giornalista Giovanni Maria Vian. In programma anche un’esposizione, presso la Biblioteca comunale Libero Bigiaretti, di manoscritti, pergamene restaurate di epoca federiciana e di alcuni incunaboli, con visite gratuite su prenotazione alla città rinascimentale, con la visita agli spazi musealizzati rinascimentali della cattedrale di S. Maria Assunta, di Palazzo Ottoni, residenza dei signori della città, e di altri suggestivi spazi eccezionalmente aperti al pubblico. agosto

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Quante storie sotto quella piazza...

ARCHEOLOGIA • Il

grande slargo su cui si affaccia la basilica veneziana di S. Marco è meta irrinunciabile per chiunque visiti la città lagunare. Le recenti indagini archeologiche stanno rivelando le tracce di vicende plurisecolari

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P

rogrammate all’interno dei cantieri per il restauro della pavimentazione lapidea danneggiata dall’acqua alta, indagini archeologiche preventive condotte a Venezia, in un ampio settore di piazza San Marco, tra l’area affacciata sul bacino lagunare e le Procuratie Vecchie, hanno portato alla luce strutture murarie e sepolture altomedievali. Non è la prima volta che si conducono esplorazioni archeologiche in piazza San Marco: già tra il 1885 e il 1889 furono eseguite indagini sotto la direzione di Federico Berchet e Giacomo Boni, i quali produssero

una planimetria dettagliata dei ritrovamenti, rivelatasi utile anche per i lavori in corso.

Nei secoli del primo Medioevo «Le indagini archeologiche che si stanno eseguendo in piazza San Marco nei vari saggi finora aperti – dichiara Sara Bini, funzionaria archeologa e direttrice scientifica dello scavo –, hanno messo in luce testimonianze archeologiche estremamente rilevanti per chiarire l’evoluzione dell’area marciana nel corso dei secoli, soprattutto nei primi secoli del Medioevo. La scoperta piú significativa è stata quella dei resti murari agosto

MEDIOEVO


molto probabilmente relativi alla prima fondazione della chiesa di San Geminiano, conosciuta principalmente da fonti d’archivio ottocentesche, ma la cui esatta collocazione era andata perduta. Si tratta di una chiesa che esisteva nella piazza prima dell’attuale conformazione, quindi precedente

alla costruzione della stessa basilica di S. Marco. Siamo in presenza di uno degli edifici di culto piú antichi della città lagunare, che ebbe un ruolo sicuramente importante anche dal punto di vista politico, visto che i dogi dei primi secoli della Repubblica veneziana lo frequentavano assiduamente.

Non abbiamo una data esatta della sua fondazione, ma sappiamo che esisteva già in età altomedievale. Le tipologie delle strutture murarie intercettate suggeriscono che l’impianto originario possa risalire a un periodo compreso tra il VII e il X secolo. La sua ubicazione, però, non è stata sempre la stessa:

Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario foto aerea di piazza San Marco: nel riquadro, l’area di scavo; alcuni dei numerosi battipali rinvenuti; le murature attribuite alla prima fase della chiesa di S. Geminiano; lo scavo di una sepoltura rinvenuta presso i resti della presunta chiesa di S. Geminiano.

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ANTE PRIMA Un settore del cantiere di scavo aperto nell’area di piazza San Marco.

fonti archivistiche indicano che, intorno alla metà del XII secolo, il doge Sebastiano Ziani promosse lavori urbanistici che portarono alla creazione di una vera e propria piazza. Per realizzarli, fu necessario liberare lo spazio da varie strutture preesistenti che impedivano di avere un ampio spazio aperto, tra cui la chiesa di San Geminiano, in origine situata proprio al centro dell’attuale piazza, probabilmente nella zona immediatamente retrostante il campanile. Tuttavia l’edificio, troppo importante per i dogi, fu ricostruito all’estremità della piazza e orientato con la facciata verso la basilica di S. Marco come parte del rinnovamento dell’area. Nella seconda metà del XVI secolo fu poi Jacopo Sansovino che determinò l’assetto architettonico definitivo della chiesa, dando rilievo al lato occidentale di piazza San Marco. Le fonti indicano ancora che la chiesa spostata dal doge Ziani non fosse la prima S. Geminiano: probabilmente, l’edificio si trovava in origine ancora al centro della

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piazza, ma piú vicino alle Procuratie Vecchie, nel punto in cui è stata ampliata l’indagine archeologica. È probabile che la chiesa di San Geminiano sia stata spostata almeno tre volte, fino alla sua demolizione definitiva, avvenuta nel 1807 su ordine di Napoleone Bonaparte, che fece costruire al suo posto l’attuale Ala Napoleonica.

La prima pavimentazione Oltre ai resti della prima chiesa di S. Geminiano, i saggi condotti in piazza San Marco stanno restituendo dati molto significativi per ricostruire l’aspetto dell’area prima della sistemazione monumentale condotta nel corso del Cinquecento, ovvero piú o meno quella che vediamo attualmente. Sono stati infatti rilevati livelli pavimentali che caratterizzavano la piazza prima della pavimentazione in “masegni” (veneziano per macigni; il termine designa i blocchi di pietra del selciato, inizialmente in pietra d’Istria e poi in trachite euganea, n.d.r.) ora visibile, oltre

a strutture che, al momento, sono state interpretate come battipali utilizzati nei mercati che interessavano l’area marciana nel corso del Medioevo e in parte immortalati in molti famosi dipinti. Sono state rinvenute anche alcune tombe a cassa, datate tra il VII e l’VIII secolo e realizzate con laterizi di epoca romana. In una delle deposizioni sono stati recuperati i resti di almeno sette inumati, tra cui un bambino di circa otto-dieci anni. Tutte queste informazioni, una volta studiata la documentazione ed eseguite le opportune analisi sui reperti rinvenuti, ci permetteranno di ricostruire l’evoluzione nel corso dei secoli di una della piazze piú famose e piú visitate del mondo». Le indagini sono svolte, all’interno dei cantieri gestiti dal Comune di Venezia, dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna. Sono state finanziate dal Ministero della Cultura e condotte sul campo dagli archeologi e operatori della società Semper srl di Padova. Giampiero Galasso agosto

MEDIOEVO


Fu vera evoluzione? I

l Rinascimento è spesso conosciuto come un momento di sviluppo durato un secolo circa, tra il 1400 e il 1500, soprattutto nel Granducato di Toscana. Arte, pittura, scultura, ingegneria, scienza, medicina sono i principali ingredienti di questo periodo storico, che ha rappresentato un momento di forte rottura con il Medioevo e di apertura verso un mondo nuovo e moderno. Ma è andata davvero cosí? La risposta è negativa, e il Festival dei Rinascimenti vuole colmare questo vuoto di conoscenza in chiave integrata e approfondita: coinvolgendo i maggiori esperti europei. Il Festival dei Rinascimenti. Dal Passato al Futuro: Società, Cultura, Innovazione intende costruire un ponte «ideale» tra il passato e il futuro, con uno sguardo prospettico e di innovazione delle nostre radici rinascimentali, includendo ambiti di interesse umanistici, economici, gastronomici, sportivi e scientifici. Grazie alla presenza di relatori di fama internazionale, di partner scientifici e accademici italiani ed europei, e sposando una logica che ambisce, nel futuro, all’organizzazione di piú festival in Europa, è stato

possibile dare vita a un panorama composito di eventi dedicati alla società, alla cultura, all’innovazione generati dal Rinascimento, ma con un’attenzione anche al futuro prossimo. In un momento cosí complesso, la cultura si fa dunque uno strumento importante per rigenerare lo spirito di comunità. Al Museo di Santa Caterina, a Treviso, in una delle province piú rinascimentali d’Italia, si è creato uno spazio di quattro giorni (dal 12 al 15 settembre), in cui le persone intervengono e presenziano all’ascolto e alla conoscenza di una cultura passata, ma con uno sguardo rivolto al futuro. Questa prima edizione avrà un titolo particolare «La (R)evoluzione del Rinascimento», perché questo periodo storico è stato, al contempo, rivoluzionario, ma anche evoluzionista, per molti aspetti. In questa edizione esploreremo (con 13 sessioni e oltre 50 talk) aspetti legati alla storia, alla filosofia, all’arte, alla società, all’economia, al teatro, alla musica, alla scienza, allo sport, con un bilanciamento tra passato (il Rinascimento) e futuro (il XXI secolo). Info: www.festivaldeirinascimenti.it

Errata corrige con riferimento al Dossier L’umanista che andò alle crociate (vedi «Medioevo» n. 220, aprile 2015) desideriamo precisare che la medaglia in bronzo riprodotta a p. 93 (in basso) ritrae Malatesta Novello (al secolo Domenico Malatesta, 1418-1465) signore di Cesena, e non Sigismondo Malatesta, come indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

A sinistra e qui sopra due vedute del complesso conventuale di S. Caterina, a Treviso, che, da oltre vent’anni, è una delle sedi dei locali Musei Civici. Qui, dal 12 al 15 settembre, avrà luogo la prima edizione del Festival dei Rinascimenti.


AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA FILIPPO E FILIPPINO LIPPI. INGEGNO E BIZZARRIE NELL’ARTE DEL RINASCIMENTO Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 25 agosto

Lo straordinario caso di un padre e un figlio, entrambi pittori e disegnatori di eccezionale talento, è protagonista della mostra in

programma ai Musei Capitolini, nelle sale di Palazzo Caffarelli. L’esposizione illustra l’epoca d’oro del Rinascimento italiano tra Firenze e Roma. I dipinti selezionati per l’occasione raccontano del talento di Fra’ Filippo Lippi (1406-1469), uno degli artisti piú importanti della stagione fiorentina di Cosimo de’ Medici, e di quello del figlio Filippino (1457-1504), che eredita dal padre l’ingegno e diventa l’interprete del gusto nella Roma della fine del Quattrocento. Si possono ammirare alcuni capolavori su tavola di Filippo, come la Madonna Trivulzio del Castello Sforzesco di Milano, e opere di Filippino, tra cui

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a cura di Stefano Mammini

l’Annunciazione dei Musei Civici di San Gimignano. info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo «Frontiere liquide e mondi in connessione», sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia. Fra i materiali selezionati si possono ammirare sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it

FIRENZE PULCHERRIMA TESTIMONIA. TESORI NASCOSTI NELL’ARCIDIOCESI DI FIRENZE Basilica di S. Lorenzo, Salone di Donatello fino all’8 settembre

Le oltre duecento opere

selezionate per la mostra sono una significativa sintesi dell’immenso patrimonio artistico conservato e custodito nel territorio della diocesi che si estende dalle pendici dell’Appennino tosco-emiliano fino a lambire la provincia di Siena. Il

progetto espositivo è nato da un importante lavoro di inventariazione e catalogazione avviato nell’ottobre del 2009 che si è concluso dopo dieci anni, nel dicembre del 2019. La ricognizione, che ha portato alla compilazione di oltre

271 000 schede, è stata possibile grazie a una parte dei fondi 8xmille che la diocesi ha destinato a questo scopo. Si possono dunque ammirare autentici capolavori, provenienti dalla città, frutto di ricche committenze, ma anche di oggetti piú semplici, realizzati per piccole parrocchie di campagna. Opere quindi molto diverse fra loro, non solo per qualità artistica, ma anche per tecniche di esecuzione e agosto

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materiali utilizzati: dipinti su tavola e su tela, crocifissi, statue, oreficerie, reliquari, arredi e paramenti, tabernacoli, libri e codici, fino a umili rosari. info www.diocesifirenze.it BOLOGNA CONOSCENZA E LIBERTÀ. ARTE ISLAMICA AL MUSEO CIVICO MEDIEVALE DI BOLOGNA Museo Civico Medievale fino al 15 settembre

Nata da un progetto di ricerca scientifica tra Musei Civici d’Arte Antica del Settore Musei Civici Bologna e SOAS University of London, l’esposizione intende valorizzare la collezione di materiali islamici, rari e di altissima qualità, appartenenti al patrimonio del Museo Civico Medievale, e promuovere la riscoperta di vicende e percorsi che, da secoli, costituiscono una parte significativa della storia culturale di Bologna e non solo. Il patrimonio artistico islamico presente in Italia è ricchissimo e tra i piú rilevanti al mondo, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, a testimonianza di un interesse per le civiltà e arti del mondo islamico che si mantiene vivissimo e duraturo dal Quattrocento al Settecento.

Bologna, con la sua antica Università fondata nel 1088, partecipa pienamente al clima di apertura internazionale, svolgendo un ruolo fondamentale nell’acquisizione di opere d’arte e nelle relazioni con le terre islamiche tra il XV e il XVIII secolo. Situata al confine tra lo Stato imperiale e quello papale, la città fu in grado non solo di costruire solidi legami commerciali e alleanze geopolitiche, ma divenne un importante centro di mecenatismo artistico e culturale. La cospicua presenza di oggetti islamici nelle collezioni costituite da illustri personaggi bolognesi fin dalla seconda metà del XVIII secolo testimonia ancora oggi, nella loro ricchezza e varietà, una straordinaria lungimiranza e ampiezza di orizzonti culturali. info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @museiarteanticabologna; X: @MuseiCiviciBolo FANO PIETRO PERUGINO A FANO. PRIMUS PICTOR IN ORBE Museo del Palazzo Malatestiano, sala Morganti fino al 15 settembre

Fano celebra il ritorno in città della Pala di Durante, conosciuta anche come Pala di Fano dipinta da Pietro Perugino, il piú grande maestro del suo tempo. Per l’occasione, l’opera, che è stata oggetto di un importante intervento di restauro, può essere ammirata, eccezionalmente, ad altezza d’uomo, cosí da poterne apprezzare i dettagli, compreso il retro della tavola centrale, che conserva significative annotazioni. «Primus pictor in

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orbe» («Primo pittore al mondo»): cosí viene descritto Perugino nel contratto del 1488 che lo portava a lavorare a Fano, dove realizzò due opere eminenti: la Madonna con il bambino in trono e i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena, detta Pala di Durante, e l’Annunciazione. Nella mostradossier sono inoltre esposti resoconti dell’eccezionale restauro e confronti fondamentali, grazie a riproduzioni digitali. In particolare, quello con la cosiddetta «pala gemella», realizzata per l’altare maggiore della chiesa degli osservanti di Senigallia. Un confronto accattivante, con elementi didattici e scientifici di straordinaria importanza, che ci portano dentro le grandi botteghe artistiche del tempo. info tel. 0721 887845-847; e-mail: museocivico@comune. fano.pu.it; museocivico.comune. fano.pu.it

MASSA MARITTIMA IL SASSETTA E IL SUO TEMPO. UNO SGUARDO ALL’ARTE SENESE DEL PRIMO QUATTROCENTO Musei di San Pietro all’Orto fino al 15 settembre (prorogata)

Dopo Ambrogio Lorenzetti, il Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, propone un altro grande appuntamento con l’arte senese, questa volta con Stefano di Giovanni, meglio noto come il Sassetta (attivo a Siena dal 1423 al 1450), l’artista che immise i fermenti del Rinascimento nella grande tradizione trecentesca senese. Come per Lorenzetti, anche questa mostra prende spunto da un’opera facente parte della collezione permanente del Museo di San Pietro all’Orto: l’Arcangelo Gabriele, piccola tavola del Sassetta un tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare. La Vergine Annunciata, protagonista della stessa pala, non ha potuto fare ritorno, sia pur temporaneamente per ritrovare

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il suo Angelo Annunciante, essendo oggi patrimonio della Yale University Art Gallery a New Haven. Accompagnano l’Angelo una cinquantina di opere, ventisei delle quali firmate dal maestro senese e le altre da artisti attivi in quegli anni nel medesimo contesto. Fra di loro vi sono il Maestro dell’Osservanza, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Pietro Giovanni Ambrosi e Domenico di Niccolò dei Cori. Si può inoltre ammirare una importantissima «prima», scoperta dal curatore della mostra, Alessandro Bagnoli: una Madonna con Bambino, proveniente dalla pieve di S. Giovanni Battista a Molli (Sovicille), ma

originariamente realizzata per una chiesa senese, probabilmente S. Francesco. info tel. 0566 906525; e-mail: accoglienzamuseimassa@gmail.com; www.museidimaremma.it

DEL DUOMO DI PISA Palazzo dell’Opera del Duomo fino al 30 settembre

VENEZIA I MONDI DI MARCO POLO. IL VIAGGIO DI UN MERCANTE VENEZIANO DEL DUECENTO Palazzo Ducale fino al 29 settembre

Un uomo, cittadino del mondo in quanto veneziano, grazie al quale l’Oriente è diventato meno lontano e sconosciuto. È questo il tema della mostra organizzata nell’anno in cui ricorrono i 700 anni dalla morte di Marco Polo. Un

omaggio all’uomo ma, soprattutto, la volontà di condividere le suggestioni da lui stesso raccontate nell’opera letteraria Il Milione: una fonte inesauribile di ispirazione per studiosi, esploratori, viaggiatori di ogni epoca. Una vita, quella di Marco Polo, che si riverbera nel racconto di una straordinaria geografia storica, culturale, politica e umana dell’Europa, del Medio Oriente e dell’Asia del Duecento che contribuí a far conoscere. Un patrimonio incredibile di abitudini, usi, costumi e idee che grazie al nostro circolò nella Venezia del XIII secolo quale inestimabile fonte di strategiche informazioni che altri mercanti, dopo di lui, concorsero ad arricchire. Un viaggio nel viaggio, per ricordare gli incontri, reali, inventati, talvolta omessi, con un excursus nei Paesi visitati dall’illustre veneziano e dalla famiglia in oltre vent’anni, attraverso oltre 300 opere provenienti dalle collezioni civiche, dalle maggiori e piú importanti istituzioni italiane ed europee fino a prestiti dei musei dell’Armenia, Cina, Qatar, per condividere, nel modo piú esaustivo possibile, i mondi di Marco Polo. info www.palazzoducale. visitmuve.it/marcopolo PISA LA TORRE ALLO SPECCHIO. LE MOLTE VITE DEL CAMPANILE

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Ideata e organizzata dall’Opera della Primaziale Pisana in occasione degli 850 anni dalla posa della prima pietra del monumento, la mostra – attraverso oltre 100 opere tra disegni, incisioni, dipinti, sculture e fotografie che vanno dal XIII secolo alla contemporaneità – illustra come la percezione del Campanile piú famoso del mondo sia cambiata nei secoli. Le arti figurative

testimoniano quanto l’identità della Torre e il significato che le viene attribuito sia profondamente cambiato, con il cambiare della sensibilità e dei tempi. Se fino al XVII secolo la Torre è solitamente raffigurata come parte di un tutto, posta cioè nei pressi del Duomo e dunque identificata come Campanile, architettura che scandisce le ore liturgiche e segna gli appuntamenti degli uomini verso Dio, a partire dal XVIII secolo sempre piú spesso viene raffigurata isolata, separata dal resto degli edifici ecclesiastici. Si è trattato di una sorta di laicizzazione della percezione dell’edificio, che non per caso ha coinciso con agosto

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la larga diffusione del Grand Tour, fenomeno che, in qualche modo, ha anticipato ciò che il turismo ha comportato per molti luoghi d’arte e di fede. L’architettura pisana si è trasformata cosí da Campanile a Torre, da Bell Tower a Leaning Tower. info www.opapisa.it ALESSANDRIA ALESSANDRIA PREZIOSA. UN LABORATORIO INTERNAZIONALE AL TRAMONTO DEL CINQUECENTO Palazzo del Monferrato fino al 6 ottobre

Dopo «Alessandria scolpita» (2019), esposizione dedicata al contesto artistico alessandrino tra Gotico e Rinascimento, questa nuova mostra racconta la civiltà creativa della città piemontese tra Cinque e primo Seicento, focalizzandosi in particolare sulle arti suntuarie, a ridosso dell’avvento del manierismo internazionale negli anni della Controriforma cattolica. «Alessandria preziosa» si articola in sette sezioni composte da circa ottanta

opere, in cui protagoniste sono le sculture in metallo prezioso, evidenziando il ruolo determinante svolto dalle arti suntuarie, dall’oreficeria alla toreutica, dall’arte degli armorari all’intaglio delle pietre dure. L’obiettivo della mostra è duplice: da un lato delineare l’avvento del manierismo internazionale foriero di un nuovo senso della realtà e della forma, attraverso oreficerie e oggetti in metallo, ma anche dipinti su tela e tavola e sculture in legno e marmo che meglio dialogano con le arti preziose; il secondo focus del progetto è quello di mostrare e dimostrare come l’attuale territorio della provincia di Alessandria fosse luogo di convergenza di forze e culture diverse, che non sfiguravano al confronto di altre piú gloriose città padane, ma anzi rappresentava una felice eccezione, in cui influenze nordiche si misuravano con quelle provenienti da Firenze e Roma. Alessandria e il suo territorio fungevano da cerniera tra Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro, mentre proprio alle porte della città era sorto il convento di Santa Croce a Bosco Marengo, voluto da papa Pio V, che racchiudeva in sé il clima artistico di provenienza tosco-romana. info e prenotazioni e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it URBINO FEDERICO BAROCCI URBINO. L’EMOZIONE DELLA PITTURA MODERNA Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 6 ottobre

Pittore, straordinario disegnatore e innovativo incisore, per quasi un secolo Federico Barocci (1533-1612)

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non ebbe luogo e solo oggi il museo dedica una esposizione al maestro marchigiano. Grazie a prestiti che arricchiscono la collezione già molto importante della Galleria Nazionale delle Marche, la mostra raccoglie 76 tra dipinti e disegni di Barocci, illustrando tutte le fasi della sua lunga carriera. info tel. 0722 2760; e-mail: gan-mar@cultura.gov.it; www.gallerianazionalemarche.it segna la scena artistica italiana ed europea. Per la città ducale, Federico Barocci ha sempre rappresentato un debito di riconoscenza, perché la sua figura umana e artistica è di straordinaria importanza: con la sua opera egli chiude idealmente la grande stagione

del Rinascimento urbinate, dominata da artisti quali Piero della Francesca, Bramante e Raffaello, offrendo le primizie di una pittura nuova che caratterizzerà l’età barocca. Non a caso il primo direttore di Palazzo Ducale, Lionello Venturi, aveva in animo di organizzare una mostra monografica, annunciata in occasione dell’apertura del museo nel 1913. L’evento poi

TRENTO DÜRER E LE ORIGINI DEL RINASCIMENTO NEL TRENTINO Castello del Buonconsiglio fino al 13 ottobre

Il Castello del Buonconsiglio ha scelto Albrecht Dürer come protagonista della mostra

simbolo del centenario del museo, nato nel 1924. Il grande pittore e incisore scoprí Trento e il Trentino negli anni 1494-95, rimanendo affascinato dai paesaggi e dalle atmosfere di questi luoghi, di cui catturò l’essenza in una celebre serie di acquerelli. Ad attrarre il Norimberghese fu un principato nel quale l’arte e le arti erano coltivate con grande

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AGENDA DEL MESE passione e dove il Rinascimento veniva declinato in modo del tutto originale da artisti trentini e da «foresti» che vi giungevano perché attratti dal prestigio e dalle committenze della corte dei principi vescovi e delle élites economiche. Il progetto espositivo fa rivivere quel viaggio e quel magmatico, creativo momento della storia dell’arte di una terra tra i monti. Nell’esposizione, la presenza di Dürer in Trentino è ricordata da disegni, acquerelli – tra cui la magnifica veduta proprio del Castello del Buonconsiglio proveniente dal British Musuem –, incisioni e dipinti: l’arte del grande tedesco non passò inosservata ma stimolò gli artisti qui attivi a ripensare la loro arte. Partendo dallo spettacolare «caso Dürer», il percorso espositivo si estende infatti a indagare le origini di quel Rinascimento originale, sui generis, che si sviluppa in Trentino tra 1470 e 1530/40. A prendere forma è uno stile nuovo, o meglio, l’insieme di tanti nuovi linguaggi, influenzati da artisti, opere, mode e modi che risalgono dall’Italia alla Germania, alle Fiandre e viceversa. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it

dalla collaborazione tra il Castello del Buonconsiglio e il Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, che custodisce molti manufatti di provenienza trentina e con la quale si è mantenuto e consolidato negli anni un rapporto di grande collaborazione. La rassegna offre un’occasione per riesaminare i dati storici e i materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze incrementate grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali, ma anche di approfondire tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia «barbarica». info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it PARIGI

CON SPADA E CROCE. LONGOBARDI A CIVEZZANO Castello del Buonconsiglio fino al 20 ottobre

IL MERAVIGLIOSO TESORO DI OIGNIES: BAGLIORI DEL XIII SECOLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 ottobre

L’esposizione racconta la storia dei Longobardi in Trentino attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della «principessa» e del «principe» di Civezzano riuniti per la prima volta. Una mostra nata

Una delle sette meraviglie del Belgio, il Tesoro di Oignies, viene per la prima volta concesso in prestito quasi integralmente dal Musée des Arts Anciens du Namurois di Namur e approda a Parigi.

