M TO ED IO MU RCE EV R LL O AN O IN O E LA GU NA
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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Storia di un’infezione assassina
MONTELUPO FIORENTINO I COLORI DELLA CERAMICA MEDIEVALISMI
Il duce «condottiero» TORCELLO E MURANO
Gioielli della laguna ANTEPRIMA
Corrado Confalonieri il santo cacciatore
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€ 5,90 IN EDICOLA IL 2 MARZO 2019
CORRADO CONFALONIERI SUDOR ANGLICUS MEDIEVALISMI/2 ANTICHE CHIESE DEL VENETO DOSSIER MONTELUPO FIORENTINO
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Mens. Anno 23 numero 266 Marzo 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 266 MARZO 2019
EDIO VO M E
SOMMARIO
Marzo 2019 ANTEPRIMA
LUOGHI
IL PROVERBIO DEL MESE
ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/4 Veneto I gioielli della laguna
Tagliare i ponti
Mosse estreme
5
MOSTRE Ritrattista sublime Fortuna del «principe splendente»
10
SCOPERTE Una torre piena di sorprese
12
RESTAURI Capolavoro in due atti
16
ITINERARI Nel segno dell’imperatore
18
MUSEI Castello superstar
di Furio Cappelli
6
CALEIDOSCOPIO
48 STORIE Sudor anglicus Quel misterioso sudore assassino di Aart Heering
48
20
COSTUME E SOCIETÀ
TECNOLOGIA Rivelazioni in basilica
22
APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese
26
STORIE PERSONAGGI
San Corrado Confalonieri
Storia di un santo cacciatore
di Corrado Occhipinti Confalonieri 34
34
70
MEDIEVALISMO/2 Eroici, audaci, disciplinati di Riccardo Facchini e Davide Iacono
58
CARTOLINE Ospiti illustri, ex voto e un... coccodrillo Lo Scaffale
108 112
MUSICA Maestri a confronto
114
Dossier LA CERAMICA DI MONTELUPO
Tutti i colori di Firenze
di Alessandro Mandolesi
85
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UN PASSATO DA RISCOPRIRE
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Storia di un’infezione assassina
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Il duce «condottiero» TORCELLO E MURANO
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)
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Mens. Anno 23 numero 266 Marzo 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MEDIOEVO n. 266 MARZO 2019
MEDIOEVO
Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Riccardo Facchini è dottore di ricerca in storia della civiltà europea. Aart Heering è giornalista. Davide Iacono è storico del Medioevo. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi è direttore scientifico del Museo della Ceramica di Montelupo Fiorentino. Corrado Occhipinti Confalonieri è cultore di materie storiche. Chiara Parente è giornalista.
19/02/19 12:19
MEDIOEVO Anno XXIII, n. 266 - marzo 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it
Illustrazioni e immagini: Cortesia Museo della Ceramica di Montelupo Fiorentino: copertina e pp. 85, 86, 86/87, 87, 88-107 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 5, 50 (alto), 51, 70/71, 72/73, 73, 75, 79, 83; Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: pp. 34/35; AGE: pp. 36, 82 (sinistra); Leemage: pp. 38, 4041, 58/59, Archivio Vasari/Alessandro Vasari: pp. 60/61; Pierluigi Praturlon/Reporters Associati & Archivi: p. 64; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: pp. 74, 76-78 – Cortesia Ufficio Stampa Skira: pp. 6, 7 (destra), 8 (basso), 9 (alto, a destra, e basso); Muzeul Național Brukenthal, Sibiu, Romania/Alexandru Olănescu: p. 7 (sinistra); The National Gallery, London: p. 8 (alto); Giulio Archinà: p. 9 (alto, a sinistra) – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 10-11, 16-17, 20-21 – Cortesia degli autori: pp. 12-13, 37, 44, 60, 62 (alto), 66-67 – Cortesia Furio Cappelli: pp. 18-19 – Cortesia Archivio Fotografico Fabbrica di San Pietro: pp. 2223 – Doc. red.: pp. 42-43, 52, 54/55, 57, 62 (basso), 82 (alto, a destra), 110/111 – Bridgeman Images: pp. 48/49, 50 (basso), 53, 55, 56/57 – Shutterstock: pp. 56 (alto, sinistra e destra), 68/69, 80/81, 82 (basso, a destra) – DeA Picture Library: pp. 63, 64/65 – Cortesia Diocesi di Mantova, Ufficio Diocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici: pp. 108 (basso), 109 (centro e basso), 110, 111, 112; fotografia di Paolo Bertelli: p. 108 (alto) – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 72, 87, 109. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano
In copertina il boccale Medici-Salviati, probabilmente voluto per celebrare il fastoso matrimonio del 1516 fra Giovanni delle Bande Nere e Maria Salviati. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
Nel prossimo numero battaglie
11 aprile 1241. I Mongoli alle porte
l’arte delle antiche chiese/5
Emilia-Romagna: Bologna, il Santo Sepolcro
medievalismi
Il Medioevo in TV: il caso del Trono di Spade
IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini
Mosse estreme
«T
agliare i ponti» significa, oggi, chiudere qualsiasi tipo di rapporto con una persona, ma l’espressione nasce con un altro significato, piú ampio, che è quello di precludersi spontaneamente la via del ritorno, obbligandosi ad avanzare a ogni costo. In pratica, tagliare i ponti significherebbe piú che altro compiere un’impresa in modo disperato. Questo modo di dire, che in francese ha il proprio corrispettivo in «Brûler ses vaisseaux» («Bruciare i propri vascelli»), è legato alla storia della guerra e, in particolare, a una cospicua serie di episodi in cui grandi condottieri usavano la strategia di bruciare le navi dopo essere sbarcati, per togliere ai propri soldati ogni tentativo di fuga, costringendoli dunque a combattere fino alla fine. Eventi del genere sono attestati già in epoca antica: Agatocle, tiranno di Siracusa, nel 310 a.C. sbarcò in Africa e, prima di attaccare Cartagine, fece bruciare tutte le navi «affinché tutti sapessero che tolta ogni possibilità di fuga si doveva o vincere o morire». A «tagliare i ponti» invece provvide il romano Orazio Coclite, che, nel 508 a.C., avrebbe frenato l’avanzata degli Etruschi distruggendo il Ponte Sublicio (che prende nome dalle sublicae, le tavole di legno di cui era composto). Ma il Medioevo non è meno ricco di episodi analoghi.
Quando il duca di Normandia Guglielmo il Bastardo attraversò il canale della Manica nel 1066, una volta approdato (probabilmente a Wilting Manor, poco distante da Hastings), fece bruciare simbolicamente alcune navi, proprio a significare che non vi era altra via se non combattere. Le restanti furono comunque tirate in secca e smontate. Una ventina di anni piú tardi, Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e Calabria, di fronte all’esercito di Alessio I Comneno, imperatore di Bisanzio, avrebbe fatto incendiare i vascelli della propria flotta, per avere la meglio nell’assedio di Durazzo, capitale dell’Illiria, iniziato nel giugno del 1081 e che si concluse con la resa ben otto mesi piú tardi. Questa particolare soluzione tattica poteva essere però utilizzata anche contro gli avversari: nel maggio 1431 Giovanna d’Arco si inoltrò verso Compiègne per salvarla dall’assedio borgognone. Superato il ponte e lanciatasi tra le fila nemiche, la Pulzella si ritrovò isolata perché un drappello inglese e borgognone le tagliò il ponte alle sue spalle, impedendole cosí ogni possibilità di fuga. Miniatura raffigurante i Normanni che rendono omaggio alle reliquie di san Valerio dopo aver dato alle fiamme le proprie navi, da un’edizione delle Chroniques d’Angleterre. 1470-1480. Londra, British Library.
ANTE PRIMA
Ritrattista sublime MOSTRE • Oltre la metà dell’intera
produzione di Antonello da Messina approda a Milano, per celebrare il raffinato talento del maestro siciliano
R
educe dall’omaggio ricevuto nella natia Sicilia con la mostra allestita a Palermo, in Palazzo Abatellis, Antonello da Messina approda a Milano, nelle sale di Palazzo Reale. Si tratta dunque di una ulteriore e imperdibile opportunità per ammirare la produzione di uno dei maggiori talenti della pittura italiana, unanimemente riconosciuto come uno dei massimi maestri dell’arte quattrocentesca, nonostante i non molti anni di attività e, soprattutto, la perdita di molta parte della sua produzione. Sembra quasi che il destino si sia infatti voluto accanire su Antonello da Messina (nato Antonio de Antonio o degli Antoni), rendendone sfuggente la vicenda biografica e facendo sí che un numero imprecisato, ma certamente consistente, dei suoi dipinti finisse distrutto o perduto a causa di eventi naturali, quando non per l’incuria dell’uomo. Fra i pochi dati certi sulla vita del pittore vi è, nel 1479, il periodo compreso fra il 14 febbraio, giorno in cui, malato, detta il suo testamento, e il 25 dello stesso mese, data alla quale In alto Ritratto d’uomo (Ritratto di ignoto marinaio), olio su tavola di noce. 1470 circa. Cefalú, Fondazione Culturale Mandralisca. A sinistra Ritratto d’uomo, tempera grassa su tavola di noce. 1468-1470 circa. Pavia, Musei Civici, Pinacoteca Malaspina. risulta dichiarato defunto. Ottant’anni piú tardi, nelle sue Vite, Giorgio Vasari scrisse che l’artista era morto all’età di quarantanove anni e dunque la sua nascita si può collocare nel 1430 o, se consideriamo l’uso di dichiarare l’anno della vita in cui ci si trovava e non quello dell’anno già compiuto (come facciamo noi oggi), nel 1431.
Apprezzato e ricercato Come accennato, poco sappiamo di quel che accadde nel frattempo: fra i pochi dati certi vi sono il soggiorno a Napoli, dove fu allievo del Colantonio, e viaggi a Venezia e Milano. E fu proprio il rapporto con la città lagunare, e soprattutto con i suoi notabili, a fare da trampolino di lancio per Antonello, che divenne una delle firme piú richieste dell’epoca, come prova l’intensa produzione databile negli ultimi anni di vita e in particolare fra il 1475 e il 1476, biennio al quale si fa risalire una ventina
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marzo
MEDIOEVO
In alto Crocifissione, tempera su tavola di pero. 1465 circa. Sibiu, Muzeul National Brukenthal. A destra San Benedetto (scomparto del Polittico dei Dottori della Chiesa), olio e oro su tavola. 1470-1475 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi (in deposito permanente dalla Regione Lombardia). delle sue opere. Il pittore siciliano conquistò il pubblico e la committenza con il nitore e la precisione del suo tratto e, soprattutto, grazie ai penetranti ritratti, che costituiscono il suo autentico marchio di fabbrica e sono ora l’asse portante della mostra milanese. Ritratti che assumono un carattere quasi rivoluzionario: Antonello, infatti, porta sulle sue tavole volti perlopiú anonimi, molto spesso appartenenti a esponenti della «borghesia» e si pone dunque in netta contrapposizione con l’ideale aulico, se non addirittura pomposo, del ritratto ufficiale, eseguito per regnanti o grandi aristocratici. Nella rassegna di Palazzo Reale – prodotta da MondoMostre Skira – sfilano tutte le opere piú note del maestro, a cominciare dall’Annunciata, da sempre ritenuta una sintesi della sua arte, con lo sguardo e il gesto della Vergine rivolti alla presenza misteriosa che si è manifestata. Il dipinto proviene dalla Galleria Regionale
MEDIOEVO
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ANTE PRIMA A sinistra San Girolamo nello studio, olio su tavola di tiglio. 1475 circa. Londra, The National Gallery. In basso Ritratto di giovane, olio su tavola di noce. 1478. Berlino, Staatliche Museen. Nella pagina accanto, in alto, a sinistra Annunciata, tempera e olio su tavola. 1475-1476. Palermo, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis.
Siciliana di Palazzo Abatellis, che ha concesso in prestito le eleganti figure di Sant’Agostino, San Girolamo e San Gregorio Magno, forse appartenenti al Polittico dei Dottori della Chiesa. Ancora dalla Sicilia, ma dalla Fondazione Culturale Mandralisca di Cefalú, è giunto anche il Ritratto d’uomo conosciuto nella tradizione locale come «ignoto marinaio» e che sembra sfidare l’osservatore con il suo sorriso enigmatico. In quella che è una vera e propria giostra di volti figurano poi il Ritratto di giovane dal Philadelphia Museum of Art, il Ritratto di giovane uomo dai Musei Statali di Berlino, nonché, proveniente dalla Pinacoteca Malaspina di Pavia, il Ritratto di giovane gentiluomo (a lungo considerato il vero volto dell’artista), già pienamente antonelliano per inquadramento, sfondo, postura e soprattutto attitudine leggermente ironica del personaggio: opera che venne trafugata dal museo nella notte fra il 10 e l’11 maggio 1970 e fu recuperata sette anni piú tardi dal nucleo Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri.
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DOVE E QUANDO
«Antonello da Messina» Milano, Palazzo Reale fino al 2 giugno Orario lu, 14,30-19,30; ma-do, 9,00-19,30 (giovedí e sabato, apertura serale fino alle 22,30) Info tel. 02 92897755; www.mostraantonello.it Catalogo Skira In alto, a destra Madonna col Bambino (Madonna Benson), olio e tempera su tavola trasportata su compensato. 1475. Washington, National Gallery of Art. A sinistra Ritratto di giovane, olio su tavola di noce. 1474. Filadelfia, Philadelphia Museum of Art, The John G. Johnson Collection. Fra i dipinti a soggetto religioso, possiamo invece ricordare il San Girolamo nello studio e il Cristo benedicente, provenienti entrambi dalla National Gallery di Londra, nonché la Crocifissione dal Museo nazionale Brukenthal di Sibiu in Romania, attribuita ad Antonello prima da Karl Voll nel 1902 e successivamente da Bernard Berenson nel 1932. Da segnalare, infine, che a condurre il visitatore alla scoperta di Antonello da Messina, sono i taccuini e i disegni di Giovan Battista Cavalcaselle (1819-1897), insigne storico dell’arte al quale si deve l’amorevole ricostruzione del primo catalogo del pittore. Stefano Mammini
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ANTE PRIMA
Fortuna del «principe splendente» MOSTRE • Composta da
Murasaki Shikibu agli inizi dell’XI secolo, La storia di Genji si è affermata come un caposaldo della letteratura giapponese. Capace di ispirare una vasta e variegata produzione artistica
Ritratto di Murasaki Shikibu, la scrittrice a cui si deve il romanzo Genji Monogatari (La Storia di Genji), dipinto su rotolo di seta di Tosa Mitsuoki. XVII sec.
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A
cavallo dell’anno Mille, quando la capitale dell’impero giapponese era Heian (l’odierna Kyoto), Murasaki Shikibu, nata nella potente famiglia dei Fujiwara, divenne dama di corte di Fujiwara no Akiko, imperatrice e mecenate. Da quell’esperienza la donna trasse ispirazione per comporre il Genji Monogatari (La storia di Genji), opera narrativa che viene considerata come il primo romanzo realistico della letteratura giapponese. Suddivisa in 54 capitoli, la storia narra la vita di Genji, il principe «splendente», dando conto delle sue innumerevoli avventure amorose e, dopo la sua morte, passa a descrivere le vicende dei suoi discendenti, introducendo personaggi femminili che si sono
affermati come altrettante icone della letteratura giapponese. Ma, soprattutto, il romanzo è un grande quadro della società aristocratica del periodo Heian, descritta dall’autrice in tutto il suo splendore raffinato, ma anche nel dramma intimo dei suoi protagonisti, sentito come una concatenazione di fatalità ineluttabili. Nel tempo, il Genji Monogatari ha goduto di una straordinaria fortuna, della quale è ora testimonianza la mostra proposta dal Metropolitan Museum of Art, che, grazie a una selezione di oltre 100 opere, offre un saggio eloquente della copiosa produzione artistica ispirata dal romanzo nell’arco di circa mille anni. Articolata in otto sezioni tematiche, la rassegna spazia dai dipinti alle
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MEDIOEVO
A sinistra Le principesse di Uji, paravento a sei scomparti dipinto da Matsuoka Eikyu con scene tratte dalla Storia di Genji. 1912. Himeji, City Museum of Art. In basso, a destra coppa da tè con decorazioni e versi poetici ispirati al capitolo della Storia di Genji che narra della Dama dei Volti della sera. XVIII sec. Nara, The Museum Yamato Bunkakan. calligrafie, dai manufatti in seta alle lacche, fino a comprendere una preziosa portantina nuziale – realizzata per la consorte di uno shogun –, stampe e moderni manga.
Arte al femminile E un’attenzione particolare è stata riservata dai curatori alla ricezione del romanzo da parte del buddismo, cosí come al pubblico femminile del romanzo e alle opere realizzate da artiste donne. Il Giappone ha
concesso al Metropolitan il prestito di molte opere classificate come Tesoro nazionale e cosí a New York sono giunti, fra gli altri, due paraventi dipinti dal maestro Tawaraya Sotatsu (attivo fra il XVI e il XVII secolo) che mostrano gli incontri tra il principe Genji e una sua ex amante, e una preziosa edizione del Sutra del Loto – uno dei testi più importanti della tradizione buddista mahayana – realizzata nel tardo periodo Heian (XII secolo).
Da segnalare anche la sezione nella quale sono state riunite pregevoli opere d’arte provenienti dallo Ishiyama-dera (Tempio della montagna rocciosa) di Otsu, la cui cella comprende una «Stanza di Genji», voluta per celebrare la leggenda secondo la quale Murasaki Shikibu avrebbe cominciato a scrivere il suo romanzo appunto all’interno di quel luogo di culto. (S. M.)
In basso portantina nuziale in legno laccato e con oro e argento ed elementi in rame (dipinta all’interno con inchiostro, colore e oro su carta) persiane in bambú e seta e schermi di finestre in seta. 1856. Washington, Arthur M. Sackler Gallery, Smithsonian Institution. Il sontuoso manufatto fu realizzato per Atsu-hime, figlia di un samurai di alto rango e poi moglie del XIII shogun Tokugawa Shogun: per le implicazioni personali e politiche del suo matrimonio, la famiglia non badò a spese nella preparazione del suo corredo nuziale.
DOVE E QUANDO
«La storia di Genji: un classico giapponese illustrato» New York, The Metropolitan Museum of Art fino al 16 giugno (dal 5 marzo) Orario tutti i giorni, 10,00-17,30 (venerdí e sabato, apertura serale fino alle 21,00) Info www.metmuseum.org
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ANTE PRIMA
Una torre piena di sorprese
SCOPERTE • Oggetto di recenti indagini, il
Campanile di Giotto, a Firenze, ha svelato ambienti finora sconosciuti, pensati per la sicurezza e per funzioni squisitamente pratiche...
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ra gli esempi piú raffinati di architettura trecentesca, il Campanile di Giotto – alto quasi 85 m e parte del complesso cattedralizio fiorentino – comprendeva anche alcune stanze «segrete»: è quanto hanno accertato ricercatori dell’Università di Firenze e del Politecnico di Torino, che, in seguito a una campagna di studi commissionata dall’Opera di Santa Maria del Fiore, hanno scoperto una «sala del tesoro» e tre bagni. Iniziato nel 1334, «di costa a la faccia della chiesa in su la piazza di Santo Giovanni» dall’artista toscano, «il piú sovrano maestro stato in dipintura che si trovasse al suo tempo», come riportano le cronache, il monumento fu continuato da Andrea Pisano e terminato nel 1359, da Francesco
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Rilievo 3D da nuvola di punti del Campanile di Giotto. A destra l’interno del Campanile di Giotto, la cui costruzione ebbe inizio nel 1334 e terminò nel 1359.
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A sinistra confronto tra fotografie e rilievi che mostrano la posizione delle fessure in corrispondenza delle quali sono state scoperte le sale del Campanile di Giotto probabilmente adibite a servizi igienici. In basso il piano terra della torre, con l’indicazione della posizione della sala del tesoro. Talenti, che seppe coniugare eleganza gotica e composta classicità, riprendendo quell’equilibrio formale e razionale che aveva caratterizzato il progetto originario. Tre prestigiose firme che, dopo l’iniziale direzione di Arnolfo di Cambio, si succedettero anche alla guida dei lavori di S. Maria del Fiore, protrattisi per ben 140 anni.
Il cammino dell’umanità L’impianto architettonico a pianta quadrata con contrafforti poligonali agli angoli e paramenti marmorei policromi a motivi geometrici è impreziosito da una ricercata e complessa iconografia scultorea, il cui tema è la salvezza, composta da 56 rilievi e 16 statue alla cui esecuzione partecipò in gran misura anche Donatello. Frutto di un notevole sforzo tecnico e finanziario, l’opera rifletteva la prosperità della città che, con i suoi 100 000 abitanti, era uno dei maggiori centri europei; come modello di civiltà, si decise di rappresentare il cammino dell’umanità attraverso il racconto teologico del lavoro, relazionandolo con il sistema della dottrina scolastica e della conoscenza medievale. Si presume che la «sala del tesoro»,
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DOVE E QUANDO
Campanile di Giotto Firenze, piazza del Duomo Orario tutti i giorni, 8,15-19,00 Info www.ilgrandemuseodelduomo.it situata al piano terra della torre, dove attualmente è l’entrata, risalga alla fase di costruzione diretta dal secondo architetto e, quindi, posteriore alla morte di Giotto, avvenuta nel 1337. Utilizzata con la funzione originaria anche nel secolo successivo, era un luogo chiuso e accessibile solo dal piano superiore – collegato con un ponte al Duomo e unica via di accesso al campanile – grazie a una grata a scorrimento verticale che, attraverso un sistema di contrappesi, calava dall’alto i tesori e le donazioni da conservare. E poiché la Cattedrale era in costruzione, un cantiere a cielo aperto indifeso e soggetto a razzie, avere un vano nascosto per riporre le opere preziose della chiesa poteva essere fondamentale. Durante la ricognizione archeologica, a ognuno dei tre livelli dell’edificio sono emerse piccole fessure, visibili anche all’esterno,
riferibili ad ambienti usati molto probabilmente come bagni, collegati tra di loro tramite una sorta di condotta. L’ipotesi è supportata dal fatto che in quel periodo il consiglio dell’Opera si riuniva proprio nel Campanile, che era stato di conseguenza dotato di toilette per i partecipanti alle assemblee. Le recenti indagini hanno anche rivelato che il campanile giottesco, ideato nel XIV secolo, è in grado di resistere a sollecitazioni di varia intensità, dalle vibrazioni causate dal rintocco delle campane a quelle piú intense di eventuali terremoti. Una struttura, insomma, dalla notevole elasticità, che le ha permesso di sopportare anche gli eventi di carattere sismico avvenuti in passato. Mila Lavorini
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ANTE PRIMA
Capolavoro in due atti
RESTAURI • Prima opera certa di Leonardo da Vinci, questo Paesaggio sarà presto
esposto nella città natale del maestro. Intanto, nuove indagini condotte dall’Opificio delle Pietre Dure hanno rivelato le fasi della sua realizzazione
F
ra i luoghi che in questo 2019 celebrano il cinquecentenario della morte di Leonardo non poteva certo mancare Vinci, sua città natale, dove sono infatti in programma numerosi appuntamenti. Fra questi, il Museo Leonardiano propone, a partire dal prossimo 15 aprile, la mostra «Leonardo a Vinci. Alle origini del genio», che ruota intorno a una delle opere piú celebri del maestro, il Paesaggio, noto in letteratura con la sigla inventariale 8P e oggi custodito dal Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. Si tratta della prima opera conosciuta di Leonardo, da lui stesso datata 5 agosto 1473 e che è stata identificata con una veduta del Valdarno inferiore e della Valdinievole. Prima di raggiungere Vinci, il prezioso disegno ha fatto tappa all’Opificio delle Pietre Dure, dove è stato per la prima volta esaminato con le metodologie piú avanzate e
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MEDIOEVO
strumenti di ultima generazione, al fine di comprenderne meglio la genesi e la natura. La consegna speciale dell’8P è avvenuta sotto lo sguardo vigile dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale. Maurizio Michelozzi, restauratore esperto nella conservazione di disegni e funzionario degli Uffizi, ha accompagnato l’opera presso i laboratori alla Fortezza da Basso e seguito le ricerche scientifiche su di essa in collaborazione con il team dell’Opificio delle Pietre Dure: Letizia Montalbano, specializzata nei disegni, Roberto Bellucci, che ha già lavorato all’Adorazione dei Magi dello stesso Leonardo (vedi «Medioevo» n. 261, ottobre 2018; on line su issuu.com) e ha curato gli aspetti della diagnostica ottica, sotto la supervisione di Cecilia Frosinini e del soprintendente Marco Ciatti.
Stesure e materiali differenti La prima battuta di indagini ha messo in luce due differenti stesure, evidenziando un’area e alcuni dettagli che sono stati aggiunti in un secondo tempo alla prima versione dell’opera. Sono state svolte analisi di tipo ottico sul recto del disegno e, successivamente, le stesse indagini hanno interessato il verso del foglio, dove è schizzata una figura umana. «I primi esami – spiega Cecilia Frosinini – hanno evidenziato l’utilizzo di due materiali diversi nei tratti del disegno. Un inchiostro ferrogallico nero e un materiale carbonioso liquido, forse applicato con un pennello molto sottile, in particolare per costruire la formazione rocciosa centrale. Siamo riusciti a evidenziare alcuni particolari e leggerli attraverso immagini ad altissima risoluzione, in luce
diffusa e in infrarosso, individuando le due diverse fasi. È probabile che Leonardo sia ritornato sul disegno in un secondo momento, magari proprio dopo i suoi studi sulla geologia e sulle rocce». (red.)
Nella pagina accanto il recto e il verso del Paesaggio disegnato da Leonardo da Vinci e datato 5 agosto 1473. Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. In questa pagina la consegna dell’opera all’Opificio delle Pietre Dure e una fase delle prime indagini su di essa condotte.
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ANTE PRIMA
Nel segno dell’imperatore ITINERARI • La Capitanata, porzione
settentrionale della Puglia chiusa fra i rilievi dell’Appennino e le acque dell’Adriatico, è un autentico scrigno di tesori, legati alla figura di Federico II di Svevia. Ve ne parleremo presto...
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asta nominare Castel del Monte per richiamare alla mente un’immagine sontuosa della Puglia medievale. Non a caso, quell’edificio nasce dalla volontà di un personaggio dal carisma inconfondibile, l’imperatore Federico II di Svevia, che ebbe modo di legare alla regione adriatica non pochi momenti della propria vita. E in Puglia Federico morí, il 13 dicembre 1250. Sebbene si tratti di una circostanza assai nota, pochi saprebbero descrivere il luogo in cui si spense la vita del celebre monarca. Magari il nome della località, Castel Fiorentino, non suona del tutto nuovo, ma se – proprio grazie alla memoria di Federico – Castel del Monte è una meta irrinunciabile, Castel Fiorentino è un luogo pressoché
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In alto Castel Pagano. I resti della fortezza normanno-sveva. A destra Castel Fiorentino, particolare del monumento che commemora Federico II.
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ignoto. Si deve raggiungerlo ben consapevoli che non custodisce qualcosa di appariscente. La località si trova in alta collina, immersa nel silenzio e affacciata su un panorama di vasto respiro. In questo scenario, aspro e potente, si collocano i ruderi della domus in cui Federico II esalò l’ultimo respiro. Sono solo ruderi, e per giunta di un edificio che non aveva i requisiti di un’opera grandiosa, eppure suscitano sensazioni indimenticabili.
