Medioevo n. 265, Febbraio 2019

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LA

MEDIOEVO n. 265 FEBBRAIO 2019

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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Mens. Anno 23 numero 265 Febbraio 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

CENT’ANNI

STORIA DI UN’ETERNA RIVALITÀ FEBBRAIO 1339

Parabiago: un affare di famiglia

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PARABIAGO MEDIEVALISMI/1 PAOLO OROSIO ANTICHE CHIESE DELLA LOMBARDIA LIGURIA DOSSIER GUERRA DEI CENT’ANNI

LA GUERRA DEI

IN EDICOLA IL 1° FEBBRAIO 2019



SOMMARIO

Febbraio 2019 ANTEPRIMA

36 CALEIDOSCOPIO

IL PROVERBIO DEL MESE

Prove di destrezza

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LIBRI Il colle, la chiesa, la città Lo Scaffale

ARCHEOLOGIA Storie di un antico assedio

6

MUSICA Accordi e riflessi

MUSEI Echi d’una corte cosmopolita

9

Cavarsela per il rotto della cuffia

MEDICINA Sotto i ferri del chirurgo

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Dossier

APPUNTAMENTI Arrivano i Fritschi! A colpi di... pancia Ricorrenze illustri L’Agenda del Mese

14 15 15 16

Nemici per sempre

di Federico Canaccini

di Giovanni Armillotta, con contributi di Tommaso Indelli

COSTUME E SOCIETÀ 24

MEDIEVALISMO/1 Un’idea di Medioevo di Riccardo Facchini e Davide Iacono

36

LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/3 Lombardia Milano da scoprire di Furio Cappelli

MEDIOEVO NASCOSTO Liguria Su e giú per le antiche pietre di Chiara Parente

24 ISLAM Il «Libro di Orosio» Orosio, una certa «moda bizantina» e la guerra di Troia raccontata ai califfi di Marco Di Branco

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113

LA GUERRA DEI CENT’ANNI

STORIE BATTAGLIE Parabiago Quando la neve si tinse di rosso

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58

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Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Armillotta è cultore di storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici all’Università di Pisa. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Riccardo Facchini è dottore di ricerca in storia della civiltà europea. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Davide Iacono è storico del Medioevo. Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è cultore di materie storiche. Chiara Parente è giornalista. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno

21/01/19 13:52

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 265 - febbraio 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina (e p. 85) e pp. 5, 24/25, 28, 31, 32/33, 40, 42/43, 56, 74/75, 76, 84, 87, 90 (basso), 92/93, 94-95, 97; Electa/Sergio Anelli: pp. 26, 52; Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 34; Leemage: pp. 36/37, 45, 53, 60 (alto), 73, 79, 86, 96 (destra); Veneranda Biblioteca Ambrosiana: pp. 38, 39; Album/Fine Art Images: p. 44 (alto); Age: p. 49; Album/ASF: p. 50 (basso); Album/Sfgp: pp. 50/51; Album/Oronoz: pp. 54, 81; Album: pp. 54/55, 91 (alto); Erich Lessing/Album: pp. 77, 78, 78/79, 91 (basso) – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche: pp. 6-8 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 10; foto Giliberti: p. 9 (sinistra); foto Fischetti: pp. 9 (destra), 11; foto Coppitz: pp. 10/11 – Cortesia degli autori: pp. 14-15, 40/41, 104 (alto) – Doc. red.: pp. 27, 30, 32 (basso), 35, 48, 50 (alto), 62-65, 68, 69 (alto), 69 (basso: ricostruzione grafica a cura di Francesco Corni), 82, 96 (sinistra), 105 – DeA Picture Library: pp. 28/29 – Shutterstock: pp. 38/39, 58-59, 60 (centro), 61, 66-67, 70-71, 80 – Bridgeman Images: pp. 88/89, 90 (alto), 92 – Cortesia Grafiche Amadeo Centro Stampa Offset, Chiusanico (Imperia): pp. 98-99, 100 (alto), 101-103, 104/105, 106-107 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 32, 83, 100.

Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina miniatura raffigurante le violenze consumatesi in Francia durante la rivolta della Jacquerie, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero brexit

«Sudor anglicus», il mistero di un’infezione tutta inglese

l’arte delle antiche chiese/4

Veneto: Torcello e Murano

medievalismi

Il duce condottiero


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Prove di destrezza

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elle città medievali, soprattutto in estate, si tenevano giochi, palii, tornei e duelli, alcuni dei quali si disputano ancora: il Palio di Siena – di cui si ha notizia almeno dal XIII secolo –, la Quintana di Foligno o quella di Ascoli Piceno, la Giostra di Arezzo, a cui allude Dante nel XXII canto dell’Inferno, quando, rivolgendosi agli Aretini, dice «Corridor vidi per la terra vostra (…), e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra». E al gioco della Quintana o del Saracino sembra essere legata l’origine dell’espressione «Cavarsela per il rotto della cuffia», che si utilizza quando si esce in modo rocambolesco e quasi miracoloso da una situazione rischiosa. I giochi del Saracino e della Quintana consistono nel correre, a cavallo, contro una sagoma girevole, spesso abbigliata in guisa di un Saraceno, che ad Arezzo è detto «Buratto, re delle Indie», il nemico della cristianità (e dunque dei cavalieri) per tutto il Basso Medioevo. L’abilità del cavaliere, oggi come allora, consiste nel colpire, lancia in resta, lo

Valva di specchio in avorio con la raffigurazione di un torneo, opera di scuola francese. XIII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Sulla destra del manufatto si vede la vestizione di un cavaliere e si può riconoscere la «cuffia d’arme» sulla quale gli viene calato l’elmo.

scudo dell’automa girevole, stando ben attenti a fuggire di gran carriera, evitando di farsi colpire dall’altro braccio del Buratto, armato di mazzafrusto. Il fantino è armato di lancia, ma è protetto da un copricapo, un tempo in maglia di metallo, detto «camaglio» che veniva indossato su di una «cuffia» imbottita come ulteriore protezione. La «cuffia d’arme» era complementare al camaglio e poteva essere utilizzata da sola o insieme a una sorta di «ciambella» di stoffa, detta «cercine», utile per tenere a giusta distanza il grande elmo pentolare, in uso per tutto il XIII secolo. La regola di questo gioco medievale sembra dunque essere all’origine del proverbio, come ha notato Alfredo Panzini nel suo Dizionario Moderno (1905), in cui afferma che «questa locuzione pare tolta dall’antico giuoco medievale del Saracino o della Quintana. Il colpo, infatti, ritenevasi buono dai giudici del campo benché il corridore fosse colpito… nella cuffia».


ANTE PRIMA

Storie di un antico assedio ARCHEOLOGIA •

Un recente intervento condotto nel centro storico di Fano ha gettato nuova luce sulle vicende vissute dalla città marchigiana nei secoli del Medioevo e del primo Rinascimento

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N

el centro storico di Fano, fra l’Arco di Augusto e la medievale Porta Maggiore, lavori di riqualificazione condotti dal Comune hanno permesso di riportare in luce, grazie allo scavo archeologico, un frammento inedito della città medievale e di acquisire molte informazioni su una fase storica ancora poco nota. L’area oggetto di intervento è immediatamente esterna alle mura romane e sostanzialmente antistante l’Arco d’Augusto. Qui, nel Medioevo, si era sviluppato un piccolo nucleo abitato (detto Borgo Mozzo), che, all’inizio

del XIII secolo, venne inglobato nel perimetro urbano, con la costruzione di una nuova fortificazione costituita all’inizio da una palizzata lignea. Nel 1227 fu innalzata la prima Porta Maggiore, per sostituire l’Arco di Augusto, unico ingresso alla città su questo lato, mentre tra il 1416 e il 1424, per volere dei Malatesta, Pandolfo III e Sigismondo Pandolfo, si realizzò la prima fortificazione in muratura a sostituzione della palizzata lignea. Nel 1463, in seguito al terribile assedio di Fano da parte di Federico da Montefeltro duca di Urbino, la prima porta in muratura venne distrutta e subito dopo ricostruita su progetto di Matteo Nuti. Le fonti storiche, infatti, ci informano che la ricostruzione della porta ebbe inizio all’indomani dell’assedio e, già dal 1464, i documenti ricordano lavori di ripristino e ricostruzione dalle fondamenta di Porta Maggiore. febbraio

MEDIOEVO


Nel 1573, per volere di papa Gregorio XIII, che aveva richiesto una revisione del sistema difensivo di Fano, Porta Maggiore fu ampliata, con un prolungamento verso l’interno della città, per aumentarne le potenzialità difensive. Venne quindi realizzato un avancorpo con un grande portale a bugne di arenaria sul fronte interno della porta verso la città.

Sotto il selciato Questa successione di modifiche e rifacimenti è stata confermata proprio dalle recenti indagini archeologiche volte a verificare la complessa situazione stratigrafica apparsa sotto il selciato moderno. «È stato prima di tutto messo in luce, a livello di fondazione – spiega l’archeologa Maria Raffaella Ciuccarelli –, il corpo della porta, che possiamo far risalire, per ragioni stratigrafiche, alla prima

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febbraio

costruzione in muratura del 1424 o poco prima, di cui si conserva solo il lato settentrionale costituito da un grosso muro in mattoni, rasato in seguito alle attività di ricostruzione posteriori all’assedio del 1463. A esso è fisicamente collegato un cunicolo molto ben conservato, al quale si accedeva dall’interno della porta tramite una ripida scalinata, probabilmente collegata al piano stradale con una botola. Il cunicolo può essere messo in relazione con la prima fase in muratura della porta, come dimostra la ceramica rinvenuta nello strato di riempimento, che indica come la data della sua chiusura sia compatibile con gli interventi tardo quattrocenteschi. È probabile che, in seguito all’assedio del 1463, il cunicolo fosse stato pesantemente danneggiato e dunque chiuso. Per ciò che riguarda la funzione originaria del camminamento

Sulle due pagine Fano. Immagini del cantiere di scavo che ha interessato un’area della città compresa fra l’Arco di Augusto e la Porta Maggiore, quest’ultima ben riconoscibile nella foto qui sopra.

Errata corrige con riferimento al Dossier sulla famiglia Medici Firenze siamo noi (vedi «Medioevo» n. 263, dicembre 2018) desideriamo correggere quella che un nostro attento lettore ha scherzosamente definito «inversione delle spose»: lo scambio (vedi a p. 77) ha interessato Cosimo il Vecchio e Piero, detto il Gottoso, le cui consorti furono, rispettivamente, la Contessina de’ Bardi e Lucrezia Tornabuoni e non viceversa. Dell’errore ci scusiamo con gli autori dell’articolo e con i nostri lettori.

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ANTE PRIMA A sinistra un momento dell’esplorazione condotta nei pressi della Porta Maggiore. In basso uno dei cunicoli individuati in corrispondenza dei muri della porta. facessero parte di un sistema di camminamenti in fase tra loro, in quanto le due strutture sotterranee si intersecano rispettando l’una l’andamento dell’altra, essendo poste su livelli differenti. Il cunicolo che conduceva all’esterno della città, infatti, passa al di sotto del secondo cunicolo ed è caratterizzato da una forte pendenza, come è dimostrato sia dall’inclinazione della parte esterna della volta di copertura, sia dalla ripidità della scalinata interna, ispezionata grazie a una sonda introdotta all’interno della tamponatura che chiude il cunicolo».

sotterraneo, con ogni probabilità esso metteva in comunicazione la Porta con l’esterno della città, passando al di sotto del fossato che circondava le mura. In seguito alla distruzione della porta effettuata da Federico da Montefeltro, il cunicolo venne chiuso con una tamponatura e la Porta fu ricostruita con la costruzione di nuovi muri, rinvenuti all’interno dell’area di scavo e tutti conservati a livello di fondazione».

Nel ventre della città

Il prolungamento della porta «Nel muro costruito dopo il 1463 e che costituiva il fronte interno verso la città si conserva l’incasso per il portone ligneo a saracinesca che chiudeva la porta. Lo strato di riempimento scavato nell’incasso nel muro ha restituito materiali ceramici databili alla seconda metà del XVI secolo, cioè relativi al momento in cui, nel 1573, la porta fu prolungata verso la città con la costruzione di nuovi muri. I rifacimenti riferibili al tardo XVI secolo sono testimoniati anche dalle murature messe in luce nello scavo: si tratta di muri simmetrici sui due lati, attribuibili all’intervento papale del 1573, ben visibili ed evidenti, benché ridotti allo stato di fondazione dagli abbattimenti del secolo scorso.

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Sul lato della porta opposto a quello del primo cunicolo, è stato riaperto e ispezionato un secondo cunicolo, ancora perfettamente conservato e percorribile, a cui si accede tramite una botola. Piuttosto ampio, esso era munito di una cannoniera da un lato e di un camminamento poi tamponato dall’altro; quest’ultimo metteva forse in collegamento la porta col vicino bastione o con altre parti della cinta muraria. Lo scavo e i rapporti stratigrafici tra i due cunicoli sembrano dimostrare che

L’indagine presso Porta Maggiore ha quindi permesso di acquisire molti elementi nuovi e di fondamentale importanza anche rispetto al sistema di cunicoli noto a Fano, già in sé complesso e oggi arricchito da questa rete di camminamenti sotterranei collegata alla porta e, certamente, alla sicurezza e al sistema difensivo della città. Lo scavo stratigrafico ha permesso infine di mettere in luce una ben conservata sequenza di piani stradali riferibili alle varie fasi costruttive della porta, databili tra il tardo Medioevo e il Rinascimento, tra i quali parte di una strada in mattoni, alcuni battuti ghiaiosi sovrapposti e un piano costituito da basoli forse riutilizzati e prelevati dalla vicina via Flaminia. I preliminari lavori di rimozione del selciato in programma per la ripavimentazione sono stati condotti in regime di sorveglianza archeologica, sotto la direzione scientifica di Maria Raffaella Ciuccarelli, archeologo responsabile di zona per Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche e da Laura Cerri (Tecne s.r.l.). Giampiero Galasso febbraio

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Echi d’una corte cosmopolita MUSEI • Il nuovo allestimento della Galleria Estense di Modena

proietta il visitatore fra i lussi e le ricercatezze della famiglia che, con alterne vicende, governò la città emiliana fra Medioevo e Rinascimento. Un viaggio fra oggetti di grande pregio e, spesso, di provenienza esotica

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l polo delle Gallerie Estensi di Modena, Ferrara e Sassuolo, che custodisce nei tre centri tesori raffinati, offre, dallo scorso dicembre, novità significative. La Pinacoteca Nazionale di Ferrara, in Palazzo dei Diamanti, ha riaperto con un nuovo allestimento, che consente di seguire tutto il filone della pittura cittadina dal XIV al XVIII secolo, con attenzione particolare al Sei e Settecento. A Modena, invece, è stato inaugurato un percorso di visita che offre spunti inediti rispetto all’apertura post sisma del 2015, grazie a tre sale: quella introduttiva è destinata a reperti etruschi ed egizi, esposti per la prima volta dopo importanti interventi di restauro; la seconda propone una panoramica della cultura cortese che connota la collezione estense;

Sella da parata in legno e osso appartenuta al duca Ercole I d’Este. XV sec. Modena, Galleria Estense.

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A destra ago crinale in avorio di produzione francese. XIV sec. Modena, Galleria Estense.

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ANTE PRIMA

In alto fronte di cassone nuziale raffigurante la storia di Griselda, ultima novella del Decamerone di Boccaccio, tempera su tavola di Apollonio di Giovanni. XV sec. Modena, Galleria Estense. In basso ciotola in ottone battuto ageminato in oro e argento di produzione siriana o egiziana. XIII-XIV sec. Modena, Galleria Estense. mentre la terza affronta il rapporto fra Rinascimento e antichità. Qui l’abbandono progressivo del tardo-gotico lascia spazio alla riscoperta del classico, sottolineata dall’accostamento di manufatti romani e rifacimenti umanistici.

«I lavori di illuminazione e messa in sicurezza – spiega Martina Bagnoli, direttrice delle Gallerie Estensi – sono stati l’occasione per ripensare tre sale, facendo una sorta di carotaggio della raccolta, al fine di valorizzare i contesti e dare un’opportunità in piú ai visitatori».

Respiro internazionale Lo spazio espositivo destinato al gusto dell’età di Mezzo mette in luce il respiro internazionale che caratterizzava la corte, attraverso manufatti islamici, pezzi orientali, codici, manoscritti, avori. L’allestimento offre uno sguardo

d’insieme su «una produzione di lusso nell’autunno del Medioevo, in una collezione principesca nella quale ha un’importanza fondamentale la cultura cortese, testimoniata da ricchezza di materiali, forme, decorazioni, che vanno dalla fine del XII a tutto il XV secolo», precisa Bagnoli. Nella rassegna permanente figurano esempi di pittura profana amorosa, con riferimenti a nobili e damigelle, che si trovano nei cassoni arricchiti da storie laiche, ispirate al Decamerone o al Tristano e Isotta. Del romanzo è esposto un esemplare illustrato, scritto in francese antico,

DOVE E QUANDO

Pinacoteca Nazionale di Ferrara Ferrara, Palazzo dei Diamanti (corso Ercole I d’Este, 21) Info tel. 0532 205844; www.gallerie-estensi.beniculturali.it/pinacotecanazionale Galleria Estense Modena, largo Porta Sant’Agostino, 337 Info tel. 059 4395711; www.gallerie-estensi.beniculturali.it/galleria-estense

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forse prodotto a Genova, mentre altre scene cavalleresche decorano una sella da parata, un oggetto raro in legno, pelle e osso, che reca il motto «Deus fortitudo mea». Meritano d’essere menzionati anche il trittico realizzato dalla bottega veneziana degli Embriachi, che rientra fra gli oggetti devozionali domestici, e un ago crinale francese, in avorio: da usare per farsi la scriminatura fra i capelli, era il tipico regalo che si cambiavano uomo e donna, come specchi e pettini per le trousse, che giocavano sulla valenza erotica delle chiome. E a documentare la passione cortigiana per la sontuosità e la raffinatezza ci sono anche smalti veneziani, con inserzioni di oro.

Un gusto globale

un’idea della cultura cavalleresca da quella che all’epoca era l’altra parte del mondo. Abbiamo quindi una ciotola siriana egiziana in ottone battuto, ageminato in oro, e due oggetti di manifattura cinese». A ribadire che la corte emiliana era fra le piú importanti del Vecchio

Continente. Fino al 31 marzo, la Galleria Estense di Modena ospita inoltre la mostra «Galleria metallica. Ritratti e imprese dal medagliere estense», una selezione di medaglie e monete, che conta gemme incise, disegni, volumi stampati. Stefania Romani

Madonna col Bambino tra i santi Lorenzo e Giovanni, san Pietro, san Paolo, trittico portatile in avorio della bottega degli Embriachi. XV sec. Modena, Galleria Estense.

«Questa stanza ha un gusto globale, perché gli Este avevano interessi anche oltre l’Europa, testimoniati per esempio dai reperti islamici», racconta ancora la direttrice. «Abbiamo un acquamanile di manifattura persiana, realizzato fra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, decorato con figure animali e umane, con un cacciatore che dà

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ANTE PRIMA

Sotto i ferri del chirurgo MEDICINA • Lo studio della mummia di san Davino

Armeno prova come già nel Medioevo la cauterizzazione venisse praticata anche nel caso di lesioni alla testa

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lla metà dell’XI secolo, Davino, un giovane armeno, si spogliò di tutti i suoi averi, donandoli ai poveri, e partí come pellegrino, per rendere omaggio ai luoghi santi della cristianità. Visitò il Santo Sepolcro e giunse quindi a Roma, da dove riprese la strada, deciso ad arrivare fino a Santiago di Compostella. Poco dopo la partenza, fece tappa a Lucca, dove cadde però malato e in breve tempo spirò. Correva l’anno 1050 e, all’indomani della morte, il nome di Davino cominciò a passare di bocca in bocca, per via dei miracoli che gli vennero attribuiti e per la prodigiosa conservazione del cadavere: circostanze che lo trasformarono nell’oggetto di una sentita e diffusa venerazione. Nel marzo del 2018 la Curia Arcivescovile di Lucca ha disposto la ricognizione canonica della sepoltura di san Davino Armeno e, nell’occasione, la Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa ha potuto studiarne il corpo mummificato. L’indagine ha rivelato un dato di eccezionale interesse: per la prima volta, infatti, è stato documentato l’uso medievale del

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cauterio in relazione al trattamento chirurgico di un trauma cranico. Come spiega Valentina Giuffra, che ha diretto la ricerca, «Lo studio, che ha incluso l’esame macroscopico e la CT total body della mummia, effettuata presso la Clinica Barbantini di Lucca, ha rivelato trattarsi di un giovane adulto di circa 25 anni. Sul cranio sono state rilevate due lesioni traumatiche con segni di lunga sopravvivenza: un taglio superficiale sul frontale lungo 5 cm, prodotto da una lama dentata; e una lesione ellittica con frattura depressa in corrispondenza del tratto di destra della sutura coronale, prodotta da un corpo contundente».

Una lunga sopravvivenza

Qui sopra immagini che documentano la cauterizzazione praticata sul cranio di san Davino: dall’alto, la lesione ellittica con frattura depressa in corrispondenza del tratto di destra della sutura coronale; una radiografia della frattura; la traccia dell’intervento effettuato con un cauterio a testa pentagonale. In alto, a sinistra la mummia di san Davino Armeno, morto nel 1050. Lucca, S. Michele in Foro.

«Intorno a questa lesione è stata osservata una cicatrice ossea con margini sottili di forma pentagonale, causata dal contatto di un ferro rovente, un cauterio a testa pentagonale, applicato probabilmente per arrestare l’emorragia dopo la toilette chirurgica». La medicina medievale bizantina e araba faceva ampio uso del cauterio, ossia di un ferro

rovente da applicare a una lesione o a una ferita a scopo terapeutico. In particolare, il mondo islamico aveva elaborato una dottrina medicochirurgica che prevedeva in molti casi il ricorso alla cauterizzazione, intervento che aveva il merito di limitare l’effusione del sangue, cosí come prescritto dalle leggi coraniche. (red.) febbraio

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ANTE PRIMA

Arrivano i Fristchi! APPUNTAMENTI • Nella città svizzera di Lucerna si rinnova la tradizione

carnevalesca, imperniata sulle «gesta» di una famiglia a dir poco singolare, alle quali fanno da contrappunto le note, non meno bizzarre, del «concerto dei mostri» e le performance giocose dei Guggemuusige...

A colpi di... pancia N

el Tirolo austriaco il carnevale è una tradizione consolidata fin dal Medioevo, che si sviluppa con maschere e usanze diverse in ogni cittadina. Un rito particolare è la Wampelerreiten di Axams, che ha luogo ogni anno il giovedí grasso, durante la quale i Reiter (cavalieri) cercano di rovesciare sulla schiena i Wampeler, uomini che indossano una larga camicia di lino bianca imbottita di fieno. Esistono diverse versioni sulla genesi di queste grosse pance: secondo la tesi piú accreditata, anticamente i contadini del luogo erano soliti mettere fieno e foglie sotto i vestiti, per proteggersi – per quanto possibile – dalle aggressioni degli orsi. Dal punto di vista simbolico, invece, la battaglia rappresenta la contrapposizione tra l’inverno che se ne va e la primavera che si avvicina. Nei giorni di carnevale, per le strade di Axams, accanto a Wampeler e Reiter, si incontrano altre maschere, quali i Tuxer, i Flitscheler, gli Altboarische Paarl, i Nadl, le streghe, i Bujazzl, gli orsi e i domatori di orsi. In particolare, i Tuxer, che rappresentano la primavera, indossano un abito da festa e il «fügner», un cappello decorato con piume e fiori.

Sulla cima di un monte d’oro Il villaggio di Axams si trova a 874 m d’altitudine, sull’altopiano sopra Innsbruck, a soli 10 km dal capoluogo. «Axams» è un termine celtico che significa «paese in luogo alto», immagine raffigurata anche nello stemma comunale, ovvero un monte d’oro con la vetta in punta. L’edificio storico piú importante è la chiesa di S. Giovanni Battista, costruita originariamente in stile romanico in età carolingia e documentata fin dal 1214, poi trasformata in gotico sul finire del XV secolo. Ma solo la cappella dedicata a san Michele, annessa alla sagrestia, conserva l’originale stile architettonico. T. Z.

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Lucerna il carnevale è uno degli appuntamenti piú attesi dell’anno, merito di una tradizione secolare che affonda le sue radici nel Quattrocento. La maschera di riferimento è sempre stata quella del Fritschi, un uomo anziano, sposato con la Fritschene. La coppia ha anche un figlio, il Fritzchkind. Molto probabilmente il nome di questa maschera deriva da una storpiatura di Fridolin, anche se il significato e la sua origine non sono chiari. L’unica certezza è che il Fritschi esisteva già nel Quattrocento, quando veniva descritto come un pupazzo di paglia, forse la figura simbolica di una corporazione. Oggi il carnevale di Lucerna anima la città per diversi giorni. La famiglia Fritschi gira per le strade principali del centro elvetico sopra un carro, accompagnata da un corteo che in passato aveva temi patriottici, storici o folcloristici, mentre ora si basa

Il curioso costume indossato dai Wampeler di Axams (Austria), in occasione del carnevale.

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Ricorrenze illustri N

el 2019 ricorrono due cinquecentenari importanti, entrambi ragguardevoli per la storia di Firenze: la morte di Leonardo da Vinci, il 2 maggio, e la nascita di Cosimo I de’ Medici, il 12 giugno. I due anniversari sono stati scelti come spunto per il consueto ciclo d’incontri all’Antica Canonica di San Giovanni. Per Leonardo, le letture privilegiano i pensieri (vale a dire le trame e i contenuti illustrati), mentre di Cosimo I viene commentaro lo spessore intellettuale che informò il suo collezionismo archeologico. Questo il calendario dei prossimi appuntamenti: 12 febbraio, Gigetta Dalli Regoli, Un pittore agli esordi e una giovane poetessa: Leonardo e Ginevra de’ Benci; 26 febbraio: Vincenzo Farinella, Leonardo e l’Antico; 12 marzo, Andrea Baldinotti, Nobiltà e bellezza: la Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci; 26 marzo, Timothy Verdon, Leonardo e il concetto vasariano della «grazia»; 9 aprile, Marino Biondi, Destino dell’umanesimo; 23 aprile, Sergio Givone, Forma e deformazione dall’Alberti a Leonardo; 7 maggio, Fabrizio Paolucci, Sotto il segno dell’Antico: il collezionismo archeologico di Cosimo I; 21 maggio, Gianluca Garelli, L’umanesimo oltre l’umanesimo. Gli incontri sono in programma dalle ore 17,00 e l’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili. Info: eventi@operaduomo.firenze.it; www. operaduomo.firenze.it (red.)

soprattutto sulla satira. Il corteo dei Fritschi va in scena il giovedí grasso, quest’anno il 28 febbraio. Gli altri eventi principali sono il corteo Wey, che si svolge il successivo lunedí grasso, e la serata conclusiva del martedí grasso con il «concerto dei mostri». Dagli anni Cinquanta del Novecento, nelle sfilate si è aggiunto un elemento moderno: i Guggemuusige, una dozzina di gruppi

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travestiti e mascherati o dipinti, che con strumenti a fiato e a percussione suonano in modo rumoroso e sconclusionato.