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Della trentina di pezzi giunti in Francia fanno parte oreficerie – per lo piú reliquiari, come quelli del latte della Vergine e della costola di san Pietro – e una selezione di tessuti. La mostra ripercorre la storia del priorato di Saint-Nicolas d’Oignies, una comunità di canonici agostiniani fondata alla fine del XII secolo, intorno a tre figure centrali: Maria d’Oignies (1177-1213), Jacques de Vitry (1185-1240) e il talentuoso orafo Hugues de Walcourt, detto Hugo d’Oignies († 1240 circa). Le sue creazioni e quelle del

suo laboratorio, riconoscibili per l’abbondanza di nielli, filigrane, motivi naturalistici e di caccia, costituiscono una testimonianza virtuosa del lavoro sui metalli preziosi. Alcuni anni dopo la fondazione del priorato, la mistica Maria d’Oignies vi si stabilisce e piú d’una delle opere esposte evoca il destino di quella che è stata dichiarata beata poco dopo la sua morte e che è ancora venerata oggi. Nello stesso periodo, Jacques de Vitry, brillante predicatore e per un certo tempo vescovo di Acri,

in Terra Santa, diventa il principale mecenate del priorato e fornisce reliquie e materiali preziosi. Il suo sostegno permette al priorato di diventare un importante centro di produzione di oggetti d’oreficeria e prima Hugo d’Oignies, e poi il suo laboratorio, sviluppano un’arte in costante evoluzione, come emerge dalla mostra. info musee-moyenage.fr PIAZZOLA SUL BRENTA (PADOVA) L’IMPRONTA DI ANDREA MANTEGNA. UN DIPINTO RISCOPERTO DEL MUSEO CORRER DI VENEZIA Villa Contarini-Fondazione G. E. Ghirardi fino al 27 ottobre

Prima di rientrare al Museo Correr di Venezia, delle cui raccolte fa parte, è esposto a Piazzola sul Brenta un prezioso e inedito dipinto ora assegnato ad Andrea Mantegna: la Madonna col Bambino, San Giovannino e sei sante. Tema della composizione, realizzata a olio e oro su tavola e databile intorno agli anni fra il 1490 e il 1495 è la Sacra Conversazione: la Madonna e il Bambino Gesú in muto dialogo spirituale con san Giovanni Battista fanciullo e sei sante. Dal punto di vista strettamente iconografico, il soggetto sembra legarsi al tema figurativo fiammingo della Virgo inter virgines, vivo soprattutto nelle corti di Francia e Borgogna del XV secolo. A Villa Contarini, il piccolo dipinto è offerto anche all’attenzione degli studiosi, che possono tentare di scalfirne i segreti e, soprattutto, indagare la reale natura e misura della forte, agosto

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APPUNTAMENTI • Festival della Mente XXI edizione: Gratitudine Sarzana 30 agosto-1° settembre info www.festivaldellamente.it

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e riflessioni di personalità di spicco del panorama culturale contemporaneo – scrittori, scienziati, filosofi, storici, sportivi, psicoanalisti, antropologi e artisti – si intrecceranno con il concetto di gratitudine, filo conduttore dell’edizione 2024 del Festival della Mente. Sono 30 gli eventi in programma (piú 3 bis), ai quali si affiancano 23 appuntamenti per bambine e bambini, ragazzi e ragazze (12 piú le repliche), che svilupperanno il tema di questa edizione tra letteratura, scienza, tecnologia, arte, ecologia e fotografia. Fra gli appuntamenti, la conferenza L’eros delle donne. Maria di Francia e l’amore cortese, in cui Chiara Mercuri, storica, saggista, nonché collaboratrice di «Medioevo», ci parla di un alfabeto erotico nuovo, che nasce dalla penna di Maria di Francia – prima poetessa a scrivere in lingua francese – intorno alla seconda metà del 1100. Per la prima volta nel Medioevo l’eros, descritto con gli occhi delle donne, reclama passione e piacere. Ancora in ambito medievale è Una perla per dire grazie, l’incontro con la storica Maria Giuseppina Muzzarelli: un viaggio, tra bellezza e gratitudine, negli innumerevoli significati che nel corso dei secoli sono stati attribuiti alle perle.

personalissima «impronta» che in esso ha lasciato Mantegna: l’ideazione e il disegno, o anche l’esecuzione di sua mano? Anche in attesa di tali «risposte», la mostra rappresenta l’epilogo del primo atto di una vicenda appassionante, che unisce scoperta, indagine, studio, conservazione, restituzione, valorizzazione. info www.fondazioneghirardi.org TOLOSA «CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025

Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande respiro, distribuita in due sedi: il Musée SaintRaymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), un episodio che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati

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provenienti dal Nord, il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto espositivo si sofferma da un lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno caratterizzato la crociata contro gli Albigesi, intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara, senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr

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Avventure, storie e misteri di 16 capolavori dell’antichità

GLI IMPERDIBILI Un viaggio attraverso l’intero territorio italiano, seguendo un percorso dettato da sedici capolavori dell’antichità: è questa la proposta della nuova Monografia di «Archeo», nella quale sono riunite eccezionali espressioni della creatività e dell’estro artistico di maestri dei quali mai conosceremo i nomi, ma che, grazie all’archeologia, ci hanno lasciato testimonianze di altissimo pregio. Testimonianze che oggi sono fra i vanti maggiori dei musei pubblici e privati che le custodiscono e che, anche grazie a loro, come scrive Daniele F. Maras nella presentazione della Monografia, assolvono al compito di «conservare la memoria e raccontare la storia allo scopo di produrre nuova cultura (un compito che, per inciso, deriva direttamente dalla nostra Costituzione, quando dice che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”, art. 9)». Dal raffinato rilievo della patera di Parabiago all’enigmatica bellezza delle statue stele della Lunigiana, dallo sfavillio dei bronzi di Cartoceto ai magnifici riflessi della Tazza Farnese, dalla quiete elegante del Sarcofago degli Sposi alle pose marziali delle statue di Mont’e Prama: un trionfo di forme e di colori, che vuol essere soprattutto un invito a vedere da vicino opere davvero «imperdibili».

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restauri siena

L’esagono delle

meraviglie a cura della Redazione


Torna a farsi ammirare, a conclusione di un impegnativo intervento di restauro, il Fonte battesimale del Duomo di Siena. Fatto di marmo, bronzo dorato e rame smaltato, lo straordinario impianto scultoreo realizzato nei primi decenni del Quattrocento da Donatello, Jacopo della Quercia, Ghiberti e Giovanni di Turino sfoggia la potenza espressiva delle sue decorazioni e svela particolari inediti sulle soluzioni scelte dai tre grandi maestri nel corso della lavorazione

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l Complesso monumentale del Duomo di Siena vanta una concentrazione di tesori eccezionale, che non si limita alla sola, insigne chiesa cattedrale. A pochi passi dal tempio, una delle espressioni piú alte del gotico-romanico itaiano, si staglia la mole severa del Battistero, già pieve di S. Giovanni, al centro del quale troneggia lo spettacolare Fonte battesimale, che, grazie al restauro appena ultimato, suscita il medesimo stupore che dovettero provare, nel Quattrocento, i Senesi che per primi lo videro ultimato in tutte le sue forme. Il Fonte battesimale del Battistero di Siena rappresenta infatti un compendio della scultura rinascimentale con opere straordinarie dei tre maggiori scultori toscani dei primi decenni del XV secolo: Lorenzo Ghiberti, Donatello e Jacopo della Quercia. La sua struttura si innalza sopra due gradini che ripropongono la forma esagonale dell’ampia vasca in marmo, larga piú di 2 m. Questa è scandita, agli angoli, da edicole trilobate che ospitano sei statuette di Virtú, realizzate in bronzo come le formelle con le storie della vita di san Giovanni Battista su ciascun lato.

Profeti e spiritelli

Nella parte interna, la vasca consta di un grande bacino monolitico, al centro del quale sorge un fascio di colonnette su cui poggia il monumentale tabernacolo, destinato probabilmente a custodire sia il crisma utilizzato per il rito del battesimo, sia il pane eucaristico. Esso ha l’aspetto di un tempietto classicheggiante coperto da una cupola a spicchi ed è ornato da cinque Profeti entro nicchie. Il sesto lato è chiuso da uno sportello bronzeo dorato raffigurante la Madonna col Bambino, opera dell’orafo e scultore senese Giovanni di Turino (1434). Al di sopra della trabeazione erano posti in origine sei Spiritelli di bronzo a tutto tondo, di cui oggi ne restano in situ solo quattro, due di Donatello e due di Giovanni di Turino. Una slanciata lanterna, con sei pilastrini scanalati, funge da raccordo tra la cupola e il basamento della figura di San Giovanni che corona il Fonte. La ricca documentazione conservata presso l’Archivio dell’Opera del Duomo di Siena ha consentito alla critica di far luce sulla genesi e le tormentate fasi di realizzazione di quest’opera straordinaria. Nel 1416 la costruzione del bacino, in forme ancora gotiche, venne assegnata a Sano di Matteo da Siena, Nanni di Jacopo da Lucca e Jacopo di Corso da Firenze, che lavorarono sotto la supervisione di Lorenzo Ghiberti, chiamato appositamente per fornire il suo parere sul progetto. Vista prospettica del modello digitale tridimensionale fotogrammetrico del Fonte battesimale del Duomo di Siena.

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Sette anni piú tardi, nel 1423, la maggior parte degli elementi lapidei della vasca risultavano conclusi, anche se non ancora assemblati. Dopo un periodo di inerzia, le attività ripresero nuovo slancio nel 1427, con l’affidamento al senese Jacopo della Quercia della realizzazione del tabernacolo, concluso nell’aprile del 1429, quando il pittore Sano di Pietro fu pagato per aver lumeggiato d’oro e dipinto di azzurro alcune porzioni dei marmi. Tracce significative di questa decorazione sono riemerse durante il restauro. Parallelamente a questi eventi furono avviati i lavori per le sei formelle in bronzo con episodi della vita di san Giovanni Battista. L’esecuzione delle formelle, di forma quadrata e con lati di circa 60 cm, non segue la cronologia delle storie del santo. Infatti, la formella con il primo episodio della narrazione, l’Annuncio a Zaccaria, fu l’ultima a essere eseguita da Jacopo della Quercia, nell’inverno del 1428-1429. Questa formella è collocata sul lato del Fonte rivol-

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to verso l’altare del Battistero. Il racconto agiografico prosegue, in senso antiorario, sulle altre facce del monumento con la Nascita del Battista (Turino di Sano e Giovanni di Turino), la Predica del Battista (Giovanni di Turino), il Battesimo di Cristo (Lorenzo Ghiberti), la Cattura del Battista (Lorenzo Ghiberti) e il Banchetto di Erode, detto anche Convito di Erode (Donatello).

L’incredulità del futuro padre

La scena dell’Annuncio a Zaccaria è ambientata in un edificio classico, ove l’Arcangelo Gabriele appare al vecchio e incredulo sacerdote e gli annuncia che l’anziana moglie Elisabetta gli avrebbe dato un figlio, che avrebbe dovuto chiamare Giovanni. La Nascita del Battista, del 1427, è ambientata nella camera di Elisabetta, che ripropone un ambiente domestico di epoca rinascimentale, dove la puerpera giace su un letto a baldacchino, accanto a una cassapanca con dossale decorato, sulla quale siede la nutrice col piccolo Giovanni agosto

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Sulle due pagine, da sinistra Battesimo di Cristo, formella in bronzo di Lorenzo Ghiberti, dopo il restauro; Nascita del Battista, formella in bronzo di Giovanni di Turino, dopo il restauro; Speranza, statuetta in bronzo di Donatello, dopo il restauro.

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Una veduta della vasca del Fonte battesimale. In primo piano la formella con la Cattura del Battista, opera di Lorenzo Ghiberti.

e il padre Zaccaria che, diventato muto per aver dubitato delle parole dell’Arcangelo Gabriele, scrive il nome del bambino su una tavoletta. Nello stesso 1427 si colloca il rilievo con la Predica del Battista di Giovanni di Turino. In questo caso la scena è ambientata all’aperto, in un paesaggio roccioso, al centro del quale sta il Battista ,rivolto a destra verso un gruppo di uomini. Sotto i suoi piedi scorre un piccolo fiume, il Giordano, mentre sullo sfondo si innalza un borgo turrito. Lo splendido Battesimo di Cristo di Lorenzo Ghiberti, è collocato sul lato del Fonte che guarda il portale centrale del Battistero. L’artista è riuscito a tradurre in bronzo in modo magistrale il versetto del Vangelo di Marco che recita: «E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo spirito discendere verso di lui come una colomba» (Marco 1, 10).

Con il braccio alzato verso il cielo

La seconda formella realizzata da Lorenzo Ghiberti, raffigurante la Cattura del Battista, fu consegnata assieme all’altra, il 15 novembre 1427. La scena si svolge in un edificio classico con colonne che sostengono arcate a tutto sesto ed è molto affollata. Sulla sinistra il re Erode, seduto in trono con Erodiade, indica con gesto perentorio il Battista che, trattenuto da vari soldati, alza il braccio destro per indicare il cielo. La sesta formella, che raffigura il Banchetto (o Convito) di Erode, avvenuto dopo la decapitazione del Battista, fu compiuta da Donatello sempre nel 1427. A differenza della formella precedente, le figure so-

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no molto meno aggettanti anche nel primo piano e diventano a bassissimo rilievo nei piani retrostanti (il cosiddetto stiacciato donatelliano; vedi anche il box alle pp. 32-33). In un unico riquadro Donatello inserisce tre momenti successivi della crudele storia narrata dai Vangeli di Matteo e Marco. Le architetture del palazzo, dove si svolgono le scene della danza di Salomè e la presentazione della testa del Battista, sono descritte in modo magistrale, con i singoli conci e le buche pontaie con vari travi troncate e in aggetto che, assieme al pavimento a riquadri scorciati, accentuano il senso prospettico. Ai lati delle formelle istoriate, entro edicole marmoree di gusto ancora gotico, sono collocate le sei statuette raffiguranti le Virtú, alte circa 50 cm. Al senese Giovanni di Turino si devono ben tre di queste figure: la Giustizia, la Carità e la Prudenza, eseguite tra il 1429 e il 1431. A Donatello spettano altre due Virtú, la Fede e la Speranza (1427-1429). La Fortezza è stata realizzata dall’orafo e scultore senese Goro di ser Neroccio nel 1428-1431. Le cornici architettoniche orizzontali e parallele alle formelle bronzee contengono dodici fasce (o listre) in lega di rame incise, dorate e smaltate in azzurro. Le sei in basso recano girali vegetali e una dedica in eleganti caratteri gotici a Bartolomeo di Giovanni Cecchi, l’Operaio del Duomo che sostenne il completamento dei lavori del Fonte. Sulle sei fasce in alto corrono invece iscrizioni a lettere capitali tratte dai Vangeli che spiegano le corrispondenti scene fuse nel bronzo. agosto

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IL RESTAURO

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pera celeberrima, il Fonte battesimale di Siena coniuga marmi, un tempo arricchiti da dettagli policromi blu e oro, e bronzi dorati. La struttura architettonica è interamente realizzata in marmo bianco di due differenti qualità: per il registro inferiore una varietà venata proveniente dalla Montagnola senese, per il tabernacolo e la figura del Battista una seconda assai piú omogenea cavata nel comprensorio apuano. Le parti in bronzo (lega di rame) mostrano una doratura ad amalgama di oro e mercurio (la cosiddetta «doratura a fuoco») molto lacunosa per lo sfregamento delle parti piú aggettanti del modellato. L’oro risultava offuscato per i consistenti prodotti di deposito e per stesure di varia natura (olii, cere) applicati in precedenti interventi di manutenzione. Le superfici erano interessate anche da abrasioni,

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graffi e consistenti alterazioni di colore verde, tipiche dei prodotti di alterazione del rame.

Alterazioni e degrado

Anche lo stato di conservazione del materiale lapideo era piuttosto disomogeneo, assai peggiore nel registro inferiore rispetto alla parte in elevato. Nell’area intorno alle formelle le forme piú evidenti del deterioramento erano una alterazione cromatica e un degrado materico del marmo. Le cornici che inquadrano gli elementi in bronzo presentavano macchie brune originate dall’alterazione di prodotti di natura organica applicati per la manutenzione. La nicchia che accoglie la figura della Speranza appariva particolarmente compromessa, con numerose scagliature e una lesione passante che la divideva diagonalmente in due parti. Per verificare la statica della

Il Fonte battesimale prima (a sinistra) e dopo l’intervento di restauro, avviato nel 2021 dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, con la partecipazione dell’Opera Metropolitana di Siena e sotto la sorveglianza della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo.

struttura architettonica e i parametri ambientali sono state intraprese due diverse campagne di indagine in situ: misurazioni ultrasoniche hanno verificato la presenza di ancoraggi metallici interni al Fonte e indagini geofisiche sul pavimento hanno indagato la presenza di vuoti o fronti di umidità nel sottofondo archeologico. Verificata una situazione precaria, si è proceduto al progressivo smontaggio degli elementi in bronzo dorato e delle fasce con iscrizioni dorate e smaltate in blu cobalto, per poter risanare la struttura

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restauri siena

lapidea e procedere all’intervento diagnostico e conservativo degli elementi in lega metallica nei laboratori dell’Opificio a Firenze. Una approfondita campagna diagnostica ha preceduto e accompagnato l’intero intervento e, per gli elementi in bronzo, hanno contato la documentazione fotografica HMI (Hyper Colorimetric Multispectral), l’acquisizione e le elaborazioni tridimensionali, analisi indirizzate alla caratterizzazione dei composti di alterazione e dei materiali costitutivi, studio delle terre di fusione. Oltre a individuare le alterazioni presenti e le leghe costitutive, si è cercato di affrontare la stabilizzazione dei cloruri, prodotti di corrosione particolarmente insidiosi per la lega di rame. La loro presenza trova spiegazione in manutenzioni non idonee effettuate in passato,

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negli alti livelli di umidità presenti all’interno del Battistero e nel mantenimento delle condizioni di uso in occasione del rito del battesimo. Un’estrema conseguenza di questo fenomeno di corrosione si è riscontrato nella formella del Banchetto di Erode di Donatello con la parziale perdita di materia metallica.

Il via alle operazioni

Le prime fasi dell’intervento diretto di restauro hanno riguardato lo smontaggio degli elementi bronzei avviato tra il 22 e il 23 febbraio 2021. In alcuni casi l’operazione è stata lunga ma piuttosto agevole, in altri, per esempio per le formelle che non presentavano giunti meccanici, ha comportato una complessa fase di asportazione delle stuccature, in pessimo stato di conservazione o dovute a vari rifa-

cimenti, che le congiungevano alla struttura marmorea. Lo smontaggio ha consentito di valutare adeguatamente lo stato di conservazione delle superfici non a vista e di intervenire su zone con alterazioni consistenti, che altrimenti non sarebbero state accessibili e ha portato dati di conoscenza interessanti. In particolare, le realizzazioni di Giovanni di Turino (formella Nascita del Battista, formella Predica del Battista e Virtú Prudenza) si sono rivelate frutto di un ingegnoso assemblaggio di porzioni fuse separatamente. Lo studio della formella di Donatello Convito di Erode ha permesso di individuare la presenza, in passato, di tiranti applicati fra gli archi sovrastanti la scena che dovevano amplificare l’effetto prospet(segue a p. 34) agosto

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Il Profeta scolpito da Jacopo della Quercia per una delle nicchie del tabernacolo durante la pulitura. Nella pagina accanto, a sinistra un particolare del tabernacolo prima, durante e dopo la pulitura delle cromie. Nella pagina accanto, a destra il Profeta di Jacopo della Quercia al termine del restauro.

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restauri siena Sulle due pagine alcune fasi dell’intervento che ha interessato la formella con il Banchetto (o Convito) di Erode, realizzata da Donatello fra il 1427 e il 1429.

Nuove acquisizioni

Alla ricerca della prospettiva Il restauro della formella in bronzo dorato che raffigura la scena del Banchetto di Erode, realizzata da Donatello fra 1427 e 1429, fa parte di un intervento rivolto all’intero Fonte battesimale del Battistero di Siena, attivato grazie alla Convenzione fra l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze (OPD), l’Opera della Metropolitana di Siena e la Soprintendenza competente, firmata da Marco Ciatti, Guido Pratesi e Andrea Muzzi. La formella donatelliana è un’opera straordinaria, ricca di particolari e dettagli tecnici che, grazie anche all’ausilio delle moderne tecnologie, sono stati approfonditi per la prima volta. In particolare, durante gli interventi di pulitura, sono emersi alcuni dettagli tecnici della lavorazione superficiale che spingono a interrogarsi sulla funzionalità e sulla motivazione della loro presenza. All’interno dell’arcata posta sulla sinistra dello sfondo,

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già nel corso delle osservazioni preliminari al restauro, emergeva un inserto metallico rettangolare privo di doratura che non poteva essere interpretato come residuo di un chiodo distanziatore (elemento funzionale alla buona riuscita della fusione che mantiene in posizione forma e controforma durante la trasposizione da modello in cera a opera in bronzo). Infatti i chiodi distanziatori della formella sono di diversa tipologia, in ferro e di ridotte dimensioni. Dal punto di vista tecnico l’elemento in questione risulta applicato a freddo e non attraversa lo spessore della formella: plausibilmente esso sarebbe stato aggiunto dall’artista con un intento preciso, data anche la sua collocazione in linea prospettica con l’architettura sullo sfondo, perfettamente coerente con la presenza di una catena o tirante in ferro entro l’arcata. Analizzando poi le altre arcate della quinta scenica, sono emersi ulteriori

segni di lavorazione a freddo privi di doratura: si tratta di piccoli scassi, due per ogni arcata e speculari tra loro, posti in corrispondenza delle imposte degli archi a tutto sesto. Questi alloggiamenti sono presenti sia sulle arcate del primo registro, che su quelle del secondo e, analizzandoli ancor piú nel dettaglio, appare evidente che la rispettiva collocazione potrebbe essere stata accuratamente studiata. Potrebbe trattarsi di punti predisposti per l’inserimento «a freddo» di elementi metallici volti a simulare la presenza di catene o tiranti di ferro tra le varie arcate, analoghi a quello obliquo ancora esistente in corrispondenza della prima arcata sulla sinistra, tra il primo e il secondo registro. È possibile ipotizzare che Donatello avesse intenzionalmente inserito tali elementi dopo la fusione della formella, al fine di amplificare l’effetto prospettico e realistico dell’architettura raffigurata. agosto

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In occasione del restauro nel Settore Bronzi dell’OPD si è intrapreso uno studio per verificare queste ipotesi e sono state effettuate alcune prove per riproporre i tiranti mancanti. L’integrazione è stata realizzata con il solo scopo di visualizzare concretamente e poter quindi verificare nel dettaglio la validità delle supposizioni collegate agli indizi tecnici riscontrati. Pertanto, limitandoci a sviluppare i suggerimenti impliciti dei dettagli tecnici emersi (per dirla con un termine brandiano) e collegando tra loro gli alloggiamenti presenti, sono stati realizzati degli inserti metallici in rame, totalmente rimovibili, le cui forme e dimensioni sono state dedotte dall’elemento originale superstite e dagli scassi presenti sulle rispettive arcate.