Una terrazza sul Tavoliere Ma Castel Fiorentino non è il solo caso di luoghi appartati o comunque solo sfiorati dall’attenzione dei visitatori, nonostante il loro fascino. La Capitanata, ossia il lembo settentrionale della Puglia, serrato tra l’Appennino e l’Adriatico, è sotto questo punto di vista uno scrigno di mete irrinunciabili. Per rimanere nel solco di Federico II, basti pensare a Castel Pagano, un presidio normanno-svevo da cui si gode di una visione privilegiata del Tavoliere. Le rovine si stagliano in una landa rocciosa «abitata» solo dal bestiame che pascola allo stato brado. In alto e a sinistra Lucera. Particolari architettonici della fortezza svevo-angioina. Nell’immagine in alto si può osservare il riuso di elementi di epoca romana.
E non mancano le città piccole e grandi, con significative testimonianze del Medioevo, anche di piena età angioina. Lucera è sotto questo punto di vista davvero avvincente, già solo con la memoria del suo insediamento «saraceno»
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e delle vicende che portarono alla sua totale riconversione. La sua cattedrale è stata costruita sul luogo della preesistente moschea, e la complessa realtà della fortezza si impernia sui resti del palazzo voluto da Federico II in persona, con una
profusione di aspetti architettonici e decorativi che lo rendeva del tutto in linea con lo stile di Castel del Monte, sia pure su un’altra scala. Lo stesso capoluogo di provincia, Foggia, mostra una chiesa con un’importante fase di piena età federiciana, e di Federico conserva due elementi del raffinato palatium che egli edificò nel cuore della città. Lungo i percorsi che si irraggiano nell’entroterra, è facile imbattersi in paesi di altura, come Orsara o Faeto. Borghi accoglienti e piacevoli dove una sosta permette sempre di scoprire una chiesa o un piccolo museo di valore. Alle meraviglie di questo lembo della Puglia meno nota sarà dedicato un ampio servizio nel prossimo numero della rivista. Furio Cappelli
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Castello superstar Sulle due pagine il Castello Aragonese di Taranto. Nonostante i ripetuti rimaneggiamenti, l’assetto attuale della fortezza è frutto del progetto commissionato da Ferdinando d’Aragona a Francesco di Giorgio Martini e realizzato fra il 1487 e il 1492.
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MUSEI • Il 2018
si è chiuso con un bilancio piú che lusinghiero per uno dei simboli della città di Taranto: la poderosa fortificazione voluta dal re Ferdinando d’Aragona alla fine del Quattrocento
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nsieme al Ponte girevole e al MArTA (Museo Archeologico Nazionale di Taranto), il Castello Aragonese di Taranto è ormai una delle principali attrazioni cittadine: lo confermano i dati dell’anno appena concluso, nel quale si è registrato un ulteriore incremento delle presenze, giunte a quota 121 575, pari a oltre il 35% in piú del 2017. Un risultato che premia l’iniziativa assunta dalla Marina Militare nel 2005, quando, all’indomani di una campagna di restauro promossa due anni prima, si decise di aprire al pubblico le porte del complesso. Una scelta accompagnata dalla valorizzazione culturale del sito attraverso le attività di manutenzione, di restauro e di ricerca archeologica in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi, Lecce e Taranto. Castel Sant’Angelo, perché questo è il suo nome originario, sorge in prossimità di una depressione naturale del banco roccioso sulla quale si estende il borgo antico di Taranto e la struttura che oggi
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possiamo ammirare non è altro che la ricostruzione promossa in epoca aragonese di un insediamento fortificato che – come è stato anche confermato da recenti indagini archeologiche – ha avuto una vita lunghissima, articolata in piú momenti, che dalla fase normannosvevo-angioina risalgono nel tempo fino al IV secolo a.C., quando la città era uno dei piú importanti centri della Magna Grecia.
Per resistere ai cannoni La seconda vita ebbe inizio sul finire del XV secolo e fu di fatto una risposta all’evoluzione dell’arte militare: il miglioramento dell’artiglieria – registrato soprattutto in Turchia e in Francia, nelle fasi finali della Guerra dei Cent’anni – aveva evidenziato l’inadeguatezza dei castelli medievali, rivelatisi troppo facilmente vulnerabili di fronte ai cannoni e la Puglia, in particolare, ne patí una drammatica conferma nel 1480, quando Otranto venne presa dai Turchi. L’allora re di Napoli, Ferdinando d’Aragona,
dispose quindi il rafforzamento delle difese costiere del regno e incaricò l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini di elaborare un progetto per Taranto. I lavori ebbero inizio nel 1487 e si conclusero cinque anni piú tardi, come ricorda la lapide murata sulla Porta Paterna del castello che, ornata dello stemma degli Aragonesi inquartato con l’arma dei d’Angiò, recita: «Re Ferdinando aragonese, figlio del divino Alfonso e nipote del divino Ferdinando, rifece in forma piú ampia e piú solida questo castello cadente per vecchiaia, perché potesse sostenere l’impeto dei proiettili che è sopportato col massimo vigore. 1492». In realtà, nonostante gli auspici, il complesso si rivelò poco efficiente dal punto di vista militare e a poco valsero i successivi rimaneggiamenti, tanto che, nel 1594, dopo aver subito l’assalto dei Turchi, si decise di trasformarlo in caserma e prigione. Funzione, quest’ultima, che mantenne fino al 1887, anno in cui il castello tornò a essere sede militare e piú precisamente della Marina Militare. (red.)
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Rivelazioni in basilica TECNOLOGIA • 100 000 luci LED per 22 000 metri quadrati: ecco, in estrema
sintesi, l’identikit dell’impianto di illuminazione inaugurato in S. Pietro. Luci mirate, grazie alle quali sono tornati anche visibili i pregevoli mosaici delle volte della chiesa
È
stata ufficialmente inaugurata, il 25 gennaio scorso, la nuova illuminazione della basilica di S. Pietro. Dopo l’anteprima offerta in occasione della messa della notte di Natale, l’impianto è stato presentato alle autorità e alla stampa italiana ed estera in una serata particolarmente suggestiva. Dopo aver fatto piombare l’intera chiesa nell’oscurità piú assoluta, i primi squilli di tromba del programma musicale ideato per l’occasione hanno segnato l’accensione delle prime luci, concentrate sulla cattedra di san Pietro, che troneggia nel coro della chiesa all’interno del monumentale reliquiario disegnato da Gian Lorenzo Bernini. Il crescendo dei fiati, dell’organo e poi del coro ha quindi sottolineato le successive accensioni, fino al culmine dell’operazione, che ha visto risplendere come non mai il baldacchino di san Pietro, frutto anch’esso dell’estro berniniano.
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I numeri del progetto Dopo gli interventi realizzati in piazza San Pietro, nella Cappella Sistina e nelle Stanze di Raffaello, si è dunque concluso con successo un altro importante progetto volto alla migliore fruizione di uno dei monumenti piú visitati al mondo, con una media di 27 000 presenze al giorno. E, in tema di numeri, è utile ricordarne ancora qualcuno: il progetto di illuminazione – ideato, eseguito e portato a termine nell’arco di due anni – comprende 780 apparecchi LED appositamente
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sviluppati, dotati di 100 000 LED e di un sistema di controllo digitale della luce; grazie al nuovo sistema è stato ottenuto un risparmio energetico fino al 90%, con una riduzione del numero di apparecchi dell’80%; in varie cupole la quantità di luce è circa 10 volte superiore alla situazione ante operam; per effetto dello sviluppo architettonico di elevate proporzioni, gli apparecchi sono stati installati a diverse altezze, comprese tra i 12 e i 110 m.
Ma l’elemento che piú di altri è stato sottolineato è la vera e propria riscoperta dei mosaici che ornano le cupole e i pennacchi della basilica. Si tratta di circa 10 000 mq di composizioni policrome – realizzate fra il XVI e il XVII secolo – molte delle quali erano pressoché illeggibili e che si offrono ora all’ammirazione di visitatori e studiosi. Inoltre, l’impianto è gestito da un sistema di controllo della luce digitale attraverso il quale è possibile marzo
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A destra la cattedra di san Pietro, collocata nel coro della basilica di S. Pietro. Nella pagina accanto e in basso due immagini che mostrano gli effetti della nuova illuminazione sui mosaici che ornano le cupole e le volte della basilica.
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adattare in maniera rapida e mirata l’illuminazione della superficie di quasi 22 000 mq complessivi della basilica, in base a scenari specifici dettati dalle esigenze della liturgia.
Tra fede e arte Come ha detto il cardinale Angelo Comastri, Arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano, «la nuova illuminazione risponde perfettamente alle esigenze di culto, preghiera e celebrazione, in particolare quando è presente il Santo Padre. Ma abbiamo raggiunto anche un altro scopo grazie a questa illuminazione “intelligente”: la possibilità di ammirare la bellezza architettonica della Basilica». Il nuovo impianto di illuminazione è frutto del progetto sviluppato dall’azienda tedesca Osram, d’intesa con il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano e la Reverenda Fabbrica di San Pietro. (S. M.)
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IN EDICOLA
SIGNORIE DELL’ITALIA MEDIEVALE LE GRANDI
L’Italia delle signorie è, insomma, un Paese nuovo, che si fa teatro di una stagione destinata a rimanere sotto molti aspetti ineguagliata.
Battista Sforza, scomparto del dittico a olio su tavola di Piero della Francesca che raffigura i duchi di Montefeltro (l’altro scomparto compare nella copertina del Dossier riprodotta qui sopra). 1473-1475 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi. È
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SIGNORIE
ITALIA MEDIEVALE
♦ VISCONTI-SFORZA ♦ SAVOIA ♦ GONZAGA ♦ ESTENSI ♦ MEDICI ♦ MALATESTA ♦ MONTEFELTRO
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GLI ARGOMENTI
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IN EDICOLA IL 28 FEBBRAIO 2019 Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
DELL’
GRANDI
N°31 Marzo/Aprile 2019 Rivista Bimestrale
Dai Visconti agli Estensi, dai Gonzaga ai Medici, c’è poi un comune denominatore non meno importante: la propensione per le arti e per le lettere. Milano, Mantova, Ferrara o Firenze non si impongono soltanto come centri di potere politico, ma divengono anche culle di un mecenatismo illuminato, grazie al quale, ancora oggi, possiamo ammirare straordinarie realizzazioni nei campi dell’architettura, della pittura e della scultura e rilevare, parallelamente, l’eccezionale fioritura di opere di poesia e di prosa.
LE
LE GRANDI SIGNORIE DELL’ITALIA MEDIEVALE
Se dell’Italia comunale erano state protagoniste soprattutto le collettività, con l’affermazione dei regimi signorili si profilano singoli personaggi e le loro relative dinastie, che si fanno artefici di realtà amministrative nelle quali possiamo vedere altrettante forme embrionali di organismi statuali. Un mutamento significativo, dunque, che nel Dossier viene illustrato attraverso le vicende delle signorie che maggiormente si distinsero sulla scena italiana.
VO MEDIO E Dossier
DE IL M
ommaso Indelli, autore del nuovo Dossier di «Medioevo» esordisce ricordando come l’avvento delle signorie costituisca ancora oggi un fenomeno di non facile lettura dal punto di vista storiografico. Tuttavia, anche in anni recenti, le ricerche hanno contribuito in maniera decisiva a dissipare piú di un’incertezza, permettendo di ricostruire le tappe fondamentali di un fenomeno che ha segnato la storia della Penisola fra XIV e XV secolo.
MEDIOEVO DOSSIER
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14/02/19 15:58
• LA NASCITA DELLE SIGNORIE • I VISCONTI E GLI SFORZA • I GONZAGA • GLI ESTENSI • I MEDICI • LE SIGNORIE MINORI
una delle opere ritrattistiche piú celebri del Rinascimento: l’armonia classicheggiante dei profili dei nobili si colloca in una prospettiva che fa emergere anche i minuti particolari del paesaggio marchigiano, ben visibili sullo sfondo.
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AGENDA DEL MESE
Mostre VENEZIA GLI ULTIMI GIORNI DI BISANZIO. SPLENDORE E DECLINO DI UN IMPERO Biblioteca Nazionale Marciana, Salone della Libreria Sansoviniana fino al 5 marzo
Cuore della mostra è la cosiddetta «icona di San Luca di Freising», opera bizantina raffigurante la Madonna dal titolo «Speranza dei disperati«. L’opera è emblema della situazione tragica in cui si trovava Bisanzio, in lotta con gli Ottomani, fra Tre e Quattrocento. Per ottenere sostegno militare, l’imperatore Manuele II Paleologo intraprese tra il 1399 e il 1403 un viaggio diplomatico
in Occidente, durante il quale portò con sé l’icona di San Luca e molti altri oggetti di estremo valore da donare ai potenti europei. In questa eccezionale occasione, per la prima volta dopo piú di sei secoli, l’icona è tornata a Venezia, città del suo primo approdo in Europa. Nella mostra, in otto sezioni, sullo sfondo dei rivolgimenti politici internazionali che portarono alla caduta di Costantinopoli nel 1453, viene illustrato il significato del viaggio dell’imperatore
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a cura di Stefano Mammini
Manuele II e dei suoi doni diplomatici, testimonianze dell’intenso scambio culturale tra l’Europa – e in particolare Venezia – e Bisanzio agli albori dell’Umanesimo. info tel. 041 2407211; https://marciana.venezia.sbn.it ROMA L’ADOLESCENTE DI MICHELANGELO (ESPOSIZIONE STRAORDINARIA) Rhinoceros, Fondazione Alda Fendi-Esperimenti fino al 10 marzo
Proveniente dal Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo, l’Adolescente di Michelangelo viene esposto in per la prima volta a Roma. Probabilmente realizzato nei mesi piú travagliati della vita di Michelangelo intorno al 1530, il prezioso marmo è uno dei pochissimi lavori del grande scultore conservati all’estero, giunto in Russia per iniziativa della zarina Caterina II la Grande, che lo acquistò da un banchiere inglese nel 1787. La mancanza di documentazione relativa all’opera, la particolarità dell’utilizzo di un marmo di seconda mano, non usuale in Michelangelo ma probabilmente compatibile con l’impossibilità di procurarsi
altro materiale nella situazione di pericolo in cui egli si trovò all’indomani della caduta della Repubblica di Firenze, la sua incompiutezza e la mancanza di attributi rendono la scultura proveniente dall’Ermitage ancora piú affascinante, aperta a tante e diverse interpretazioni sul significato assegnatole dal maestro. Si discute ancora sulle motivazioni che avrebbero spinto Buonarroti a lasciare molte statue incompiute: fattori contingenti o la scelta convinta di interrompere l’opera in un determinato momento per conseguire un effetto migliore? Quest’ultimo è probabilmente il punto di vista piú vicino alla verità, considerata la modernità della concezione dell’arte di Michelangelo, soprattutto negli anni della vecchiaia. Resta la tragicità rappresentata dal giovane, schiacciato da una forza superiore, accovacciato su se stesso, alla ricerca di una compiutezza non solo materiale ma soprattutto spirituale, espressione forse di un momento di grande sconforto vissuto dall’artista. info http://fondazionealdafendiesperimenti.it PARIGI LA FESTA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans Peur fino al 5 maggio
Gli spazi espositivi della torre parigina che porta il nome di Giovanni senza Paura ospitano una rassegna dedicata alla festa, tema di grande interesse anche per i molteplici risvolti di carattere sociale. Si parte da un dato eloquente: nei secoli dell’età di Mezzo un giorno su tre era festivo, vuoi perché dedicato a solennità religiose, vuoi perché scelto per celebrare ricorrenze personali, collettive o politiche,
in occasione delle quali si allestivano giostre, tornei e banchetti. Questa sorta di viaggio nello svago si apre con i grandi appuntamenti devozionali del Natale e della Pasqua, con il loro vasto e articolato corollario di riti e consuetudini. Seguono quindi gli appuntamenti con i santi patroni e le tappe che scandivano la vita di uomini e donne: battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio e, infine, funerale. Ma, come detto, c’è spazio anche per il profano e dunque per mascherate, charivari, feste campestri… Un’atmosfera rutilante di suoni, voci, colori, sapientemente evocati nel percorso della mostra. info www.tourjeansanspeur.com MODENA GALLERIA METALLICA. RITRATTI E IMPRESE DAL MEDAGLIERE ESTENSE Galleria Estense fino al 31 marzo
Per festeggiare la riapertura del suo percorso di visita, la Galleria Estense ha allestito la mostra Galleria metallica. Ritratti e imprese dal medagliere estense, che presenta una selezione tematica di medaglie e monete della Collezione Estense e opere a esse correlate, tra cui gemme incise, disegni, volumi marzo
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a stampa e strumenti di lavoro come stipi, repertori di calchi, conii e punzoni. La rassegna corona il lavoro di riordino, schedatura, restauro e digitalizzazione della collezione di 2400 medaglie e placchette della Galleria Estense, avviato nel 2016 e attuato in
collaborazione con la Fondazione Memofonte di Firenze. Il percorso espositivo, che si avvale anche di importanti prestiti esterni, illustra la nascita e lo sviluppo di questo peculiare genere artistico, dai capolavori rinascimentali di Pisanello ai virtuosismi di età barocca e neoclassica. info tel. 059 4395711; www.gallerie-estensi.beniculturali. it/galleria-estense/ FERRARA CANTIERI PARALLELI. LO STUDIOLO DI BELFIORE E LA BIBBIA DI BORSO. 1447-1463 Pinacoteca Nazionale fino al 22 aprile
In occasione del rinnovamento dei suoi spazi espositivi, la Pinacoteca Nazionale di Ferrara in Palazzo dei Diamanti ospita uno dei manoscritti rinascimentali piú importanti al mondo, la Bibbia di Borso d’Este, capolavoro fra i piú rappresentativi della civiltà figurativa nata nell’antica capitale del ducato, ora
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conservato alla Biblioteca Estense di Modena. L’illustrazione della Bibbia, realizzata da un’équipe di miniatori guidata da Taddeo Crivelli e Franco dei Russi, ha costituito uno dei due cantieri artistici nel quale è stato forgiato lo stile della scuola ferrarese del Rinascimento. L’opera è esposta nella sala dedicata allo studiolo di Belfiore in Palazzo dei Diamanti, ambiente voluto per la prima volta da Leonello d’Este alla metà del Quattrocento come luogo dedicato alla meditazione e ai piaceri intellettuali. Alla Bibbia di Borso d’Este si affianca un altro illustre ospite, ovvero la tavola raffigurante la musa Polimnia, proveniente dalla Gemäldegalerie di Berlino, che
si riunisce all’Erato e all’Urania con cui formava parte della decorazione pittorica di questo spazio. Una selezione di medaglie rinascimentali, monete e gemme antiche provenienti dalle raccolte della Galleria Estense di Modena ricorda come lo studiolo fosse anche luogo dedicato all’accumulo e all’esposizione delle prime collezioni umanistiche. Un touch screen realizzato da FrameLAB, laboratorio del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna, permette inoltre al pubblico di visitare virtualmente lo studiolo, ammirando e interrogando le muse che lo abitavano. Una seconda postazione multimediale consente di sfogliare virtualmente la Bibbia per intero.
info tel. 0532 205844; www.gallerie-estensi.beniculturali. it/pinacoteca-nazionale/
FAENZA AZTECHI, MAYA, INCA E LE CULTURE DELL’ANTICA AMERICA MIC-Museo Internazionale della Ceramica fino al 28 aprile
Nell’affrontare il vasto e articolato universo delle civiltà precolombiane, la rassegna si concentra soprattutto sulla Mesoamerica e sull’area peruviana. E lo fa attingendo
alle notevoli collezioni del MIC, perlopiú con pezzi custoditi nei suoi depositi e finora mai esposti al pubblico. Completano il percorso espositivo reperti selezionatissimi, concessi in prestito dai piú importanti musei e raccolte italiane. Protagonisti principali della mostra sono gli Aztechi, ai quali si deve la creazione del piú potente impero della Mesoamerica, e che stupirono i conquistadores per il livello della loro organizzazione sociale, non dissimile da quella dell’Europa del tempo, pur in presenza di aspetti, come il cannibalismo e i sacrifici
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AGENDA DEL MESE umani, inaccettabili per i nuovi arrivati. Poi i Maya, del Periodo Classico, capaci di elaborare sistemi calendariali raffinatissimi e una scrittura logo-sillabica che è stata decifrata solo negli ultimi decenni. E infine gli Inca, che costruirono il piú grande impero di tutto il Nuovo Mondo. Con un’organizzazione sociale che ha spinto alcuni studiosi a parlare di «socialismo». info www.micfaenza.org GUBBIO TESORI RITROVATI. RESTAURI PER «GUBBIO AL TEMPO DI GIOTTO» Palazzo dei Consoli fino al 1° maggio
La mostra «Gubbio al tempo di Giotto» (vedi «Medioevo» n. 260, settembre 2017; anche on line su issuu.com) ha restituito alla comunità una serie di opere restaurate, che, di fatto, rappresentano il nucleo piú consistente dell’intero patrimonio museale cittadino d’epoca medievale. Questa operazione ha permesso di realizzare un nuovo progetto espositivo «Tesori ritrovati. Restauri per “Gubbio al tempo di Giotto”», dedicato ai restauri
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e ai recuperi e quindi ai confronti possibili tra opere e maestri, tra materiali e tecniche esecutive, tra forme e funzioni del prodotto artistico in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo, nell’età d’oro di Gubbio e del suo vasto contado. Vengono dunque presentate molte delle opere recentemente restaurate: come le due grandi croci dipinte del Museo Civico di Gubbio, le opere del Maestro della Croce di Gubbio, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Pietro Lorenzetti, del cosiddetto «Guiducci Palmerucci» e di Mello da Gubbio. info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbiocm.it FIRENZE NUOVE ACQUISIZIONI 2016-2018 Galleria dell’Accademia fino al 5 maggio
Il programma per l’anno 2019 della Galleria dell’Accademia di Firenze ha come fil rouge la tutela del patrimonio culturale e «Nuove Acquisizioni 20162018» ne costituisce la prima, significativa testimonianza. La mostra riunisce capolavori che, in maniere diverse, sono giunti ad arricchire le collezioni permanenti: alcune sono state acquistate sul mercato antiquario, altre sono pervenute grazie a generose donazioni, altre da confische in seguito all’esportazione illecita a opera del Nucleo Patrimonio dei Carabinieri, altre, infine, sono giunte in Galleria dai depositi della Certosa di Firenze. Le tavole acquisite nel 2017 con i fondi ordinari della Galleria dell’Accademia sono due raffinati sportelli provenienti da un tabernacolo, disperso, di Mariotto di Nardo, pittore fiorentino di cui si hanno notizie dal 1394 al
1424. I pannelli frammentati sono stati comprati da due diversi proprietari e ricomposti dopo l’acquisto. Impreziosito da raffinate decorazioni in pastiglia dorata che racchiudono le figure dei santi, il tabernacolo è sicuramente frutto di una committenza prestigiosa ed è stato eseguito da Mariotto di Nardo intorno al 1420. I pannelli, che in origine erano certamente di dimensioni maggiori, includevano molto probabilmente altre due coppie di santi, purtroppo perdute o fino a oggi non ritrovate. I quattro frammenti oggi ricomposti si trovavano, alla fine dell’Ottocento, esposti in sale diverse della raccolta Corsini, nell’omonimo palazzo fiorentino in riva all’Arno. Ben quattro opere sono giunte nel 2016 al Museo da un deposito situato presso la Certosa di Firenze. Si tratta di una Incoronazione della
Vergine e angeli di Mariotto di Nardo; di una Santissima Trinità del Maestro del 1419; di una Madonna col Bambino in trono fra angeli del Maestro del 1416 e di una Madonna col Bambino e santi di Bicci di Lorenzo. A causa di una cattiva condizione di conservazione, l’Incoronazione di Mariotto di Nardo e la Santissima Trinità del Maestro del 1419 sono stati recuperati nei loro valori pittorici da un accurato lavoro di restauro. Due strepitose opere come I due santi di Niccolò di Pietro Gerini, in origine scomparto destro di un trittico disperso, e la Madonna dell’Umiltà del raro Maestro della Cappella Bracciolini, sono state assegnate alla Galleria dopo il brillante recupero da parte del Reparto Operativo dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Roma. info tel. 055 0987100; www.galleriaaccademiafirenze. beniculturali.it ALESSANDRIA ALESSANDRIA SCOLPITA. 1450-1535. SENTIMENTI E PASSIONI FRA GOTICO E RINASCIMENTO
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Nata da un attento studio sul patrimonio storico-artistico del Piemonte alessandrino e maturata dopo anni di ricerca sul campo, la rassegna invita a riconsiderare la fisionomia di Alessandria negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Una periodizzazione che coincide con i decenni di effettivo dominio sforzesco sulla città e con la sua ascesa quale fulcro territoriale e originale snodo culturale di un’area di cerniera tra realtà diverse: Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro. I frammenti figurativi superstiti restituiscono infatti la posizione sorprendente e policentrica di Alessandria nel grande rinnovamento figurativo dell’epoca e l’immagine di una cultura artistica che, ricca di accenti propositivi, elabora modelli propri, specie nel vastissimo campo dei crocifissi. Ognuna delle tre ampie sezioni dell’esposizione è idealmente collegata a un gruppo del Compianto sul corpo di Cristo. La prima parte è incentrata su quello proveniente dal Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, la seconda su quello dell’oratorio della Pietà a Castellazzo Bormida (Alessandria) e la terza su quello dell’oratorio dei Bianchi a Serravalle Scrivia (Alessandria). Ciascun manufatto rappresenta l’ideale manifesto di tre generazioni di artisti piemontesi, che testimoniano i paradigmi di altrettante diverse maniere di intendere la forma. info tel. 0131 313400; e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it
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Poche, purtroppo, sono le opere superstiti di Antonello da Messina (1430-1479), scampate a tragici avvenimenti naturali come alluvioni, terremoti, maremoti e all’incuria e ignoranza degli
altre sono arrivate sino a noi miracolosamente intatte. Oltre la metà delle 35 che ne conta la sua atuografia giungono ora Milano, in una mostra che costituisce perciò una occasione imperdibile per entrare nel mondo di un artista eccelso e inconfondibile, considerato il piú grande ritrattista del Quattrocento. Si potranno dunque ammirare, fra gli altri, il Sant’Agostino (1472-1473), il San Girolamo (1472-1473) e il San Gregorio Magno (1470-1475), forse appartenenti al Polittico dei Dottori della Chiesa, tutti provenienti da Palazzo Abatellis di Palermo; ma anche il celeberrimo Ritratto d’uomo (1465-1476) dall’enigmatico sorriso
uomini; quelle rimaste sono disperse in varie raccolte e musei fra Tirreno e Adriatico, oltre la Manica, al di là dell’Atlantico; molte hanno subito in piú occasioni pesanti restauri che hanno alterato per sempre la stesura originaria,
proveniente dalla Fondazione Culturale Mandralisca di Cefalú, utilizzato originariamente come sportello di un mobiletto da farmacia, oggetto di vari restauri e conosciuto nella tradizione locale come «ignoto marinaio».
