Medioevo n. 270 Luglio 2019

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SOMMARIO

Luglio 2019 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE Ambasciator non porta pena

I rischi del mestiere

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RESTAURI Le molte trame di una lunga storia

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APPUNTAMENTI Sul lago dei fuggitivi 14 Cosí l’Aquitania tornò francese 16 L’Agenda del Mese 24

STORIE

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BATTAGLIE

ICONOGRAFIA

Lo strazio e lo scempio

Vestiti di pietra

Colle di Val d’Elsa

Ciclo dei Mesi

testi di Giacomo Baldini, Curzio Bastianoni e Marilena Caciorgna 34

COSTUME E SOCIETÀ MEDIEVALISMO/5 Le crociate dopo le crociate di Riccardo Facchini e Davide Iacono

50

di Elisabetta Gnignera

60

LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/8 Marche Spiritualità e bellezza di Furio Cappelli

72

CALEIDOSCOPIO MUSICA Note di viaggio

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LIBRI Lo Scaffale

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Dossier

MARCO POLO La vera storia del mercante mediatore 50

testi di Elisabeth Crouzet-Pavan, Lorenzo Pubblici e Alvaro Barbieri

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17/06/19 18:15

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 270 - luglio 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Giacomo Baldini è curatore scientifico del Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» e del Parco Archeologico di Dometaia di Colle di Val d’Elsa. Alvaro Barbieri è professore associato confermato di filologia romanza all’Università degli Studi di Padova. Curzio Bastianoni è storico e presidente del Comitato Scientifico per le celebrazioni del 750° anniversario della battaglia di Colle di Val d’Elsa. Franco Bruni è musicologo. Marilena Caciorgna è docente di iconografia e tradizione classica dell’Università di Siena. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Elisabeth Crouzet-Pavan è professore di storia medievale all’Université Paris IV-Sorbonne. Riccardo Facchini è dottore di ricerca in storia della civiltà europea. Elisabetta Gnignera è studiosa di storia del costume medievale e rinascimentale italiano. Davide Iacono è storico del Medioevo. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Lorenzo Pubblici è Full Professor di storia e antropologia presso la Santa Reparata International School of Art di Firenze. Stefania Romani è giornalista. Tiziano Zaccaria è giornalista. Illustrazioni e immagini: Cortesia degli autori: copertina (e p. 54) e pp. 16, 38/39, 40, 43, 60-61, 62 (basso), 63, 64/65, 66, 70 (basso); Mimmo Frassineti: pp. 36, 45 (alto); Mario Maccantelli, Colle di Val d’Elsa: pp. 46/47 – Doc. red.: pp. 5, 57, 59, 62 (alto), 65, 67, 70 (sinistra), 71, 86-87, 88, 92-95, 96, 97 (basso), 98-99, 102, 104-109 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 6-8 – Cortesia Ente Palio delle Barche, Passignano sul Trasimeno: pp. 14-15 – Mondadori Portfolio: Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 35; Werner Forman Archive/Museo Correr, Venezia/Heritage Images: p. 85; AKG Images: pp. 90/91, 91, 110/111 – Cortesia Opera Laboratori Fiorentini-Civita Group: Bruno Bruchi, Siena: pp. 36/37, 38, 41, 44 (alto), 45 (basso), 46 – da: Savia non fui. Dante e Sapìa tra letteratura e arte, Livorno 2018: pp. 42/43 – da: Il Villani illustrato, Firenze 2005: p. 44 (basso) – DeA Picture Library: pp. 55, 58; G. Dagli Orti: pp. 50-53, 110; Icas94: pp. 56/57; A. De Gregorio: pp. 68, 69; M. Seemuller: pp. 68/69 – Cortesia Stefano Suozzo: pp. 72/73, 74, 75 (alto), 76-83 – Shutterstock: pp. 89 – Patrizia Ferrandes: cartine e rialaborazioni grafiche alle pp. 37, 74, 100/101 – Cippigraphix: cartina a p. 97.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina particolare di un manifesto di propaganda della Legione dei volontari francesi che fa appello a una «grande crociata» contro il bolscevismo. 1939-1945.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero 9 agosto 1062

La battaglia del fiume Nisa

storie

Alle origini della lira

iconografia

Immagini del peccato


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

I rischi del mestiere

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el 1476 giunse a Mosca un’ambasciata da parte di Akhmat (o Ahmed), khan dell’Orda d’Oro, diretta a Ivan III, granduca di Mosca e di tutta la Russia. Accompagnato da un drappello di guerrieri tatari, l’ambasciatore recava una lettera e un ritratto di Akhmat, dinnanzi al quale Ivan si sarebbe dovuto inchinare in segno di sottomissione. Inutile dire che l’ambasciatore fu arrestato, messo a morte e con lui tutto il suo seguito, eccetto un fortunato a cui fu intimato di tornare dal suo khan, per raccontare che cosa ne era stato del suo ritratto, stracciato e calpestato, e della sua ambasciata: «Digli che la stessa cosa accadrà a lui se non mi lascia in pace!», riporta l’autore della Cronaca di Kazan. L’episodio lascia facilmente intuire il significato dell’espressione «Ambasciator non porta pena», ancora oggi molto utilizzata, anche scherzosamente, per le piccole vicende della nostra quotidianità e che significa che chi porta messaggi – perlopiú sgraditi – per conto di terzi, non essendone responsabile, non può essere punito. L’immunità degli ambasciatori non è certo invenzione del Medioevo, cosí come non lo è l’uso di infrangerla. Si trova traccia di ambasciatori e della loro immunità già nell’Iliade: Achille rispetta i messi di Agamennone, inviati a chiedere la schiava Briseide, dichiarando che «in voi nessuna colpa è con me; il

Arrivo degli ambasciatori inglesi presso il re di Bretagna, olio su tela di Vittore Carpaccio facente parte del ciclo delle Storie di Sant’Orsola. 1495 circa. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

solo Atride è colpevole». Tuttavia, sono numerosi i casi in cui gli ambasciatori venivano imprigionati, torturati e persino uccisi a causa dei messaggi comunicati. Talvolta, però, gli stessi ambasciatori potevano essere condannati a ragione! Come quando, stando alle parole del cronista Giovanni Villani, re Manfredi inviò ambasciatori al piccolo Corradino, con lo scopo di sbarazzarsene. Ma la madre del fanciullo, intuito il pericolo, presentò ai legati di Manfredi il figlioletto di un nobile della corte, al quale vennero offerti dolci confetti che, in poche ore lo uccisero. Gli ambasciatori erano però già ripartiti, peraltro convinti di aver portato a termine la propria missione… Nel 1361, invece, giunsero a Milano due ambasciatori pontifici: Bernabò Visconti li volle incontrare su un ponte sul Lambro. Dopo aver letto le pergamene e aver guardato il fiume, sembra che abbia esclamato: «Scegliete: o mangiare o bere». I due preti non volevano certo saltare nel fiume e cosí, «dovettero proprio, contorcendosi a ogni modo, ingoiarsi le pergamene fino ai suggelli di piombo e al cordoncino di seta che ve li teneva uniti».


ANTE PRIMA

Le molte trame di una lunga storia RESTAURI • La città di

Parma sta recuperando uno dei suoi edifici simbolo: la magnifica chiesa di S. Francesco del Prato. L’intervento non cancellerà, tuttavia, le testimonianze del singolare riuso del monumento, trasformato in carcere all’indomani delle soppressioni napoleoniche Sulle due pagine, in basso Parma. Immagini del cantiere di restauro che sta interessando la chiesa gotica di S. Francesco del Prato.

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razie a un imponente intervento di restauro, la chiesa gotica di S. Francesco del Prato sta tornando ad avere un ruolo centrale nella vita collettiva di Parma, Capitale italiana della cultura nel 2020. L’edificio religioso, che si trova a pochi passi dal Duomo e dal Battistero di

Nella pagina accanto, in alto e qui sotto Parma. La facciata di S. Francesco del Prato, prima e dopo l’intervento di restauro. La costruzione della chiesa fu avviata alla metà del XIII sec. e, all’inizio dell’Ottocento, l’edificio, sconsacrato venne parzialmente ristrutturato per essere adibito a carcere.

Bendetto Antelami, venne eretto dai Francescani, i quali arrivarono in città nel secondo decennio del XIII secolo, stabilendosi in un’area prativa, alla quale si deve il nome del complesso. Attorno al 1240 iniziò la costruzione di un luogo di culto con dimensioni simili a quelle della cattedrale, ma in linea con l’ideale francescano di semplicità e povertà, codificato da san Bonaventura negli Statuti del Capitolo Generale di Narbona del 1260, che bandirono ricchezza e ostentazione. Nel corso del Quattrocento, artisti quali Bartolino de’ Grossi e Iacopo Loschi affrescarono le pareti del S. Francesco, che, in età napoleonica, fu adibito a carcere, nelle cui celle, nel 1955, venne rinchiuso, fra gli altri, anche lo scrittore Giovannino Guareschi (giudicato colpevole nel processo per diffamazione ai danni di Alcide De Gasperi e condannato a un anno di reclusione).