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I tiranti del primo registro risultano interamente in aggetto, creando un gioco di ombre portate sul piano della formella; quelli delle arcate in secondo piano, invece, sono poggiati sulla superficie, producendo comunque un gioco di ombre dovuto allo spessore del tirante stesso. Le ricerche, gli approfondimenti e i confronti tecnici e stilistici sono ancora in corso, ma già da questo primo studio è possibile apprezzare una resa inedita dello stiacciato donatelliano, enfatizzata dalla presenza di questi otto tiranti dei quali si era completamente persa traccia e menzione. A oggi, infatti, gli elementi non risultano citati nelle principali descrizioni o nelle riproduzioni note della formella. La perdita di tali elementi nella formella senese

potrebbe essere collegata a vicende conservative molto remote. Infatti i calchi citati nel catalogo del formatore Oronzio Lelli del 1887 risultano privi del dettaglio dei tiranti. Permangono alcuni aspetti ancora da indagare, che riguardano la finitura, prevista o perduta, di questi elementi, nonché uno studio piú accurato inerente alla morfologia e all’esatta dimensione degli stessi. Tale approfondimento avverrà in seguito, anche grazie al coinvolgimento di altri professionisti, corredando lo studio tecnologico e scientifico con l’opportunità o meno di una riproposizione sperimentale di diverse soluzioni per la realizzazione di questi dettagli. Laura Speranza, Stefania Agnoletti, Maria Baruffetti, Annalena Brini e Antonio Mignemi

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restauri siena tico e realistico dell’architettura. In occasione del restauro questi elementi perduti sono stati riproposti e documentati, ma successivamente rimossi (vedi box alle pp. 32-33). La fase operativa di restauro si è svolta secondo un protocollo di massima, le cui operazioni sono state via via rimodulate in base allo stato di conservazione dei singoli elementi. Alla spolveratura con pennelli morbidi è seguito un lavaggio a vapore, il trattamento con miscele di solventi gelificati e non, lavaggi ripetuti per eliminare le sostanze applicate. Si è utilizzata anche l’ablazione laser con lavaggi conclusivi. La rifinitura è stata efQui sotto il San Giovanni Battista, la statua realizzata da Jacopo della Quercia e posta a coronamento del Fonte battesimale del Duomo di Siena.

scopertura del pavimento del duomo

Un libro di marmo Oltre alla possibilità di ammirare il restaurato Fonte battesimale, dal 18 agosto al 16 ottobre, la visita della Cattedrale di Siena offre l’opportunità di vedere il magnifico pavimento a commesso marmoreo. Risultato di un complesso programma iconografico, è stato realizzato attraverso i secoli, a partire dal Trecento fino all’Ottocento, tarsia dopo tarsia, i cui cartoni preparatori sono stati disegnati da artisti, quasi tutti «senesi», fra cui il Sassetta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni, Domenico Beccafumi, oltre che dal pittore umbro Pinturicchio, autore del riquadro con il Monte della Sapienza, raffigurazione della via verso la Virtú come raggiungimento della serenità interiore. Il prezioso tappeto di marmi policromi è unico, non solo per la tecnica utilizzata, ma anche per il messaggio delle figurazioni, un invito costante alla sapienza, a partire dalle navate con i protagonisti del mondo antico, scarmigliate sibille e autorevoli filosofi, fino ai soggetti biblici sotto la cupola, nel presbiterio e nel transetto. Si tratta di «un libro di marmo», come recita il titolo del volume di Marilena Caciorgna, catalogo ufficiale dei diversi riquadri, apparso per i tipi di Sillabe, in cui si affrontano non solo gli aspetti storicoartistici, ma si esaminano anche le tematiche e le numerose iscrizioni a corredo delle tarsie, cogliendone il significato piú profondo, quello di un cammino di

fettuata con ausilio di piccoli strumenti, come bastoncini di plexiglass, legno e anche con aculei di istrice. Si è infine proceduto all’applicazione di cere protettive nel retro delle formelle e nelle porzioni non dorate delle sculture. Lo studio tecnologico ha accompagnato tutto il restauro per coniugare le osservazioni svolte dai restauratori

con quelle di uno studioso di antiche tecnologie. La lunga pulitura delle fasce smaltate è stata condotta prevalentemente con mezzi meccanici e rifinitura a laser, recuperando l’originario contrasto tra le dorature e lo smalto blu opaco. Gli elementi lapidei sono stati restaurati in loco nel cantiere allestiagosto

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sapienza e di fede, di un’esperienza interiore senza pari. Il percorso si apre con l’iscrizione d’ingresso, davanti al portale centrale, una sorta di invito a entrare «castamente» nel Virginis templum, la casa di Maria, testimonianza del forte legame che i cittadini senesi hanno da secoli con la loro «patrona»: Sena vetus civitas Virginis. La Madonna si definisce anche come Sedes Sapientiae («sede di Sapienza») e, subito dopo, la scritta è seguita dalla tarsia con l’Ermete Trismegisto, il sapiente egiziano, il primo grande teologo dell’antichità. Seguono filosofi come Socrate e Cratete – nella tarsia del Pinturicchio –, e poi Epitteto, Aristotele, Seneca ed Euripide che corredano la Ruota della Fortuna e invitano al distacco dai beni terreni, futili, anzi ingombranti per dedicarsi al pensiero filosofico. Si passa dunque all’itinerario biblico, in cui Domenico Beccafumi, rispetto agli artisti delle precedenti generazioni, si avvale di nuovi modi stilistici rinnovando la tecnica del commesso marmoreo. L’artista invece di utilizzare pietre di vario colore accosta marmi di sfumature diverse rispetto alla tinta di base. Attraverso le gradazioni tonali del grigio-verde, Beccafumi riesce cosí a ottenere risultati sorprendenti di chiaro-scuro, in cui luci e ombre delineano le figure con una tale abilità artistica, da sembrare capolavori realizzati con la tecnica silografica o pitture monocrome. to all’interno del Battistero. La pulitura del marmo è stata condotta con solventi in forma libera o gelificata; i residui delle originarie cromie blu e oro, data l’estrema fragilità, sono invece stati trattati con laser. Se lo smontaggio non è stato semplice, anche il rimontaggio non si è rivelato da meno, poiché ha comportato lo studio e la realizzazione di nuovi elementi e giunti di fissaggio realizzati ad hoc in modo da riadeguare le posizioni degli elementi architettonici lapidei non corrette. Per le sculture e per le fasce smaltate sono stati realizzati nuovi giunti in lega di rame e in acciaio. Lo stato di conservazione e la necessità di rendere ispezionabili le parti non a vista delle formelle per un monitoraggio cadenzato nel tempo ha imposto la progettazione di una struttura di sostegno degli elementi lapidei che consenta di accedere al retro dei bronzi senza dover necessariamente smontare i blocchi di marmo. Dopo il rimontaggio di tutte le

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componenti metalliche all’interno della struttura marmorea, sono proseguite le operazioni di rifinitura (fino al 14 giugno 2024) e sono state nuovamente trattate quelle zone che presentavano nuovi affioramenti di cloruri. Le lacune piú vistose a carico del marmo sono state sanate, in parte con stampe 3D e in parte con impasti modellati, e trattate con ritocco mimetico. Per i giunti è stata identificata una malta a base di calce e tufo in collaborazione con il Dipartimento di Scienze fisiche, della Terra e dell’ambiente dell’Università di Siena.

Il passato e il futuro

Un lavoro complesso, dunque, e lungo, ma che ha tenuto responsabilmente in conto, per quanto possibile, le esigenze della fruizione: le varie parti bronzee una volta restaurate sono state riconsegnate a Siena in modo che l’Opera della Metropolitana potesse esporle nelle vetrine predisposte ai lati

Allegoria del Monte della Sapienza (particolare), tarsia del Pinturicchio per il pavimento a commesso marmoreo del Duomo di Siena. Nella pagina accanto, a destra veduta dall’alto del pavimento a commesso marmoreo, visibile dal 18 agosto.

Dove e quando Complesso monumentale del Duomo di Siena (Cattedrale, Libreria Piccolomini, Museo dell’Opera, Panorama dal Facciatone, Cripta, Battistero) Orario gli orari variano stagionalmente e possono differire per i diversi monumenti che fanno parte del complesso Info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; https://operaduomo.siena.it del ponteggio montato attorno al Fonte e offrirle ai visitatori. Una formella e due statue di Virtú (Fede e Speranza) sono state esposte alla mostra «Donatello. Il Rinascimento» (Firenze, Palazzo Strozzi, 19 marzo-31 luglio 2022). Questo per il passato. Altrettanto responsabilmente saranno necessari un monitoraggio ambientale e l’adozione di sistemi di controllo dell’umidità: per il futuro. F

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Un santo per amico di Paolo Golinelli

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La cena miracolosa, affresco di autore anonimo. 1350-1360. Pomposa (Codigoro, Ferrara), abbazia, refettorio. Protagonista della scena è l’abate (e poi santo) Guido, che qui tramuta l’acqua in vino e al quale si legò il terzo marchese di Canossa, Bonifacio, che piú volte si rivolse al religioso per avere consigli ed essere confortato spiritualmente.

Piú di uno dei marchesi di Canossa e, soprattutto, la contessa Matilde, ebbero amichevoli consuetudini con importanti uomini di fede, molti dei quali sarebbero stati poi canonizzati. Rapporti intensi, fatti di scambi di consigli, doni e, non di rado, di interventi decisivi anche in delicate controversie di natura politica MEDIOEVO

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el Medioevo, se non ci sono «santi in famiglia», come recita il titolo di un saggio di Alessandro Barbero da poco ristampato (vedi info a p. 46), che creano problemi, il rapporto dei nobili con la santità è di protezione e sostegno delle pie figure e di valorizzazione dei luoghi che le ospitano in terra, ricambiato da una diversa protezione per i nobili stessi, le loro famiglie e i loro territori, in cielo. Si tratta di uno scambio tra naturale e soprannaturale, allora considerati entrambi come entità concrete. Per i Canossa questa protezione è alla base del loro potere, quando, nel 951, Adalberto Atto ospitò nel suo castello sulle colline reggiane la regina Adelaide, vedova di Lotario, re d’Italia, inseguita da Berengario II, che voleva farla sposare al figlio, per ottenere la corona del regno. Una storia, questa, divenuta leggenda, per come l’hanno raccontata i contemporanei, da Roswita al monaco autore del Chronicon Novalicense, all’abate di Cluny Odilone, fino al cantore di Matilde, Donizone. Berengario II assediò Canossa per una settimana, e la rocca resistette finché non giunsero le truppe di Ottone I, al quale poi la regina andò sposa, consentendogli cosí di unire i regni di Germania e d’Italia per ricostruire il Sacro Romano Impero delle genti germaniche, artefice non secondario il progenitore dei Canossa, Adalberto Atto, che fu ricompensato con le contee di Modena, Reggio Emilia e Mantova. Nata in Borgogna nel 931 e poi costretta a trasferirsi a Pavia, quando, nel 937, la madre, Berta, si uní a Ugo di Provenza, Adelaide fu sposa feconda, generando Ottone II, e, dopo la di lui morte, nel 983, reggente dell’impero per il nipote Ottone III dal 991 al 994; infine, quando questi, raggiunta la maggiore età, prese il potere, si ritirò nel monastero di Selz, in Alsa-

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storie canossa I resti del castello di Canossa, la cui fondazione viene attribuita ad Adalberto Atto, alla metà del X sec. Qui ebbe luogo, nel 1077, lo storico incontro fra l’imperatore Enrico IV e papa Gregorio VII.

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i signori di canossa

Qui accanto Bonifacio, marchese di Toscana, nonché padre di Matilde di Canossa in una miniatura tratta dal manoscritto originale della Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Un nobile lignaggio Sigifredo da Lucca Adalberto Atto sposa Idegarda (dei Supponidi)

Rodolfo

Gotifredo (vescovo)

Tedaldo (988-1012) Sposa Guilia

Tedaldo (vescovo)

Corrado

Bonifacio (1012-1052) Sposa in II nozze Beatrice di Lorena (?-1076)

Beatrice muore in giovane età

Federico muore in età minore nel 1053 (la dinastia si estingue in linea maschile)

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Matilde (1046-1115) Sposa (1) nel 1069 Goffredo il Gobbo (nasce una figlia che muore in tenera età); (2) nel 1089 Guelfo V di Baviera

zia, da lei fondato, dove morí il 16 dicembre 999 in odore di santità. Fu canonizzata quasi un secolo piú tardi da Urbano II, nel 1097. Se non ne sono documentati rapporti diretti con i Canossa, la regina rimase nella memoria della dinastia un nume protettore e sul suo esempio si formò Matilde, come appare dagli oltre 250 versi che Donizone dedicò alla sua storia nella sua Vita Mathildis.

Un’urna inamovibile

L’attenzione del capostipite dei Canossa per la santità è documentata da due suoi interventi relativi a reliquie: il primo quando fece tagliare la testa e il braccio destro (o sinistro?) del vescovo di Brescia Apollonio per portarli a Canossa, e consacrare su di essi la nuova chiesa; il secondo quando assistette con la moglie, Ildegarda, alla scoperta (inventio) del corpo di san Genesio, antico vescovo di Brescello (oggi noto come il paese di don Camillo, ma anticamente importante città romana sul Po, sede vescovile). L’urna non si lasciava sollevare, finché i signori di Canossa non promisero che avrebbero eretto in quel luogo un monastero intitolato al santo. Di Tedaldo non sono giunte testimonianze relative a santi, ma importante fu per lui, nel 1007, la fondazione del monastero di S. Benedetto, tra il Po e il Lirone, poi illustrato dall’arrivo dall’Oriente dell’eremita Simeone, canonizzato mille anni fa da papa Benedetto VIII, con una lettera al terzo marchese dei Canossa, Bonifacio (come già abbiamo raccontato; vedi «Medioevo» n. 330, luglio 2024, on line su issuu.com).

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storie canossa Un’altra miniatura tratta dal manoscritto originale della Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nel registro inferiore, alcuni prelati, su incarico di Bonifacio, staccano il braccio destro del vescovo Apollonio, per portarlo a Canossa. Nella versione tramandata da un manoscritto bresciano, l’arto in questione sarebbe stato invece il sinistro.

Figura contraddittoria, Bonifacio univa l’astuzia e la forza del feudatario alla pietà religiosa: dopo la morte di Simeone, si legò all’abate di Pomposa, Guido (970-1046), uomo di altissima spiritualità, che frequentava periodicamente ricevendone consigli e conforto spirituale.

Monaci integerrimi

Narra Donizone che un giorno Bonifacio volle mettere alla prova i giovani monaci di Pomposa: fece salire sul tetto della chiesa un uomo fidato, che gettasse giú qualche moneta tra i monaci che pregavano nel coro. Le monete caddero tintinnando, ma nessuno si fece distrarre o interruppe in alcun modo la preghiera. Il commento di Bonifacio, come narra Donizone, fu sibillino (e non privo di ambiguità): «In pochissimi anni anch’essi saranno come i loro maestri». L’episodio è forse frutto della

Reliquia di santa Adelaide. 1045 circa. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.

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fantasia e della cultura di Donizone, piú che della realtà; c’è, infatti, un analogo episodio nella leggenda di sant’Alessio, un testo assai diffuso nel Medioevo, proprio a partire dall’XI secolo: quando il corpo del santo, morto non riconosciuto nel sottoscala della casa paterna, viene portato dal papa e dagli imperatori Arcadio e Onorio verso quella che diverrà la basilica romana di S. Alessio, sull’Aventino, per esservi sepolto, la calca intorno al feretro è tale che il corteo non riesce a farsi strada; gli imperatori allora gettano monete tra la folla, per distrarre la gente, ma nessuno le raccoglie: per gli uomini del Medioevo il santo è portatore di un tesoro piú importante, un tesoro che non si consuma. Non sfuggiva al santo abate di Pomposa la simonia di Bonifacio, cioè la sua rapacità nell’impossessarsi delle decime delle chiese, per cui gli impose di andare in pellegrinaggio penitenziale sino a Gerusalemme, per ottenere il perdono; egli ci sarebbe andato, se non fosse stato assassinato durante una battuta di caccia, il 6 maggio 1052, lasciando la vedova, Beatrice di Lorena, e tre figli: un maschio, Federico, e due femmine, Beatrice e Matilde, che allora aveva sei anni.

Uno schema ricorrente

Federico e la piccola Beatrice morirono anch’essi nei due anni successivi e Beatrice di Lorena scelse di sposarsi con un cugino lorenese, Goffredo il Barbuto, anch’egli vedovo, che dal primo matrimonio aveva avuto un figlio, Goffredo il Gobbo, che divenne promesso sposo di Matilde, e una figlia, Ida (1040-1113), che andò in sposa nel 1056 a Eustachio II di Boulogne, poi alla sua morte (1088) oblata benedettina, quindi beata. Ella è presentata nella Vita B. Idæ Boloniensis Comitissæ, come la santa moglie esemplare, rappresentando l’ideale del suo genere (genus), col

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In alto lastra a rilievo raffigurante il vescovo Apollonio. XI sec. Brescia, Duomo Vecchio.

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storie canossa

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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A piena pagina l’abbazia di Pomposa (Ferrara), le cui origini risalgono ai secoli VI-VII, quando sorse un insediamento benedettino sull’Insula Pomposia, un’isola boscosa circondata dalle acque del Po di Goro e del Po di Volano e protetta dal mare. Qui sotto Eustachio conte di Boulogne e la sposa Ida, olio su rame di ambito francese. XVII sec. Firenze, Galleria degli Uffizi. Dal loro matrimonio nacque Goffredo di Buglione.

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dare alla luce una prole importante nei tre figli: Eustachio, terzo conte di Boulogne; Goffredo di Buglione, comandante della prima crociata; Baldovino, re di Gerusalemme; infine facendosi monaca, e donando molti beni ai monasteri.

Consigli molto ascoltati

Non sono documentati rapporti diretti tra Ida di Boulogne e Matilde di Canossa, anche se è presumibile che fossero entrambe al capezzale di Goffredo il Barbuto a Verdun, al momento della sua dipartita (fine del 1069); ma entrambe ebbero per consigliere sant’Anselmo d’Aosta, quando era arcivescovo di Canterbury, e si giovarono della sua protezione spirituale. Ambiguo fu il rapporto di Beatrice di Lorena con i santi della sua epoca: molto vicina a san Pier Damiani (1007-1072), che approvò il suo secondo matrimonio, a patto che non venisse consumato (in caso contrario, lei e Goffredo il Barbuto avrebbero dovuto fondare due monasteri), ebbe contrasti con i Vallombrosani, tanto da progettare di catturare il loro fondatore, Giovanni Gualberto. Il tentativo fallí per un’improvvisa tempesta, come scrisse il biografo del santo, Andrea di Strumi. Per converso protesse i capi della pataria milanese (movimento religioso e politico che trasse origine dal fermento di parte del clero e del popolo di Milano contro la simonia e il concubinato ecclesiastico, n.d.r.) e favorí l’ascesa al soglio pontificio di Alessandro II (al secolo Anselmo I da Baggio, 1010/1015-1073), cosí come l’artefice della riforma: Gregorio VII (1015 circa-1085). Matilde fu, con la madre, a sostenere Gregorio VII contro i Normanni, nell’incontro che ebbero col pontefice a Montefiascone (usque ad castrum Sancti Fabiani), il 12 giugno 1074 (e non a Fiano Romano, come hanno interpretato gli editori tedeschi). Davanti alla

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chiesa di S. Flaviano, nella parte bassa del centro sul lago di Bolsena, si incrociavano la medievale via Francigena e la romana via Cassia.

Voci calunniose

A tutti è noto lo stretto rapporto che legò Gregorio VII e Matilde di Canossa, sul quale gli avversari della riforma insinuarono che andasse oltre il lecito; ma non c’è da credere alle maldicenze interessate. Gregorio VII rappresentò per Matilde l’ideale di monaco, papa e santo, e per ciò che egli rappresentava ella si spese e combatté, rinunciando al suo piú intimo desiderio: quello del chiostro. Ma non lo seguí al punto da riconciliarsi con un marito che ella disprezzava, mostrando una fermezza e un carattere impensabili (con le

Miniatura raffigurante Enrico IV che prega Matilde di Canossa e Ugo di Cluny, affinché intercedano per lui presso papa Gregorio VII, dalla Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

nostre categorie mentali) per una donna del Medioevo. L’appoggio di Matilde al papato portava con sé il sostegno ai diversi santi riformatori del circolo di Gregorio VII, primo fra tutti Anselmo II da Baggio (1035-1086), vescovo di Lucca, che, scacciato dalla sua sede dai sacerdoti sposati e simoniaci, ai quali voleva imporre la vita in comunità, si rifugiò presso la contessa, prima a Reggio, poi a Mantova, tanto vicino a lei da curarla piú volte per le emicranie di cui soffriva. Anselmo fu affidato a

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storie canossa La Visione di Sant’Anselmo, olio su tela di Francesco Borgani. 1613-1616. Mantova, Museo Diocesano «Francesco Gonzaga». Protagonista della scena è Anselmo da Baggio, il vescovo di Lucca che, scacciato dalla sua città, si rifugiò da Matilde di Canossa, dapprima a Reggio e poi a Mantova.

sant’Ugo di Semur (1024-1109), che vediamo con lei in una famosa miniatura (riprodotta a p. 43).

Uniti per la pace

Matilde da Gregorio VII morente, allo stesso modo in cui Gesú sulla croce aveva affidato la madre al discepolo Giovanni, come scrive l’anonimo agiografo nella Vita Anselmi episcopi Lucensis. Ma anch’egli se ne andò presto, il 18 marzo 1086, e il suo corpo fu sepolto nella cattedrale di Mantova, dove ancora si conserva incorrotto (o quasi). Canonizzato l’anno successivo da papa Vittore III, probabilmente per intervento della contessa, è diventato – non senza resistenze da parte dei Mantovani – patrono della cit-

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tà, che però pochi anni dopo, nel 1091, si dava al piú feroce avversario della Chiesa gregoriana, l’imperatore Enrico IV. Matilde riempiva la solitudine alla quale il destino l’aveva destinata dopo i falliti matrimoni, prima col fratellastro Goffredo il Gobbo (1040 circa-1076), poi con Guelfo V di Baviera (1073-1120), con l’amicizia e la guida spirituale dei maggiori pensatori dell’epoca, che ospitava e favoriva nelle loro imprese. Molti finirono per essere riconosciuti come santi. Tra questi l’abate di Cluny,

In occasione dell’incontro di Canossa del 1077, Matilde e Ugo operarono all’unisono per arrivare alla pacificazione tra Gregorio VII ed Enrico IV, essendo entrambi legati in qualche modo ai due contendenti: Matilde perché seconda cugina dell’imperatore e sostenitrice della Riforma; l’abate di Cluny perché la sua abbazia dipendeva direttamente dal papato, ed era stato padrino di battesimo di Enrico IV. La contessa rinnovava cosí il rapporto privilegiato che già era stato di Adelaide di Borgogna con gli abati e la congregazione cluniacense, affidando a essa, probabilmente in quelle circostanze, il prediletto monastero di S. Benedetto Polirone. Ma ci fu un altro sant’Ugo vicino a Matilde: l’Ugo che, alla nomina a vescovo di Grenoble, a Roma, nel 1080, ebbe dalla contessa il pastorale assieme a copie delle Enarrationes in Psalmos di sant’Agostino e al De officiis di sant’Ambrogio: doni, tutti, molto significativi per il presule, che ricevette nel suo territorio alpino san Bruno e gli affidò la Chartreuse, che divenne il centro dei Certosini. Un’amicizia molto speciale fu quella che uní Matilde al filosofo Anselmo d’Aosta (1033 o 10341109). Entrato nel monastero di Le Bec, su consiglio del vescovo san Maurilio di Rouen (un tempo vicino a Bonifacio di Canossa, che lo nominò abate della Badia Fiorentina), per seguire gli insegnamenti agosto

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di Lanfranco di Pavia, ne divenne abate tre anni dopo, nel 1078, e poi, dal 1093, arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra. In questo ruolo rivendicò l’autonomia della Chiesa rispetto ai re inglesi: sia Guglielmo II (il Rosso), che Enrico I (il Bel Chierico). Per due volte esiliato, Anselmo trovò rifugio presso Matilde: nel 1097-1100 e tra il 1103 e il 1106. Matilde intervenne in suo favore presso papa Pasquale II, con una lettera vibrante: «È indecente [Indecens] che un membro tanto illustre della Santa Chiesa di Roma, debba restare cosí a lungo in esilio (...) e non possa esercitare liberamente l’ufficio che gli è stato affidato», e prega il papa di intervenire. L’intervento di Matilde non rimase inascoltato e seguirono due lettere: una di Pasquale II ad Anselmo, nella quale lo informava di quanto aveva fatto in suo favore, e una di Anselmo al re Enrico I, il Bel Chierico, per invitarlo a cambiare le sue posizioni. Il compromesso fu raggiunto l’anno dopo e finalmente, nel settembre 1106, Anselmo poté raggiungere la sua sede. Fu allora che, appreso dal monaco Alessandro che Matilde non aveva

avuto copia del libro delle Orationes seu Meditationes, fece comporre un nuovo codice e lo inviò a Matilde, come segno di gratitudine per l’aiuto ricevuto «non una sola, ma piú volte», e di sostegno spiritua-

Sant’Ugo nel refettorio dei Certosini (particolare), olio su tela di Francisco de Zurbarán. 1630-1655. Siviglia, Museo di Belle Arti.