compianto decano degli studi vinciani, Carlo Pedretti, aveva già assegnato alla collaborazione tra Leonardo e il capace allievo Giampietrino. info tel. 011 19214730; e-mail: info@nextexhibition.it; https://mostradavinci.it/
Palazzo del Monferrato
fino al 5 maggio
TORINO LEONARDO DA VINCI. TESORI NASCOSTI Palazzo Cavour fino al 12 maggio
In occasione delle celebrazioni del cinquecentenario dalla scomparsa di Leonardo da Vinci, promosse a livello mondiale, il Palazzo Cavour di Torino propone una rassegna che offre l’opportunità di ammirare e comprendere in una visione d’insieme la straordinaria complessità del genio nella pittura del suo tempo. L’uomo e lo scienziato, anello di congiunzione tra il mondo dell’arte e il mondo della tecnica, viene presentato e descritto tramite le opere dei suoi allievi e non solo. Nello specifico si intende ragionare, con elementi nuovi e avvincenti, sulla posizione storica di alcuni frammenti di vita di Leonardo e dei rapporti artistici intercorsi con i suoi piú fidati allievi e seguaci: il nastro che unisce la dialettica figurativa del maestro a tali diretti discendenti, è calcolato sulla base delle suggestioni e delle riflessioni che la cultura del tempo ha recepito dal leggendario e innovativo genere di proporre argomenti umanistici, scientifici e figurativi, sino a quel momento ignoti. La mostra di Torino riporta al grande pubblico, fra le altre, la visione di un’opera di straordinaria rilevanza: la Maddalena discinta, che il
MILANO ANTONELLO DA MESSINA. DENTRO LA PITTURA Palazzo Reale fino al 2 giugno
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AGENDA DEL MESE E poi, dalla National Gallery di Londra, il San Girolamo nello studio (1474-1475) in cui si armonizzano ispirazioni classiche e dettagli fiamminghi e il Cristo benedicente (1474 circa). O, ancora il Ritratto d’uomo (Michele Vianello?) (1475-1476) dalla Galleria Borghese di Roma e il poetico Cristo in pietà sorretto da tre angeli (1474-1476 circa) dal Museo Correr di Venezia. info www.palazzorealemilano.it ROMA FILIPPO RUSUTI E LA MADONNA DI SAN LUCA IN SANTA MARIA DEL POPOLO Castel Sant’Angelo, Sala della Biblioteca fino al 30 giugno (prorogata)
Protagonista dell’esposizione è l’icona Madonna con il Bambino, proveniente dalla chiesa di S. Maria del Popolo a Roma, il cui recente restauro ne ha permesso l’attribuzione all’artista duecentesco Filippo
Rusuti. L’opera, finora tradizionalmente attribuita all’evangelista Luca e per questo nota come Madonna di San Luca, è una delle immagini piú venerate della storia della città di Roma, come attestano vuoi la fama di «immagine miracolosa» vuoi gli atti ufficiali della storia della Chiesa. La tavola (nello specifico una tela impannata su tre assi in legno di noce) mostra un’immagine di derivazione bizantina – la Vergine è ritratta di fronte, tiene in braccio il Bambino rigidamente eretto, completamente vestito e benedicente – e propone i tratti dell’iconografia tradizionale dell’Odigitria, «colei che mostra la via», cioè Cristo, arricchita però di un diverso pathos, quello dell’affettuosità familiare: la Madre volge il capo verso il figlio, indirizzandogli uno sguardo pieno di tenerezza. Il
Figlio poggia la mano sinistra su quella della Madre, confermando il suo attaccamento. L’opera si discosta dall’inanimata astrazione delle figure, tipica dell’iconografia dell’epoca, e mostra nella gestualità e nella vivacità cromatica quel carattere d’intimità che sollecita l’empatia del fruitore. L’ultimo e accurato restauro ha portato alla luce parti di firma che si è potuta riconoscere come quella di Filippo Rusuti che firmò, verosimilmente entro il 1297, il monumentale mosaico che ancora orna, in parte nascosto dal loggiato settecentesco, la fascia superiore della facciata della basilica di S. Maria Maggiore. info tel. 06 32810410; www.art-city.it FIRENZE VERROCCHIO, IL MAESTRO DI LEONARDO Palazzo Strozzi, con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello fino al 14 luglio (dal 9 marzo)
Dedicata a un artista emblematico del Rinascimento e prototipo del genio universale, la mostra riunisce capolavori di Verrocchio, a confronto serrato con opere capitali di precursori, artisti a lui contemporanei e discepoli, come Desiderio da Settignano, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Bartolomeo della Gatta, Lorenzo di Credi e Leonardo da Vinci. Verrocchio sperimentò nella sua bottega tecniche e materiali diversi, dal disegno alla scultura in marmo, dalla pittura alla fusione in bronzo. Egli formò un’intera generazione di maestri, con i quali ha sviluppato e condiviso generosamente il proprio sapere. Nella storia dell’arte
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solo Giotto, Donatello e Raffaello hanno dato origine a una «scuola» paragonabile a quella di Verrocchio. Tramite il suo insegnamento si formarono artisti che hanno diffuso in tutta Italia, e fuori, il gusto e il linguaggio figurativo fiorentino, come testimoniano opere quali il David in prestito dal Museo Nazionale del Bargello, uno dei simboli assoluti dell’arte del Rinascimento e della città di Firenze stessa, e il Putto col delfino, in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio, opera capitale e modello di naturalezza. Alla scultura si affiancano dipinti supremi come la Madonna col Bambino della Gemäldegalerie di Berlino o la Madonna col Bambino e angeli e l’Arcangelo Raffaele e Tobiolo della National Gallery di Londra: capolavori presentati insieme per la prima volta, che attestano lo straordinario talento di Verrocchio nel campo della pittura, in cui diviene punto di riferimento per i suoi celebri allievi. La mostra, inoltre, collega idealmente Palazzo Strozzi col Museo del Bargello: luoghi marzo
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espositivi distinti, ma complementari, di un percorso articolato in undici sezioni, di cui nove a Palazzo Strozzi e due al Museo del Bargello, dedicate al tema dell’immagine di Cristo, dove sarà esposta l’Incredulità di san Tommaso, capolavoro bronzeo di Verrocchio. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org TORINO NOTRE-DAME DE PARIS. SCULTURE GOTICHE DALLA GRANDE CATTEDRALE Palazzo Madama, Sala Stemmi fino al 30 settembre (dal 4 aprile)
Frutto di una collaborazione con il Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge di Parigi, l’esposizione dà vita a quattro sculture gotiche provenienti dalla cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’evento si configura come una mostra dossier dedicata al tema della scultura gotica francese nella prima metà del 1200 e, in particolare, al cantiere della cattedrale parigina. Dal portale dell’Incoronazione della Vergine sulla facciata occidentale proviene la Testa d’Angelo, mentre dal portale del braccio settentrionale del transetto provengono la Testa di Re mago, la Testa di uomo
barbuto e la Testa di figura femminile, allegoria di una virtú teologale. Queste quattro opere, oltre a essere esempi di altissima qualità della scultura medievale europea, sono testimonianze di quel momento della civiltà gotica indicato dal celebre storico dell’arte Cesare Gnudi come «classicismo gotico» o «naturalismo gotico», che ebbe un forte influsso, alla fine del Duecento, anche sui protagonisti del Gotico in
Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, permette ai visitatori di continuare a godere della collezione dei modelli storici leonardeschi durante il periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per importanti lavori edili, strutturali e impiantistici. «Leonardo da Vinci Parade» è la prima iniziativa realizzata in preparazione del programma «Milano e Leonardo» promosso dal Comitato Territoriale per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo. Milano è la città dove Leonardo operò piú a lungo in tutta la sua vita, circa vent’anni, esplorando molti campi del sapere. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org
artistiche. Sognato dell’uomo fin dai tempi piú antichi, il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico sono eloquenti testimonianze dei risultati che egli raggiunse, dal potenziale fortemente innovativo. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo
SANSEPOLCRO Italia: Giotto, Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre
Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia torna alle origini, esponendo le due collezioni con cui ha aperto al pubblico il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano a offrirsi all’ammirazione del pubblico.
LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020 (dal 13 marzo)
Omaggio concepito in occasione del cinquecentesimo anniversario della morte del maestro, la mostra invita i visitatori a esplorare alcuni ambiziosi progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo, il conferire movimento a oggetti inanimati, il progetto della piú grande statua equestre mai realizzata: sogni che fanno parte della storia dell’umanità da tempi remoti e prendono forma nei suoi disegni e nelle macchine da lui ideate. Visions è un contributo alla conoscenza della genialità e della tenacia con cui Leonardo affrontava le piú audaci sfide tecnologiche e
Galileo di Firenze fanno da corredo al percorso espositivo consentendo sia di approfondire i temi affrontati che di comprendere i principi che governano il funzionamento delle macchine esposte. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it
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AGENDA DEL MESE APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia – Roma verso l’Europa Roma – Teatro Argentina
fino al 7 aprile info tel. 06 684000354; e-mail: catia.fauci@teatrodiroma.net; www.teatrodiroma.net
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iunta alla sua V edizione, «Luce sull’Archeologia», la rassegna di incontri di storia e arte al Teatro Argentina, ripercorre quest’anno la parabola ascendente di Roma, che, affermata la propria egemonia nel Lazio, prosegue il processo di romanizzazione con la conquista della Gallia e la Gallia Cisalpina a opera di Giulio Cesare, che pone cosí i presupposti dell’Italia augustea e lascia un’impronta indelebile nella storia d’Europa. L’impero romano, un mosaico di popoli e culture, divenne un modello capace di integrare e imporre un’unità di «genti diverse in un’unica patria», come disse il poeta Rutilio Namaziano all’inizio del V secolo d.C. A questo ampio excursus si aggiunge, a chiusura della rassegna, un incontro dedicato all’archeologia e alla storia della Lucania romana, pensato come omaggio a Matera Capitale Europea della Cultura 2019. In ogni incontro, introdotto dall’archeologo Massimiliano Ghilardi, ci sono sempre due preziosi interventi: Anteprime dal passato, con notizie su ritrovamenti, scoperte e mostre, a cura di Andreas M. Steiner, e Racconti d’Arte, a cura di Claudio Strinati, con contributi sulle tematiche discusse. Questo il calendario dei prossimi appuntamenti in programma: ●d omenica 3 marzo, ore 11,00 La Britannia romana (Sergio Rinaldi Tufi) La prima cristianizzazione dell’isola (Massimiliano Ghilardi) Le prime rappresentazioni figurative cristiane (Claudio Strinati) ●d omenica 24 marzo, ore 11,00 L’Europa di Carlo Magno (Alessandro Barbero) Una sola architettura per un impero millenario (Alessandro Viscogliosi) Le origini del Medioevo figurativo (Claudio Strinati) ●d omenica 7 aprile, ore 11,00 Roma in Lucania: Venosa e Grumento «luci» sulle città romane (Maria Luisa Marchi) Orazio e le sue origini lucano-apule (Antonio Marchetta) L’idea del monumento aere perennius nella storia della civiltà occidentale (Claudio Strinati).
Appuntamenti FIRENZE UMANESIMO E «MANIERA MODERNA» Antica Canonica di S. Giovanni, Sala Brunelleschi fino al 21 maggio
Nel 2019 ricorrono due cinquecentenari importanti per altrettanti protagonisti (ancorché in ambiti distinti) della cultura fiorentina fra umanesimo e «maniera moderna»: la morte di Leonardo da Vinci, il 2 maggio, ad Amboise, e la nascita di Cosimo I de’ Medici, il 12 giugno, a Firenze. I due anniversari sono stati scelti
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come spunto per il consueto ciclo d’incontri all’Antica Canonica di San Giovanni. Per Leonardo, le letture privilegiano i pensieri (vale a dire le trame e i contenuti illustrati), mentre di Cosimo I viene commentato lo spessore intellettuale che informò il suo collezionismo archeologico. Questo il calendario dei prossimi appuntamenti: 12 marzo, Andrea Baldinotti, Nobiltà e bellezza: la Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci; 26 marzo, Timothy Verdon, Leonardo e il concetto vasariano della «grazia»;
9 aprile, Marino Biondi, Destino dell’umanesimo; 23 aprile, Sergio Givone, Forma e deformazione dall’Alberti a Leonardo; 7 maggio, Fabrizio Paolucci, Sotto il segno dell’Antico: il collezionismo archeologico di Cosimo I; 21 maggio, Gianluca Garelli, L’umanesimo oltre l’umanesimo. Tutti gli incontri sono in programma a partire dalle ore 17,00 e l’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili. info eventi@operaduomo.firenze.it; www. operaduomo.firenze.it marzo
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Storia di un santo cacciatore A A
di Corrado Occhipinti Confalonieri
lla fine del Duecento, nel borgo di Calendasco, situato una decina di chilometri a est di Piacenza, nasce Corrado Confalonieri, la cui nobile casata possedeva vasti feudi, ricevuti quale privilegio, per essere una famiglia guelfa fedele alla Chiesa discendente dall’epoca di Carlo Magno. Un giorno, come faceva spesso, Corrado andò a caccia in una zona di fitta boscaglia, nei pressi del paese. La battuta non ebbe buon esito e il giovane ordinò di appiccare il fuoco alle sterpaglie, certo di riuscire a stanare la cacciagione: complice il forte vento, però, il fuoco in un attimo bruciò tutto ciò che incontrava, tra cui boschi, case e capanne. Spaventati e impotenti, Corrado e il suo seguito fuggirono verso casa, decisi a non far trapelare la verità. Non appena la notizia si propagò in città, tutti credettero che l’incendio fosse stato appiccato dai guelfi per colpire la governanza ghibellina e subito si scatenò la caccia al responsabile, che venne individuato in un povero contadino. La notizia della condanna colpí l’animo di Corrado, che non riusciva a darsi pace per quello che era successo a causa sua. Non esitò quindi a interrompere il corteo punitivo e a chiedere udienza al signore di Piacenza, al quale dichiarò la propria colpevolezza, subendo la pesantissima pena della confisca di tutti i terreni per risarcire il danno fatto. L’evento segnò profondamente la vita di Corrado, che negli anni successivi si avvicinò sempre piú alla fede: vestí infatti l’abito penitenziale francescano ritirandosi nell’eremo nei pressi di Calendasco guidato da frate Aristide. Corrado ebbe quindi modo di riflettere sulla sua scelta, fino prendere la decisione di lasciare Piacenza e dedicarsi alla propria anima e alle cose eterne. Giunse cosí in Sicilia e si fermò a Noto, dove cominciò a godere di grande fama per la guarigione del figlio di un sarto, ma, soprattutto, all’indomani del 1349, quando avrebbe salvato la città dalla carestia fornendo miracolosamente pane a sufficienza a tutti gli abitanti. Morí l’anno seguente e, secondo gli agiografi, al momento della sua dipartita le campane avrebbero suonato senza che nessuno le toccasse. Questa, in estrema sintesi, è la vicenda biografica di san Corrado Confalonieri, ora ripercorsa da Corrado Occhipinti Confalonieri – suo discendente – nel volume La moglie del santo, opera in cui, assieme a quello del santo, viene tratteggiato anche il profilo di sua moglie, Eufrosina Vistarini. Le agiografie ufficiali, infatti, citano solo di sfuggita Eufrosina e scopo del libro vuole essere, invece, quello di ridare voce a una donna coraggiosa, a lungo dimenticata, nel contesto politico, sociale e religioso dell’Italia del XIV secolo. Nelle pagine che seguono presentiamo in anteprima uno dei capitoli piú significativi del volume.
In alto lo stemma dei Confalonieri, nobile casata piacentina che ebbe in Lantelmo (XI sec.) il suo capostipite. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il momento in cui, durante una battuta di caccia al cervo, i cani vengono sciolti perché si lancino all’inseguimento della preda, dall’edizione del Livre de la chasse di Gaston Fébus nota come MS Français 616. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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S «S
to perdendo troppo tempo a cercare me stesso» pensò Corrado mentre si regolava la barba alla luce tremula delle candele. Ma subito aveva accantonato quel pensiero, distratto dai rumori che provenivano dal cortile esterno del castello: i maniscalchi avevano terminato di ferrare il suo cavallo, fra poco sarebbe partito per la battuta di caccia. «La mia vita si è rivelata una continua simulazione della battaglia che non ho mai combattuto. La caccia è la sua metafora. Passatempo prestigioso, utile in fondo a suscitare una fugace ammirazione
in parenti e amici quando torno a casa con il carniere colmo. Poi tutto finisce qui» disse fra sé. Per trovare un minimo di conforto, rivolse il suo pensiero su quello che gli dava soddisfazione. Come miles, dedicava lunghe ore alle prove con arco, balestra e spada. Non se la cavava male, anzi era piuttosto agile e preciso. Durante questi estenuanti allenamenti, sfogava tutta la sua energia e riusciva a non pensare alle sue mancate aspirazioni. Da quando i Visconti avevano preso il potere a Piacenza, ai cavalieri guelfi come lui, svuotati ormai di ogni ruolo politico e sociale, non rimaneva che dedicarsi a queste ludiche attività. Si era mimetizzato indossando una spessa camicia di lino verde sotto una casacca senza maniche di morbido daino con spacchi laterali, lunga fino a me-
tà coscia. I pantaloni erano dello stesso pellame, infilati negli stivali alti fino alle ginocchia e chiusi da quattro fibbie per parte. Dalla cintura pendevano la spada, la scarsella e il corno vuoto da richiamo; a tracolla, l’arco piatto di gelso e la faretra. Guardò fuori dalla finestra. Luglio si era rivelato umido e arido di piogge ma, nonostante la siccità, i campi coltivati a grano che si stendevano verso le mura di Piacenza restavano rigogliosi. Quella mattina, già dall’alba, le spighe erano mosse da una brezza che spirava da nord. La caccia si prevedeva difficile, quel vento leggero ma costante avrebbe certamente protetto la selvaggina dal fiuto dei cani. Voleva catturare un magnifico esemplare di cervo, un maschio dal manto scuro, di almeno 200 libbre, con le ampie corna sormontate da una particolare forchetta a Piacenza. Il Palazzo Pubblico, ribattezzato Gotico nel XIX sec.
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Particolare di una mappa tardocinquecentesca con Calendasco, il borgo del Piacentino dove san Corrado Confalonieri venne alla luce nel 1290.
tre punte. Sarebbe diventato il piú prestigioso trofeo della sua collezione, ormai famosa in tutta la contea e anche oltre. L’aveva notato per la prima volta un paio di anni prima, mentre stava camminando sulle rive del Po per controllare la tenuta dell’argine all’altezza del nuovo mulino. L’animale era intento ad abbeverarsi e non aveva avvertito la sua presenza ma, appena s’era accorto di lui, aveva alzato maestosamente la testa, fissandolo negli occhi in segno di sfida e quando aveva colto un suo attimo di incertezza di fronte a quella strana reazione, era scappato nella foresta. Scendendo l’ampia scalinata che lo conduceva al cortile interno, aveva inutilmente cercato sulle pareti un segno che potesse svelargli se la fortuna gli avrebbe arriso: una rientranza nei mattoni, una traccia della fuliggine lasciata dalle fiaccole che anche solo vagamente potesse ricordare la forma dell’animale. «Signor conte, il vostro cavallo è pronto» gli annunciò Pietrino. Anche Pietrino, suo scudiero, da sempre compagno prediletto di giochi e di avventure si stava avvicinando ai venticinque anni. Da adolescente gli era rimasto vicino durante l’intenso allenamento fisico per diventare cavaliere che a Corrado aveva procurato una lesione ai legamenti della gamba sinistra, ed erano occorsi diversi anni per guarire completamente. In realtà erano fratellastri. Il padre Tommaso lo aveva generato con una serva, Agnese, ormai morta da qualche anno. Nonostante fossero nati da madri diverse, si assomigliavano molto, avendo ereditato la fisionomia del padre. Pietrino era anche lui alto e prestante, il viso dall’ovale regolare, piú stretto
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sulle tempie e dalla mascella decisa, folti capelli scuri e ondulati, il naso teso come un lungo arco e labbra ben disegnate. Erano differenti però per il colore degli occhi, che Pietrino aveva celesti e circoscritti da un anello scuro. «Speriamo che oggi sia la volta buona!» gli disse Pietrino con uno sguardo ironico che Corrado ben conosceva e accettava solo da lui.
Trafitto nell’orgoglio
Da queste parole Corrado si era sentito lui trafitto come da un dardo nell’orgoglio, già ferito da quell’animale che non voleva saperne di essere catturato. Aveva impresso nella memoria lo sguardo altero di quella bestia conscia della propria forza, della propria bellezza, e della sicurezza che gli derivava dalla perfetta conoscenza dei boschi, dei suoi nascondigli e dei tranelli insidiosi per i nemici. «Sai che questa volta non tornerò al castello senza di lui, vero?» In realtà, nel profondo di sé, una strana inquietudine lo stava assalendo. Nessun indizio consolidava il suo ottimismo; e se fosse già morto o l’avesse catturato qualche bracconiere?
Ci teneva però troppo a soddisfare la propria bramosia. Infilò il piede nella staffa e con un balzo saltò in groppa a Wodan. Mentre attraversava il ponte levatoio, alcune rondini a caccia di insetti avevano garrito nel cielo limpido, come impunture su un damasco turchese. «Questo, forse, è il segnale che cerco» pensò per darsi coraggio. Lo stesso Pietrino, percorrendo le strette strade di campagna assieme ai battitori che tenevano i levrieri al guinzaglio, aveva notato quella strana inquietudine che a volte, come la tramontana, sembrava abbattersi sul fratellastro. Voleva scuoterlo un poco: «Oggi non mi sembrate dell’umore migliore per affrontare la caccia». «Hai ragione Pietrino, ma ormai è diventata una lotta personale fra me e lui. Quando torniamo a casa senza averne trovato traccia, mi sembra si stia pigliando gioco di me. Avverto la sua presenza che mi scruta da lontano, anticipa le mie mosse e scompare all’ultimo istante. Un senso di rabbia e di impotenza mi assale perché ormai penso che perfino la natura lo difenda e lo voglia proteggere dalla mia lancia».
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Miniatura raffigurante una battuta di caccia al cervo dall’edizione del Livre de la chasse di Gaston Febus oggi nota come MS 3717. Ante 1476. Parigi, Bibliothèque Mazarine.
«Vi capisco e come sempre sarò al vostro fianco per aiutarvi, ma non pensate che potrebbe essere ormai morto o che abbia attraversato la Trebbia alla ricerca di nuovi pascoli e tutta questa ostinazione non servirebbe a nulla?». «No Pietrino», gli rispose scuotendo energicamente il capo. «A volte, nel silenzio della notte, mi sembra di sentire il suo bramito nella pianura, come se mi stesse chiamando, so che mi aspetta». Percorsero allora in silenzio circa due miglia fino ad arrivare nelle vicinanze della foresta, presso il borgo di San Nicolò. I guardiacaccia, giunti prima di loro, avevano già montato le tende che li avrebbero protetti dal caldo. Conclusa l’accensione del fuoco, avevano costruito con lunghi bastoni e corde di rafia le rastrelliere dove avrebbero appeso e squartato le prede. In quel momento erano intenti ad affilare con le mole i coltelli di varia foggia e dimensione, mentre altri riponevano nelle casse il materiale inutilizzato. Pietrino era smontato da cavallo e aveva preso al guinzaglio Ettore, il miglior segugio del branco. S’erano avventurati nella foresta alla ricerca delle tracce lasciate dalla selvaggina. Mentre si aggiravano nella fitta boscaglia, Ettore lo strattonò, aveva fiutato qualcosa. Si era lasciato tirare verso il tronco di una vecchia quercia dove spiccava, su un basso ramo, un ciuffo di peli. Erano quelli di un cervo, spessi e ancora lucidi, doveva averli persi da poco. Si precipitò di corsa verso l’accampamento dove Corrado lo aspettava con impazienza per valutare il da farsi. «Questi anni non sono trascorsi inutilmente!» pensò Corrado in preda all’agitazione quando prese
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in mano quel ciuffo. «Sono i suoi, allora è qui vicino!» esclamò. Decisero di entrare subito nella boscaglia, preceduti dai guardiacaccia che tenevano la muta al laccio e quando furono nelle vicinanze della quercia, fiutarono la traccia che doveva essere recente, vista la resistenza dei cani a rimanere al guinzaglio. «Slegateli, presto!» ordinò allora Pietrino. I levrieri, abbaiando come impazziti, corsero tutti nella stessa direzione di Ettore.
L’inseguimento
Corrado aveva spronato il cavallo al loro inseguimento, ma mentre galoppava gli sembrò che i rami degli alberi si protendessero verso di lui come mani e braccia, per afferrarlo e impedirgli quella folle corsa. Lo strattonavano da una parte e dall’altra, ma lui andava avanti, eccitato al pensiero della paura che il cervo stava provando in quel momento; per i cani sempre piú vicini, il panico che montava sempre di piú, il cuore che batteva all’impazzata come il suo. Assaporava il gusto di strapparglielo dal petto, ancora palpitante. Allo stesso tempo, però, l’astuzia di quell’animale lo tormentava di dubbi e frustrazioni sull’esito della caccia. Quale direzione avrebbe preso? E se avesse attraversato la Trebbia nel punto piú basso, facendo cosí definitivamente perdere ai cani le sue tracce? E se quel ciuffo di peli fosse appartenuto a un altro esemplare? Non c’era piú tempo di pensare, sentiva un furibondo latrato, segno inequivocabile che i cani avevano circondato una preda ormai sfiancata, là nel fitto di un’impenetrabile boscaglia. «Presto, richiama i cani!» gli gridò dietro Corrado. Pietrino soffiò allora nel corno che emise un lungo fischio, interrotto da un improvviso silenzio. Poi, sempre piú distintamente, sentirono il rumore dei cani che arriva-
vano, spezzando con le zampe i ramoscelli che costellavano il terreno. Ansimanti e sudati, erano ricoperti di terriccio e di fogliame, senza piú nemmeno la forza di abbaiare. «Non dev’essere molto lontano,» osservò Pietrino «ma da come sono conciati, non riusciremo ad avvicinarci con i cavalli, la vegetazione è troppo fitta». «Allora andremo a piedi e lo colpirò con le frecce, sfruttando la macchia per non farmi notare» decise Corrado che scese da cavallo per avviarsi con circospezione nella boscaglia, seguito poco distante da Pietrino che gli teneva la lancia e la spada con cui avrebbe finito la bestia. I rovi, come lame affilatissime, gli tagliuzzavano il viso come se volessero proteggere il cervo dalla sua furia ma lui non ci badava. Saltò tronchi caduti e pozzanghere, rischiò di inciampare rovinosamente nei rami e infine giunse a una piccola radura. Lí, ansimante sotto uno sperone di roccia, lo vide per la seconda volta. Piú grosso ancora di quanto se lo poteva ricordare, il lucido manto degradava da una pancia bianchissima al fianco rossastro fino alla schiena completamente nera. I poderosi muscoli delle cosce e delle zampe, il torace ampio e il collo possente sostenevano senza sforzo il palco piú ampio che avesse mai visto. Il muso era ben proporzionato e le narici vibranti, gli stessi occhi scuri e profondi che gli erano rimasti impressi nella memoria fissavano un punto indefinito. Stava riprendendo fiato e sembrava non si rendesse conto della vicinanza del suo carnefice. Corrado allora estrasse la freccia dalla faretra e la pose sulla corda dell’arco, ma si accorse in quel momento che gli tremava la mano. Maledisse la sua mancanza di sangue freddo. Da solo, in quel momento che aveva aspettato da anni, si rese conto per la prima volta della propria debolezza.