Il coinvolgimento del pubblico Le bande di Guggemuusige vanno in corteo fermandosi spesso per recitare scene teatrali e interagire scherzosamente con il pubblico. Nelle serate dei giorni di carnevale,

nei locali cittadini si tengono affollati balli in maschera. Collocata nel Centro-Nord della Svizzera, nella zona di lingua tedesca, Lucerna è la capitale dell’omonimo cantone. Grazie alla sua posizione sulle rive del Lago dei Quattro Cantoni, è un’apprezzata meta turistica. Fu fondata nel 1178, guadagnando velocemente un’importanza strategica per il passaggio delle crescenti attività commerciali dalla rotta del Gottardo. Nel 1291 Rodolfo I ne entrò in possesso, ma gli abitanti non apprezzarono l’influenza degli Asburgo e si allearono con le città vicine per ottenere l’indipendenza. Nel 1332 Lucerna entrò a far parte della confederazione svizzera, di cui fu il quarto cantone dopo Uri, Svitto e Untervaldo. Il dominio dell’Austria su queste aree terminò definitivamente nel 1386, grazie alla vittoria ottenuta sugli Asburgo nella Battaglia di Sempach (vedi «Medioevo» n. 186, luglio 2012; anche on line su issuu.com). Tiziano Zaccaria

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AGENDA DEL MESE

Mostre MACERATA LORENZO LOTTO IL RICHIAMO DELLE MARCHE Palazzo Buonaccorsi, Musei Civici di Macerata fino al 10 febbraio

Lorenzo Lotto torna protagonista nelle Marche, sua terra d’elezione. A Macerata, le sale di Palazzo Buonaccorsi, sede del Museo Civico, ospitano una rassegna che riunisce per la prima volta le opere create per il territorio e poi disperse nel mondo o quelle che, per storia e realizzazione, hanno avuto forti

legami con le Marche. Un’esposizione di ricerca, per certi versi sperimentale nell’abbinare forza espositiva, supporti multimediali, grandi capolavori, ma anche spunti di ricerca e discussione critica. Una mostra che rivela inediti materiali documentari sull’attività dell’artista e opere mai esposte in precedenti eventi – tra tutti una Venere adornata dalle Grazie di

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a cura di Stefano Mammini

collezione privata, pubblicata da Zampetti nel 1957 e rimasta all’oscuro per sette decenni –, ma che si completa necessariamente nel territorio marchigiano, ponendosi in stretto dialogo con i lavori lotteschi (25 opere) disseminati nei diversi centri e volutamente lasciati nei siti di appartenenza. Ancona, Cingoli, Jesi, Loreto, Mogliano, Monte San Giusto, Recanati e Urbino danno forma con Macerata a una sorta di mostra diffusa, da vivere insieme alle bellezze artistiche e naturali delle Marche: regione ferita purtroppo dall’ultimo drammatico sisma che ha colpito il Centro Italia, ma che tenacemente sta puntando a valorizzare il suo immenso patrimonio. info biglietteria di Palazzo Buonaccorsi: tel. 0733 256361; e-mail: info@maceratamusei.it, macerata@sistemamuseo.it; www.mostralottomarche.it, www.maceratamusei.it, www.sistemamuseo.it

Le preziose ceramiche cinesi selezionate per la nuova mostra presentata dal MAO coprono un arco temporale di cinque secoli. Si tratta perlopiú di eleganti pezzi monocromi databili tra la dinastia Song (960-1279) e la dinastia Yuan (1271-1368), esemplificativi delle produzioni delle maggiori fornaci del periodo. Opere, che, secondo il gusto estetico di quasi tutti gli intenditori e i collezionisti, rappresentano il massimo grado di raffinatezza mai raggiunto dall’arte ceramica in Cina. Al tempo dei Song vennero perfezionati i processi tecnologici di una delle piú grandi tradizioni ceramiche al mondo. I risultati furono dei manufatti di grande raffinatezza nella forma, piacevolezza tattile della superficie invetriata, consistenza e brillantezza di colori senza precedenti. info tel. 011 4436927; e-mail: mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it; pagina Facebook MAO. Museo d’Arte Orientale

TORINO

PALERMO

SFUMATURE DI TERRA CERAMICHE CINESI DAL X AL XV SECOLO MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 10 febbraio

ANTONELLO DA MESSINA Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis fino al 10 febbraio

Le sale della Galleria Regionale della Sicilia salutano il ritorno nell’isola di quasi tutte le opere esistenti di uno dei suoi figli piú illustri: Antonello da Messina. Si tratta di un’opportunità imperdibile, che, grazie a prestiti eccezionali, vede riuniti i dipinti piú celebri dell’artista, già assai ammirati dai suoi contemporanei. Significativo è l’elenco dei titoli che impreziosiscono il percorso espositivo, tra i quali possiamo ricordare il trittico con la Madonna con Bambino, il San Giovanni Battista, acquistati dall’allora Ministro dei Beni

Culturali Antonio Paolucci nel 1996, e il San Benedetto di straordinaria qualità pittorica che la Regione Lombardia acquista tramite Finarte nel 1995, oggi in deposito presso gli Uffizi di Firenze; il ritratto di giovane gentiluomo (a lungo considerato il suo vero volto) trafugato dalla Pinacoteca Malaspina di Pavia nella notte fra il 10 e l’11 maggio 1970 e recuperato sette anni dopo dal nucleo di Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri: o, ancora, la delicata Vergine annunciata, che apre la mostra nell’allestimento per lei immaginato da un maestro del Novecento, Carlo Scarpa. Accompagnano il visitatore a una piena fruizione dell’esposizione una didattica concepita a svelare, opera per opera, l’arte di Antonello collocandola nel contesto culturale e sociale del Mediterraneo, evidenziando la centralità della Sicilia, e un’audioguida ove il curatore guida lo spettatore alla scoperta delle novità artistiche febbraio

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e tecniche della sublime arte del maestro messinese. Dal 21 febbraio la mostra verrà presentata a Milano, in Palazzo Reale. info tel. 02 92897755; www.mostraantonello.it

Si tratta di un’opera in terracotta realizzata sul finire del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento che, nella tensione del volto, nella modellazione incisiva e grafica dei capelli, nella resa anatomica serrata e precisa del corpo evidenzia i tratti piú tipici del fare del Riccio, artista formatosi come orafo ma divenuto ben presto famoso plasticatore e bronzista, vero protagonista della scultura rinascimentale. Dell’opera, che fino a oggi aveva avuto diverse attribuzioni – da chi la riteneva un lavoro di Antonio o Giovanni Minelli, altri di Giovanni de Fondulis, fino a Domenico Boccaloro, tutti scultori attivi nel Padovano agli inizi del Cinquecento –, grazie agli studi e alle scoperte di Giancarlo Gentilini e Luciana Giacomelli, viene alla luce la corretta paternità. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it

LONDRA REGNI ANGLO-SASSONI: L’ARTE, LA PAROLA, LA GUERRA British Library fino al 19 febbraio

Agli inizi del V secolo, nel quadro del piú generale declino dell’impero romano, il filo che legava la Britannia a Roma andò rapidamente assottigliandosi, fino a spezzarsi. Complice il ritiro delle stesse truppe che l’ormai ex superpotenza teneva di stanza sull’isola, l’esistenza della provincia creata nell’ormai lontano 43 d.C. poteva dirsi conclusa. Aveva cosí inizio una fase nuova, destinata a caratterizzare il destino dell’Inghilterra fino al fatidico 1066, anno in cui un nuovo conquistatore, Guglielmo, duca di Normandia, ne acquisí il controllo, all’indomani della vittoriosa battaglia di Hastings. Dal punto di vista culturale, il fenomeno piú rilevante fu la diffusione della lingua inglese, che per la prima volta cominciò a essere utilizzata e trascritta. Un’innovazione che la mostra racconta attraverso quattro documenti di straordinaria importanza: il manoscritto dell’XI secolo contenente i 3183 versi del Beowulf, il poema epico che narra le imprese dell’eroe omonimo; il Vercelli Book, che torna in Inghilterra grazie al prestito concesso dalla Biblioteca Capitolare di Vercelli; l’Exeter Book e il Junius Manuscript. Dalla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze ha

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PARIGI raggiunto Londra anche la Bibbia Amiatina (o Codex Amiatinus), una versione in lingua latina del libro sacro realizzata su commissione dell’abate Ceolfrith nel monastero di WearmouthJarrow (Inghilterra nordorientale) agli inizi dell’VIII secolo e portata in Italia nel 716, per essere donata al neoeletto papa Gregorio II. info www.bl.uk TRENTO DI TERRA E DI FUOCO. IL SAN SEBASTIANO DI ANDREA RICCIO Castello del Buonconsiglio fino al 24 febbraio

A dieci anni esatti dall’importante rassegna monografica che il Castello del Buonconsiglio dedicò al

grande scultore rinascimentale Andrea Briosco, detto il Riccio per la sua capigliatura, il museo presenta una scultura inedita del famoso artista, nato a Trento nel 1470, raffigurante san Sebastiano.

MAGICI UNICORNI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 25 febbraio

Per festeggiare la riapertura e la creazione di nuovi spazi espositivi, il Museo di ClunyMuseo Nazionale del Medioevo ha allestito questa ricca mostra dedicata all’unicorno, creatura misteriosa e affascinante. Cuore della rassegna è uno dei capolavori compresi nella collezione permanente del museo, il ciclo della Dama e l’unicorno, composto da sei arazzi, tessuti intorno al 1500. Acquistato nel 1882, il prezioso corpus fu pensato

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AGENDA DEL MESE MOSTRE • Nuove Acquisizioni 2016-2018 Firenze – Galleria dell’Accademia

fino al 5 maggio info tel. 055 0987100; www.galleriaaccademiafirenze.beniculturali.it

I

l programma per l’anno 2019 della Galleria dell’Accademia di Firenze ha come fil rouge la tutela del patrimonio culturale e «Nuove Acquisizioni 2016-2018» ne costituisce la prima, significativa testimonianza. La mostra riunisce capolavori che, in maniere diverse, sono giunti ad arricchire le collezioni permanenti: alcune sono state acquistate sul mercato antiquario, altre sono pervenute grazie a generose donazioni, altre da confische in seguito all’esportazione illecita a opera del Nucleo Patrimonio dei Carabinieri, altre, infine, sono giunte in Galleria dai depositi della Certosa di Firenze. Le tavole acquisite nel 2017 con i fondi ordinari della Galleria dell’Accademia sono due raffinati sportelli provenienti da un tabernacolo, disperso, di Mariotto di Nardo, pittore fiorentino di cui si hanno notizie dal 1394 al 1424. I pannelli frammentati sono stati comprati da due diversi proprietari e ricomposti dopo l’acquisto. Impreziosito da raffinate decorazioni in pastiglia dorata che racchiudono le figure dei santi, il tabernacolo è sicuramente frutto di una committenza prestigiosa ed è stato eseguito da Mariotto di Nardo intorno al 1420. I pannelli, che in origine erano certamente come evocazione dei cinque sensi, ai quali ne venne aggiunto un ipotetico sesto, accompagnato dal motto «À mon seul désir», la cui interpretazione ha dato origine a un vivace dibattito. Una delle proposte piú plausibili, pur non escludendo un legame con i principi dell’amore cortese, vuole che la composizione evochi il libero arbitrio: la dama dall’acconciatura elaborata e dalle ricche vesti rinuncerebbe ai piaceri temporali. Fra i temi sviluppati nell’esposizione vi è anche la connotazione «magica» assegnata alla misteriosa creatura, al cui corno si attribuiva la capacità di scoprire la presenza di eventuali sostanze velenose e di purificare acqua o altre bevande che in esse erano state mescolate. Altrettanto importante era la tradizione secondo la quale solo giovani vergini potevano avvicinare gli unicorni, spesso considerati come simbolo di castità e

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innocenza. Un’immagine a cui si opponevano le frequenti rappresentazioni di unicorni dall’atteggiamento aggressivo, talvolta perfino malvagio, frutto dei resoconti di viaggiatori che sostenevano di averne incontrati nel corso dei loro viaggi in Oriente. info musee-moyenage.fr VENEZIA GLI ULTIMI GIORNI DI BISANZIO. SPLENDORE E DECLINO DI UN IMPERO Biblioteca Nazionale Marciana, Salone della Libreria Sansoviniana fino al 5 marzo

Cuore della mostra è la cosiddetta «icona di San Luca di Freising», opera bizantina raffigurante la Madonna dal titolo «Speranza dei disperati«. L’opera è emblema della situazione tragica in cui si trovava Bisanzio, in lotta con gli Ottomani, fra Tre e Quattrocento. Per ottenere sostegno militare, l’imperatore Manuele II Paleologo intraprese tra il 1399 e il febbraio

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di dimensioni maggiori, includevano molto probabilmente altre due coppie di santi, purtroppo perdute o fino a oggi non ritrovate. I quattro frammenti oggi ricomposti si trovavano, alla fine dell’Ottocento, esposti in sale diverse della raccolta Corsini, nell’omonimo palazzo fiorentino in riva all’Arno. Ben quattro opere sono giunte nel 2016 al Museo da un deposito situato presso la Certosa di Firenze. Si tratta di una Incoronazione della Vergine e angeli di Mariotto di Nardo; di una Santissima Trinità del Maestro del 1419; di una Madonna col Bambino in trono fra angeli del Maestro del 1416 e di una Madonna col Bambino e santi di Bicci di Lorenzo. A causa di una cattiva condizione di conservazione, l’Incoronazione di Mariotto di Nardo e la Santissima Trinità del Maestro del 1419, sono stati recuperati nei loro valori pittorici da un accurato lavoro di restauro. Due strepitose opere come I due santi di Niccolò di Pietro Gerini, in origine scomparto destro di un trittico disperso, e la Madonna dell’Umiltà del raro Maestro della Cappella Bracciolini, sono state assegnate alla Galleria dopo il brillante recupero da parte del Reparto Operativo dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Roma. nel 1453, viene illustrato il significato del viaggio dell’imperatore Manuele II e dei suoi doni diplomatici, testimonianze dell’intenso scambio culturale tra l’Europa – e in particolare Venezia – e Bisanzio agli albori dell’Umanesimo. info tel. 041 2407211; https://marciana.venezia.sbn.it ROMA

1403 un viaggio diplomatico in Occidente, durante il quale portò con sé l’icona di San Luca e molti altri oggetti di estremo valore da donare ai potenti europei. In questa eccezionale occasione, per la prima volta dopo piú di sei secoli, l’icona è tornata a Venezia, città del suo primo approdo in Europa. Nella mostra, in otto sezioni, sullo sfondo dei rivolgimenti politici internazionali che portarono alla caduta di Costantinopoli

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L’ADOLESCENTE DI MICHELANGELO (ESPOSIZIONE STRAORDINARIA) Rhinoceros, Fondazione Alda Fendi-Esperimenti fino al 10 marzo

Proveniente dal Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo, l’Adolescente di Michelangelo viene esposto in per la prima volta a Roma nella sede della Fondazione Alda Fendi e l’iniziativa sancisce l’avvio della collaborazione triennale tra la fondazione e il museo russo. Probabilmente realizzato nei mesi piú travagliati della vita di Michelangelo intorno al

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AGENDA DEL MESE 1530, il prezioso marmo è uno dei pochissimi lavori del grande scultore conservati all’estero, giunto in Russia per iniziativa della zarina Caterina II la Grande, che lo acquistò da un banchiere inglese nel 1787. La mancanza di documentazione relativa all’opera, la particolarità dell’utilizzo di un marmo di seconda mano, non usuale in Michelangelo ma probabilmente compatibile con l’impossibilità di procurarsi altro materiale nella situazione di pericolo in cui egli si trovò all’indomani della caduta della Repubblica di Firenze, la sua incompiutezza e la mancanza di attributi rendono la scultura proveniente dall’Ermitage ancora piú affascinante, aperta a tante e diverse interpretazioni sul significato assegnatole dal maestro. Si discute ancora sulle motivazioni che avrebbero spinto Buonarroti a lasciare molte statue incompiute: fattori contingenti o la scelta convinta di interrompere l’opera in un determinato momento per conseguire un effetto migliore? Quest’ultimo è probabilmente il punto di vista piú vicino alla verità, considerata la modernità della concezione dell’arte di Michelangelo, soprattutto negli anni della vecchiaia. Resta la tragicità rappresentata dal giovane, schiacciato da una forza superiore, accovacciato su se stesso, alla ricerca di una compiutezza non solo materiale ma soprattutto spirituale, espressione forse di un momento di grande sconforto vissuto dall’artista. info http://fondazionealdafendiesperimenti.it FAENZA AZTECHI, MAYA, INCA E LE CULTURE DELL’ANTICA AMERICA

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di tutto il Nuovo Mondo. Con un’organizzazione sociale che ha spinto alcuni studiosi a parlare di «socialismo». info www.micfaenza.org GUBBIO TESORI RITROVATI. RESTAURI PER «GUBBIO AL TEMPO DI GIOTTO» Palazzo dei Consoli fino al 1° maggio

MIC-Museo Internazionale della Ceramica fino al 28 aprile

Nell’affrontare il vasto e articolato universo delle civiltà precolombiane, la rassegna si concentra soprattutto sulla Mesoamerica e sull’area peruviana. E lo fa attingendo alle notevoli collezioni del MIC, perlopiú con pezzi custoditi nei suoi depositi e finora mai esposti al pubblico. Completano il percorso espositivo reperti selezionatissimi, concessi in prestito dai piú importanti musei e raccolte italiane. Protagonisti principali della mostra sono gli Aztechi, ai quali si deve la creazione del piú potente impero della Mesoamerica, e che stupirono i conquistadores per il livello della loro organizzazione sociale, non dissimile da quella dell’Europa del tempo, pur in presenza di aspetti, come il cannibalismo e i sacrifici umani, inaccettabili per i nuovi arrivati. Poi i Maya, del Periodo Classico, capaci di elaborare sistemi calendariali raffinatissimi e una scrittura logo-sillabica che è stata decifrata solo negli ultimi decenni. E infine gli Inca, che costruirono il piú grande impero

La mostra «Gubbio al tempo di Giotto» (vedi «Medioevo» n. 260, settembre 2017; anche on line su issuu.com) ha restituito alla comunità una serie di opere restaurate, che, di fatto, rappresentano il nucleo piú consistente dell’intero patrimonio museale cittadino d’epoca medievale. Questa operazione ha permesso di realizzare un nuovo progetto espositivo «Tesori ritrovati. Restauri per “Gubbio al tempo di Giotto”», dedicato ai restauri e ai recuperi e quindi ai confronti possibili tra

opere e maestri, tra materiali e tecniche esecutive, tra forme e funzioni del prodotto artistico in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo, nell’età d’oro di Gubbio e del suo vasto contado. Vengono dunque presentate molte delle opere recentemente restaurate: come le due grandi croci dipinte del Museo Civico di Gubbio, le opere del Maestro della Croce di Gubbio, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Pietro Lorenzetti, del cosiddetto «Guiducci Palmerucci» e di Mello da Gubbio. info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbiocm.it ALESSANDRIA ALESSANDRIA SCOLPITA. 1450-1535. SENTIMENTI E PASSIONI FRA GOTICO E RINASCIMENTO Palazzo del Monferrato fino al 5 maggio

Nata da un attento

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MEDIOEVO


studio sul patrimonio storicoartistico del Piemonte alessandrino e maturata dopo anni di ricerca sul campo, la rassegna invita a riconsiderare la fisionomia di Alessandria negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Una periodizzazione che coincide con i decenni di effettivo dominio sforzesco sulla città e con la sua ascesa quale fulcro territoriale e originale snodo culturale di un’area di cerniera tra realtà diverse: Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro. I frammenti figurativi superstiti restituiscono infatti la posizione sorprendente e policentrica di Alessandria nel grande rinnovamento figurativo dell’epoca e l’immagine di una cultura artistica che, ricca di accenti propositivi, elabora modelli propri, specie nel vastissimo campo dei crocifissi. Ognuna delle tre ampie sezioni dell’esposizione è idealmente collegata a un gruppo del Compianto sul corpo di Cristo. La prima parte è incentrata su quello proveniente dal Museo

Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, la seconda su quello dell’oratorio della Pietà a Castellazzo Bormida (Alessandria) e la terza su quello dell’oratorio dei Bianchi a Serravalle Scrivia (Alessandria). Ciascun manufatto rappresenta l’ideale manifesto di tre generazioni di artisti piemontesi, che testimoniano i paradigmi di altrettante diverse maniere di intendere la forma. info tel. 0131 313400; e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it TORINO LEONARDO DA VINCI. TESORI NASCOSTI Palazzo Cavour fino al 12 maggio (dal 9 febbraio)

In occasione delle celebrazioni del cinquecentenario dalla scomparsa di Leonardo da Vinci, promosse a livello mondiale, il Palazzo Cavour di Torino propone una rassegna che offre l’opportunità di ammirare e comprendere in una visione d’insieme la straordinaria complessità del genio nella pittura del suo tempo. L’uomo e lo scienziato, anello di congiunzione tra il mondo dell’arte e il mondo della tecnica, viene presentato e descritto tramite le opere dei suoi allievi e non solo. Nello specifico si intende ragionare, con elementi nuovi e avvincenti, sulla posizione storica di alcuni frammenti di vita di Leonardo e dei rapporti artistici intercorsi con i suoi piú fidati allievi e seguaci: il nastro che unisce la dialettica figurativa del maestro a tali diretti discendenti, è calcolato sulla base delle suggestioni e delle riflessioni che la cultura del tempo ha recepito dal leggendario e innovativo genere di proporre argomenti umanistici, scientifici e figurativi, sino a quel momento ignoti. La mostra di Torino riporta al grande pubblico, fra le altre, la visione di un’opera di straordinaria rilevanza: la Maddalena discinta, che il compianto decano degli studi vinciani, Carlo Pedretti, aveva già assegnato alla collaborazione tra Leonardo e il capace allievo Giampietrino. info tel. 011 19214730; e-mail: info@nextexhibition.it; https://mostradavinci.it/ MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre

Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale

della Scienza e della Tecnologia torna alle origini, esponendo le due collezioni con cui ha aperto al pubblico il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, permette ai visitatori di continuare a godere della collezione dei modelli storici leonardeschi durante il periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per importanti lavori edili, strutturali e impiantistici. «Leonardo da Vinci Parade» è la prima iniziativa realizzata in preparazione del programma «Milano e Leonardo» promosso dal Comitato Territoriale per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo. Milano è la città dove Leonardo operò piú a lungo in tutta la sua vita, circa vent’anni, esplorando molti campi del sapere. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

IN

NOME DEL

POPOLO

Leader e rivolte che hanno infiammato l’età di Mezzo I

IN

GLI ARGOMENTI

Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

♦ I PRIMI «POPULISTI» ♦ TRIBUNI E PREDICATORI RIBELL I ♦ LE PROTESTE FISCALI ♦ LA GUERRA DEGLI SCHIAVI

N°30 Gennaio/Febbraio 2019 Rivista Bimestrale

Leader e rivolte che hanno infiammato l’età di Mezzo

IN NOME DEL POPOLO

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NOME DEL

POPOLO

• LE RIVOLTE CITTADINE • COLA DI RIENZO

• L’EUROPA DEGLI SCONTENTI • LE LOTTE DI CLASSE • IL TUMULTO DEI CIOMPI • LE FIANDRE IN RIVOLTA • LA JACQUERIE • PIETRO L’EREMITA • ROBIN HOOD • JAN HUS • GIROLAMO SAVONAROLA

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MEDIOEVO DOSSIER

lunghi secoli del Medioevo furono percorsi a piú riprese da forti tensioni sociali, dalle quali ebbero origine rivolte non di rado lunghe e sanguinose. Ma quali furono le cause del malcontento? A dispetto di quel che verrebbe spontaneo immaginare, uomini e donne scesero sí in piazza per rivendicare condizioni di vita migliori, tali da garantire una dignitosa sopravvivenza, ma, come leggerete nel nuovo Dossier di «Medioevo», a fomentare le sommosse furono piú spesso il peso insostenibile delle tasse oppure le prevaricazioni dei padroni nei confronti dei salariati. Si potrebbe quasi affermare che proprio nei secoli dell’età di Mezzo siano state insomma sperimentate le forme di lotta destinate a caratterizzare le rivendicazioni sindacali dell’età moderna. Tuttavia, al di là di parallelismi suggestivi, ma solo in parte giustificati, molte delle inquietudini che agitarono l’Italia e le principali nazioni europee furono espressione di contesti tipicamente medievali, come nel caso delle lotte fra guelfi e ghibellini. E, come da sempre accade in E simili frangenti, a catalizzare gli umori e i voleri delle folle LL DE VO TE E furono solitamente personaggi carismatici, determinati, L IO ED M IVO IL R a volte visionari. Per questo, un’ampia parte del Dossier è dedicata ai protagonisti delle vicende piú famose: da Cola di Rienzo a Michele di Lando, che guidò l’effimero Tumulto dei Ciompi, senza dimenticare figure come quelle di Pietro l’Eremita o Jan Hus, perché anche le questioni di natura religiosa si trasformarono piú volte in potenti inneschi delle sedizioni.

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Ferrara. Particolare del monumento a Girolamo Savonarola, opera di Stefano Galletti. 1875.

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battaglie parabiago

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21 FEBBRAIO 1339

Quando la neve si tinse di rosso N N di Federico Canaccini

Lo scontro si svolse in un gelido giorno di febbraio. Al centro della contesa, la città di Milano; a litigarsela, un groviglio di truppe mercenarie al soldo di vari componenti, appartenenti a uno stesso casato, quello dei Visconti. Ci fu un tempo in cui la battaglia di Parabiago, tra le piú sanguinose del Trecento, offuscò addirittura il ricordo delle gesta di Alberto da Giussano…

Sant’Ambrogio, a cavallo, appare ai Milanesi nel corso della battaglia di Parabiago, affresco di Antonio da Tradate e aiuti. 1510 circa. Negrentino (Canton Ticino, Svizzera), chiesa di S. Carlo (o di S. Ambrogio Vecchio).

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el febbraio del 1339, a Parabiago, poco fuori Milano, su un candido manto di neve, si inaugura la stagione delle compagnie d’armi che, per tutto il Trecento, travolse la Penisola, trascinandola in un vortice di guerre i cui protagonisti furono i mercenari, uomini senza patria o signore, che combattevano in nome del denaro. Seppur in modo approssimativo, è stato calcolato che, tra il 1320 e il 1360, in Italia si alternarono circa 700 condottieri, a capo di gruppi di cavalieri tedeschi, con ai loro ordini non meno di 10 000 soldati: un numero impressionante. Quella di Parabiago fu una delle piú sanguinose battaglie del XIV secolo e il suo ricordo, connesso alla miracolosa apparizione di sant’Ambrogio, si mantenne cosí vivo che, per secoli, nelle cronache lombarde, l’episodio oscurò persino le gesta di Alberto da Giussano e la fama della battaglia combattuta a Legnano contro Federico Barbarossa. Quest’ultima, infatti, tornò a essere l’episodio cardine dell’«epica nazionale lombarda» solo nel corso del Risorgimento, quando divenne il simbolo della lotta contro l’invasore austroungarico. Dopo l’epopea risorgi-

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battaglie parabiago

Dopo avere definitivamente estromesso i Torriani, Matteo Visconti, nominato «capitano del Popolo», avviò l’unificazione della Lombardia 26

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Nella pagina accanto Angera (Varese), Rocca Borromeo, Sala della Giustizia. Particolare di uno degli affreschi del «Maestro di Angera» che celebrano le gesta di Ottone Visconti, arcivescovo di Milano, che sconfisse Napo della Torre a Desio, nel 1277. XIII sec. In basso stemma dei Visconti sul Palazzo Arcivescovile di Milano, ricostruito per volere dell’arcivescovo Giovanni Visconti (1342-1354), del cui nome si vedono le iniziali IO[HANNES].

Arcivescovi e signori Uberto Visconti († ante 1274)

Matteo I (1250-1322) Galeazzo I (1277-1328)

mentale, Parabiago venne invece sepolta dall’oblio. Ma come si giunse alla battaglia nelle brumose terre lombarde? La nostra attenzione si concentra sulla città di Milano, governata in quegli anni dai Visconti. La nobile casata, originaria di Massino – un castello posto a controllo del Lago Maggiore – aveva iniziato a dominare la città nella seconda metà del Duecento, dopo che, nel 1262, Ottone Visconti era stato nominato arcivescovo di Milano. Erano in realtà gli anni del predominio di un’altra potente casata lombarda, i guelfi Della Torre (o Torriani), i quali costrinsero il nuovo presule a vagare fuori dalle mura urbane, senza potersi insediare. Nel 1277, però, il potente arcivescovo ottenne una vittoria a Desio sulla famiglia guelfa rivale, che, tuttavia, riuscí ancora una volta a espellere temporaneamente i Vifebbraio

Obizzo

Tebaldo (1225-1276)

Azzone (1302-1339)

MEDIOEVO

Andreotto

Ottone Arcivescovo di Milano (1207 circa-1295)

Luchino (1292-1349)

Giovanni Arcivescovo di Milano (1290-1354)

Matteo II (1319 circa-1355)

Stefano (1288-1327)

Bernabò (1323 circa-1385)

Monumento funebre realizzato da Giovanni di Balduccio Albonetti per Azzone Visconti, XIV sec. Milano, chiesa di S. Gottardo in Corte Galeazzo II (1320 circa-1378)

sconti da Milano. Dopo gli anni di Ottone, fu la volta di Matteo Visconti che venne nominato «capitano del Popolo» e, estromessi definitivamente i Torriani, diede inizio a una unificazione della Lombardia che proseguí prima sotto Galeazzo I (1277-1327) e poi sotto Azzone (1329-1339). Ma i pericoli non venivano solo dall’esterno e dai Torriani: come tutte le grandi famiglie nobiliari, anche i Visconti erano divisi al proprio interno in molti rami e molti erano i pretendenti al controllo della città piú potente della Lombardia. Nel 1326 Galeazzo I, nuovo signore di Milano, per evitare che il patrimonio faticosamente conquistato finisse diviso tra mille rivoli, aveva infatti nominato come unico erede il figlio Azzone (vedi box in questa pagina). Era un momento particolarmente caldo a causa della lotta che infu-

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battaglie parabiago riava tra Ludovico IV il Bavaro, aspirante imperatore, e papa Giovanni XXII: il signore tedesco era in città per essere incoronato re d’Italia da tre vescovi scomunicati e il suo passaggio aveva già creato scompiglio a Verona, dove Cangrande della Scala (signore della città veneta, n.d.r.) era stato estromesso, e Galeazzo temeva di subire il medesimo destino. Alcuni parenti, tra cui il fratello Marco, lo accusavano sostanzialmente di voler gestire il potere da solo, con la possibilità di una pericolosa deriva di «signoria cittadina».