III Festival Matildico Internazionale: il programma La terza edizione del Festival Matildico Internazionale, dal 20 al 22 settembre 2024 a San Benedetto Po (Mantova), avrà per tema: «I santi dei Canossa. Nel millenario della canonizzazione di san Simeone armeno». PROGRAMMA • venerdí 20, ore 17,30 Apertura Festival. Mostra storicodidattica: «I santi dei Canossa», a cura di Paolo Golinelli • venerdí 20, ore 21,00 Basilica di Quingentole: Intervista impossibile a Matilde di Canossa (con intermezzi della Cappella musicale «A. Tanzi», maestro Davide Nigrelli) • sabato 21, ore 9,00-12,00 e 15,00-18,30 Convegno internazionale. Intervengono: G. Bergamaschi, G.M. Cantarella, E. Capitani, F. Gallesi, P. Galloni, P. Golinelli, F. Guerri, M. Oldoni, R. Savigni, E. Riversi • sabato 21, ore 21,00 Rievocazione storica: Simeone. Un santo a Polirone da mille anni (1024-2024) • domenica 22, ore 9,00 Raccontare Matilde: Incontro

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con autori e lettori di romanzi su Matilde di Canossa. Intervengono: N. Albertini, L. Bader Pigozzi, R. Coruzzi, E. Guidelli, P. Ciampi, C. Santi, R. Severi, F. Soncini. • domenica 22, ore 18,00 Basilica abbaziale: Missa solemnis Sancti Simeonis, a cura di Federcori Lombardia. Info www.associazionematildicainternazionale.it

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storie canossa Miniatura raffigurante Anselmo d’Aosta che fa dono a Matilde di Canossa di un codice delle Orationes seu Meditationes. XII sec. Admont (Stiria), Stiftbibliothek.

le per quanto di vita restava alla contessa. Di questo manoscritto ci è giunto un antigrafo nel ms. 289 della Stiftsbibliothek di Admont, in Stiria (Austria), con una miniatura del dono dal santo alla contessa (vedi foto in questa pagina).

Un velo sempre pronto

Questo dono, il tono amichevole, e le lettere intercorse testimoniano di una profonda corrispondenza di ideali e di affetti tra l’arcivescovo e Matilde, frutto di una frequentazione breve ma intensa, fatta di lunghe conversazioni durante le quali la contessa confidò ad Anselmo che il suo desiderio piú intimo era quello della vita monastica. Ed egli le consigliò di tenere sempre a portata di mano un velo mona-

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stico, da indossare quando sentiva avvicinarsi la morte: «Conservo sempre nel mio cuore il ricordo del vostro santo desiderio, come il vostro cuore aneli all’abbandono del mondo, ma vi trattiene da esso l’amore pio che avete verso la madre Chiesa» le scrive. Li accomunava il dovere di dedicarsi alla vita attiva, laddove il loro piú profondo desiderio era la contemplazione nel chiostro. Ben diversamente, Gregorio VII nel 1074 aveva negato a Matilde la possibilità di dedicarsi alla vita religiosa, avendo bisogno del suo aiuto. Il rapporto di Anselmo con Matilde si configura cosí su due piani: quello del consigliere spirituale, che conforta la contessa quando sente sempre piú pressante il richiamo alla vita religiosa, e quello

piú propriamente politico di chi ha ricevuto da Matilde un sostegno importante nei suoi momenti di difficoltà con i re d’Inghilterra. Da ciò quel prezioso dono e la lettera di riconoscenza perché «non una volta soltanto, ma in piú occasioni, Dio mi ha liberato per mezzo vostro dal potere dei miei nemici, che aspettavano solo che cadessi nelle loro mani», e per come da lei venne trattato e ospitato: «con quanto benigno, quanto pio, quanto materno affetto». Si esplicitano in queste espressioni le molte motivazioni che stavano alla base del rapporto dei signori di Canossa con i santi del loro tempo: innanzitutto la profondità e l’invasività della fede degli uomini del Medioevo, difficile da comprendere per un uomo e una donna del nostro tempo, se non sospendendolo, questo tempo, quanto piú possibile ed epochizzandolo, nel tentativo (mai completamente realizzabile) di vedere il passato in sé stesso. Poi i molteplici aspetti di un rapporto tra disuguali, i santi per recuperare persone alla fede e, talvolta, alla ricerca di protezione e di vantaggi, anche economici, per le loro istituzioni; per gli uomini e le donne dei Canossa per una guida spirituale, un conforto che li rinforzava nella loro azione, e anche un’alleanza che ne aumentava il prestigio e l’autorità, in un riconoscimento che andava al di là dell’umano.

Da leggere Georges Duby, Il cavaliere, la donna, il prete. Il matrimonio nella Francia feudale, Laterza, Roma-Bari 1982 (I edizione, Hachette, Parigi 1981) Alessandro Barbero, Un santo in famiglia, Rosenberg & Sellier, Torino 1991 e 2024 Paolo Golinelli, Matilde di Canossa. Vita e mito, Salerno editore, Roma 2021 agosto

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il novelliere di giovanni sercambi/5 Operai impegnati nella costruzione di un edificio, particolare del ciclo affrescato Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nel Palazzo Pubblico di Siena, tra il 1338 e il 1339. Il primo, a sinistra, trasporta mattoni, proprio come Grillo, protagonista della novella di Giovanni Sercambi raccontata nell’articolo.

Millantando si di Corrado Occhipinti Confalonieri

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La stigmatizzazione delle debolezze umane è uno dei motivi ricorrenti nelle novelle di Giovanni Sercambi. Questa volta tocca a Grillo, operaio in una fornace di mattoni che coltiva ben altre aspirazioni e, complice il giudice Cassepetri, abusa con successo della credulità popolare, spacciandosi addirittura per notaio!

U

na delle fonti utilizzate da Giovanni Sercambi per il suo Novelliere sono i fabliaux francesi. Si tratta di vivaci racconti in versi, non necessariamente derivanti da fonti orali, che riscossero un grande successo popolare nel Trecento, grazie alla loro diffusione da parte dei giullari. Lo scrittore lucchese arricchisce uno di questi cantari con uno piú antico, molto popolare all’epoca, dando cosí vita a una novella ancora piú divertente (XV). La brigata di concittadini che fugge dalla peste parte da Borgo San Sepolcro diretta verso Passignano in Perugia, località del Trasimeno. Per alleviare le fatiche del viaggio che dura due giorni, il preposto

a capo del gruppo chiede al narratore (Sercambi) di raccontare qualche storia dilettevole: «Fu nel contado di Siena, in una villa chiamata Ceravecchia [nome inventato] uno giovano il cui nome era Grillo, il quale ponendosi a stare con uno fornaciaio di mattoni presso a Siena, e con alcune bestie portava li matoni e lla calcina in Siena, e questo era tutto ciò che Grillo facea». Dopo aver trascorso molto tempo a portare mattoni, accade che «uno senese, volendo fare uno palagio, comprò molti matoni dal maestro di Grillo: e tale [costui] avea uno notaio apresso alla casa dove Grillo andava. E avendone portati [per] molti giorni, e acostandosi alcuna volta alla cantora [allo scrittoio] del notaio e vedendoli dare molto


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denaro sensa dare alcuna mercantia salvo che parole, stimò fra sé medesimo: “Se io fusse notaio, io arei tanti denari sensa molta fatica”; e pensò al tutto volersi far chiamare ser Martino e non portare piú matoni».

Una professione rispettata

Nel Trecento, «ser» era l’appellativo riservato ai notai e ai sacerdoti. Rispetto al fabliau a cui si ispira, Sercambi cambia professione a Grillo e, anziché medico, lo fa diventare notaio. Il notaio era allora una figura autorevole, garante della fiducia pubblica, ogni qualvolta serviva per fissare nella memoria un evento sia pubblico che privato; la sua autorevolezza era considerata al pari di quella di un giudice o di un medico. A partire dal Basso Medioevo (XII-XV secolo circa), il notaio

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affiancò un ruolo altrettanto importante a quello che ricopre ancora oggi: era il moralizzatore dei costumi e il cronista della vita cittadina. L’ambizioso manovale si reca dal suo maestro «e gli disse che facesse la sua ragione [calcolasse la sua liquidazione] e che quello li dovea dare li desse, però che [poiché] era atto piú [non era piú disposto] di portare matoni. Lo maestro vendendo la volontà di Grillo disse: “Grillo io ti darò quello hai guadagnato”. Rispuose e disse: “Non dite piú Grillo, ma dite ser Martino”. Lo maestro suo disse: “Or dove aparasti che vuoi esser notaio?” Ser Martino disse “Io so troppo”. Lo maestro disse: “Tu dí lo vero”. E allora, fatto il conto, dié a ser Martino lire XXV senesi». In questo passaggio, notiamo come Grillo sia molto deciso a migliorare la sua posizione nella società, senza agosto

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Miniatura raffigurante un giudice nell’atto di emettere una sentenza, da un codice dei Decretales di papa Gregorio IX. Ultimo quarto del XIII sec. Cambrai, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante notai al lavoro, dalla Matricola dei Notari di Perugia. XV sec. Perugia, Palazzo dei Priori, Collegio del Cambio.

tenere conto delle possibili conseguenze all’inganno. Sercambi indica anche l’importo della liquidazione al nuovo ser Martino per dare piú realismo al racconto. Il novello notaio «quelli prese e compròsi uno capuccio colla becca [un cappuccio a punta] corta e uno libro, penna e calamaio; e prese una bottega e févi fare una cantora faccendosi nomare ser Martino da Ceravecchia».

Porpora e vaio

Come un giudice o un medico, il notaio era facilmente riconoscibile dalla ricca veste color porpora – la guarnacca – e dal cappello bordato dalla pelliccia di scoiattolo grigio e bianco – il vaio – come ci ricorda nel Decameron il Boccaccio, riferendosi a questi professionisti: «Co’ panni lunghi e larghi e con gli scarlatti e co’ vai».

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Legato alla cintura, il notaio portava un astuccio con penna e calamaio: spesso rogitava anche per strada o nei chiostri delle chiese, e per questo doveva sempre portare con sé i suoi strumenti di lavoro. Trascorrono alcuni giorni, monelli ed ex colleghi scherniscono ser Martino che rimane tranquillo e ripete a tutti: «Se arete alcuna quistione venite a me e io v’aiuterò». Nel territorio circostante si sparge la notizia «e alcune donne e alquanti omini di buona pasta [sempliciotti] andavano a lui dicendo: “Noi abiamo la tale quistione”. E l’altro dicea: “E io hoe la tale”». Anche se ignorante, ser Martino «che sapea tanto legere né scrivere quanto colui che mai non lesse» non è stupido «e udito quello diceano, tenendoselo a mente, dicea che andasseno con Dio e altra volta tornassero». Martino dimostra cosí di avere un’otti-

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ma memoria e ricorda senza difficoltà questioni legali complesse. Una cliente «li dava grossi VI, l’uomo fiorini uno, dicendo: “Questi abiate per principio [anticipo]”». I grossi erano piccole monete d’argento che valevano circa un ventiquattresimo di fiorino; notiamo poi come anche le donne avessero questioni legali da risolvere, probabilmente perché nubili o vedove. Ser Martino è tutto contento: «Buon fu il mio pensato a farmi notaio» e decide di utilizzare il giudice messer Cassesepetri come consulente legale. Nel XIV secolo «messer» era l’appellativo con cui si rivolgeva ai giudici. Ser Martino propone al giudice metà dei suoi guadagni come ricompensa per le sue consulenze. Cassesepetri accetta di buon grado, perché pensa di uscire dallo stato di indigenza in cui si trova: «Costui è fatto tosto procuratore: e’ non sae legere né scrivere e già truova de’ matti, e io che sono giudici non ho persona che mi chiegia [consulti]. Per certo, poi che costui a me cosí simplicimente viene e offre la metà lo vo’ consigliare». Il giudice

A destra veduta di Viterbo, teatro delle gesta di Martino/Grillo raccontate da Sercambi.

A sinistra artigiani al cospetto di un notaio, tavola di Paul Mercuri tratta da una miniatura senese del XIV sec. e pubblicata nell’opera di Camille Bonnard Costumes Historiques des XIIe, XIIIe, XIVe, et XVI siecles, pubblicata a Parigi nel 1860.

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mette per iscritto le risposte ai due quesiti legali di ser Martino, raccomandandogli che anche per il futuro tenesse bene a mente i casi dei nuovi clienti e si facesse lasciare una documentazione scritta.

L’efficacia del passaparola

Quando l’uomo e la donna tornano da Martino, consegna loro le risposte che devono dare durante la contesa giudiziaria ed entrambi vincono la causa. La donna versa due fiorini e l’uomo altri quattro a saldo dell’ottima consulenza. Come concordato, Martino li divide con il giudice che dice ridendo: «Li matti vagliano piú che’ savi, che in uno dí m’ha dato di guadagno quello che tutti li notari di Siena non m’hanno dato in uno anno». I due clienti soddisfatti fanno da passaparola «dicendo alla vicinansa loro lo savio consiglio dato per ser Martino da Ceravecchia per lo quae aveano vinta la quistione, e tanto fu il lodo [la fama] che molti concorseno [si rivolsero] a ser Martino». Dopo un mese «fu tanto il guadagno che portava al giudici che (…) piú di fiorini CCC li fé guadagnare dicendo il giudici: “Costui mi farà il piú ricco giudici di Siena”». Entrambi mantengono il loro accordo strettamente segreto e in breve tempo il giudice «fu straricco; e portava vestimenti di gran valuta, intanto che tutti i giudici di Siena si meravigliavano come

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messer Cassesepetri vestia sí bene [rispetto] al piccolo guadagno che pensavano facesse, non sapendo altro». A questo punto della novella, Sercambi innesta l’altra nella vicenda di ser Martino/Grillo: «Avenne che, sentitosi la fama per tutto Toscana [negli antichi dialetti toscani si usava il genere maschile con tutto nella composizione dei nomi di città o regione] della sciensia di ser Martino e delle questioni che saviamente asolvea, essendo nata una quistione tra certi savi di Viterbo e non avendo chi tale quistione sapesse asolvere, udito il prefetto la fama di ser Martino di Ceravecchia pensò di mandare per lui [rivolgersi a lui]». «Prefetto» è l’altro nome con cui viene chiamato il podestà nel Medioevo: si tratta di un magistrato che amministra la giustizia in città diverse dalla propria per un anno o sei mesi, al fine di garantire imparzialità nelle decisioni; deve essere cavaliere ed esperto di diritto. All’inizio ser Martino non vuole accettare la proposta perché sa che rischia di essere smascherato senza l’appoggio del giudice; poi, dietro le insistenze del consiglio degli anziani della città, accetta la missione. Quando il finto notaio arriva a Viterbo assieme a un servitore «il prefetto li fé grandissimo onore dispondendoli la cosa della quistione: ser Martino, che cosí era grosso come l’acqua de’ maccaroni [del tutto sprovveduto] a niente rispondea», chiede di essere lasciato solo nella sua ca-

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il novelliere di giovanni sercambi/5 La statua di un leone, simbolo della città di Viterbo e cuore del suo stemma araldico, addossata al palazzo del Podestà. Nella pagina accanto uno scorcio del quartiere medievale viterbese di San Pellegrino.

cordo con lui; Martino interpreta quel gesto come se il teologo gli volesse cavare un occhio e cosí ne alza due come per dire: «Stai attento, perché io ti cavo entrambi». Il podestà considera a modo suo il gesto: «Veramente Martino ben giudica, che uno è il padre, un altro è lo Figliuolo». Il teologo leva due dita dicendo che il padre generò il figlio. Martino «ciò vedendo, stimando che quello maestro dicesse che con que’ du’ diti li cavere’ amburi [entrambi] li occhi levò tre dita», dicendo fra sé che con quelle gli avrebbe strappato non solo gli occhi, ma anche il cuore. Il podestà è entusiasta: «Maestro, tacete, che ser Martino ha asoluto la quistione, ch’è veramente che uno è il Padre; du’, Padre e Figliuolo; tre Spirito Santo; e nondimeno , come vedete, ser Martino vel dimostrava in nel primo tratto quando dimostrò un solo Dio». Il teologo è sistemato, prende la parola un filosofo che «venendo dal principio della creatione fine al fare di Eva e Adamo e l’altre cos’è’ pianeti, assimigliando il mondo esser fatto com’uno vuovo [uovo]», sostiene che sono tutte cose realizzate da Dio. Appare interessante come nel Trecento già si immaginava che la terra fosse di forma tondeggiante.

Una commedia degli equivoci

mera. Qui trova una tavola di vivande e, dopo essersi rifocillato, si mette una pagnotta «in busteccoro [nella pettorina]» dicendo: «Se io andasse in luogo che io stesse troppo, voglio questo pane e mangeròlo». Il giorno seguente, Martino si reca nella chiesa maggiore, in cui deve giudicare le dispute filosofico-religiose. Quando entra nella cattedrale, «vidde molte persone e smarrito non sapea che farsi. Giunto il prefetto, fé montare ser Martino in catreda [cattedra], e fatto fare silensio a tutti, uno maestro in teologia cominciò a dire della Trinità». Ser Martino ascolta il teologo, non capisce una parola di quello che sostiene, ma quando vede che l’intellettuale «chiuso il pugno in significatione che Dio tutto chiude in uno pugno», lo interpreta come un gesto minaccioso e cosí «alsò un un dito quasi dicesse: “Se mi dai del pugno, io ti caverò l’occhio con questo dito”». Quando il podestà vede il gesto del notaio, esclama: «Veramente ser Martino dice vero che Dio col dito tutto sostiene». Il teologo, vedendo il dito pensa che il finto notaio senese voglia dire che esiste un solo Dio e alza anch’egli il dito, d’ac-

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Martino non ha capito nulla di quanto sostenuto dal filosofo ma sentendo menzionare l’uovo «cavatosi in pane dalla busteccora, prendendolo in mano disse fra se medesimo: “Se hai il vuovo, io hoe il pane”». Il podestà vedendo questo gesto lo interpreta come una risposta altamente simbolica: «Filozafo, ser Martino ha ditto il vero, ché Idio, oltra l’altre cose che fé, fé il pane, del quale la natura umana se ne governa». Martino viene cosí ricoperto di onori e di gloria dal podestà, oltre a una «gran quantità di vagellamenti [vasellame] d’ariento» e di denaro. Qualche giorno dopo, siamo nel mese di maggio, Martino/Grillo viene invitato dal podestà a fare una passeggiata: «Divenne che correndo lo prefetto per lo prato, uno grillo si levò di terra. Lo prefetto quello prese con mano e venessene a ser Martino dicendo: “Ser Martino indivinate quello habbo in mano; se indivinate, sarete lo migliore filozafo del mondo, e se non indivinate vi farò morire”». In questo passaggio si nota un riferimento all’antica novella da cui ha preso spunto il Sercambi, perché lí la domanda e la minaccia veniva rivolta da un re, da un tiranno a Grillo che si spacciava per un medico, ma risultano fuori luogo se riferite a un podestà del Trecento: «Il Re, turbato per queste parole / Fece a’ suoi cavalier trar fuori le spade, / Ed a lui disse: benché assai mi duole, / Pur morir ti farò con crudeltade, / Se non mi dici pria si oscuri il sole. / Allora il poverello con gran pietade / Disse agosto

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il novelliere di giovanni sercambi/5

Qui sopra la teologia in una incisione di artista italiano ignoto. 1465 circa. Minneapolis, Minneapolis Institute of Art. La personificazione ha due facce: quella giovanile, che guarda al paradiso, e quella piú anziana, rivolta verso la terra. In alto, a destra particolare di un disegno a penna e inchiostro bruno raffigurante un grillo campestre (Gryllus campestris). Produzione fiamminga, fine del XVII sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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gridando: ah Grillo sfortunato, / In man di qual signor dei [sei] capitato! / Il Re, che aveva in mano uno grillo preso…»; in Sercambi: «Ser Martino udendo quello il prefetto [quello che il prefetto] li avea messo innanti (…), ricordandosi quando andava portando i matoni che il suo nome era Grillo, disse con gran paura: “Grillo, Grillo, alle cui mani se’ venuto a morire!”». Il podestà che aveva un grillo in mano è stupefatto della risposta corretta e dice davanti al suo seguito di baroni: «Ser Martino, voi siete lo miglior filozofo del mondo, ché ben indivinaste». Grillo /Martino capisce che ha rischiato la pelle e decide di far ritorno a casa e «con l’ariento e coi denari ritornò a Siena né mai per la paura volse [volle] piú esser notaio, ma come contadino volse vivere, prendendo moglie». Anche nel caso di questa novella, Sercambi parte da un fatto nuovo, inconsueto, straordinario come quello del trasportatore di laterizi che si spaccia per notaio cosí da migliorare il suo status. In realtà, lo scrittore sa che per vivere nella società del tempo occorre equilibrio e senso della misura. Con il denaro guadagnato, Grillo diventa un piccolo proprietario terriero e mette su famiglia, il massimo a cui può aspirare, perché la fortuna non può assisterlo per sempre. Il protagonista della novella limita cosí le proprie ambizioni per soddisfare un bisogno di stabilità e di sicurezza. La brigata di Lucchesi che fugge dal caos sociale provocato dalla peste sottolinea questa necessità mostrando di apprezzare molto questo exemplo.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Testamenti trabocchetto agosto

MEDIOEVO




di Gerardo Sangermano, con un contributo di Rosalba Miranda

Una costa da difendere L’arrivo dei Longobardi sovverte gli equilibri politici della Campania e fa da innesco alla nascita dei ducati di Amalfi, Gaeta e Sorrento. Accomunati dal richiamo a modelli bizantini, scrivono un capitolo importante della storia della regione tirrenica. Che oggi possiamo ripercorrere grazie alla capillare presenza di torri e castelli, sorti per far fronte alla minaccia delle incursioni saracene

La Torre del Capo di Conca (detta anche «Saracena» o «Bianca»), nel territorio di Conca dei Marini, è uno dei numerosi presidi installati lungo la costiera amalfitana per difendere le popolazioni da incursioni e saccheggi.


Dossier

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orrono da ogni strada, da ogni vicus verso la porta Capuana chiamandosi l’un l’altra. Sono donne, tante donne, sconvolte, i capelli scarmigliati, le loro urla disperate solo un ululato incomprensibile tra altri rumori terribili, ma «Uomini di niente, vigliacchi, pazzi presuntuosi» – e chi sa cosa altro di peggio non ci riferisce il cronista pudico – sono parole ben distinguibili e certo le sentono gli interessati: Antimo, il duca di Napoli, che ha proprio allora chiuso dietro di sé la porta salvandosi a stento, e i pochi soldati che con il loro capo hanno fatto appena in tempo a varcarla, mentre la gran parte dei compagni, chiusi fuori, viene già fatta a brandelli dall’esercito del longobardo Grimoaldo II. Con questo attacco alla città (815-816), Grimoaldo vuole vendicare il tentativo napoletano di controllare la politica del principato di Benevento-Salerno mediante l’appoggio alle rivolte interne e la protezione accordata ai ribelli; appunto quanto ha fatto Antimo accogliendo il nobile Dauferio, avversario irriducibile del Longobardo. Sembra la fine di una brutta storia, e invece è un po’ il prosieguo un po’ l’inizio di una «bella avventura». Proprio in seguito alle pressioni longobarde, tutta la Campania bizantina, pur riducendosi territorialmente alla sola fascia costiera da Gaeta ad Amalfi con l’immediato retroterra e con l’eccezione di Salerno già in mano ai Longobardi (per i quali costituirà l’unico vero sbocco sul mare), va assumendo infatti una piú precisa dimensione politica. In origine, infatti, l’unico ducato bizantino di Napoli comprendeva, oltre alla fascia costiera ora ricordata insieme al Castrum Cumanum (del quale il possesso fu intermittente), anche le tre isole del golfo (Ischia, Procida e Capri), le zone interne fino a Cancello, Aversa, l’ager Nolanus e la fertilissima Liburia,

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a lungo e fino al X secolo circa contesa al ducato dai Capuani. I tentativi di conquista dei Longobardi nel corso del IX secolo provocarono la frantumazione dell’unità del ducato con la tendenza a costituire dinastie locali e a rendersi sempre piú indipendenti da Bisanzio che, da parte sua, favoriva tale tendenza alle periferie dell’impero.