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personaggi san corrado confalonieri «Nulla da fare» disse ricomposto «mi è scappato, ma ho visto la direzione che ha preso. Sta dirigendosi verso il fiume: se mettiamo i battitori sul greto e appicchiamo dei fuochi ai margini della boscaglia antistante, lo staneremo, costringendolo a scappare nella nostra direzione». «Non pensate che sia troppo pericoloso? I campi coltivati e San Nicolò sono troppo vicini!» «Il vento spira da nord, indirizzerà le fiamme nella giusta direzione» rispose lentamente con un tono che non ammetteva repliche.
Giochi di bambini
Non aveva neppure il tempo di aspettare Pietrino, doveva sfruttare quell’occasione unica per dimostrare a tutti il suo valore. Mise l’arco in trazione fino allo spasimo, mirando appena sopra al cuore dell’animale. Cercò di farsi forza con pensieri positivi. Un solo scocco, secco e preciso e avrebbe vinto lui. In fondo la sua costanza lo stava premiando, l’aveva stanato e stava per ucciderlo, finalmente avrebbe avuto pace. Si udí, nel silenzio irreale del bo-
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sco, il sibilo della freccia. Che andò a spezzarsi sulla roccia alle spalle del cervo. Il cervo si accorse allora di Corrado e prima che lui potesse armare nuovamente, scomparve anche questa volta nella boscaglia. Un moto d’ira violentissima lo colse, spezzò l’arco sulla coscia e lo gettò a terra, maledicendo quell’infausta giornata. Non poteva e non voleva però mostrare quelle emozioni al suo seguito e soprattutto a Pietrino, che finalmente lo aveva raggiunto.
Pietrino portava un profondo rispetto per lui perché non l’aveva mai trattato da bastardo e lo considerava da sempre come un fratello legittimo. Quando erano bambini, giocavano in cortile con le spade di legno, simulando le battaglie dei crociati contro i saraceni. Lui era piú forte di Corrado, ma se, abbandonate le finte armi, si rotolavano nel corpo a corpo, senza farsi accorgere faceva finta d’inciampare e perdendo l’equilibrio, gli dava la possibilità di atterrarlo. Riteneva suo dovere proteggerlo e cosí facendo, contava d’ingraziarsi l’affetto del loro padre: non sempre però ci riusciva. Jacopo, loro fratello maggiore, era invidioso di quel legame e quando giocavano insieme li pestava forte, spalleggiato da Panicus, un cugino piú grande. Alla fine Corrado spesso piangeva in modo convulso, non tanto per il dolore fisico, quanto per l’umiliazione di essere stato battuto. Avevano poi studiato con gli stessi precettori, Corrado distinguendosi soprattutto nel trivio: retorica, lettere e grammatica, mentre lui era piú interessato al quadrivio: aritmetica, geometria, astronomia e musica. Diventati grandi, suo fratello si era dedicato all’esercizio dell’arte cavalleresca, mentre lui aveva dimostrato marzo
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Sulle due pagine altre miniature tratte dal Livre de la chasseMS 3717. Ante 1476. Parigi, Bibliothèque Mazarine. A sinistra, un giovane cacciatore a cavallo dà istruzioni al proprio guardiacaccia su come servirsi dei cani; a destra, il momento in cui un cacciatore sta per colpire un cervo.
grande determinazione nel portare avanti un progetto per migliorare l’irrigazione delle loro terre, sfruttando il mulino nei pressi del Po. Questi suoi sforzi furono ampiamente ripagati: le terre dei Confalonieri erano le piú fertili di Piacenza e garantivano raccolti abbondanti nonostante la frequente siccità che
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colpiva la pianura padana da qualche anno. Attraverso la navigazione del grande fiume, il grano era poi esportato fino a Ferrara e anche oltre, in caso di gravi carestie. «Come desiderate» obbedí allora Pietrino, addolorato dalla sua arroganza. Tornati all’accampamento, diede
ordine ai guardiacaccia di smantellare tutto alla svelta e di dirigersi con i cani sulla riva del fiume. Aveva tenuto con loro alcuni servi ai quali ordinò di costruire pire ai margini del sottobosco. Predispose poi due torce e ne allungò una a Corrado: «Non dovete dimostrare niente a nessuno con
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personaggi san corrado confalonieri questa azione, neppure a voi stesso, ma come sempre vi aiuterò». «Forza, andiamo allora» lo incitò Corrado riconoscente «ma l’idea è mia e sarò io a realizzarla». Gli prese la torcia dalle mani, dirigendosi verso la prima catasta, poi verso la seconda e cosí via, fino a dar fuoco a tutte e quattro. La legna, ben composta, cominciò ad ardere scoppiettando. Ordinò ai servi posti nelle vicinanze delle pire di prendere i rami che già bruciavano e di gettarli sulle sterpaglie limitrofe al sottobosco, creando cosí una cortina di fuoco lunga qualche centinaio di metri. Complice il vento forte e la temperatura in aumento, le sterpaglie s’incendiarono subito e il fumo invase rapidamente la foresta, rendendo l’aria irrespirabile per ogni specie vivente. Le prime a scappare, librandosi in cielo, furono le beccacce, seguite dai fagiani, poi fu la volta di lepri, daini e caprioli, ma di lui nessuna traccia. Le lingue di fuoco si erano alzate altissime e lambivano le cime delle querce secolari, in un furibondo crepitio che diventava sempre piú assordante. «Vuoi bruciare fra le fiamme di questo inferno? Non te lo permetterò! Sono io che ti devo uccidere, maledetto!» urlava Corrado dirigendosi a spada sguainata nel bosco. Appena entrato, però, quel fumo dall’odore acre gli invase subito le narici e i polmoni, cominciò a tossire e gli occhi lacrimavano, senza fargli piú vedere nulla. Gli girava la testa, il calore era insopportabile, stava quasi per svenire, quando sentí due forti braccia che lo sollevarono come una paglia e caricatoselo sulle spalle, lo portarono in salvo. «Siamo troppo giovani per morire» disse tossendo Pietrino, in piedi di fronte a lui. Ma prima che lui potesse ringraziarlo del suo provvidenziale aiuto, un enorme ombra lo travolse. Nel cadere Pietrino aveva battuto la testa contro un masso. Un branco di cinghiali terrorizzati
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A sinistra stendardo ricamato con l’immagine di san Corrado Confalonieri, patrono di Noto e di Calendasco. Nella pagina accanto San Corrado Confalonieri, olio su tela di Giovanni Lanfranco, dalla cattedrale di Parma. 1618 circa. Lione, Musée des Beaux-Arts.
lo aveva investito, gli erano rotolati addosso prima di scomparire tra i filari delle viti. «Pietrino, Pietrino, fratello mio!» urlava Corrado disperato, soccorrendo il fratello privo di sensi. Gli sollevò il volto tumefatto e vide un profondo squarcio all’altezza della nuca da dove il sangue usciva copioso. «O mio Dio salvalo, ti prego! Prendi me piuttosto!» gridava in preda alla disperazione, cercando di tamponargli con la mano quel flusso scuro che sembrava inarrestabile. Lo strinse a sé piangendo a dirotto e fu in quel momento, fatto di lacrime e singhiozzi, che avvertí la sua presenza.
L’apparizione
Si trovava lí, ritto davanti a loro e lo fissava pacifico. Le corna immense si protendevano verso di lui, come se volessero abbracciarlo e dal centro di queste, si sprigionava una luce bianca intensissima che lo aveva avvolto, trasmettendogli un’immensa energia. Terrorizzato da quella visio-
ne, Corrado strinse forte a sé il fratello, voleva scappare ma era come pietrificato. Improvvisamente il bagliore si spense. Quell’immagine si era dissolta. «Corrado, cos’è successo?» mormorò Pietrino risvegliandosi, mentre lui scopriva incredulo che la ferita si era rimarginata, anzi sembrava non ci fosse mai stata e anche la sua mano appariva solo sporca di fuliggine. «Nulla, stai tranquillo» gli rispose Corrado, riprendendo il controllo di sé. «Ora dobbiamo pensare a metterci in salvo». Non voleva raccontare a nessuno quello che era accaduto. Nella frenesia di quei momenti concitati, non si era ancora reso conto se si era trattato solo di un sogno. Dopo un attimo di quiete assoluta, il vento aveva cambiato direzione e tirava come un immenso mantice in senso opposto. Spargeva la brace sprizzata dalle fiamme scatenando cosí altri incendi, come avamposti di quello principale. Il fuoco e il fumarzo
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personaggi san corrado confalonieri Disegno del Castello Confalonieri a Calendasco.
mo si erano diretti dal bosco ormai distrutto ai campi coltivati di San Nicolò, inghiottendo qualunque cosa incontravano sulla loro strada: il grano ormai maturo, le viti, gli armenti. Niente e nessuno era in grado di fermare quello scempio. Le persone scappavano dal borgo, ormai lambito dalle fiamme, alcune donne stringevano al petto i neonati mentre i giovani aiutavano i piú piccoli e gli anziani a fuggire. Gli adulti cercavano di portare con loro i bovini e le pecore, perché le stalle e le baracche di legno erano state facilmente sopraffatte da quella forza incontenibile. Dopo ore e ore di inferno e non trovando piú nulla che potesse alimentare la sua forza distruttrice, l’incendio finí. Il bilancio era disa-
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stroso: almeno venticinque ettari di boschi e di campi coltivati in fumo, il raccolto e la vendemmia persi per sempre, centinaia di animali morti, bruciati vivi o soffocati. Le loro carcasse giacevano in irreali posizioni sull’arida terra, come coperte da un lugubre manto nero.
Alte colonne di fumo
Dalle case di pietra che erano rimaste in piedi si levavano alte colonne di fumo nero. Tutti gli abitanti erano sopravvissuti, ma non possedevano piú nulla. Sorpresi dalla velocità di quella distruzione non erano riusciti a mettere in salvo che se stessi. Il fetore di carne bruciata si impastava all’aria resa giallastra dal fumo che a respirarla dava alla
testa di quei disperati. A nulla serviva espettorare: quella sensazione di soffocamento aumentava a dismisura il panico nelle persone già provate dalla perdita di tutte le proprie cose. Allo stremo delle forze, Corrado era riuscito a trascinare con sé Pietrino e a raggiungere i battitori e i guardiacaccia che, terrorizzati, avevano trovato rifugio nei pressi di una casa abbandonata. Una ridda di sentimenti contrastanti dilaniavano il suo animo: la gioia per l’improvviso risanamento del fratello, il senso di colpa per la sua colossale leggerezza, il timore della punizione, i dubbi su quanto gli era apparso. «Se oserete raccontare a chicchessia quanto accaduto, questa è la fine che vi riserverò!» In preda a uno stato confusionale, Corrado sguainò la spada dalla faretra e afferrò per i capelli Ubertino, il figlio non ancora adolescente di un battitore. Brandendo l’arma sotto la gola imberbe del ragazzo terrorizzato, si fece giurare da ciascuno dei suoi uomini che non avrebbero aperto bocca. Nonostante il suo volto sporco di fumo fosse trasfigurato dalla rabbia, era ancora abbastanza lucido per intuire che non avevano alcun interesse a tradirlo, visto che le loro famiglie dipendevano dal suo benessere. Gettò a terra Ubertino che si rifugiò piangendo fra le braccia del padre. Tornati al castello, le voci di quanto era successo si erano diffuse rapidamente. A memoria d’uomo nessuno si ricordava uno scempio di tale portata. Con estrema calma aveva ordinato di predisporgli il necessario per un bagno. Salí nelle sue stanze e spogliatosi delle vesti ormai logore e bruciacchiate, si era immerso nella tinozza d’acqua bollente. Escoriazioni ed ematomi erano comparsi sulla sua pelle bianchissima, come isole sconosciute su una carta geografica. Si immerse con la testa e marzo
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trattenne il respiro. Lo sfiorò l’idea del suicidio. Fosse annegato, non sarebbe stata la soluzione migliore? Poteva apparire come un incidente, il suo onore e quello della sua famiglia salvi per sempre. Stava pensando a un peccato mortale e se ne rendeva conto. Riemerse per respirare, si asciugò con un grande telo di lino e si gettò sul letto, fissando il soffitto. Pensava che, fino a quel giorno, la sua vita era trascorsa sempre fra gli agi: feste, balli e cerimonie sfarzose. Non aveva mai avuto bisogno di mettere in pratica le sue doti militari, se non in qualche scaramuccia e non si era neppure mai occupato della cosa pubblica. Se non era per il nome che portava, sarebbe stato invisibile: solo l’appartenenza al suo casato gli dava un’apparente identità. Quel vago pensiero di non essere mai all’altezza degli altri l’aveva nascosto dietro uno scudo, l’esigenza di capire chi fosse veramente, era rimasta chiusa dentro la corazza di metallo che lo proteggeva dal mondo. Questo almeno il suo rango gli imponeva: dimostrarsi invulnerabile. In quel momento oscuro e incerto, giunse alla conclusione che non doveva pensare al futuro ma rileggere il passato con occhi diversi per capire come i suoi avi, con Lantelmo in testa, avevano vissuto e agito per rendere onore alla casata. Avrebbe cosí potuto meditare un giudizio piú ponderato su se stesso: aveva dentro qualcosa di buono o era so-
lo un vile che non aveva il coraggio di assumersi la responsabilità delle proprie nefaste azioni? Mentre si stava rivestendo, la porta si spalancò e fece il suo ingresso Eufrosina, sconvolta, con ancora indosso la nuova sopravveste, di broccato cremisi intessuto d’argento, dono di suo padre Bassiano. «Oddio Corrado, cos’è accaduto?» gli domandò dissimulando la preoccupazione. Si era recata per qualche giorno a Lodi, dove la sua famiglia, grazie ai Visconti, aveva ripreso il controllo della città e suo padre le aveva mostrato come procedevano i lavori per la costruzione del grande palazzo Vistarini, antistante il Duomo, di cui andavano molto fieri. Appena giunta al castello, aveva appreso la notizia da Pietrino, ma la vaga storia del rogo non la convinceva, aveva letto il terrore sulle facce dei servitori che da tanti anni facevano parte della loro famiglia. Corrado era dietro il paravento intento a rivestirsi. «Meno male che non mi sta vedendo» pensò, «non riuscirei a dirle una bugia». Lei però già da quell’attimo di esitazione, aveva capito che le nascondeva qualcosa. «Non mi raccontare storie, ti scongiuro!» lo rimproverò afferrandogli le spalle e scuotendolo come un albero. Lui non sapeva se dirle la tremenda verità oppure fingere un semplice incidente. Abbassò lo sguardo, in preda al panico. Cercava mentalmente di
aggrapparsi a un qualunque onorevole appiglio che lo tirasse fuori in qualche modo da quella situazione, ma dal suo albero non caddero frutti ma solo foglie secche eppure pesanti. «Questo grande caldo ha provocato un fortissimo incendio, Pietrino e io eravamo nel bosco e quando siamo rimasti sorpresi dalle fiamme, non c’è stato nulla da fare». Alzò gli occhi verso un punto indefinito sul muro alle spalle di lei. Non riusciva a guardarla in viso. «Solo questo hai da dirmi?» commentò lei sconfortata. Nella sua mente si sovrapponevano pensieri opposti. Voleva dargli fiducia, ma sentiva che non diceva tutta la verità. Per il profondo rispetto che nutriva nei confronti di suo marito, non voleva insistere oltre. Sapeva che quel chiudersi a riccio faceva parte della sua natura. «Penso sia meglio, per la nostra sicurezza, che partiamo subito per Piacenza» le suggerí Corrado con un tono protettivo nella voce. Non voleva dare troppo nell’occhio rimanendo a Calendasco. Sicuramente Galeazzo avrebbe cercato il colpevole, ritirarsi in città significava sfuggire all’inchiesta che sarebbe certamente seguita, con le guardie che avrebbero setacciato le campagne per identificare i colpevoli. F
Da leggere Corrado Occhipinti Confalonieri è nato a Milano nel 1965 ed è laureato in scienze politiche. Autore di saggi e finalista del concorso letterario «Un giorno di Joyce» indetto dal Corriere della Sera, ha appena pubblicato La moglie del santo per Minerva Edizioni. Collabora con «Medioevo» e altri periodici e si occupa anche di divulgazione storica e novità librarie sui social (Instagram e Facebook) dove riscuote un ampio seguito.
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storie sudor anglicus
Quel misterioso sudore assassino di Aart Heering
La Battaglia di Bosworth, olio su tela di Abraham Cooper. 1790. Dallas, Dallas Museum of Art. Combattuto il 22 agosto del 1485, lo scontro campale segnò la fine della Guerra delle due Rose.
Un secolo e mezzo dopo lo scoppio della Morte Nera in Europa, l’Inghilterra fu colpita da una piaga nuova e sconosciuta, il sudor anglicus, una malattia infettiva meno devastante, ma comunque capace di mietere migliaia di vittime. Dopo cinque ondate epidemiche, il morbo scomparve, senza un’apparente motivazione. Ma quale fu la natura di quel male che «seguí gli Inglesi come un’ombra», colpendo perlopiú giovani sani e di classe elevata? Solo di recente gli scienziati hanno trovato una possibile soluzione all’enigma
storie sudor anglicus
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a Battaglia di Bosworth Field, combattuta il 22 agosto 1485 nei pressi del villaggio di Market Bosworth, 25 km a ovest di Leicester, è passata alla storia come lo scontro finale della Guerra delle due Rose, terminato con la morte del re inglese Riccardo III e la vittoria del suo oppositore Enrico Tudor, il futuro re Enrico VII. Ma fu anche la prima occasione in cui venne menzionata una malattia misteriosa, destinata a seminare terrore e morte in tutto il Paese. Era la «malattia del sudore» (Sweating Sickness in inglese), nota anche come sudor anglicus, perché la sua diffusione si limitò quasi esclusivamente all’Inghilterra, attraversando la Manica solo in rare occasioni. Alla vigilia della battaglia, un alleato di Riccardo, lord Thomas Stanley, esitò ad avvicinarsi per timore, come scrisse in una lettera al re stesso, della nuova malattia scoppiata tra le truppe nemiche. Fu quasi certamente un pretesto per mantenere una posizione defilata – in seguito, Stanley cambiò ban-
diera, alleandosi con Enrico –, ma la malattia fu reale e devastante. Il 28 agosto, Enrico Tudor giunse a Londra con i suoi uomini, portando con sé anche il morbo, che nelle cronache cittadine fu menzionato per la prima volta il 19 settembre. Da quel momento e sino alla fine di ottobre, in sole sei settimane, uccise circa 15 000 persone.
L’aspetto piú inquietante della malattia era l’estrema velocità con la quale si propagava nell’organismo e poteva uccidere persone che, fino a poche ore prima, erano perfettamente in salute. Come scrisse un cronista: «Allegri a pranzo e morti a cena». Thomas Forrestier, un medico francese che all’epoca viveva a Londra e ha lasciato una prima testimonianza del morbo, vide «due preti che stavano chiacchierando, morendo di colpo. Lo stesso giorno abbiamo visto la moglie di un sarto ammalarsi e morire in un attimo. Un giovanotto che camminava per strada a un tratto cadde e morí». Forrestier continua con una descrizione della malattia «che arriva con grande sudore e fetore, rossore in faccia e sul corpo, con una sete continua, gran calore e mal di testa per causa dei vapori e veleni». I sintomi furono descritti in dettaglio da osservatori contemporanei, come il medico inglese John Caius, il quale, nel 1552, all’indomani di una nuova epidemia, scrisse un trattato sul «morbo comunemente chiamato il Sudore o la Malattia del Sudore» (vedi box alle pp. 52-53). La In alto il cardinale Thomas Wolsey in una incisione settecentesca. Il prelato fu colpito piú volte dal sudor anglicus, ma riuscí a sopravvivere. A sinistra incisione cinquecentesca raffigurante le cure prestate a un malato di sudor anglicus.
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Arturo Tudor, principe di Galles ed erede al trono d’Inghilterra, olio su tavola di scuola inglese. XVI sec. Collezione privata. Il giovane morí a soli 16 anni, nel 1502, con ogni probabilità a causa del sudor anglicus.
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storie sudor anglicus john caius
«Tiragli il naso e le orecchie...» La principale fonte sulla malattia del sudore è A Boke or Counceill Against the Disease Commonly Called the Sweate, or Sweatyng Sickness, lo studio pubblicato nel 1552 dal medico inglese John Caius. Nato a Norwich nel 1510, John Keys – che latinizzò il suo cognome in Caius – studiò a Cambridge e poi con Andrea Vesalio a Padova, dove, nel 1541, si laureò in medicina. In seguito girò per l’Italia in cerca di opere di Galeno, Ippocrate e altre autorità greche, per (ri)tradurne i testi in latino. Tra questi anche l’Hippocrates de Medicamentis, un’opera allora sconosciuta, probabilmente ritrovata dallo stesso Caius. Tornato in Inghilterra, fu ammesso al Collegio Reale dei Medici ed esercitò la professione a Londra. Nel 1551 lo scoppio del sudor anglicus gli diede la possibilità di osservare da vicino il percorso della malattia. Nella sua analisi, Caius intravedeva come cause principali da un lato la nebbia e le esalazioni cattive e, dall’altro, la voracità e l’effeminatezza degli Inglesi moderni. Come prevenzione, consigliava il consumo di frutta, pesce e carne fresca e la pratica di attività fisiche, quali la caccia, la falconeria o il tennis. Il rimedio consisteva, secondo lui, nello stimolare con erbe e bevande calde la già abbondante sudorazione. Consigliava anche di tirare naso e orecchie del malato, per impedire che si addormentasse... Quanti pazienti siano stati salvati grazie alle cure del medico inglese, non è dato di sapere, mentre è certo che l’epidemia gli diede la possibilità di arricchirsi, dal momento che i suoi clienti erano di norma persone In alto il frontespizio del trattato di John Caius sul sudor anglicus, pubblicato per la prima volta nel 1552. A sinistra illustrazione che correda un trattato sulla malattia del sudore scritto dal letterato e scienziato tedesco Euricius Cordus (Heinrich Ritze) e pubblicato a Strasburgo nel 1529.
malattia iniziava con un senso di apprensione, seguito da forti brividi, vertigini, mal di testa e dolori al collo, spalle e arti. Dopo questa cosiddetta «fase fredda», che durava da mezz’ora a tre ore, seguiva un periodo di calore e sudore. La sudorazione abbondante, caratteristica del morbo, si scatenava improvvisamente, senza alcuna causa
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Incisione ottocentesca raffigurante il Gonville & Caius College (a destra) e John Caius, il medico inglese che rifondò e ampliò l’istituto nel 1557.
facoltose. Negli anni seguenti Caius diventò medico di corte e scrisse trattati che spaziavano in vari campi, fra cui Su Alcune Piante e Animali Rari e Sui Cani Britannici. Inoltre, nel 1557, rifondò e ampliò il Gonville Hall di Cambridge, il collegio nel quale aveva studiato, ribattezzandolo Gonville & Caius College, nome che l’istituto porta tuttora.
apparente. Contemporaneamente, subentravano sensazioni di calore, delirio, battito accelerato, sete intensa, palpitazioni e dolori al cuore. Nell’ultima fase il paziente provava un esaurimento fisico totale e sentiva il bisogno irresistibile di dormire, considerato fatale se gli fosse stato permesso di farlo. La morte poteva subentrare già dopo due o tre ore, ma in genere il calvario durava da 12 a 24 ore. Chi sopravviveva per piú di 24 ore veniva considerato salvo. Alla fine di ottobre del 1485 la
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Sweating Sickness scomparve, per poi tornare a manifestarsi, a intervalli irregolari, per quasi un secolo. Nuove epidemie scoppiarono nel 1507 (anche se già nel 1502 l’allora principe di Galles, Arturo, fu probabilmente vittima del «sudore») e nel 1517, facendo registrare un alto tasso di mortalità a Oxford, Cambridge e altre città, in alcuni casi uccidendo fino alla metà della popolazione.
Nuovi focolai
Nel 1528 una nuova epidemia causò 2000 morti nella sola Londra e si espanse velocemente in tutta l’Inghilterra, ma non in Scozia e Irlanda. Fu l’unica a mietere vittime anche fuori dall’isola, quando una
nave tedesca portò il contagio ad Amburgo, dove, in una settimana, il morbo causò un migliaio di morti. In seguito si diffuse nel Baltico – mietendo 3000 vittime nella sola Danzica –, poi in Scandinavia, Polonia e Russia e nei porti di Amsterdam e Anversa. L’ultima epidemia, nel 1551, rimase nuovamente confinata dentro le frontiere inglesi, dopodiché la malattia del sudore uscí dalle cronache. Un ultimo caso venne infine registrato nel 1578. Nel 1718, però, nella provincia settentrionale francese della Piccardia apparve un morbo simile, noto come Suette des Picards (Sudore dei Piccardi), che flagellò la Francia per ben due secoli, in 194 grandi e
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storie sudor anglicus piccole epidemie. I sintomi del male della Piccardia sembrano comunque leggermente diversi: le vittime presentavano eruzioni cutanee, assenti nelle descrizioni della Sweating Sickness, e la mortalità era piú bassa. Gli esperti, quindi, non sono in grado di stabilire se si sia trattato di un ritorno della malattia inglese o di una sua nuova forma. Il sudor anglicus pone ancora oggi molteplici interrogativi. Da dove veniva? Che cos’era esattamente? Perché colpiva alcune nazioni e classi sociali piú di altre? E, infine, potrebbe tornare? La prima domanda ha forse trovato una risposta nella storia della sua prima apparizione nel 1485. L’esercito di Enrico Tudor, tra le cui fila covava con ogni probabili-
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tà il primo focolaio, era in gran parte composto da mercenari arruolati in Francia, alcuni dei quali avevano combattuto contro gli Ottomani a Rodi, che era allora la base principale dei Cavalieri Ospitalieri. Tale circostanza rende dunque plausibile la provenienza orientale del morbo, com’era accaduto un secolo e mezzo prima nel caso della Peste Nera.
Questioni irrisolte
Ciò non spiega però la natura della malattia. Di molte epidemie storiche e moderne – per esempio la peste, la spagnola, Ebola, AIDS o Sars – conosciamo ormai le cause, ma quelle della malattia del sudore sono tuttora oggetto di dibattito fra storici, medici e virologi. Strettamente le-
gato a questo primo interrogativo è quello sulle persone che si ammalarono. A differenza di altre epidemie, le vittime principali non erano anziani, deboli o poveri, ma perlopiú individui appartenenti a classi sociali elevate, in buona salute e spesso giovani. Nel 1485, a Londra, morirono due sindaci, sei assessori e tre sceriffi. Nel 1517 e nel 1528, l’uomo piú potente d’Inghilterra dopo il re, il cardinale Thomas Wolsey, si ammalò addirittura piú volte, riuscendo però a sopravvivere. L’epidemia del 1528 fece strage a corte, dove, come scrisse il cronista Edward Hall, «molti sono morti, lord Clinton, lord Gray e tanti cavalieri, gentiluomini e ufficiali». Anche la regina Anna Bolena fu contagiata, ma
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sopravvisse, al contrario di suo cognato William Carey, gentiluomo di camera. Re Enrico VIII, terrorizzato, si rifugiò in campagna, spostandosi da una residenza all’altra. E altrettanto fece il suo successore Edoardo VI durante l’epidemia del 1551, quando il cittadino londinese Henry Machin annotò nel suo diario che «a Londra molti mercanti e uomini e donne molto ricchi sono morti per il sudore e cosí anche i due giovani duchi di Suffolk». Altrettanto curiosa è la circostanza da cui il morbo ha preso nome, cioè l’avere colpito, con l’eccezione dell’epidemia del 1528, quasi esclusivamente l’Inghilterra, mentre Paesi come l’Italia e la Francia – a parte Calais, che all’epoca era sotto il dominio inglese – non furo-
A destra Abbazia di Romsey (Hampshire). Il memoriale dei coniugi John e Grissell St. Barbe, vittime, nel 1658, di uno dei casi isolati di sudor anglicus registrati dopo l’ultima epidemia. In basso Enrico VIII e Anna Bolena inviano il medico di corte, William Butts, al capezzale del cardinale Wolsey, colpito dal sudor anglicus.
no toccati dal sudor anglicus. Alcuni Inglesi abbienti cercarono di evitare il contagio, fuggendo in Scozia, Irlanda o Francia, ma solo per trovare la morte anche lí. Come scrisse John Caius nel suo trattato del 1552, «Il morbo seguiva gli inglesi come un’ombra». Il che ha indotto qualche studioso dell’Ottocento a postulare una predisposizione genetica anglosassone per la malattia, che oggi appare tuttavia alquanto fantasiosa.