Nel tranello del Bavaro

Tutto ciò dovette giungere probabilmente alle orecchie del Bavaro, aggravando ulteriormente la situazione. Il 6 luglio 1327, infatti, il sovrano convocò a consiglio tutti i Visconti che si trovavano in città: nessuno dovette sospettare nulla, in quanto la famiglia era da sempre in buoni rapporti con la fazione imperiale, ma, in realtà, si trattava di una trappola. Al termine della riunione Galeazzo, suo figlio Azzone, e suo fratello Luchino furono arrestati e condotti nelle carceri di Monza. Luchino e Azzo furono liberati non prima di aver pagato al Bavaro un riscatto di 25 000 fiorini, mentre 50 000 ne intascò dai Milanesi per averli liberati dal Visconti. Galeazzo, invece, messosi al servizio del condottiero Castruccio Castracani, sarebbe morto a Pescia, in Val di Nievole, contraendo febbri durante l’assedio di Pistoia. Nei mesi che seguirono, le sorti delle parti in causa si capovolsero cosí tante volte che qualsiasi finale immaginato risulterebbe sorprendente, al pari del suo opposto. Galeazzo, per esempio, non avrebbe mai potuto immaginare che, di lí a poco, suo figlio Azzone si sarebbe pacificato con l’imperatore, ottenendo proprio dal Bavaro la massima onorificenza. Dopo aver combattuto a fianco del padre in difesa di papa Giovanni XXII, ed essere

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azzone visconti

Giovane e volitivo Il nome completo di Azzo Visconti era in realtà Azzone, ma è il suo diminutivo ad averlo consegnato alle cronache. Fu signore di Cremona, dal 1326, e poi di Milano, che tenne per un decennio (1329-1339), succedendo al padre Galeazzo I, insieme al quale combatté inizialmente contro l’imperatore scomunicato Ludovico il Bavaro per poi diventare suo alleato. Preso il potere, a soli trent’anni, Azzo sfidò, praticamente da solo, Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia, che stava tentando di mettere in piedi un proprio dominio nell’Italia settentrionale. Nel 1330, infatti, il Boemo era sceso in Italia in difesa di Brescia, minacciata da Mastino della Scala e, a seguito di questo successo, ottenne il controllo su Parma, Bergamo e Lucca. Seguendo il carismatico esempio di Azzone, nacque la cosiddetta Lega di Castelbaldo e, nel 1333, Giovanni di Lussemburgo fu sconfitto da una coalizione che riuniva Scaligeri, Estensi, Gonzaga e lo stesso Visconti. Dopo questo successo riprese la politica espansionistica, conquistando Piacenza e Brescia e dando un impulso importante all’unificazione amministrativa dei domini familiari. A sinistra Galeazzo I Visconti in un’incisione di Tobias Stimmer. 1575. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. A destra particolare del monumento funebre realizzato da Giovanni di Balduccio Albonetti per Azzone Visconti, raffigurante l’investitura dello stesso Azzone ai piedi di sant’Ambrogio e di fronte all’imperatore. XIV sec. Milano, chiesa di S. Gottardo in Corte.


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battaglie parabiago stato persino imprigionato dal sovrano tedesco, Azzone riuscí infatti a comprare, per 125 000 fiorini d’oro, il titolo di vicario di Milano dallo scomunicato imperatore, suo antico rivale e adesso fido alleato, scavalcando il pontefice avignonese, che pretendeva di essere il detentore del potere di nomina. Cosí facendo, Azzone non soltanto assunse la carica di vicarius, ma, soprattutto, riacquistò i diritti sottratti al padre. Nel 1332, al governo del nuovo vicario imperiale furono associati, in una sorta di triumvirato, due suoi zii, Luchino e l’arcivescovo Giovanni, figli di Matteo Visconti: una mossa attuata per ripartire il potere, mantenendolo comunque «in famiglia», cosí da tranquillizzare l’opinione pubblica, che temeva i possibili abusi di un solo signore. Dall’accordo fu però escluso un altro zio, di nome Lodrisio, figlio di Pietro Visconti e Antiochia Crivelli, il quale, per spodestare i rivali, ordí ripetuti complotti, le cui trame furono però scoperte e si conclusero con l’arresto dei congiurati (23 novembre 1332). La repressione fu comunque blanda, giacché, anziché incorrere nella pena capitale, per Lodrisio e i suoi fu disposta la reclusione nelle prigioni di Monza, dette «i Forni». E Lodrisio riuscí addirittura a scampare all’arresto, riparando a Verona, ospite di Mastino II della Scala, da dove iniziò a progettare la sua vendetta.

Le velleità di Mastino

Erano da poco terminate le lotte nel territorio degli Scaligeri, dove ancora rimanevano di stanza molte milizie al soldo di Mastino II, determinato a dare vita a uno Stato signorile nel Nord Italia. Nel 1339, una lega composta da Firenze, Venezia, Milano, dagli Estensi e dai Gonzaga ebbe ragione delle velleità del signore di Verona, forte di un esercito composto da soldati delle città italiane coinvolte, ma

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anche di mercenari, perlopiú di origine tedesca o svizzera. Si trattava di migliaia di uomini scontenti, perché ancora non pagati, che non avevano alcuna intenzione di lasciare Vicenza prima di aver ricevuto il denaro per cui avevano rischiato la vita. Lodrisio approfittò della situazione e, con il proprio denaro (e in parte con quello di Mastino), allestí una compagnia privata di armati, composta da circa 3000 cavalieri e da un migliaio di fanti. La truppa fu presentata come una compagnia

libera, detta «di San Giorgio», senza particolari connotazioni politiche o legami con l’uno o l’altro signore, probabilmente per evitare eventuali rappresaglie contro lo Scaligero, alla cui corte Lodrisio ormai sedeva da mesi. La Compagnia di San Giorgio includeva alcuni dei piú noti condottieri tedeschi del tempo, quali Rainald Frenz, meglio noto con il nomignolo italiano di «Malerba», e Werner, duca di Urslingen, un nobile svevo decaduto che aveva ereditato il titolo di duca di Spoleto

e intrapreso la carriera di condottiero. Secondo un cronista italiano, sembra che Werner avesse fatto incidere sulla propria armatura il seguente motto: «Guarnieri, signore della Gran Compagna, nimico di Dio, di pietà e di misericordia».

Alleanze strategiche

Nel frattempo, a Milano, il rivale affilava le armi, stringendo alleanze strategiche con il patriarcato di Aquileia, con Ludovico, figlio di Aimone di Savoia, col marchese di Ferrara, Obizzo III d’Este, e con le signorie di Mantova, Saluzzo e Bologna. Ma le battaglie non si vincevano solo con le alleanze e con la diplomazia: come strategia preventiva, Azzo posizionò diverse guarnigioni in una fascia attorno alla città di Milano, sistemando truppe a Sempione, Parabiago e Nerviano. A capo di questo esercito fu posto Luchino, zio di Azzone nonché parente di Lodrisio. Dopo aver assunto il ridondante titolo di signore del Seprio, Lodrisio cominciò a muovere le proprie milizie dal Veneto, scontrandosi con i Milanesi ai primi di febbraio, presso Rivolta d’Adda. E per dodici lunghi giorni i suoi uomini fecero «gran danno di ruberie, ma non d’arsione». Il tentativo di impedire loro il passaggio dell’Adda, messo in atto da Pinalla Aliprandi, capitano generale dell’esercito di Azzone, fallí e, nei giorni seguenti, Lodrisio sottomise Cernusco in Martesana, Sesto Monzese e Legnano, dove si accampò e dove fu raggiunto dalle truppe di Mastino II, sue alleate. Nel mentre erano però giunti anche rinforzi per Azzone: Roberto Villani, eletto capo delle truppe ausiliarie dal Consiglio di Guerra, guidava le milizie ferraresi. Ora Azzone poté dispiegare le proprie forze per proteggere la zona del Sempione, ponendo a Parabiago le avanguardie, a Nerviano il centro, sotto Luchino, infine a Rho Villani, a cafebbraio

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po della retroguardia. A presidiare Milano rimase lo stesso Azzone, accompagnato dallo zio, l’arcivescovo Giovanni. In tutto le truppe milanesi contavano 3000 cavalieri e 2000 fanti, armati perlopiú di balestre. Dopo aver consultato piú volte l’astrologo cittadino – che promise loro una vittoria certa – Luchino uscí dalle mura di Milano a capo dell’esercito: lo seguivano 3000 fanti e 1000 cavalieri, tra i quali i cronisti segnalano il malescalco tedesco e venti signorotti di Brescia.

Attacco a sorpresa

All’alba di sabato 21 febbraio 1339 Lodrisio decise di cogliere di sorpresa i nemici, lanciando le proprie truppe contro l’avanguardia nemica posizionata a Parabiago: divise il proprio esercito in tre reparti e attaccò Luchino su altrettanti fronti, da Canegrate, dal Sempione e lungo l’Olona. Gli uomini di Luchino furono colti piú che di sorpresa, giacché molti erano ancora nei loro letti... Scrive infatti Villani che «in su l’ora del mattutino cavalcò alla detta villa di Parabico e di notte assalí i nimici, i quali accampati di fresco, e non provveduti per lo subito assalto della notte, ala detta villa di Parabico furono sconfitti in poco d’ora e mortine una grande quantità spezialmente di pedoni per lo scuro della notte e morivvi messer Giovanni del Fiesco di Genova, capitano di quella gente e piú altri Lombardi e Tedeschi». Dal momento che entrambi gli schieramenti combattevano sotto le insegne viscontee, pare che per distinguersi i Milanesi gridassero «Soldati di Sant’Ambrogio», mentre quelli di Lodrisio «Rithband Heinrich», «Cavalleria di Enrico». Il cronista fiorentino ebbe modo di incontrare testimoni oculari della battaglia, come scrive egli stesso: «Di questo sapemmo il vero da piú genti degne di fede che vi furono presenti». Questo primo scontro vide prevalere nettamente Lodrisio e in pochi, tra le truppe di Azzone, non furono travolti dal colpo di mano

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A destra l’imperatore Ludovico il Bavaro in un dipinto di Karl Ballenberger. 1840 circa. Francoforte sul Meno, Römerberg, Sala degli Imperatori. Nella pagina accanto Luchino Visconti, uno dei protagonisti della battaglia di Parabiago, in un’incisione cinquecentesca. Londra, British Museum.

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battaglie parabiago

Una sortita disperata

Vista la situazione oramai compromessa, Luchino rischiò il tutto per tutto e si gettò a cavallo tra le fila nemiche. Disarcionato, venne subito fatto prigioniero e fu legato a un albero di noce, in attesa degli eventi: «Messer Luchino s’affrontò con messer Loderigo (Lodrisio), la domenica in su l’ora di terza e fu tra loro aspra battaglia che durò infino passata nona». Perduto anche il proprio comandante, i Milanesi iniziarono a ritirarsi e Lodrisio vide concretizzarsi la vittoria: la strada per Milano era aperta. L’Anonimo Romano descrive la battaglia insistendo sul ruolo giocato dal tempo inclemente e dalle condizioni impossibili in cui i due eserciti combatterono: «Lo tiempo era de vierno ed era sí esmesuratamente granne la neve che non lassava fare vattaglia ordinata. Fi allo iunuocchio omo se affonnava nella neve. Granne era lo infango. Le arme e le soprainsegne stavano imbrattata e quarantaquattro centinaia de uomini fuoro occisi, senza li affocati in fiume, nelli gorghi della neve». Soddisfatto per la prima vittoria, Lodrisio si accampò tempora-

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SVIZZERA TRENTINOALTO ADIGE

Lago Maggiore

Lago di Como

Varese

PIEMONTE

sferrato all’alba: tra questi i cronisti ricordano le gesta di un figlio illegittimo di Matteo Visconti, un certo Antonio, il quale, dopo aver fatto strage di mercenari tedeschi, s’impossessò del loro vessillo per disorientare le truppe, private del prezioso punto di riferimento. La neve, caduta copiosa nella notte, aveva poi impedito ad alcuni alleati di giungere in tempo per recare aiuto ad Azzone. A detta di qualche cronista, il manto bianco arrivava sino alla cintola, ostacolando i movimenti, e i fiocchi, che continuavano a cadere, avrebbero anche coperto le tracce del nemico, frattanto spostatosi da Legnano a Parabiago.

Lago di Garda

Bergamo

Parabiago

Monza Milano

Lumezzane

Cortenuova Brescia

VENETO

Crema Vigevano

Pavia

Pianura Padana

Cremona

Mantova

Voghera

EMILIA-ROMAGNA

In basso tondo raffigurante sant’Ambrogio nella chiesa a lui intitolata a Parabiago, fatta costruire da Azzone Visconti, dopo la vittoria riportata il 21 febbraio 1339.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante il cardinale Roberto di Ginevra che si fa incoronare come papa Clemente VII, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library.


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battaglie parabiago La Compagnia di San Giorgio

Avventurieri senza scrupoli Almeno tre compagnie di mercenari furono denominate «di San Giorgio» e la prima fu quella istituita nel 1339 da Lodrisio Visconti: essa contava circa 6500 uomini provenienti da Verona, Novara, ma era composta soprattutto da mercenari tedeschi, svizzeri e grigionesi. Nel 1365, Ambrogio Visconti – figlio naturale di Bernabò, avuto da Beltramola de’ Grassi, amante del signore di Milano –, radunò una banda di avventurieri in cerca di fortuna, e la chiamò Compagnia di San Giorgio, grazie anche agli aiuti del padre e dello zio Galeazzo. Tale compagnia era composta inizialmente da 45 caporali e 7000 cavalieri. A essa si unirono in seguito gli avanzi della Compagnia Bianca, capitanata dall’inglese John Hawkwood (noto in Italia come Giovanni Acuto) e disciolta l’anno prima. La compagnia si dimostrò sin dall’inizio assai temibile, al punto che i Fiorentini pagarono ben 6000 fiorini d’oro in cambio della promessa di non attaccare per quattro

anni i territori toscani. Il papa Urbano V si scagliò contro la compagnia, invocando addirittura l’aiuto di san Michele quale vendicatore divino: il vero san Michele contro la Compagnia di San Giorgio! Dopo essere stato sconfitto e catturato dalle truppe papaliangioine, Ambrogio la ricostituí nel 1372, ma, dopo alterne vicende, venne ucciso in una imboscata organizzata dai contadini locali, probabilmente esasperati dalle sue razzie, nell’attuale frazione di Opreno, assieme ad altri nobili, tra cui il condottiero Ludovico da Correggio. Tuttavia, la piú famosa delle tre fu certamente quella creata nel 1377 da Alberico da Barbiano e alla quale aderirono molti celebri uomini d’arme, come Braccio da Montone, Muzio Attendolo Sforza, Jacopo dal Verme, Facino Cane. La particolarità di questa Compagnia di San Giorgio era la nazionalità italiana, in un momento in cui invece i mercenari stranieri andavano per Monumento equestre a Giovanni Acuto, affresco di Paolo Uccello. 1436. Firenze, cattedrale di S. Maria del Fiore.

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neamente in paese e poi iniziarono i preparativi per l’ultima fase della campagna che gli avrebbe consentito di entrare vittorioso a Milano. Mandò innanzitutto un plotone di 700 cavalieri «al passo d’uno fiume per torlo a’Milanesi, i quali feciono un grande danno al popolo di Milano che fuggia in Milano per la detta sconfitta»; 400 cavalieri rimasero a Parabiago «co’prigioni e colla preda»; Lodrisio infine, col corpo principale di 1500 cavalieri, «si tenne schierato al campo di fuori della villa uno miglio». Nel frattempo, alcuni scampati al primo scontro raggiunsero Milano e, atterriti, presero a narrare l’esito della battaglia, che sembrava essersi ormai conclusa in favore di Lodrisio. Azzone mise in allerta i soldati di stanza in città e impose di chiudere tutte le porte, impedendo l’ingresso e l’uscita a chiunque. Sembra poi che si fosse ritirato nella sua cappella privata, per pregare Dio e chiedere l’intervento di sant’Ambrogio. La battaglia però non era ancora terminata e prese un andamento completamente diverso quando Ettore da Panigo, un esule bolognese, febbraio

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la maggiore. Gli appartenenti alla Compagnia di Alberico, infatti, giuravano di «essere perpetui nemici degli stranieri e dei barbari». Tale scelta, fuori dal coro, fu forse causata dallo sdegno di Alberico a seguito del violentissimo sacco di Cesena del 1377, durante il quale gli uomini di Giovanni Acuto, si diedero a eccessi inauditi. Il 1° febbraio 1377 alcuni Cesenati, guidati da macellai, si ribellarono, uccidendo un centinaio degli occupanti bretoni che da oltre due mesi avevano vessato il contado e la città, commettendo ogni sorta di violenza. La repressione, voluta dal cardinale Roberto di Ginevra, legato in Italia e futuro antipapa Clemente VII, fu terribile. Il resoconto, crudo e spietato, della Cronaca malatestiana riporta: «Il cardinale inviò le truppe a Faenza e, dopo aver abbattuto le mura di Cesena, uccisero chiunque trovassero davanti a loro: uomini, donne, bimbi al seno delle madri, riempirono tutte le piazze di Cesena di cadaveri. Alcuni tentarono la fuga, ma furono giunse con 700 cavalieri, tra i quali 200 di Bologna al servizio del Comune di Milano, e attaccò il corpo lasciato di guardia a Parabiago che «dopo lunga battaglia» venne sconfitto. A quel punto Ettore attaccò «sopra la gente di messer Loderigo, i quali credendosi avere vinto il campo, erano sciarrati scacciando gli sconfitti» e possiamo solo immaginare lo stupore di Luchino Visconti, ancora legato a un albero, che osservava l’andamento della battaglia: la sorte si capovolse nuovamente, questa volta in favore delle truppe di Azzone. Ora fu Lodrisio a cadere prigioniero assieme a molti dei suoi, sorpresi mentre saccheggiavano i beni dei caduti. Una volta liberato, Luchino riprese il comando dei suoi uomini e sconfisse l’ultimo plotone fedele a Lodrisio, quello lasciato a difesa del guado, sotto il comando di «Malerba Tedesco capitano de’detti settecento cavalieri». «E cosí – scrive Villani – furono morti e presi quasi tutta la detta infortunata compagnia». Assieme a molti dei suoi, Lodrisio venne condotto a Milano per finire rinchiuso nelle prigioni di San Colombano al Lam-

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raggiunti dai Bretoni che o li uccisero, o li rapinarono o li stuprarono. Questo destino toccò alle piú belle donne di Cesena le quali, dopo lo stupro, furono tutte uccise. Piú di mille bambini furono passati a fil di spada, i monaci e le suore furono catturati e assassinati. Nei depositi e nelle fosse per i cereali furono infine stipati migliaia e migliaia di cadaveri. E cosí i Bretoni completamente distrussero Cesena». Alberico abbandonò l’Acuto e formò la propria compagnia, di soli italiani; appoggiò Urbano VI contro l’antipapa Clemente VII, sconfiggendo i mercenari bretoni nel 1379, e fu perciò omaggiato di un’insegna che recava il motto «Italia liberata dai barbari». L’insegna di Alberico da Barbiano, il condottiero che, nel 1377, diede vita a una Compagnia di San Giorgio composta esclusivamente da Italiani. Sul vessillo in secondo piano è riportato il motto «Italia liberata dai barbari».

bro, fino al 1349, quando fu liberato per volere dell’arcivescovo Giovanni, suo parente.

Apparizione miracolosa

Secondo le colorite cronache dell’epoca, la vittoria sarebbe da ascrivere soprattutto all’intervento miracoloso di sant’Ambrogio, protettore di Milano che apparve in cielo su un cavallo bianco, sbucando da un grande nuvolone. Infuriato, il santo protettore avrebbe iniziato a frustare e bastonare i soldati di Lodrisio, difendendo i «veri Milanesi», di cui era il patrono. Un anno piú tardi, per onorare il santo (e commemorare la vittoria, sottoscritta persino dalla volontà celeste), i Visconti fecero costruire una chiesa nel luogo in cui apparve il santo, e là dove Luchino Visconti era stato legato e «miracolosamente liberato» dall’in-

tervento del santo. Per glorificare, al contempo, santo e casata, si decise che, in occasione del 21 febbraio, dovesse svolgersi una processione da Milano a Parabiago, soppressa nel 1581, su consiglio di san Carlo Borromeo, per motivi di ordine pubblico e impraticabilità delle strade, spesso ghiacciate e coperte di neve. L’intervento di sant’Ambrogio è chiaramente un topos agiografico, in cui il santo prende le parti del Bene contro il Male, giustificando cosí anche la carneficina che si consumò il 21 febbraio 1339. La battaglia di Parabiago, infatti, costò un numero elevatissimo di vittime da entrambi gli schieramenti, ma oltre al molto sangue versato, a stupire i contemporanei, che avrebbero poi assistito alla sanguinosa età dei mercenari, fu il continuo rovesciarsi del destino in poche ore. Ancora Giovanni Villani cosí commentò l’accaduto: «Avemo fatto sí lungo conto per le svariate battaglie e rotte che furono tra le dette genti che in uno giorno furono date cinque sconfitte, tre dall’una parte e dall’altra, che non avvenne mai piú in Italia sí fatta cosa».

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costume e società

Un’idea di

Medioevo di Riccardo Facchini e Davide Iacono

P

er gli Illuministi era l’età della superstizione e dell’arretratezza scientifica, i protestanti gli attribuirono la responsabilità di aver accolto e trasmesso i dettami della Chiesa romana, a sua volta colpevole di tradimento degli originari valori cristiani. Si tratta di giudizi negativi, sebbene espressi sull’onda di motivazioni storiche diverse. E poi vi fu l’Ottocento, con la sua lettura in chiave romantica e «neogotica» di quel millennio racchiuso tra la fine dell’età classica e quella moderna. Ma quanti «medioevi» sono esistiti, e quanti ne verranno immaginati ancora? E, soprattutto, dove corre il confine tra medievalismo e storiografia? Inizia con questo articolo una nuova serie, volta a indagare un affascinante – e attualissimo – aspetto delle ricerche sull’età di Mezzo…

Dipinto di Walter Crane ispirato alla ballata di John Keats La Belle Dame sans Merci (La bella dama senza pietà), olio su tela. 1865. Collezione privata.

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costume e società

N N

el 2002 Massimo Montanari dava alle stampe, per i tipi di Laterza, Storia Medievale, un manuale universitario che si caratterizzava per una scelta coraggiosa e metodologicamente innovativa. Lo studioso decise infatti di non utilizzare mai nel volume il termine «Medioevo» – impresa ardua, considerato l’oggetto indagato – e affidò alle conclusioni la motivazione della sua insolita decisione. Affermava di voler in tal modo spronare gli universitari che si avvicinavano per la prima volta allo studio della storia medievale a investigare un tema molto dibattuto, allora come oggi, all’interno della comunità accademica: quello della periodizzazione dell’età medievale e, soprattutto, della nascita dell’Idea di Medioevo, per usare la fortunata espressione che ha dato il titolo al breve ma fondamentale saggio pubblicato da Giuseppe Sergi nel 1998. Con la sua scelta Montanari stimolava al tempo stesso un dibattito sull’esistenza stessa del Medioevo per se, un periodo definito a posteriori e le cui rappresentazioni successive – i cosiddetti «medievalismi» – hanno talmente offuscato e deformato da renderne a volte difficile sia l’indagine scientifica che la divulgazione.

Mille anni di vuoto

In prima battuta, come il termine stesso suggerisce, il Medioevo venne infatti considerato non tanto come un periodo riconoscibile per via di alcune proprie peculiarità, ma come una parentesi collocata tra due distinte fasi; un vuoto tra due pieni, un lungo – mille anni! – momento di transizione tra i fasti della classicità e il «Rinascimento» umanistico. Volendo quindi tracciare una sommaria genealogia delle rappresentazioni e delle percezioni post-medievali del Medioevo, non

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In alto Carcassonne (Francia). Nel 1849 la cittadella medievale stava per essere demolita, per via del degrado: la decisione suscitò vibrate proteste e si giunse infine alla sua ricostruzione, curata dall’architetto Eugène Viollet-le-Duc.

possiamo non partire dall’origine stessa di tale accezione, che molto deve agli intellettuali umanisti. Se dovessimo infatti dare un nome ai padri dell’idea stessa di Medioevo sarebbero forse quelli dei letterati Leonardo Bruni (1370-1444) o Flavio Biondo (1392-1463), ovvero di coloro che tra i primi teorizzarono l’esistenza di un lungo, inesorabile declino della cultura classica in seguito alla caduta dell’impero romano d’Occidente. L’impatto delle idee umanistiche sulla temperie culturale europea fu dirompente al punto da contagiare le successive generazioni di intellettuali che, ognuna a sua modo, contribuirono alla stratificazione di numerosi topoi riguardanti l’età di Mezzo. Pensiamo, per esempio, alla scuola storiografica protestante, capeggiata da Flacio Illirico (1520-1575), il quale non fu affatto clemente con il Medioevo, perché reo di avere ospitato quella Chiesa romana che avrebbe tradito febbraio

MEDIOEVO


i dettami evangelici delle comunità cristiane primitive. Oppure ai philosophes, tra cui soprattutto Voltaire (1694-1778), che su quei mille anni fecero calare il velo sinistro e oscuro che molte vulgate contribuiscono ancora oggi a diffondere. Da periodo inizialmente inesistente – almeno per coloro che vi hanno vissuto, del tutto ignari di esser uomini «medievali»... –, il Medioevo si andava cosí definendo con alcune sue precise connotazioni, quasi sempre negative: epoca della superstizione, del fanatismo, dell’arretratezza scientifica e del predominio indiscusso di una Chiesa oscurantista. Tuttavia, dopo questa rapida panoramica, attribuire a Leonardo A destra ritratto di Flavio Biondo, olio su tela attribuito ad Antonio Maria Crespi. 1613-1621. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Nella pagina accanto, in basso ritratto di Leonardo Bruni, olio su tela attribuito ad Antonio Maria Crespi. 1613-1621. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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costume e società medievalismi italiani

Alla ricerca di una collocazione Lo studio dei medievalismi ha in Italia una significativa tradizione storiografica. Purtroppo, gli autori dei lavori dedicati alle diverse sfaccettature di questo complesso e stimolante fenomeno culturale non sempre hanno avuto il merito di dialogare tra loro, impedendo la nascita, se non di una scuola, almeno della consapevolezza della necessità di affrontare l’argomento su piú larga scala. In ciò non ha sicuramente aiutato anche la percezione del medievalismo come di difficile collocazione disciplinare dal punto di vista accademico, che potrebbe infatti spaziare tra la storia medievale, la storia contemporanea e la storia della storiografia. Tale lacuna vuole in parte essere colmata dal recente volume Medievalismi Italiani. Secoli XIX-XXI (vedi bibliografia a p. 45), in cui studiosi affermati e giovani ricercatori hanno offerto – come recita la quarta di copertina – «il loro contributo sul tema con una serie di indagini focalizzate sul ruolo ricoperto dall’idea di Medioevo nella genesi e nello sviluppo di alcuni fondamentali processi socio-politici italiani dal XIX al XXI secolo». Bruni e Flavio Biondo la paternità dell’idea di Medioevo rappresenta forse un’eccessiva semplificazione. Tutti i nomi finora elencati, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, sono infatti, a vario titolo, padri di distinte idee di Medioevo, di diversi «medioevi», a un primo sguardo simili Mattia Flacio (o Flacio Illirico) in una xilografia di Tobias Stimmer. 1571. Il riformatore e storico croato fu molto critico nei confronti del Medioevo, che vedeva come l’epoca in cui la Chiesa aveva tradito i dettami delle prime comunità cristiane.

A destra la Rocca di Gradara (Pesaro e Urbino). Costruita nel XII sec., fu in seguito, ampliata dai Malatesta, che ebbero in feudo il borgo marchigiano nel 1283.

se valutiamo il comune giudizio negativo sull’età di Mezzo, ma differenti se consideriamo le motivazioni storiche all’origine di tali pareri. L’idea di Medioevo si connota quindi come un qualcosa di fluido, dalla paternità multipla, e costantemente sottoposta al clima culturale in cui essa viene prodotta.

La svolta romantica

Tale processo è ancor piú evidente se analizziamo il contributo della cultura romantica. Il Romanticismo rappresentò infatti una svolta significativa nella percezione del Medioevo nel contesto intellettuale europeo, che lo trasformò profondamente, fino a renderlo uno dei principali mitomotori del Vecchio Continente, almeno fino alla prima metà del XX secolo. Dopo una lunga infatuazione classicista, gran parte degli arti-

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sti, degli scrittori, degli storici e dei politici europei volsero infatti il loro sguardo all’età di Mezzo, convinti di potervi trovare le risposte a molti degli interrogativi e delle sfide che la modernità rivolgeva loro, dalla rivoluzione industriale alla nascita dei nazionalismi. Non a caso, la comunità accademica è concorde nell’individuare proprio nel XIX secolo la nascita di un piú organico e strutturato medievalismo – inteso come la «rappresentazione, la ricezione e l’uso postmedievale del Medioevo in ogni suo aspetto», per usare la fortunata definizione di Tommaso di Carpegna Falconieri –, che si connotava quindi non piú e non soltanto come un insieme di intepretazioni storiografiche sul passato, ma come una serie di riattualizzazioni e rivivificazioni di un’epoca lontana com-

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piute al fine di rispondere a precise esigenze del presente, fossero esse artistiche o politiche.

Un esempio da imitare

In questo contesto, soprattutto Oltremanica, nacquero quindi movimenti come il Gothic Revival, il preraffaelita o l’Arts and Crafts, tra loro inestricabilmente collegati. Il primo si concretizzò in una scuola architettonica sviluppatasi intorno alla metà del XVIII secolo: incarnata da personaggi del calibro di John Ruskin (1819-1900) ed Eugène Viollet-leDuc (1814-1879), il neogotico teorizzava il ritorno al modello della cattedrale medievale, considerata un esempio da imitare sia dal punto di vista estetico che etico, poiché vista come il frutto di una società di tipo cooperativo e pre-industriale. Non sarà forse mai abbastan-

za sottolineato quanto il nostro immaginario sia debitore di tale movimento che, grazie anche ai numerosissimi restauri condotti un po’ ovunque in Europa – oltre alla Carcassonne di Viollet-le-Duc è doverso per esempio nominare Alfonso Rubbiani (1848-1913), che «reinventò» la Bologna medievale –, ha fissato negli occhi e nelle menti di molti una determinata idea di architettura medievale. Un’idea nutrita spesso dall’onnipresenza di guglie, mura merlate, ponti levatoi e fossati. Tuttavia, questa forma di medievalismo non si concretizzava soltanto in restauri o costruzioni ex novo di edifici neogotici, come il palazzo di Westminster a Londra. Un Medioevo sempre piú idealizzato e sognato, intriso di miti arturiani, era, per esempio, anche uno dei poli nevral-

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costume e società

gici della riflessione artistica della già citata confraternita dei preraffaeliti, animata da maestri come Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), William Morris (1834-1896) ed Edward Burne-Jones (1833-1898), cosí come del movimento Arts and Crafts – ispirato alle corporazioni medievali –, entrambi caratterizzati da uno spiccato sentimento anti industriale e antimoderno. Ma il medievalismo romantico non si caratterizzava solo per la nostalgica fuga nel passato promossa e compiuta da artisti e intellettuali. Esso rappresentò anche – e purtrop-

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po, viste le nefaste conseguenze che ne sono scaturite agli inizi del XX secolo – il periodo storico a cui le classi dirigenti europee decisero di attingere quando si trattò di offire le basi ideologiche ai nascenti nazionalismi.