Richiami di grecità

Cosí, in tempi successivi, si costituirono i ducati di Amalfi, di Gaeta e per ultimo quello di Sorrento, ognuno con un proprio territorio e proprie magistrature, divisi spesso dalle scelte politiche, ma con in comune quasi tutto: organizzazione istituzionale, usi, culture e quel richiamo costante alla grecità dovunque presente e in diverse forme, che a Napoli in particolare si mantenne vivo, senza soluzione di continuità, dall’originaria colonia calcidica-cumana per tutta l’età ducale, soprattutto nelle classi dei nobiliores, nella curia del duca, fra i chierici e i canonici delle otto cattedrali, nei monasteri, fino a forme accertate di bilinguismo. Né tra le «analogie» vanno dimenticate le classi dirigenti, alle cui origini devono porsi oligarchie militari e in qualche caso mercantili, per non dire della coscienza della propria etnia da contrapporre a quella delle popolazioni germaniche dell’interno, sottolineata con forza nelle vite dei santi locali, ognora pronti e attenti, sulle mura o sul mare, ad abbattere gli avversari, saraceni o longobardi non importa. Si trattava pur semMiniatura raffigurante uno scontro di armati davanti a una fortezza, da un codice del De Universo di Rabano Mauro. XI sec. Montecassino, Archivio dell’Abbazia.

pre dunque, nei primi tempi, di una società guerriera, che poneva al primo posto le esigenze della difesa e della sicurezza, come attestano, per esempio, i titoli di magistri militum o prefetturi: prima di essere funzionari civili sono uomini d’arme che, nelle contingenze del momento, si attribuiscono il potere. Il problema dell’«indipendenza» dei ducati costieri allora, se pure esiste, si diluisce nel tempo, a co-


minciare dal VI secolo, e si spiega con il venir meno dei poteri centrali e con la contemporanea affermazione e coesistenza di quelli locali periferici. Magistrature davvero autonome però cominciano ad affermarsi soltanto alla fine del secolo successivo a Napoli, con un dux eletto dalla «militia Neapolitanorum» con il consenso imperiale e che svolge anche funzioni amministrative, e circa alla metà del IX se-

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Dossier colo a Gaeta, Amalfi e Sorrento grazie ai primi comites e prefetti. Tuttavia, passeranno ancora alcuni anni prima che nascano vere dinastie. Dall’840 a Napoli con Sergio I, la cui famiglia tenne ininterrottamente il potere fino all’arrivo dei Normanni attraverso i suoi discendenti dai nomi iterati di Marino, Gregorio, Atanasio, Giovanni e altri Sergio, se, come pare, non si può considerare una dinastia quella avviata alla fine del VII secolo, dal duca-vescovo Stefano II e proseguita fino all’832 in maniera discontinua con successori di incerta parentela. Dall’867 a Gaeta, per merito di un Docibile prefetturio e poi ipata, la cui famiglia tenne la successione senza interruzione pur articolandosi in quattro gruppi. Dall’898 ad Amalfi, mediante

una prima dinastia facente capo al prefetto Mansone, a cui subentrò, nel 958, una seconda – come l’altra legata per discendenza alle piú antiche famiglie comitali – aperta da un Sergio dei de Musco Comite, salito al potere dopo una congiura, e che mantenne il dominio di Amalfi fino alla conquista normanna (1073). Solo dal 1027, infine, a Sorrento con un duca anonimo a cui seguirono due Sergio, probabilmente della medesima famiglia.

Un potere condiviso

Tra i fattori che concorsero all’affermazione del principio dinastico va indicato di sicuro il sistema della correggenza, sul cui fondamento giuridico i duchi (ma anche i principi longobardi) chiamarono i familiari a dividere il

potere per assicurare la stabilità e la successione nella consanguineità. Di tradizione tardoromana, tale sistema era diventato consueto nell’impero bizantino, da cui poi si era diffuso in tutte le corti dell’Italia meridionale, che da esso mutuarono anche i rituali e le liturgie del potere e persino le fogge dell’abbigliamento. Ancora diversi i tempi per la costituzione in ducato. VII secolo, come detto, per Napoli; molto piú tardi per le altre tre città, anche se i primi segni potrebbero già leggersi nel formarsi delle dinastie familiari. Comunque, i signori di Gaeta si intitoleranno «duchi e ipati» dal 930, e dal 939 «duchi per grazia di Dio e della città di Gaeta», mentre nel 957 ad Amalfi Mastalo II si qualificherà «gloriosus dux», stesso tito-

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L’assetto geopolitico del Mezzogiorno d’Italia fra X e XI sec. In basso, sulle due pagine veduta di Gaeta, città costiera (oggi in provincia di Latina) che, sul finire del IX sec. si emancipò da Napoli e si costituí in ducato.

l’eredità di docibile

Il testamento del duca Terreni variamente coltivati, terre vacue, case, botteghe o «bagni» sono attestati nella proprietà del duca in ognuno dei quattro centri costieri; nulla però in confronto all’asse ereditario lasciato da Docibile II di Gaeta a figli e figlie. Tre grandi casali da 250 moggi di terra arativa, altri tre piú piccoli e posti fuori città; un numero imprecisato, ma certo notevole, di giumente; quattordici case, alcune con torri o con annesso un piccolo appezzamento di terra o un bagno, magari con corti, gradini e finestre di marmo, portichetti con colonne, stanze con camino, una addirittura con quattro ingressi; forni e magazzini sparsi qua e là, due lotti edificabili, uno dei quali già con un rustico (molte delle case e le due aree fabbricabili collocate nel porto o in zone di grande interesse urbanistico e di notevole pregio). E poi ancora oro, argento, panni preziosi e spezie, le quali ultime venivano dunque considerate parte integrante dei beni di famiglia.

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Dossier lo che l’anonimo primo duca di Sorrento prenderà soltanto nel 1027. La dignità ducale si accompagnerà anche ad altisonanti titoli bizantini, pur privi di reale valore politico, ipatus e dissipatus, sebastos e pansebastos, e ancora altri fino a patricius imperialis e anthypatos. La costituzione in ducato si manifestò anche nella costruzione, all’interno delle quattro cittàcapitali, del palatium che il potere stesso ospitava: a Gaeta e Amalfi presso il mare, a Napoli, in posizione eminente, sulla collina del Monterone. Ma anche i duchi di queste autonomie periferiche bizantine, non diversamente dal resto dell’Europa occidentale feudale, trassero il fondamento della giurisdizione e la sua legittimazione dal possesso fondiario, le terre e gli altri beni immobili del fisco ducale. All’interno di queste città la

vita si andò organizzando soprattutto nelle forme vivaci dell’economia mercantile, senza dimenticare, tuttavia, quelle legate all’attività agricola. E se a Napoli e Gaeta le seconde si avvicinarono assai per importanza alle prime, anche grazie al fertile entroterra e alle circostanze che fecero degli ipati di Gaeta i rettori dei vasti

patrimoni di San Pietro nelle zone di Formia, Minturno e Fondi, ad Amalfi prevalsero le attività esterne e la fortuna della città rimase legata al mare, del quale fu signora incontrastata (insieme a Venezia) almeno fino alla conquista normanna. E poi, cos’altro ancora? Un caleidoscopio, un continuo incontrarsi e scontrarsi tra i quattro ducati e tra questi e i principati longobardi della Campania: alleanze negoziate e subito disfatte a vantaggio di altre di segno opposto, i Saraceni che usano e si lasciano usare, papato e imperi in mezzo a «sparigliare il gioco», un gran via-vai di uomini e donne, magari carichi di bauli con il corredo nuziale, come nel caso dei tanti matrimoni consumati per ragioni politiche al di là dei contrasti del momento e dell’etnia.

In alto moneta battuta al tempo di Pandolfo di Capua. 961-981. Sulle due pagine lastre longobarde variamente interpretate come rappresentazione di una scena di natura laica o religiosa, dalla chiesa di S. Giovanni a Corte di Capua. IX-X sec. Capua, Museo Provinciale Campano. Nella pagina accanto, in alto resti del palazzo ducale di Gaeta.

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Alleanze matrimoniali

Piú dell’amore poté il realismo Primi a cimentarsi in accorte alleanze matrimoniali sono i Napoletani, seguiti dagli Amalfitani: Gemma, figlia del duca di Napoli Atanasio II, viene data in moglie a Landolfo di Capua; il prefetto Marino I di Amalfi si lega anch’egli ai Capuani attraverso le nozze della figlia Arniperga con Pandone, fratello del conte di Capua Landone, come piú tardi il duca Sergio III sposerà Maria, sorella di Pandolfo di Capua. Impareggiabili i Gaetani: Docibile I fa maritare una figlia con un Longobardo, forse gastaldo di Aquino, e l’altra con un prefetturio di Napoli, non diversamente dal suo successore Giovanni I, le cui due figlie vengono destinate a Marino di Sorrento e ancora a un Longobardo, mentre Docibile II sposa una donna della famiglia ducale napoletana. Estremamente realisti, o costretti a «fare di necessità virtú», i Sorrentini: l’anonimo primo duca dà in sposa la sorella al normanno Umfredo, alleato di Guido di Spoleto, mentre una Sabia della stessa casa ducale viene concessa in moglie a Giordano III (Drengot) di Capua, aprendo cosí ai cavalieri venuti dal Nord quasi a un tempo le porte della camera nuziale e quelle delle signorie locali dell’Italia meridionale.

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Dossier

LE SCORRERIE SARACENE

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n giorno di agosto dell’812 le città costiere della Campania scoprirono, quasi all’improvviso, che dal loro bel mare poteva arrivare anche la paura. Aveva il volto di una nuova minaccia, in carne e ossa, a cui le fonti occidentali avrebbero dato vari nomi: Saraceni (tuttora incomprensibile), Mauri, Berberi, Agareni e Ismaeliti (da Agar e Ismaele, la moglie e il figlio ripudiati da Abramo); ma in quel momento erano ancora quasi «oggetto non identificato». Avevano già attaccato la Sicilia e – scriveva papa Leone III a Carlo Magno – invaso e saccheggiato Lampedusa con 13 navi e poi con 40 Ponza per far tappa infine a Ischia, da dove erano ripartiti con le navi cariche di uomini e vettovaglie. Un’imponente flotta corsara, dunque, contro la quale l’imperatore Michele aveva inviato subito uno «stolum» (armata), chiedendo anche l’aiuto di tutto il ducato napoletano. Il duca Antimo, però, si era sottratto all’invito con vari pretesti, non cosí Amalfitani e Gaetani che si erano gettati nella mischia con le loro navi ottenendo qualche successo a Lampedusa ma con diversa fortuna a Ponza e soprattutto a Ischia, dove erano giunti quando la strage era già compiuta e sulla spiaggia giacevano abbandonati dagli incursori «granum et scirpa et caballos mauriscos occisos» («grano, vettovaglie e cavalli moreschi uccisi»). Erano le prime avvisaglie di una presenza destinata a diventare per due secoli, dal IX all’XI, endemica nell’Italia meridionale, dove questi predoni – provenienti dalla Sicilia, dalle altre isole del Mediterraneo, soprattutto Creta, dalla Spagna e dall’Africa settentrionale – si installarono talora in campi provvisori,

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detti ribat, ma, in qualche caso, diedero luogo a insediamenti piú stabili, in colonie costiere, come quelle di Agropoli e del Garigliano, di Amantea, o anche di maggior spessore «politico», come gli emirati di Bari e di Taranto.

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Saccheggi e commerci

Avvisaglie tali da dover rendere a dir poco sospettosi gli Stati meridionali e invece, come abbiamo visto, l’ambiente era particolarmente instabile e frazionato, al punto da consentire ai nuovi arrivati di inserirvisi in maniera assai ambigua, partecipando alla lotta fra le signorie locali come mercenari, ma operando anche con iniziative autonome rivolte al saccheggio e alla tratta degli schiavi e infine svolgendovi attività mercantile: in ogni modo soltanto pirateria, brigantaggio alla ricerca di prede e di scambi, senza nessun intento di ostilità religiosa né di ambizione politica. In cambio della sua neutralità durante l’assalto dell’812 Napoli potrà infatti chiedere ai musulmani di Sicilia l’occupazione di Brindisi (838), pensata per distrarre le truppe del longobardo Sicardo, che negli stessi anni dalle regioni interne tentava la conquista delle città costiere campane, come pure l’intervento saraceno al fianco dell’esercito ducale nell’assedio di Messina (843). Ma il gioco a rimpiattino era destinato a continua(segue a p. 72) Battaglia di Ostia, affresco di Raffaello Sanzio che ne affidò gran parte della realizzazione ai suoi allievi. 1514-1517. Città del Vaticano, Stanze di Raffaello, Stanza dell’Incendio di Borgo. Lo scontro vide contrapporsi, nell’849, le truppe di papa Leone IV e i Saraceni. agosto

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Rivolta abbaside (terza guerra civile). Fine della dinastia degli Omayyadi e inizio del califfato abbaside (750) SAHI 830

Nascita delle dinastie autonome del califfato abbaside e data Altre grandi battaglie del mondo arabo durante l’espansione e i conflitti interni Principali campi militari dell’esercito arabo-islamico Impero carolingio in sfacelo ai tempi di Carlo il Grosso (887) Impero bizantino

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Battaglie decisive per l’esito delle prime due guerre civili arabe (656-661 e 680)

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L’ESPANSIONE DELL’ISLAM

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Dossier all’ombra del vesuvio

Napoli musulmana Ci fu un momento in cui a passeggiare per Napoli sembrava di essere piuttosto «a Palermo o in Africa», almeno secondo l’impressione riportata da Anastasio Bibliotecario, registrata nella lettera che egli scrisse nell’871 all’imperatore d’Oriente Basilio I per conto di Ludovico II. Quest’ultimo, indignato, vi lamentava tra l’altro che «quando i miei incalzano i Saraceni, costoro non debbono piú raggiungere Palermo per mettersi in salvo, ma si rifugiano a Napoli e vi rimangono nascosti il tempo necessario prima di ripartire per le loro scorrerie distruttrici». Del resto Ludovico stesso, Ottone II e tutte le iniziative imperiali nel Mezzogiorno sarebbero stati poi vittime delle scelte degli Stati meridionali e del ruolo in esse svolto dai musulmani.

re. Nei primi mesi dell’846 i Mauri giunsero di nuovo fino a Ponza e, per la seconda volta, navi amalfitane e gaetane, con l’aiuto delle marine di Sorrento e di Napoli, e al comando del napoletano duca Sergio, intervennero mettendoli in fuga. E non era finita: a settembre i Saraceni, sbarcati a Ostia, minacciarono la stessa Gaeta. Allora accade un fatto apparentemente curioso. Amalfitani e Napoletani accorsero, ma le loro navi si limitarono a entrare nel porto, scoraggiando cosí con la sola presenza le velleità degli incursori. Ma Gaeta era quasi nel mirino e ci sarebbe potuta finire davvero se i Saraceni, giunti alle foci del Tevere e quasi a insidiare Roma, non fossero stati fermati da una grande lega navale delle città costiere promossa da papa Leone IV che, dopo aver ricevuto i partecipanti in Laterano, anche per sincerarsi delle buone intenzioni dei Napoletani, verso i quali era assai sospettoso, li accompagnò a Ostia e, dopo averli benedetti nel-

la chiesa di S. Aura, li lanciò contro i nemici. La battaglia si svolse nel mare antistante, dove le marinerie cristiane, al comando di Cesario Console, figlio del duca di Napoli, ottennero – anche grazie a una tempesta che scompaginò le forze musulmane – la vittoria (849), celebrata poi dall’affresco di Raffaello nelle Stanze Vaticane.

Una concordia effimera

Momenti di concordia delle città costiere, dunque, ma appunto solo momenti, dovuti certo anche ai pericoli ai quali le stesse, forse con la sola eccezione di Amalfi, si sentono esposte. Come quelli vissuti da Napoli alcuni anni dopo nel corso dell’assedio dell’emiro di Bari Sawdan, il quale, narra un cronista, ammazzava almeno 500 uomini al giorno e poi sui cadaveri banchettava; anche se altra testimonianza ce lo mostra invece politico scaltro e avveduto, capace di sfruttare a proprio vantaggio il dissidio tra l’imperatore Ludovico II e Adelchi di Benevento.

Miniatura raffigurante lo sbarco del generale bizantino Giorgio Maniace, che, tra il 1038 e il 1040, riconquistò Siracusa e gran parte della Sicilia orientale, sottraendole alla dominazione musulmana, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

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Diverse erano invece le ragioni e le urgenze della realtà. Sono piú di venti infatti le lettere che papa Giovanni VIII, un molosso nella lotta contro gli infedeli, invia, tra l’872 e l’881, ai signori delle città della costa campana, e talora ai loro vescovi, con toni che, pur incerti tra promesse e minacce, appaiono sempre piú inquieti e preoccupati per i buoni rapporti da essi mantenuti con i musulmani «pro turpis lucri commodo» («per il tornaconto di un guadagno turpe e immorale»), fino a minacciare gli Amalfitani non solo di scomunica, ma addirittura dell’interdetto «in tutte le terre verso le quali essi sono soliti negoziare». Certo, come vuole Erchemperto (il cronista dei Longobardi meridionali), quelli «erano gli anni in cui Salerno, Napoli, Gaeta e Amalfi avevano concordato la pace con i Saraceni» per risolvere i propri problemi,

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ma gli uomini di Amalfi appaiono ben piú disinvolti, giocando, negli ultimi mesi dell’877, un brutto tiro proprio al papa.

L’impegno disatteso

Questi, in un convegno convocato a Traetto (Minturno), e alla presenza di autorevoli testimoni, aveva impegnato gli Amalfitani al pattugliamento delle coste da Traetto a Centocelle (Civitavecchia) per un compenso di 10 000 mancusi, ma quelli, «con celata astuzia», incassata una parte dei soldi, avevano rinunciato all’impegno sostenendo di aver pattuito non 10 000, ma 12 000 mancusi; sicché il pontefice, assai indignato, si vide costretto a negoziare la pace con i Saraceni al prezzo di 25 000 mancusi, pur non mancando di chiedere ai furbi inadempienti la restituzione della somma incassata.

Salerno. Il complesso di S. Pietro a Corte, che comprende la Cappella Palatina fatta edificare da Arechi II, tra il 758 e il 787.

Tempi difficili, tempi da «ognuno per sé». Navi amalfitane contro una flottiglia di Napoletani e Saraceni nel tentativo, riuscito, di liberare dal Castel dell’Ovo il vescovo Atanasio lí tenuto prigioniero dal nipote, il filosaraceno duca Sergio II; Napoletani e Amalfitani invece insieme in una piccola lega nel 903, promossa dai Capuani per stanare dalla colonia del Garigliano i Saraceni e finita nel sangue per l’appoggio decisivo dato a questi dai Gaetani; Saraceni e Napoletani ancora insieme, nel 905, all’assalto di Capua e come ritorsione all’episodio precedente. Del resto proprio la protezione gaetana – conseguenza, a dire il vero, della politica pontificia favorevole alle mire del capua-

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Dossier Didascalia Salerno. Il castello detto «di Arechi», sulla aliquatur adi odis realizzato intorno al collina Bonadies, quesec. vero qui VI daient Bizantini, che probabilmente doloreium conectu ampliarono un preesistente castrum rehendebis eaturdenominazione deriva romano. La sua tendamusam dal fatto che, nell’VIII sec., il principe consent, perspiti longobardo Arechi decise di trasferire nissua corte e ne ampliò il aconseque Salerno la maxim eaquis sistema difensivo. earuntia cones apienda.

Servizi di intelligence

Un turbante come prova Un giorno (870/871 circa) – racconta il Cronista di Salerno – mentre il principe longobardo di Salerno, Guaiferio, tornava con il suo seguito dal bagno verso il palazzo, tra i saluti festosi dei sudditi, all’altezza del mercato un saraceno di nome Arrane, dopo averlo applaudito, gli fa in modo un po’ sfacciato: «Mi regali quel turbante (fasciolus) che hai in testa?». Detto e fatto: al principe piace la popolarità. Passa un po’ di tempo, Arrane torna

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in Africa, e qui viene a sapere che i suoi connazionali preparano un assalto a Salerno per via di mare e con grande spiegamento di uomini e macchine. Destino vuole che poco dopo Arrane si imbatta in alcuni Amalfitani (il Nordafrica era meta consueta dei loro commerci). Ne avvicina a caso uno, di nome Floro: «conosci Guaiferio di Salerno, hai modo di incontrarlo?». «Certamente, sí e pure spesso» gli risponde l’altro.

«E allora digli di questa armata, digli di prepararsi alla guerra e di fortificare bene la città tutto intorno e soprattutto verso il mare, possibilmente facendo costruire tre torri, una a destra, una a sinistra e la terza al centro. Digli poi che queste notizie gliele fa sapere il saraceno al quale lui donò il copricapo; vedrai, ti crederà». E cosí fu. Ma, va detto, Salerno resistette alla minaccia armata e all’assedio anche grazie all’aiuto del prefetto di Amalfi, Marino. agosto

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no Pandolfo sulla città – aveva consentito la lunga permanenza (circa quarant’anni) dei Mauri presso il Garigliano, dando loro anche la possibilità di intraprender le devastanti incursioni nei dintorni, delle quali furono vittime illustri le grandi abbazie benedettine, prime fra tutte Montecassino e San Vincenzo al Volturno; cosí come gli «equivoci» della politica amalfitana avevano permesso la tranquilla, lunga sopravvivenza di un insediamento saraceno a Cetara, ai confini e anzi già dentro il territorio del ducato. Ma i mercenari musulmani erano fondamentali nella lotta per il predominio tra ducati costieri e signorie longobarde dell’interno e anche tra ducato e ducato e tra gli stessi principati longobardi; grazie all’aiuto saraceno, per esempio, il duca-vescovo di Napoli Atanasio (seconda metà del IX secolo) poteva dominare la situazione in Campania beatamente incurante delle minacce papali di scomunica. I Mauri risultavano funzionali

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anche agli interessi economici delle città costiere. Napoletani e Amalfitani in società con essi praticavano il lucroso commercio degli schiavi, come attestano, tra l’altro, due capitoli del Pactum giurato nell’836 tra Sicardo di Benevento e il duca Andrea di Napoli o la lettera, scritta tra il 912 e il 925 e accompagnata da una somma in oro, con cui il patriarca Nicola il Mistico chiedeva a Mastalo I di Amalfi di mediare per la liberazione di schiavi cristiani caduti in mano saracena.

Le scelte di Amalfi

Se Napoli, Gaeta, Salerno (giunta tardi all’autonomia, Sorrento non ha quasi parte in queste vicende) sembrano aperte piuttosto ad accogliere gli apporti saraceni, è invece Amalfi a condurre il gioco che conta, stimolata come fu dalla presenza musulmana ad allargare il proprio raggio d’azione, ottenendo buona accoglienza nei porti nordafricani e giungendo a far da tramite commerciale tra

questi e le città campane. Amalfi, non a caso, non ha rappresentanti tra gli ambasciatori di tutti gli Stati campani inviati a chiedere grazia, inutilmente peraltro, all’emiro di Sicilia che dalla Calabria, nell’autunno del 902, risaliva con l’intento di penetrare in Campania e di assalire poi la città «Petruli senis», del povero vecchio «Pietruccio», con insolente riferimento al pontefice, anziano e malato. Amalfi e solo Amalfi, ancora non a caso, non è presente nell’agosto del 915 alla lega, assai piú importante e definitiva nei risultati, organizzata da papa Giovanni X con il concorso degli esponenti della nobiltà romana, insieme a Gregorio duca di Napoli, a Pandolfo e Landolfo di Capua-Benevento, a Docibile di Gaeta e con l’aiuto anche del patrizio imperiale Nicolò Picingli e che si concluse con la distruzione della colonia del Garigliano, un episodio poi celebrato da Capuani e Gaetani con l’erezione di torri a ricordo e difesa perpetua.