Un problema di igiene?
Ma, allora, che cos’era il «sudore inglese»? Non si trattò di peste, né di tifo, già esclusi dagli osservatori contemporanei per la mancanza di sintomi come le tipiche bolle nere e vistose eruzioni cutanee, e, nel tempo, sono state suggerite numerose altre spiegazioni. Il sudor anglicus è stato definito una forma di influenza o di dengue (una malattia infettiva tropicale), un avvelenamento da antrace o una manifestazione di febbre ricorrente, causata dal batterio borrellia recurrentis. Altri suggerirono come possibili (con)cause il clima dell’Inghilterra, la scarsa igiene dei suoi abitanti e l’insufficiente areazione di case e osterie. Tutta-
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storie sudor anglicus L’Hantavirus
Alle origini del morbo Il nome (ortho)hantavirus designa un gruppo di virus trasmessi da ratti, topi e volatili. Mentre gli animali ospiti non mostrano segni di infezione, gli umani possono contrarla inalando particelle di urina o feci presenti nell’area. I sintomi della Sindrome polmonare da hantavirus (HPS) sono molto simili a quelli della «malattia del sudore»: febbre, dolori muscolari, mal di testa, letargia, mancanza di fiato (dovuta a edema polmonare) e un decorso estremamente veloce (anche se, di solito, senza la tipica sudorazione). L’unico possibile rimedio è la ventilazione via, simili fattori potevano tutt’al piú creare un ambiente favorevole al morbo, ma non esserne la causa scatenante. E infatti si è ormai concordi nel ritenere che il sudor anglicus sia stato una malattia infettiva, come la peste, il tifo o la malaria. Resta da accertare di quale in-
In alto un esemplare di topo cervo. A destra macrofotografia 3D dell’hantavirus.
fezione si trattasse e chi ne fosse il portatore. Nel 1997, due medici inglesi, Vanya Gant e Guy Thwaites, annunciarono di aver individuato il colpevole. A loro avviso, il sudor anglicus sarebbe stato una variante piú antica di una malattia che, nel 1993, aveva fatto 12 vittime, di cui
otto di etnia Navajo, nella regione dei Four Corners nel Sud-Ovest degli Stati Uniti, dove si incontrano gli Stati dello Utah, Colorado, Arizona e New Mexico. Essa presentava sintomi molto simili, come la velocità con cui colpiva e la mancanza di fiato – i polmoni si riempivano
Uno sciamano Navajo somministra un medicamento a un malato. Fotografia scattata dall’esploratore e fotografo Edward Curtis nel 1905.
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artificiale, che spesso, però, non è sufficiente. L’HPS è stata portata all’attenzione pubblica dall’epidemia dei Four Corners del 1993, ma da allora vari studi hanno dimostrato che la sindrome è endemica negli Stati Uniti – con 11-48 casi all’anno, di cui il 38% mortali – e in America Latina. Non lo è però in Eurasia e Africa, dove un altro tipo di hantavirus causa la Febbre emorragica con sindrome renale (HFRS, Hemorrhagic fever with renal syndrome), che presenta sintomi assai diversi. Tale circostanza sembrerebbe complicare la ricostruzione della Sweating Sickness: il virus dell’HPS non può essere stato portato dall’America, poiché la prima epidemia scoppiò nel 1485 e dunque prima della scoperta del Nuovo Mondo, nel 1492. Per i virologi, tuttavia, è possibile che una forma di hanta europea si sia trasformata in una specie di HPS. In alto immagine al microscopio del Sin Nombre, la forma di hantavirus responsabile dell’epidemia scoppiata negli USA nel 1993.
di liquido – accusata dalle persone infette. Inoltre, ambedue le malattie si manifestavano in estate e spesso in aree rurali, mentre le vittime erano perlopiú giovani e forti. La causa dell’epidemia americana è stata trovata in un virus fino ad allora sconosciuto e perciò inizialmente chiamato Sin Nombre (Senza nome). Nel frattempo, si è scoperto che si tratta di una forma dell’hantavirus, per cui la nuova malattia è stata battezzata Sindrome polmonare da hantavirus (HPS, Hantavirus Pulmonary Syndrome).
L’imputato numero uno
Il portatore dell’HPS è il topo cervo, un piccolo roditore nei cui escrementi si trova il virus. Lo scoppio dell’epidemia era causato dall’aerosolizzazione di particelle secche, per esempio passando la scopa, nei pressi delle abitazioni Navajo. Il topo cervo è un lontano parente del topo europeo, che poteva logicamente essere ritenuto responsabile per la diffusione del morbo europeo. Infatti, non solo la peste fu trasportata dai topi, ma probabilmente – come risulta da uno studio del 1906 –, anche la malattia piccarda, cosí simile al sudor anglicus. Infine, il virologo inglese Derek Gatherer ha suggerito una spiegazione suggestiva per il fatto che in
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Inghilterra la maggior parte delle vittime fosse benestante. Come ha sostenuto in un articolo di alcuni anni fa, l’HPS si diffonde difficilmente tramite contatto umano, ma piuttosto per via area. Ebbene, la Londra dei Tudor era infestata di ratti e topi, che era impossibile eliminare. I governanti delle famiglie piú abbienti si sarebbero quindi limitati a spazzare via il loro sterco, creando nuvole di polvere piene di hantavirus, e spianando cosí la strada all’epidemia. Resta da chiarire perché, dopo quasi un secolo, la malattia del sudore svaní. Possibili risposte sono state cercate in una mutazione piú benigna del virus o nella minore predisposizione dei roditori ospiti. Altri hanno suggerito un legame con i cambiamenti climatici: dal tardo Medioevo in poi, le temperature in Europa erano in calo, il che avrebbe potuto rallentare la diffusione del virus (viceversa, l’epidemia dei Four Corners è stata collegata a El Niño, il fenomeno atmosferico oceanico che in alcuni anni determina un aumento delle temperature). Ma tutto questo è mera speculazione. E, a oggi, non possiamo affermare di aver trovato una soluzione certa. Cosí come non sappiamo se e in quale forma la malattia del sudore potrà tornare...
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costume e societĂ Morte di Francesco Ferrucci, olio su tela di Daniele Antonio Bertoli. 1838 circa. Pistoia, Museo Civico.
Eroici, audaci, disciplinati di Riccardo Facchini e Davide Iacono
In età moderna, fatti e personaggi del Medioevo tornano d’attualità soprattutto sul piano politico. E a dare una «seconda vita» a cavalieri e condottieri provvede soprattutto il fascismo, recuperando ed esaltando le gesta di personaggi come Ettore Fieramosca o Francesco Ferrucci. Oppure celebrando Dante quale simbolo di italianità
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al Romanticismo in poi, oltre a essere variamente sognato, ricostruito e reinventato da pittori, scrittori, poeti, architetti e pensatori, il Medioevo ha profondamente occupato anche e soprattutto il discorso politico. Durante il XIX secolo, infatti, le nascenti nazioni trovarono in quell’epoca lontana un’inesauribile miniera di simboli, modelli e miti utili alla creazione di una propria identità. Il Medioevo delle nazioni fu utilizzato per legittimare e rafforzare cosí una secolare tradizione statuale o per promuovere ex nihilo movimenti di unificazione nazionale. Anche nella Penisola si registrò il profondo recupero dei secoli di mezzo finalizzato alla costruzione dell’identità del futuro Regno d’Italia. Soprattutto durante il Risorgimento, infatti, si assistette alla stagione d’oro del medievalismo politico; in quegli anni, come ha ricordato da Tommaso di Carpegna Falconieri «rifacimenti e rappresentazioni delle grandi mitopoiesi italiane – il Giuramento di Pontida (1167), la battaglia di Legnano (1176), i Vespri Siciliani (1282), la Disfida di Barletta (1503) e la Battaglia di Gavinana (1530) – circolavano praticamente ovunque». In Italia, però, la mancanza di una solida tradizione statuale fece sí che il processo identitario non prendesse le mosse da epopee nazionali, ma da miti medievali locali, riadattati e proiettati in una dimensione collettiva e nazional-patriottica. Se ne ritrova una silloge in alcuni versi dell’inno di Mameli: «Dall’Alpe a Sicilia, / ovunque è Legnano; / ogn’ uom di Ferruccio / ha il core e la mano; / i bimbi d’Italia / si chiaman Balilla; / il suon d’ogni squilla / i Vespri suonò». A queste grandi narrazioni del medievalismo italiano erano legati nomi come Alberto da Giussano, Giovanni dalle Bande Nere, Francesco Ferrucci, Ettore Fieramosca: condottieri che evocavano sentimenti e valori come l’orgoglio, il coraggio, la forza, il sacrificio e la virilità.
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costume e società E proprio nell’intento di smentire il secolare stereotipo che voleva gli Italiani incapaci di battersi, il Risorgimento individuò nei condottieri dell’Italia tardo medievale e rinascimentale i migliori rappresentanti dello spirito guerriero del popolo italico e gli ultimi custodi dell’orgoglio nazionale durante i turbolenti anni delle Guerre d’Italia (1494-1559). All’esaltazione in chiave proto-patriottica dei condottieri si accompagnò
A destra Ettore Fieramosca, olio su tela di Filippo Palizzi. 1856. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. Qui sotto «Su, Toscani, chi ha un arme la cinga (...)», litografia. 1849. L’autore della composizione ha immaginato Francesco Ferrucci che guida la riscossa dell’Italia.
cosí l’uso di associare generali ed eroi a condottieri del passato «medievale» . Il condottierismo del periodo unitario fu inizialmente stimolato dalla Spedizione dei Mille, quando generali come Nino Bixio o Giuseppe Garibaldi furono celebrati come novelli condottieri a causa delle loro capacità di comando e del loro genio militare. Successivamente, durante la Grande Guerra, l’epiteto «condottiero» iniziò a essere accostato a militari che si erano distinti per il valore in battaglia, soprattutto nella guerra dei cieli. Durante il ventennio fascista tale attributo passò a indicare, oltre a militari, anche politici e uomini di Stato. Per esempio, una delle principali trasmissioni politiche radiofoniche degli anni Trenta si intitolava Condottieri e maestri e presentava ritratti adulatori di Italiani divenuti famosi nella politica, nella finanza, nell’induA destra Francesco Ferrucci in una cartolina della RSI (Repubblica Sociale Italiana) disegnata da Gino Boccasile.
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costume e società stria o nella cultura. Tra gli anni Venti e Trenta si assistette quindi in Italia a una vera e propria infatuazione di massa per i condottieri, nei quali la propaganda trovò il modello ideale di un super-soldato: eroico, audace, coraggioso, disciplinato. La pubblicazione, da parte della casa editrice torinese Paravia, di una collana in cui venivano collezionati ben undici profili di condottieri, nonché il varo di una classe di incrociatori leggeri della regia marina – i Condottieri – sono ben rappresentativi di questo clima culturale.
Come un novello duca di Montefeltro
Allo stesso tempo, attraverso il filtro romantico e superomistico, l’immagine di Benito Mussolini venne paragonata a quella dei grandi condottieri dell’Italia
dante e il fascismo
Italiano per eccellenza Per tutti gli anni Venti e Trenta del Novecento, Dante ha rappresentato l’essenza stessa del concetto di italianità. Il poeta fiorentino venne percepito e rappresentato come un antesignano dell’unità politica dell’Italia, celebrato come custode dell’ideale nazionale e simbolo eterno della grandezza del Paese. Alcune correnti esoteriche del fascismo – identificando nel dantesco «cinquecento diece e cinque» (DXV) il Duce (DUX) – videro persino nell’avvento del regime la realizzazione della profezia del Veltro. Nel regime di Mussolini si realizzava allora, secondo queste letture, il sogno di quell’Italia unita profetizzata da Dante. Particolare risonanza ebbe il VI
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Nella pagina accanto il manifesto realizzato da Duilio Cambellotti per il film Condottieri, diretto dal regista tirolese Louis Trenker nel 1937. Treviso, Museo Civico.
tardo-medievale e rinascimentale. Come in un novello Federico da Montefeltro o Sigismondo Malatesta, nella sua persona erano sintetizzati la violenza e l’amore per le arti, potenza virile e cultura. Fotografie, dipinti, sculture, biografie, celebravano il duce – proclamato dalla stampa «mirabile condottiero dell’Italia nuova» – come un moderno condottiero, anche quando al cavallo si sostituivano l’automobile o l’aeroplano. Queste suggestioni neomedievali furono efficacemente colte dal pittore italo-greco Cesare Sofianopulo, il quale, in un dipinto del 1928 – custodito oggi presso il Vittoriale
Qui sotto cartolina realizzata per promuovere l’associazione alla Società Dante Alighieri. 1925 circa.
centenario dantesco nel 1921, che vide Firenze al centro di celebrazioni solenni, restauri di monumenti collegati alla memoria del poeta ed eventi culturali. Nel 1936 fu inaugurata a Ravenna una zona dantesca con il restauro della basilica di S. Francesco, della Cappella di Braccioforte e della Tomba di Dante. Ancora piú ambizioso fu il progetto del «Danteum», un edificio in stile razionalista che sarebbe dovuto sorgere a Roma e che avrebbe dovuto evocare architettonicamente i principali luoghi della Divina Commedia. In basso un bozzetto del Danteum, l’edificio che sarebbe dovuto sorgere a Roma per evocare i luoghi della Divina Commedia.
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degli Italiani –, pensò di raffigurare il capo del fascismo in una scura armatura nei panni di un novello e «terribile» signore/condottiero.
Il «Leonida Italiano»
Divenuta archetipo dell’homo italicus, la figura del condottiero migrava cosí dal risorgimentale simbolo di orgoglio nazional-patriottico a precursore dell’Italia fascista e mussoliniana, come risulta ben esemplificato nella figura Francesco Ferrucci (o Ferruccio). Questo capitano della Repubblica fiorentina, caduto sul campo di Gavinana, venne considerato sinonimo di coraggio e sacrificio, tanto da essere evocato già nel 1848 da Garibaldi in un discorso tenuto a Livorno: «Ho toccato con la mia spada le ceneri di Ferruccio, e saprò morire come Ferruccio». Sarà nientemeno lo stesso generale nizzardo, recatosi nel 1867 come in pellegrinaggio a Gavinana, a dare il via a una sottoscrizione popolare per il monumento a Ferrucci, che definí il «Leonida Italiano». Si dovette però attendere ancora fino al 1920 perché il volere di Garibaldi trovasse il giusto compimento a opera dello scultore Emilio Gallori, già autore del monumento all’Eroe dei Due Mondi sito sul Gianicolo, a Roma. Sotto il regime fascista Ferrucci si trasformò quindi in una vera e propria icona di partito, al
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In alto una foto di scena de L’armata Brancaleone, film del 1966 diretto da Mario Monicelli, con Vittorio Gassman come protagonista. A destra una foto di scena dell’Ettore Fieramosca girato da Alessandro Blasetti nel 1938, con Osvaldo Valenti nei panni di Guy de la Motte.
punto che, nel 1928, fu inserito, insieme all’altro condottiero fiorentino, Giovanni dalle Bande Nere, in una collana dedicata significativamente ai «Prefascisti». Lo stesso calcio storico di Firenze venne celebrato per la prima volta nel 1930 proprio per commemorare il IV centenario della morte dell’eroe di Gavinana: un’ammirazione destinata a protrarsi a lungo, sino agli anni Quaranta, se consideriamo che una cartolina della RSI (Repubblica Sociale Italiana) lo raffigura in armatura, spada in pugno, in un atteggiamento di sfida. Sul retro le ultime righe recitano: «La Repubblica di Firenze cadde con lui, che, seppur inconsapevole, difendeva, marzo
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con la libertà fiorentina, l’indipendenza e l’onore d’Italia». Con la sua fine tragica e certa per mano di Maramaldo, il condottiero ben esprimeva l’inclinazione al culto del mito dell’eroe che soccombe, ma combatte con onore, in cerca della «bella morte», che caratterizzò gli anni del regime in agonia. Durante il ventennio – ma, a onor del vero, già dal periodo liberale –, il Medioevo aveva però cessato di esercitare la funzione di potente mitomotore della nazione ricoperta negli anni dell’Unità d’Italia. Era infatti la romanità la cifra distintiva del fascismo, che volle fare degli Italiani, per citare Andrea Giardina, «i romani del-
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la modernità». Questo uso pubblico del passato romano offriva la giustificazione storica alle rinnovate ambizioni espansionistiche e imperialistiche dell’Italia, in particolare per quanto riguardava il dominio del Mediterraneo, il Mare nostrum (vedi box a p. 68). Secondo il progetto mussoliniano, infatti, la Grande Italia – un ingrandito impero italiano che includeva i territori del Nord Africa – doveva essere la continuazione e l’evoluzione, a tutti gli effetti, dell’impero romano, cosí come attestavano le cinque grandi tavole marmoree installate a Roma in via dell’Impero – oggi via dei Fori Imperiali – che illustravano l’espansione di Roma.
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costume e società Il Palio di Siena
L’esclusiva per piazza del Campo Il Palio di Siena è un perfetto esempio di come molti festival italiani siano stati ridisegnati e rielaborati durante il regime fascista. Si trattava di manifestazioni solitamente definite «medievali», ma che, per costumi e ambientazioni, apparivano piuttosto come «rinascimentali». Al fiorire dei palii in tutta la Penisola fece seguito l’iniziativa del podestà di Siena e studioso del Medioevo, Fabio Bargagli Petrucci, consistente nel richiedere a Mussolini l’esclusività del termine «palio» al solo contesto senese, al fine di proteggere lo spirito autentico dell’evento: cosa che si avverò nel 1935. Il cosiddetto stile «medievale» fu quindi introdotto pienamente soltanto durante il regime fascista, negli anni Venti del Novecento. Un’apposita commissione, presieduta dal podestà, avrebbe supervisionato l’accuratezza dei costumi, ispirati agli anni 1430-80 e a precise fonti iconografiche, come gli affreschi di Domenico di Bartolo nel Pellegrinaio dell’Ospedale di S. Maria della Scala di Siena e quelli di Benozzo Gozzoli, rispettivamente nella Cappella del Coro a San Gimignano (chiesa di S. Agostino) e nella Cappella dei Magi a Firenze (Palazzo Medici Riccardi). Cosí ridisegnato, il corteo del 1928, appariva come una coerente glorificazione della repubblica senese. La memoria dei condottieri si prestava comunque particolarmente bene a un visone teleologica della storia, imperniata sul concetto di romanità. I condottieri erano intesi dagli storici militari dell’epoca come eredi di una tradizione marziale che, senza soluzione di continuità, iniziava con Roma, passava per il Rinascimento e l’età moderna, trovando poi il suo apice in Mussolini. Questa mobilitazione del passato italiano – sia esso romano che medieval/rinascimentale – da parte del fascismo risultò funzionale ai programmi di rigenerazione nazionale del regime e alle nozioni fasciste di potenza virile, ordine sociale e primato nazionale nelle arti.
Un’immagine di potenza e maestosità
Ciò risulta particolarmente visibile nel 1938, in occasione della visita di Hitler in Italia: Firenze venne allora allestita in modo da rispecchiare la grandezza della nuova Italia fascista attraverso un’immagine di potenza e maestosità capace di rivaleggiare con la sicumera dei Tedeschi. Statue e repliche dei grandi capitani furono installate, accanto a svastiche e fasci littori, lungo tutto il tragitto che avrebbe percorso l’auto del Führer. L’allestimento, che replicava le famigerate liturgie naziste, culminava nella maestosa «cavalcata» del Museo Stibbert, il punto di forza della collezione, che venne sistemata nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. L’Italia imperiale si celebrava come erede vitale di una stirpe di superuomini guerrieri, i bellicosi e fieri
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In alto xilografia realizzata dall’artista Duilio Cambellotti per il volume Il Palio di Siena. 1932. Nella pagina accanto manifesto realizzato in occasione dell’inaugurazione del monumento al Guerriero di Legnano. 1900.
condottieri del Rinascimento, nell’intento di contrastare l’ascesa del Reich. In particolare, la dialettica Medioevo/Roma antica si espresse durante gli anni Trenta nella dicotomia, emersa già all’indomani dell’Unità d’Italia, tra piccole patrie e patria nazionale. Mentre Roma era la capitale dello Stato-nazione, col suo Altare della Patria costruito in un marcato stile classicista (ma con la personificazione di alcune città rappresentate in abiti medievali), diverse altre città sceglievano il Medioevo per meglio rappresentare se stesse. A Firenze, Arezzo, Pisa, Legnano o Ferrara, l’esaltazione della dimensione municipale si tradusse nella ricostruzione del passato medievale, con la reintroduzione (o l’invenzione ex novo) di palii cittadini e giostre che iniziarono a vestire i colori medievali; furono inoltre restaurati palazzi podestarili, ridisegnate città medievali e piazze. A partire dal 1926 le piccole patrie ebbero anche i propri podestà – in analogia con le magistrature medievali delle città-stato italiane – per designare il capo di un’amministrazione comunale, mentre la capitale del nuovo impero fascista, Roma rediviva, ebbe il governatore – titolo piú legato alla romanità – a sostituire il ruolo del sindaco. marzo
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In questo contesto, teso all valorizzazione del passato locale medievale, il fascismo avviò un vasto programma legato alla promozione del patrimonio culturale in chiave turistica. Il passato della Penisola venne ricostruito e ridisegnato, non soltanto come risposta alle esigenze politiche, ma anche per essere fruito come un bene di lucro che includeva siti storici, monumenti, artigianato tradizionale, cibo, eroi: visitare l’Italia costituiva, in sostanza, un gesto patriottico. Il processo di fascistizzazione dei condottieri trovò il suo apice mediatico e propagandistico nel cinema, «arma piú forte dello Stato». Il coraggio, il sacrificio, il culto del capo e il militarismo che i condottieri erano riusciti a incarnare e sintetizzare, furono massimizzati dai moderni strumenti, permettendo livelli di fruizione di massa. Un anno dopo la conquista dell’Etiopia, nel 1937, il regista tirolese Louis Trenker realizzava cosí Condottieri, una riproposizione in chiave romanzata della vita di Giovanni dalle Bande Nere basata sul romanzo storico pubblicato del 1926 da Emilio Fancelli a ridosso del IV centenario della morte dell’eroe mediceo. Frutto di una co-produzione italo-tedesca, la pellicola segnava l’avvicinamento dell’Italia alla Germania hitleriana, come ben esemplificava la scena del matrimonio tra il condottiero e Maria che, bionda e dagli occhi chiari, rispondeva ai caratteri ariani degli alleati nordici.
Il disappunto della Germania
Nonostante alcune critiche negative, in Italia il film ebbe un successo enorme: presentato alla Biennale di Venezia del 1937, vinse la Coppa della Direzione Generale per la Cinematografia con il merito di aver «interpretato al meglio bellezze naturali e artistiche». Al contrario, in Germania il film non fu apprezzato: in particolare la scena che mostrava i cavalieri italiani (interpretati da un corpo di SS) inginocchiarsi davanti al papa – dopotutto la «Conciliazione» tra Stato e Chiesa in Italia risaliva al 1929 – risultò inaccettabile agli occhi di Hitler e Goebbels e venne censurata con l’accusa di clericalismo. Con tanto di saluti romani e marcia su Roma, Condottieri storicizzava il regime fascista, facendo del condottiero mediceo un promotore dell’unità d’Italia e un alter ego di Mussolini. La nazionalizzazione fascista dell’eroe dinastico si concludeva perfettamente nella scena finale, dove nel cenotafio appariva scritto in grandi lettere capitali «GIOVANNI D’ITALIA». Insieme a Condottieri, la chiara volontà di presentare il protagonista e le vicende come prefigurazioni di Mussolini e dell’Italia fascista fu espressa da Ettore Fieramosca, film diretto da Alessandro Blasetti. Il tema è quello, im-
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pegnativo, quasi sacro, della Disfida di Barletta, la mêlée che si svolse in Puglia nel 1503 fra tredici cavalieri provenienti da varie zone della Penisola e altrettanti cavalieri francesi. Un episodio tutto sommato di portata locale che però, grazie al Risorgimento, era stato trasformato in un eccezionale evento di rilevanza nazionale. Dalla pubblicazione del romanzo di Massimo D’Azeglio in poi, nel 1833, la Disfida conobbe enorme fortuna tra adattamenti teatrali, dipinti, targhe commemorative, vie, monumenti, pellicole che resero mainstream la gloriosa impresa di «riscossa nazionale» contro l’arroganza e l’occupazione francese. Un mito ancora in pieno rigoglio durante il regime: basti pensare che la stessa Regia Marina dedicò all’eroe di Barletta un sommergibile – varato nel 1929, fu il piú grande dell’arsenale italiano dell’epoca – e che nel 1939 il pittore veronese Pino Casarini realizzò un’enorme tela, sul modello della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, ispirata all’epico fatto d’arme. Inizialmente il progetto di Blasetti, regista prestigioso e ben allineato al fascismo, fu però accantonato: la Direzione generale della Cinematografia preferí infatti realizzare, in luce della vittoria della guerra d’Etiopia,
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costume e società le repubbliche marinare
Una riscoperta «imperialista» All’interno del piú vasto recupero del passato medievale italiano fatto di condottieri, podestà, tradizioni municipali e lingua volgare, il fascismo mobilitò anche il mito delle repubbliche marinare. Scarsamente presenti nel discorso politico pre-unitario, fu con l’Italia liberale, quando i governi iniziarono ad accarezzare l’idea di ritagliarsi un «posto al sole», che esse offrirono la legittimità all’espansione in Africa e nel Dodecaneso. Pensiamo a Gabriele D’Annunzio, i cui carmi La canzone d’Oltremare e La canzone del sangue, pubblicati nella raccolta Merope del 1912, cantavano le italiche glorie marinare. Il fascismo fece sua questa prospettiva, celebrando le repubbliche marinare – come scrive Francesco Pirani in Medievalismi italiani (Gangemi, 2018) – «in chiave squisitamente imperialista». Alla vigilia della seconda guerra mondiale, la Regia Marina fece inoltre raffigurare «inquartati» gli stemmi di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia sul proprio vessillo. Emblematica in questo senso risultava la costruzione del Palazzo del Governo a Rodi che, realizzato tra il 1926 e il 1927 su progetto dell’architetto Florestano di Fausto in uno stile che richiamava le forme del Palazzo Ducale di Venezia, dichiarava la legittimità di un ritorno italiano nel Mediterraneo.