Un mito fondativo

In pochi decenni, il Medioevo divenne infatti uno dei piú importanti miti fondativi delle monarchie europee, che se ne servirono sia per consolidarsi – pensiamo alla Francia o all’Inghilterra –, sia per favorire processi di unificazione nazionale, come in Germania o in Italia.

Le idee risorgimentali, che travolsero la nostra Penisola per buona parte del XIX secolo, svolsero infatti un ruolo basilare nella creazione di un Medioevo «nazionale» idoneo alla costruzione del futuro Regno d’Italia. Molti eventi medievali furono riletti e reinterpretati alla luce del «Mito delle Nazioni» (Geary), cercando in essi illustri precedenti della lotta contro lo «straniero» condotta dai vari attori che animarono il movimento di unificazione. Tra gli avvenimenti piú sfruttati in chiave nazionalista possiamo certamente annoverare la battaglia di Legnano febbraio

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«Il Medioevo fra noi»

Un appuntamento all’insegna del medievalismo A partire dal 2015, tra il Palazzo Ducale di Urbino e la magnifica cornice medievale e neomedievale della Rocca di Gradara (Pesaro e Urbino), si svolge annualmente il convegno denominato «Il Medioevo fra Noi», unico appuntamento fisso in Italia dedicato allo studio del medievalismo. Nato su iniziativa di docenti delle Università di Urbino, Bologna e Roma «Sapienza», l’evento è ormai diventato un punto di riferimento per chi intenda avvicinarsi all’indagine dei medievalismi e approfondire temi e questioni in un’ottica transdisciplinare. Gli argomenti trattati sono stati infatti numerosi: dal rapporto tra Medioevo e mass-media (su tutti cinema, televisione e fumetto) fino agli utilizzi politici dell’età di Mezzo, passando per le suggestioni «medievali» presenti nella letteratura degli ultimi due secoli. Nel corso delle passate edizioni hanno partecipato all’evento numerosi studiosi, tra cui spiccano i nomi di Franco Cardini, Massimo Miglio, Maria Giuseppina Muzzarelli e Marina Montesano. The Lady of Shalott, olio su tela di John William Waterhouse ispirato all’omonimo componimento poetico di Alfred Tennyson. 1894. Londra, Tate Britain.

(1176) e i Vespri Siciliani (1282), messi in musica da Giuseppe Verdi (1813-1901) in omonime opere liriche, considerati dai padri risorgimentali espressioni di un mai sopito sentimento patriottico.

Derive inquietanti

Come accennato, l’abbraccio tra arti, medievalismo e nazionalismo ebbe sfortunatamente anche gravi ripercussioni, che si manifestarono in particolare durante gli anni della Grande Guerra. Le diverse macchine propagandistiche delle potenze europee si fecero infatti trovare

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pronte, agli inizi del conflitto, nel legittimare le proprie azioni belliche ricorrendo a suggestioni neocavalleresche e neomedievali, sfruttando in tal modo un immaginario popolare già pesantemente plasmato dalle classi intellettuali nel corso del secolo precedente. L’eredità romantica di un Medioevo identitario non tramontò con il cessare delle ostilità alla fine della prima guerra mondiale, ma, anzi, continuò ancora a nutrire parte dell’immaginario politico europeo, in particolare quello dei regimi totalitari. Non si può infatti fare a meno di ricordare quanto l’idea di «Reich» medievale abbia significato per Adolf Hitler e i suoi gerarchi, né tantomeno sottovalutare l’importanza ricoperta dall’idea di Medioevo comunale delle «piccole patrie» nella costruzione delle identità municipali durante il ventennio fascista in Italia. Durante la seconda metà del Novecento, invece, il medievalismo abbandonò in buona parte i percorsi tracciati in precedenza, abbracciando forme ed espressioni che avrebbero poi avuto un ruolo piú che rilevante nella cultura popolare occidentale. Il Medioevo smise quindi di essere associato principalmente a termini come patria e nazione, preferendogli il contesto del mito, del sogno, del fiabesco. Fondamentale

in questo processo fu l’esplosione dell’industria dell’intrattenimento, che vide nell’età di Mezzo uno dei periodi storici piú indicati per ambientare film e romanzi di argomento fantastico. Il fenomeno non era affatto nuovo: pensiamo infatti alle fiabe nordiche che, fin dal XIX secolo, erano per definizione ambientate in un vago e immaginario Medioevo, o ai film su eroi e battaglie medievali, prodotti in gran quantità già dagli albori del XX secolo.

Verso una disciplina

A un primo sguardo, il percorso fin qui tracciato potrebbe considerarsi unicamente come una rassegna autoconclusiva, sebbene in forma ridotta, delle diverse idee di Medioevo susseguitesi dal XV fino al XX secolo. Il discorso, invece, non si conclude affatto con la seconda metà del Novecento e con la nascita di un Medioevo immaginario figlio dell’Industria Culturale (Adorno), in antitesi a un Medioevo che si andava invece connotando come un preciso ambito di studi investigato dall’accademia. Il viaggio attraverso la nascita dei medievalismi suscita infatti diverse riflessioni, due delle quali, in particolare, meritano in questa sede la nostra attenzione. La prima riguarda il confine labile tra medievalismi e storiogra-

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costume e società fia. Fin qui, infatti, si sono elencate solo le manifestazioni piú superficiali delle molte idee di Medioevo prodotte negli ultimi secoli; questo non esclude però che, dietro tali espressioni, vi fosse a volte anche la riflessione storiografica di coloro che, a vario titolo, possono essere considerati gli antenati della moderna medievistica.

Il frontespizio del libretto de La battaglia di Legnano, melodramma musicato da Giuseppe Verdi, su testi di Salvadore Cammarano, andato in scena per la prima volta a Roma, nel 1849.

Quel sottile confine...

Un esempio su tutti: se, da un lato, il Medioevo «delle nazioni» consisteva in una deformazione finalizzata a fornire un sostrato ideologico alle classi dirigenti europee tra XIX e XX secolo, dall’altro contribuí infatti anche alla nascita delle discipline medievistiche e alla genesi delle prime grandi raccolte di fonti medievali, compiute sempre basandosi sul principio di «nazionalità», come accadde per i Monumenta Germaniae Historica. Il sottile confine tra medievalismo e storiografia si fa oltretutto sempre piú difficile da invididuare nel momento in cui si vadano a investigare idee di Medioevo prodotte in periodi a noi vicinissimi e fortemente legate a fenomeni tipici del nostro presente: per esempio, il rapporto col mondo islamico, la ri-

nascita di movimenti nazionalisti o cosiddetti «sovranisti», o le fortunate produzioni televisive di ambientazione medievaleggiante. Si giunge cosí al secondo problema che, ci auguriamo, questo percorso abbia sollevato nei nostri lettori: in che modo e, soprattutto,

perché il medievista «di professione» possa avvicinarsi allo studio del medievalismo, invece di affidare il compito ad altre figure come antropologi, giornalisti o storici dell’età contemporanea. In primo luogo è necessario sottolineare un’apparente banalità: sono infatti i medievisti, data la loro formazione, a poter compiere confronti tra il «vero» Medioevo e i suoi utilizzi contemporanei, cosí da poter attribuire anche alle distorsioni piú marchiane una valenza in termini storici. E lo possono fare senza cedere a due tentazioni: la prima consistente nel considerare qualsiasi rappresentazione postmedievale come una Invenzione della Tradizione (Hobsbawm), ma individuando le fratture e i processi che vi hanno condotto; la seconda, nell’etichettare – animati da spirito positivista – qualsiasi forma di medievalismo come errore da condannare o mito da sfatare; limitandosi a una certo necessaria pars destruens, che però impedisce di individuare, senza per questo giustificarle, quali siano le esigenze culturali, artistiche o politiche che sottostanno a una determinata rappresentazione del Medioevo.

Il medievalismo sul web

Fra storia e ironia Negli ultimi anni, uno dei luoghi in cui le rappresentazioni del Medioevo hanno trovato terreno piú fertile è la rete. Grazie ai Social Network, il web è infatti diventato non solo un punto di aggregazione per professionisti, appassionati e amatori dell’età di Mezzo, ma anche lo spazio ideale per creare nuove forme di immaginari medievali. La velocità del mezzo, unitamente alla sempre vincente arma dell’ironia, si sono quindi rivelati idonei alla creazione e alla diffusione di informazioni, aneddoti e contenuti satirici di tema medievaleggiante, come testimonia il successo di pagine Facebook quali Feudalesimo e Libertà o MediaEvi. Il Medioevo al Presente.

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I «meme» di ispirazione medievale – immagini o video spesso contenenti del testo – diffusi attraverso la rete, grazie soprattutto alla loro viralità, si sono dimostrati addirittura a volte piú efficaci di un concetto espresso tra i banchi di scuola. Pur con i suoi limiti – su tutti il rischio di banalizzare, se non deformare, alcuni temi e quello di promuovere contenuti politicizzati – il medievalismo in rete resta quindi un fenomeno affascinante e meritevole di indagine, come ha di recente dimostrato lo studioso inglese Andrew B.R. Elliott, docente presso la University of Lincoln, nel suo Medievalism, Politics and Mass Media (D.S. Brewer, Cambridge, 2017). febbraio

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A destra La sposa di Ruggier Mastrangelo da Palermo insultata dal francese Droetto è vendicata con la morte di questo (I Vespri Siciliani), olio su tela di Francesco Hayez. 1844-46. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

Tali sfide sono state fortunatamente raccolte da molti e autorevoli studiosi, in Italia come all’estero. Lo stesso medievalismo, come ambito di studi, nasce infatti nel contesto statunitense, negli anni Settanta del Novecento, e non è forse un caso che sia nato proprio in un continente che non ha mai conosciuto il «vero» Medioevo, ma unicamente le sue rappresentazioni. Ciò portò alla nascita di una scuola di studi orientata all’indagine di forme di medievalismo principalmente legate al mondo letterario, artistico e mediatico, ignorando spesso il legame con la storiografia e, soprattutto, con gli utilizzi politici del Medioevo.

Relativismo culturale

Né fu un caso che lo studio del medievalismo, promosso in riviste come Studies in Medievalism, fosse profondamente condizionato dalla coeva nascita, nel mondo anglosassone, dei Cultural Studies e dal clima del periodo, attraversato dalle riflessioni sul postmodernismo e intriso di un forte relativismo culturale. Anche l’Italia, dall’alto inve-

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ce di una consolidata scuola medievistica, si è spesso confrontata con l’indagine di diverse forme di medievalismo. Avvicinandosi ai lavori di Renato Bordone, Raffaele Licinio o Giuseppe Sergi, si potrà individuare la coerenza di indagini che sembravano forse tra loro poco vicine, ma accomunate dall’intento di analizzare l’attivo e potente ruolo mitopoietico del Medioevo nel mondo contemporaneo, dalle sue forme piú pop fino a quelle piú vicine alla sfera politica. Gli studiosi citati, a cui se ne

potrebbero aggiungere altri, hanno quindi tracciato il percorso: spetta alle attuali generazioni di storici medievisti avventurarsi, se desiderosi di farlo, nello studio di quella «forma allargata di storia della storiografia» (di Carpegna Falconieri) che è lo studio del medievalismo, nella speranza di poter restituire, anche attraverso questo genere di indagini, una funzione sociale e politica al mestiere dello storico.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Il duce condottiero

Da leggere Renato Bordone, Lo specchio di Shalott: l’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Liguori, Napoli 1993 Giuseppe Sergi, L’idea di Medioevo. Tra senso comune e pratica storica, Donzelli, Roma 1998 Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo Militante: la politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Einaudi, Torino 2011 Tommaso di Carpegna Falconieri, Riccardo Facchini (a cura di), Medievalismi Italiani (secoli XIX-XXI), Gangemi Editore, Roma 2018

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storie il «libro di orosio»

Orosio, una certa «moda bizantina» e la guerra di Troia di Marco Di Branco

raccontata ai califfi A

A

Divenuta capitale di al-Andalus, la provincia islamica in terra di Spagna, l’antica città di Cordova conobbe una rinnovata, straordinaria fioritura economica e culturale. In questa temperie, caratterizzata perlopiú dalla ripresa delle relazioni diplomatiche fra il regno omayyade e l’impero bizantino, vede la luce la traduzione, in lingua araba, di uno dei monumenti letterari di età tardo-antica…

Restituzione grafica di una miniatura raffigurante Paolo Orosio, il presbitero spagnolo attivo fra il IV e il V sec. che scrisse le Historiae adversus paganos (Storie contro i pagani), tradotte in arabo alla metà del X sec.

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lla memoria del grande maestro Giorgio Levi Della Vida, che non giurò.

Fondata dai Romani tra il 156 e il 152 a.C. sul fiume Baetis (il Guadalquivir degli Spagnoli, dall’arabo al-wadi al-kabir, «il grande fiume»), Cordova fu, in epoca imperiale, città ricca e fiorente e dette i natali a molti personaggi famosi, come Seneca e Lucano. Anche la Cordova tardoantica si caratterizzò come un centro in espansione, che continuò, intensificandosi, con l’avvento degli Arabi. Dopo la conquista, la città divenne capitale di al-Andalus (il nome che gli Islamici diedero alla Penisola Iberica caduta sotto il loro dominio, n.d.r.): nel primo periodo del dominio islamico furono riutilizzati gli edifici pubblici già esistenti e si restaurarono le infrastrutture degradate, allo scopo di creare i servizi fondamentali per la vita di un grande centro amministrativo. ‘Abd al-Rahmàn I restaurò le mura e la cittadella e costruí il primo impianto della Grande Moschea; ‘Abd al-Rahmàn II fondò febbraio

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La sala detta «del Trono» della Madîna al-Zahrâ, sontuosa cittadella fatta costruire da Abd al-Rahman III ai piedi della Sierra Morena, a nord-est di Cordova, tra il 936 e il 940.

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storie il «libro di orosio» A sinistra e a destra Cordova, Grande Moschea. 961 circa. L’interno del monumento, scandito da un fitto colonnato di marmo e granito, che sostiene un ordine di doppie arcate, per un’altezza di 9,60 m, in mattoni rossi alternati a pietra calcarea chiara. Particolare della volta della cupola ottagonale centrale del Mihrab, a otto archi incrociati, appoggiati su doppie colonne.

la zecca, la fabbrica dei tessuti di lusso (tiraz) e alcuni bagni pubblici (hammam); inoltre, ampliò la grande moschea e realizzò un acquedotto che portava in città l’acqua della Sierra Morena.

Una crescita esponenziale

Nella capitale dell’emirato andaluso si svolse poi il processo di trasformazione in moschee di molte antiche chiese intramuranee, come nel caso di San Juan de los Caballeros e della stessa Grande Moschea. Un autore arabo medievale, al-Maqqari, parla dell’esistenza a Cordova di 3877 moschee. La proclamazione del califfato (929) determinò la crescita esponenziale della città, che non fu però lasciata al caso, ma venne accuratamente pianificata. Il primo califfo andaluso, ‘Abd al-Rahmàn III, promosse notevoli interventi pubblici: la nuova zecca, il mercato (suq), un ulteriore ampliamento della grande moschea, e l’importante complesso residenziale noto come «Casa della Noria».

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I suoi successori – soprattutto i califfi al-Hakam II e il famoso reggente al-Mansúr – ingrandirono ancora la moschea principale, ristrutturarono il cosiddetto alcázar civil di epoca visigota (dall’arabo al-qasr, «cittadella»), costruirono nuovi complessi termali, che raggiunsero la ragguardevole cifra di 600, restaurarono il ponte sul Guadalquivir e riorganizzarono, ampliandola, la rete viaria. In meno di tre secoli, Cordova, con il suo milione di abitanti sparso su un’area di circa 5000 ettari, divenne la città piú grande d’Europa e, nel mondo islamico, seconda alla sola Baghdad. ‘Abd al-Rahmàn III morí nel 961 e a lui subentrò il figlio, Hakam II, che ne fu degno erede. Nei suoi quindici anni di governo l’espansione islamica in Spagna continuò, segnata dal notevolissimo incremento demografico, da una congiuntura economica fortemente positiva, e dall’eccezionale

Rovescio di un mezzo dinaro in oro battuto al tempo di ‘Abd al-Rahmàn III, nell’anno 330 dell’Egira (942 d.C.). Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

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storie il «libro di orosio» sviluppo scientifico, tecnologico e culturale. Non c’è cronista o geografo medievale che non esalti le abbondanti risorse dell’Andalusia e la capacità dei suoi abitanti di utilizzarle nel migliore dei modi. Gli abilissimi agronomi arabi introdussero in Spagna le tecniche agricole piú raffinate, diversificando le coltivazioni e importando nuove specie di piante dall’Oriente: tra queste, anche la prima palma spagnola, piantata dal primo emiro andaluso nei giardini di Cordova per attenuare cosí la nostalgia della sua terra d’origine. Tra i provvedimenti piú importanti adottati dagli Omayyadi in agricoltura vi furono il restauro e il perfezionamento degli acquedotti e dei sistemi di irrigazione risalenti all’epoca romana; la creazione di numerosi pozzi artesiani, e la costruzione delle cosiddette «norie», macchine idrauliche di grandi dimensioni utilizzate per irrigare orti e giardini. La tecnologia idraulica – che gli Arabi conoscevano per il tramite dei testi greci di Archimede ed Erone di Alessandria – fu applicata anche nella costruzione di orologi ad acqua, mole e mulini. Un’altra fonte di ricchezza era costituita dai commerci: quello piú produttivo era la tratta degli schiavi, alla quale ogni città andalusa riservava un apposito mercato.

Un califfo «bibliofilo»

La prosperità economica favorí non solo gli studi scientifici – in particolare chimica, medicina (i primi ospedali in terra di Spagna furono fondati nell’XI secolo), matematica e astronomia – ma anche le discipline umanistiche, sostenute soprattutto dal saggio califfo «bibliofilo» al-Hakam II, la cui corte ospitava un famoso circolo di poeti e letterati. Nell’alcázar di Cordova il sovra-

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no possedeva una biblioteca di non meno di 400 000 volumi (fra le piú ricche del mondo islamico), con un minuzioso catalogo, costituito da 44 registri di 50 fogli ciascuno, e i suoi emissari percorrevano in lungo e in largo l’Europa e l’Oriente alla ricerca di nuovi manoscritti. La costituzione di una biblioteca cosí imponente – che pure dovette subire, sotto il reggente al-Mansúr, una serie di interventi finalizzati a eliminare i testi ritenuti in contra-

sto con le rigorose dottrine religiose allora in voga, e che fu gravemente danneggiata al momento della caduta del califfato – fece grande impressione sui contemporanei di alHakam, stimolando il mecenatismo e incoraggiando la formazione di nuove raccolte librarie, ovviamente meno ampie ma assai importanti per la diffusione capillare nel Paese di antichi e nuovi saperi. Anche grazie alla straordinaria impresa libraria del «bibliofilo» al-Hakam l’Andalusia, nei secoli seguenti, divenne un vero e proprio laboratorio

culturale, nel segno della conoscenza e della tolleranza. In questa temperie avvenne un fatto unico nella storia delle relazioni culturali fra il mondo islamico e l’Occidente in epoca medievale: la traduzione araba di un celebre testo storico latino, le Storie contro i pagani di Paolo Orosio. Il Libro di Orosio (in arabo Kitàb Hurushiyush) è menzionato – e citato – da un certo numero di autori arabi medievali; tuttavia, le notizie piú dettagliate su di esso sono fornite (attraverso la mediazione del dotto damasceno del XIII secolo Ibn Abí Usaybi’a) dal medico andaluso Abu Dawúd Sulaymàn ibn Hasan, detto Ibn Juljul (morto dopo il 994). Scrive dunque Ibn Juljul: «Il trattato di Dioscoride fu tradotto dal greco in arabo a Baghdad in epoca abbaside, durante il regno di Ja’far al-Mutawakkil [232/847247/861] da Stefano, figlio di Basilio (…). Questa traduzione di Stefano giunse in al-Andalus e fu utilizzata sia dagli Andalusi sia dagli Orientali fino all’epoca di ‘Abd al-Rahmàn al-Nâsir [912961]. Questi ricevette da Armaniyus, imperatore di Costantinopoli, nell’anno 337 [948/9 d.C.], una lettera accompagnata da doni di grande valore, tra i quali il trattato di Dioscoride: era illuminato da magnifiche miniature greche e scritto in greco [ighriqi], che è la stessa lingua dello ionico [yunani]. Tale spedizione conteneva anche la Storia di Orosio, relativa ai fatti passati, agli antichi re e agli eventi importanti. Diceva l’imperatore Armaniyus nella sua lettera ad al-Nasir: “Da Dioscoride non può ottenersi profitto se non con un traduttore esperto di greco e che conosca le proprietà di queste erbe. Se c’è nel tuo paese qualcuno che riunisce queste due qualità potrai ricevere da questo libro, o re, la maggiore utilità. Per ciò che concerne il libro di Orosio, hai nel tuo paese dei Latini febbraio

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A destra Alarico, re goto, olio su tela di Jusepe Leonardo. 1635 circa. Madrid, Museo del Prado. Paolo Orosio ricevette da sant’Agostino l’incarico di redigere una storia del mondo, dalla creazione all’età contemporanea, all’indomani del saccheggio di Roma compiuto dal sovrano germanico nel 410 d.C. Nella pagina accanto pagina di un’edizione manoscritta delle Historiae di Paolo Orosio realizzata nello scriptorium di Bobbio. VII sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

Le Historiae adversus paganos

La storia del mondo in sette libri Dopo il sacco di Roma a opera di Alarico (410 d.C.), quando l’impero sembrava ormai soccombere alle ondate delle invasioni barbariche, sant’Agostino invitò Orosio, un presbitero spagnolo, a redigere un compendio della storia universale dalla creazione fino all’età contemporanea. I sette libri delle Storie contro i pagani, famosi nel Medioevo ma dimenticati in epoca moderna, sviluppano una tesi apologetica: intendono dimostrare che l’incarnazione di Cristo ha introdotto un principio di evoluzione morale e civile là dove prima regnavano barbarie e brutalità.

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storie il «libro di orosio» Pagina di una versione delle Historiae di Paolo Orosio vergata in scrittura carolingia e contenuta nel Codice di Roda. X-XI sec. Madrid, Real Academia de la Historia.

che possono leggerlo nella sua lingua originale e potranno tradurlo in arabo” (…). Tra i cristiani di Cordova non c’era nessuno capace di leggere il greco, cioè lo ionico antico. Di conseguenza, il libro di Dioscoride restò nella biblioteca di al-Nasir senza essere tradotto dall’arabo: era in al-Andalus, ma i suoi abitanti utilizzavano la traduzione di Stefano proveniente da Baghdad. Quando alNasir rispose ad Armaniyus, gli chiese di inviargli qualcuno che parlasse greco e latino per insegnare queste lingue ai suoi schiavi, che cosí si sarebbero potuti trasformare in traduttori. L’imperatore Armaniyus gli inviò dunque un monaco chiamato Nicola, che giunse a Cordova nell’anno 340 [951]». Uno dei problemi piú complessi e affascinanti del «dossier» sul Kitâb Hurushiyush (il «Libro di Orosio») è quello che concerne l’ambasceria bizantina alla corte dei califfi cordobesi, al quale è peraltro connessa la questione dell’identità dell’imperatore Armaniyus. In primo luogo, va sottolineato, la notizia di Ibn Juljul sull’ambasciata bizantina a Cordova e sull’in-

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vio del trattato di Dioscoride e del Libro di Orosio appare attendibile in tutti i suoi particolari. Dal punto di vista cronologico, essa si inserisce nel contesto che vede la ripresa delle relazioni diplomatiche fra Cordova e l’impero bizantino: le fonti arabe parlano a tal proposito di tre ambascerie differenti, che non necessariamente vanno però ridotte a un solo episodio (cioè la grande ambasceria del 948/9).

Scambi di libri

La documentazione disponibile fa piuttosto pensare a una fitta trama di rapporti, sviluppatisi nell’arco di un periodo relativamente breve, all’interno dei quali lo scambio di libri e di informazioni bibliografiche, filosofiche e scientifiche sembra giocare un ruolo non certo secondario. Queste «relazioni bibliografiche» fra Oriente e Occidente erano incentivate da un lato dalla volontà di Costantinopoli di utilizzare il prestigio della sua tradizione per stabilire vincoli diplomatici con la nuova, potente entità politica

andalusa, dall’altro dall’esigenza dei sovrani omayyadi di rendersi indipendenti dal califfato abbaside non solo politicamente ma anche culturalmente. Il risultato fu la nascita in Andalusia di una moda bizantina che condusse in breve tempo alla parziale bizantinizzazione della corte cordovana. D’altra parte il «Dioscoride» e l’«Orosio» non furono certo gli unici manoscritti esportati a Cordova da Bisanzio intorno alla metà del X secolo d.C. A questo proposito, va menzionato un documento assai notevole pubblicato nel 1961 da Samuel Miklos Stern: la traduzione araba di una lettera di un imperatore bizantino indirizzata al califfo andaluso al-Hakam – lo stesso sovrano per cui, stando allo storico arabo Ibn Haldûn, sarebbe stato tradotto il Kitàb Hurushiyush – o a un membro eminente della sua corte. Nell’epistola, purtroppo incompleta e non priva di problemi testuali, l’imperatore (che, per motivi cronologici, potrebbe essere Romano II, Niceforo Foca o Giovanni Tzimisce) afferma di aver ricevuto una richiesta di copie di libri di contenuto filosofico. Durante il califfato di ‘Abd al-Rahmàn III e di suo figlio al-Hakam gli invii di libri e i dibattiti filosofici e scientifici fra Bisanzio e al-Andalus erano dunque all’ordine del giorno.

Miniatura raffigurante Dioscoride e un allievo, da una traduzione in arabo del trattato Sulla materia medica, opera del medico greco stesso. 1224. New York, The Metropolitan Museum of Art.


Come si evince dalle fonti, la traduzione del testo orosiano fu portata a termine da uno studioso cristiano e da due traduttori musulmani, che si avvicendarono nel lavoro e dovettero dividersi i compiti: il cristiano dovette mettere a disposizione del collega la propria conoscenza del latino e della tradizione storica classica quale essa fosse, e il musulmano dovette curare la forma letteraria dell’arabo e dare al testo una patina stilistica che lo rendesse accettabile al pubblico musulmano. Già Giorgio Levi Della Vida (vedi box a p. 57, in basso), nella sua esemplare e insuperata analisi filologica del Kitàb Hurushiyush, di cui egli ebbe la ventura di scoprire l’unico manoscritto finora superstite (vedi

box a p. 57, in alto), aveva messo in luce come tale scritto fosse qualcosa di molto diverso da una semplice traduzione e contenesse al suo interno «un laborioso centone» di fonti introdotte sull’impalcatura dell’opera orosiana, senza tuttavia turbarne la linea generale.