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Dossier

LE TORRI DI AMALFI

C

ome Venezia, Amalfi fu fondata nel VI secolo da popolazioni in fuga da guerre e invasioni del retroterra e, come Venezia ancora, fu costretta dalla scarsità delle risorse naturali a cercare fortuna sul mare, diventando nel giro di pochi secoli una delle principali potenze marittime del Mediterraneo. Innalzata a sede arcivescovile nel 957, la città era allora a capo di un piccolo territorio che andava da Positano a Maiori e costituiva un ducato autonomo, anche se formalmente sottoposto all’autorità dell’imperatore bizan-

di Rosalba Miranda

tino. Fu per Amalfi il periodo di massimo splendore. La città rappresentava il fulcro di una struttura urbana policentrica (Atrani, Minori, Maiori, Ravello, Scala e Positano, per ricordare i centri maggiori), senza dubbio favorita dalla situazione geomorfologica che ne ha determinato l’isolamento. La potenza marittima di Amalfi risultò fondamentale per la difesa delle coste dai Musulmani, con i quali la città intratteneva sia rapporti commerciali sia alleanze, allo scopo di mantenere la sicurezza delle proprie vie di comuni-

cazione con l’Oriente. Svolgendo un’abile opera di diplomazia come intermediaria tra il papa e gli Arabi di Sicilia, sostituendosi a Siriaci ed Ebrei nella loro funzione di mediatori tra il mondo occidentale e quello orientale, Amalfi arrivò a detenere, insieme a Venezia, il monopolio nei commerci marittimi. Colonie amalfitane erano presenti in numerose città italiane del Mezzogiorno (le piú famose a Napoli, Messina, Palermo e nei centri pugliesi); altre si costituirono poi, soprattutto nell’XI secolo, a Durazzo, Tunisi, Tripoli, Alessandria, Acri, Antiochia e – la maggiore – a Costantinopoli. L a prosper it à acc u mu lat a da Amalfi col cosiddetto «ciclo triangolare» – ovvero mediante lo scambio con gli Arabi di grossi quantitativi di legna pro-

Sulle due pagine il castello di Lettere, uno dei perni del capillare sistema difensivo approntato dal ducato di Amalfi. Edificata nel X sec., la fortezza si presenta oggi nelle forme che le furono assegnate dagli interventi effettuati in epoca angioina.

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venienti dai boschi del ducato o di altre regioni del Mediterraneo con oro, spezie, pietre preziose, tessuti pregiati, oggetti di oreficeria da Bisanzio, tutte merci poi distribuite nelle città italiane – si riflesse in seguito in fatti istitu-

zionali e culturali. La ricchezza delle consuetudini marittime contribuí, infatti, alla costituzione di una delle piú antiche codificazioni con la Tabula Amalphitana, e alla divulgazione tra i navigatori occidentali della bussola

nautica che gli Amalfitani avevano conosciuto dagli Arabi. Del resto, l’esigenza di coniare per primi una moneta aurea, il tarí, attesta l’entità e l’importanza degli scambi amalfitani. La potenza marittima raggiunta è confermata,

In alto la Tabula Amalphitana, un codice marittimo redatto ad Amalfi intorno all’XI sec. Amalfi, Museo della Bussola e del Ducato Marinaro.

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Dossier Bracigliano

Bagnoli

Ercolano San Valentino Torio Pompei

Gragnano

Piano di Sorrento

Pino Pontone

Positano

Siano Castel San Giorgio

Scafati Lettere

Napoli

Sarno

Nocera Inferiore Chiunzi Ravello

Cava de’ Tirreni Maiori

San S Felice Pogerola Amalfi

Nerano

Isola di Capri

inoltre, dalla comprovata perizia tecnica nel costruire navi – sia per il trasporto delle merci (la cocca) sia da guerra (dalla liburna, piú agile e veloce, alla galera) – anche per committenze esterne, come per esempio Bisanzio. Ecco come Ibn Hawqal descrive Amalfi nel 977: «È la città piú prospera di quelle abitate dalla Longobardia, la piú nobile, la piú illustre per condizioni, la piú ricca, la piú opulenta. Il territorio di Amalfi è vicino a quello di Napoli, che è una bella città ma non importante come Amalfi».

Sui monti e sul mare

La difesa del ducato, confinante a nord con quello di Sorrento, a est col principato longobardo di Salerno, venne perseguita mediante fortificazioni sui monti e sul mare. Riconducibili alle prime sono i presidi che sbarravano le tre possibili vie d’accesso: la strada che, attraverso i Monti Lattari, dalla piana di Sarno, consentiva di raggiungere il territorio amalfitano, la via di accesso da Agerola e il valico di Chiunzi. Il primo presidio era costituito da quattro castelli nei borghi di Pino,

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Pimonte, Gragnano e Lettere. Pino, il piú antico (940), costituiva il baluardo piú importante a settentrione: tale era la sua importanza strategica che fu tenuto in efficienza anche dopo la fine dell’autonomia del ducato, e in età sveva fu inserito tra i castelli da riparare. Cessata poi la sua funzione nel viceregno, il presidio fu abbandonato e andò in rovina: ne resta oggi solo un breve tratto di cortina muraria nella quale s’innesta una torre pentagonale. E proprio da questa fortificazione nacque un borgo, distrutto poi dagli Aragonesi nel XV secolo. Il castello di Pimonte, di poco posteriore al primo, già nelle carte del XVI secolo non è piú menzionato e non si conoscono gli eventi che determinarono la sua scomparsa. Le sole notizie ci vengono da documenti di epoca angioina da cui si evincono sia la consistenza della guarnigione sia i lavori di restauro allora eseguiti. Del X secolo è anche la fortificazione di Gragnano, dove oggi sorge la chiesa di S. Maria a Castello e della quale resta ben poco.

In alto la distribuzione dei piú importanti presidi difensivi del ducato di Amalfi. A destra, sulle due pagine Amalfi vista da Pontone, località nella quale sorsero varie case-torri che contribuivano ad assicurare il controllo e la difesa della zona.

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Sulle due pagine la Torre Normanna di Maiori, un poderoso bastione la cui costruzione viene datata tra il 1250 e il 1300. A destra uno scorcio della Valle dei Mulini, il cui nome deriva dalla presenza degli impianti utilizzati per il funzionamento della ferriera e delle cartiere di Amalfi.

Lettere, estremo limite del territorio verso la valle di Sarno, fu anch’essa presidiata con la costruzione di un castello (X secolo) posto su una falda del monte verso la pianura. Del grande rudere, che conserva elementi dell’originaria costruzione degli Amalfitani, emerge il mastio, torrione cilindrico su un’alta base scarpata, secondo i canoni dell’architettura difensiva angioina, che fu abbandonato in età aragonese. Per difendere la seconda via d’accesso, da Agerola, a mezza costa in una località che sovrasta Amalfi, nel IX secolo fu innalzato il castello di Pogerola che, con il piccolo borgo cintato da mura, rappresentava un sicuro rifugio per gli abitanti del capoluogo del ducato. Di tale opera difensiva restano poche tracce delle mura perimetrali in stato di progressiva disgregazione. Scomparsa invece ogni traccia del castello di Montalto, identificato dagli storici nel Castrum Triventum Amalfiae, la fortezza che proteggeva l’accesso al territorio

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attraverso il valico di Chiunzi. Costruito nel X secolo dai Ravellesi, fu inserito, in età sveva, nell’elenco dei presidi da riparare, a spese dei cittadini, non solo di Tramonti, ma anche di Agerola e di Maiori. Il manufatto andò distrutto in seguito a una ribellione degli abitanti di Tramonti al potere regio, durante il regno di Ladislao di Durazzo. Sul valico, a completamento del sistema difensivo, fu edificata una torre di avvistamento, sostituita poi nel XV secolo.

In posizione dominante

A diretto contatto col mare vi erano i presidi di Amalfi e Maiori. La rocca di San Felice, di cui resta solo la torre dello Ziro, modificata in età angioina e piú volte restaurata, come attestano le numerose epigrafi, fu edificata in età ducale in una posizione dominante le valli di Amalfi e di Atrani, con la funzione di mero avvistamento, mentre, a sud, al fortilizio di Santa Sofia, sulle cui rovine nel XIII secolo fu costruito il convento di S. Francesco – oggi

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Dossier trasformato in albergo – veniva affidato il ruolo di estrema difesa. Costruita nel IX secolo nel luogo di un precedente insediamento difensivo che era riuscito ad arrestare la prima invasione dei Longobardi ma era poi stato distrutto nell’839 dal principe salernitano Sicardio, la fortezza di Sant’Angelo a Maiori rappresentava un importante baluardo sul lato orientale del territorio amalfitano.

A destra la Torre dello Ziro, fra Atrani e Amalfi. Le prime notizie sul manufatto risalgono al 1151, quando è ancora chiamata «Rocca di San Felice», mentre dal 1292 diventa Turris cziri.

La fortezza fu ricostruita e potenziata, sfruttando le condizioni favorevoli dell’orografia del luogo; nel lato sud-occidentale vi era un torrione con base quadrangolare, a nord-est un campo trincerato, e sul lato del colle una torre circolare di avvistamento (torre dei Fronsti). Quando, nel XIII secolo, la chiesa di S. Maria a mare

In alto uno scorcio del villaggio di Pontone.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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La facciata del Duomo di Amalfi (cattedrale di S. Andrea), frutto di una ricostruzione ottocentesca.

fu ampliata, il presidio venne parzialmente demolito fino alla sua completa cancellazione nel XVI secolo. Il torrione fu risparmiato e trasformato in campanile, sostituito da uno nuovo nel 1836. All’interno del ducato, nel territorio ravellese, sulla collina della «Civita», nell’XI secolo il castello di Suprammonte, sulla cui localizzazione non ci sono che mere ipotesi, serviva a dare ricetto agli abitanti di Atrani da nord e di Ravello da sud. Cosí, le case-torri di Pontone proteggevano da nord-est Amal-

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fi e da sud-est Scala. Il castello di Scala, che costituiva il piú elevato sito fortificato del ducato, e di cui restano solo pochi ruderi, viene considerato il primo stanziamento degli Amalfitani.

La fuga come salvezza

Questa fitta cortina difensiva, munita di torri e castelli, svolgeva soprattutto una funzione di avvistamento e di trasmissione di notizie: una serie di avvisi luminosi, partendo dai castelli sovrastanti la piana del Sarno (Pino, Pimonte, Lettere e Gragnano), riusciva a essere raccolta sul versante orientale, attraverso Pogerola, direttamente alla rocca di San Felice. Del resto, la procedura

di fuga per i cittadini rappresentava l’unica via di scampo, peraltro non sempre perseguibile, poiché la sua validità era strettamente legata al margine di preallarme. Nonostante l’esistenza di un sistema di difesa cosí articolato, nel 1039 Guaimario IV di Salerno riuscí a conquistare Amalfi, che riacquistò l’indipendenza nel 1052 rafforzando i legami con Bisanzio, come testimoniano i battenti bronzei della cattedrale. Ma l’era dell’autonomia stava ormai per tramontare sotto la pressione dei vicini Normanni, prima in forma di protezione (1073) poi d’incondizionata soggezione (1153), con l’aiuto della flotta pisana. agosto

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EMIGRATI DI SUCCESSO

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i frequenti e significativi rapporti lungo la duplice direttrice OccidenteOriente, nei quali tanta parte ebbero il Mezzogiorno d’Italia e, in particolare, le città di mare della Campania, ci riporta una famiglia di Amalfitani, emigrati non sappiamo quando, ma che troviamo già affermati a Costantinopoli nell’XI secolo. Appartenenti all’antica nobiltà comitale, finirono poi per assumere quasi come «cognome» appunto quello di «de Comite»; si trattava di una famiglia numerosa. ma divenne nota soprattutto per due suoi esponenti, padre e figlio, Mauro e Pantaleone. Quasi nulla sappiamo delle loro

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di Gerardo Sangermano

L’atrio del Duomo di Amalfi, ricostruito anch’esso nell’Ottocento, ma che conserva la porta realizzata (ante 1065) dall’artista orientale Simone di Siria su incarico di Pantaleone de Comite. Da sempre definita «bronzea», è, in realtà, fatta di una lega ternaria composta di rame, zinco e piombo.

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Dossier prime vicende personali e familiari, se non un tratto della genealogia: «Pantaleo filius Mauri de Pantaleone de Mauro de Mauronis Comite». Di certo, quando li incontriamo sono già ricchi da non credere e in posizione di potere: due vip con capitali disponibili e con le amicizie giuste anche in un ambiente non facile come quello della capitale bizantina. Piú portato alle opere di carità il padre, di temperamento manageriale il figlio, senza dimenticare l’utilità e l’importanza di agire in un clima politico favorevole. Mauro, all’inizio dell’XI secolo, aveva, infatti, fatto edificare a proprie spese, al dire del cronista Amato di Montecassino, due hospitalia ad Antiochia e a Gerusalemme alle cui necessità provvedeva personalmente, in ciò tuttavia aiutato, ed è assai significativo, dalle «elemosine» sia degli Amalfitani che navigavano sia di quelli rimasti in patria, almeno stando alla testimonianza di Guglielmo di Tiro. Suo figlio Pantaleone, invece, intorno al 1062, aveva ben altre preoccupazioni. I Normanni erano sul punto di dilagare in Italia meridionale e la sua Amalfi vedeva minacciate da vicino le proprie chances mercantili; e poi questi cavalieri del Nord non piacevano neppure ai signori di Bisanzio. Si doveva fare qualcosa a ogni costo e Pantaleone ci provò. Si rivolse a Benzone, vescovo di Alba – noto sostenitore del partito ostile al papa riformatore

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In basso Pisa, Torre Pendente. Rilievo nel quale sono raffigurate due navi tipicamente medievali e un faro. 1173 circa.

L’ospedale di S. Giovanni

Nelle mani di fra’ Gerardo Stando a piú testimonianze, l’ospedale fondato da Mauro Comite a Gerusalemme, contiguo al monastero amalfitano di S. Maria de Latina, doveva essere davvero imponente, sostenuto com’era da 64 pilastri e 124 colonne e capace di ben 1200 posti letto; al suo interno la chiesa di S. Giovanni Battista, dalla quale l’ospedale stesso prese il nome. Gli addetti ai malati si diedero un’organizzazione quasi monastica, di cui fu primo responsabile un tale Gerardus. Questa fondazione assume rilievo, perché a essa si deve far risalire l’origine dei «Cavalieri Gerosolimitani», detti perciò «di S. Giovanni» o «Giovanniti» e da ultimo, «di Malta».

Gregorio VII e, di conseguenza, anche ai nuovi arrivati – sollecitando da lui la mediazione dell’antipapa Cadalo per un’alleanza in funzione antinormanna tra i due imperatori, Enrico IV e Costantino duca.

Navi, oro e argento

E non fu tutto: egli stesso si fece «corriere espresso» di messaggi dell’imperatore bizantino volti a sollecitare, attraverso Benzone, Enrico, al quale infine Costantino giunse a promettere personalmente – ma certo garantito dagli Amalfitani legati a Pantaleone – «cento navi cariche di quantità sterminate di vettovaglie e alimenti per uomini e cavalli» destinate all’esercito tedesco nel porto di Amalfi e ancora «soldi in abbondanza in auro argento et palliis».

Le cose però non sembravano mettersi bene. Ma Pantaleone non era certo tipo da arrendersi e giocò ancora una carta; nella sua casa, infatti, si fermarono ospiti, certo non casualmente, il principe di Salerno Gisulfo II, l’arcivescovo della città Alfano e altri vescovi, pur essi in missione antinormanna presso Costantino. Ma non ci fu nulla da fare: Cadalo fu messo da parte da Alessandro II, favorevole ai Normanni che cosí l’ebbero vinta, mentre l’ambasceria salernitana tornava in patria senza speranze. Lo stesso Pantaleone, recatosi a Roma per incontrare l’antipapa, lo trovò già rinchiuso in Castel Sant’Angelo, tanto che, per raggiungerlo, lui e i suoi accompagnatori dovettero fingersi mercanti.

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Per una consolidata, e tuttavia discussa, tradizione storiografica, il fondatore dell’Ordine (solo con il successore, però, si ebbe la svolta militare tuttora vigente) l’umile fra’ Gerardo viene ritenuto un Amalfitano di Scala (forse l’insediamento piú antico del ducato) membro della famiglia «de Saxo» (Sasso) appartenente all’aristocrazia locale. Certezze non ve ne sono ma di sicuro non possono essere sottovalutati né i diritti e le ragioni della coscienza storica, né la grande presenza amalfitana nel complesso ospedaliero e la continuità istituzionale e topografica con il monastero pur esso amalfitano, di S. Maria de Latina. Pantaleone passò allora a occuparsi di altro. Dopo aver donato, infatti, alla cattedrale della sua città (1065) le splendide porte, ancora oggi in sito, fuse da Simeone di Siria a Costantinopoli, arricchí di simili doni preziosi anche S. Paolo fuori le Mura in Roma (1070) e la basilica di S. Michele Arcangelo sul Gargano (1076). Ma, a pensarci bene, forse era ancora un’operazione finalizzata ad «avvicinare» i vincitori: infatti le date sono singolarmente coincidenti: il 1070 è l’anno a partire dal quale si fa ancora piú incisiva l’azione del filonormanno abate cassinese Desiderio, e il 1076 quello della definitiva conquista di Amalfi da parte del duca di Puglia. Del resto, nel 1071 suo padre Mauro è tra i potenti del mondo stretti intorno ad Alessandro II nella cerimonia di consacrazione della nuova basilica cassinese, voluta da Desiderio, durante la quale furono anche disegnati i nuovi equilibri politici, auspice ancora l’abate; lo stesso al quale Mauro aveva pochi anni prima (1066) donato le porte bronzee per la erigenda basilica (in seguito, insieme ai figli, gli regalerà anche una splendida cassetta di avorio, oggi conservata nell’abbazia di Farfa), dopo che l’abate, nel 1065, aveva ammirato quelle

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Mappa di Gerusalemme e dei dintorni, da un codice dei Gesta Francorum Iherusalem expugnantium. XIII sec. SaintOmer, abbazia di S. Bertino.

all’ingresso del duomo di Amalfi, manifestando evidentemente il desiderio di poterne avere di eguali.

Un riscatto ingente

Ma il padre di Pantaleone è a Montecassino, forte dei legami di famiglia, anche per mediare una pace tra la sua Amalfi e Gisulfo II. Invano. Cattivo cliente il principe salernitano: memore dell’ospitalità a Costantinopoli, concederà invece soltanto garanzie personali ai figli di Mauro. Anzi, neppure quelle. Quando ne catturerà anni dopo uno, chiederà un riscatto di 30 000 soldi doro; un’enormità anche per i Comite Maurone e infatti Pantaleone e i fratelli proveranno ad aprire una trattativa offrendone 10 000: tutto inutile, il prigioniero, dopo terribili torture, venne affogato in mare, malgrado

l’intercessione pressante – e questo dimostra il potere della famiglia – dell’abate e dei monaci di Montecassino e dell’imperatrice tedesca Agnese, addirittura venuta a bella posta a Salerno. Un Amalfitano «di fuori», con un suo prestigio anche politico Pantaleone; amalfitano come costantemente si qualificò e fu individuato pur vivendo di fatto sempre lontano dalla sua città. Cosí infatti ancora lo ricordava il carme pisano per la vittoria contro al Mahdia (1087), dominata dalla dinastia zirita dell’emiro Tamin, impresa alla quale il nostro partecipò con tutto il peso della sua potenza economica e della sua flotta e dove appunto «refulsit Pantaleo malfitanus inter grecos hypatos» («brillò Pantaleone l’“Amalfitano” tra i Bizantini riconosciuto hypatos»). V

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medioevo nascosto liguria

Sulle orme del

sommo poeta di Chiara Parente

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La prima menzione di un castrum de Sarzano compare, nel 963, in un diploma dell’imperatore Ottone I di Sassonia: e ai piedi di questo importante presidio prese forma il borgo di Sarzana, del quale l’odierna cittadina ligure conserva molte testimonianze. Architetture civili e religiose che compongono un patrimonio di pregio, ammirato da visitatori illustri, tra cui figura Dante Alighieri, giunto qui per comporre un’annosa controversia

Una veduta di Sarzana (La Spezia), cittadina della Liguria orientale di antica fondazione: le prime notizie sulla sua esistenza risalgono alla fine dell’XI sec.

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medioevo nascosto liguria

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fiorata dalle bianche cime delle Alpi Apuane, Sarzana (La Spezia), è una cittadina antica e di antica cultura, dove prestigiosi eventi internazionali, come il Festival della Mente (la cui edizione 2024 è in programma nelle giornate del 30 agosto e del 1° settembre; vedi anche a p. 21), dialogano con il tessuto urbano medievale del centro storico. Le prime notizie scritte su Sarzana risalgono al

1084, in accordo con i dati archeologici. L’abitato si era sviluppato nella bassa valle del Magra, ai piedi del castrum de Sarzano, l’attuale fortezza di Sarzanello. Posta sull’omonimo colle e confermata nel 963 dall’imperatore Ottone I di Sassonia tra i possessi del vescovo di Luni, fu per secoli il centro dell’amministrazione temporale del presule lunense, estesa dal territorio di Carrara alla media Val di Vara. La Fortezza di Sarzanello, che sorge sulla collina omonima, in posizione dominante sulla Val di Magra.

A destra la bolla Cui super omnes, promulgata da papa Paolo II e con la quale Sarzana fu eretta in città il 21 luglio 1465. Sarzana, Archivio Storico Comunale.

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La cattedrale di S. Maria Assunta, edificata nel centro del nucleo originale del primitivo borgo di Sarzana.

scoperte d’archivio

Frammenti di terzine immortali Nel 1884 il sarzanese Achille Neri, assistente nella Biblioteca Universitaria di Genova, scoprí nell’archivio notarile di Sarzana i cosiddetti «frammenti sarzanesi» della Commedia. Esaminandoli, lo studioso si accorse che la fascia del notulario, appartenuto al notaio Tommaso di Nicola de’ Tomei (attivo dal 9 gennaio 1542 al 4 aprile 1584), riportava alcuni versi scritti del poema. Inoltre, spiegò che il frammento rinvenuto era composto da un bifoglio (365 x 514 mm) e da un foglio (362 x 245 mm) membranacei pertinenti a un codice dantesco del XIV secolo. L’analisi delle pergamene evidenziava non solo la presenza di iniziali filigranate per ogni canto in inchiostro di colore rosso e blu alternato, ma anche la presenza di rubriche volgari lunghe.

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In aggiunta sul bifoglio appare trascritto il testo di Purg. XXV 40-XXVII 78, mentre il foglio riporta il testo di Par. II 7-III 21. Nonostante l’importanza, la scoperta, fu divulgata solo il 16 giugno 1890, dopo aver ottenuto l’expertise di Giosuè Carducci, recatosi apposta a Sarzana per valutare le pergamene. In quello stesso anno lo studio del letterato Umberto Marchesini identificava la scrittura dei frammenti sarzanesi con quella del copista principale dei «Danti del Cento», riconducendo questi fogli superstiti a uno dei cento codici, copiati su due colonne in scrittura bastarda cancelleresca nella metà del Trecento a Firenze da Francesco di ser Nardo, che ne ricevette un guadagno sufficiente a garantire un’adeguata dote alle sue figlie.

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medioevo nascosto liguria Nel 1129 l’Ymo burgo, il «borgo basso» o «vecchio», situato non lontano dall’ospedale di S. Bartolomeo – distrutto presumibilmente tra il 1514 e il 1530, quando furono costruite le fortificazioni rinascimentali –, possedeva le due pievi di S. Andrea e S. Basilio. Formato da insediamenti sparsi, collocati sui nodi stradali della rivierasca del torrente Calcandola da un lato e sul ciglio del deposito alluvionale del torrente Rigoleto dall’altro, ben presto si era popolato con profughi giunti da Luni, signori di domini venuti dai castelli vicini e gente che si era trasferita con loro o ne era fuggita.