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Rodi. Il Palazzo del Governo, costruito nel 1926-1927 su progetto di Florestano di Fausto in uno stile che richiamava le forme del Palazzo Ducale di Venezia.
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Scipione l’Africano. Blasetti riuscí comunque a girare la pellicola nel 1938, partendo dalla libera interpretazione dell’opera di D’Azeglio, con l’intento di spingere all’unità nazionale e colpire «la suffissance francese». Cosí, nella scena madre, mentre i cavalieri francesi facevano il loro ingresso in lizza, caracollando ciascuno in maniera diversa e con titoli e insegne personali, i cavalieri di Fieramosca, listati in nero, facevano il loro ingresso tutti insieme, sotto un’unica insegna.
Simbolo della riscossa nazionale
La Disfida di Barletta rappresentò un forte mito nazionale anche dopo la caduta del regime: per esempio il Corriere dei Piccoli, nel 1964, narrò l’episodio ancora secondo il canone del ventennio, come simbolo di coraggio italico e riscossa nazionale. Ettore Fieramosca e Condottieri furono film dal considerevole sforzo produttivo, con grandiose scenografie, accurati studi iconografici e scene di massa con un gran numero di comparse, in cui vennero utilizzati persino reparti del Regio Esercito. Alla celebrazione dell’orgoglio nazionale si univa cosí la dimostrazione delle rinnovate capacità produttive della cinematografia italiana. Al pari degli altri regimi del Novecento che fecero appello al Medioevo, anche in Italia la fine della seconda guerra mondiale trascinò con sé il medievalismo politico, che restò confinato negli ambienti cattolici neoguelfi prima e cattolico-liberali poi (risale già al 1919 l’adozione dello scudo crociato come simbolo da parte del Partito popolare e poi della Democrazia cristiana nel 1943). Si dovranno attendere gli anni Sessanta per rivedere in Italia un nuovo «duce»: un cavaliere grottesco, scanzonato e comico come il Brancaleone di Mario Monicelli. Era l’inizio di un nuovo medievalismo – cialtronesco e pauperistico, di sinistra, ingannevolmente definito «realistico» – che ribaltava i canoni del medievalismo nazionalista, su cui tante generazioni si erano formate.
NEL PROSSIMO NUMERO ● Il Medioevo in TV: il caso de Il Trono di Spade
Da leggere Stefano Cavazza, Piccole patrie: feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo, Il Mulino, Bologna 1997 Duccio Balestracci, Medioevo e Risorgimento: l’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 2015 Davide Iacono, Condottieri in camicia nera: L’uso dei capitani di ventura nell’immaginario medievale fascista, in Tommaso di Carpegna Falconieri, Riccardo Facchini (a cura di), Medievalismi Italiani: secoli XIX-XXI, Gangemi Editore, Roma 2018
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I gioielli della laguna di Furio Cappelli
Sospese nell’atmosfera incantata delle isole di Torcello e Murano, le chiese di S. Maria Assunta e dei Ss. Maria e Donato sono altrettanti gioielli dell’architettura medievale, impreziositi da mosaici nei quali si fondono mirabilmente i canoni della tradizione bizantina e le mode dell’Occidente. Due autentici scrigni di tesori, che fanno da degni «scudieri» della vicina basilica veneziana di S. Marco 70
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Veduta aerea di Torcello, una delle isole della laguna di Venezia, dominata dalla torre campanaria del duomo di S. Maria Assunta.
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omini Venezia e subito «vedi» piazza San Marco e la basilica, monumento-simbolo della città lagunare. D’altronde, ogni componente della chiesa marciana suggerisce un senso di trasfigurante bellezza e l’avventuroso trasporto in laguna delle reliquie del santo evangelista – grazie a un furto messo in atto ad Alessandria d’Egitto – ha dato vita a un racconto colorito, che ammanta di leggenda l’origine stessa dell’edificio.
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Eppure, nonostante quest’aura formidabile, S. Marco non era l’unica chiesa importante dello scenario lagunare. Era senz’altro il fulcro di Rialto, il nucleo generatore della città, ma nell’XI secolo la storia di Venezia cosí come la conosciamo era solo agli inizi. A quel tempo, infatti, la Serenissima era ancora un arcipelago di piccole città e di borghi fortificati. Nello stesso periodo, quando non era stata avviata l’edizione ultima e definitiva del santuario marciano
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l’arte delle antiche chiese /4 A destra cartina della laguna di Venezia con la dislocazione delle sue isole principali. In basso la facciata del duomo di S. Maria Assunta. Da un’epigrafe conservata alla sinistra dell’altar maggiore, si apprende che la consacrazione dell’edificio originario fu compiuta nel 639.
Via Triestina SR14
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Venezia Marco Polo
Torcello
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San Giuliano
Mazzorbo
Burano
San Francesco del Deserto
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Porto di Marghera
Lazzaretto Nuovo
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Vignole VENEZIA
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San Giorgio in Alga San Clemente Sacca Sessola Santo Spirito
Lazzaretto degli Armeni Lazzaretto Vecchio
Lido di Venezia
(1063), su un’isola ben distante esisteva già una cattedrale assai ambiziosa, di remote origini e di fresca fattura romanica, decorata da mosaici: S. Maria Assunta di Torcello. E quando la nuova basilica di S. Marco era ormai in via di conclusione, nell’isola di Murano l’elegante chiesa dei Ss. Maria e Donato riprese non pochi elementi di quell’illustre modello. Occupando il luogo dell’antica chiesa matrice, si proponeva come un santuario illustre, preposto a conservare le reliquie di san Donato martire, condotte trionfalmente a Venezia a suggello di un’impresa militare. La basilica di Murano non cercò di competere con S. Marco, anche perché rientrava in una coralità di intenti che faceva capo alla stessa autorità ducale, ma sviluppò un discorso originale, senza temere confronti di stile e di dimensioni.
Torcello, il Duomo La storia
Proprio all’interno della chiesa, a sinistra dell’altar maggiore, le origini dell’edificio sono illustrate da una preziosa epigrafe, rinvenuta in stato frammentario nel 1895 e poi restaurata e ricomposta. Non si tratta di una lapide di grande effetto, dal momento che non è né ampia, né scolpita in belle lettere capitali di stile classico, ma è di
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Particolare del mosaico del Giudizio Universale, in controfacciata, con la rappresentazione dell’Inferno, opera di maestri bizantini. XI sec. In alto, intorno a Lucifero con l’Anticristo in braccio, si notano i superbi; nei riquadri sottostanti, i lussuriosi, i golosi, gli iracondi; sotto ancora, gli invidiosi, gli avari e gli accidiosi.
Il grande Giudizio universale in controfacciata risponde a un gusto tipicamente «occidentale» MEDIOEVO
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l’arte delle antiche chiese /4 A sinistra la navata centrale della chiesa, con, in primo piano, una lastra tombale. Sullo sfondo, si riconosce il mosaico della controfacciata.
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sicura suggestione. Racconta, infatti, che il duomo venne fondato in un momento storico molto convulso per l’Italia: ci troviamo nel 639, nel pieno dell’espansione longobarda, e la chiesa doveva rispondere alle esigenze di una comunità locale cresciuta vistosamente proprio sotto la spinta degli invasori. Gli abitanti di Altino, infatti, vista la minaccia incombente, si erano dati alla fuga ed erano emigrati in massa sull’isola di Torcello, dove è probabile che sorgesse già un primo modesto insediamento in età romana, in stretta connessione con la città abbandonata. L’emigrazione produsse, tra l’altro, il trasferimento della sede episcopale, con la connessa esigenza di una nuova cattedrale. L’epigrafe fu incisa proprio per solennizzare la consacrazione dell’edificio e fa un certo effetto che il testo si apra con un riferimento solenne all’imperatore in carica, Eraclio (610641) – come se in quell’isola si conservasse tenacemente un barlume di
Nella pagina accanto veduta d’insieme dei mosaici che ornano la controfacciata. In alto, nel timpano, compare la Crocifissione, con il Cristo affiancato dalla Vergine e da san Giovanni Evangelista. La parte restante della parete è suddivisa in registri, cosí articolati: 1. Anastasis, con Cristo che calpesta il demonio e le porte degli Inferi; ai suoi fianchi, il corteo dei salvati dal Limbo, in primis i progenitori Adamo ed Eva, poi Davide e Salomone, quindi il resto del corteo, scortato ai lati dagli arcangeli Michele e Gabriele; 2. Cristo giudice dentro la mandorla di luce affiancato dal Battista e dalla Vergine, e dal consesso dei dodici Apostoli con la schiera degli Angeli sullo sfondo; 3. Etimasia o Adorazione del trono vuoto, con angeli che suonano i corni e ai loro fianchi i morti che risorgono dal mare e dalla terra, uscendo dalle proprie tombe o dalle fauci degli animali; 4. Psicostasis, in cui un angelo con bilancia è alle prese con due demoni per il giudizio (pesa) di un’anima, mentre a sinistra è una schiera di Eletti, e, a destra, corpi mozzi di dannati, che si dibattono nel fuoco infernale spinti da due angeli e torturati da Lucifero che porta l’Anticristo in grembo; 5. Paradiso e Inferno: sulla sinistra, la porta del Paradiso, vegliata da san Pietro, e, di fianco, le anime dei giusti intorno al patriarca Abramo, con la Madonna e san Giovanni Battista; sulla destra, riquadri con scene di torture infernali. A sinistra pianta del duomo di S. Maria Assunta e dell’adiacente chiesa di S. Fosca (a destra). marzo
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l’arte delle antiche chiese /4 romanità –, il quale viene per giunta menzionato con il suo effettivo titolo di Augusto. Sono poi evidenti i riferimenti alle autorità locali, che rientravano nei ranghi dell’esarcato, vale a dire quella organizzazione territoriale con sede a Ravenna che raggruppava gli ambiti ancora sottoposti al dominio bizantino in Italia. L’epigrafe cita infatti proprio la massima autorità, l’esarca Isacco (625-643), oltreché il magister militum ossia il «generale» preposto alla difesa delle province venetiche, Maurizio, che lo storico Giorgio Ravegnani definisce «una sorta di “doge prima dei dogi”». Alla fine del testo si ricorda il vescovo in carica, Mauro. Tutti e tre i personaggi sono di origine o di cultura orientale, come è suggerito dai loro stessi nomi: l’esarca Isacco (dal biblico Isaac) proveniva effettivamente dall’Armenia, mentre Mauro e il derivato Maurizio sono nomi latini di matrice greca, assai diffusi in area bizantina. Già nell’VIII secolo Torcello doveva presentarsi sotto l’aspetto di una città autonoma e ben strutturata, grazie anche al progressivo emergere di un’attività commerciale e artigianale che si affiancava all’agricoltura, fino a divenire l’elemento predominante dell’economia locale. È addirittura probabile che l’attività mercantile fosse giunta a livelli tali da porsi in concorrenza con Rialto, ossia con il vivace nucleo generatore della futura città di Venezia. Proprio nelle adiacenze della cattedrale era situata la piazza del mercato di Torcello. Nel 1961 gli archeologi di una spedizione polacca vi rinvennero due monete assai indicative, fuse tra di loro a seguito di un incendio: si tratta di un denarius d’argento di Carlo Magno, emesso a Milano tra il 793 e l’812, e di un dirham, anch’esso d’argento, emesso sotto il califfato di Harun al-Rashid, intorno all’800. La ricostruzione e l’ampliamento del complesso episcopale, nell’XI secolo, segnano il momento di massimo fulgore nella storia di Torcello. L’impresa fu resa possibile dall’interessamento dell’autorità ducale, che teneva evidentemente in grande considerazione questo polo illustre della realtà venetica. Era doge Pietro II Orsèolo (991-1009), figlio di quel doge Pietro I (976-78) che provvide al restauro dell’originaria basilica di S. Marco, dopo un rovinoso incendio che aveva interessato l’intero complesso del palazzo ducale. Nell’anno 1000 Pietro II aveva compiuto una fortunata spedizione militare in Dalmazia, che gli permise di assumere il titolo di dux Veneticorum et Dalmatiarum. La vittoria, a quanto sembra, fu riportata nel giorno dell’Assunzione della Vergine, e questo poté favorire il desiderio di ricostruire la cattedrale di Torcello, dedicata proprio all’Assunta. I lavori ebbero inizio nel 1008, quando sulla stessa cattedra episcopale sedeva suo figlio Orso, che, però, nel 1018 assunse il titolo di patriarca di Grado e lasciò di conseguenza la sede di Torcello. Suo fratello Vitale, appena ventenne, fu no-
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A sinistra il pulpito per le sacre letture. A destra, in alto e in basso due delle quattro lastre istoriate (plutei) alla base dell’iconostasi, con elaborazioni dei temi paradisiaci dell’Albero della Vita. XI sec. In alto, due pavoni si abbeverano alla fonte divina; in basso, due leoni ai piedi dell’Albero.
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minato come suo successore, ed ebbe modo di seguire la prosecuzione dei lavori fino agli anni 1040 e fu lui, in particolare, il committente della prima fase della decorazione musiva. A seguito di due forti terremoti (1105, 1117), che probabilmente provocarono danni di una certa entità, alla metà del XII secolo gli stessi mosaici subirono restauri e ampi rifacimenti. Frattanto il paesaggio urbano iniziava a mostrare forti segni di contrazione. L’attività commerciale regredí a tal punto che scomparve del tutto e là dove c’era la piazza del mercato, già alla fine del X secolo si impiantò un cimitero. Il paesaggio assunse sempre piú il marcato accento rurale che tuttora lo contraddistingue, finché il complesso episcopale divenne un’emergenza a sé stante (un’isola nell’isola, per cosí dire), di significato puramente religioso.
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La realtà monumentale del duomo si annuncia già da lontano, grazie alla sua alta torre campanaria, con un
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carattere di sorprendente astrazione. Si tratta, infatti, di una costruzione cospicua e articolata, al servizio di un’ampia comunità, ma la città per cui era stata pensata non c’è piú e la cattedrale è ormai un grande santuario immerso nella campagna. A una visione piú ravvicinata, si avverte chiaramente la presenza di un’oasi di antichi e importanti edifici, mentre tutt’intorno si susseguono solo campi coltivati, spazi incolti e poche case coloniche. Di fronte agli storici palazzi dell’autorità civica (permangono il Palazzo dell’Archivio e il Palazzo del Consiglio, oggi sedi del locale Museo archeologico), l’insula episcopalis non si compone della sola cattedrale. Questa era in origine collegata a un battistero situato frontalmente, in asse alla facciata, oggi ridotto, in alzato, a pochi brani di muratura. Inoltre, un portico collega la chiesa al santuario di S. Fosca, che conserva le reliquie di una martire ravennate. Le sacre ossa furono condotte nella laguna, come di consueto, grazie a un’avventurosa traslazione, che in questo caso ebbe come luogo di partenza la citmarzo
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Nella pagina accanto mosaico absidale raffigurante la Vergine con il Bambino; al di sotto c’è la schiera degli Apostoli mentre ai lati dell’arco, in alto, è raffigurata l’Annunciazione. L’opera fu realizzata da artefici bizantini nell’XI sec., ma subí rifacimenti nel secolo successivo. A destra mosaico dell’abside destra, nella cappella del SS. Sacramento, con il Cristo giudice tra gli arcangeli Michele e Gabriele.
tà libica di Sabratha, in Tripolitania. La già menzionata torre (XII secolo) svetta in posizione isolata, secondo lo stesso concetto che si ritrova nel celebre campanile di S. Marco (completato nel 1152), a differenza del quale, però, è situata sul retro della chiesa. Il quadro complessivo, a cui oggi mancano le antiche residenze del vescovo e dei canonici, è sorprendente. Tutti gli edifici componevano infatti un insieme unitario, rigoroso e coerente, sulla base di un progetto ben meditato, che dovette svilupparsi in larga parte nella prima metà dell’XI secolo. Sembra addirittura di vedere una sorta di anticipazione del complesso di piazza dei Miracoli a Pisa, sia pure su un’altra scala di grandezza. Al confronto, infatti, non manca alcun elemento: la cattedrale, il battistero, la torre isolata. A Torcello il cimitero non era organizzato in forme monumentali, come sarà nel Camposanto pisano, ma in compenso c’è una tomba illustre, quella di santa Fosca (e della sua nutrice santa Maura), intorno a cui è stato costruito un cospicuo edificio memoriale (martyrium).
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Si tratta di una costruzione davvero singolare, probabilmente innalzata in coincidenza con i lavori della nuova basilica di S. Marco (fine dell’XI secolo). Com’è tipico della cultura lagunare, unisce in una sintesi armonica elementi di «marca» orientale e occidentale. La grande cupola che sorge al centro dell’edificio ha una copertura di travature lignee a vista e, con il suo particolare sistema di raccordo, in pianta e in alzato, si ricollega facilmente a molti santuari a croce greca di area bizantina. Lo stesso abbinamento tra i mattoni delle murature e il marmo delle colonne, con capitelli di tipo corinzio in massima parte appositamente realizzati, condivide la «grammatica» di base della basilica marciana. Lo sviluppo a tre navate del braccio corrispondente al coro, sull’asse principale, allude timidamente a una consueta struttura di tipo basilicale, in una sorta di «innesto» di grande eleganza. Ed è ammirevole la cura dedicata alla veste esterna dell’abside centrale, con una conformazione poligonale che «sigilla» la struttura semicircolare interna, secondo uno stile architettonico
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l’arte delle antiche chiese /4 che deriva da Ravenna. Fa da basamento un finto portico in marmo, sul quale si sviluppa poi un ordine di grandi arcate in laterizio. Corona il tutto un fascione formato da decori in laterizio e in marmo, con i mattoni disposti a dente di sega oppure a formare un motivo a triangoli che si ritrova a Murano. Dal canto suo, la cattedrale mantiene una forte impronta paleocristiana, con una struttura basilicale del tutto lineare. Le alte pareti della navata centrale, in semplice muratura laterizia a vista, sfoggiano alla base un solenne colonnato i cui elementi marmorei sono stati in massima parte appositamente scolpiti. Il pavimento, ampiamente restaurato, sviluppa elaborati tracciati geometrici in marmo intarsiato. Il coro è nettamente separato dall’area riservata ai fedeli grazie a una iconostasi, ossia un diaframma presbiteriale scandito da colonne su cui sfilano le tavole quattrocentesche con la Vergine affiancata dai 12 Apostoli. Il crocifisso (XV secolo) si imposta invece su una delle catene lignee di rinforzo che incardinano la struttura, secondo uno stile edilizio tipicamente lagunare. A sinistra si delinea il pulpito per le sacre letture, ma spiccano in particolar modo le quattro lastre istoriate (plutei) alla base dell’iconostasi, ai lati dell’ampio varco
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centrale: mostrano raffinate elaborazioni dei temi paradisiaci dell’Albero della Vita, con il consueto corredo di leoni, colombe e pavoni. Si tratta probabilmente di un complesso importato da Bisanzio o comunque realizzato da artefici bizantini (XI secolo). Provenivano sicuramente da Bisanzio i maestri che posero mano alla decorazione musiva, limitata alla parete di controfacciata e a due absidi. Come si vede alla base dell’abside centrale, laddove si è perso il rivestimento in marmo alla base, si allestí in un primo momento una decorazione ad affresco, ma poi, per la prima volta in tutta l’area lagunare, si optò per il mosaico. La grande immagine della Vergine col Bambino in figura stante (rifatta nel XII secolo) risalta sull’immensità del fondo dorato, mentre alla base si succedono gli Apostoli. Due temi che nelle chiese bizantine erano in genere destinati a coronare le cupole si adattarono al particolare contesto «occidentale»: la Resurrezione era Murano. La chiesa dei Ss. Maria e Donato, la cui costruzione si colloca nella prima metà dell’XI sec.
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raffigurata sull’arco absidale, sopra all’Annunciazione, ma è andata perduta, mentre il Cristo giudice campeggia tuttora nell’abside destra, in fondo al settore oggi noto come cappella del SS. Sacramento. All’ingresso della stessa cappella, peraltro, la volta rappresenta l’Agnello mistico omaggiato da quattro Angeli, secondo un’iconografia che rimanda all’illustre decorazione della basilica di S. Vitale di Ravenna. Tutta occidentale è, infine, l’idea di rappresentare il Giudizio universale sulla parete di controfacciata, mentre nelle chiese bizantine il tema si sviluppava nei portici esterni. Il nucleo centrale (indenne da rifacimenti) è costituito dall’apparizione del Cristo giudice nella mandorla. Da questa si sviluppa la lingua di fuoco che «alimenta» l’Inferno (in basso a destra), in una visione particolarmente terrifica. Non mancano i teschi «abitati» dai vermi, e domina Lucifero con l’Anticristo in braccio, seduto in un trono rivestito da squame di serpente con due protomi mostruose ai lati (al posto dei leoni dei troni regali), in una geniale parodia demoniaca del tema della Madonna col Bambino. Tutt’intorno, tra le lingue di fuoco, galleggiano le teste di sovrani e di alti dignitari di ogni parte del mondo. Nel registro sottostante al Cristo giudice, sono me-
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morabili le inconsuete varianti al tema del risveglio dei defunti. Gli Angeli che suonano le trombe, infatti, non risvegliano solo quelli che sono stati sepolti nei cimiteri, ma anche quelli che hanno avuto diversa sorte, finendo tra le fauci di un pesce o di una belva. Il mare è personificato in modo soprendente con un recupero dell’iconografia classica. Si tratta, infatti, di una nereide (ninfa marina) coronata e seminuda. Assisa su una creatura degli abissi, ha in mano un corno potorio (per bere) e un mostro, intento a «restituire» un defunto.
Murano, la basilica La storia
La chiesa matrice dell’isola di Murano era in origine corredata da un battistero e dipendeva dal vescovo di Torcello. Il suo assetto odierno si lega alla traslazione delle reliquie di san Donato, attuale contitolare della basilica. Nel 1125-26, nell’ambito di una spedizione punitiva contro l’impero bizantino, il doge Domenico Michiel, «terrore dei Greci» (cosí recitava il suo epitaffio), attaccò alcune isole dello Ionio, soprattutto Cefalonia, e da lí depredò il sacro corpo del martire. I lavori di costruzione si conclusero nel 1141, come indica l’epigrafe che si legge al centro del pavimento a mosaico.
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l’arte delle antiche chiese /4 In basso il mosaico absidale raffigurante la Vergine benedicente. XII sec. A destra particolari del mosaico pavimentale. XII sec.
In alto, una volpe che si finge morta, trasportata da due galline (o galli), scena che allude a una favola; in basso, una coppia di pavoni.
Da leggere Giovanni Lorenzoni, Venezia medievale tra Oriente e Occidente, in Storia dell’arte italiana, V. Dal Medioevo al Quattrocento, Einaudi, Torino 1983; pp. 385-443. Giovanni Lorenzoni, Venezia, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Treccani, Roma 2000; anche on line su Treccani.it. Antonio Iacobini, Il mosaico in Italia dall’XI all’inizio del XIII secolo: spazio, immagini, ideologia, in L’arte medievale nel contesto, 300-1300. Funzioni, iconografia, tecniche, a cura di Paolo Piva, Jaca Book, Milano 2006; pp. 463-499. Fulvio Zuliani (a cura di), Veneto romanico, Jaca Book, Milano 2008
Nella pagina accanto l’interno della chiesa dei Ss. Maria e Donato, la cui costruzione ebbe termine nel 1141. Nel 1692 l’edificio
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venne ristrutturato in forme barocche, ma ulteriori restauri e rifacimenti condotti nel XIX e XX sec. gli hanno conferito l’aspetto oggi visibile.
La definizione della chiesa come cattedrale è appropriata solo in riferimento a una fase storica piuttosto tarda: solo nel 1692, infatti, il vescovo Marco Giustiniani trasferí proprio a Murano la sede episcopale di Torcello, nel palazzo dell’attuale Museo del Vetro. Da quel momento la basilica assunse effettivamente la dignità di cattedrale, ma si trattò di una situazione che si mantenne per poco piú di cento anni, perché nel 1818 l’episcopato di Torcello fu abolito e accorpato al patriarcato di Venezia. marzo
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La parete absidale della chiesa, rivolta verso il mare, è la componente piú suggestiva dell’assetto esterno. Si presenta strutturata su due ordini, con una complessa tessitura decorativa e cromatica, giocata in prima battuta dal consueto connubio tra il marmo e il mattone. L’ordine inferiore disegna un finto portico, mentre l’ordine superiore si caratterizza come una elegante loggia percorribile, con probabili funzioni cerimoniali, in occasioni di festività o di visite illustri. In ogni caso, il prospetto giocava sicuramente un forte effetto scenografico per chi approdava sull’isola. L’effetto era rafforzato dalla torre campanaria che svetta di fianco, a sé stante. L’interno presenta una sua particolare complessità, perché ha una struttura a croce latina su cui si innestano gli effetti di un impianto centrale, a croce greca. Nel punto culminante si profilano quattro pilastri che si limitano a marcare gli spigoli tra le pareti, senza alcun collegamento tra pilastro e pilastro. Il coro della chiesa diviene cosí un fondale separato in modo ingegnoso dalla parte anteriore dell’aula. Nell’abside si staglia sul fondo dorato l’immagine a mosaico della Vergine benedicente, con un tratto di maggiore semplicità e immediatezza rispetto alla solenne Vergine di Torcello. Il pavimento, sia pure ampiamente restaurato, è di grande interesse per la varietà tecnica e compositiva.
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Insieme alle decorazioni di tipo geometrico, connesse alla tradizione bizantina, si nota infatti un gustoso pullulare di inserti di vario genere, che si ricollegano invece alla tradizione dei mosaici pavimentali di area padana. Si ritrova cosí, in particolare, il consueto repertorio delle figurazioni bestiarie, in forma puramente simbolica o narrativa. La volpe che si finge morta, trasportata da due galline (o galli), allude a una favola di grande fortuna, già trasposta negli affreschi del duomo di Aosta (1040-50; vedi «Medioevo» n. 264, gennaio 2019, on line su issuu.com). Si notano poi le tipiche presenze dei grifoni, dei pavoni che si abbeverano al calice (con evidente allusione al rito eucaristico), dell’aquila che artiglia e conduce in cielo una colomba, ma non mancano figure rare se non addirittura uniche: basilischi, chiocciole e grilli.
NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte: Casale Monferrato, S. Evasio; Vercelli, S. Andrea ● Valle d’Aosta: Aosta, la cattedrale di S. Maria Assunta e la chiesa di S. Orso ● Lombardia: Milano, S. Ambrogio e S. Lorenzo NEL PROSSIMO NUMERO Emilia-Romagna: Bologna, Santo Sepolcro
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di Alessandro Mandolesi
Salvo diversa indicazione, tutti gli oggetti riprodotti in questo Dossier appartengono alle collezioni del Museo della Ceramica di Montelupo Fiorentino. Due piatti di epoca rinascimentale prodotti a Montelupo e raffiguranti un busto maschile e uno femminile.