Manomissioni pesanti L’operazione di recupero della chiesa a tre navate, con rosone tondo al centro della facciata, è stata preceduta da rilievi architettonici e sondaggi geologici e materici. Come racconta l’architetto Giorgio Della Longa, che coordina l’intero progetto, «gli spazi della struttura

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ANTE PRIMA francescana sono stati modificati nei secoli, in particolare all’inizio dell’Ottocento, quando è stata trasformata in casa penale: le due navate laterali furono soppalcate, per ottenere le celle dei detenuti, mentre la navata centrale, a tutta altezza, serviva per controllare i prigionieri, secondo un modello che si svilupperà nel corso del secolo nelle carceri circolari. Nell’ambito di queste manomissioni, che portarono alla rovina di pavimenti e tombe, furono aperte e chiuse sia porte che finestre». Nello stesso periodo le truppe francesi rialzarono inoltre i muri di cinta dell’impianto religioso, convertendoli in camminamenti. Della Longa spiega che «quando siamo arrivati, ci siamo trovati davanti a diverse trasformazioni della chiesa gotica, in parte ristrutturata nel Quattrocento per motivi religiosi, poi riconvertita in carcere, quindi fatta oggetto di scavi archeologici condotti nella zona del pavimento negli anni Settanta del Novecento».

Il restauro come testimonianza Il progetto di recupero, che punta a mantenere in sicurezza la fabbrica, tutelandola anche da eventuali terremoti, non intende cancellare gli interventi succedutisi nei secoli. Proprio in quest’ottica, il restauro della facciata intende dare una visione d’insieme che sia in grado di rimandare al periodo gotico, ma anche di testimoniare le modifiche apportate in epoca napoleonica, con una filigrana che coprirà i fori praticati nell’Ottocento. Già dalle prossime settimane, con il completamento dei lavori sul tetto e sui soffitti, è in calendario l’accesso alle impalcature che da 16 m di altezza permettono di vedere da vicino il rosone, mentre in autunno le stesse impalcature faranno da quinta scenica alla prima del Festival verdiano. L’architetto puntualizza quindi che «una volta terminata la

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In questa pagina altre immagini del cantiere di restauro allestito all’interno della chiesa parmense di S. Francesco del Prato. Al termine dei lavori, l’edificio tornerà a essere luogo di culto, ma verrà anche utilizzato per iniziative culturali.

pulitura, la navata centrale sarà molto vicina a quella della chiesa francescana gotica, mentre nelle navate laterali saranno leggibili le manomissioni legate al carcere». In una fase ulteriore saranno finiti i pavimenti, con un piano di calpestio in cocciopesto, ovvero cotto frantumato e impastato, che vuole riproporre i materiali e il livello della chiesa secentesca. S. Francesco tornerà cosí a essere luogo di preghiera, senza però cancellare la sua storia

carceraria: la diocesi, che ha avuto il complesso in concessione dal demanio, oltre a restituirlo all’uso liturgico, intende utilizzarlo per manifestazioni culturali, musicali, accademiche, a sottolinearne la nuova centralità nella vita comunitaria di Parma. Per informazioni sui restauri, sulle iniziative per finanziarli e sulle visite guidate nel cantiere, si può consultare il sito web del progetto: www.sanfrancescodelprato.it Stefania Romani luglio

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ANTE PRIMA

Quando la Guerra diventa una festa

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iunta alla sua X edizione, Sarzana Senza Tempo, in programma il 13 e 14 luglio, ripropone, per il terzo anno consecutivo, la «Guerra di Serrezzana», uno scontro importante che si combatté sul confine ligure-toscano tra il marzo e il giugno del 1487 e che sancí gli attuali limiti territoriali regionali. Da una parte le forze del Magnifico e dall’altra quelle dei Fieschi di Genova. La rievocazione in questo caso viene sviluppata e prodotta come uno spettacolo dal vivo sotto la regia di Simone Del Greco, attivo nel mondo rievocativo e archeologico dal 2003 e uno dei registi della rievocazione romana piú grande d’Europa, Les Grands Jeux Romains di Nîmes organizzati da Culturespaces diretti da Christophe Beth e dai professori dell’Università di Nîmes Eric Dars e Eric Teyssier. Sarzana Senza Tempo – organizzata dall’Associazione omonima e da Mitra srls – è uno spettacolo dal vivo filologico e volutamente creato per creare stupore. Ma, allo stesso tempo, è didattica per grandi e piccini, grazie alla collaborazione con i musei spezzini del Sigillo e del Castello di San Giorgio. Dove archeologi e operatori del settore offrono la possibilità alle famiglie di poter apprendere le

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Immagini di repertorio di Sarzana Senza Tempo. La manifestazione, giunta alla sua X edizione, è in programma quest’anno nei giorni 13 e 14 luglio e ripropone lo spettacolo La Guerra di Serrezzana, ispirato all’omonimo poema musicato dal compositore fiammingo Heinrich Isaac.

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tecniche di una vita semplice ormai dimenticata... dall’accensione del fuoco con pietra focaia, alla realizzazione di formelle in argilla, alla pittura miniata. La Guerra di Serrezzana è anche un poema scritto sullo

scadere del XV secolo da mano ignota – forse quella dell’araldo di Firenze Francesco di Lorenzo Filareti –, che venne poi musicato dal compositore fiammingo Heinrich Isaac, detto Arrigo il Tedesco, proprio presso la corte del Magnifico, di cui il musicista volle esaltare la vittoria con il brano A la Battaglia. E ora è rievocazione per la valorizzazione del patrimonio monumentale, le splendide fortezze sarzanesi costruite dai Medici a protezione del confine. Architetture che hanno dato a Sarzana una connotazione medicea, per cui è lecito parlarne come della «Firenze della Lunigiana».




ANTE PRIMA

Sul lago dei fuggitivi APPUNTAMENTI • Nell’anno di grazia 1495 la potente famiglia degli Oddi dovette

abbandonare in fretta e furia il castello di Passignano sul Trasimeno. Un’uscita di scena precipitosa, da cui nasce la rievocazione che ogni anno anima il paese umbro

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gni anno a Passignano sul Trasimeno, borgo umbro situato sulle rive del lago omonimo, nell’ultima domenica di luglio va in scena il Palio delle Barche. Si tratta di una competizione che rievoca l’ultimo atto delle ostilità tra le nobili famiglie perugine dei Baglioni e degli Oddi, avvenuto nel 1495. Secondo le cronache dell’epoca, la famiglia Oddi, con le sue milizie, dovette fuggire dal castello di Passignano, dove risiedeva, inseguita dalle truppe dei Baglioni e dei Della Corgna. I fuggitivi si allontanarono barche in spalla: da qui lo spunto per il Palio moderno, nel quale si sfidano i quattro rioni del paese: Centro Storico, Centro Nuovo, Oliveto e San Donato. La competizione, quest’anno in programma domenica 28 luglio, prevede tre fasi. Nella prima, le barche a remi dei rioni si sfidano in acqua fino ad arrivare al pontile del paese. Da qui inizia una corsa podistica, barche

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In questa pagina due momenti delle competizioni che si svolgono a Passignano sul Trasimeno in occasione del tradizionale Palio delle Barche.

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Ancora due immagini del Palio delle Barche di Passignano sul Trasimeno, rievocazione storica che si ispira a una vicenda accaduta alla fine del Quattrocento e di cui fu protagonista la nobile famiglia degli Oddi.

in spalla, quasi tutta nel centro storico, con un tragitto tortuoso fra viuzze ripide e scalinate. Tornati al molo, i concorrenti riprendono la via del lago per concludere la gara. Nella settimana precedente, i rioni del paese allestiscono taverne in stile medievale, dove si possono degustare piatti tipici del Trasimeno e ci si può intrattenere con spettacoli e rappresentazioni storiche in costume. Il sabato sera i rappresentanti dei rioni si incontrano nella piazza principale per il lancio della sfida, poi, in abiti storici, danno vita a una suggestiva fiaccolata per le vie del castello. La domenica pomeriggio, dopo un

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corteo storico per le vie del paese, è il momento del Palio. A margine della rievocazione medievale, il venerdi sera si svolge la Corsa delle Brocche, divagazione ottocentesca per ricordare le donne che dimostravano doti di equilibrio portando in testa una brocca colma d’acqua.

I quattro rioni Contrassegnato dai colori rossoblu, il rione San Donato ha come pesce simbolo il Persico. Il Centro Storico, che rappresenta il nucleo del paese col suo lungolago, ha colori bianco-rossi e come simbolo la Carpa. Il rione Centro Due, esteso nei nuovi insediamenti

urbani realizzati nel dopoguerra, ha come simbolo il Luccio ed è caratterizzato dai colori bianco-blu. Infine il rione Oliveto, il piú a ovest di Passignano, che ha per fulcro la chiesa della Madonna dell’Oliveto, è contraddistito dai colori biancoverde e rappresentato dal Capitone. Il nucleo piú antico di Passignano sul Trasimeno mantiene intatto l’aspetto di borgo fortificato, racchiuso dentro la cinta delle mura medievali. Si conservano anche le porte di accesso e le torri, come quella di Ponente, che custodisce lo stemma del Comune. Nel punto piú alto del paese sorge la Rocca, edificata in età medievale, oggi sede del Museo delle Barche, nel quale sono esposte imbarcazioni storiche del lago Trasimeno, del lago di Piediluco e del Padule di Fucecchio, la piú estesa palude interna italiana. Due gli edifici di particolare interesse storico: la quattrocentesca chiesa di S. Rocco e il cinquecentesco santuario della Madonna dell’Oliveto, che conserva pitture e sculture di pregio, come la Madonna col Bambino in pietra arenaria di Ascanio da Cortona. Tiziano Zaccaria

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ANTE PRIMA

Cosí l’Aquitania tornò francese APPUNTAMENTI •

Castillon-la-Bataille fu teatro di uno degli ultimi scontri della Guerra dei Cent’anni, la cui rievocazione anima l’estate della cittadina transalpina

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elle campagne attorno a Castillon-la-Bataille, piccolo borgo francese nella regione della Nuova Aquitania, il 17 luglio 1453 si svolse la battaglia che mise fine alla Guerra dei Cent’anni fra Francia e Inghilterra, durante i regni di Enrico VI e Carlo VII. Comandato da Jean Bureau, l’esercito francese sconfisse le truppe anglosassoni guidate da John Talbot, riconquistando l’Aquitania, che era appartenuta

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alla corona inglese per tre secoli. Ogni anno, in estate, la battaglia di Castillon viene messa in scena piú volte sui luoghi in cui si svolse, attraverso una spettacolare rievocazione alla quale partecipano oltre 500 figuranti con cavalli e cannoni. Quest’anno la rievocazione è in programma nelle giornate del 19, 20, 25, 26 e 27 luglio e del 2, 3, 8, 9, 10, 15, 16, 17, 2 e 24 agosto.