Le note dei traduttori

In effetti, il testo arabo, anche dal punto di vista formale, non si identifica precisamente con il suo modello latino, e anzi sembra prenderne in qualche modo le distanze. Elementi degni di nota, a questo proposito, sono l’uso della formula «ha detto Orosio» (qala Hurushiyush) per introdurre i passi specificamente orosiani e distinguerli dalle notizie derivate

da altre fonti, e le molte libertà nei confronti della lettera del dettato latino rivendicate in maniera esplicita dai traduttori, che, per esempio, intervengono sull’onomastica dei personaggi citati (rendendola compatibile con quella araba), inseriscono genealogie immaginarie e dichiarano di aver soppresso un certo numero di notizie contenute nelle Historiae, perché «non corrispondono allo scopo di questo libro». Il minuto lavoro di interpolazione alla base del testo non ha solo lo scopo di condurre la narrazione fino alla conquista araba (come si evince dal particolareggiato indice premesso alla traduzione), ma anche e soprattutto quello di adattare il contenuto delle Historiae orosiane – le quali, per l’intento polemico


storie il «libro di orosio»

Miniatura raffigurante Dioscoride che riceve da Euresis (personificazione della scoperta) una radice di mandragora, mentre un cane, per effetto prodigioso di quest’erba, cade riverso su se stesso e muore, dal Dioscoride di Vienna, la piú antica copia a oggi esistente del trattato Sulla materia medica. 512 d.C. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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che si propongono, trascurano la storia sacra e della profana scelgono soltanto ciò che si presta meglio allo scopo dell’opera – alla prospettiva provvidenzialistica della storiografia medievale, per la quale storia sacra e storia profana si integrano in un unico racconto. Il compito di rendere in arabo lo stile gonfio e involuto di Orosio era formidabile per i due traduttori, tanto piú che la materia trattata nelle Historiae doveva esser quasi del tutto ignota non soltanto ai musulmani, com’è ovvio, ma allo stesso cristiano. Deve riconoscersi che essi hanno fatto quanto potevano per penetrare il significato non soltanto del racconto ma anche delle ampie digressioni che l’originale presenta con frequenza. Incomprensioni del testo, dove esso esce dalla semplice narrazione, si incontrano a ogni passo; tuttavia, nell’insieme, lo sforzo d’intendere e rendere il significato del complesso e non sempre felice stile orosiano è davvero ammirevole, e spesso è stato coronato dal successo. Nel Kitàb Hurushiyush la storia greca e romana, che abbiamo visto oggetto di faticose ricerche da parte degli autori arabi «orientali», si staglia prepotentemente al centro della scena. Al testo è premesso un minuzioso indice dei libri e dei capitoli: i primi corrispondono alla divisione delle Historiae adversus paganos, i secondi costituiscono invece sezioni completamente nuove. I

il progetto «orosius arabicus»

In sinergia per tradurre e commentare Il progetto «Orosius Arabicus» (Kitàb Hurushiyush. Introduction, Arabic text, English Translation, Historical Commentary) è stato premiato dalla Commissione Europea con una borsa di studio «Marie Curie Global» (2018-2021) che coinvolge l’American University of Beirut, l’Université de Tunis e l’Università di Roma «Sapienza». Il nucleo del progetto è costituito dalla traduzione e commento storico-filologico del Kitàb Hurushiyush. L’unico manoscritto che conservi questo testo, scoperto negli anni Trenta da Giorgio Levi Della Vida, si trova nella Biblioteca della Columbia University di New York ed è stato edito di recente dalla studiosa spagnola Mayte Penelas. Il Kitàb Hurushiyush è un’opera di straordinaria importanza, che ha lasciato un segno profondo sulla storiografia islamica occidentale, venendo a costituire per molti intellettuali arabi una porta d’accesso unica e fondamentale alla storia del mondo greco-romano. lemmi dei libri e dei capitoli espongono dettagliatamente l’argomento degli uni e degli altri.

Intreccio di storie

Il primo libro inzia con la dedica ad Agostino, dopo il quale sono poste due introduzioni geografiche. Segue un’ampia trattazione di storia sacra, in gran parte dipendente da passi biblici, alla quale, si intrecciano notizie sulla storia «mitica» delle città greche e naturalmente il racconto orosiano, che solo dalla fine del primo libro assume le caratteristiche di asse portante della narrazione. Non senza emozione si leggono, per la prima volta in lingua araba, i fatti della guerra di Troia e

Un maestro insuperato Nato a Venezia nel 1886, Giorgio Levi Della Vida è stato uno dei piú insigni orientalisti italiani. Fu professore presso vari atenei, ma, nel 1931, essendo di famiglia ebraica, nonché antifascista, venne destituito dall’incarico di docente per non avere giurato fedeltà al fascismo. È stato uno dei maggiori cultori degli studi islamici e semitici e ha scritto saggi di carattere storico, letterario e filologico che sono ancora oggi un termine di riferimento essenziale per quelle discipline.

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la vicenda del cavallo, le gesta dei difensori dell’Ellade contro i Persiani, il nome di Pericle, il racconto della guerra del Peloponneso, le grandi imprese della repubblica e dell’impero romano: con il Kitàb Hurushiyush si disvela al mondo islamico tutta quella parte di storia del mondo classico che era rimasta celata dietro il doppio schermo della prospettiva provvidenzialistica delle cronache bizantine introiettata dagli storici arabi «d’Oriente» e del disinteresse di queste stesse cronache per i miti e le vicende delle repubbliche. Né è un caso, forse, che questa rivelazione avvenga per il tramite di una serie di testi – quelli che compongono la fitta trama della traduzione araba dell’opera orosiana – fondamentalmente estranei alla cultura bizantina. La vicenda della traduzione delle Historiae adversus paganos, alla quale lavorarono fianco a fianco cristiani e musulmani non sarebbe stata comunque concepibile in un luogo diverso dall’Andalusia omayyade: solo un simile contesto poteva infatti permettere una ricostruzione del passato condivisa dalle due principali comunità religiose della Spagna: una storia vista in una prospettiva islamo-cristiana.

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Milano da scoprire di Furio Cappelli

Nel capoluogo lombardo l’arte del Medioevo è magnificamente rappresentata dalle basiliche intitolate ai santi Ambrogio e Lorenzo. Monumenti interessati, nel tempo, da rifacimenti e restauri, che non hanno tuttavia cancellato l’impronta originaria di luoghi nei quali l’afflato spirituale dei committenti si fuse mirabilmente con le invenzioni di architetti e mastri artigiani

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uesta tappa del nostro itinerario alla riscoperta delle antiche chiese d’Italia tocca due tra i principali monumenti di una metropoli: Milano. Oltre a essere la piú dinamica e la piú industrializzata della Penisola, la città fa da anni «tendenza», grazie alla moda, allo spettacolo e al design, attirando visitatori da tutto il mondo. Non mancano mete storico-artistiche particolarmente frequentate, come il Duomo o il Cenacolo di Leonardo da Vinci (nel refettorio della chiesa di S. Maria delle Grazie), ma il cuore antico della città sembra estraneo al flusso continuo della folla. E, per certi versi, sebbene possa sembrare paradossale, le basiliche di S. Ambrogio e di S. Lorenzo possono essere addirittura segnalate come luoghi da scoprire.

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L’ingresso della basilica di S. Ambrogio, che si articola in un ampio quadriportico antistante la facciata e, in alto, uno dei capitelli che sormontano i pilastri del quadriportico stesso. XII sec. febbraio

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l’arte delle antiche chiese /3 A sinistra particolare della pianta prospettica di Milano di Antoine du Pérac Lafrery, con, in evidenza, le chiese di S. Ambrogio (1) e S. Lorenzo (2). 1573. Milano, Civica Raccolta Stampe A. Bertarelli.

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Per la verità, S. Ambrogio è una meta fissa per ogni studente alle prese con la storia dell’arte, ma solo per la sua «riedizione» in stile romanico. Alla base di questa rinomanza c’è la convinzione, ormai superata, che la basilica milanese sia la capostipite delle grandi strutture con soffitto a volta. E mentre questi aspetti strutturali vengono evidenziati fino alla noia, magari esagerando la loro effettiva portata, difficilmente si mette a fuoco l’importanza della fase originaria dell’edificio. Se di S. Ambrogio si pensa di sapere qualcosa, in genere di S. Lorenzo non si sa alcunché. Il maestoso colonnato che si para proprio di fronte alla basilica (anche se distanziato nei suoi riguardi), lungo il frequentatissimo corso di Porta Ticinese, è sicuramente uno dei luoghi proverbiali della città. Un sito web dedicato all’accoglienza turistica lo definisce addirittura «un monumento alla moda». Ma sulla grande e intri-

A destra l’ambone, che sovrasta il sarcofago «di Stilicone» (IV sec.). In basso pianta della basilica: 1. atrio; 2. torre dei canonici; 3. torre dei monaci; 4. navata centrale; 5. navata laterale; 6. altar maggiore e ciborio; 7. abside; 8. ambone; 9. ingresso al Tesoro e a S. Vittore in Ciel d’Oro.

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Nella pagina accanto l’altar maggiore, costituito dall’Altare d’oro (vedi foto alle pp. 64-65), sormontato dal ciborio, ornato da un rilievo raffigurante Cristo in trono che trasmette le chiavi a san Pietro e il codice a san Paolo. Età ottoniana, X-XI sec. febbraio

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l’arte delle antiche chiese /3 Particolare del mosaico del catino absidale raffigurante Ambrogio che assiste ai funerali di san Martino a Tours. Restaurata in età moderna dopo i danni riportati nella seconda guerra mondiale, l’opera venne forse patrocinata dall’arcivescovo Angilberto II (IX sec.), ma fu ampiamente ricomposta da presumibili maestranze veneziane nei primi decenni del XIII sec.

gante costruzione che si evidenzia sullo sfondo regna il silenzio. Peccato, perché quel colonnato ne era parte integrante. E, se ignoriamo l’edificio retrostante, quella fila di 16 colonne antiche potrebbe star lí come in qualsiasi altra parte di Milano.

S. Ambrogio La storia

Il senatore e governatore imperiale Aurelio Ambrogio ascese agli onori della cattedra vescovile milanese nel 374. Alla morte del suo predecessore, il vescovo ariano Aussenzio, la città era in preda ai tumulti, poiché i cristiani erano spaccati in due fazioni, e non si riusciva a trovare un accordo sul nuovo presule. Gli «ortodossi» erano fedeli alle deliberazioni del concilio di Nicea (325), mentre i seguaci di Ario da Alessandria negavano che Cristo (il Figlio) condividesse la sostanza divina del Padre. Ambrogio, non ancora battezzato, affrontò la situazione con autorevolezza, riuscendo a placare gli animi, e fu visto concordemente come un uomo di pace, ma anche di grande tempra. Fu cosí che venne eletto vescovo a furor di popolo. La sua esperienza segna un momento di svolta nella storia della Chiesa milanese, proprio grazie al suo carisma oltreché all’alto livello della sua preparazione, che spaziava dalla sapienza greca alla retorica di Cicerone. In lui si uniscono l’austerità del religioso e un senso

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dell’autorità civile pienamente in linea con i principi dello Stato romano. L’adesione convinta alla fede si innestava perfettamente sul suo rango aristocratico di senatore e di ricco possidente terriero. Milano era allora una delle capitali dell’impero e mantenne quel ruolo fino al 402, quando Onorio stabilí la propria corte a Ravenna. L’impero stesso, sotto Teodosio I (379-395), era ormai uno «Stato cristiano» e Milano, in quanto «figlia di Roma» e città di riferimento dell’intera cristianità, meritava di esprimere compiutamente il senso della propria preminenza. Ambrogio pensò bene, quindi, di rafforzare l’immagine della città in senso religioso, tenendo conto degli illustri esempi monumentali che si potevano ammirare sia nell’Urbe che a Costantinopoli. Dapprima realizzò fuori le mura una basilica in onore degli Apostoli, trasferendovi reliquie «per contatto», ossia brani di tessuto che avevano assorbito preziose particelle di santità, venendo per l’appunto a contatto con le sacre sepolture di Roma. In seguito volle accentuare l’impatto del santuario collocandovi le reliquie di un martire locale, san Nazaro (la basilica è tuttora a lui dedicata). Il sacro corpo dava lustro alla memoria eroica della comunità cristiana milanese, alla stessa stregua dei martiri venerati nei santuari romani. Ambrogio aveva poi una particolare predilezione per un’area suburbana dove si estendeva una necropoli ricca febbraio

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di onorati sepolcri, in corrispondenza della medievale Porta Vercellina. Nel 375, laddove sorgeva la tomba di san Vittore, era stata stabilita la sepoltura di san Satiro, fratello dello stesso Ambrogio. E il santo vescovo aveva progettato la propria tomba nelle immediate adiacenze. Eresse a questo scopo una nuova basilica, che già durante la sua esistenza era detta ambrosiana. Egli stabilí che il proprio corpo dovesse essere sepolto proprio sotto l’altare della «sua» chiesa, in modo che la sua presenza, cosí come la sua opera pastorale, si perpetuasse anche dopo la morte terrena. Rafforzò poi il quadro della sua realizzazione in un momento di particolare tensione, quando fu necessario ribadire la saldezza dell’autorità religiosa. Nel 386, a tale scopo, recuperò i corpi di due martiri locali, Gervasio e Protasio, e li traslò nella basilica ambrosiana, destinando loro il loculo che aveva previsto originariamente per sé. Dispose infine che il proprio corpo venisse sepolto in un ulteriore loculo allestito di fianco alla nuova tomba dei santi martiri. A essi la chiesa venne infine intitolata. La basilica ambrosiana divenne infatti la basilica martyrum («dei martiri»). Tutte le prescrizioni del presule vennero rigorosamente osservate al momento della sua dipartita, sopraggiunta il 4 aprile 397. La basilica si presentava con le stesse dimensioni

dell’assetto attuale, ma la navata centrale era esclusivamente affiancata da file di colonne, e il soffitto presentava le capriate lignee a vista. Sotto la fascia delle finestre si sviluppava un ciclo pittorico (presumibilmente ad affresco) con Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, corredate da didascalie predisposte da Ambrogio in persona. Il vescovo compariva presumibilmente in veste di committente nel mosaico absidale, di lato, mentre al centro doveva presentarsi Cristo in figura stante tra i santi titolari Gervasio e Protasio. Il mosaico attuale, nella scansione della sua parte centrale, riecheggia forse l’iconografia della composizione originaria. La chiesa mantenne sostanzialmente l’assetto paleocristiano fino alla piena età romanica. Intorno al 1100, quando era già iniziata la storia delle magistrature comunali, si decise di ricostruirla quasi integralmente.

La visita

La basilica è schermata di fronte da un vasto atrio. Chiamato «di Ansperto», perché erroneamente attribuito all’iniziativa di quel vescovo altomedievale, è parte integrante dell’assetto romanico. Si tratta di uno spazio che crea un momento di transizione tra la realtà esterna e la vigorosa monumentalità della chiesa. Qui si concentravano le sepolture dei laici. Trattandosi di La teca della cripta della basilica che custodisce le spoglie dei santi Ambrogio, Gervasio e Protasio. L’aspetto attuale del sacrario è frutto di rifacimenti ottocenteschi.

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l’arte delle antiche chiese /3 un interregno tra il sacro e il profano, qui si svolgevano procedimenti giudiziari e si rogavano atti pubblici e privati, si accoglievano i pellegrini, si tenevano processioni, benedizioni e penitenze. Potevano anche svolgersi attività commerciali. Il braccio aderente alla facciata, distinto dalla piú marcata attenzione all’apparato decorativo, costituisce un portico frontale (nartece) su cui si imposta un solenne loggiato. Nei capitelli del nartece, cosí come nel portale centrale di ingresso alla chiesa, si sviluppa un raffinato complesso scultoreo, con un modellato contenuto e uno stile lineare, quasi «antiquario». I motivi astratti e i motivi vegetali, assai stilizzati, si associano a figure di spiccato valore simbolico. Sembra quasi che qui, cosí come all’interno della chiesa, non si voglia «caricare» eccessivamente un’architettura che vuole adeguarsi al rigore e alla linearità della basilica originaria. Il portale stesso, d’altronde, reimpiega lastre altomedievali sui piedritti e, nei suoi battenti, ripropone l’impaginazione e persino taluni rilievi lignei della porta paleocristiana, con Storie di Davide (gli originali sono oggi al Museo Diocesano). I picchiotti bronzei sono invece di età carolingia. Ai lati del prospetto si innalzano due torri campanarie, che mantengono la memoria delle due distinte comunità religiose che amministravano la chiesa nel Medioevo. A destra si evidenzia la torre dei monaci (X secolo); a sinistra spicca invece l’alta torre romanica dei canonici, già in uso nel 1128 (ma la cella campanaria è stata realizzata nel 1894). L’interno della chiesa mostra una ritmica rigorosa e un grande senso della composizione «plastica» dello spazio. Le celebri volte sono arricchite da costoloni con funzione portante. Essi furono cioè costruiti prima delle vele, come nelle cattedrali gotiche ormai pronte a sbocciare. Le volte stesse determinano sulla navata tre blocchi spaziali (campate). Ogni campata si compone di due arcate su due ordini sovrapposti. Le arcate superiori compongono una galleria (matroneo) che si estende idealmente all’esterno, con la grande loggia che campeggia sull’atrio. Nelle vicinanze del presbiterio, laddove si sviluppava il coro, si nota un ambone romanico (1140 circa), che congloba una «reliquia» della chiesa paleocristiana: il sarcofago detto «di Stilicone». Ma proprio l’area del santuario conserva il punto focale della basilica originaria, ossia la sepoltura ambrosiana. I sacri corpi di Ambrogio, di Gervasio e di Protasio, nel con-

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In alto il fronte dell’Altare d’oro, la magnifica arca in legno rivestita da formelle istoriate in lamina d’oro e d’argento, realizzata dal magister phaber Vuolvinio. 830 circa. A sinistra il ritratto di un santo vescovo affrescato nel sottarco di fronte all’abside sinistra. XI sec.

testo di una traslazione di età controversa (V-VI o IX secolo), furono trasferiti all’interno di un sarcofago romano di porfido sovrapposto ai loculi originali. Il sarcofago fu poi racchiuso dall’altar maggiore. Sopra all’altare venne allestito un ciborio, forse all’epoca del vescovo Lorenzo I (489-511), mentre regnava Teodorico. Le quattro colonne di porfido del ciborio attuale ne sono la sopravvivenza. Intorno all’830, l’arcivescovo Angilberto II (824-859), di origini franche, provvide poi a predisporre l’attuale Altare d’oro, febbraio

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affidandone la realizzazione all’orafo Vuolvinio e alla sua bottega. Realizzata in lamine di metallo a sbalzo applicate su una struttura lignea, con un corredo portentoso di smalti policromi, gemme e filigrane, l’opera segna un momento di grande esaltazione della figura di Ambrogio, in perfetta sintonia con il nuovo assetto carolingio, quando Milano rientrò nel novero degli episcopati di rango metropolitano dell’impero. Le composizioni narrative si sviluppano sui lati lunghi. Sul fronte, in lamina d’oro, il protagonista è Cristo, con le Storie del Nuovo Testamento. Sul lato posteriore, in lamina d’argento sbalzato, si racconta invece la vita di Ambrogio. Cristo e sant’Ambrogio (su cui aleggia Gesú Bambino), rappresentati in trono, si corrispondono simmetricamente anche nella decorazione in stucco che si ammira sui frontoni principali del ciborio soprastante (fine del X secolo). L’abside è una sopravvivenza dell’assetto altomedievale, ma il mosaico che oggi vi prende corpo è il risultato di ricomposizioni e di restauri anche recenti, dal XIII secolo agli anni post-bellici. Si è invece in parte conservata la decorazione musiva originale del sacello di S. Vittore in Ciel d’Oro (fine del V-inizi del

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VI secolo), una costruzione originariamente autonoma oggi annessa alla basilica. Sei santi in forma di nobili figure paludate risaltano tra le finestre come statue sul fondo monocromo. L’effigie giovanile di Ambrogio ha l’immediatezza di un ritratto ed è forse basata su una rappresentazione ufficiale, risalente all’epoca in cui era ancora governatore. Sopra alla teoria dei santi, campeggia il cupolino rivestito di tessere dorate (da cui l’appellativo «Ciel d’Oro» della cappella). All’apice si delinea il busto clipeato di san Vittore, che reca la corona gemmata dei martiri. Ai fianchi, due croci presentano le probabili attestazioni dei committenti: Paneciria e Faustino.

S. Lorenzo La storia

S. Lorenzo è una basilica per molti versi «difficile», sia per la sua complessità strutturale sia per la stratificazione della sua storia edilizia e non esistono peraltro testimonianze scritte sulle sue origini. Tutti, comunque, concordano nel riconoscere la bellezza e l’importanza del monumento. In un’antica celebrazione poetica di Milano, il Versum de Mediolano civitate, risalente all’epo-

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Sulle due pagine varie vedute della basilica di S. Lorenzo e del colonnato che, in origine, apparteneva all’atrio anteposto al quadriportico che si sviluppava sul fronte della chiesa.

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A destra pianta della basilica: 1. colonnato dell’atrio anteposto al quadriportico originario; 2. quadriportico (oggi non piú esistente); 3. torre quadrata; 4. abside; 5. altare; 6. cappella di S. Aquilino; 7. cappella di S. Ippolito; 8. ingresso alla cappella di S. Sisto. febbraio

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ca del re longobardo Liutprando (712-744), la basilica è chiamata per esempio tra le chiese che ornano «gloriosamente» la città, «coperta di marmo e d’oro» (in riferimento ai rivestimenti preziosi delle pareti, tra cui mosaici a tessere dorate, come quelli del predetto cupolino di S. Vittore), per giunta dotata di torri (ben quattro, che tuttora la «fortificano» agli angoli). Nella sua descrizione della città ambrosiana (De magnalibus Mediolani, 1288), anche Bonvesin da la Riva seleziona S. Lorenzo tra le meraviglie dell’edilizia sacra milanese. Segnala le celebri 16 colonne che tuttora si osservano lungo il corso e riferisce che la basilica fu patrocinata «da una regina di nome Galla Patrizia», vale a dire la ben nota principessa Galla Placidia (390 circa-450), figlia dell’imperatore Teodosio I. In seguito, il cronista Galvano Fiamma (1283-1344 circa) immaginò che un tale grandioso edificio a pianta centrale, ricoperto di mosaici in cui dominavano i toni del blu e dell’oro, accogliesse in origine una statua di Ercole, assiso su un trono in avorio. L’illustre tempio pagano, che Roma stessa

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non poteva eguagliare, secondo il Fiamma fu patrocinato dall’imperatore Massimiano (293-310). Le ipotesi piú varie si sono poi moltiplicate e intrecciate, ma di recente, grazie a un’approfondita analisi archeometrica delle strutture, è stato possibile stabilire qualche punto fermo sulle origini e sullo sviluppo della basilica. La sintesi condotta dallo studioso Paolo Piva, in particolare, nega che l’edificio abbia svolto diverse funzioni in una fase iniziale (tempio o mausoleo imperiale) e lo ascrive ai primi anni del V secolo. Il suo committente potrebbe essere il vescovo Marolo (408 circa-423), originario della Mesopotamia e lungamente rimasto in Siria. L’eccezionalità del monumento, d’altra parte, si spiega agevolmente presupponendo un influsso orientale. Le quattro torri scalarie, solo in seguito adattate a campanili, ma previste per i percorsi di collegamento e per le esigenze statiche, hanno paralleli nell’architettura siriaca. D’altronde, la grande cupola centrale, se in origine era di forma emisferica, costituiva un precedente di quella che si ammira nella S. Sofia giustinianea di Costantinopoli (527-565). Le fasi edilizie successive piú importanti sono essenzialmente due. Nel X secolo, a seguito di un crollo, la cupola fu ricostruita, e nella sua forma protoromanica poté costituire un grande modello di riferimento per l’edilizia del Medioevo lombardo. Un ulteriore crollo si verificò nel 1573 e comportò la ricostruzione nella forma

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attuale. Frattanto però, quando la struttura manteneva ancora il suo assetto medievale, taluni architetti illustri la studiarono con molta attenzione: il Filarete (che trasfigurò la basilica nel duomo di Sforzinda, la sua città ideale), Leonardo da Vinci, Giuliano da Sangallo, Bramante. Quest’ultimo, in particolare, fece tesoro dei suoi studi sulla chiesa milanese quando si accinse a progettare la nuova basilica di S. Pietro in Vaticano.

La visita

Tanto per iniziare, le 16 colonne che sfilano sul corso di Porta Ticinese appartengono proprio alla storia di S. Lorenzo. Esse facevano parte di un atrio anteposto a un quadriportico che si sviluppava in origine sul fronte della chiesa. La visione esterna del complesso è già sorprendente. Oltre alla basilica vera e propria si notano in primo luogo, sugli assi principali, tre edifici-satellite di pianta ottagonale collegati alla chiesa ma ben distinti dal punto di vista volumetrico. A sud, la grande cappella di S. Aquilino, realizzata intorno al 410, sembra davvero una chiesa a sé stante. Vi si accede dall’interno dell’aula, attraversando un atrio e varcando un portale marmoreo ricomposto (I secolo d.C.). Ai lati dell’altare, due nicchie dell’assetto originale mostrano preziose testimonianze di un rivestimento a mosaico istoriato (410-450). A sinistra la composizione è frammentaria. febbraio

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Sulle due pagine particolari dei mosaici conservati nella cappella di S. Aquilino: da sinistra, un pastore e Cristo tra gli Apostoli. 410-450. In basso spaccato assonometrico ricostruttivo dell’assetto originario della basilica: 1. colonnato dell’atrio; 2. quadriportico; 3. torre quadrata; 4. deambulatorio; 5. galleria; 6. cappella di S. Aquilino; 7. cappella di S. Ippolito.

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Una quadriga di cavalli, a simboleggiare il Cristo-sole, irrompe dal cielo in un paesaggio naturale, tra rocce e sorgenti d’acqua, suscitando meraviglia o sgomento in un gruppo di pastori. A destra si ammira invece la tipica scena di Cristo che siede tra gli Apostoli. Si evidenzia bene uno stile «classico», in linea con la tradizione antica, con modalità che si ritrovano nei coevi mosaici del cosiddetto mausoleo di Galla Placidia a Ravenna.

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Tornando alla visione esterna, si percepisce che la basilica è formata da due nuclei concentrici. Intorno alla cupola centrale si irraggia una struttura quadrata (con le torri ai vertici) che si flette però con quattro ampie convessità su ogni lato. Si tratta perciò di una struttura a 4 absidi (quadriconco). L’interno spiazza l’osservatore grazie alla molteplicità degli scorci e alla impossibilità di avere una febbraio

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A sinistra una veduta dell’interno della basilica, con, in primo piano, le colonne che sorreggono il secondo piano dell’edificio, nel quale si snoda la galleria. In alto la cappella di S. Aquilino, realizzata intorno al 410 e che quasi costituisce una chiesa a sé stante.

visione unitaria. Il grande invaso della cupola poggia su una struttura a due piani. Alla base delle torri e tutt’intorno alle absidi si sviluppa infatti un deambulatorio con una sovrastante galleria. L’assetto attuale è in larga parte da ricondurre alle ricostruzioni del tardo Cinquecento, ma la memoria dell’edificio tardo-antico e medievale rimane comunque parte viva e qualificante di tutto l’insieme.

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Da leggere Carlo Capponi (a cura di), La basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Guida storico-artistica, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2003 Laura Fieni (a cura di), La costruzione della basilica di San Lorenzo a Milano, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004 Laura Riva, Alle porte del paradiso. Le sculture del vestibolo di Sant’Ambrogio a Milano, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2006. Roberto Cassanelli, La basilica di Sant’Ambrogio a Milano, in Roberto Cassanelli, Paolo Piva (a cura di), Lombardia romanica. I grandi cantieri, Jaca Book, Milano 2010, pp. 125-146. Paolo Piva, Edilizia di culto cristiano a Milano, Aquileia e nell’Italia settentrionale fra IV e VI secolo, in Sible de Blaauw (a cura di), Storia dell’architettura italiana da Costantino a Carlo Magno, Electa, Milano 2010; tomo I, pp. 98-145.

NELLA PUNTATA PRECEDENTE ● Valle d’Aosta: Aosta, la cattedrale di S. Maria Assunta e la chiesa di S. Orso NEL PROSSIMO NUMERO Veneto: Torcello, S. Maria Assunta; Murano, Ss. Maria e Donato

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L’IMPERO DEI SERVIZI SEGRETI AGENTI, SPIONAGGIO E «SICUREZZA NAZIONALE»: COME FUNZIONAVA L’INTELLIGENCE NELL’ANTICA ROMA di Anna Maria Liberati ed Enrico Silverio

IN EDICOLA

La nuova Monografia di «Archeo» fa luce su un aspetto forse meno popolare di altri, ma non per questo secondario nella storia di Roma. L’apparato dei servizi segreti, infatti, ebbe un ruolo decisivo in molti e delicati frangenti della vita politica e delle vicende militari di cui la repubblica prima e l’impero poi furono protagonisti. Anna Maria Liberati ed Enrico Silverio descrivono in maniera sistematica e approfondita quello che, nel tempo, andò strutturandosi come una sorta di mondo «parallelo», chiamato a operare in un settore, la sicurezza, assai delicato, sia nell’ambito delle questioni interne, sia sul piú vasto scenario dei territori che Roma arrivò a controllare nel lunghi secoli della sua egemonia. Un universo animato da una moltitudine di corpi speciali, agenti, spie, informatori, pronti ad agire secondo norme e leggi puntuali e rigorose, ma altrettanto avvezzi, se l’occasione lo richiedeva, a porsi al di fuori delle regole.


di Giovanni Armillotta, con contributi di Tommaso Indelli

LA GUERRA DEI CENT’ANNI

Nemici per sempre

Per oltre un secolo, dal 1337 al 1453, le corone di Francia e Inghilterra si batterono aspramente per il controllo di vaste porzioni della Francia. In un intrico di alleanze e legami dinastici che il sangue versato sciolse solo parzialmente Miniatura raffigurante Inglesi e Francesi che si scontrano a Crécy nel 1346, in una delle battaglie chiave nella Guerra dei Cent’anni, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. XIV sec. Parigi, Bibliotheque de l’Arsenal. La vignetta evidenzia l’uso dei temibili longbow (archi lunghi) da parte degli uomini di Edoardo III, che permise loro di riportare una vittoria clamorosa, seppure in inferiorità numerica.


Dossier

L L’

incitamento alle truppe del ventottenne Enrico V Monmouth prima della battaglia di Azincourt (1415) – tratto dall’omonimo dramma di William Shakespeare (vedi box a p. 86) – fa parte di uno dei momenti piú luminosi della storia d’Inghilterra. Nel 1422 il figlio di Enrico V, Enrico VI Windsor cinse finalmente la corona del Regno delle «Due Inghilterre». Però da Azincourt facciamo un passo indietro di 99 anni. Il 5 giugno 1316 morí il ventisettenne re francese Luigi X, detto l’Attaccabrighe, incoronato il 3 agosto 1315 – figlio di Filippo IV il Bello (1285-1314). Si avverava l’anatema pronunciato sulle fiamme dal templare Jacques de Molay († 1314). Condannato ingiustamente dall’avido Filippo IV e dall’acquiescente papa Clemente V (130514), il Gran Maestro li aveva maledetti, vaticinando che in breve sia il re di Francia – morto otto mesi piú tardi, il 29 novembre, all’età di 46 anni – che i suoi discendenti lo avrebbero seguito nella tomba, oltre al pontefice, spirato trentatré giorni dopo (20 aprile). E anche il figlio postumo di Luigi X, Giovanni I, cinse la corona per soli cinque giorni, dal 15 al 20 novembre 1316, mentre la figlia maggiore, Giovanna (1311-49), era esclusa dalla successione, secondo quanto previsto dalla legge salica, che in seguito, come vedremo, fu legitti-

La battaglia di Taillebourg, 21 luglio 1242, olio su tela di Eugène Delacroix. 1837. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Lo scontro vide Luigi IX il Santo, re di Francia, prevalere su Enrico III, che cercava di riconquistare i territori inglesi in terra di Francia sottratti a Giovanni senza Terra da Filippo II Augusto.