Tutti i
colori
di Firenze
Il Museo della Ceramica di Montelupo celebra le glorie della tradizione produttiva piú tipica e famosa della città toscana. Un viaggio meraviglioso fra Medioevo e Rinascimento, raccontato dagli oggetti che rivelano l’importante ruolo svolto sul piano delle dinamiche storiche, economiche e sociali
Dossier
I «I
colori sono azioni della luce, azioni e passioni». Cosí Goethe, nella sua Teoria dei colori (1810), verosimilmente ispirato dall’esperienza emotiva con il paesaggio italiano e dai suoi inconfondibili colori, si esprime riguardo al valore assoluto del colore. Questo, mediante la pittura, è l’elemento ideale, ancor prima della forma, per
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Sulle due pagine barcaioli in attività sull’Arno presso Montelupo, in una foto Alinari degli inizi del Novecento. In basso boccale in maiolica arcaica. 1320-1340.
scoprire un mondo di esperienze composto di saperi, di sensibilità e, appunto, di passioni, come quello della ceramica prodotta da circa nove secoli a Montelupo, borgo delle terre fiorentine considerato «fabbrica» d’eccellenza della città gigliata. La storia della ceramica di Montelupo è indissolubilmente legata alla storia di Firenze. E il successo internazionale della produzione montelupina è saldato alla posizione geografica delle sue botteghe e alle vicende dell’Arno, inteso come
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via favorevole fra la città dominante e il mare. Questi due fattori, Firenze e il fiume, si sono rivelati determinanti nel «secolo d’oro» montelupino, fra la metà del Quattrocento e quella del Cinquecento, quando la maiolica prodotta sulle rive dell’Arno costituisce una sorta di fossile guida dell’espansione commerciale fiorentina nel mondo allora conosciuto. Mutatis mutandis, la ceramica di Montelupo è per Firenze quasi l’equivalente del nero bucchero per l’«antenata» Etruria, diffuso dal In alto foto d’epoca di Montelupo. In alto, a destra, si riconosce il castello con la prioria di S. Giovanni.
Bologna EMILIA-ROMAGNA LIGURIA
La Spezia
Carrara Massa
Pistoia
MAR
Lucca
LIGURE
Pisa
MONTELUPO
Livorno Arezzo Siena
Isola di Capraia
Lago Trasimeno
Perugia
Arcipelago Isola d’Elba
UMBRIA
To s c a n o
MAR TIRRENO
Isola del Giglio
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Dossier La maiolica arcaica «Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto ‘l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani» (Dante, Inferno, canto XIII, 10-12)
All’ingresso del secondo girone del VII Cerchio dell’Inferno, Dante incontra la Selva dei suicidi, dall’orribile paesaggio e priva di vie d’accesso. Qui vivono le Arpie, gli uccelli mitologici dal volto di donna, già citati da Virgilio nell’Eneide, che, come mostri, cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi (Mar Ionio). Le Arpie nidificano nella selva, hanno grandi ali e zampe artigliate, e si nutrono delle foglie degli alberi, producendo dolore alle anime dei suicidi che vi sono imprigionate. Nel boccale in maiolica arcaica qui a sinistra, è dipinta un’arpia in stile medievale, con la testa ripiegata all’indietro, una delle prime raffigurazioni fantastiche presenti a Montelupo. Al Trecento appartiene anche un orciolo, trovato negli scavi presso il Palazzo Podestarile: è un vaso usato nelle spezierie per contenere le sostanze medicamentose contro le malattie dell’epoca (a destra). Nel Medioevo gli ospedali sono concepiti come luoghi di isolamento in cui aspettare il funesto decorso del male. Dopo la Peste Nera che colpí Firenze, un numero sempre crescente di medici, chirurghi e farmacisti viene inquadrato in categorie piú precise nei rinnovati istituti sanitari, dotati di spezierie e farmacie.
A sinistra boccale in maiolica arcaica con figura di arpia. 1320-1340.
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Nella pagina accanto, in alto orciolo a zaffera decorato con pesce guizzante. 1420-1440. Firenze, Collezione F.G.B. In basso orciolo in maiolica arcaica, dagli scavi del Palazzo Podestarile. 1380-1400.
leonardo ceramista
«Ed il bianco metteremo per la luce...» «I semplici colori sono sei (…) e diremo il bianco in quest’ordine essere il primo ne’ semplici, il giallo il secondo, il verde il terzo, l’azzurro il quarto, il rosso il quinto, il nero il sesto; ed il bianco metteremo per la luce senza la quale nessun colore veder si può, ed il giallo per la terra, il verde per l’acqua, l’azzurro per l’aria, ed il rosso per il fuoco, ed il nero per le tenebre, che stan sopra l’elemento del fuoco, perché non v’è materia o grossezza dove i raggi del sole abbiano a percuotere, e per conseguenza illuminare»: cosí si esprime Leonardo in merito all’articolazione dei colori nel Trattato della pittura, basato su annotazioni del genio vinciano raccolte probabilmente dal suo allievo Francesco Melzi. Conoscitore delle produzioni tipiche delle sue terre, Leonardo aveva probabilmente esperienza diretta dei processi di lavorazione dell’argilla, che poteva aver visto o sperimentato dalla nonna paterna Lucia di Piero Zosi, appartenente a una famiglia di ceramisti di Bacchereto, sul Montalbano. Come Montelupo, anche la vicina Bacchereto ha segnato gli esordi della maiolica fiorentina e ha dato i natali a generazioni di abili vasai che hanno servito la città gigliata. La somiglianza stilistica delle due fabbriche fra Tre e Quattrocento rende talvolta difficile attribuire una maiolica arcaica, una zaffera o un «damaschino» all’una o all’altra produzione «fiorentina», come nel caso di questo piccolo boccale fabbricato proprio negli anni in cui nacque Leonardo. commercio etrusco in tutto il Mediterraneo antico. Decisivo per la fortuna montelupina è l’investimento del capitale fiorentino nella trasformazione del piccolo abitato in un centro altamente specializzato nella produzione smaltata, la ceramica italiana piú qualificata delle epoche trascorse. Le casate urbane, impegnate nella gestione dei profitti derivanti dagli scambi e dalla finanza, prediligono capitalizzare in fondi e immobili, ma anche in produzioni apprezzate e consolidate insediate nel contado. Nelle dinamiche commerciali, le risorse puntano a promuovere e a scambiare le maioliche fiorentine sui maggiori mercati mediterranei ed europei: per garantire una fornitura consistente e regolare, si concepiscono nuove formule di com-
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mittenza, basate su contratti di tipo imprenditoriale che presuppongono l’organizzazione, a Montelupo, di un’efficiente filiera produttiva, che va dalla cavatura dell’argilla alla rifinitura del prodotto, sino allo stoccaggio e al trasporto fluviale e terrestre verso Firenze o verso i porti «fiorentini» di Pisa e Livorno.
Accordi fra le parti
L’intervento delle famiglie mercantili è essenziale per la crescita montelupina: con i vasai si sperimenta un rapporto partecipativo senza precedenti, impostato sul coinvolgimento diretto delle botteghe locali, fino ad allora gestite a livello familiare nelle modalità e nei tempi. L’incessante domanda commerciale fa da impulso per lo sviluppo di vere imprese, ben organizzate sul piano lavorativo. Rapporti che si regolano finanche con appositi accordi fra le parti – precursori
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Amor cortese Su un’elegante tavola fiorentina del Quattrocento non potevano mancare pezzi ricercati. Ne è un esempio questo rinfrescatoio (vassoio da bicchieri) in «maiolica arcaica tricolore» (1440-1460), distinta dall’aggiunta al tradizionale verde e bruno di un terzo pigmento, il giallo o l’arancio: al centro spicca una figura femminile con arco e freccia, accompagnata dal
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cartiglio «imenso [a]mo[re]». Si tratta di un vaso amatorio con la rappresentazione medievale dell’amor cortese, in cui viene esaltato il ruolo della donna che, lanciando i dardi amorosi, può cogliere al cuore l’uomo oggetto del suo desiderio: «Elli fu amore, che, trovando nui, meco restette che venia lontano, a guisa d’un arcier presto soriano…» (Sonetto di Guido Cavalcanti, padre dello Stil Novo).
del modello giuridico anglosassone che oggi chiameremmo trust –, come l’atto del 1490 stipulato fra Francesco Antinori e 23 ceramisti del borgo, impegnati per tre anni a garantire al mercante fiorentino forniture a prezzi bloccati e quasi in esclusiva. Gli Antinori, che nella zona di Montelupo disponevano di beni sia immobiliari che produttivi, mettono a sistema le risorse del territorio connesse alla ceramica, attraverso delle strategie che vanmarzo
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A destra il borgo fiorentino di Montelupo in una rappresentazione cartografica storica. In basso scodella in damaschino con grande fiore immerso fra arabeschi. Inizi del XV sec.
no dallo sfruttamento delle cave d’argilla presso Montespertoli alla distribuzione del prodotto finito.
Una sapiente policromia
La mostra «di Tutti i Colori», allestita nelle due sedi del Palazzo Podestarile e del Museo della Ceramica di Montelupo (vedi box a p. 107) è dedicata a uno degli aspetti distintivi della ceramica di Montelupo: il colore o meglio la ricerca nel corso dei secoli da parte dei maestri del Valdarno di una sapiente policromia che rende unica questa esperienza produttiva, sempre aperta alle inflessioni esterne e, allo stesso tempo, pronta a originali rielaborazioni, quasi mai scontate o banali. Montelupo si cimenta per Firenze in originali composizioni e soluzioni tecnologiche, quasi di pari passo con le conquiste della grande arte fiorentina, a cui i ceramisti guardavano con fascinazione, basate sulla continua e attenta ricerca realistica, vivacizzata da un scelta (segue a p. 94)
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Dossier A destra la città di Montelupo disegnata in forma di fiasco da un cancelliere. 1544. Si notano i comignoli delle fornaci e le ceramiche poste a essiccare nelle strade.
A sinistra boccale in damaschino raffigurante l’incontro fra due giovani con scambio di effusioni amorose. 1440-1460.
Il falco di messer Federigo La ciotola in damaschino «a tavolozza fredda» (1440-1460), con colori diversi nelle parti secondarie che si fondono con l’azzurro predominante (foto alla pagina accanto), mostra un giovane nobile impegnato nella caccia col falcone, attività venatoria che appassionò grandi personalità del passato, su tutti Federico II di Svevia, autore di uno specifico trattato, oppure il meno famoso, ma nobile d’animo Federigo degli Alberighi, immortalato dal Boccaccio in una delle piú belle novelle del Decameron (V giornata, novella IX) che immaginiamo idealmente rappresentato in questo vaso. «Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d’arme e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel di Toscana», è innamorato di una nobildonna, Giovanna, purtroppo sposata. Per lei Federigo sperpera tutto il suo patrimonio per dimostrare tutta la sua ricchezza e
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generosità; ma Giovanna non cede. Ridottosi quasi in miseria per via di questa infruttuosa strategia, Filippo è costretto a ritirarsi in un suo piccolo podere, dove si dedica alla caccia con l’aiuto di un falcone, ultimo segno della sua antica nobiltà. Rimasta nel frattempo vedova, Giovanna si ritira per l’estate in un suo podere, vicino a quello di Federigo, sperando di migliorare le condizioni di salute del figlio, assai debole e gracile. Per caso il ragazzino conosce il nobile Alberighi e, vedendo il suo falcone, lo desidera ardentemente, tanto da ammalarsi. Domanda quindi alla madre di chiedere a Federigo il falcone, come rimedio alla malattia che lo sta consumando: «Madre mia, se voi fa che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire». La richiesta, ovviamente, mette in difficoltà Giovanna, che da un lato ha a cuore la salute del figlio e dall’altro non può chiedere un cosí grande favore all’uomo che ha rifiutato, e di cui ha causato la rovina economica. La donna, tuttavia, decide di rompere gli
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indugi; passa dalla casa di Federigo e gli chiede se può fermarsi a tavola; il protagonista, a causa delle gravi ristrettezze economiche in cui si trova, non è in grado di offrirle un pranzo degno di una nobildonna. Decide, quindi, per amore, di sacrificare proprio il falcone, e di servirlo arrostito. Quando, terminato il pranzo, la donna chiede di poter avere il falcone per curare suo figlio Federigo, tra le lacrime, confessa ciò che è avvenuto. Giovanna, pur rimproverando a Federigo il gesto, non può non comprenderne la grandezza e la nobiltà d’animo che lo ha portato a sacrificare per lei l’unica sua residua ricchezza. Il figlio di Giovanna purtroppo muore. Giovanna decide comunque di risposarsi con Federigo, nonostante la sua povertà: «io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo». In alto ciotola in damaschino raffigurante un giovane nobile impegnato nella caccia col falcone. 1440-1460.
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Piatto con stemma della famiglia Peruzzi, importante nella storia economica europea con la compagnia mercantile considerata «colonna della cristianità», che operava dal Mediterraneo all’Inghilterra, tenendo in pugno le finanze di molti principi europei. 1510-1520.
cromatica senza eguali. Ecco che il colore, assieme alle conquiste figurative, diventa il protagonista nella ceramica, un elemento qualificante attraverso il quale le botteghe sperimentano e tracciano, passo dopo passo, decennio dopo decennio, la storia della ceramica toscana. Montelupo si stringe cosí attorno ai suoi colori smaltati, in una sequenza cromatica che è possibile leggere in chiave cronologica e stilistica e che sintetizza simbolicamente la lunga tradizione produttiva. Tramite il colore si scoprono realizzazioni che
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hanno segnato importanti conquiste formali nella ceramica italiana, e processi evolutivi che corrispondono – non a caso – alle grandi scansioni storiche ed economiche di Firenze.
I primi passi
A Montelupo la produzione di maiolica ha origine verso la fine del XIII secolo, qualche decennio dopo la fondazione fiorentina del castello, avvenuta nel 1203-1204 a guardia dei confini del contado verso il Valdarno inferiore e Pisa, laddove gli sguardi futuri si orientano per
un aspirato sbocco sul Mediterraneo. A oggi mancano testimonianze precedenti, ma non è escluso che qualche ceramica sia stata realizzata per servire da subito il nuovo insediamento fortificato. La maiolica arcaica è la prima ceramica documentata a Montelupo, creata un po’ in ritardo e in maniera ancora non eccelsa: per Firenze, quella della ceramica smaltata è infatti una stagione sperimentale, partita circa una generazione dopo dal resto della produzione regionale piú qualificata. Assieme alla vicina Bacmarzo
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A tavola con Lorenzo Il piatto piano è una novità introdotta alla fine del Quattrocento sulla tavola rinascimentale italiana: cambia infatti l’organizzazione della mensa, che prevede ora un piatto in ceramica per ciascun commensale al posto del tradizionale «tagliere» in legno comune a piú invitati, sul quale in passato, dopo aver prelevato da un vassoio al centro della tavola la pietanza portata, questa veniva tagliata e consumata direttamente. Questi due piatti d’imitazione del lustro spagnolo (1480-1490) arricchivano con le loro tonalità i nuovi servizi introdotti nelle migliori casate fiorentine.
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Dossier chereto, la «giovane» Montelupo si è subito impegnata – quasi fosse una scommessa sul suo futuro – nella manifattura fittile, avviando una tradizione in grado di tramandare, generazione dopo generazione, un prezioso patrimonio di conoscenze sulla manipolazione e foggiatura dell’argilla e sul suo decoro dipinto sul rivestimento stannifero. Il mestiere del ceramista montelupino si plasma a cavallo di due secoli particolarmente significativi per Firenze, segnati da successi nell’economia e nella cultura in generale. I grandi cantieri aperti nel Duecento (come la Cattedrale, Palazzo Vecchio e le mura urbane) vanno a compimento, mentre nel Trecento se ne iniziano di nuovi, sempre con grande entusiasmo. Il benessere urbano è trainato dalle imprese bancarie dell’oligarchia aristocratica, dal commercio sempre piú ad ampio raggio e dalle attività manifatturiere, dei cui frutti, però, non beneficiano ancora i ceti subalterni della città. E proprio le «terre del contado» diventano i luoghi prediletti per l’arte ceramica: all’inizio, questa attività rimane marginale a Firenze, rispetto a manifatture quali la lana e l’oro, forse perché tanto legata, come il vetro, al vivo fuoco e quindi alla costante minaccia di incendi in città. La maiolica arcaica viene fabbricata a Montelupo per quasi due secoli, dal 1280 al 1480 circa, e si caratterizza, nella decorazione, per il binomio dei colori verde, ricavato dall’ossido di rame, e bruno, tratto invece dall’ossido di manganese. Gli ornati rispecchiano il gusto medievale del tempo, con schemi semplificati che prendono spunto dalla natura, rielaborata in maniera fantastica e, talvolta, dai motivi ricamati sui tessuti di pregio del tempo. Dalla seconda metà del Trecento, la maiolica fiorentina è segnata da un netto miglioramento qualitativo, in cui si avvertono addirittura due tendenze stilistiche: la prima, tradizionale, con la ripre-
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sa di vecchi schemi e di semplici repertori floro-vegetali; la seconda, aggiornata, che punta invece a una maggiore vitalità e ricerca cromatica, e che troverà a breve espressione nelle tonalità azzurre/blu.
Servizi da tavola
Le tavole dell’epoca sono imbandite con belle maioliche quali boccali, bacili da portata per pietanze, ciotole usate per le salse o come saliere, vassoi da bicchieri, ben rappresentati nella produzione montelupina. Sugli smalti dominano gli elementi naturali, con foglie di quercia, d’acqua allungate o cardiformi, spesso
disposte a croce sul vaso (inquartate); troviamo anche motivi pseudoaraldici, schemi geometrici e, meno frequentemente, figure animali ispirate dal bestiario medievale oppure immagini umane stilizzate. Accanto alle maioliche da mensa, si affermano altre forme funzionali alla salute dell’uomo, soprattutto all’indomani della Peste Nera che flagellò Firenze nel 1348. Un’efficace rappresentazione di questa calamità è offerta dal Boccaccio, in apertura del Decameron: l’autore delinea il cupo panorama della città e i segni della pestilenza sulle persone, che nessun medico appare in grado
A destra boccale rinascimentale con stemma della famiglia Medici. Nella pagina accanto, in alto piatto raffigurante un falco che si avventa su un tronco a evocare il fiero sentimento antimediceo degli Strozzi. Nella pagina accanto, in basso boccale rinascimentale con stemma della famiglia Strozzi.
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di curare. La risposta fiorentina alle conseguenze della sciagura è la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria alla popolazione, attraverso il consolidamento o la creazione di istituti ospedalieri capaci di superare la vecchia struttura medievale, in cui i ricoveri sono intesi come luoghi di rifugio per malati e bisognosi, in cui trascorrere passivamente il funesto decorso del male, che si combatteva con strumenti poco adeguati. Medici, chirurghi e farmacisti vengono inquadrati in categorie sempre piú precise all’interno delle nuove realtà preposte alla sanità cittadina. Il rinnovamento pas-
La sfida Medici-Strozzi La sfida fra due delle famiglie piú potenti della storia fiorentina, i Medici e gli Strozzi, è politica, ma anche finanziaria, talvolta con opere di grande mecenatismo per manifestare il proprio predominio sulla città. La lotta si estende anche in slogan e simboli, soprattutto quando Filippo Strozzi si pone a capo della sollevazione repubblicana di Firenze contro Cosimo I, per finire poi in carcere nella Fortezza da Basso dove morí «suicida» nel 1538. Per i tragici casi degli ultimi suoi anni, Filippo fu addirittura innalzato dalla tradizione patriottica del Risorgimento a precursore dei martiri della libertà. Il piatto (in alto) del 1510-1520, fra due boccali con stemmi delle due famiglie in competizione fra loro (a sinistra), mostra l’impresa simbolica degli Strozzi, con il falco che si avventa sui virgulti di un tronco d’albero tagliato, a significare il fiero sentimento antimediceo della famiglia. Il tronco tagliato è il «broncone» creato per Lorenzo il Magnifico dopo l’assassinio del fratello Giuliano nella Congiura dei Pazzi, a significare che Lorenzo, il lauro, proprio come l’alloro sempreverde avrebbe portato benessere a Firenze e avrebbe continuato la sua dinastia con ancor piú vigore, nonostante la mutilazione del suo albero genealogico. Con le nuove foglie, l’alloro simboleggia dunque il rinnovamento, la continuità e l’immortalità dei Medici, ma il rapace che si avventa sui germogli allude all’azione di contrasto in cui la famiglia rivale è ormai impegnata da molto tempo.
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Dossier sa anche attraverso l’allestimento di spezierie e farmacie gestite da figure specializzate, che utilizzano medicamenti conservati all’interno di appositi contenitori, solitamente orcioli, rivestiti in molti casi dello stesso smalto e degli stessi decori della maiolica arcaica. Montelupo ha una parte attiva in questa trasformazione, come dimostrano i primi vasi da farmacia realizzati in verde-bruno destinati alle committenze cittadine.
Nuovi scenari
Negli ultimi decenni del Trecento, un’altra novità interessa il mondo della ceramica: in seguito a un maggiore riconoscimento sociale delle Corporazioni delle Arti e dei mestieri – effetto del Tumulto dei Ciompi del 1378, uno dei primi esempi di sollevazione economico-politica dei salariati di varie manifatture – a Firenze cambia il rapporto vasaicommittenti e nasce una domanda di ceramica proveniente dalle famiglie aristocratiche, dalle istituzioni pubbliche e religiose che si rivolgono sempre piú ai vasai del Contado, ormai specializzati in questa lavorazione. Si crea cosí una grande opportunità di crescita sia tecnologica che economica, che va di pari passo con l’ascesa fiorentina sui mercati stranieri. Scrollatasi di dosso l’immagine di città medievale, Firenze può assumere con crescente vigore il ruolo di protagonista nel quadro economico e culturale italiano e internazionale, guidato dalla cosiddetta «nobiltà di denaro». Nelle botteghe montelupine la maiolica arcaica fa un salto di qualità dal 1360, quando nella decorazione tradizionale subentra una novità cromatica che vede il verde ramina virare sulle tonalità dell’az-
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La bella Nannina (de’ Medici?) Questi due piatti hanno contorni alla «foglia di prezzemolo», di origine ispanomoresca (1480-1490). Il primo è dominato da un’elegante dedica a «Nanina bell[a]», forse attribuibile alla figlia di Piero de’ Medici detto il Gottoso, nonché sorella maggiore di Lorenzo il Magnifico, Lucrezia detta «Nannina», andata in sposa al letterato umanista Bernardo Rucellai. Il loro matrimonio rimase famoso nelle cronache dell’epoca per la ricchezza di festeggiamenti e di banchetti: celebrato nella Loggia Rucellai, dal puntuale rendiconto di spesa si conosce il lungo elenco di ghiotte pietanze consumate dagli invitati. Il secondo piatto è invece abbellito con un mezzo busto maschile rappresentato in modo realistico sia nell’abbigliamento che nella policromia.
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In basso piatto d’imitazione del lustro con giaggiolo o giglio. Fine del XV sec. Il fiore, florido nei dintorni di Firenze, è il simbolo della città, largamente riprodotto sulle maioliche montelupine.
zurro-turchese: questa produzione, che si affianca a quella tradizionale, si definisce «maiolica arcaica blu». La fresca tonalità si ottiene con l’utilizzo del piombo alcalino, che sullo smalto a base di stagno fa ossidare in azzurro la ramina. Oltre a rappresentare una rottura del dominio verde-bruno, si tratta della prima smaltata prodotta nella Penisola, frutto degli influssi provenienti dalla tradizione islamica della Spagna, rappresentata da oggetti ornati in blu e in lustro dorato, la cui importazione in Toscana è crescente. Ma l’alterazione del verde in blu non è ancora appagante per le smaniose maestranze montelupine e fiorentine. Un ulteriore sviluppo cromatico della maiolica arcaica si ha infatti verso la fine della sua produzione: al solito verde ramina e bruno manganese si aggiunge un terzo pigmento, in alternativa il giallo o l’arancio, rispettivamente a base di antimoniato di piombo o di ossido di ferro, permettendo cosí di ottenere la «maiolica arcaica tricolore». Questa versione è prodotta insieme ad altri generi decorativi che si affermano nel primo Quattrocento, quali la zaffera e il dama-
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schino, su cui da questo momento si sperimentano le creazioni piú avanzate ed elaborate di Montelupo. Sul finire del Trecento avviene una rivoluzione nella ceramica fiorentina: la tradizione verde-bruna della maiolica arcaica viene progressivamente soppiantata da un nuovo e vivace cromatismo blu, ottenuto con il pregiato ossido di cobalto. Nasce cosí la zaffera, che introduce novità iconografiche basate su una gerarchia delle composizioni fra motivi principali e motivi di contorno. Per ottenere il caratteristico effetto cromatico a rilievo,
i ceramisti aggiungono piombo al pigmento blu, provocandone, durante la cottura, un rigonfiamento sullo smalto che lo rende turgido e brillante, dai toni lapislazzuli. La zaffera è un prodotto raffinato e innovativo nella Firenze cresciuta fra Tre e Quattrocento, realizzata sul bistugio, ossia su un vaso foggiato già a superficie bianca lucida – grazie all’aggiunta di calce nell’argilla (idrossido di calcio), elemento che migliora in cottura il fissarsi del rivestimento stannifero – prima ancora della smaltatura sul vaso. Questa «invenzione», che rende l’oggetto piú brillante alla vista, costituisce una risposta al successo della maiolica ispano-moresca in Toscana, da cui la zaffera assorbe e rielabora molti elementi formali e decorativi. La consistente importazione di ceramica iberica spinge infatti la produzione fiorentina a un continuo rin(segue a p. 103)
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In alto una fanciulla dalla lunga chioma e dall’abito ricamato domina questo boccale in «zaffera tricolore». 1420-1440. L’abile pittore ha voluto dare un tono realistico all’immagine, con la donna che volge lo sguardo verso l’ammaliato spettatore.
Femminilità rinascimentale La coppa (a sinistra) accoglie un busto femminile (1490-1510), rappresentato come un vero ritratto (dalla Collezione F.G.B., Firenze), vista l’attenzione del decoratore nel sottolineare il dettagliato copricapo e la lunga collana indossati dalla dama. Il personaggio ricorda figure del Rinascimento riprodotte su stampe e su importanti dipinti, quali la Battista Sforza di Piero della Francesca o la Giovane Dama di Piero del Pollaiolo. Anche il boccale (a destra) con la giovane dalla fluente chioma trattenuta dalla cuffia, all’interno di un grande anello, appare come un’immagine realistica di un’amata.
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui Le due «crespine» – eleganti portafrutta con la vasca modellata – doloreium conectu eatur mostrano scene istoriate a tema religioso, riprodotte da incisioni direhendebis libri tendamusam dell’epoca: nella prima è una Natività ispirata a una stampa del pittore veneziano «il consent, perspiti Samolei», famoso per creare modelli per i ceramisti del ducato di Urbino. conseque nis Nella seconda crespina è invece rappresentato il Giudizio finale, anch’esso tratto da un’incisione di Mario Cartaro, attivo a Roma dal 1560. Per entrambe le maioliche ilmaxim eaquis disegno è stato realizzato con la tecnica dello «spolvero», grazie alla quale i pittori earuntia cones riportavano sulla superficie smaltata le linee del disegno: il modello preparatorio suapienda. carta
Tra sacro e profano
veniva bucherellato, appoggiato sulla superficie e tamponato con colore polverizzato, in modo da trasferirne il contorno dell’immagine. Forme diverse presentano altri esempi di figurato montelupino (1560-1580), questa volta a tema mitologico: il tondo smaltato – datato 1572 – mostra il patrizio romano Muzio Scevola, offertosi per uccidere il re etrusco Porsenna che nel 508 a.C. stava assediando Roma; purtroppo per lui non riuscí nell’intento e, una volta catturato, decise di punire col fuoco, di fronte allo stesso Porsenna, la mano del pugnale che sbagliò il bersaglio.