Gli Inglesi aprono le ostilità Nel luglio 1453 le truppe francesi si accamparono nei pressi del centro fortificato di Castillon con 10 000 uomini circa e 300 pezzi d’artiglieria, ai quali si aggiunse un’armata bretone di 1000 unità. L’esercito inglese mosse per primo: piombò su una debole guarnigione francese posta in località Saint-Florent, costringedola a indietreggiare. I Francesi diedero la sensazione di

essere in fuga: delle nubi di polvere si alzarono nella valle sopra il loro campo trincerato, ma in realtà si trattava del ritiro di elementi inutili al combattimento. Ingannato dalle apparenze, Talbot si precipitò con le sue truppe verso il nemico. Intanto, però, i Francesi avevano schierato la loro artiglieria. E quando 300 cannoni iniziarono a sparare a raffica sugli assalitori, provocarono una carneficina. Subito dopo i Francesi si gettarono sugli Inglesi allo sbando e, nella mischia, John Talbot fu ucciso da un arciere. Al rumore delle cannonate, anche la cavalleria bretone in riserva a Horable caricò gli Inglesi. Fra i superstiti delle truppe anglosassoni, molti annegarono nel fiume Dordogna tentando di trovarvi una via di di fuga, altri si rifugiarono a Castillon-la-Bataille. Il giorno successivo, piazzando qualche pezzo d’artiglieria sotto le mura, i Francesi fecero capitolare il centro fortificato. In seguito la salma di Talbot fu trasportata in Inghilterra e sepolta a Witchurch. Con la scomparsa del comandante, tutte le piazzeforti inglesi si arresero e Bordeaux, capoluogo dell’Aquitania, cedette senza altri spargimenti di sangue. Tiziano Zaccaria luglio

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ANTE PRIMA

A tavola con il duca

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envenuti nell’antico Vicariato di Mondavio, dove per una notte potrete varcare le porte del tempo in un’atmosfera magica. Sarete graditi ospiti del duca Giovanni della Rovere. Musici e giullari allieteranno la serata, mentre ancelle e scalchi vi serviranno pietanze di altri tempi in una notte che resterà a lungo nel vostro cuore». Nel primo momento della Rievocazione Storica «Caccia al Cinghiale», in programma a Mondavio dal 13 al 15 agosto, viene proposto un Banchetto Rinascimentale, ricostruito sulla base delle cronache dell’epoca. Ai gentili ospiti verrà offerta l’opportunità di rivivere da protagonisti il fascino dei banchetti del Rinascimento italiano. L’esperienza del Banchetto Rinascimentale ha inizio con il momento della vestizione, dove gli ospiti verranno spogliati dei loro abiti comuni per indossare le vesti di un nobile cavaliere o di una gentil dama della corte di Giovanni della Rovere. A ognuno verrà assegnata una casata nobiliare dell’epoca, che li accompagnerà durante il corso della serata. Segue il Corteo Storico per le vie del borgo verso il «Chiostro Francescano», luogo chiuso al pubblico in cui si terranno i festeggiamenti. Anticamente era per il signore l’occasione per dimostrare pubblicamente la propria grandezza attraverso l’ostentata ricchezza delle sue tavole, degli abiti, degli spettacoli e il numero dei suoi servitori. La sua tavola era sopraelevata rispetto alle altre e spesso (segue a p. 20)

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ANTE PRIMA

coperta da un baldacchino, simbolo di prestigio. I posti dei commensali venivano assegnati in ordine gerarchico, secondo la vicinanza della persona del signore. Le coppie tra i commensali, un cavaliere e una dama, per tradizione mangiavano dallo stesso piatto e bevevano dalla stessa tazza. Sulla tavola non erano presenti posate, cosí si usavano le mani e, prima di mangiare e dopo di ogni portata, veniva offerta acqua odorifera per detergersi. Grande protagonista del banchetto era la musica e le animazioni, che non dovevano mai mancare, accompagnavano le vivande e servivano per rendere piú gradevole il convivio. L’ambientazione è scrupolosamente ricreata e arricchita con ghirlande, candelabri, stoviglie e altri ornamenti a seguito di uno studio dei dipinti e testi dell’epoca. Attraverso un rituale storico, i gesti e il palato dei nostri ospiti verranno guidati nell’incredibile quantità di pietanze sontuosamente decorate, presentate da dèi ed eroi della mitologia classica. L’atmosfera arricchita da abili scalchi, trincianti, bottiglieri, musici, teatranti e giullari, permette di rivivere in un connubio tra sogno e realtà, l’antico fasto delle corti del Rinascimento italiano. La data della Rievocazione Storica «Caccia al Cinghiale» potrebbe essere soggetta a variazioni, per rimanere aggiornati visitate il sito www.mondavioproloco.it

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AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA L’ARTE DI SALVARE L’ARTE. FRAMMENTI DI STORIA D’ITALIA Palazzo del Quirinale, Palazzina Gregoriana fino al 14 luglio

a cura di Stefano Mammini

investigativa, unitamente a opere restituite al patrimonio artistico nazionale grazie all’azione di diplomazia culturale messa in atto di concerto con il Ministero per i beni e le attività culturali. Si possono ammirare oggetti

Il percorso espositivo allestito nella Galleria Sabauda ruota intorno al nucleo di disegni autografi di Leonardo da Vinci conservati alla Biblioteca Reale, comprendente tredici fogli acquistati dal re Carlo Alberto nel 1839, oltre al celebre Codice sul volo degli uccelli donato da Teodoro Sabachnikoff al re Umberto I nel 1893. Opere, databili all’incirca tra il 1480 e il 1515, in grado di

maestri fiorentini quali Andrea del Verrocchio e Pollaiolo, lombardi come Bramante e Boltraffio, fino a Michelangelo e a Raffaello. Riunendo in mostra il disegno di Michelangelo per la Battaglia di Cascina, quello di Leonardo per la Battaglia di Anghiari e i combattimenti di nudi di Raffaello provenienti da Oxford, si presenta ciò che Benvenuto Cellini definí «la scuola del mondo». In mostra è presente anche il Codice Trivulziano, concesso in prestito dalla Biblioteca Trivulziana del Castello Sforzesco di Milano per la prima volta dopo il 1935. Un’opera capitale, il quaderno sul quale Leonardo annotò i suoi pensieri e le sue riflessioni sul lessico. info tel. 011 5211106; e-mail: mr-to@beniculturali.it FIRENZE

Ospitata nelle sale della Palazzina Gregoriana del Palazzo del Quirinale, l’esposizione è stata realizzata in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, un reparto specializzato dell’Arma dei Carabinieri che venne creato il 3 maggio del 1969 per contrastare i crimini a danno al nostro patrimonio storico-artistico. Sono stati dunque riuniti alcuni dei piú significativi beni culturali recuperati in mezzo secolo di intensa e proficua attività

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trafugati da chiese, musei, aree archeologiche, biblioteche e archivi, e conoscere, nel contempo, la storia del loro recupero; in mostra vi sono anche alcuni beni messi in sicurezza nelle zone dell’Italia centrale colpite dai drammatici eventi sismici del 2016. info http://palazzo.quirinale.it/ TORINO LEONARDO DA VINCI. DISEGNARE IL FUTURO Musei Reali, Sale Palatine della Galleria Sabauda fino al 14 luglio

documentare l’attività di Leonardo dalla giovinezza alla maturità. Alcuni disegni sono in relazione con celebri capolavori del maestro: i nudi per la Battaglia d’Anghiari, i cavalli per i monumenti Sforza e Trivulzio, lo studio per l’angelo della Vergine delle Rocce, noto come Volto di fanciulla. Oltre all’unicum, il celeberrimo Autoritratto di Leonardo, posto in dialogo con rappresentazioni di sé realizzate dagli artisti contemporanei Luigi Ontani, Salvo, Alberto Savinio. Per restituire il senso, l’origine e la peculiarità del lavoro di Leonardo, la genesi dei disegni torinesi è indagata in relazione con analoghe esperienze di altri artisti, attraverso l’esposizione di

VERROCCHIO, IL MAESTRO DI LEONARDO Palazzo Strozzi, con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello fino al 14 luglio