Le premesse

Fra anomalie e lotte per la successione Le cause della Guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra (1337-1453) furono molteplici e vanno ricercate nello specifico assetto territoriale e politico dei due Paesi. Nel 1066, con la conquista del regno inglese da parte di Guglielmo il Conquistatore († 1087), duca di Normandia, il potere normanno si era insediato, minacciosamente, su entrambi i lati della Manica. I re inglesi, infatti, si trovavano in una condizione anomala,

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da un punto di vista giuridico-costituzionale e politico, poiché erano pienamente «sovrani» in Inghilterra, ma, al contempo, vassalli dei re di Francia, in quanto titolari del ducato di Normandia. Come vassalli, quindi, erano tenuti a essere fedeli e a obbedire alle ingiunzioni del loro «signore feudale», il re di Francia, pena la confisca dei propri beni. I possedimenti detenuti, a titolo feudale, dai re inglesi in territorio francese aumentarono nel tempo, a seguito di febbraio

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una serie di circostanze favorevoli. Nel 1154, salí sul trono d’Inghilterra Enrico II Plantageneto (1154-1189), pronipote del Conquistatore, figlio di Matilde († 1167), regina d’Inghilterra, e di uno dei piú potenti feudatari francesi, Goffredo d’Angiò († 1151), della casata plantageneta. Matilde lasciò in eredità al figlio il regno inglese, il ducato di Normandia e la contea del Maine; Goffredo, invece, l’Angiò e la Turenna. Nel 1152, Enrico sposò Eleonora, duchessa d’Aquitania († 1204), che gli portò in dote l’immenso ducato d’Aquitania e la contea del Poitou, nella Francia sud-occidentale. Agli inizi del XIII secolo, il re di Francia,

MEDIOEVO

febbraio

Filippo II Augusto (1180-1223), riuscí a sottrarre i possessi inglesi, in territorio francese, al figlio di Enrico II, Giovanni Senza Terra (1199-1216). Enrico III (1216-1272), successore di Giovanni, tentò di riconquistare i territori perduti, ma, sconfitto da Luigi IX (1226-1270) a Taillebourg e Saintes (1242), fu costretto a firmare il trattato di Parigi (1259). Con questo trattato, il re inglese rinunciava a ogni possesso in Francia, fatto salvo il ducato di Guienna, con capitale Bordeaux, residuo dell’antica Aquitania. I termini dell’accordo furono rispettati fino al 1337, anno in cui scoppiò la «Guerra dei Cent’anni». Tommaso Indelli

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Dossier I RE DELLA GUERRA DEI CENT’ANNI INGHILTERRA Re Edoardo III Riccardo II Enrico IV Enrico V Enrico VI Edoardo IV

Appellativo Windsor Bordeaux Bolingbroke Monmouth Windsor -

Nascita 13.11.1312 6.1.1367 15.4.1367 16.9.1386 6.12.1421 28.4.1442

Assunzione Età 21.1.1327 14 21.6.1377 10 30.9.1399 32 21.3.1413 26 31.8.1422 8 mesi 4.3.1461 18

Incoron. 1.2.1327 16.7.1377 13.10.1399 9.4.1413 6.11.1429 28.6.1461

Morte Età Regno 21.6.1377 64 50 14.2.1400 a 33 22 20.3.1413 45 13 31.8.1422 35 9 21.5.1471 b 49 38 9.4.1483 40 21

a: Riccardo II fu deposto il 29 settembre 1399 b: Enrico VI fu deposto il 4 marzo 1461

FRANCIA Re Appellativo Nascita Assunzione Età Incoron. Morte Età Regno Filippo VI il Fortunato -.-.1293 1.2.1328 35 29.5.1328 22.8.1350 57 22 Giovanni II il Buono 26.4.1319 22.8.1350 31 26.9.1350 8.4.1364 44 13 Carlo V il Saggio 21.1.1338 8.4.1364 26 19.5.1364 16.9.1380 42 16 Carlo VI il Folle 3.12.1368 16.9.1380 11 4.11.1380 21.10.1422 53 42 Enrico VI Windsor 6.12.1421 21.10.1422 10 mesi 16.12.1431 21.5.1471 a 49 4 Carlo VII il Vittorioso 22.2.1403 17.7.1429 26 17.7.1429 22.7.1461 58 32 Luigi XI il Prudente 3.7.1423 22.7.1461 38 15.8.1461 30.8.1483 60 22 a: Enrico VI fu deposto da re di Francia nel 1436 in seguito agli avvenimenti succedutisi dopo la stipula del Trattato di Arras mamente contestata dai sovrani di Londra (vedi box a p. 84). Al trono salí perciò il fratello di Luigi, Filippo V il Lungo (131622), alla cui morte fu la volta dell’altro fratello, Carlo IV il Bello (1322-28). Questi si spense senza eredi e con lui s’estingueva il ramo diretto maschile dei Capetingi e la maledizione di Jacques de Molay poteva dirsi compiuta. A quel punto un’assemblea di nobili e dignitari consegnò la corona a Filippo di Valois (poi VI), detto il Fortunato, nipote di Filippo IV e figlio di Carlo di Valois, già uomo di fiducia di papa Bonifacio VIII, umiliato e vilipeso dallo stesso Filippo IV. La decisione dei Grandi di Francia non tenne in alcun conto i diritti

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Rovescio del Settimo Sigillo del re inglese Edoardo III, utilizzato per un documento relativo ai castelli reali di Tumby e Tattershall, nel Lincolnshire. 1364. Londra, British Library.

e gli interessi di Edoardo III Windsor, re d’Inghilterra dal 1327, e nipote diretto di Filippo IV per parte della figlia Isabella (1295-1358); il padre di Edoardo era Edoardo II Caernarvon (n. 1284; 1307-1327). I tempi non erano ancora maturi per Edoardo, che dovette attendere vari anni prima di reclamare la corona d’Oltremanica. A indurlo all’azione furono l’alleanza della Francia con la Scozia e la questione delle Fiandre. febbraio

MEDIOEVO


Innanzitutto, nel 1328, Edoardo III aveva iniziato a sostenere i propri diritti sul trono gigliato rifiutandosi di prestare omaggio a Filippo VI per i domini inglesi in Francia sud-occidentale. Nel frattempo, l’influenza francese sulla contea delle Fiandre – avviata da Filippo il Bello fra il 1297 e il 1300 – stava danneggiando economicamente l’Inghilterra, che da tempo aveva avviato proficui commerci con le città fiamminghe, centri di produzione dei tessuti in lana, materia prima esportata da Londra. Lo scontro fra la borghesia urbana e la nobiltà legata alla Francia,

MEDIOEVO

febbraio

indusse i commercianti a chiamare in aiuto Edoardo III e a riconoscerlo re di Francia. Nel 1337 Edoardo si proclamò re di Francia e rivendicò il regno, e, il 27 ottobre, in una lettera a papa Benedetto XII, definiva Filippo VI «sedicente» re dei Francesi.

La lettera di sfida

Il vescovo di Lincoln, Henry Burghersh, consegnò a Parigi il 1° novembre la lettera di sfida, con cui il monarca, cavallerescamente, annunciava l’inizio delle ostilità: trascorsa una manciata di giorni, gli Inglesi sconfissero la nobiltà fiammin-

Miniatura raffigurante la resa di Harfleur, i cui abitanti consegnano le chiavi della città al re inglese Enrico V. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

ga, alleata di Filippo, nella battaglia di Cadzand, località situata poco piú di 20 km a nord-ovest di Bruges. Tre anni piú tardi Edoardo III in persona assunse il comando nella prima grande battaglia del conflitto passato alla storia come Guerra dei Cent’anni, distruggendo la flotta franco-genovese, che tentava d’invadere il suo Paese, a Sluis (l’Écluse in francese) il 24 giugno 1340.

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Dossier A sinistra particolare dello scettro di Carlo V, dal tesoro dell’abbazia di Saint-Denis. 1364-1380. Parigi, Museo del Louvre. Il prezioso manufatto, in oro, argento dorato, rubini, paste vitree e perle, è coronato da una statuetta di Carlo Magno. In basso, sulle due pagine la tomba di Edoardo di Galles, detto il Principe Nero. Morto a 46 anni d’età, fu sepolto nella Cattedrale di Canterbury, il 29 settembre 1376.

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Possiamo dunque affermare come l’Inghilterra abbia di fatto posto, sin dall’ormai lontano 1340, le fondamenta di quella che fu la sua potenza nei sei secoli a seguire, sino alla battaglia combattuta a Dunkerque nel 1940, e come abbia curato la propria marina militare e si sia assicurata la propria libertà in quell’esiguo «lago» marino che la separa(va) dall’Europa: non tollerando potenze alcune (né francese e poi né olandese, né tedesca) nella regione geopolitica che oggi è il Belgio, un’entità da sempre debole, costituita da due popoli (rispettivamente di origini francese e neerlandese) in eterna rivalità intestina. Dopo la vittoria di Cadzand, Edoardo III aveva reso piú evidente la sua pretesa al trono, inquartando le armi inglesi con quelle francesi, d’azzurro seminato di gigli d’oro. Per dimostrare l’importanza attribuita alla terra d’Oltremani-


ca, le armi francesi furono poste nel primo e nel quarto quartiere, e quelle inglesi nel secondo e nel terzo. Lo stemma inglese portò i gigli fino al 1801, quando il re britannico, il tedesco Giorgio III di Hannover (1760-1820) – dal 1801 sovrano del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda – rinunciò all’antica pretesa inglese sulla Francia.

Quell’arco micidiale...

Impedita la futura opposizione ad approdi continentali, Edoardo III trovò un alleato in Goffredo d’Harcourt, duca di Normandia. Nel 1345, Enrico I di Grosmont, conte di Derby, dette una prima lezione ai Francesi, trionfando nella battaglia di Auberoche, in Guascogna, grazie all’arco lungo (longbow). L’anno successivo, il 26 agosto, gli Inglesi sconfissero clamorosamente, a Crécy, l’esercito francese, piú potente e numeroso, basato sulla cavalleria pesante. In alto miniatura raffigurante Carlo VI colto da un accesso di follia, da un’edizione delle Cronache di Enguerrand de Monstrelet. XV sec. Chantilly, Musée Condé.


Dossier le «guerre parallele»

Dalla Scozia alla Castiglia Per quanto di portata militare e territoriale ridotta, non bisogna dimenticare che, parallelamente agli eventi principali della guerra anglo-francese, furono combattuti altri conflitti che, molto spesso, coinvolsero gli stessi eserciti e protagonisti della Guerra dei Cent’anni. Il primo fu quello per la successione nel ducato bretone, meglio conosciuto come «Guerra delle due Giovanne», dal nome delle due consorti dei contendenti per il titolo ducale, Carlo di Blois († 1364) e Giovanni IV di Montfort († 1345), ovvero Giovanna di Penthièvre e Giovanna di Fiandra. La guerra imperversò dal 1341 al 1365, quando, a Guérande, fu raggiunto un accordo che attribuiva a Giovanni V di Montfort (1365-1399), figlio di Giovanni IV, il ducato bretone.

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La Castiglia fu invece insanguinata dalla guerra scoppiata per la successione ad Alfonso XI (1312-1350) fra Pietro il Crudele ed Enrico di Trastámara († 1379), figli del defunto re. Intervennero gli eserciti inglese e francese, sostenendo, rispettivamente, Pietro ed Enrico. Alla fine, fu Enrico a spuntarla, dopo aver ucciso il fratellastro Pietro a Montiel, in combattimento (1369). La terza guerra riguardò la successione al trono di Scozia, dopo la morte di re Robert Bruce, nel 1329. Il successore, David (1329-1371), non riuscí a regnare fino al 1357, poiché subí continue usurpazioni da parte del pretendente Edoardo Balliol († 1367), sostenuto dagli Inglesi. La Francia, ovviamente, appoggiò David Bruce. T. I.

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Come ha scritto lo storico Pasquale Villani, le forze inglesi, al comando diretto del re, vinsero sugli altezzosi e anacronistici francesi «grazie alle innovazioni apportate nella tecnica del combattimento e nelle armi. Particolarmente efficaci si dimostrarono le schiere di arcieri, dotate di un grande arco di facile maneggio, che consentiva un tiro piú frequente che non le balestre di cui si servivano le truppe francesi», mentre, per dirla con le parole di George M. Trevelyan, «i migliori arcieri vantati dai francesi erano mercenari italiani, i famosi balestrieri originari di Genova». Edoardo III prese Calais alla fine di un assedio durato due anni (1346-47), costituendola quale testa di ponte per eventuali attacchi da sferrare verso l’interno della Francia.

Nella pagina accanto un tratto delle mura e la porta di Saint-Michel a Guérande, città in cui, nel 1365, venne firmato l’accordo che pose fine alla guerra «delle due Giovanne». In basso miniatura raffigurante il combattimento fra Pietro il Crudele ed Enrico di Trastámara, da un’edizione dell’opera Anacephaleosis o Genealogía de los reyes de España di Alfonso di Cartagena. XV sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

Il Principe Nero

Dieci anni piú tardi, Edoardo di Galles, detto il Principe Nero (per il colore della sua armatura, 1330-76), figlio primogenito di Edoardo III, mosse dal territorio inglese dell’Aquitania e batté a Poitiers gli avversari (19 settembre 1356), catturando anche il re Giovanni II il Buono. Col trattato di Brétigny (8 maggio 1360) la monarchia riebbe gran parte di tutti i territori controllati dopo l’avvento dei Plantagenèti con Enrico II (1154-1189): Bretagna, Normandia, Angiò, Maine, Turenna, Aquitania (oggi Guienna), Poitou, Guascogna e tutti liberi dall’umiliante omaggio feudale alla Corona di Francia; da parte sua, Edoardo III lasciava decadere le pretese sul trono gigliato.

MEDIOEVO

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Vale la pena ricordare che Enrico II riuscí ad ampliare considerevolmente il proprio territorio nazionale in Europa, al punto che l’Inghilterra arrivò a confinare con regioni dell’attuale Spagna e a pochi chilometri dall’odierno Piemonte.

La Francia precipitò nel caos e la lotta di classe s’inasprí: i borghesi accusavano la corte per la sua politica filonobiliare e, dopo Poitiers, a Parigi scoppiò la rivolta dei mercanti, condotti dal console (prevost) Étienne Marcel (1315-58); a quella sommossa si aggiunsero le ribellioni dei contadini nelle campagne dell’Île-de-France (Jacquerie; vedi box a p. 84). Nel frattempo, le bande di soldati e cavalieri (routiers), smobilitati dalla fine delle ostilità con gli Inglesi, si dedicavano al saccheggio e a ogni sorta di violenze contro la popolazione, già decimata dalla peste del 1348. Carlo V il Saggio – succeduto al padre Giovanni II, morto a Londra, prigioniero degli Inglesi, nel 1364 – approfittando delle contraddizioni interne al movimento borghesepopolare, riuscí a riorganizzare l’amministrazione civile e militare. In seguito dichiarò nullo il trattato di Brétigny e, grazie al suo conestabile bretone Bertrand du Guesclin – che preferiva azioni di guerriglia alle grandi battaglie campali – in pochi anni strappò agli Inglesi tutte le regioni riconquistate da Edoardo III († 1377). Al figlio Riccardo II Bordeaux rimasero le città di Bordeaux, da cui prendeva l’appellativo, con una fascia di territorio dell’Aquitania, Brest, la Bretagna occidentale, (segue a p. 84)

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Dossier UN SECOLO DI BATTAGLIE I regni separati dal Canale della Manica si fronteggiarono per oltre un secolo, rivendicando corone e territori. Fu un

conflitto lungo e dall’esito altalenante, che si concluse senza alcun trattato di pace, ma con il sostanziale consolidamento delle rispettive posizioni. Un secolo di battaglie cruente, che fecero emergere personaggi immortali, prima fra tutti la «Pulzella d’Orléans», Giovanna d’Arco. BATTAGLIA DI CAEN (1346) Gli Inglesi invadono il Nord della Francia e assediano Caen. La città si arrende. BATTAGLIA DI BLANCHETAQUE (1346) Gli Inglesi guadano la Somme e puntano sulle Fiandre. BATTAGLIA DI CRÉCY (1346) Sebbene sia in palese inferiorità numerica, l’armata inglese, soprattutto grazie ai suoi espertissimi arcieri, riesce ad avere la meglio delle truppe francesi in una delle battaglie chiave della Guerra dei Cent’anni. ASSEDIO DI CALAIS (1346-1347) Gli Inglesi, dopo il trionfo di Crécy, attaccano la città di Calais e la espugnano. BATTAGLIA DI POITIERS (1356) Continuano le vittorie inglesi. A Poitiers un esercito di consistenza esigua accerchia e annienta i Francesi. BATTAGLIA DI AURAY (1364) Gli anglo-bretoni si impongono contro i francobretoni. BATTAGLIA DI AZINCOURT (1415) Il 25 ottobre, una settantina di chilometri a sud di Calais, su un terreno appesantito dalle piogge, la cavalleria francese subisce una cocente sconfitta per mano degli arcieri inglesi.

La morte sul rogo di Giovanna d’Arco, olio su tela di Hermann Anton Stilke. 1843. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.

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Calais

REGNO D’INGHILTERRA

Bourges

Contea La Marche Ducato del del Poitou Limoges Borbonese

Angoulême

ATLANTICO

Limosino

Lionese

Valence

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Ducato di Savoia

Delfinato

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Contea di Borgogna

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Castillon

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Tours

Duc. di Turenna

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Chinon

Poitiers La Rochelle

Strasburgo

Ducato di Lorena

Maine

d’Angiò

Magonza

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Metz

Contea di Champagne

Verneuil Orléans Patay Jargeau Ducato Baugé Beaugency Blois

Rennes

Nantes

OCEANO

Compiègne

Loi

Auray

Parigi

Ducato di Normandia

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Ducato di Lussemburgo

Rodano

Ducato di Bretagna

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ISOLE DEL CANALE

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Ducato Cahors di Garo Agen Avignone Contea di Contea Guyenne nna Arles di Tolosa ca Provenza Nizza Contea di Tolosa o Montpellier Aix d a Armagnac gu Narbona P I R Ducato E N oussillon R i d E I MAR REGNO Saragozza MEDITERRANEO D’ARAGONA Barcellona

Costanza

Regno di Francia nel 1429

Territori borgognoni sotto Enrico VI

Regno francese di Bourges sotto Carlo VII

Domini inglesi

CORSICA

Domini anglo-borgognoni

ASSEDIO DI ROUEN (1418) Gli Inglesi compiono un grande passo avanti nella conquista del ducato di Normandia, espugnando Rouen.

BATTAGLIA DI VERNEUIL (1424) L’esercito franco-scozzese non ripete l’impresa di Baugé e viene annientato in una delle battaglie piú sanguinose del conflitto.

BATTAGLIA DI BAUGÉ (1421) La prima grave sconfitta inglese nella Guerra dei Cent’anni si verifica a Baugé, per mano di un’armata franco-scozzese. Vi trova la morte Thomas, duca di Clarence, fratello del re Enrico V.

ASSEDIO DI ORLÉANS (1428) I Francesi, spinti dall’eroina Giovanna d’Arco, ottengono una schiacciante vittoria sull’esercito inglese. Le sorti della Guerra dei Cent’anni si rovesciano.

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Dossier Le rivolte sociali

Campagne e città in fermento In Francia e in Inghilterra, durante la Guerra dei Cent’anni, il malessere sociale alimentato dagli arruolamenti forzosi, dalla crisi economica e, soprattutto, dall’eccessiva pressione fiscale, sfociò in molte rivolte popolari, tutte spietatamente represse. Nel 1381 e nel 1450, l’Inghilterra fu teatro di ben due rivolte che coinvolsero i contadini e l’artigianato cittadino, soprattutto della parte sud-orientale del Paese. La prima fu guidata da Wat Tyler, esplose nell’Essex e nel Kent, e finí per minacciare la stessa Londra. La rivolta di Tyler – alla fine catturato e giustiziato – fu provocata dall’introduzione di un nuovo testatico per finanziare la guerra – poll tax – e si saldò con i nuovi fermenti ereticali diffusi tra il popolo, che si rifacevano alle teorie del teologo John Wycliffe († 1384). La seconda rivolta fu capeggiata da Jack Cade e caratterizzata dalla presenza di un numero crescente di soldati che, tornati dal fronte, erano inoccupati e faticavano a reinserirsi nella vita civile. I rivoltosi arrivarono a occupare i sobborghi meridionali di Londra e sarebbero riusciti a far prigioniero lo stesso re, Enrico VI, se l’arcivescovo di Canterbury non li avesse persuasi a desistere dalla ribellione. Cade, in ogni caso, fu catturato e giustiziato proprio come Tyler. Anche la Francia fu attraversata da due importanti ribellioni. La prima, nota come Jacquerie – nome di etimo incerto, probabilmente derivante da Jacques Bonhomme, sostantivo spregiativo con cui erano indicati i contadini – iniziò nel 1358, nel Cherbourg e Calais, teste di ponte ancora decisive sia dal lato economico che militare. La tregua trentacinquennale (1380-1415) che seguí alla scomparsa di Carlo V ebbe effetto soltanto sui rapporti fra i due Paesi. Nel 1380, con la salita al trono gigliato di Carlo VI il Folle – sotto reggenza per la giovane età, e poi per la sopravvenuta pazzia (1392), che si alternava a momenti di lucidità – in Francia eruppe la guerra civile. Lo scontro oppose gli armagnacchi – cioè i partigiani di Luigi, duca d’Orléans, fratello di Carlo VI, capeggiati dai conti d’Armagnac – ai borgognoni, sostenitori dello zio del re, Filippo II l’Ardito di Borgogna (1363-1404), il

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Beauvais, e fu determinata dalla pressione fiscale e dalle distruzioni dei raccolti a opera dei routiers, le truppe mercenarie disoccupate in tempo di pace. La Jacquerie si estese a buona parte della Francia settentrionale, comprese la Normandia e la Piccardía, ma, alla fine, le milizie reali e aristocratiche ebbero ragione dei ribelli e il capo, Guillaume Cale, fu giustiziato (1358). La ribellione contadina si saldò con quella urbana promossa dal prevosto delle arti parigine, Étienne Marcel, anch’egli catturato e giustiziato. La repressione della Jacquerie contò almeno 20 000 vittime. Nel 1378 iniziò una nuova rivolta in Linguadoca, nota come «Tuchinaggio», forse dall’antico francese Tuchins – miserabili –, che poté essere definitivamente repressa solo nel 1382. Fra il 1412 e il 1413, a causa dell’esosità delle tasse e degli obblighi di leva, insorse Parigi, sotto la guida del macellaio Simon le Coustellier, detto Caboche, e dei suoi sostenitori, i Cabochiens. Essi tentarono di consegnare Parigi ai borgognoni, ma gli armagnacchi e le milizie regie riuscirono ad aver ragione degli insorti. Si consideri che tutte le rivolte descritte non ebbero né programmi politici e sociali chiari – tendenti alla sovversione dell’ordine esistente per far posto a un altro –, né capi all’altezza, né una razionale e solida organizzazione, e quindi non possono essere definite «rivoluzioni», sul modello di quelle otto-novecentesche. T. I. cui figlio, Giovanni I il Senza Paura (1404-19) aveva fatto uccidere Luigi (1407). Essendo signori anche delle Fiandre, i borgognoni conducevano una politica filoinglese, al contrario degli Armagnac, i quali, avendo i loro possessi sotto Londra sin dal trattato di Brétigny, ambivano staccarsene. Tuttavia Londra non poté approfittare súbito dell’occasione offerta dai borgognoni (vedi box a p. 90).

Dilaga il malcontento

La corona inglese fu messa in pericolo già nel 1381 dalla Peasants’ Revolt: una rivolta di artigiani, operai, salariati della città e della campagna, braccianti, nonché contadini agiati, che si ribellarono a censi, febbraio

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In alto miniatura raffigurante le violenze che si consumarono in Francia durante la rivolta della Jacquerie, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library. Nella pagina accanto Londra, Abbazia di Westminster, Cappella di Edoardo il Confessore. Particolare del monumento funebre di Riccardo II, re d’Inghilterra dal 1377 al 1399, morto un anno piú tardi. 1396-1399.

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Dossier sulla legge salica

Cosí parlò l’arcivescovo Nel primo atto dell’Enrico V, William Shakespeare dà voce all’arcivescovo di Canterbury, che cosí si pronuncia sulla legittimità delle rivendicazioni del re inglese al trono di Francia: «E allora datemi ascolto, signore mio sovrano e voi, Pari, votati, persona vita e servigi, al trono del vostro re. Un solo impedimento potrebbe opporsi alle vostre rivendicazioni sulla Francia, ed è la massima attribuita a Faramondo: “In terram salicam mulieres ne succedant”: “In terra salica non sia data alle donne successione al trono”. Ora, arbitrariamente identificano i francesi col reame di Francia quel “terra salica”; e ritengono Faramondo l’autore di quella legge che esclude le donne dalla successione. In chiari termini affermano peraltro i loro stessi giurisperiti che “terra salica” è il territorio tedesco sito tra i fiumi Sala e Elba dove Carlomagno, soggiogati i sassoni, si lasciò indietro un certo gruppo di francesi. I quali, avendo a sdegno le donne germaniche per certo loro malcostume e disonesta vita, sancirono quella legge nell’intento di escludere le donne dal trono in quella terra salica, che giace, come ho detto, tra l’Elba e il Sala: oggi denominata Meisen dai germanici. Appare pertanto manifesto che la legge salica non fu sancita per il reame di Francia, attesoché i francesi possedettero la terra salica non prima di quattrocentoventun anni dalla morte di re Faramondo considerato a torto autore di questa legge, e che morí l’anno di nostra salute 426; mentre Carlomagno soggiogò i sassoni e fondò la colonia francese sul Sala nell’805. Narrano inoltre i loro storici che re Pipino (il quale depose Cilderico) in qualità di erede universale in linea retta di Blitilde, figlia di re Clotario, avanzò pretese e titolo alla Corona di Francia. Lo stesso Ugo Capeto, che usurpò la corona di Carlo duca di Lorena – unico erede maschio in linea retta e del ceppo di Carlomagno – per dare una parvenza di legittimità a un titolo impuro e nullo al cospetto del vero, si presentò in qualità di erede di madonna Lingarda figlia di Carlomanno figlio di Luigi imperatore, figlio a sua volta di Carlomagno. Neanche Luigi X unico erede dell’usurpatore Capeto, si sentí di poter portare con tranquilla coscienza la corona di Francia prima di essersi accertato che la leggiadra regina Isabella sua nonna – discendente in linea retta da madonna Ermengarda, figlia del sullodato Carlo duca di Lorena – aveva, per diritto di matrimonio, riallacciato la sua discendenza da Carlomagno alla Corona di Francia. È pertanto chiaro come la luce del sole che il titolo di re Pipino, le pretese di Ugo Capeto, la pace della coscienza

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di re Luigi X, tutto appare legato a un diritto e titolo di erede femmina; e ciò sussiste pei re di Francia anche ai dí nostri, per quanto si sforzino di far valere questa legge salica contro il vostro diritto di discendente dalla linea femminile; e preferiscano impigliarsi in tutta una rete di pretesti, piuttosto che esporre alla luce i loro titoli sbilenchi usurpati a voi e ai vostri progenitori (...). Ricada la colpa sul mio capo, o temuto sovrano; ché nei Numeri è scritto: “Se muore il figlio maschio l’eredità passa alla figlia”. Scenda in campo, vostra grazia, a difendere il suo diritto. Spieghi al vento la bandiera del sangue; rivolga lo sguardo ai suoi gagliardi antenati! Andate, mio temuto signore, alla tomba del vostro bisavolo [Edoardo III] che vi trasmise i vostri titoli legittimi; invocate il suo spirito eroico e quello del vostro grande zio Edoardo il Principe Nero che sul suolo di Francia seminò la morte con la disfatta dell’intero esercito francese mentre il suo potentissimo padre, di sulla collina, contemplava seduto, sorridendo, il suo leoncello menar lo sterminio e la strage tra la nobiltà francese. O grandi inglesi che con metà delle loro forze bloccarono l’intero esercito dei francesi gonfi d’orgoglio; e lasciarono l’altra metà tutta fuor della mischia, seduta al fresco, a ridere!» (Enrico V, Atto primo, Scena seconda). febbraio

MEDIOEVO


In alto miniatura raffigurante Riccardo II che, condotto prigioniero a Londra da Enrico IV Bolingbroke, è costretto ad abdicare, da un’edizione della Prinse et mort du roy Richart. 1401-1405. Londra, British Library. Nella pagina accanto tavola raffigurante Enrico V realizzata per la raccolta delle opere di William Shakespeare illustrata da Henry Courtney Selous e pubblicata da Cassell & Co. 1865.

aveva preso nome dal neerlandese lolle, «mormorare, pregare», n.d.r.) – erano guidati dall’eroe di Crécy e Poitiers, Wat Tyler (1341-81) e dal sacerdote John Ball (1330-81), il quale si rifaceva alle tesi di un professore dell’Università di Oxford, John Wycliffe (1324-84), che pervadevano i ceti meno abbienti e piú umili del Paese, gettando i semi della lotta sociale.

corvée e imposizioni signorili per annullare le incongruenze maggiori del regime feudale e del fiscalismo regio. I lollardi – cosí furono definiti i ribelli (facendo propria la denominazione di un’associazione religiosa nata dopo il 1300, ad Anversa, all’indomani di una pestilenza, che

Teorie sovversive

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Wycliffe predicava la riforma della Chiesa inglese, opponendo l’autorità della Bibbia a quella del papa. Col tempo, le sue idee si diffusero fra la popolazione piú povera, trasformando il movimento – in principio di mero tenore teologico-confessionale

– in uno schieramento che mirava a istituire una società basata sull’uguaglianza economica e classista. Il Trono dei Leoni dovette inoltre adoperarsi per contenere le prerogative del Parlamento. Nel 1399 una congiura parlamentare portò alla deposizione di Riccardo II, con l’aiuto della famiglia Percy, ponendo sul trono il cugino, Enrico IV Bolingbroke: primo re del ramo cadetto dei Lancaster. Riccardo II era accusato di non essere severo con gli eretici e debole in politica estera; fu ucciso l’anno dopo nel castello di Pontefract. Consci dello stato di anarchia e della debolezza in cui versava la Corona, i borgognoni – resisi conto che da soli non potevano avere la meglio sugli (segue a p. 88)

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Dossier Gli Inglesi ad Azincourt

Nel giorno di san Crispino Nell’Enrico V di William Shakespeare vengono anche rievocate le vibranti parole con cui il sovrano spronò le sue truppe prima della battaglia di Azincourt: «Oggi è la festa di San Crispino; chi sopravvivrà e tornerà a casa sano e salvo, quando sentirà nominare questo giorno si alzerà sulla punta dei piedi e gonfierà il torace anche soltanto al nome di San Crispino. Chi avrà vissuto questa giornata, se vedrà gli anni tardi, ogni anno alla vigilia darà un banchetto ai suoi vicinanti e dirà: “Domani è San Crispino” e rimboccandosi la manica mostrerà le sue ferite e dirà: “Queste le ho prese alla giornata di San Crispino”. I vecchi dimenticano: e anche lui avrà dimenticato tutto, ma ricorderà gli atti compiuti in quella giornata fors’anche arrotondando un po’ le cifre... Saranno diventati, i nostri nomi, consueti alle labbra di tutti come nomi di famiglia: Enrico il re, Bedford ed Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester torneranno vivi al ricordo tra quelle coppe traboccanti di spume: e questa storia il brav’uomo la conterà a suo figlio e Crispino e Crispiniano non tramonteranno mai, da quel giorno all’ultima ora del mondo. E anche noi saremo ricordati, noi, i pochi – i felicemente pochi – un manipolo di fratelli; perché chi oggi versa il suo sangue con me sarà per me un fratello. Chi fu di umile condizione fino a ieri, da oggi appartiene alla nobiltà; e i nobili d’Inghilterra rimasti a casa a dormire malediranno se stessi per non essere stati oggi qui; e sentiranno la loro nobiltà una nobiltà da due soldi, quando ascolteranno un uomo qualsiasi raccontare di aver combattuto con noi nella giornata di San Crispino» (Enrico V, Atto quarto, Scena terza). Il mattino della battaglia di Azincourt, olio su tela di John Gilbert. 1884. Londra, Guildhall Art Gallery.