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novamento qualitativo, sempre piú indirizzato verso repertori figurativi e cromatici originali e autonomi. In alto tondo smaltato raffigurante il patrizio romano Muzio Scevola che, davanti al re etrusco Porsenna, pone sul fuoco la mano con la quale non era stato capace di ucciderlo. 1572. Firenze, Collezione F.G.B. In alto, a destra una sala del Museo della Ceramica di Montelupo nella quale sono esposte le stoviglie che potevano figurare su una tavola rinascimentale. A sinistra «crespina» (portafrutta) decorata con scena di Natività. Trieste, Museo Civico Sartorio. Nella pagina accanto un’altra «crespina», in questo caso raffigurante il Giudizio finale. Brescia, Pinacoteca Civica Tosio Martinengo.
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Echi d’Oriente
La zaffera precede la diffusione di un secondo genere in blu, detto «italo-moresco» o «damaschino», in riferimento al termine con cui gli stessi vasai toscani definivano le maioliche ispirate a quelle dell’Islam, provenienti dalla Siria e dai suoi mercati di Aleppo e Damasco. Verso il 1420 questa produzione soppianta di fatto la zaffera come prodotto di lusso nei servizi fiorentini. Nelle prime «damaschine», dalla rigorosa monocromia azzurra ottenuta col cobalto diluito e velato sullo smalto, sono evidenti le influenze della cultura araba, favorite dalla diffusione delle ceramiche in blu prodotte nel Levante spagnolo. Famose erano le fabbriche di Manises, presso Valencia, oltre a quelle di Malaga e di Maiorca, dal cui nome – che in volgare toscano suona come «Maiolica» – deriva la stessa denominazione generica della ceramica smaltata. Dalle produzioni ispaniche il primo damaschino trae molti segni grafici di gusto, realizzati con un decoro calligrafico e quasi privo di
spazi liberi. Si abbandona il naturalismo fantastico della maiolica arcaica per accogliere spirali e puntinature; foglie di prezzemolo, di edera o di vite stilizzate; lettere in stile gotico-mudéjar; simboli religiosi orientali. Fitti arabeschi che, tratteggiati quasi senza volumetria, si affiancano alle rappresentazioni tipiche del gotico internazionale, fatte di cavalli e falconieri riccamente abbigliati, di stemmi araldici, di giovani in effusioni amorose, di virtú tratte dalle carte da gioco. Successivamente, avvertendo il contrasto con il rigoroso decorativismo islamico, i ceramisti fiorentini si orientano verso un graduale superamento di questo stile, attraverso l’uso sempre piú evidente di ombreggiature a velature sulle figure. Firenze reagirà presto a questo iper-decorativismo ceramico, con un rivolgimento estetico e tecnologico senza confronti. Verso la metà del Quattrocento si sperimenta un arricchimento cromatico che spezza la monocromia del «damaschino», con l’impiego, per le parti secondarie, del verde, del bruno e del giallo, che, fondendosi con l’azzurro, vanno a formare la cosiddetta «tavolozza fredda», ossia un magico effetto colorato in visione notturna.
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Dossier Inizia cosí la crisi del damaschino, dettata dalla tendenza dei ceramisti montelupini – fortemente stimolata dalle conquiste estetiche delle arti principali – a un maggiore realismo e a una ricerca sempre piú equilibrata della policromia. L’ultimo damaschino, detto «policromo», risponde proprio a questa istanza, animato da svariate decorazioni frutto di un originale intreccio fra la tradizione gotico-levantina e le prime conquiste rinascimentali. Significativo, nelle spezierie fiorentine, è il successo ottenuto da una nuova forma introdotta dalla Spagna moresca, l’alberello (o albarello), usata come contenitore per i medicamenti almeno fino al Seicento. Gli alberelli riproducono stemmi e simboli delle casate o degli ospedali che ne hanno commissionato la fornitura per le loro farmacie, impegnate in un’assistenza adeguata alla «civiltà» dell’Umanesimo.
Un capolavoro del Rinascimento Questo bacile, di straordinaria ricchezza cromatica e decorativa, deriva il nome dal particolare pigmento rosso usato nella sua decorazione, la cui composizione rimane ancora oggi un mistero. Il pezzo faceva parte della collezione Gustave de Rothschild di Parigi, per poi appartenere all’antiquario e collezionista francese Alain Moatti. È stato poi acquistato e donato al Museo dal Comune di Montelupo Fiorentino e da sponsor privati, tra cui le piú importanti fabbriche di ceramica del territorio. L’unicità del colore rosso di Montelupo, usato con parsimonia nei ripassi e nelle lumeggiature, sta nel suo effetto laccato e sanguigno, di sapore quasi alchemico, che si ottiene nella terza cottura del vaso e che non trova apprezzabili confronti nella produzione ceramica italiana. Lorenzo di Piero Sartori, uno dei migliori interpreti di questo colore, è l’autore di questa maiolica, che sigla i suoi prodotti con «Lo» sul retro. Esposto al Museo della Ceramica, il bacile è datato 1509 e ornato «a grottesche».
L’età dell’oro (moresco)
Fra il 1430 e il 1440, con l’avvento dell’Umanesimo, si registra l’exploit di Montelupo, da questo momento centro di produzione privilegiato della ceramica fiorentina. Grazie al controllo dei porti di Pisa e Livorno, per Firenze Montelupo si trova al posto giusto e nelle condizioni ideali per il successo, con le botteghe ceramiche indirizzate verso un mercato extra-regionale, grazie agli investimenti commerciali fiorentini. L’Arno è la chiave di volta per raggiungere il mare, e l’intenso lavoro dei «navicellai» (addetti al trasporto e al carico/scarico delle merci) si rivela decisivo nei trasporti fluviali fra la città gigliata e i porti tirrenici. Dal tardo-gotico ci si muove verso nuove espressioni artistiche, che vedono al centro delle attenzioni l’uomo, la sua storia e il suo univer-
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co-siriana. Il mondo arabo è rappresentato sullo smalto con elementi selezionati del suo repertorio, talora rivisitati in un insieme di segni privi del loro significato originario; non mancano le combinazioni con elementi di stile gotico, propri del mondo occidentale. Nell’imitazione del lustro i maestri montelupini impiegano un originale pigmento arancio brillante in grado di virare verso il riflesso metallico e l’apparente doratura, evitando cosí la terza cottura in assenza di ossigeno tipica dei prodotti spagnoli. Alla divertita rielaborazione del lustro spagnolo, di cui i ceramisti valdarnesi sono fra i migliori interpreti, si sostituisce rapidamente un inedito e articolato repertorio di prodotti che risponde alla richiesta di maggiore riconoscibilità e di identità fiorentina. La tendenza è un progressivo distaccamenso: si crea un linguaggio figurativo e si affermano lo spazio, il paesaggio e l’ambientazione; nelle arti maggiori ci si libera sempre piú dai confini decorativi. I ceramisti, come nel resto delle arti minori, maturano progressivamente questa consapevolezza, con riflessi diretti sui loro prodotti a partire dal 1470-1480. Le maioliche di fabbricazione moresca, provenienti soprattutto dalla zona di Valencia, continuano a spandersi sui mercati toscani, con le loro esotiche forme e i loro abbacinanti colori. Questi prodotti pregiati si distinguono sempre per la bicromia blu cobalto e lustro dorato, ottenuto miscelando l’ossido di argento con quello di rame, per poi essere sottoposto a una terza cottura, che dona alla superficie del vaso un effetto metallico. Del lustro e delle altre produzioni islamiche i vasai toscani assimilano anche le suggestioni e le tecniche provenienti dall’Oriente mediterraneo, conosciute attraverso le relazioni intrecciate dai mercanti fiorentini nell’area anatoli-
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to dall’imitazione delle decorazioni spagnole in azzurro e giallo-oro, non piú corrispondenti alla sensibilità del ceramista, per aprirsi a nuove formulazioni infuse dalle conquiste rinascimentali.
Mistero scarlatto
Con l’affermazione del Rinascimento, la maiolica di Montelupo si schiude al trionfo dei colori. Con le ingentilite decorazioni a «floreale», a «fasce», a «penna di pavone» e a «palmetta persiana» – suggerite da altre manifestazioni artistiche o artigiana-
A destra boccale Medici-Salviati, il cui emblema all’interno di un grande anello diamantato, è probabilmente voluto per celebrare il fastoso matrimonio del 1516 fra Giovanni delle Bande Nere e Maria Salviati. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
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Dossier A destra piatto con contorno a palmetta persiana. 1480-1520. Al centro spicca la scacchiera, uno dei motivi montelupini piú diffusi dai commercianti fiorentini.
Qui sopra piatto con lo stemma papale mediceo di Leone X. 1513-1522. A destra piatto tardo figurato, detto «arlecchino», con l’immagine di un ceramista montelupino al lavoro. Prima metà del XVII sec. Collezione privata.
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li, come la pittura e la tessitura – i prodotti usciti dalle sue fornaci trovano un largo consenso in Toscana e al di fuori della regione. La ricchezza e l’equilibrio cromatico raggiunto dagli smalti fiorentini non hanno infatti eguali in questo periodo (1480-1540). I maestri svelano una capacità eclettica e creativa senza precedenti, in grado, grazie alla maturata esperienza, di rielaborare con la massima libertà e padronanza tutti gli spunti provenienti sia dalla tradizione toscana, sia dal bacino mediterraneo. Prende piede anche una pittura figurativa di livello elevato, prima bloccata dal rigore moresco, e adesso sciolta in morbide velature di colore, unita a nuove tipologie di piatti che spiccano sulla tavola per le ricercate tonalità. La qualità tecnica e la raffinatezza della maiolica montelupina si esplicano nella realizzazione di brillanti campiture a rilievo realizzate con l’uso di uno straordinario pigmento rosso, ricavato da un’imprecisata materia prima adoperata in particolare nella turca Izník (l’antica Nicea), importata tramite le relazioni orientali avviate dalle compagnie fiorentine. L’unicità del colore rosso di Montelupo, usato con parsimonia nei ripassi e nelle lumeggiature, sta nel suo effetto laccato e sanguigno, praticamente senza confronti nella produzione italiana. Il pigmento si trasforma in una brillante tonalità con il fuoco, nella terza cottura del vaso. Lorenzo di Piero Sartori – che sigla i suoi prodotti con «Lo» – è certamente uno dei migliori interpreti di questo colore, autore del capolavoro chiamato appunto «Rosso di Montelupo», datato 1509 e ornato «a grottesche», motivo in voga all’inizio del marzo
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La mostra
Racconti di ceramica Tutto iniziò col Verde ramina e il Bruno manganese, poi venne il Blu cobalto, cui si aggiunse il Giallo dell’oro moresco, fino al ‘misterioso’ Rosso di Montelupo. Per farne di tutti i colori! Diverse soluzioni di colori per contraddistinguere diversi momenti storici: con l’evoluzione cromatica – dal verdebruno tardo-medievale al blu-azzurro dell’Umanesimo, dal giallo-oro del pieno Quattrocento all’impareggiabile «rosso di Montelupo» del Rinascimento, per arrivare al trionfo della policromia – è infatti possibile seguire le principali tappe della maiolica montelupina. Una summa di colori che si consolida in una tradizione unica, che trova pieno vigore fra Quattro e Cinquecento e che offre originali spunti interpretativi fino al Seicento, Cinquecento, ispirato agli affreschi di età romana appena scoperti nel sottosuolo della città papalina. Nei primi decenni del Cinquecento, al culmine della loro attività, i Montelupini concepiscono prodotti ampiamente distribuiti e apprezzati sui mercati del Mediterraneo e del Nord Europa (specialmente Inghilterra e Olanda), caratterizzati dal realismo pittorico e da una efficace cromaticità. Gli stemmi e i simboli sono un elemento significativo nella decorazione di questa fase, in quanto contrassegnano pezzi di proprietà nobiliare o di istituti civili e religiosi cittadini, oppure celebrano importanti eventi storici. Ne è un esempio il boccale Medici-Salviati del Museo Nazionale del Bargello, il cui emblema compreso all’interno di un
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in una Toscana ormai tormentata dalla crisi economica. Il colore diventa una nuova chiave di lettura della ceramica, rappresentata da una selezione di opere esposte al Palazzo Podestarile – costruita con importanti prestiti da collezioni pubbliche nazionali e private – integrata da un percorso di approfondimento nel vicino Museo della Ceramica. Anche qui è approntato un itinerario tematico «di Tutti i Colori», che, ripercorrendo gli sviluppi storici della cromaticità, propone «racconti di ceramica» connessi ai soggetti dipinti sugli smalti, trasformati in «oggetti parlanti» per rivelare fatti, curiosità e significati sociali ed economici dell’epoca. L’osmosi fra oggetti di «colore» e oggetti di «narrazione» offre una panoramica piú coinvolgente sulle produzioni del passato, giocata sia sul registro comunicativo che emotivo, grazie anche ad alcuni interventi tecnologici. grande anello diamantato, intende probabilmente celebrare il fastoso matrimonio avvenuto nel 1516 fra il condottiero Giovanni delle Bande Nere e Maria Salviati, nipote di papa Leone X, dalla cui unione nascerà Cosimo I, futuro granduca di Toscana. Le nozze sono molto importanti per i Medici, poiché evitano l’estinzione della casata primigenia per assenza di discendenti diretti.
Scene istoriate
All’apice della sua produzione, Montelupo attira anche valenti vasai forestieri in cerca di migliori fortune e che, mettendosi a bottega con ceramisti del posto, introducono novità sugli smalti e sulle decorazioni, come il cosiddetto «istoriato» di genesi faentina. L’inizio
Dove e quando «di Tutti i Colori: racconti di ceramica a Montelupo, dalla “fabbrica” di Firenze all’industria e al design» Montelupo Fiorentino, Palazzo Podestarile e Museo della Ceramica fino al 28 luglio Orario ma-do, 10,00-19,00; lunedí chiuso Info tel. 0571 51352 o 51087; e-mail: info@museomontelupo.it; www.museomontelupo.it Fb: MuseoMontelupo Instagram: montelupo_ceramic dell’istoriato montelupino vede come primo attore, dal 1523, proprio un romagnolo, Girolamo Mengari, alla cui attività appartiene una bella coppa esposta al Museo della Ceramica decorata con il mito di Plutone che rapisce Proserpina, ripreso da una stampa dell’epoca inserita nell’opera Metamorfosi di Ovidio. Scene istoriate compaiono su larghi piatti o su crespine, eleganti portafrutta introdotti sulla tavola alla fine del Quattrocento: le rappresentazioni sono ispirate a temi mitologici o religiosi, tratti da incisioni cinquecentesche che offrono validi modelli ai ceramisti. Si ringrazia tutto lo staff del Museo della Ceramica di Montelupo, in particolare Alessio Ferrari per la selezione delle immagini delle opere. V
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Ospiti illustri, ex voto e un... coccodrillo CARTOLINE • A Curtatone, lungo il corso
del Mincio, Francesco I Gonzaga dispose la costruzione del santuario della Beata Vergine delle Grazie. Favorito anche dalla felice posizione geografica, il luogo divenne meta di intenso pellegrinaggio e si arricchí di numerose e pregevoli opere d’arte
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ell’immaginario collettivo Curtatone, nei pressi di Mantova, è associata alla celebre battaglia avvenuta nel 1848, durante la prima guerra d’indipendenza per il Risorgimento italiano. Ma chi si trovi da queste parti e decida di visitare la città, non può fare a meno di ricordare Curtatone anche per un altro motivo: il santuario della
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Curtatone (Mantova). L’interno del santuario della Beata Vergine delle Grazie, caratterizzato dalla curiosa presenza di un coccodrillo impagliato (vedi foto sopra il titolo), sospeso in corrispondenza della prima volta della navata.
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Beata Vergine delle Grazie. Elevato tra il 1399 e il 1406 per volontà di Francesco I Gonzaga, capitano del popolo di Mantova, come ex voto per la cessazione della peste, rappresenta una testimonianza affascinante di devozione e cultura, unica al mondo. L’aspetto mariano e miracolistico dell’ubicazione del santuario si collega alla posizione strategica su di un rialzo lungo l’ansa del fiume Mincio, che forma il Lago Superiore, sorta di baluardo della fede. Nella scelta del sito, già occupato dalla chiesa di S. Maria di Reverso
SVIZZERA TRENTINOALTO ADIGE
Lago Maggiore
Lago di Como
Varese
PIEMONTE
Posizione strategica
Qui sotto la facciata del santuario, costruito fra il 1399 e il 1406. Il portico venne invece aggiunto fra il XVI e il XVII sec. In basso il Chiostro della Porta.
Lago di Garda
Bergamo Monza Milano
Lumezzane
Cortenuova Brescia
VENETO
Crema Vigevano
Pavia
Voghera
P i a n u r a Pa d a n a
Cremona
Curtatone
Mantova
EMILIA-ROMAGNA
sopravvive soltanto il Chiostro della Porta. Un lungo porticato di cinquantadue occhi fu innalzato nel 1521 a contornare il grande piazzale antistante la facciata. Doveva riparare i pellegrini e quanti venivano nel borgo lacustre per la fiera, che vi si svolgeva almeno dal 1415. Tra i numerosi devoti giunti al santuario suburbano della città dei Gonzaga, figurano anche molti personaggi illustri, tra i quali: il papa Pio II, l’imperatore Carlo V e l’imperatore Filippo II. La parabola dell’edificio sacro e del convento cominciò a offuscarsi nella seconda metà del Settecento e terminò nel 1782, quando l’imperatore d’Austria Giuseppe II – documentata dal 1037 e sin dal 1362 chiamata «Santa Maria delle Grazie» –, anche le vie di comunicazione giocarono un ruolo di grande rilevanza. Il vicino approdo fluviale favoriva il pellegrinaggio e il trasporto delle merci via fiume, mentre il trivio di strade dirette a Mantova, Brescia e Cremona garantiva i collegamenti via terra. Nel giro di pochi decenni la navata della chiesa tre-quattrocentesca fu arricchita da cappelle gentilizie, mentre il complesso conventuale nel corso dei secoli giunse ad avere fino a quattro chiostri, di cui oggi
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CALEIDO SCOPIO L’ultima dimora di un grande umanista Un mausoleo imponente, collocato nella cappella di S. Bonaventura, di patronato della famiglia Castiglioni, cattura l’attenzione dei visitatori. Costituito dal sarcofago, sormontato da una piramide a gradoni, con evidenti riferimenti raffaelleschi e culminante con la statua del Risorto, che allude alla statuaria classica, ospita le spoglie dell’illustre umanista Baldassarre Castiglione (1478-1529), autore del Cortegiano (pubblicato per la prima volta nel 1528). In procinto di partire per una spedizione militare, il letterato dispose nel testamento di voler essere sepolto qui, accanto alla moglie Ippolita Torelli. L’epitaffio fu affidato a Pietro Bembo. A realizzare il monumento sepolcrale, punto focale dello spazio sacro, e la cappella fu Giulio Romano. Quest’ultima, affrescata dalle pareti fino alla volta, ha come parallelo la camera dei Venti a Palazzo Te.
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Martirio di san Sebastiano, pala d’altare di Francesco Bonsignori, custodita nella Cappella di S. Sebastiano (già Zibramonti). 1515. negli stucchi, che decorano la volta della Cappella Strozzi. La copertura a crociera appare divisa da due arconate in tre campate distinte, di forma quadrata, mentre girali floreali decorano la volta. Varcata la soglia d’accesso, l’occhio si sofferma però sul singolare impalcato ligneo ai lati della navata. Una misteriosa architettura decorata da un labirinto di ex voto: cuori, mani, volti, seni, bubboni in cera, realizzati a stampo e disposti come ornamentazione geometrica. Databile al secondo decennio del Cinquecento, la struttura, iniziata da frate Francesco da Acquanegra, si articola su due ordini di nicchie (per un totale di settantatré vani), che accolgono statue polimateriche a grandezza naturale, raffiguranti i miracolati dalla Madonna e i visitatori illustri. Alcune delle statue sono state smontate negli anni Trenta del Novecento per recuperarne le armature. Conservate al Museo Diocesano di Mantova, esse costituiscono il corpus piú importante di armature gotiche italiane del Quattrocento esistente al mondo. A sinistra Ritratto di Baldassarre Castiglione, olio su tela di Raffaello. 1514 circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto il mausoleo che ospita le spoglie di Baldassarre Castiglione e di sua moglie Ippolita Torelli, opera di Giulio Romano. 1529.
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decretò la soppressione del monastero occupato dai Minori Osservanti. Se il solido e tetragono esterno della fabbrica stupisce per i tagli svelti delle finestre, gli affusolati pinnacoli a coronamento dei contrafforti e il ciclo di affreschi nelle lunette del porticato – che racconta le vicende del manufatto e le storie di miracoli e miracolati –, l’interno lascia a dir poco stupefatti per il curiosissimo aspetto, frutto di numerose sovrapposizioni. La struttura principale ad aula unica (lunga 45 m e larga 15) ha carattere gotico lombardo, con abbellimenti rinascimentali nell’abside e in alcune cappelle e aggiunte tardo-manieriste
Come una wunderkammer Altro elemento di curiosità e d’interesse è il coccodrillo imbalsamato che, appeso alle volte del tempio, si ritiene il piú antico esemplare di rettile presente all’interno di una chiesa. L’animale, inoltre, è l’unica testimonianza sopravvissuta delle tante, tra cui barche e bandiere, un tempo appese alle volte o all’impalcato ligneo, e ha certamente come riferimento le Wunderkammer rinascimentali. Una leggenda vuole che il coccodrillo, fuggito dal giardino zoologico gonzaghesco di Marmirolo e diventato il terrore del Lago
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CALEIDO SCOPIO
Lo scaffale Salvo Micciché, Stefania Fornaro Scicli Storia, cultura e religione (secc. V-XVI)
prefazione di Giuseppe Pitrolo,
Carocci Editore, Roma, 402 pp.
39,00 euro ISBN 978-88-430-9282-6 www.carocci.it
Superiore, sia stato ucciso e trasportato all’interno del luogo di culto. In realtà, la sua collocazione nel santuario ha un proprio significato anche religioso. In epoca medievale o rinascimentale numerosi esemplari imbalsamati venivano infatti collocati all’interno dei templi, specie in santuari mariani, meglio se retti da Francescani (l’Ordine probabilmente piú legato all’alchimia), dando sempre luogo a tradizioni che vedevano protagonista un eroe intervenuto contro il mostro (drago, coccodrillo…) invocando la Madonna. Chiara Parente
Particolare dell’impalcato ligneo del santuario, che accoglie ex voto anatomici in cera (mani, occhi, seni) in segno di guarigioni miracolose, e statue polimateriche (legno, stoffa e cartapesta) di pellegrini umili o famosi, imploranti grazie o testimoni di grazie ricevute.
Da leggere Paolo Bertelli, Il santuario della Beata Vergine delle Grazie in Curtatone, in Curtatone. I segni della storia, Editoriale Sometti, Mantova 2014; pp. 53-68 Paolo Bertelli, La Vergine e il drago. Lo strano caso dei coccodrilli nei santuari mariani, Universitas Studiorum, Mantova 2018
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Non è facile ricostruire la storia medievale di Scicli, cittadina dei Monti Iblei che fu tra i centri piú importanti della contea di Modica. Una difficoltà di cui erano consapevoli gli autori del volume, che l’hanno superata con un’attenta e meticolosa ricognizione delle fonti letterarie e archivistiche a oggi disponibili, integrata, soprattutto per le fasi piú antiche, dai dati offerti dall’archeologia. Ne è scaturita una trattazione corposa, che riesce in effetti a offrire un quadro articolato e fluido, ripercorrendo i circa mille anni nel corso dei quali Scicli fu uno degli insediamenti cardine di questo lembo di Sicilia. Fra le questioni non del tutto chiarite vi è l’origine del toponimo, variamente – e spesso fantasiosamente – interpretato e al quale si lega, invece, uno dei punti fermi posti dal libro, vale a dire l’esistenza di una zecca. Che la cittadina ne fosse sede viene ormai
convincentemente negato da Micciché e Fornaro, supportati in questo dallo specifico contributo di Stefania Santangelo, che pone fine a una vulgata certo suggestiva ma rivelatasi priva di sufficiente fondamento a una verifica piú attenta e approfondita. Molti temi sono stati sviluppati attraverso l’attività di vari Ordini religiosi (primi fra tutti Domenicani e Francescani), che hanno permesso di leggere in filigrana passaggi decisivi nella storia di Scicli, né mancano approfondimenti su aspetti particolari, come la presenza di una comunità ebraica o le nobili imprese di Pietro di Lorenzo, detto Busacca, ricordato per essere stato un grande benefattore di Scicli alla fine del Medioevo. Stefano Mammini marzo
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CALEIDO SCOPIO
Maestri a confronto MUSICA • Magistralmente diretto da Antoine
Guerber, l’ensemble Diabolus in Musica rilegge le partiture di due fra i piú brillanti ingegni musicali della scuola polifonica fiamminga del XV secolo: Johannes Ockeghem e Pierre de La Rue
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ggetto della proposta del gruppo Diabolus in Musica sono Johannes Ockeghem e Pierre de La Rue, rappresentanti della florida scuola polifonica fiamminga quattrocentesca. Entrambi si sono distinti da molti connazionali per aver svolto gran parte della propria attività nelle Fiandre, preferendo ingaggi nelle corti nordeuropee piuttosto che seguire le orme della stragrande maggioranza dei colleghi che, dal Nord, venivano impiegati
nelle prestigiose cappelle di corte ed ecclesiastiche italiane. Ma un altro elemento accomuna questi due grandi musicisti, ossia il fatto di aver messo in musica, polifonicamente, due tra i primi esempi di messa da requiem del XV secolo. Un ciclo di brani, quelli della missa
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defunctorum, che a questo stadio della sua evoluzione non si presenta ancora nella sua successione canonica, che ritroveremo invece nel secolo successivo.
Quasi un’opera incompiuta Comparando le due composizioni, piú arcaica appare l’impalcatura polifonica nell’opera di Ockeghem, il cui tracciato contrappuntistico lascerebbe pensare che si tratti quasi di un’opera incompiuta nella
sua elaborazione; infatti, a dispetto della sua scrittura a quattro voci, nella maggior parte dei brani che la compongono, prevalgono molto spesso i passaggi a due o tre voci, relegando la presenza simultanea delle quattro voci a momenti sporadici. Si nota anche
Requiem. Johannes Ockeghem, Pierre de La Rue Diabolus in Musica direttore Antoine Guerber Bayard Musique (308 475.2) 1 CD www.bayardmusique.com una predilezione per l’utilizzo delle parti basse che connota in modo particolare il suo linguaggio. Con de la Rue, al contrario, le quattro voci precedono simultaneamente, sia sfruttando un linguaggio polifonico-imitativo secondo i rigorosi canoni della scuola contrappuntistica fiamminga, sia sfruttando un andamento accordale in cui emergono momenti di sonorità piuttosto affascinanti e che fanno presagire quello che sarà il linguaggio vocale del Rinascimento. L’esecuzione del gruppo maschile francese Diabolus in Musica, che si avvale della geniale direzione di Antoine Guerber, rivela tutta la sua eccellenza sia nei passaggi solistici – piuttosto diffusi – che nell’uso del coro pieno. Guerber riesce a infondere il giusto pathos all’interpretazione, assecondando il particolare contesto liturgico per cui queste musiche furono composte. Franco Bruni marzo
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