Dedicata a un artista


MOSTRE • Omaggio a Cosimo I. Cento lanzi per il principe Firenze - Gallerie degli Uffizi, Sale di Levante

fino al 29 settembre – info tel. 055 294883; www.uffizi.it

L

e Gallerie degli Uffizi celebrano il cinquecentenario della nascita di Cosimo I (1519-1574), primo granduca di Firenze, dedicandogli tre mostre: «Cento lanzi per il Principe», «Una biografia tessuta. Gli arazzi seicenteschi in onore di Cosimo I» (Palazzo Pitti, sala delle Nicchie e sala Bianca) e «La prima statua per Boboli. Il Villano restaurato» (Palazzo Pitti, sala delle Nicchie). La prima è dedicata alla Guardia tedesca dei Medici («Guardia de’ lanzi» in vernacolo fiorentino), composta dai caratteristici alabardieri in livrea, e si svolge al primo piano degli Uffizi e non per caso: dalle finestre delle sale si può infatti ammirare la Loggia dell’Orcagna su piazza della Signoria, che per essere stata la facciata del quartier generale della Guardia tedesca negli Uffizi è ancora oggi nota come Loggia dei Lanzi (abbreviazione dal tedesco «Lanzknecht», lanzichenecchi). Per quasi duecento anni, fino al 1738, i Lanzi hanno svolto una funzione cruciale nell’ambito della corte medicea. Compito principale della guardia era difendere la persona del sovrano e i suoi piú stretti congiunti, pertanto nelle raffigurazioni degli eventi legati al sovrano, i suoi soldati appaiono quasi sempre facilmente individuabili grazie ai loro costumi sgargianti e alla loro arma iconica: l’alabarda. La mostra percorre la storia di questa milizia sotto vari aspetti – sociale, culturale, militare: divise in quattro sezioni, oltre 90 opere tra armature, armi, vestiti, incisioni, dipinti, documenti e libri ne raccontano l’istituzione e la storia, senza tralasciare l’impatto che essa ebbe sulla vita cittadina. emblematico del Rinascimento e prototipo del genio universale, la mostra riunisce capolavori di Verrocchio, a confronto serrato con opere capitali di precursori, artisti a lui contemporanei e discepoli, come Desiderio da Settignano, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Bartolomeo della Gatta, Lorenzo di Credi e Leonardo da Vinci. Verrocchio sperimentò nella sua bottega tecniche e materiali diversi, dal disegno alla scultura in marmo, dalla pittura alla fusione in bronzo. Egli formò un’intera generazione di maestri, con i quali ha sviluppato e condiviso generosamente il proprio sapere. Nella storia dell’arte solo Giotto, Donatello e Raffaello hanno dato origine a una «scuola» paragonabile a quella di Verrocchio. Tramite il suo insegnamento si formarono artisti che hanno diffuso in tutta Italia, e fuori, il gusto e il linguaggio figurativo fiorentino, come testimoniano opere quali il David in prestito dal Museo Nazionale del Bargello, uno dei simboli

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assoluti dell’arte del Rinascimento e della città di Firenze stessa, e il Putto col delfino, in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio, opera capitale e modello di naturalezza. Alla scultura si affiancano dipinti supremi come la Madonna col Bambino della Gemäldegalerie di Berlino o la Madonna col Bambino e angeli e l’Arcangelo Raffaele e Tobiolo della National Gallery di Londra: capolavori presentati insieme per la prima volta, che attestano lo straordinario talento di Verrocchio nel campo della pittura, in cui diviene punto di riferimento per i suoi celebri allievi. La mostra, inoltre, collega idealmente Palazzo Strozzi col Museo del Bargello: luoghi espositivi distinti, ma complementari, di un percorso articolato in undici sezioni, di cui nove a Palazzo Strozzi e due al Museo del Bargello, dedicate al tema dell’immagine di Cristo, dove sarà esposta l’Incredulità di san Tommaso, capolavoro bronzeo di Verrocchio. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org

TORINO MICHELANGELO. DISEGNI DA CASA BUONARROTI Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli fino al 21 luglio

Con questa mostra, la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, che offre in esposizione permanente negli spazi progettati da Renzo Piano venticinque capolavori appartenuti all’avvocato Giovanni e a sua moglie

Marella, prosegue la propria ricerca sul panorama collezionistico nazionale e internazionale, incontrando in Casa Buonarroti un’altra straordinaria esperienza di raccolta familiare resa disponibile alla fruizione pubblica. Il percorso espositivo propone accostamenti che restituiscono ai visitatori il senso del dialogo tra anatomia e architettura,

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AGENDA DEL MESE essenziale nell’opera di Michelangelo, dando nel contempo modo di scoprire momenti della genesi degli affreschi della volta della Cappella Sistina. In primo piano vi sono gli studi dedicati all’anatomia, potente espressione di un’analisi meticolosa e appassionata del corpo umano. Accanto a essi due fogli preparatori degli affreschi della volta della Cappella Sistina, testimonianze eccezionali dell’ideazione dell’Adamo della Cacciata dal Paradiso Terrestre e di un particolare degli Ignudi. A confronto con questo nucleo, quattro splendidi disegni di studi per la facciata di S. Lorenzo e per il vestibolo della Biblioteca Laurenziana. info tel. 011 0062713; www.pinacoteca-agnelli.it PARIGI TESSUTI LITURGICI DI TRADIZIONE BIZANTINA DALLA ROMANIA Museo del Louvre fino al 29 luglio

Ruota intorno all’importante prestito dello Stendardo di San Giorgio la mostra nuova allestita nell’Ala Richelieu del Louvre, che mira a sottolineare l’eccezionale levatura delle collezioni rumene di tessuti ricamati di tradizione bizantina. Realizzato su commissione del re Stefano III il Grande (14571504) nel monastero di Zografou (uno dei complessi religiosi del Monte Athos), lo

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stendardo fu donato dalla Francia alla Romania nel 1917 e in questo suo ritorno temporaneo è affiancato da altre opere di grande pregio, tessute e ricamate fra il XV e il XVII secolo. Eredi dei modelli sviluppati a Bisanzio, i paramenti delle panoplie sacerdotali – destinate a vescovo, sacerdoti e diaconi – e quelli delle panoplie liturgiche – utilizzate durante le cerimonie – compongono un insieme unico al mondo, nel quale si coglie il passaggio dalle figure ieratiche tipicamente bizantine a una ritrattistica piú vicina al vero. info www.louvre.fr TREVISO DA VINCI EXPERIENCE Palazzo della Camera di Commercio di Treviso e Belluno fino al 4 agosto

Sfruttando e incrociando le

soluzioni offerte dal digitale, Da Vinci Experience condensa nello spazio di 45 minuti il percorso di Leonardo, un uomo capace di essere pittore, architetto, scultore, ingegnere, poeta e musicista. Il progetto espositivo permette di volare con occhi e suoni nella suggestione di un mondo che non c’è, ma anche toccare i progenitori di strumenti di uso comune – dal cric alla bicicletta, dal cambio di velocità al pistone – riprodotti con la massima fedeltà sulla base dei disegni del maestro. info tel. 393 8007367; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it PARMA LA FORTUNA DE «LA SCAPILIATA» DI LEONARDO DA VINCI Complesso Monumentale

della Pilotta, Galleria Nazionale fino al 12 agosto

Una sequenza di opere di altissimo livello – firmate da artisti del calibro di Gherardo Starnina, Bernardino Luini, Hans Holbein, Tintoretto, Giovanni Lanfranco – fa da corona alla affascinante «Scapiliata» leonardesca. Nessuna cuffia, nessuna crocchia o velo intorno al volto, bellissimo e intenso. Ma capelli liberi, lunghi, scarmigliati da un vento che irrompe violento in scena: in questa tavoletta Leonardo dipinge esattamente ciò che lui stesso ha suggerito, a proposito della raffigurazione della chioma della figura femminile, nel Trattato sulla pittura: «Fa tu adunque alle tue teste gli capegli scherzare insieme col finto vento intorno agli giovanili volti, e con diverse revolture graziosamente ornargli». Quattro le sezioni in cui si articola la rassegna. La prima include alcune antichità e i primi passi di una ricerca pittorica rinascimentale che troverà in Leonardo la sua massima espressione. La seconda annovera alcuni dipinti e disegni originali di Leonardo o di ambito luglio

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fiorentino, precedenti o contemporanei all’artista, in cui viene trattato il tema dei capelli scomposti, come fiamme ondeggianti nell’aria a causa del vento, tra cui la celebre Leda degli Uffizi. Vengono poi riunite derivazioni antiche del tema leonardesco, a testimonianza della precoce fortuna critica di questo soggetto iconografico. info tel. 0521 233309; http://pilotta.beniculturali.it MILANO INTORNO ALLA SALA DELLE ASSE. LEONARDO TRA NATURA, ARTE E SCIENZA Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica, Sala dei Ducali fino al 18 agosto

La mostra fa da corollario alla riapertura della Sala delle Asse, all’interno della quale Leonardo sviluppò il suo concetto di imitazione della natura tanto da immaginare un sottobosco e, al di là degli alberi, case e colline all’orizzonte: dalla stanza del duca Sforza al territorio da lui governato. La rassegna è concepita attorno a una rigorosa selezione di disegni originali di Leonardo da Vinci e di altri maestri del Rinascimento, che mostrano relazioni iconografiche e stilistiche stringenti con particolari della decorazione naturalistica e paesaggistica

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della Sala delle Asse, ora resi visibili grazie ai saggi di scopritura effettuati sulle pareti, indizi di straordinaria importanza per poter approfondire la conoscenza del progetto compositivo originario. Il progetto espositivo si deve alla Direzione del Castello Sforzesco, che ha potuto avvalersi della partecipazione di grandi musei internazionali, con prestiti provenienti dalla Her Majesty The Queen from the Royal Collection, dal Museo del Louvre, Parigi, dal Kupferstichkabinett, Berlino e dalle Gallerie degli Uffizi, Firenze. info www.milanocastello.it