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Dossier le innovazioni militari

Il tramonto della cavalleria La «Guerra dei Cent’anni» rappresentò una «rivoluzione» anche sul terreno degli armamenti e delle tattiche di combattimento, contribuendo all’affermazione di un modo nuovo di combattere, attraverso l’utilizzo massiccio di fanterie di lancieri e alabardieri, e anche di balestrieri e di arcieri. Pertanto, gli eserciti iniziarono a essere composti prevalentemente da fanterie e, progressivamente, si spezzò l’equazione nobiltà-virtú. Il valore militare cessò di essere una componente esclusiva del mondo aristocratico-cavalleresco, diventando appannaggio di grandi «masse umane di manovra». La composizione degli eserciti cambiò, e cosí la tattica. La cavalleria andò progressivamente perdendo la sua importanza originaria, mentre i suoi effettivi si ridussero di numero a vantaggio della fanteria. Sul campo di battaglia, la disposizione dei cavalieri fu riservata alla retroguardia e alle ali degli schieramenti, con funzione di esplorazione e disturbo delle schiere nemiche oltre che, in caso di ritirata o di sconfitta, di «copertura» dei fanti. Riguardo alla nuove armi, si pensi solo alla diffusione del longbow – l’«arco lungo» inglese, in legno di frassino – alto circa 2 m e di enorme potenza di lancio – 300 m circa – che aveva armagnacchi – invitarono il giovane Enrico V, succeduto al padre Enrico IV nel 1413, a reclamare il trono di Francia. Indotto dalle valide tesi giuridiche successorie esposte dall’arcivescovo di Canterbury e, in specie, dai suoi finanziamenti (l’arcivescovo temeva che i Comuni confiscassero la metà dei beni ecclesiastici e quindi cercava la benevolenza regale), Enrico V – definito «il primo generale moderno» (Trevelyan) – raccolse un esercito nazionale e sbarcò nel 1415 in Normandia. I Francesi, che evidentemente non avevano tratto alcun insegnamento dalla sconfitta patita a Crécy, furono clamorosamente sconfitti dai longbowmen e dalla fanteria leggera inglese ad Azincourt il 25 ottobre 1415. Secondo fonti del tempo di Shakespeare, gli Inglesi schierarono 12 000 uomini e i Francesi 60 000: tra i primi vi sarebbero stati appena 29 caduti,

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In alto ritratto di Enrico V, olio su tavola di scuola inglese. Fine del XVI-inizi del XVII sec. Londra, National Portrait Gallery. A destra miniatura raffigurante la battaglia combattuta a Le Mans nel 1424, durante il regno di Carlo VII di Francia, da un’edizione delle Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

seminato morte tra la cavalleria francese sui campi di Poitiers e Azincourt, scompaginandone le linee. Un vasto utilizzo ebbero anche i nuovi ritrovati dell’artiglieria militare – cannoni, bombarde e colubrine –, che fecero la loro prima comparsa nella battaglia di Crécy (1346). L’arco lungo, probabilmente di origine gallese, aveva una gittata pressoché uguale a quella della balestra, ma velocità di tiro e forza di penetrazione maggiori, il che spinse la tecnologia febbraio

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Miniatura raffigurante la presa di una città da parte delle truppe di Edoardo IV d’Inghilterra, armate di longbow e cannoni, da un’edizione delle Anciennes et nouvelles chroniques d’Angleterre. 1470-1480. Londra, British Library.

militare a migliorare le armature dei soldati che divennero sempre piú complesse e costose, tanto che, nel 1450, il costo di un’armatura completa era arrivato ad assorbire ben due mesi di paga. Durante tanti anni di guerra, la necessità di disporre di vaste riserve di uomini armati, per tempi lunghi, rese necessario il superamento del vecchio sistema di arruolamento feudale – l’arrière ban –, con il quale la mobilitazione dei soldati era limitata a non piú di quattro mesi, venendo poste le premesse per l’imposizione della «leva obbligatoria». Già Carlo VI di Valois, sull’esempio inglese, aveva stabilito che, in ogni distretto rurale, si procedesse ad arruolare arcieri che avrebbero dovuto costantemente «tenersi in allenamento» durante l’anno, anche attraverso l’organizzazione di appositi tornei e «gare con l’arco». Nel 1445, Carlo VII impose la costituzione di quindici «compagnie d’ordinanza», in servizio militare permanente, equipaggiate e stipendiate dalla Corona, composte ciascuna di 100 lance, che divennero le unità basilari di ogni grande formazione militare. Ogni lancia era costituita da circa sei soldati, diversamente armati, in

rappresentanza delle varie «specializzazioni professionali» in cui cominciava ad articolarsi il «mestiere delle armi». In genere, ogni lancia si componeva di tre cavalieri, uno armato pesantemente e gli altri due «alla leggera», e di tre fanti, ovvero arcieri, alabardieri e balestrieri e, piú tardi, fucilieri. In conseguenza di questa vasta ristrutturazione organizzativa delle truppe e del relativo armamento, e salvo la presenza di truppe mercenarie – le «compagnie di ventura» – gli eserciti divennero veramente «nazionali», rappresentativi, cioè, dell’intero corpo sociale della nazione. T. I. Miniatura raffigurante una battaglia combattuta su uno dei ponti sulla Senna, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library.

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Dossier Le guerre civili

Il sangue (blu) scorre a fiumi Mentre si combatteva la Guerra dei Cent’anni, la Francia e l’Inghilterra furono travolte anche da terribili conflitti civili. In Inghilterra si affrontarono i Lancaster e gli York, entrambi con forti pretese sul trono, allora retto dall’incapace Enrico VI. La guerra imperversò per circa trent’anni (1455-1485), finché la battaglia di Bosworth Field, nel 1485, non diede il trono a Enrico VII Tudor, imparentato sia con i Lancaster che con gli York. In Francia si affrontarono il conte di Armagnac, Bernardo VII, e il duca di Borgogna, Giovanni senza Paura. La guerra civile prese nome dalle famiglie che ne furono protagoniste: armagnacchi e borgognoni. I primi si schierarono, contro gli Inglesi, con il re di Francia, mentre i secondi appoggiarono gli Inglesi e il loro re, Enrico VI. Il conflitto iniziò nel 1407, a seguito dell’uccisione del fratello di Carlo VI di Valois, Luigi, duca d’Orléans, a opera di Giovanni senza Paura. In tal modo, Giovanni mirava ad acquisire maggior potere a corte, ma non immaginava di dar vita a una serie interminabile di uccisioni, che sfociarono in una vera e propria guerra intestina. La morte di Luigi spinse il gran conestabile di Francia, Bernardo d’Armagnac, suocero del giovane Carlo d’Orléans, figlio di Luigi e suo erede, a vendicarne la morte, muovendo guerra a Giovanni. In un primo momento il conflitto, destinato a durare fino al 1435, vide in vantaggio il duca di Borgogna, che riuscí ad assassinare Bernardo e a occupare Parigi (1418). Con l’appoggio degli Inglesi, il ducato borgognone si ingrandí a spese del regno e dei Paesi limitrofi, incorporando Fiandre, Brabante, Limburgo, Hainaut e Franca Contea, raggiungendo il Mare del Nord. Nel 1419 Giovanni di Borgogna fu assassinato a Montereau, presso Parigi, da un sicario assoldato da Carlo VII, mentre il figlio, Filippo il Buono († 1467), assunse la guida del ducato e mosse guerra contro gli armagnacchi e il re. Solo nel 1435, la pace di Arras, stipulata tra i borgognoni e il re di Francia, pose fine al conflitto. In base all’accordo, il duca di Borgogna riconosceva

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legittimo sovrano di Francia Carlo VII e rinunciava ad appoggiare gli Inglesi, conservando l’integrità territoriale dei suoi domini. Da quel momento, inoltre, i borgognoni avrebbero combattuto contro gli Inglesi a fianco di Carlo VII e fino alla conclusione della guerra. La pace di Arras non concluse le faide nobiliari. Appoggiata dagli Inglesi, nel 1439, la Praguerie – una nuova ribellione aristocratica cosí detta dalla rivolta degli Hussiti praghesi – travolse la Francia, coinvolgendo anche il Delfino – futuro Luigi XI – nella ribellione contro il padre. Carlo VII, però, riuscí a domarla nel 1440. T. I.

In alto miniatura raffigurante l’ingresso dei borgognoni a Parigi, nel maggio 1418, da un’edizione delle Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra il Crocifisso detto «di Bosworth», poiché sarebbe stato trovato sul luogo in cui, nel 1485, si combatté l’omonima battaglia, che pose fine alla Guerra delle Due Rose. Ante 1485. Londra, Society of Antiquaries.

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mentre i secondi ne avrebbero contati 10 000. Secondo studi piú recenti, le forze in campo sarebbero state pari, rispettivamente, a circa 5900 (con 112 morti) e 36 000 (con poco meno di 10 000 morti e 1500 nobili fatti prigionieri). Un anno piú tardi, a Valmont (vicino Harfleur, nei pressi di Le Havre) Enrico ebbe ancora la meglio su un avversario superiore di numero. Nel 1417 si registrò la vittoria navale degli Inglesi nella battaglia della Senna e, il 19 gennaio 1419, espugnando Rouen, il re inglese impose i propri diritti dinastici (vedi «Medio-

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evo» n. 264, gennaio 2019; anche on line su issuu.com).

La principessa poliglotta

Col trattato di Troyes (1420), Carlo VI designava proprio successore Enrico V e la discendenza, diseredava il delfino Carlo, e concedeva al re inglese la mano di sua figlia, Caterina. Fanciulla, che, stando ancora una volta al Bardo, iniziò a imparare l’inglese ancor prima di Azincourt, probabilmente indotta all’arte dalla madre Isabella, che dirigeva il marito Carlo VI alla stessa stregua di un fantoccio con il pretesto della di lui

minorità psichica. Caterina trasmise la malattia mentale di suo padre a suo figlio, Enrico VI, il quale iniziò a dare i primi segni di squilibrio mentale proprio dal momento in cui finí la Guerra dei Cent’anni. Aquitania, Bretagna, Normandia, Picardia, Champagne e Borgogna entravano nella diretta amministrazione inglese; la stessa Île-de-France, con Parigi, era finalmente sotto l’influenza di Londra, nemmeno Enrico II l’aveva conquistata. Nel 1422 morirono Enrico V (31 agosto) e Carlo VI (21 ottobre), per cui il figlio dell’Inglese, di otto mesi

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Dossier giovanna d’arco

La Pulzella d’Orléans Giovanna d’Arco resta ancora oggi un punto di riferimento importante nella storia dello sviluppo dell’identità nazionale francese. Tuttavia, scarse e incerte sono le notizie della sua infanzia. Nacque nel 1412 in una famiglia di contadini, a Domrémy, borgo della Lorena francese, da Jacques d’Arc e Isabelle Romée, e, fin dall’ età di tredici anni – secondo quanto dichiarò al processo a cui fu sottoposta – ebbe visioni mistiche dei santi Michele, Caterina e Margherita, che la spinsero a mettersi al servizio del Delfino, Carlo VII, per liberare la Francia dagli Inglesi. Incontratasi con il Delfino nel castello di Chinon, nella primavera del 1429, Giovanna persuase il re a inviarla a Orléans – da tempo sotto assedio inglese – con un’armata. Sebbene priva di qualsiasi carica militare che le conferisse potere sulle truppe, la donna galvanizzò i soldati con il suo ardore mistico, riuscendo a liberare dalla morsa inglese la città sulla Loira. Giovanna impose alle truppe un trattamento piú umano verso i civili e i prigionieri, bandí le prostitute e il turpiloquio, impose la messa e la confessione, cercando di «moralizzare» i combattenti. e ventitré giorni e sotto la reggenza del duca di Bedford, cinse entrambe le Corone. Tuttavia, come ha scritto Joseph Calmette, «gli inglesi non avevano osato far consacrare il loro re Enrico VI nella storica cattedrale [di Reims], che pure era in loro possesso». Allo spodestato delfino restarono le province centro-meridionali; gli armagnacchi lo convinsero a farsi incoronare in Bourges come Carlo VII (1422), sebbene egli stesso dubitasse del valore giuridico titolare, non essendo stato investito a Reims dell’alta autorità. I territori del re di Bourges erano soggetti alla pressioni inglesi, ma, com’era accaduto dopo il 1364, la monarchia fu aiutata dalla provincia, legata ai propri re. Il massimo esempio del sentimento popolare

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Particolare di un ritratto di Giovanna d’Arco, con indosso la corazza. 1485 circa. Parigi, Archives Nationales.

Dopo la liberazione di Orléans, la Pulzella – come fu chiamata per la sua «verginità» – guidò l’esercito in direzione di Reims, la conquistò e Carlo VII vi fu incoronato re di Francia. Tuttavia, la crescente popolarità, accompagnata da alcuni insuccessi militari contro gli Inglesi – Parigi non era stata ancora presa – creò a Giovanna molti nemici, soprattutto negli ambienti di corte e nelle alte gerarchie militari. Nel 1430, mentre combatteva sotto le mura di Compiègne, fu catturata dai borgognoni, che la vendettero agli Inglesi per 10 000 scudi, mentre Carlo VII non fece nulla per tentare di liberarla. Condotta prigioniera a Rouen, in Normandia, territorio occupato dagli Inglesi, Giovanna fu messa sotto processo e imputata di stregoneria, blasfemia ed eresia. La competenza processuale ricadeva sul vescovo di Beauvais, Pierre Cauchon, nella cui diocesi era avvenuta la cattura di Giovanna e che, in quel periodo, si trovava a Rouen. Cauchon si adoperò per organizzare un autentico «processo farsa», in spregio a ogni garanzia giuridica

che esprimeva in forma religiosa i bisogni di natura politica e sociale fu quello dell’eroina nazionale Giovanna d’Arco (vedi box in queste pagine), che risultò decisiva nella liberazione d’Orléans (8 maggio 1429) e nella battaglia di Patay (18 giugno).

Catturata e venduta

Carlo VII il Vittorioso venne finalmente consacrato a Reims il 17 luglio, presente Giovanna. La Pulzella fu catturata a Compiègne, il 24 maggio 1430, dai borgognoni, che per 10 000 scudi d’oro la vendettero agli Inglesi. Questo ultimi la condannarono al rogo a Rouen, il 30 maggio 1431, dopo averla «processata e giustiziata come strega» (Rinaldo Comba), ma la sua scomparsa non frenò la reattività francese.

Attraverso la mediazione di papa Eugenio IV (1431-47), Carlo VII si riconciliò con i borgognoni, e, con il trattato di Arras (21 settembre 1435), riconobbe l’indipendenza del ducato di Borgogna, Stato che comprendeva anche Fiandre, Brabante, Lussemburgo e Olanda: in cambio, il duca rompeva con l’Inghilterra. Le successive battaglie di Gerbevoy (1435), Formigny (1450) e Castillon decisero le sorti della guerra. Enrico VI fu privato del titolo di re di Francia nel 1436 in seguito agli avvenimenti succedutisi dopo la stipula del Trattato di Arras. Un mese e 18 giorni dopo il 29 maggio 1453 – data della caduta di Costantinopoli –, a Castillon, il 17 luglio, per la prima volta nella storia europea, l’uso del cannone si rivelò febbraio

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Giovanna d’Arco, armata di spada e con uno stendardo, in un disegno sul margine di una pagina dei registri del Parlamento di Parigi che contiene annotazioni sull’assedio di Orléans. 1428-1436. Parigi, Archives Nationales.

dell’imputata, al fine di ottenere dai giurati – insigni teologi e canonisti – un verdetto di colpevolezza, fortemente voluto dagli Inglesi. Il processo si svolse in un clima di intimidazione e illegalità e si concluse con la sentenza di colpevolezza dell’imputata che, pertanto, venne condotta al rogo il 30 maggio 1431, nella Piazza del Mercato di Rouen. I suoi resti furono quindi dispersi nella Senna. Riconquistata la Normandia, nel 1450, Carlo VII si adoperò presso il papa, Callisto III (1455-1458), affinché il processo subisse una revisione, e la richiesta venne accolta: nel 1456 il procedimento giudiziario a carico di Giovanna venne annullato, assieme a tutte le accuse mosse contro di lei, mentre Cauchon – nel frattempo morto – fu scomunicato. Nel 1894 ebbe inizio il processo di beatificazione della Pulzella, conclusosi nel 1909, con pronuncia favorevole e, alcuni anni dopo, nel 1920, Giovanna venne ufficialmente dichiarata santa e patrona di Francia. T. I. determinante, favorendo i Francesi che sconfiggevano definitivamente gli avversari: «Con la polvere pirica o da sparo caddero, infatti, le mura della città-stato e fu facilitato il sorgere delle grandi nazioni in Europa» (Achille Albonetti), che si vennero a formare cosí come le vediamo oggi quale «risposta diretta alle sanguinose guerre di religione dell’inizio del XVII secolo» (John Agnew). La guerra finí ufficialmente solo il 29 agosto 1475, con il trattato di Picquigny, dove Luigi XI il Prudente di Francia ed Edoardo IV d’Inghilterra siglarono la pace che poneva fine a un’epopea bellica di 138 anni. Agli Inglesi restò solo Calais, che persero nel 1558, riconquistata dalle truppe francesi del duca Francesco di Guisa (1519-63).

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Come ha scritto Armando Saitta, dalla Guerra dei Cent’anni «la Francia usciva economicamente esausta, ma con una nuova coscienza nazionale e con una organizzazione burocratica e militare centralizzata; l’Inghilterra invece usciva corrosa da gravi crisi civili e costretta a trasformare la sua politica: espulsa quasi completamente dal continente, essa diveniva, anche politicamente un’isola, e iniziava la propria fortunata trasformazione in paese marinaro e commerciale». E da qui l’odio e l’indifferenza britannici per le «cose»europee, viste unicamente in guisa di vantaggio e non in maniera etico-unitaria. D’altronde, nel corso del conflitto che poneva fine al Medioevo

nella parte occidentale dell’ex impero romano «anche i contadini umili erano abbastanza agiati e ben nutriti e la percentuale di agricoltori era in aumento rispetto a quelli in condizione servile. Effettivamente, la Guerra dei Cent’anni comprende la maggior parte del periodo della emancipazione dei servi della gleba in Inghilterra», afferma Trevelyan. E noi sottolineiamo che furono proprio le «gravi crisi civili» a porre le condizioni di lunghissimo periodo allo sviluppo della classe operaia di quella che fu poi la rivoluzione industriale inglese di tre secoli dopo.

Fine della sudditanza

La fine delle ostilità fece affiorare il senso della nazione e cosí venne meno il rapporto di sudditanza meramente formale fra il sovrano «unto del Signore» e il grande feudatario. Il feudalesimo continuò a permanere (sino alla Rivoluzione francese), ma inserito negli interessi dello Stato, ossia del re. La guerra aveva schierato, fra il 1337 e il 1453, a favore dei Valois: Aragona, Boemia, Castiglia, Genova, Maiorca, Scozia; sul lato dei Plantageneti: Aquitania, Borgogna, Bretagna, Fiandre, Hainaut, Lussemburgo, Navarra, Portogallo e Sacro Romano Impero. Bisogna però tener conto dei momentanei cambiamenti di bandiera da entrambe le parti. Per terminare, una curiosità. Nel corso dello scontro ultresecolare fu siglato un patto tuttora vigente: il Tratado de Aliança entre D. Fernando, duma parte, e Eduardo III de Inglaterra e o príncipe de Gales da outra, firmato a Londra il 16 giugno 1373. Sull’attuale validità ed efficacia di tale atto, scrive Vittorio A. Salvadorini: «Da notare la caratteristica della perpetuità del trattato; e se a qualcuno venisse in mente di irridere la

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Dossier Barbablú

Barone e serial killer Negli anni in cui, con la riconquista di Parigi, la Francia collezionava successi nella lotta contro gli Inglesi, l’opinione pubblica fu colpita da un evento sconcertante: la condanna per stregoneria, da parte dell’Inquisizione, di uno dei personaggi piú in vista della corte di Carlo VII, il maresciallo di Francia e capitano regio Gilles de Rais, barone di Rais e conte di Brienne. Gilles fu uno dei protagonisti militari nella guerra contro l’Inghilterra, conobbe Giovanna d’Arco e le fu amico. Intorno al 1435, però, si allontanò dalla scena pubblica e si ritirò nel suo castello di Machecoult, dove, tra spese e lussi eccessivi, si ridusse, ben presto, sul lastrico.

In alto miniatura raffigurante la morte di John Talbot nella battaglia di Castillon, combattuta il 14 luglio 1453, da un’edizione delle Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura raffigurante il re Carlo VII in compagnia dei suoi dignitari e di Giovanna d’Arco, da un’edizione delle Vigiles du roi Charles VII. 1477-1483 Rouen, Bibliothèque municipale.

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In seguito, cominciò a frequentare ambigue amicizie e a praticare l’alchimia e la magia nera, facendo prigionieri fanciulli – in genere figli di famiglie contadine – e sottoponendoli a torture e a violenze di ogni tipo. Molti di essi, molto probabilmente, furono uccisi nel corso di riti demoniaci. Nel 1440, dopo aver rapito e ucciso un ecclesiastico, Gilles fu denunciato al tribunale episcopale di Nantes, processato e riconosciuto colpevole di stregoneria. Il vescovo, pertanto, ne ordinò l’esecuzione. Il suo fu uno dei pochi casi, ben noti, di processo per stregoneria a carico di un uomo! Nel XVII secolo, dalla sua terribile storia trasse ispirazione Charles Perrault, per scrivere la favola di Barbablú, il sanguinario aristocratico francese piú volte uxoricida. T. I. Gilles de Laval, Sire di Rais, olio su tela di Éloi Firmin Féron. 1835. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

condizione, basterà ricordare che il 12 ottobre 1943 Winston Churchill annunciava alla Camera dei Comuni che, in forza del trattato stipulato nel 1373 fra Edoardo III d’lnghilterra e Ferdinando I di Portogallo, la Gran Bretagna aveva chiesto al governo di Lisbona di accordarle facilitazioni per la condotta della [seconda] guerra [mondiale] (si trattava dell’uso delle Azzorre, di cui gli Stati Uniti si sarebbero in ogni caso serviti, col consenso o meno del Portogallo); in effetti un trattato vecchio di 570 anni si faceva valere ancora, perché esso obbligava i due Paesi a “mutua e perpetua pace, amicizia, unione e alleanza”». Cosí come la polvere da sparo, ci ricorda Albonetti, pone fine al Medioevo, partorendo gli Stati nazionali, l’energia – dirompente o conservativa – diventa strumento di

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progresso, aggressione e difesa. Essa stessa determina cesure ed epoche storiche: moderna-industriale, contemporanea-nucleare, attraverso carbone, petrolio e atomo. La Guerra dei Cent’anni ha il merito di inventare la politica estera, scavalcare papato e impero e gettare Excalibur nel lago, segnando la fine dell’arma manuale. V Giovanni Armillotta

Da leggere Christopher Allmand, La Guerra dei Cent’anni. Eserciti e società alla fine del Medioevo, Garzanti, Milano 1990 Franco Cardini, Quella antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Mondadori, Milano 1995 (n. ed.) Philippe Contamine, La Guerra dei Cent’anni, il Mulino, Bologna 2007 Noël Coulet, Francia e Inghilterra nella Guerra dei Cent’anni, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età contemporanea, diretta da Nicola Tranfaglia e Massimo Firpo, UTET, Torino, Vol. II: il Medioevo, 2: Popoli e strutture politiche, 1986; pp. 623-650 Philippe Contamine, La guerra nel Medioevo, il Mulino, Bologna 2005

Franco Cardini, Giovanna d’Arco. La vergine guerriera, Mondadori, Milano 1999 Matei Cazacu, Barbablú. La vera storia di Gilles de Rais, Mondadori, Milano 2008 Ludovico Gatto, Storia universale del Medioevo, Newton Compton, Roma 2003 Gerd Krumeich, Giovanna d’Arco, il Mulino, Bologna 2008 Gabriella Piccinni, I mille anni del Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 1999 Larissa J. Taylor, Giovanna d’Arco e la guerra dei cent’anni, Bruno Mondadori, Milano 2010 Matthew E. Bunson, Dizionario universale del Medioevo, Newton Compton, Roma 2002

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medioevo nascosto liguria

Su e giú per le antiche pietre

di Chiara Parente

A ridosso di Albenga, nell’entroterra della Riviera ligure di Ponente, si snoda il corso dell’Arroscia, le cui acque attraversano una valle ricca di fascino e suggestione. Un fazzoletto di terra punteggiato da campanili, chiese e castelli e nel quale si susseguono borghi accomunati dalle vivaci e singolari testimonianze della fantasia di intere generazioni di scalpellini. In continuo «dialogo» con gli altrettanto vividi affreschi dei da Ranzo e di molti altri ignoti, ma valenti maestri

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un’estremità la piatta piana di Albenga, affacciata sul mare, con le sue serre, destinate all’orticoltura, e i suoi prati, meta invernale di un antico cammino della transumanza; dall’altra le malghe e i pascoli di Mònesi e Briga Alta con la poderosa cima del Monte Frontè (2152 m), nelle Alpi Marittime; in mezzo, a unire, anziché separare, la Valle Arroscia, che prende nome dal fiume che l’attraversa. Un’importante area di comunicazione, la cui strada matrice da secoli collega la Riviera ligure di Ponente all’Alta Langa Monregalese e al Basso Piemonte. Lasciata Albenga, punto apicale di costa per le valli che da lí si dipartono verso l’interno, una via a nord di Bastia, tra paesaggi di terra e di mare, risale la vallata, disseminata di centri storici medievali, custodi di chiese e castelli, ruderi e tesori d’arte. Dalla arteria viaria di fondovalle gli abitati si notano con estrema evidenza. Distesi nella pianura, adagiati sugli ondulati pendii o aggrappati alla cresta delle montagne, sono dominati da svettanti campanili ad alta cuspide. E girando in Valle Arroscia a uno sguardo attento non sfugge neppure il costante e sapiente uso della pietra: nei blasoni familiari sulle sovrapporte dei palazzi, nei portali scolpiti e nelle torri campanarie dei luoghi di culto, nei muretti a secco che delimitano le «fasce» dei

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terrazzamenti agricoli faticosamente ricavati sui dorsi di colline e montagne, nei ponti gettati tra le opposte rive di un torrentello. In queste amene contrade il mestiere del tagliapietre ha radici millenarie, risale al dinamico processo di formazione dei nuclei demici, avviato nei secoli X e XI. Un’età di passaggio, nel corso della quale si attua un decisivo cambiamento, che muta progressivamente il ruolo della regione, da allora in poi sede privilegiata per l’affermazione di un’economia di mercato.