L’ascesa fino allo status di città

Dalla metà del XII secolo Sarzana entrò in una fase di grande espansione. Allora racchiuso in un rettangolo con l’asse maggiore adiacente al presbiterio della pieve di S. Andrea, l’insediamento era percorso dalla via Francigena, forse l’attuale via Rossi. Percorrendola, il pellegrino medievale incontrava la seconda pieve di Sarzana, dedicata al primo vescovo di Luni, e l’oratorio della Misericordia. Quest’ultimo, detto anche del

Ospiti illustri

Passaggi che lasciano il segno Nominato nel 2019 «cittadino benemerito di Sarzana», l’autore della Commedia è ricordato in città anche con il Pan di Dante, un’originale creazione dolciaria ottenuta rielaborando un’antica ricetta. L’Alighieri è l’uomo di lettere piú illustre che abbia soggiornato a Sarzana nel Medioevo, ma non è il solo. Vi passarono Paganino da Sarzana – un suo sonetto è conservato con altri testi dei poeti «siciliani» alla Biblioteca Apostolica Vaticana – e Pier delle Vigne, due poeti della Scuola siciliana. Il padre del Dolce Stilnovo, Guido Cavalcanti, fu mandato in esilio a Sarzana dai priori di Firenze, fra i quali Dante. E sembra che anche san Francesco d’Assisi, di ritorno dalla Provenza, terra d’origine della madre, abbia lasciato a Sarzana un primo nucleo di frati, che diedero origine al convento e alla chiesa di S. Francesco, la piú antica chiesa francescana della Liguria.

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La croce dipinta del Maestro Guglielmo, datata 1138. Sarzana, cattedrale di S. Maria Assunta. Nella pagina accanto, in alto la pieve di S. Andrea. Nella pagina accanto, in basso Firenze. Particolare del monumento a Dante Alighieri realizzato da Enrico Pazzi nel 1865.

Crocifisso, sembra essere stato costruito nel Mille. Ampliato nel Duecento e rimaneggiato piú volte nel corso dei secoli, ospita attualmente il Museo Diocesano. Nel 1204, con la traslazione della diocesi di Luni a Sarzana, la località ottenne a pieno titolo il ruolo di città.

Un ambasciatore d’eccezione

Un atto notarile, custodito all’archivio di Stato di La Spezia e composto da sette bifogli in carta cellulosa scritti in recto e in verso, prova che Dante, il 6 ottobre del 1306, incontrò in Platea Calcandola, ora piazza Matteotti, il marchese Franceschino di Mulazzo – a

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sua volta agente a nome di Moroello di Giovagallo e Corradino di Villafranca, membri del ramo nobiliare dello «Spino secco» e il notaio sarzanese Giovanni di Parente di Stupio. Il legale aveva il compito di affidare all’Alighieri il Mandatum, ossia la procura plenipotenziaria, registrata nella prima tabula del cartulario notarile, per concludere la trattativa di pace fra i Malaspina e il vescovo conte di Luni, Antonio di Nuvolone da Camilla, protetto dai Fieschi, conti di Lavagna. L’Instrumentum pacis, ratificato a Castelnuovo Magra nello stesso giorno dal legato Dante Alighieri per conto dei nobili Malaspina, poneva fine alla complicata contro-

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medioevo nascosto liguria I resti del castello della Brina, innalzato fra IX e X sec. in un’area che ha restituito tracce di una frequentazione ben piú antica, iniziata già nell’età del Ferro, intorno al V-IV sec. a.C. Nel Medioevo il fortilizio fu al centro di aspre contese e, nel XIV sec., essendo diminuita la sua importanza strategica, venne distrutto.

il castello della brina

Un castrum molto ambito Una passeggiata panoramica conduce dalla piana di Sarzana ai resti del castello della Brina, appoggiati alla cima del colle della Nuda o del Torraccio, situato sulla dorsale al limite tra il bacino dell’Amola di Falcinello e quello, minore, del torrente Bellaso. Innalzato tra il IX e il X secolo lungo la variante interna della via Francigena che, scendendo per le gole della Magra, raggiunge rapidamente Sarzana, il castrum occupava un’area in cui, nei secoli V-IV a.C., alcune famiglie avevano creato un villaggio d’altura. Nel Duecento il nucleo demico risulta circondato da una cinta muraria, edificata all’esterno del cassero in sostituzione della precedente palizzata in legno, e dotato di due accessi; quello centrale piú ampio, fornito di avancorpi in difesa del passaggio. A favorire la nascita e lo sviluppo dell’abitato altomedievale, soggetto ai vescovi di Luni e oggetto di violente guerre contro i nobili Malaspina, furono soprattutto l’importanza della strada da cui era attraversato e i pedaggi che si potevano incamerare controllandone il tracciato. Dal Trecento alla distruzione dell’area sommitale della Brina fa riscontro la sensibile riorganizzazione di tutta la zona. Diminuita nel secolo successivo l’importanza del tracciato montano della Francigena, con il definitivo ingresso della Liguria orientale nell’orbita genovese e il rafforzamento del sistema viario di fondovalle, il castello della Brina, che aveva per lo piú scopi difensivi, non fu piú ricostruito.

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versia che, alimentata da uno stato di faida e di guerre, si protraeva ormai da anni tra le parti in causa. Una lapide collocata all’ingresso del Palazzo Comunale, edificato in piazza Matteotti dall’architetto Giuliano da Majano nel 1473 e completato da Antonio Roderlo nel 1554, dopo la conquista genovese della città, commemora il sesto centenario (1906) del passaggio di Dante da Sarzana. Il testo fu dettato da Achille Pellizzari, eccetto la chiusa finale «Orma di Dante non si cancella», aggiunta da Giovanni Pascoli. Quando vi giunse Dante, Sarzana era un fiorente Comune. Piazza della Calcandola ne costituiva il fulcro economico. Sin dal 1163 l’ampio slargo irregolare, forse un tempo delimitato a sinistra dal vecchio corso del Calcandola, grazie al privilegio concesso da Federico I Barbarossa ai consoli ospitava il mercato settimanale, il solo nella Lunigiana con libertà di commercio garantita. Una santa messa, celebrata in S. Andrea, precedette il viaggio di Dante a Castelnuovo Magra per la ratifica del trattato di pace.

Un capolavoro datato e firmato

Difficile non immaginare lo sguardo acuto e penetrante dell’Alighieri soffermarsi ad ammirare la meravigliosa croce che, realizzata nel 1138 da Mastro Guglielmo, impreziosiva il luogo di culto. Ritenuta uno dei primi dipinti datati e firmati nella storia dell’arte italiana, l’opera, capostipite di una serie di crocefissi conservati nei territori di Pisa e Lucca, proviene dalla cattedrale di Luni antica. Trasferita nella pieve di S. Andrea di Sarzana, nel 1678 fu trasportata nella cattedrale di S. Maria Assunta, ove si trova tuttora (vedi foto a p. 93). Quest’edificio sacro è stato costruito all’incrocio della Francigena e dell’Aurelia con la strada che, valicando l’Appennino, conduceva a Parma e Piacenza. L’esterno, sobrio ed elegante, presenta una facciata a capanna tardo-gotica, rivestita in marmo nel corso del Quattrocento. Ornano l’ordine superiore della fronte il rosone, commissionato allo scultore Lorenzo Riccomanni dal cardinale Filippo Calandrini (1403-1476), fratello uterino di papa Niccolò V Parentuccelli, e le statue di tre papi d’origine sarzanese: Eutichiano (275-283), Sergio IV (1009-1012) e Niccolò V (1447-1455). Coperto da capriate lignee dipinte da Maestro Gottardo nel 1453 secondo modelli decorativi toscani, è l’interno scandito da arditissime arcate e conserva preziosi manufatti del XV e XVI secolo. agosto

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Correggio è stato qui SCOPERTE • Il riesame delle copie di un perduto originale dipinto da Antonio

Allegri per la pieve di Albinea, nel Reggiano, dimostra che il maestro dovette eseguirlo sul posto. Non avrebbe altrimenti potuto rendere in maniera cosí puntuale alcuni elementi del paesaggio, prima fra tutti la ben posta torre citata dall’Ariosto

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gli inizi del Cinquecento, nell’antica pieve di Albinea, sulle prime propaggini dell’Appennino, a pochi chilometri da Reggio Emilia, accadevano miracoli. Una piccola tavola quattrocentesca, raffigurante una Madonna col Bambino e Santa Lucia, da poco apposta su un altare laterale della chiesa, dispensava grazie ai fedeli. Di fronte alle folle che accorrevano anche da lontano portando doni e offerte, il parroco pensò che occorreva ornare quell’altare con una grande pala, dipinta da un valente artista, che ampliasse le figure di quella miracolosa tavoletta. Gli venne consigliato di ricorrere a «mastro Antonio fiolo del Pelegrin de Alegri de Coreza» («maestro Antonio, figlio di Pellegrino Allegri di Correggio»), quell’astro nascente della pittura destinato a diventare universalmente noto come il Correggio (1489-1534), uno dei piú grandi geni artistici di tutti i tempi. Commissionato al pittore nel 1517, il dipinto venne ultimato ed esposto in chiesa due anni piú tardi.

Un particolare finora trascurato Su quest’opera, conosciuta col titolo di Madonna di Albinea, si è scritto molto, anche in tempi recenti. Non ne ripeterò pertanto la lunga e travagliata storia, bensí per soffermarmi invece su un particolare che sembra sino a oggi sfuggito ai molti che in vari modi e occasioni si sono avvicinati a questa opera famosa e ben documentata.

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Ricorderò brevemente che, nel 1638, il duca di Modena, Francesco I, desideroso di entrare in possesso di questo dipinto del Correggio, artista ormai famoso, per abbuonare un vecchio debito della Comunità di Albinea verso la Camera Ducale, ne pretese in cambio la consegna. Nonostante la ferma opposizione del parroco, il dipinto venne portato dagli uomini di Albinea a Modena e, al suo posto, il duca fece collocare

Madonna di Albinea, olio su tela di ignoto artista emiliano, copia dell’originale (1518) del Correggio, dalla chiesa di S. Rocco, Reggio Emilia. 1558. Parma, Galleria Nazionale. È ritenuta la copia piú vicina all’originale anche se presenta un’inclinazione troppo marcata del volto della Vergine. Nella pagina accanto la pieve di Albinea, già elencata nei possedimenti del vescovo di Reggio nel diploma di Ottone II datato Bruchsal, 14 ottobre 980. agosto

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CALEIDO SCOPIO in chiesa una copia eseguita da un pittore francese, cosí come aveva fatto pochi mesi prima con il Riposo nella fuga in Egitto della chiesa di S. Francesco, anch’esso del Correggio. Anni dopo, nel 1659, il quadro originale quasi certamente venne inviato a Vienna dal nuovo duca di Modena, Alfonso IV, come omaggio per l’arciduca Leopoldo Guglielmo, zio del giovane imperatore e anch’egli grande appassionato dei dipinti del Correggio. Scopo del dono era quello di facilitare la formale investitura del principato di Correggio, già da qualche tempo entrato a far parte dei possedimenti estensi. Il quadro, però, forse mal protetto durante il lungo viaggio, giunse nella capitale rovinato.

Accantonato e poi disperso L’arciduca accettò comunque l’opera cosí com’era, ma, da allora, non si sa bene che fine abbia fatto. «Accantonato» in qualche stanza del palazzo imperiale, forse andò irrimediabilmente perduto in seguito al furioso incendio che, nel

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Nella pagina accanto e a destra veduta d’insieme e particolare della Madonna di Albinea conservata presso la Pinacoteca dei Musei Capitolini di Roma. Nel degradante paesaggio è raffigurato un colle sovrastato da una casa a torre. Sullo sfondo, prima di perdersi nella pianura, serpeggia il torrente Crostolo.

1668, distrusse un’intera ala della sontuosa residenza. Per nostra fortuna, del capolavoro originale del Correggio restano tre copie, tutte piú o meno delle stesse dimensioni – 160 x 150 cm circa, che dovrebbero corrispondere a quella dell’originale –, ma eseguite da artisti differenti, perciò non perfettamente identiche, tuttavia in grado di restituirci un’omogenea e abbastanza fedele rappresentazione dell’originale. Una di esse, attribuita al francese Jean Boulanger e databile al 1638, è tuttora conservata nel coro della pieve di Albinea; le altre due sono state realizzate nel 1558 da artisti ancora ignoti quando il quadro era stato prudentemente messo in salvo nell’oratorio di S. Rocco a Reggio per sottrarlo ai possibili pericoli della guerra in corso fra i Farnese e gli Estensi, che, in effetti, poi comportò la completa distruzione della pieve Il colle di Albinea con la pieve e il castello risalente al X sec. Un paesaggio molto simile a quello che vide il Correggio quando dipinse la Madonna di Albinea.

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CALEIDO SCOPIO A sinistra Albinea, Ca’ Varini, una casa a torre del XIV-XV sec. posta in posizione panoramica su un non lontano colle in linea con la torre di Montejatico. Cosí poteva essere anche la «ben posta torre» raffigurata nel dipinto del Correggio. In basso ritratto di Ludovico Ariosto, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. 1552-1568. Firenze, Galleria degli Uffizi.

sommità della prima troneggia una casa a torre. Piú lontano, avanti di perdersi nell’immensità della pianura, serpeggia un torrente.

Feudatari di lungo corso È il paesaggio che dalla pieve di Albinea, nei primi decenni del Cinquecento, si poteva vedere guardando verso ponente. La torre, che oggi non c’è piú, era quella dei Malaguzzi, feudatari del vescovo di Reggio sin dal Trecento di una vasta possessione che costeggiava il torrente Crostolo. La torre si elevava sul colle di Montejatico, proprio poco sotto la pieve di Albinea. Ludovico Ariosto, ripensando ai giorni felici in cui vi soggiornava con la madre Daria e gli zii, ricorda con nostalgia quel tempo della sua giovinezza nella IV Satira, diretta al cugino Sigismondo Malaguzzi, scritta dal poeta nel 1523, quando, ormai

di Albinea. Una di queste copie è oggi conservata presso la Pinacoteca dei Musei Capitolini di Roma e l’altra si trova presso la Pinacoteca Nazionale di Parma.

A beneficio dei fedeli Nella sagrestia della pieve di Albinea esiste poi un altro esemplare di dimensioni piú ridotte rispetto all’originale, che potrebbe essere la replica chiesta dal parroco al Correggio quattro anni piú tardi da porre piú in basso, su un altare laterale, per accontentare i fedeli che si lamentavano di non poter ammirare da vicino la preziosa immagine. Orbene, nelle prime due copie, quelle di Parma e di Roma – sicuramente le piú vicine all’originale – appaiono alcuni importanti particolari, forse sfuggiti o trascurati dall’autore della copia di Albinea. Osservando bene il paesaggio che fa da sfondo tra la Madonna e santa Lucia, si può notare una serie di colline alberate degradanti verso la pianura. Sulla

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cinquantenne, era governatore della Garfagnana. Ecco i versi che ci interessano: «Non mi si pon da la memoria torre / Le vigne e i solchi del fecondo Jaco, / La valle e il colle e la ben posta torre» (Satira IV, 124/126). Non vi sono dubbi: il fecondo Jaco è Montejatico, la valle è quella del torrente Crostolo e la ben posta torre è quella che vediamo nel dipinto.

Il Crostolo con Veduta di Monteduro, olio su tela di Alfonso Beccaluva. 1868. Il torrente è uno degli elementi riconoscibili nella Madonna di Albinea.

A guardia del guado Negli atti notarili relativi alla possessione dei Malaguzzi a Montejatico viene menzionata l’esistenza di una «colombara», come comunemente si definivano nel tardo Rinascimento queste costruzioni. Dai documenti la torre risulta esistere almeno dal Quattrocento, tuttavia, dall’esame dei conci raccolti durante le arature, e tenuto conto della sua posizione strategica che sorvegliava il guado sul torrente Crostolo, si potrebbe ipotizzare che in origine fosse una torre isolata di avvistamento, forse riconducibile allo scacchiere difensivo canusino. Notizie sulla torre, forse crollata nell’Ottocento, sono state raccolte da chi scrive presso gli attuali proprietari e quelli precedenti nel corso di molti anni. Negli anni Trenta del secolo scorso quel che restava della torre venne interamente demolito. Si scavò poi sino alle fondazioni di forma quadrata, che vennero successivamente ricoperte sino al limite di profondità sufficiente a non intralciare l’aratura e la coltivazione di quel campo. Durante ogni aratura il terreno veniva ripulito dalle pietre che intralciavano i lavori, sicché oggi in superficie, di quella torre non resta piú traccia. L’immagine della «ben posta torre» presente nel dipinto assume una sua rilevanza, in quanto conferma la locale tradizione orale del soggiorno ad Albinea del Correggio. L’artista, infatti, non avrebbe di

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certo potuto andare cosí vicino alla realtà senza averla mai vista.

La sola spiegazione plausibile D’altra parte, doveva pur avere anche un’idea dei soggetti rappresentati nella miracolosa tavoletta della pieve che il parroco voleva ampliare in un piú grande e magnifico quadro. E poiché la tavoletta non poteva di certo essere spostata, né tantomeno essere inviata alla bottega del pittore a Correggio, in quanto dispensatrice di grazie, va da sé che necessariamente sia stato il pittore a venire ad Albinea e vi abbia soggiornato almeno quel tanto che gli bastava per impostare il dipinto e, forse, principiarne una bozza. Allegri decise di disporre

pittoricamente la Madonna col Bambino, affiancati significativamente da santa Lucia e santa Maddalena, sul preciso luogo in cui tuttora sorge la pieve, sopra un prato che digrada veloce verso il piano. Il paesaggio di sfondo, che nel dipinto si sviluppa tra le colline e la pianura, doveva essere subito riconoscibile dagli astanti. Per questo e non a caso, il pittore scelse di rappresentare nel quadro quel quarto di panorama che a quel tempo si vedeva guardando la pianura in cui svettava la «ben posta torre». Pellegrini e fedeli sicuramente dovevano notarla mentre lentamente, a frotte, a piedi salivano alla pieve per invocare grazie alla Madonna di Albinea. Giuseppe Ligabue

Da leggere Giuseppe Adani e Giuseppe Ligabue, La Madonna di Albinea, capolavoro del Correggio nel cuore del Rinascimento italiano, Reggio Storia n. 181, dic. 2023; pp. 11-19; on line su Finestre sull’Arte (www.finestresullarte.info) Alberto Cadoppi, L’origine miracolosa e la fine ingloriosa di un quadro perduto del Correggio: La Madonna di Albinea, in Omaggio al Correggio, Ricerche e Contrappunti, Soc. di Studi Storici, Correggio 2008 Giuseppe Ligabue, …Curtem de Albinea cum Plebe, Il feudo e la pieve di Albinea nei secoli, Tecnograf, Reggio Emilia 2008 Giuseppe Ligabue, Ludovico Ariosto, Il fecondo Jaco, La Rapida, Casalgrande 2014

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Cose da Pazzi ARALDICA • Posti, all’apparenza, come semplici abbellimenti, gli stemmi sono

invece i testimoni di vicende grandi e piccole. Come quelle di un nobile matrimonio e del recupero in chiave cristiana di un celebre episodio della storia di Roma

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ue mostre inaugurate nella primavera scorsa in altrettanti borghi eccentrici rispetto ai percorsi turistici piú battuti – ma forti di un passato di tutto rispetto – sono state dedicate a due cuspidi del gotico, precursori del rinnovamento rinascimentale: la prima, «Empoli 1424. Masolino e gli albori del Rinascimento», si è conclusa il 7 luglio, mentre la seconda, «Sassetta e il suo tempo», è stata prorogata fino al 15 settembre. Mentre non posso che invitare a visitare quest’ultima (vedi anche «Medioevo» n. 327, aprile 2024; on line su issuu.com), nonché il museo e la città che la ospitano, il catalogo della prima mi fornisce l’occasione per qualche ipotesi araldica intorno a una Madonna col Bambino, in trono e accostata da due angeli musicanti, conservata a Lisbona, nel Palazzo Nazionale di Ajuda, nell’anticamera della Cappella. Nel suddetto catalogo, Lorenzo Sbaraglio l’ha attribuita a Giovanni di Francesco Toscani, un nome senza opere fino a quando, nel 1969, Luciano Bellosi non lo identificò, su base documentaria, con l’autore del corpus raccolto sino ad allora sotto il nome del Maestro della Crocifissione Griggs, dal namepiece già in quella collezione e ora al Metropolitan Museum di New York. Questo maestro, che oltre a realizzare colmi – ossia anconette di soggetto sacro – si dedicò anche alla decorazione di cassoni, morí a Firenze il 2 maggio del 1430. Come vedremo, tale dato cronologico risulta discriminante

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per escludere un’ipotesi che, in base al dato araldico, mi si era subito affacciata alla mente: la ricca carpenteria fiammeggiante che ospita, oltre alla suddetta Madonna, il Cristo giudice nella cuspide e, nella predella, ancora il Salvatore, ma nella forma di Imago Pietatis, sembrerebbe infatti quella originaria o, perlomeno, perfettamente in stile (cosa che solo un esame diretto del manufatto potrebbe confermare); in ogni caso, essa è stata evidentemente ridorata,

e in tale processo può essere andata perduta qualche informazione araldica fondamentale.

Una moglie senza nome In particolare, mentre lo stemma che per il riguardante è in basso a sinistra, ovvero nella posizione canonica dell’arme gentilizia del marito in una coppia di stemmi che testimoniano di un matrimonio – come certamente in questo caso –, è senza dubbio da riferirsi alla celebre casata fiorentina dei Pazzi, quello

Lo stemma Pazzi, in Arme delle Famiglie Fiorentine, Ms. Mattei-Corsini. XVII sec. Archivio Orsini De Marzo.

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A sinistra Madonna col Bambino, tempera e oro su tavola di Giovanni di Francesco Toscani. Ante 1430. Lisbona, Palazzo Nazionale di Ajuda, anticamera della Cappella. Qui sotto lo stemma Cavalcanti, in Arme delle Famiglie Fiorentine, Ms. Mattei-Corsini. XVII sec. Archivio Orsini De Marzo.

a destra, della – per ora ignota – moglie, è considerato dallo studioso «del tutto opera della fantasia del restauratore». Ciò potrebbe ben essere, ma non lo credo, e penso che sia importante controbilanciare tale affermazione con qualche ipotesi, e con indicazioni di metodo utili agli studiosi, come ai semplici curiosi. Può ben darsi, infatti, che lo stemma della moglie, a differenza di quello del marito Pazzi, fosse abraso e del tutto irriconoscibile, perlomeno all’occhio di un restauratore non araldista e, per di piú, probabilmente Qui accanto in uno dei riquadri alle estremità della predella della Madonna col Bambino di Giovanni di Francesco Toscani compare lo stemma «misterioso», il cui aspetto attuale potrebbe essere l’esito di una errata lettura da parte di chi ne ha eseguito il restauro.

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CALEIDO SCOPIO Lo stemma Anselmi, dallo Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo (XVII sec.). Milano, 2005. In basso lo stemma Rinieri, dallo Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo (XVII sec.). Milano, 2005.

non fiorentino: in tal caso il suddetto avrebbe forse cercato di cogliere ciò che restava dello stemma della gentildonna e di riprodurlo cercando di restituirne almeno l’effetto decorativo, piuttosto che inventare di sana pianta. Partendo dal presupposto che un Pazzi avesse probabilmente impalmato una gentildonna fiorentina di eguale rango – una mésalliance, oltre che alquanto improbabile a quel tempo, sarebbe poi stata semmai indice di una traiettoria sociale di decadenza: con altre preoccupazioni, quindi, piú materiali, forse, di quelle artistiche e araldiche… – , ho inizialmente pensato, ragionando su quanto decifravo dal minuscolo dettaglio nell’illustrazione dell’opera, che potesse trattarsi dell’arme di una di quelle grandi famiglie fiorentine note anche a un piú vasto pubblico per i meriti letterari del poeta amico di Dante, ossia della casata donde nacque Guido di Cavalcante Cavalcanti: di illustre stirpe guelfa al pari dei Pazzi. La genealogia di quest’ultima famiglia pubblicata nell’Ottocento

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nella monumentale raccolta uscita a fascicoli nel corso di molti decenni e coordinata da Pompeo Litta (Famiglie Celebri Italiane, Pazzi di Firenze, Tav. IV), solitamente piuttosto attendibile, se non completa, menzionava solo un matrimonio fra Pazzi e Cavalcanti a un’altezza cronologica vagamente compatibile con la nostra Madonna: quello intercorso fra Francesco di Ghinozzo Pazzi, nato nel 1417, e Piera di

Giovanni Cavalcanti. Tuttavia, tale matrimonio non risulterebbe celebrato che nel 1451, rendendo cosí impossibile l’attribuzione, avanzata su base stilistica, al Toscani, e che non mi permetto certo di mettere in discussione.