MATERA RINASCIMENTO VISTO DA SUD: MATERA, L’ITALIA MERIDIONALE E IL MEDITERRANEO TRA ‘400 E ‘500 Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata Palazzo Lanfranchi fino al 19 agosto

Il progetto espositivo intende ricostruire, attraverso un racconto visivo fatto di opere d’arte ma anche di oggetti e documenti storici, la fioritura artistica e culturale avvenuta nell’Italia meridionale nel secolo a cavallo tra la metà del Quattrocento e la metà del Cinquecento in relazione con il piú ampio contesto del

Mediterraneo. La mostra, che prevede un approfondimento particolare su Matera e la Basilicata, è integrata e arricchita da speciali percorsi di conoscenza e valorizzazione delle opere d’arte tardogotiche e rinascimentali disseminate nel territorio regionale, inamovibili per tipologia o per dimensioni. In tali percorsi vengono considerati i principali affreschi locali del tempo, per esempio quelli di S. Donato a Ripacandida, quelli della chiesa rupestre di S. Barbara a Matera e quelli della Trinità di Miglionico, ma anche i grandi polittici come quello di Cima da Conegliano sempre a Miglionico, che testimonia, insieme alla straordinaria scultura raffigurante Sant’Eufemia del Duomo di Montepeloso oggi Irsina, l’attenzione locale alla cultura veneta; oppure le opere realizzate nei primi decenni del Cinquecento da Giovanni Luce o Francesco da Tolentino a Pietrapertosa o, infine, i numerosi polittici eseguiti per i paesi lucani (Senise, San Chirico Raparo, Salandra, Stigliano etc), da Simone da Firenze, prolifico pittoreemigrante che nella Basilicata interna trovò una committenza pienamente soddisfatta del suo linguaggio «moderno»,

che guardava ai maestri toscani della fine del secolo precedente. I percorsi di valorizzazione territoriale coinvolgono anche la vicina Puglia, dove non si possono dimenticare, per esempio, gli affreschi della chiesa di S. Caterina a Galatina o quelli di S. Stefano a Soleto. info tel. 0835 256384; www.materaevents.it PARIGI CINQUE SENSI. UN’ECO ALLA DAMA E L’UNICORNO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 agosto

Nel Medioevo, ciascuno dei

cinque sensi – dal tatto alla vista – aveva una funzione non soltanto materiale, ma anche spirituale e da questo presupposto nasce il percorso ideato dal Museo di Cluny per far scoprire ai visitatori le proprie collezioni in attesa che vengano ultimati i lavori di ristrutturazione dell’edificio. I cinque sensi sono descritti e valutati in numerosi trattati medievali e vengono utilizzati come altrettante chiavi di lettura dell’universo, dalla sfera delle relazioni umane

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AGENDA DEL MESE alla religione. Secondo i dettami dell’amor cortese, traducono il progressivo avvicinamento verso la persona amata, fino a che essa non viene toccata; quanto alla liturgia, dall’uso dell’incenso alla vestizione del sacerdote, il ricorso ai cinque sensi è costante e facilita l’esperienza del divino. A sviluppare e approfondire questo tema affascinante concorrono una cinquantina di tessuti ricamati, miniature, sculture e gioielli, la cui presentazione culmina con il ciclo di arazzi della Dama e l’unicorno, nella cui rappresentazione compare un padiglione sormontato dal motto «Mon seul desir» («Il mio unico desiderio»), che sembra evocare un sesto senso, forse capace – secondo la filosofia medievale – di dare accesso al discernimento. info www.musee-moyenage.fr TORINO GOCCIA A GOCCIA DAL CIELO CADE LA VITA. ACQUA, ISLAM E ARTE MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Ma’, poche lettere in arabo. Comincia tutto da lí. E a partire dalle affermazioni del Corano e della letteratura successiva, l’esposizione illustra lo

sviluppo storico dei tanti ruoli e significati ricoperti dall’acqua e l’incarnazione dei suoi significati nell’arte e nei manufatti islamici. Tra l’acqua e il mondo islamico esiste infatti un rapporto antico e intimo. Le ragioni climatiche lo spiegano solo in parte: vi è un’eredità antica di culture e civiltà precedenti, un senso religioso profondo e tante complesse ragioni sociali e culturali. L’acqua appartiene ai nostri sogni piú profondi: evoca la maternità, la pulizia, la purità, la sensualità, la nascita e la morte. Questo naturalmente vale per ogni civiltà, ma nell’Islam tale serie di idee ha trovato un suo senso piú profondo, facendo dell’acqua uno dei cardini stessi dell’esistenza umana: un cardine tanto spirituale quanto sociale ed estetico. La mostra è una narrazione attraverso immagini, reperti, libri e miniature: tecnologia, vita quotidiana e arte, che per secoli si sono rispecchiate nelle tante diverse fruizioni dell’acqua. info tel. 011 4436932; e-mail: mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it LEIDA GIARDINI MEDIEVALI. PARADISI TERRENI A ORIENTE E A OCCIDENTE Rijksmuseum van Oudheden fino al 1° settembre

Grazie a una ricca selezione di reperti archeologici e opere d’arte il museo olandese offre un’immagine eloquente della ricchezza, dell’importanza e delle multiformi declinazioni dei giardini nell’Occidente cristiano e nel mondo islamico fra il 1200 e il 1600. Si possono ammirare tappeti, erbari, manoscritti miniati con immagini di giardini ideali e

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maioliche orientali decorate da motivi floreali. Non mancano poi utensili e attrezzature per l’allestimento degli spazi verdi, semi e piume, cappucci per i falconi utilizzati nella caccia, pedine del gioco degli scacchi, vasi da farmacia e strumenti

musicali. Un insieme di materiali che provano quanto i giardini fossero importanti per l’uomo medievale, non solo dal punto di vista pratico – perché in grado di produrre piante commestibili e medicamentose –, ma anche per il ristoro e lo svago. Ed è significativo ricordare come la parola paradiso derivi dal vocabolo antico persiano pairidaeza e come sia nel Corano che nella Bibbia il paradiso venga descritto come un giardino nel quale crescono piante sempreverdi, attraversato da placidi corsi d’acqua, e dove uomini e animali vivono in armonia. info www.rmo.nl FERRARA IL RINASCIMENTO PARLA EBRAICO MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah fino al 15 settembre

Tema dell’esposizione (si veda anche, in questo numero, il Dossier alle pp. 85-111) è uno

dei periodi cruciali della storia culturale della Penisola, decisivo per la formazione dell’identità italiana, svelandoci un aspetto del tutto originale, quale la presenza degli Ebrei e il fecondo dialogo con la cultura cristiana di maggioranza. Nel Rinascimento gli Ebrei c’erano ed erano in prima fila, attivi e intraprendenti: a Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Genova, Pisa, Napoli, Palermo e, ovviamente, Roma. A periodi alterni accolti e ben visti, con un ruolo non secondario di prestatori, medici, mercanti, oppure oggetto di pregiudizio. Interpreti di una stagione che racchiude in sé esperienze multiple, incontri, scontri, momenti armonici e brusche cesure. Il MEIS racconta per la prima volta questo ricco e complesso confronto. Ricostruire tale intreccio di

reciproche sperimentazioni significa riconoscere il debito della cultura italiana verso l’ebraismo ed esplorare i presupposti ebraici della civiltà rinascimentale. E significa ammettere che questa compenetrazione non è sempre stata sinonimo di armonia, né di accettazione priva di traumi, ma ha comportato intolleranza, contraddizioni, esclusione luglio

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sociale e violenza ai danni del gruppo ebraico, impegnato nella difficile difesa della propria specificità. Della ricca selezione di opere scelte per la mostra fanno parte dipinti come la Sacra famiglia e famiglia del Battista (150406) di Andrea Mantegna, la Nascita della Vergine (150207) di Vittore Carpaccio e la Disputa di Gesú con i dottori del Tempio (1519-25) di Ludovico Mazzolino, Elia e Eliseo del Sassetta, dove spuntano a sorpresa scritte in ebraico. Si possono inoltre ammirare manoscritti miniati ebraici, di foggia e ricchezza rinascimentale, come la Guida dei perplessi di Maimonide (1349), acquistato dallo Stato italiano meno di un anno fa. O l’Arca Santa lignea piú antica d’Italia, mai rientrata prima da Parigi, o il Rotolo della Torah di Biella, un’antica pergamena della Bibbia ebraica, tuttora usata nella liturgia sinagogale. info e prenotazioni call center: tel. 848 082380, da cellulare e dall’estero: tel. +39 06 39967138 (attivi tutti i giorni 9,00-18,00); e-mail: meis@ coopculture.it, prenotazioni@ coopculture.it; www.meisweb.it FIRENZE LEONARDO E I SUOI LIBRI. LA BIBLIOTECA DEL GENIO UNIVERSALE Museo Galileo fino al 22 settembre

Pur essendosi definito «omo sanza lettere», Leonardo non era un illetterato, ma, anzi, era alla costante ricerca del dialogo con gli autori, antichi e moderni e, nel tempo, era diventato un appassionato lettore e bibliofilo. Da questo assunto nasce la mostra allestita nel Museo Galileo di Firenze che racconta come per lui i libri non fossero soltanto oggetti, bensí affascinanti «macchine»