Echi di antiche rivalità

Nell’XI secolo, dal punto di vista politico, la valle è vivacissima. I marchesi di Clavesana ne dominano un’ampia porzione, che comprende terre e castelli dalla piú prossima Riviera alle Alpi Liguri; alla metà del XII secolo si scontrano con i conti di Ventimiglia, che tentano di estendere il proprio potere nell’entroterra e con il Comune di Genova, che a quell’epoca ha già posto le premesse per la conquista dell’estremo Ponente. L’attuale linea di confine fra le province di Savona e Imperia, che taglia la Valle Arroscia tra Pogli e Ranzo, risulta in un certo qual modo una lontana eco di queste lotte. In tale contesto storico intraprendenti mercanti, accompagnati da lunghe carovane di muli, partendo dal porto di Albenga si inoltrano nei sentieri piú interni, febbraio

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per raggiungere gli itinerari europei, facendo crescere in maniera esponenziale le entrate dei signori e dei loro borghi. Schiere di contadini si impegnano a bonificare, coltivare e difendere un territorio non facile da lavorare. Generazioni di artisti decorano modesti templi con arcaici moduli iconografici, a testimoniare un’esistenza frugale, scandita dai ritmi agricoli. Il graduale miglioramento delle condizioni economiche della popolazione favorí la realizzazione di nuove costruzioni: palazzi nobiliari, edifici religiosi e civili con il conseguente aumento della domanda di manodopera qualificata nella lavorazione della pietra e nella decorazione dei manufatti. Cosí, nel Quattrocento, a Cènova si forma una scuola di maestri lapicidi dallo stile originale, capace di unire a elementi decorativi di ispirazione classica stilemi medievali e popolareschi (vedi box a p. 106). Da alcuni anni la pittoresca località, situata nella valletta secondaria della Giara di Rezzo e conosciuta in passato, poiché posta sul tracciato della via marenca (percorso che si snodava dall’entroterra al mare, donde il nome, n.d.r.), che collegava Oneglia alle Prealbe e al Piemonte, è inserita nel circuito Strade di Pietra insieme ai paesi di Rezzo e Lavina. A un quarto d’ora dall’abitato di Rezzo, in origine raccolto all’ombra del maniero che, appartenuto prima

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In alto Borghetto d’Arroscia. Veduta del paese, con, in primo piano, il ponte medievale a schiena d’asino, che supera l’Arroscia ed è tuttora praticabile a piedi. Nella pagina accanto uno dei numerosi ponti in pietra sul torrente Giara di Rezzo, un affluente dell’Arroscia.

ai marchesi di Clavesana poi alla nobile famiglia Ranieri Grimaldi e in seguito ai Pallavici, svetta ancora dall’alto, val bene una visita il santuario della Madonna delle Vigne o di Nostra Signora del Santo Sepolcro. Edificato nel 1401 su uno sperone roccioso a dominio dell’alta valle, è un’interessante esempio di architettura tardoquattrocentesca caratteristica della Liguria montana. All’esterno è ingentilito da un portico rinascimentale sorretto da colonne in pietra e da un elevato campanile a cuspide ancora goticheggiante. All’interno conserva una suggestiva cripta con una statua di Cristo morto, superbi stalli in monoliti scolpiti e un ciclo a fresco con scene della vita di Gesú, dipinto nel 1515 da Pietro Guido da Ranzo, tardivo continuatore della pittura «dialettale» ligure-piemontese. Ma tutta la Valle Arroscia è ricca di chiese e chiesette. Oltrepassato Borghetto d’Arroscia, perfetto «borgo su strada», dopo averne ammirato il bel ponte medievale in pietra, curva dopo curva, immersi tra castagneti lussu-

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medioevo nascosto liguria reggianti incontriamo ai margini della carrozzabile per Ranzo l’austera mole della chiesa di S. Pantaleo, sovrastata dai ruderi del fortilizio fatto erigere dai Clavesana nell’XI secolo a controllo dello spartiacque tra la valle Arroscia, Ranzo e la val Pennavaira. Tra le piú antiche architetture religiose della regione, la chiesa, titolata al santo taumaturgo, fu ampliata nei secoli XIV e XV sui resti di una primitiva cappella di impianto protoromanico (XI secolo), di cui ha mantenuto l’abside. Impreziosita da un portico romanico-gotico, decorato con due portali in ardesia scolpiti nel 1491 e nel 1493, presenta molteplici cicli affrescati, in gran parte riferibili alla bottega di Pietro Guido da Ranzo, a cominciare dal portico esterno con la Passione di Cristo, le Scene di San Pantaleo e la Resurrezione di Lazzaro (1488). Inoltre, lavori di recupero condotti al suo interno hanno portato alla scoperta di un’ulteriore serie di dipinti murali attribuiti al Maestro di San Pantaleo (i Beati, l’Inferno e la Cavalcata dei Vizi, 1507-1508), in cui si riconoscono anche le presenze di Giorgio Guido da Ranzo il Vecchio e del figlio di Pietro Giorgio (vedi box a p. 105).

i clavesana

Da Albenga al Po A rendere potente la nobile famiglia dei Clavesana, discendente da un ramo degli Aleramici, fu il marchese Bonifacio, figlio dell’aleramico Ottone e dell’arduinica Berta. Con conquiste e abili giochi di potere, come quello attuato nel 1091, quando, alla morte della zia Adelaide, ne rivendicò i diritti di successione, Bonifacio espanse il patrimonio familiare fino al Po e ai confini del comitato di Albenga. Un vasto territorio che i suoi eredi conservarono indiviso; ma che per la parte ligure, compresa da Savona all’Armea, era da tempo oggetto delle brame dei conti di Ventimiglia. Nel 1140, per difenderlo, i marchesi di Clavesana strinsero un’alleanza con i Genovesi. In seguito, divenuti vassalli di Genova, riuscirono a conservare quasi tutti i loro possessi nella marca di Albenga.

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Fra boschi e oliveti Rezzo. Il castello dei marchesi di Clavesana. L’assetto attuale risale al XVII sec., ma l’edificio sorse su un piú antico fortilizio medievale, databile al XII sec.

Pochi chilometri separano Rezzo da Vessalico (da vexalium, sottomesso), un centro storico con costruzioni e portali del tardo Medioevo, fondato nel XII secolo da alcuni terrazzani, costretti ad abbandonare le proprie casupole in pietra sparse qua e là tra gli oliveti del fondovalle e a migrare in questo lembo di terra sulla sponda sinistra dell’Arroscia. Nascosta nel silenzio dei boschi e degli ulivi sopra al paese, lungo la strada per Lenzari, c’è la chiesetta di S. Andrea, un gioiello romanico del XII secolo. Raggiungibile percorrendo a piedi un viotto-

TORINO

SP 28

Mendatica

Case di Nava Armo

Cosio D’Arroscia

Pornassio

Montegrosso P.L. Pieve di Teco

Aquila d’Arroscia

Lenzari

Borghetto d’Arroscia Ranzo Vessalico Vessanco

Albenga ALBENGA

Cènova Rezzo IMPERIA

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La chiesa di S. Pantaleo a Ranzo

In alto l’esterno della chiesa di S. Pantaleo, una delle piú antiche architetture religiose della Liguria. Il primo impianto risale infatti all’XI sec. Ampliata nel XIV e XV sec. fu dotata di un portico affrescato e nel quale si aprono due ingressi con portali in ardesia. A sinistra particolare del ciclo di affreschi che orna il portico della chiesa, riferibile alla bottega di Guido da Ranzo.

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In alto il capitello di una delle colonne che sorreggono le volte del portico della chiesa di S. Pantaleo e, nella pagina accanto, ancora un particolare degli affreschi che ne ornano le pareti.

lo di montagna, ricavato fra la macchia mediterranea, mostra uno schema architettonico assai semplice: muratura quasi grezza a eccezione del portale di facciata, che ripete il tipo classico ad arco falcato e lavorato con maggiore perfezione, e absidi con piccole monofore strombate e cornice sagomata in tufo. La sua storia millenaria, la sua ardita posizione sul limitare del monte, l’ambiente naturale e l’intimo silenzio che la circondano, permettono di godere l’incanto di emozioni e paesaggi indimenticabili. Nel 1232, gli abitanti di Vessalico, di Borghetto d’Arroscia e quelli di altre località della vallata diedero vita a Pieve di Teco. Il nascente borgo, collocato nel fondovalle, alla convergenza di alcune delle piú importanti strade marenche tracciate tra la marina e le Alpi, avrebbe permesso di trarre vantaggi soprattutto dai traffici commerciali sulla via, che passando per Teco, partiva da Oneglia, toccava Chiusavecchia, raggiungeva il colle di San Bartolomeo, lo superava, scendeva a Vessalico e risaliva a Ormea. Lo schema urbano di Pieve di Teco venne completamente trasformato dopo il 1386 quando, scomparsi i Clavesana, la località passò alla Repubblica di Geno-

Uno scorcio del borgo di Pieve di Teco, fondato nel 1386, che conserva inalterato l’impianto planimetrico medievale.

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medioevo nascosto liguria va. Dell’epoca medievale la cittadina ha mantenuto la pianta regolarissima, caratteristica dei nuclei insediativi costruiti dai Genovesi, che ha a Chiavari, nell’opposta Riviera, il suo modello principale.

Fra i vicoli del capoluogo

L’insediamento, lineare, è scandito da un’ampia strada al centro, su cui affacciano monumentali portici gotici con case in origine a due piani, poi sopraelevate nel Sei e Settecento. Il tessuto urbano appare suddiviso in isolati con abitazioni rinserrate fra i caruggi, come sono chiamati gli stretti vicoli liguri. In passato alcune di esse costituivano le umili dimore di agricoltori, pastori e piccoli artigiani, invece altre erano residenze signorili; quasi tutte posseggono ancora i tetti coperti da grandi lastre grigie di ardesia, dette comunemente ciappe. Oggi come un tempo Pieve di Teco è il capoluogo dell’intera vallata. A ricordarne l’importante funzione commerciale, connessa alla presenza di valichi per l’alta valle A sinistra la piccola chiesa di S. Lorenzo, a Pieve di Teco, nella frazione di Acquetico. In basso la chiesa romanica di S. Andrea, situata a pochi chilometri da Vessalico, sulla strada che porta alla frazione di Lenzari. XII sec.

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I Guido da Ranzo

Accenti popolareschi Dalla valle Arroscia proviene una delle piú importanti famiglie di artisti del Ponente ligure: i Guido da Ranzo. Ricca di influssi piemontesi tardo-gotici, la loro produzione riflette l’atmosfera di scambi tra Piemonte, entroterra di Ponente e costa ligure. Le sedi espositive a loro dedicate sono due: una si trova nella Casa dei Frati in Costa Parrocchia e valorizza soprattutto la figura di Pietro Guido. L’artefice, attivo tra il 1490 e il 1532, è considerato il divulgatore di un linguaggio dagli accenti popolareschi, ispirato alle soluzioni diffuse dai fratelli Biazaci e dal Canavesio. L’altra, allestita nell’oratorio di S. Carlo in Costa Bacelega, ripercorrendo le strade battute da Pietro Guido nelle vallate dell’Arroscia, del Maro, di Porto Maurizio, di Albenga e a Genova, ne analizza gli innumerevoli dipinti che si possono ammirare negli edifici sacri. In alto Rezzo, santuario di Nostra Signora del Santo Sepolcro e Maria Bambina. Crocifissione, affresco di Pietro Guido da Ranzo. 1515.

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medioevo nascosto liguria Il progetto «Strade di Pietra»

Un sapere antico La scuola degli scalpellini di Cènova è l’unica del Ponente Ligure e l’Aministrazione comunale di Rezzo, in collaborazione con la Comunità Montana dell’Olivo e Alta Valle Arroscia, ha voluto dedicare il progetto «Strade di Pietra. I lapicidi di Cènova». L’esposizione è articolata in due sezioni: la prima illustra la storia del mestiere, le tecniche di lavorazione, i diversi tipi di pietra e curiosi manufatti ormai dimenticati, tra cui la garumba, che costituiva il fondo del torchio, e la ciappa de lescía, una pietra scavata, utilizzata per fare il bucato con la tecnica della liscivia. La seconda, costituita da tre diversi itinerari articolati tra il capoluogo e le frazioni, permette di ammirare i vari elementi decorativi, il loro impiego e, in alcuni casi, il successivo riutilizzo. Per informazioni: Comune di Rezzo, tel. 0183 34015; www.comune.rezzo.im.it

I lapicidi di Cènova fusero elementi di ispirazione classica con motivi medievali e popolareschi Alcuni esempi della ricca produzione scultorea realizzata dai maestri lapicidi di Cènova, alla cui arte è dedicato il progetto «Strade di pietra».

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A destra i portici di Pieve di Teco. Le molte botteghe che ancora oggi si susseguono al loro interno sono testimonianza della vocazione commerciale del borgo, connessa alla presenza di valichi per l’alta valle del Tanaro.

del Tanaro, sono tuttora le numerose botteghe sotto ai portici e il mercatino d’antiquariato, che si svolge nelle ultime domeniche del mese. I villaggi che circondano a raggiera Pieve di Teco risentono di un’economia montana. La stessa architettura si adatta al clima e all’ambiente nella copertura in ciappe, nel maggior impegno del legno in architravi, portali e balconi, nella lavorazione della pietra dura e scura, che ebbe a Cènova la sua scuola e il suo vivaio di artisti.

Info Informazioni turistiche sulla Valle Arroscia e sulle sue località sono reperibili sul sito web di Expo Valle Arroscia:

www.expovallearroscia.com

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Il colle, la chiesa, la città LIBRI • Monumento fra i

piú insigni dell’architettura e dell’arte del Medioevo, il Duomo di Siena ha una storia lunga e articolata. Brillantemente ripercorsa in un volume denso di informazioni supportate da un ricco e curato corredo iconografico

In alto veduta del colle su cui sorge il Duomo di Siena.

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a detto, innanzitutto, che, pur trattandosi di un’opera di taglio specialistico, questo importante lavoro di Marie-Ange Causarano possiede piú di un elemento d’interesse anche per chi abbia desiderio di conoscere in dettaglio la storia del Duomo di Siena e, di riflesso, della città toscana. Un’opportunità agevolata senza dubbio dallo stile dell’autrice – mai troppo tecnico – e dal ricco apparato iconografico, del quale fa parte un ampio corredo di ricostruzioni elaborate dallo Studio Inklink, capaci di far «vedere» al lettore realtà e situazioni di cui oggi rimangono soltanto le tracce archeologiche o le notizie fornite dalle fonti.

Fatta questa debita premessa, la chiave di lettura del volume emerge da quanto scrive Causarano nell’Introduzione, quando spiega che «Partendo da un’analisi di tipo archeologico dell’edilizia storica, le vicende costruttive della cattedrale di Siena sono inquadrate all’interno dell’evoluzione del colle di Santa Maria (o colle del Duomo) e del contesto urbano di riferimento, con l’obiettivo di ricostruire i processi storici che ne hanno determinato la formazione». Una ricostruzione che si articola in cinque ampi capitoli, che, includendo gli interventi eseguiti in epoca moderna, ha inizio sul finire del X secolo e può quindi ormai dirsi millenaria, nonché febbraio

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Marie-Ange Causarano La cattedrale e la città. Il cantiere del duomo di Siena tra XI e XIV secolo All’Insegna del Giglio, Firenze, 208 pp., ill. col. e b/n 45,00 euro ISBN 978-88-7814-828-4 www.insegnadelgiglio.it

destinata a conoscere ulteriori sviluppi, visto che, per esempio, nuovi restauri sono in programma per la Sacrestia Vecchia e l’Oratorio dei Ss. Giovannino e Gennaro.

Luci e ombre

In alto il campanile del Duomo: a sinistra, spaccato con le principali fasi costruttive individuate nella parte inferiore (blu, XII sec., verde XIV sec., grigio, la scala di età moderna); a destra, veduta d’insieme della struttura.

In basso S. Maria della Scala, corsia di San Galgano. Resti di abitazioni, costruite in laterizi, che si sviluppavano in elevato per due livelli ed erano dotate, nel fronte rivolto verso il fosso di Sant’Ansano, di un ballatoio ligneo (metà del XIII sec.).

Prima di entrare nel vivo dell’argomento, Marco Valenti propone un’approfondita analisi della storia della ricerca archeologica a Siena, ponendo l’accento sui progetti elaborati nel campo degli studi sul Medioevo. Ne scaturisce un quadro di luci e ombre o, forse meglio, di brillanti realizzazioni e altrettanto significative occasioni perse, causate essenzialmente dal non avere raccolto, soprattutto negli ultimi anni, i semi piantati in questo campo da Riccardo Francovich, che fu capace di fare dell’ateneo senese il motore primo della medievistica italiana.

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S. Maria della Scala. Ricostruzione grafica della strada al momento dell’inizio dei lavori per il suo inglobamento nel complesso ospedaliero (Studio Inkink). Nella pagina accanto il colle del Duomo alla metà del XIV sec. (tavola ricostruttiva Studio Inklink-Comune di Siena, a cura di M.A. Causarano, B. Sordini).

A sinistra la «cripta» del Duomo, affrescata da artisti operanti a Siena nella seconda metà del Duecento.

Comincia quindi il racconto delle vicende vissute dal colle oggi dominato dalla magnifica facciata della cattedrale intitolata a santa Maria Assunta, che prende le mosse dall’epoca antica, al tempo in cui la città del Palio era nota come Saena Iulia. Una fase alla cui migliore definizione hanno contribuito proprio le ricerche condotte nell’area del Duomo e dell’antistante complesso ospedaliero del S. Maria

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della Scala. Se ancora incerto è lo svolgersi degli eventi in epoca tardo-antica, i contorni si fanno piú chiari nei primi secoli dell’Alto Medioevo e le prime attestazioni certe dell’esistenza di una chiesa sul colle di Santa Maria ricorrono in documenti databili fra il IX e il X secolo. In particolare, in un documento del 1028, viene esplicitamente menzionata una plebs Sancte Marie sita in civitate Siena.

Da questo momento in poi, diviene piú agevole seguire la storia del Duomo, che fra il XIII e il XIV secolo conosce le sue tappe piú importanti, alle quali, in buona sostanza, si devono le forme che possiamo tuttora ammirare. Ma se oggi, visitandolo, si viene attratti innanzitutto dai grandi nomi che contribuirono alla sua magnificenza – basti solo pensare a Giovanni e Nicola Pisano o a Tino di Camaino –, Marie-Ange Causarano ha il merito di farci conoscere anche le decine e decine di anonimi mastri artigiani e operai senza i quali quest’opera grandiosa non avrebbe visto la luce. Costante, infatti, è il richiamo agli interventi – di costruzione, restauro o ristrutturazione – che si succedettero nel corso del tempo, attraverso il quale si legge in controluce una vera e propria storia della tecnica edilizia medievale, che trova il suo esito naturale nella seconda parte del libro, dedicata appunto al cantiere. Stefano Mammini

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Antonio Musarra Processo a Colombo Scoperta o sterminio? La Vela, Viareggio, 255 pp.

15,00 euro ISBN 978-88-99661-36-6 www.edizionilavela.it

Nell’introduzione a questo saggio, Franco Cardini individua in Cristoforo Colombo l’uomo nuovo, cosí sicuro della sua razionalità da fargli sfidare le convenzioni del suo tempo. Questa considerazione rappresenta il punto fermo per capire chi fosse veramente l’ammiraglio genovese: un intrepido avventuriero, un conquistatore senza scrupoli, un fervente cattolico, oppure tutto questo insieme? Ristabilire la verità attraverso questo «processo» è di particolare attualità, dopo le feroci contestazioni americane sulla celebrazione del Columbus Day, dovute alle interpretazioni restrittive di alcuni storici, che hanno bollato Colombo come uno sterminatore. Attraverso l’analisi della piú recente documentazione disponibile, fra cui il rapporto Bobadilla – cosí chiamato in onore dell’ispettore nominato dai reali

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di Spagna per valutare le accuse mosse nei confronti del navigatore –, Antonio Musarra fa emergere un uomo del suo tempo dalla personalità complessa, piena di contraddizioni. È talmente convinto di aver scoperto veramente le Indie che continua a chiamarle cosí fino alla sua morte; nonostante scrivesse in castigliano, è molto sensibile alle lobby genovesi;

indossa il saio per ribadire la necessità della conversione, ma poi rifiuta il battesimo alle popolazioni locali. All’inizio del primo viaggio, l’ammiraglio tratta con benevola superiorità i nativi, che conquista donando loro cianfrusaglie di scarso valore, anche se non esita a farli attaccare dal proprio cane per ristabilire l’ordine. In seguito il suo atteggiamento

muta, all’indomani del massacro perpetrato dai locali nei confronti dei 39 marinai lasciati a Hispaniola (Haiti) con il compito di fondare un villaggio. I viaggi successivi portano diversi guai al Genovese: dalle malattie che sterminano gli abitanti alle accuse per i violenti metodi che utilizza per reprimere le rivolte, tanto che perde molti dei privilegi che gli erano stati concessi dalle maestà cattoliche di Spagna. La cosa certa che emerge da questo saggio è che fu uno schiavista, aprendo in questo modo la strada ad altri orrori compiuti dai conquistadores che gli succedettero. Quello che permette di capire meglio la sua personalità è l’ossessione per l’oro che considerava indispensabile per una nuova crociata. Il suo fervore religioso giustificava le violenze necessarie al lavoro coatto. Scritto con uno stile scorrevole che non risente della minuziosa ricerca bibliografica, questo saggio approfondisce senza pregiudizi la conoscenza di un personaggio storico davvero controverso. Corrado Occhipinti Confalonieri

Sauro Gelichi, Cinzia Cavallari, Massimo Medica (a cura di) Medioevo svelato Storie dell’EmiliaRomagna attraverso l’archeologia Ante Quem, Bologna, 558 pp., ill. col.

29,00 euro ISBN 978-88-7849-133-5 www.antequem.it

Pubblicato in occasione della mostra omonima (vedi «Medioevo» n. 253, febbraio 2018; anche on line su issuu.com), questo corposo volume, com’è ormai consuetiudine, è molto piú del catalogo dei materiali selezionati per l’esposizione. L’opera, infatti, documenta lo stato dell’arte dell’archeologia medievale emilianoromagnola e, dunque, prendendo spunto dai materiali rinvenuti nel corso delle indagini di cui si dà conto, disegna un quadro storico puntuale e articolato. E merita anche d’essere segnalato, in apertura, il capitolo in cui Luigi Malnati e Maria Grazia Fichera ripercorrono il difficile cammino che il Medioevo ha dovuto intraprendere in seno alle Soprintendenze, la cui attività di tutela ha a lungo ricompreso in una visione piú «generalista» le

specificità dell’età di Mezzo. Prima di passare alle sezioni che illustrano i vari temi individuati dai curatori della mostra (e ora del volume), c’è poi spazio per due ampi quadri riassuntivi, rispettivamente dedicati agli esordi dell’archeologia post-classica a Bologna e alla storia – passata, presente e futura – dell’archeologia medievale in Emilia-Romagna. Prende quindi il via la rassegna delle acquisizioni piú recenti, la cui quantità è già di per sé un eleoquente indizio della vivacità culturale della regione, anche nei secoli dell’età di Mezzo, a ulteriore riprova, se mai fosse ancora necessario, di quanto fuorviante sia stata, in passato, la visione di un’epoca di contrazione e piattezza culturale. febbraio

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Ciascun capitolo (dall’esame delle trasformazioni a cui andarono incontro le città in epoca tardo-antica al repertorio delle indagini su contesti pluristratificati) è quindi introdotto da una disamina dell’argomento di volta in volta distinto, che offre la griglia storica al cui interno collocare i contesti archeologici successivamente descritti. Al di là della segnalazione di singoli casi, è importante sottolineare come il progetto evidenzi il ruolo decisivo dell’attività di controllo e tutela, a cui si affianca il netto miglioramento dei metodi d’indagine, che ha permesso di acquisire dati che forse, venti o trent’anni fa, sarebbero andati perduti. Nel complesso, dunque,

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questo Medioevo svelato non è soltanto la nitida fotografia di un mosaico culturale davvero ricco, ma anche una testimonianza esemplare di buona pratica archeologica. Stefano Mammini Virtus Zallot Con i piedi nel Medioevo Gesti e calzature nell’arte e nell’immaginario

Accordi e riflessi MUSICA • L’originale confronto fra

una ricca selezione di partiture e la produzione di pregiati manufatti in alabastro ispira un intrigante progetto musicale del Binchois Consort, dedicato alla produzione inglese del XIV secolo

il Mulino, Bologna, 220 pp., ill. col.

25,00 euro ISBN 978-88-15-27969-9 www.mulino.it

Leggendo questo libro, è quasi impossibile, come del resto fa anche Chiara Frugoni nella Prefazione, non andare con la mente all’«ossessione» del regista Nanni Moretti per le scarpe… Ma nel saggio di Virtus Zallot c’è molto di piú, a conferma di quanto le calzature fossero un elemento di primaria importanza nell’abbigliamento di uomini e donne del Medioevo. E poi c’è spazio, per esempio, per il valore simbolico assegnato alle nostre estremità inferiori o per le loro molteplici tipologie. Un’opera, insomma, davvero originale e accattivante. S. M.

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ncentrata sulla figura della Vergine Maria, la proposta musicale del Binchois Consort è un’occasione per accostarsi al panorama musicale inglese del XV secolo da una prospettiva, per certi versi, inusuale, contraddistinta da stilemi compositivi che hanno caratterizzato lo sviluppo musicale di queste terre. Un percorso musicale che avvicina il linguaggio sonoro a quello visivo, rappresentato dalla scultura in alabastro, che ebbe grande diffusione in Inghilterra e nel resto d’Europa nel XV secolo. Scopo di questo progetto musicale, infatti, è quello di accostare le raffinatezze musicali dei grandi compositori del Quattrocento inglese alle opere d’arte rappresentate dalla manifattura votiva in alabastro dedicata ai motivi mariani di cui il libretto fornisce un ricco apparato iconografico. E proprio alle trasparenze dell’alabastro e al gioco di riflessi da esso creato che si ispirano queste musiche, ricreando

The Lily and the Rose The Binchois Consort, direttore Andrew Kirkman Hyperion (CDA68228) 1 CD www.binchoisconsort.com

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le atmosfere della grande produzione liturgico-musicale della Royal Chapel in un periodo che va dalla fine dell’era dei Plantageneti, che detennero il potere fino al 1485, agli esordi del regno dei Tudor con Enrico VII. L’antologia è organizzata in grandi gruppi tematici: la Beata Vergine Maria come mezzo di intercessione alla misericordia divina, l’Annunciazione, l’Assunzione e l’Incoronazione, la Discendenza della Vergine.

Secondo i canoni della polifonia inglese Apre la raccolta Stella celi extirpavit, di John (?) Cooke, un brano che ci rinvia immediatamente a uno degli stilemi tipici della polifonia inglese del tempo, ovvero l’andamento parallelo per intervalli di terza – una sorta di controcanto, volgarmente parlando – vietato dai teorici «continentali» dell’epoca e che, qui, crea un effetto di dissonanze estremamente interessante; ritroviamo il medesimo elemento stilistico nel Salve porta paradisi di Thomas (?) Damett. I vari brani sono intercalati da quelli superstiti che compongono la Missa Flos Regalis di Walter Frye che costituiscono una sorta di leit motiv all’antologia. Tra i brani piú belli della sezione dedicata all’Annunciazione vi sono il Superno nunc emittitur di John Bedyngham, e l’Ave Maris Stella di John Dunstable; quest’ultimo vede alternare il canto dei versetti in forma monodica e

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polifonica, secondo una prassi esecutiva ben diffusa. Alla sezione successiva (Annunciazione) appartiene il bellissimo O quam glorifica, di John Fowler, che, ancora una volta, si caratterizza per l’andamento parallelo per terze delle voci, alternato a passaggi monodici. Altri momenti particolarmente affascinanti sono l’anonimo Virga Jesse floruit, il cui materiale melodico proverrebbe da una ballata polifonica profana, e Anna mater matris Christi di John Plummer. A conclusione dell’antologia è l’Agnus Dei dalla summenzionata Missa Flos Regalis di Frye in cui i numerosi passaggi a due voci si alternano al tutti. Passando dalle eleganti melodie del canto monodico al trattamento polifonico delle voci, i brani qui raccolti, espressione della migliore produzione inglese quattrocentesca, rivelano una materia musicale di grande ricchezza, che il gruppo inglese The Binchois Consort, guidato da Andrew Kirkman, riesce a portare a grandi livelli di interpretazione. Grazie a un’emissione particolarmente curata delle otto voci maschili (tre contralti, quattro tenori, un basso) la fusione sonora ottenuta è ottimale, garantendo fluidità e un amalgama equilibrato tra le parti. Una registrazione di grande pregio, affidata a uno dei migliori gruppi specialisti del repertorio medievale che la discografia possa oggi offrire. Franco Bruni febbraio

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