Un caso di «riciclo»? Questo scarto cronologico mi ha indotto a cercare altre gentildonne «papabili»: per non dover ipotizzare che lo stemma della moglie fosse agosto

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di deschi da parto, «cassoni» e forzierini varii, di «aggiornare» lo stemma muliebre alla luce di un matrimonio contratto in una generazione successiva a quella della decorazione del manufatto –, mettendo in crisi ipotesi di datazione apparentemente inoppugnabili. Vediamo allora se, in questo specifico caso, non vi siano ipotesi araldicamente piú probabili. Fra le famiglie che dettero priori delle Arti alla repubblica fiorentina (e da considerarsi quindi tecnicamente patrizie, in quanto partecipi del governo della cosa pubblica, anche alla luce della futura legislazione nobiliare granducale), e che portarono, al pari dei Cavalcanti, un cancellato, ovvero il campo dello scudo carico di piú cotisse (pezze onorevoli

cinque priori sino alla cessazione del governo repubblicano (Cristoforo di Bernardo fu priore nel 1527). Tuttavia, Pompeo Litta non fornisce – ma potrebbe essere una sua lacuna! – matrimoni fra Pazzi e donne delle suddette famiglie, se ho ben visto.

diminuite in larghezza) poste in banda e in sbarra a formare una sorta di cancello, maggior rilievo ebbero gli Anselmi (d’azzurro, cancellato d’argento), di cui numerosi membri sedettero fra i priori sin dall’istituzione del priorato (1283) fino al 1433, vantando anche cinque Gonfalonieri di Giustizia fra il 1296 e il 1389, e i Rinieri (d’oro, cancellato d’azzurro), giunti ben piú tardi al priorato col cambiatore Luca di Piero (1380) e partecipi con altri

del piú antico armoriale fiorentino di cui abbiamo contezza, risalente al 1302 (l’anno dell’esilio di Dante!), conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Ms. Cappugi 579), riporta altri tre stemmi siffatti, ossia col campo del cancellato seminato di crocette: tali sembrerebbero, infatti, quello dei Lambertini, dalla cromía oro/ azzurro, e quelli dei Mezzivillani e dei Petriboni (ambo dalla cromía argento/nero, sebbene invertita:

Tre candidati La mia impressione – tutta da verificare, beninteso! – è poi che chi ha restaurato (o rifatto?) lo stemma cancellato dell’ignota consorte, abbia potuto non avvedersi, per lo stato di usura dell’originale, della presenza di crocette seminate nel campo, fra le cotisse intrecciate a formare il cancellato: a parte i Cavalcanti succitati, il cui campo è tuttavia generalmente d’argento, uno dei testimoni sopravvissuti

In alto lo stemma Cavalcanti, in Ms. Cappugi 579. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. A destra lo stemma Petriboni, dallo Stemmario Fiorentino Orsini De Marzo (XVII sec.). Milano, 2005.

stato in seguito sovrascritto – cosa tuttavia da non escludere (e, in questo caso, forse verificabile con esami diagnostici, ove la cornice non sia rifacimento in stile, ma originale, per quanto restaurata), come ho avuto modo di dimostrare in questa sede nell’articolo Matrimoni con riciclo (vedi «Medioevo» n. 227, dicembre 2015; on line su issuu.com), nel quale accennavo all’uso, certamente non infrequente almeno nel caso

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CALEIDO SCOPIO Fermaglio da piviale quattrocentesco in rame dorato e smalti raffigurante san Cerbone. Massa Marittima, Museo di San Pietro all’Orto. matrimoni fra dette famiglie censiti dal Litta: infatti, anche un nipote ex fratre del suddetto Francesco Pazzi, Leonardo di Uguccione, avrebbe nel 1472 sposato una Cavalcanti, Bice di Arcangelo. Tale ipotesi (sia ben chiaro!) d’identificazione dello stemma rifatto con quello di tale ramo dei Cavalcanti procedente da Ghinozzo di Uguccione, morto prima del 1380, sarebbe però inficiata da un dato documentario, sempre che detto ramo non avesse in seguito riassunto lo stemma avito (come credo): infatti, grazie in primo luogo agli studi sulle ruptures de parenté (cambio di nome ed arme per evitare le sanzioni antimagnatizie fiorentine) di Christiane Klapisch-Zuber e di Michel Pastoureau, abbiamo indizio forse di un piú risalente legame genealogico o consortile?); dei primi due casati, se non erro, si perdono presto le tracce, mentre i Petriboni – che Ugolino Verino afferma però consorti solo di una famiglia Lotti (che effettivamente portava un fasciato di quella non consuetissima cromía) e dei Fastelli – dettero priori dal 1343 al 1372. Tuttavia, il dato piú interessante fornito dal suddetto codice è che ivi l’arme dei Cavalcanti ha un campo aureo, e non argenteo, come generalmente attestato dagli armoriali posteriori. Non credo che ciò sia tuttavia dirimente nel caso in esame: se anche il campo dello stemma della moglie che ipotizziamo uscita da casa Cavalcanti fosse stato d’argento, e non d’oro come nel summenzionato Ms. Cappugi, poiché l’argento (o lo stagno) era solitamente metallo applicato alla

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sottostante preparazione, era facile potesse perdersi; anche, a differenza dell’oro, era soggetto a ossidazione e annerimento. Tali motivi mi portano a ipotizzare che chi ha restaurato, ovvero rifatto, lo stemma della ignota moglie del Pazzi abbia potuto cosí misinterpretare ciò che restava di uno stemma Cavalcanti, piuttosto che d’altre famiglie, o inventarne uno.

In basso restituzione grafica del rilievo con oche da Ostia, riferibile al tempio di Giunone Moneta.

Stemmi aggiornati Se il matrimonio cronologicamente troppo basso menzionato dal Litta non torna con i dati anagrafici dell’artista, credo che ciò possa essere dovuto o alla nostra ignoranza circa la celebrazione di un precedente matrimonio PazziCavalcanti, o, come già ventilato, a un «riciclo» araldico del colmo, i cui stemmi possano essere stati aggiornati all’epoca di uno dei due agosto

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L’insegna di Sallustio Bandini murata nella facciata del palazzo del Podestà di Massa Marittima. verificato caso per caso! Tale lunga digressione solo per mettere in guardia dalla complessità, e dalle insidie, dell’araldica: cosí come della sua utilità, per contro, per gli studi storico-artistici!

Le oche del santo

contezza che, il 20 novembre 1393, i nobiles viri Filippus et Franciscus (il nostro) quondam Ghinozzi, col nipote ex fratre Ghinozzo di Lozzo (che Litta menziona come Luigi), de Pazzis, si fecero di popolo per poter partecipare al governo dei priori delle Arti, assumendo il gentilizio de Ghinozzis e adottando uno stemma del tutto differente dall’avito! Ma se i magnati Pazzi, costretti a farsi di popolo, non tennero a lungo il nuovo gentilizio, abbiamo motivo di ritenere che abbiano altrettanto presto ripreso a utilizzare il blasone avito. Detto per inciso, accanto a vari nuclei familiari dei Pazzi, diversi furono anche quelli dei parimenti magnati Cavalcanti a cambiare sia di nome che d’arme: alcuni divennero de Podio/del Poggio, accampando un poggio parlante nel blasone (1361), altri ricordarono, storpiandolo, il nobile gentilizio avito divenendo Cavalleschi (1379) e Cavallereschi (1393); alcuni si umiliarono in Malatesti (1381) o, ancor piú significativamente, in Popolani (1393). Meglio era andata ad alcuni rami dei Pazzi fattisi di popolo e divenuti Accorri e Aghinolfi (1380), e Dalfini (1393), oltre che Ghinozzi come detto sopra. Quanto poi durò il cambio di nome e arme, dev’essere naturalmente

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Lasciata Empoli – o meglio Lisbona! – passiamo a Massa di Maremma, ovvero Massa Marittima, sede diocesana traslata in antico (XI secolo) da Populonia: da quella antichissima città venne, col titolo vescovile, anche san Cerbone, la cui festa (10 ottobre) tuttora si celebra con una suggestiva processione di barche in riva al mare, nel Golfo di Baratti, presso la cappella dedicata al santo, sua prima sepoltura, risalente a epoca longobarda nella sua struttura originaria, rifatta tuttavia fra il XV e il XVI secolo. Ora le sue reliquie riposano nella magnifica arca (1324) collocata nel coro della Cattedrale massetana, opera del senese – ma di origine fiorentina – Goro di Gregorio, istoriata con scene della vita del santo, i cui animali simbolici sono le oche, che si vuole lo abbiano accompagnato mentre si recava in visita a papa Vigilio. E ricordiamo che le oche furono, nella tradizione romana, simbolo di vigilanza, appunto, in quanto lo starnazzare di quelle del Campidoglio, sacre a Giunone, salvò Roma da un incursione dei Galli di Brenno… Forse per questo tramite leggendario un simbolo pagano, come in tante altre occasioni, passò a simboleggiare un santo cristiano: e cosí le tre oche che scolpite su un rilievo romano da Ostia, riferito al tempio di Giunone Moneta (che ammonisce, cioè, che avverte, dal latino monere), sono passate, quasi paro paro (sono qui quattro), negli eleganti smalti di un fermaglio da piviale ora conservato nel Museo

di San Pietro all’Orto a Massa Marittima (che ora ospita la mostra sul Sassetta, ma alle cui collezioni permanenti appartengono alcuni capolavori del suddetto scultore provenienti dal Duomo cittadino), già nel Tesoro della Cattedrale di S. Cerbone. La sintetica didascalia che nel museo data il manufatto al principio del Quattrocento attribuendolo a bottega senese, non indica invece la titolarità dello stemma, verosimilmente del donatore, che lo adorna. Non credo tuttavia si possa ignorare: basta infatti alzare gli occhi, nella piazza dove in cima a una ripida scalinata – quasi di tempio pagano! – si erge la Cattedrale, al prospiciente palazzo un tempo sede dei Podestà e oggi del locale Museo Archeologico, per riconoscerne, frammezzo agli altri stemmi, uno simile: con un’aquila che, in attesa di divenire un capo dell’Impero, si posa, letteralmente, su analogo scudo. L’iscrizione ci fa sapere trattarsi dell’insegna di Sallustio Bandini, che ricoprí l’officio nel 1500: dovrebbe essere colui che, in seguito alle nozze con Montanina Piccolomini Todeschini, già discendente in linea femminile dai Piccolomini del ramo di Pio II, dette origine al ramo familiare aggregato alla Consorteria Piccolomini, e che tuttora sussiste come Piccolomini Naldi Bandini. Per l’occhio attento (e fantasioso, anche!) del conoscitore dell’araldica, ogni mostra, ogni visita a museo, una gita, una lettura possono insomma diventare occasione per ragionare e avanzare piú o meno circostanziate ipotesi attributive per stemmi – o ciò che ne resta –, e consentire talvolta qualche modesta aggiunta alla conoscenza, e quindi a una migliore comprensione, di qualche piú o meno illustre opera d’arte del passato, e alla civiltà che le ruotava attorno: buon viaggio dunque, nello spazio e nel tempo! Niccolò Orsini De Marzo

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Quando i santi prendevano le armi

Una lancia contro gli dèi falsi e bugiardi di Paolo Pinti

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ella Pinacoteca del Museo Civico di Palazzo dei Consoli, a Gubbio, è esposto un San Crescentino (XVII secolo), attribuito a Simon Vouet, un famoso pittore francese vicino allo stile di Caravaggio (vedi foto in questa pagina). Il giovane raffigurato è, appunto, san Crescentino, diminutivo affettuoso, per la sua giovane età, di Crescenziano, che sarebbe stato un soldato romano fuggito per salvarsi dalle persecuzioni promosse da Diocleziano contro i cristiani. Crescentino nacque a Roma intorno all’anno 276, sotto il pontificato di Eutichiano, e militò nella Prima Coorte della Prima Legione – che si favoleggia comandata dal futuro san Sebastiano (vedi «Medioevo» n. 300, gennaio 2022; on line su issuu. com) – di fede cristiana e per essa martirizzato. È santo patrono di Urbino nelle Marche, di Crescentino in Piemonte ed è compatrono di Città di Castello in Umbria. Il quadro di Vouet (rectius: a lui attribuito) è opera pregevole e risulta essere una replica, eseguita nel periodo 1612-1626, di un altro quadro, oggi conservato nel Musée de Beaux-Arts di Algeri – altre copie sono custodite nel Museo di Rouen, San Crescentino, olio su tela attribuito a Simon Vouet. XVII sec. Gubbio, Museo di Palazzo dei Consoli. Il personaggio impugna con la mano sinistra un’asta in legno, difficile da classificare.

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nella collezione del marchese de Casa Torres a Madrid, al Louvre (dove è chiamato Ritratto di un giovane in armatura; vedi foto in questa pagina) e in una collezione privata a Bruxelles –, che, avendo conservato i colori piú vivi, ci consente di esaminare la natura dell’arma che il santo impugna con la mano sinistra. Non è facile stabilire se si tratti di un’arma in asta o di una lancia da cavallo: il legno sembra essere di spessore uniforme, come per la prima ipotesi, mentre, se si

trattasse di una lancia, dovrebbe decrescere verso la punta. Tuttavia, la lunghezza dell’asta è eccessiva per un’arma da fante e, quindi, dobbiamo pensare senz’altro a una lancia, peraltro decisamente piú consona al personaggio.

Alabardieri senza... alabarda Questa ipotesi è suffragata anche da un’osservazione tecnica: le armi in asta avevano il legno (asta) a sezione rettangolare, mentre questa è a sezione rotonda. Di Simon Vouet

conosciamo un’opera, definita L’alabardiere, conservata al Dayton Art Institute (Ohio), che presenta problematiche simili, con un’asta davvero molto lunga, a sezione pure rotonda (vedi foto a p. 110, in alto): il titolo richiama la celebre opera del Pontormo denominata anch’essa L’alabardiere, ma che ben difficilmente mostra un’alabarda, pur essendo di certo un’arma in asta, dal ferro non identificabile. Indubbiamente, un santo con un’arma in asta è piuttosto raro e lo La versione del dipinto di Simon Vouet conservata al Museo del Louvre di Parigi (dove l’opera è peraltro classificata come Ritratto di un giovane in armatura, 1625-1627). L’immagine è piú chiara rispetto a quella del dipinto di Gubbio, ma l’asta in legno tenuta dal santo – da alcuni identificato con Guglielmo d’Aquitania (vedi «Medioevo» n. 323, dicembre 2023; on line su issu.com) – non è perfettamente classificabile: sarebbe di un’arma da fante se di diametro uniforme, mentre si tratterebbe di una lancia da cavaliere se di diametro rastremato verso la punta.

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CALEIDO SCOPIO L’Alabardiere, olio su tela di Simon Vouet. 1615-1620. Dayton (Ohio), Dayton Art Institute, Ohio. Fisionomia, abiti, armatura e asta in legno richiamano direttamente il San Crescentino, tanto da giustificare un’identificazione con lo stesso. Immediato è il richiamo al celebre Alabardiere del Pontormo. Nella pagina accanto, in basso Madonna Assunta e San Crescentino, olio su tela di Girolamo Cialdieri. XVII sec. Urbino, Museo Diocesano Albani. «Gaddi» o «Saddi». Secondo una leggenda, le sue reliquie sarebbero state donate a Mainardo, vescovo di Urbino. Un’altra tradizione legendaria vuole che il corpo di Crescentino fosse stato ritrovato il 18 dicembre 1360 e ritenuto vescovo di Città di Castello, mentre per altri venne sepolto sulla via Ostiense e le sue spoglie furono mandate a Città di Castello in un periodo imprecisato, diventando col

A destra piatto raffigurante san Crescentino in lotta con il drago davanti Urbino, opera del ceramista Mario Ceccarelli. Collezione privata. si vede solo se questa è stata l’arma del martirio, naturalmente con una confusione incredibile sulle varie tipologie e sulle definizioni da parte degli storici dell’arte. Il contesto, per san Crescentino, depone a favore di una lancia, del tipo solitamente usato dai santi per sconfiggere il drago. E Crescentino è legato proprio a tale figura, in quanto, mentre era in fuga nella campagna dell’antica Tifernum (alta Val Tiberina), avrebbe ucciso un drago che terrorizzava la zona, prima di essere catturato dai suoi inseguitori e decapitato in una località detta

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tempo un martire locale. Di certo, non si conoscono documenti o epigrafi anteriori al VII secolo che testimonino l’esistenza del martire. Sappiamo solo che nell’anno 297, Crescentino fu costretto ad abbandonare l’esercito e a fuggire da Roma con i suoi genitori, che poco dopo moriranno durante i suoi spostamenti lungo la Valtiberina, predicando la fede cristiana. Il fuggiasco risalí la valle, giungendo a Tifernum Tiberinum, l’attuale Città di Castello, interamente di religione pagana e dedita a pratiche superstiziose, tanto da apparire come un fierissimo mostro dell’idolatria, da combattere con tutti i mezzi. Di qui la metafora della lotta contro il drago, messogli contro dagli dèi falsi e bugiardi (detto fra noi, se furono questi dèi ad aizzare il mostro, vuol dire che erano comunque esistenti).

Guerriero della fede In questa ottica, Crescentino può ben essere visto come difeso dalla corazza della sua fede nel Vangelo e vittorioso sul fiero dragone. Combattere con un’arma in asta, in uso alle fanterie, non sarebbe stato consono a un cavaliere, soprattutto in un combattimento idealizzato e simbolico: di qui la probabilità che l’arma raffigurata nei quadri di Vouet sia la classica lancia con la quale il cavaliere (san Giorgio, per esempio) infilza il povero drago. Flacco, prefetto dell’Etruria, venne a sapere dell’opera evangelizzatrice di Crescentino a Tifernum, che era una zona ricadente nella sua giurisdizione, e gli ordinò di abbandonare subito la religione cristiana, minacciandolo di morte in casi di disubbidienza. Naturalmente, Crescentino intensificò la sua opera e,

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In alto grosso in argento di Francesco Maria I della Rovere (duca di Urbino dal 1508 al 1516 e dal 1521 al 1538). San Crescentino, a cavallo, uccide il drago con la lancia, analogamente a san Giorgio. Camerino, Collezione privata.

di conseguenza, Flacco lo fece condurre a Roma nel tempio di Giove, affinché qui onorasse gli dèi oppure si preparasse a subire le torture piú efferate. Al suo rifiuto, lo fece gettare in un rogo, ma Crescentino, cantando inni a Dio, ne uscí indenne. Fu, allora, ricondotto al tempio di Giove, per un secondo tentativo, e qui la fermezza del cristiano comportò la sua annunciata fine: denudato e trascinato per le vie di Roma, fu alla fine decapitato, il 1° giugno dell’anno 303. Sfidando la morte, alcuni cristiani andarono nel cuore della notte sul luogo dell’esecuzione e prelevarono le sante spoglie portandole nella selva di Saddi, nella zona di Città di Castello, dove furono sepolte. A questo punto ci si aspetterebbe che l’iconografia del martire veda come attributo principale la spada della decapitazione, invece, no: prevale, in forma esclusiva, la lancia usata per combattere il dragone del male o, piú esattamente, della falsa religione. La storia di questo soldato romano ucciso per la sua fede è identica a quella di infiniti altri santi, ma per alcuni è evidenziata l’arma del martirio e per altri no, senza un’apparente spiegazione di qualche tipo.

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Lo scaffale Massimo Oldoni I due Ladroni e i quattro Re Storie oltre il Medioevo

Donzelli Editore, Roma, 224 pp., con un inserto a colori, rilegato

35,00 euro ISBN 978-88-55225632 www.donzelli.it

Dalla sorprendente scoperta di due sculture in legno dipinto, tipiche della tradizione sudtirolese, visibili

sulle Dolomiti dell’Alta Badia (riprodotte nel fascicolo a colori nel centro del volume, dedicato all’iconografia), Massimo Oldoni ripercorre la vicenda dei due ladroni crocefissi accanto a Gesú – Dismas, quello buono, e Gismas, il cattivo che sfida il Signore –, intrecciandola a quella dei tre re magi e del re dei re, il prete Giovanni (Johannes, in latino, non Gianni). «Sei personaggi in cerca d’autore», quattro dei quali

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ricorrono nella Storia dei re magi di Giovanni di Hildesheim, scritta tra il 1364 e il 1375. Oldoni aveva già fornito un’edizione del testo latino, con traduzione a fronte, per Francesco Ciolfi editore in Cassino, nel 2009, con una sua Introduzione; ora allarga il discorso a tutta la tradizione precedente, contemporanea e seguente quel testo, riprodotto in italiano in appendice, con molte novità, tra le quali la soluzione del problema dei nomi dei due ladroni; il recupero di una tradizione tedesca della nascita di Ponzio Pilato in Germania (p. 114), sulla scorta di un passo di Tacito che scrive di coorti scelte, inviate da là come guardie del corpo dell’imperatore; l’analisi numerica e simbolica del Palazzo dello specchio, descritto nella Lettera del prete Giovanni. Il tutto organizzato come una rappresentazione teatrale in cinque atti. Il primo affronta «La corsa a Oriente» dei viaggiatori medievali verso le terre di Gog e Magog; nel secondo, «Le rose di Gerico», si seguono la nascita e gli sviluppi della

storia dei tre re magi, dai vangeli apocrifi a Iacopo da Varazze; il terzo, «Cosí vicino, cosí lontano…», analizza la storia del racconto di Giovanni di Hildesheim, non senza eruditi richiami alla tradizione manoscritta; il quarto si occupa della Lettera del prete Giovanni e dei misteri e simboli legati al fantomatico personaggio, «Nel regno del fantasma»; il quinto, «Le stirpi di Caino?», va oltre la tradizione evangelica e medievale per vedere nei due ladroni la rappresentazione del Bene e del Male. Il Male è Gismas, identificato con Satana, Woland nel Faust di Goethe, e nel Maestro e Margherita di Bulgakov; ma il vero operatore del male non è il diavolo «parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene» (da Goethe a Bulgakov), ma «chi, come Pilato, ordina il Male e non si ravvede» (p. 140). Il tutto nella cornice letteraria di «sei personaggi [che] cercano ogni volta il loro autore, [e di] due barboni [che] aspettano ogni volta Godot che non viene (...) È l’eterno presente della letteratura

che, però, non si ripete mai», perché cambiano autore e pubblico. Paolo Golinelli Adriano Prosperi Machiavelli Tra religione e politica Officina Libraria, Roma, 168 pp.

18,00 euro ISBN 978-88-3367-239-7 www.rizzolilibri.it

Niccolò Machiavelli è uno dei non pochi protagonisti della storia e della cultura, non soltanto italiane, che hanno finito con il diventare sinonimo di un’idea e di un modo di pensare che, in

realtà, non gli furono mai propri. Basti pensare all’accezione del termine machiavellismo e dell’attributo machiavellico, solitamente intesi come espressioni della capacità di escogitare espedienti quasi luciferini. Non stupisce, quindi, che, nelle

pagine introduttive – nelle quali si sofferma a lungo sulla questione –, Adriano Prosperi scriva, fra l’altro, che «La premessa necessaria per leggere Machiavelli è rinunciare a categorie e sistemi». È dunque questo uno dei fili conduttori principali del saggio, nel quale sono riuniti sette contributi editi originariamente in altrettante differenti sedi. Sono pagine di grande interesse, nelle quali vengono di volta in volta esaminati tutti gli aspetti che hanno maggiormente caratterizzato l’attività del grande pensatore e letterato fiorentino, primo fra tutti il costante e acuto vaglio delle scelte politiche dei potenti del tempo. Al tempo stesso, Prosperi ha per esempio modo di sottolineare come la «sfortuna» storica di cui Machiavelli ha, suo malgrado, goduto ha spinto a considerare come scritti politici opere che, di fatto, furono pensate e redatte con intenti diversi. Una lettura, insomma, utile a guardare con occhi diversi e piú oggettivi il percorso di un insigne testimone del suo tempo. Stefano Mammini agosto

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