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di Leonardo, con gli strumenti di scrittura e da disegno da lui utilizzati. info tel. 055 265311; e-mail: info@museogalileo.it; https://mostre.museogalileo.it/ bibliotecageniouniversale

LONDRA BARTOLOMÉ BERMEJO, MAESTRO DEL RINASCIMENTO SPAGNOLO The National Gallery fino al 29 settembre

mentali, da costruire e smontare, con i loro ingranaggi (parole, pensieri, immagini). Alla fine della sua vita, arrivò a possedere quasi duecento volumi: un numero straordinario per un ingegnere-artista del Quattrocento. Tuttavia, la biblioteca di Leonardo è uno degli aspetti meno conosciuti del suo laboratorio, perché si tratta di una biblioteca «perduta»: un solo libro è stato finora identificato, il trattato di architettura e ingegneria di Francesco di Giorgio Martini conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, con postille autografe dello stesso Leonardo. Per la prima volta, dunque, si è tentata la ricostruzione di questa biblioteca, in un percorso che racconta l’incontro di Leonardo con il mondo dei libri e della parola scritta: i documenti della famiglia Da Vinci, i primi grandi libri del giovane Leonardo (Dante, Ovidio), i grandi maestri (Alberti, Toscanelli, Pacioli). Per la mostra sono stati riuniti manoscritti e incunaboli identificati con i testi utilizzati da Leonardo, affiancati da applicazioni multimediali che consentono di sfogliarli e confrontarli con i codici autografi. È stato inoltre ricostruito lo studio

Bartolomé de Cardénas, meglio noto come Bermejo, cioè rossastro – appellativo che probabilmente gli fu dato per via di una qualche particolarità fisica, come i capelli rossi o l’incarnato molto colorito – fu uno dei piú innovativi e affermati pittori spagnoli della seconda metà del Quattrocento. Nativo di Cordova, ebbe come principale committente la corte d’Aragona, e lavorò soprattutto

a Tous, Valencia, Daroca, Saragozza e Barcellona. Scarse sono comunque le notizie biografiche sul suo conto, ma è probabile che fosse un converso, ovvero un Ebreo convertito, e il suo continuo girovagare potrebbe forse essere stato dettato dalla necessità di sfuggire alle persecuzioni antiebraiche promosse dall’Inquisizione. Per rendergli omaggio, la National Gallery affianca a opere facenti parte della sua collezione permanente alcuni importanti lavori conservati in Spagna e che per la prima volta sono stati concessi in prestito e hanno varcato i confini nazionali. info www.nationalgallery.org.uk ROMA ANTICO SIAM. LO SPLENDORE DEI REGNI THAI Museo delle Civiltà, Salone delle Scienze del Museo preistorico

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AGENDA DEL MESE etnografico «Luigi Pigorini» fino al 30 settembre

Il 3 ottobre 1868, I regni d’Italia e del Siam firmarono un trattato solenne di amicizia e commercio, il primo mai stabilito tra i due giovani Paesi. Ratificato il 18 febbraio 1869, l’atto aprí la via a una folta schiera di Italiani chiamati dal giovane sovrano Rama V a concorrere al rinnovamento del Siam (Thailandia dal 1939) nei diversi campi dell’architettura, dell’assetto urbano, dell’arte, del commercio, dell’ingegneria civile e delle comunicazioni, dell’amministrazione dello Stato e dell’esercito. Per festeggiare la ricorrenza dei 150 anni del trattato e la continuità dei rapporti di amicizia tra le due nazioni, il Museo delle Civiltà e ISMEOAssociazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente, hanno organizzato una mostra sull’archeologia e l’arte del regno di Thailandia, antico Siam, prevalentemente incentrata sulle collezioni di arte thailandese del Museo delle Civiltà, affiancate da

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opere provenienti da altre collezioni romane di arte thai, o collegate a figure di eminenti italiani che operarono in Thailandia all’epoca del Trattato e nei decenni immediatamente successivi. Le opere illustrano diversi aspetti della creatività e della cultura delle genti che nel corso dei millenni abitarono le regioni della Thailandia, dalla locale età neolitica (22001100 a.C. circa) al 1911, anno in cui il Siam fece mostra della sua produzione artistica e industriale all’Esposizione Internazionale di Torino. info tel. 06 549521; www.museocivilta.beniculturali.it TORINO NOTRE-DAME DE PARIS. SCULTURE GOTICHE DALLA GRANDE CATTEDRALE Palazzo Madama, Sala Stemmi fino al 30 settembre

Frutto di una collaborazione con il Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge di Parigi, l’esposizione dà vita a quattro sculture gotiche provenienti dalla cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’evento si configura come una mostra dossier dedicata al tema della scultura gotica francese nella prima metà del 1200 e, in particolare, al cantiere della cattedrale parigina. Dal portale dell’Incoronazione della Vergine sulla facciata occidentale proviene la Testa d’Angelo, mentre dal portale del braccio settentrionale del

transetto provengono la Testa di Re mago, la Testa di uomo barbuto e la Testa di figura femminile, allegoria di una virtú teologale. Queste quattro opere, oltre a essere esempi di altissima qualità della scultura medievale europea, sono testimonianze di quel momento della civiltà gotica indicato dal celebre storico dell’arte Cesare Gnudi come «classicismo gotico» o «naturalismo gotico», che ebbe un forte influsso, alla fine del Duecento, anche sui protagonisti del gotico in Italia: Giotto, Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it BASSANO DEL GRAPPA ALBRECHT DÜRER. LA COLLEZIONE REMONDINI Palazzo Sturm fino al 30 settembre

Finalmente restaurato in tutte le sue parti, Palazzo Sturm propone per la prima volta e in modo integrale il tesoro grafico di Albrecht Dürer (1471-1528), patrimonio delle raccolte museali bassanesi. Un corpus di 214 incisioni che, per ampiezza e qualità, è

classificato, con quello del Kunsthistorisches Museum di Vienna, come il piú importante e completo al mondo. Dürer inizia la sua carriera come incisore di legni (xilografie) nel 1496 e, dal 1512 al 1519, lavora per l’imperatore Massimiliano I, per il quale realizza l’Arco di trionfo e la Processione trionfale, quest’ultimo nella collezione di Bassano del Grappa. Molto probabilmente passò per la città sul Brenta. Lo si vede nei paesaggi e nelle vedute di sfondo di opere come la Grande Fortuna. I temi trattati da Dürer sono mitologici, religiosi, popolari, naturalistici, ritratti, paesaggi e nelle

collezioni bassanesi sono incluse le serie complete dell’Apocalisse, della Grande Passione, della Piccola Passione e della Vita di Maria. Per Massimiliano realizza anche una delle sue incisioni piú popolari, il Rinoceronte, a ricordo dell’esotico animale che l’imperatore aveva destinato al papa, ma che non arrivò mai a Roma, vittima di un naufragio di fronte alle coste liguri. Intorno a quest’opera, Chiara Casarin propone un approfondimento che da un lato rievoca la vicenda e dall’altro percorre la fortuna dell’incisione nei secoli. info www.museibassano.it luglio

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TORINO L’ITALIA DEL RINASCIMENTO. LO SPLENDORE DELLA MAIOLICA Palazzo Madama, Sala Senato fino al 14 ottobre

Allestita nella Sala del Senato di Palazzo Madama, «L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica»

presenta un insieme eccezionale di maioliche rinascimentali prodotte dalle piú prestigiose manifatture italiane, riunendo per la prima volta oltre 200 capolavori provenienti da collezioni private tra le piú importanti al mondo e dalle raccolte dello stesso Palazzo Madama. Il percorso espositivo si apre con una grande vetrina, che evoca il mobile protagonista della sala da pranzo rinascimentale, la credenza, dove le raffinate maioliche erano esposte sia per essere ammirate sia per servire all’apparecchiatura della tavola. Si passa quindi a documentare l’attività dei principali centri produttori di maiolica in Italia – Deruta, Faenza, Urbino, Gubbio, Venezia, Castelli e Torino –, per poi illustrare l’ampia varietà di temi riprodotti sulla maiolica istoriata. Tra il 1400 e il 1500 si amplia e si differenzia l’uso

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delle maioliche nella vita sociale: nell’arredamento della casa italiana, in particolare nelle residenze di campagna, le maioliche istoriate venivano esposte sulle credenze ma anche usate sulle tavole e potevano essere offerte come doni in occasioni quali il matrimonio e il battesimo. L’epilogo è affidato a una serie di capolavori: una coppia di albarelli di Domenigo da Venezia, un grande rinfrescatoio di Urbino e la brocca in porcellana medicea di Palazzo Madama, eccezionale esemplare della prima imitazione europea della porcellana cinese, realizzato da maiolicari di Urbino che lavoravano a Firenze alla corte di Francesco I de’ Medici. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

incentrata sul legame biografico del maestro con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrí al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. In quest’ottica, vengono presentati i documenti concessi in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, grazie ai quali è possibile ricostruire in maniera inequivocabile le primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P) datato dall’artista 5 agosto 1473, concesso in prestito al Museo Leonardiano per le prime sei settimane dell’esposizione. Attorno a quest’opera giovanile, che costituisce una sorta di palinsesto di tutta la futura produzione di Leonardo, si dipana l’intero percorso espositivo. info www.museoleonardiano.it

VINCI

Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia torna alle origini, esponendo le due collezioni con cui ha aperto al pubblico

LEONARDO DA VINCI. ALLE ORIGINI DEL GENIO Museo Leonardiano fino al 15 ottobre

Il Museo Leonardiano di Vinci propone una rassegna

il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, permette ai visitatori di continuare a godere della collezione dei modelli storici leonardeschi durante il

MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre

periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per importanti lavori edili, strutturali e impiantistici. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org BARD (AOSTA) L’AQUILA. TESORI D’ARTE TRA XIII E XVI SECOLO Forte di Bard fino al 17 novembre

Gli spazi espositivi ricavati nella poderosa fortezza valdostana accolgono una selezione di opere recuperate e restaurate – 14 tra oreficerie, sculture in terracotta, pietra e legno, dipinti su tavola e tela – provenienti dalle chiese aquilane e dal Munda, Museo nazionale d’Abruzzo. Dalle

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AGENDA DEL MESE Madonne con Bambino del Maestro di Sivignano e di Matteo da Campli a quella detta Delle Grazie; dal grande Crocefisso della Cattedrale alla Croce processionale di Giovanni di Bartolomeo Rosecci; dall’elegante e leggero San Michele arcangelo di Silvestro dell’Aquila allo splendido San Sebastiano di Saturnino Gatti; dal

Sant’Equizio di Pompeo Cesura fino alle grandi tele di Mijtens, la mostra si propone come una storia di sopravvivenze, un omaggio alla città dell’Aquila nel decennale del sisma e una testimonianza della grande ricchezza della sua arte. Alle opere si affianca l’esposizione fotografica, inedita, La città nascosta di Marco D’Antonio, che presenta 15 grandi

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fotografie dedicate all’Aquila notturna, ripresa nelle sue aree ancora da ricostruire. info tel. 0125 833811; e-mail: info@fortedibard.it; www.fortedibard.it PARIGI

vede giudici e imputati ricorrere con frequenza al compromesso e la popolazione farsi parte attiva nel decidere la sorte dei condannati. info www.tourjeansanspeur.com

CRIMINI E GIUSTIZIA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans peur fino al 29 dicembre

VINCI

Le fonti giudiziarie risalenti alla fine del Medioevo permettono di venire a conoscenza di numerosi casi che ridimensionano l’immagine di un sistema violento e sbrigativo che troppo spesso viene associato alla giustizia medievale. E, soprattutto, consentono di fissare una gerarchia dei crimini diversa da quella moderna, in seno alla quale la notorietà (la fama) degli individui coinvolti ha un ruolo importante, a prescindere dalla loro estrazione sociale, cosicché l’omicidio per motivi d’onore diviene spesso tollerabile. Organizzata per celebrare i vent’anni di attività della Tour Jean sans peur come spazio espositivo e a 600 anni dall’assassinio del suo antico proprietario – il duca di Borgogna Giovanni senza Paura –, la mostra offre dunque un quadro per molti aspetti sorprendente della società dell’età di Mezzo, che

Organizzata per tenere a battesimo la riapertura del Museo Ideale Leonardo Da Vinci e la realizzazione del nuovo Museo Leonardo e il Rinascimento del vino, a Sant’Ippolito in Valle, la mostra esemplifica l’attualità di Leonardo nell’arte e nella cultura contemporanea, e presenta anche i risultati delle ricerche genealogiche attraverso venti generazioni fino al presente e al DNA. Il percorso si articola in cinque sezioni. La prima (Leonardo Heritage) propone documenti d’archivio e reperti frutto di studi genealogici. La seconda riguarda la bottega di Leonardo: la Gioconda nuda, e anche la Santa Caterina nella macchina di tortura di un allievo di Leonardo (Giampietrino), che presenta impronte digitali e palmari. La terza (Leonardo e il Rinascimento del vino) approfondisce i rapporti di Leonardo con il territorio e con l’agricoltura, che ebbe un ruolo importante nella sua biografia e nei suoi molteplici studi. La quarta (Leonardismi attraverso i secoli) procede dalle cartelle dei Nodi vinciani xilografate da Albrecht Dürer agli inizi del Cinquecento, prosegue tra l’immagine di Leonardo e antiche incisioni d’après, giunge al furto del 1911 e alla Gioconda L.H.O.O.Q. di

LEONARDO VIVE Museo Ideale Leonardo da Vinci fino al 31 dicembre

Duchamp, fino a Dalí, Beuys, Warhol e altri protagonisti delle neoavanguardie internazionali. Per l’Attualità di Leonardo, spicca il Dialogo con il Paesaggio di Leonardo del 1473 del pittore cinese Xu Li giunto da Pechino. info www.museoleonardo.it BOLOGNA LA CASA DELLE VITA. ORI E STORIE INTORNO ALL’ANTICO CIMITERO EBRAICO DI BOLOGNA Museo Ebraico fino al 6 gennaio 2020

Gli straordinari reperti di uno dei piú ampi cimiteri ebraici medievali del mondo, rinvenuto alcuni anni fa a Bologna in via Orfeo, poco lontano dalle mura trecentesche, sono finalmente visibili dopo anni di studi e restauri. Gioielli in oro di eccezionale fattura e bellezza, pietre incise, oggetti in bronzo recuperati in oltre quattrocento sepolture, attestano la presenza a Bologna di una fiorente comunità, proficuamente inserita nel contesto urbano e sociale fino all’espulsione, avvenuta per volere del papa nel 1569, e offrono lo spunto per luglio

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ripercorrere, in maniera globale e sistematica, la storia di una minoranza, i suoi usi, la sua cultura e le sue interazioni con la società cristiana del tempo. info www.museoebraicobo.it SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

Fulcro della mostra sono alcuni progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico testimoniano i risultati raggiunti. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Fanno da corredo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it

Appuntamenti PAOLA (COSENZA) LA VOLATA. XXV EDIZIONE 27 luglio

Cittadina costiera in provincia di Cosenza, Paola è nota soprattutto per aver dato i natali, nel 1416, a Francesco, eremita e fondatore dell’Ordine dei Minimi, canonizzato nel 1519 e nominato patrono della gente di mare nel 1943 da papa Pio XII. Il 2 luglio del 1555 il convento che aveva fondato – che nel tempo si è trasformato nel santuario a lui intitolato, meta costante di pellegrinaggio – fu assalito dall’ammiraglio e corsaro ottomano Dragut Reis, che a Paola lasciò una scia di morte

e devastazione, e quegli eventi sono oggi uno dei fili conduttori della rievocazione che anima il centro calabrese: La Volata. L’evento avrà inizio alle 19,00, nel piazzale del santuario di S. Francesco, dove si raduneranno i figuranti del corteo storico, che, alle 19,30, s’incamminerà alla volta della piazza del Popolo. Qui sono in programma intrattenimenti musicali, balli e degustazioni di piatti tipici, nonché l’esibizione dei Pistonieri di Cava de’ Tirreni e di altri gruppi. info www.guiscardo.com

MEDIOEVO

luglio

SIENA LA CITTÀ DEL CIELO DAL FACCIATONE DEL DUOMO NUOVO IL PANORAMA DI SIENA NUOVI ORIZZONTI SULLA CITTÀ fino all’8 settembre

Il Complesso Monumentale del Duomo di Siena, dedicato a santa Maria Assunta, invita a contemplare nuovi orizzonti con la salita al Facciatone, Panorama sulla Città. Per tutto il giorno, durante la permanenza sulla terrazza panoramica, i visitatori possono contemplare il panorama attraverso un’introduzione alla città effettuata da accompagnatori multilingua. Questo grande e alto muro che, nell’intento dei Senesi, doveva divenire la

facciata di un Nuovo Duomo, sogno architettonico, guarda il capoluogo per intero. I visitatori che salgono all’Acropoli e attraversano il Duomo, la cosiddetta Cripta, il Battistero e il Museo dell’Opera si trovano immersi

in un tripudio di forme e colori che, nell’intenzione dei committenti e degli artisti, segnano l’accesso alla «Gerusalemme celeste». info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it ROMA VIAGGI NELL’ANTICA ROMA Foro di Augusto: via Alessandrina, lato Largo Corrado Ricci Foro di Cesare: Foro Traiano, in prossimità della Colonna Traiana fino al 3 novembre

Torna il progetto Viaggi nell’antica Roma, che, attraverso due spettacoli multimediali, racconta e fa rivivere la storia del Foro di Cesare e del Foro di Augusto. Grazie a sistemi audio con cuffie e accompagnati dalla voce di Piero Angela e da filmati e proiezioni che ricostruiscono i due luoghi cosí come si presentavano nell’antica Roma, gli spettatori possono godere di una rappresentazione emozionante e dal grande rigore storico e scientifico. Le modalità di fruizione dei due spettacoli sono differenti. Per il Foro di Augusto sono previste tre repliche ogni sera (durata 40 minuti), mentre per il Foro di Cesare è possibile accedervi ogni 20 minuti, secondo il calendario pubblicato (percorso itinerante in quattro tappe, per complessivi 50 minuti circa). info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-19,00); #viaggioneifori; www.viaggioneifori.it; www.turismoroma.it

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battaglie colle di val d’elsa

Lo strazio e lo scempio

testi di Giacomo Baldini, Curzio Bastianoni e Marilena Caciorgna

I

Il 17 giugno 1269, la piana sotto le mura di una città poco a nord di Siena, Colle di Val d’Elsa, fu teatro di uno scontro decisivo nelle vicende dei guelfi e dei ghibellini. In quel giorno, con la morte di Provenzano Salvani, iniziava la lenta ma inesorabile resa dei secondi, destinata a culminare, vent’anni piú tardi (l’11 giugno 1289), in Casentino nella pianura di Campaldino

L

a storia di una comunità è scandita da ricorrenze ed eventi che ne segnano il carattere plasmandone la fisionomia. Per quanto concerne Colle di Val d’Elsa (Siena), città dalla fine del XVI secolo ma importante Terra fin dal Medioevo, molte sono le date collegate a momenti che inseriscono il piccolo centro valdelsano nel grande libro della storia nazionale: basterà qui ricordare il biennio 1478-1479, caratterizzato dall’assedio delle truppe senesi e del Duca di Calabria, che, dopo la distruzione, aprí le porte alla penetrazione del linguaggio artistico rinascimentale nella Terra di Colle; oppure il 1592, anno dell’elevazione di Colle a sede vescovile e, conseguentemente, dell’acquisizione di status di città, che ridisegnò il quadro politico dello scacchiere della Toscana centro-settentrionale.

Interpretazioni discordi Nella pagina accanto tavoletta di Biccherna nella cui parte superiore è raffigurata la presa di Colle di Val d’Elsa da parte della lega costituita da papa Sisto IV, dal re di Napoli Ferdinando d’Aragona e dalla Repubblica senese contro la Firenze di Lorenzo il Magnifico, nell’ambito della cosiddetta «guerra di Toscana», scoppiata all’indomani della Congiura dei Pazzi (1478). 1479. Siena, Archivio di Stato.

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Tuttavia, la data che ha senza dubbio marcato piú profondamente l’anima e lo spirito della città, anche grazie agli immortali versi di Dante (vedi box alle pp. 42-43), è il 17 giugno 1269, giorno in cui fu combattuta la battaglia di Colle. Nonostante non tutta la critica concordi sulla reale portata dell’evento, a volte celebrato come episodio simbolo della sconfitta del ghibellinismo in Toscana, o derubricato a semplice scontro, è innegabile che per la Terra di Colle il combattimento acquisí un signifi-

cato straordinario, non soltanto per le conseguenze sul piano politico e militare, quanto, piuttosto, per la valenza simbolica che ha rappresentato per l’intera comunità. La battaglia, infatti, si svolse in una porzione di territorio fondamentale dal punto di vista strategico, trovandosi lungo importanti nodi viari e sull’area di frontiera rappresentata dal complesso idrografico dell’Elsa-Staggia. E basta leggere la storia della formazione del comune per capire quali complesse dinamiche si siano intrecciate sulle sponde dell’Elsa tra il X e il XIII secolo. Nel suo viaggio di ritorno verso l’Inghilterra lungo la Strata Francigena (990 d.C.), nel tratto tra Seocine (Siena) e Sce Gemiane (San Gimignano), Sigerico di Canterbury non incontrò Colle, ma Aelsa, un luogo che nei documenti successivi (dal 1047) è definito borgo (quindi agglomerato non fortificato), nel quale esisteva una pieve molto importante, che godeva (almeno dal 1115, decreto di papa Pasquale II) dello status di nullius diocesisis (era cioè di diretta giurisdizione papale). L’importante posizione strategica dell’area interessò i grandi potentati, rappresentati dalle famiglie comitali e dagli interessi vescovili. All’inizio dell’XI secolo si affacciarono i potenti Aldobrandeschi, che provarono ad annettere ai propri domini la «plebe d’Elsa» e la «cella sancte Marie que in Sponge posita», luglio

MEDIOEVO


MEDIOEVO

luglio

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battaglie colle di val d’elsa A sinistra le Gore dell’Elsa all’altezza del Ponte di San Marziale, canalizzate grazie alla diga della Steccaia, cosí da sfruttare l’energia motrice fornita dall’acqua. Nella pagina accanto mappa del territorio valdelsano con, in evidenza, le località legate alle vicende narrate nell’articolo. In basso, sulle due pagine veduta di Colle alta, la parte di Colle di Val d’Elsa che si estende sulla cima della collina.

con l’evidente scopo di garantirsi il controllo dell’attraversamento sull’Elsa, soprattutto in relazione con i percorsi verso la Maremma. La contesa ebbe fine nel 1007 con la «rinuncia» aldobrandesca della «plebe d’Elsa» in favore del presule volterrano, compensata però da acquisizioni nell’area di Piticciano (il futuro castello), caratterizzato all’epoca da un popolamento diffuso su poderi coltivati. A dimostrazione dell’importanza della famiglia e della prepotente crescita del nucleo di Piticciano, è

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significativo l’atto rogato nel giugno del 1138 di fronte a importanti membri di famiglie nobili colligiane: nell’ambito dello scontro tra Siena e Firenze e tra le famiglie comitali dei Guidi e degli Aldobrandeschi, il conte Uguccione Aldobrandeschi garantí la propria alleanza ai Fiorentini, ponendo in pegno «Colle novo, qui Pititiano vocatur» con altri castelli e relative corti. Nel 1172 Colle fu teatro di uno scontro in cui si fronteggiarono ancora gli interessi delle città (Siena e Firenze in primis), dei Guidi e

degli Aldobrandeschi, oltre che dei potentati locali rappresentatati da milites e signorotti incastellati, per il controllo dell’importante area di frontiera rappresentata dal distretto Staggia-Elsa. Per quanto concerne Colle, proprio nel corso di questo scontro si trova la prima menzione di boni homines de Colle, espressione che, in questa fase, indica genericamente non solo elementi eminenti della società (per censo, schiatta e uffici), ma soprattutto individui a cui sono riconosciuti ruoli di guida politica.

luglio

MEDIOEVO


In realtà, occorre attendere gli anni Novanta del XII secolo per il decisivo affrancamento della comunità e la sua costituzione in Comune. Fenomeno politico, che tuttavia non può essere scisso da un provvedimento religioso che segna la storia di Colle: con la bolla di papa Celestino III (28 dicembre 1191) fu autorizzato lo spostamento della pievania (con tutti i suoi privilegi) dalla pieve a Elsa a quella di S. Salvatore in Castelvecchio di Colle, edificio di cui si hanno notizie già all’inizio del XII secolo. Potere politico (comunità affrancata) e autorità religiosa (pievania nullius diocesis) si trovarono racchiuse nella mura dello stesso castello. Protagonista non secondario di questo capolavoro politico fu l’arciprete Alberto da Chiatina, che, fin dalla morte (17 agosto 1202), fu venerato come santo e al quale, nel 1267, fu rinominata la pieve in Castello dove era stato seppellito.

Dall’acqua la ricchezza

Gli anni compresi tra gli inizi del XIII secolo e la battaglia di Colle furono ricchi di avvenimenti: il centro valdelsano, oramai ben distino nei tre terzi (Castello, Borgo di Santa Caterina e Borgo Sant’Jacopo) acquistò sempre piú importanza grazie alla posizione in territorio fertile, ricco di boschi e di acqua: la canalizzazione delle Gore alimentava un sistema produttivo basato su manifatture andanti ad acqua, che arricchí la comunità e favorí il benessere e l’aumento

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luglio

Cusona

SP127

Riserva Naturale di Castelvecchio

San Gimignano

SR429

Cedda Croce Fiorentina SP102

Colle Val d’Elsa SP27

SR68

Castiglion Ghinibaldi

SR222

Castel San Gimignano

Riserva Naturale Foresta di Berignone

Castel Bigozzi

SR2

Collalto SR86

Mensano

della popolazione. Già nel 1227 venne stipulata una pace perpetua con San Gimignano. Nel 1239 Colle riconobbe a Pandolfo da Fasanella il ruolo di vicario imperiale, schierandosi apertamente in favore del fronte ghibellino e di Federico II, il quale, pochi anni piú tardi, nel 1245, assicurò protezione a Colle con un diploma. Soltanto la sconfitta di Manfredi a Benevento, nel 1266, spostò decisamente gli equilibri: il 16 maggio 1267, «in plebe Sancti Alberti», il Consiglio Generale del comune giurò fedeltà alla causa guelfa. Solo due anni dopo le milizie guelfe e ghibelline si sarebbero affrontate nella piana di Colle in uno scontro decisivo per gli equilibri di questa importante area di confine tra Siena e Firenze. Lo scorso 17 giugno è ricorso il

Siena

Ancaiano

750° anniversario della battaglia di Colle di Val d’Elsa e, per celebrare l’evento, il locale Comune ha istituito un Comitato Scientifico e un Comitato Organizzatore che si sono occupati dei diversi aspetti. In particolare il Comitato Organizzatore (composto da associazioni del territorio) ha seguito i preparativi e la realizzazione delle rievocazioni storiche e degli eventi di piazza (come cene in costume e visite a luoghi simbolici della città), mentre il Comitato Scientifico ha proposto un calendario di incontri, dibattiti e seminari finalizzati alla conoscenza non tanto della battaglia, quanto del clima politico, culturale e sociale in cui si collocano gli eventi che portarono allo scontro, ovvero la Terra di Colle a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Giacomo Baldini

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battaglie colle di val d’elsa

QUANDO L’ELSA SI TINSE DI ROSSO

D

opo la battaglia di Montaperti (1260), che aveva segnato l’apogeo della potenza ghibellina in Toscana, la situazione si era lentamente, ma inesorabilmente, evoluta in favore dei guelfi. Papa Clemente IV si era assicurato l’appoggio di importanti forze politico-finanziarie, come le grandi case bancarie senesi che, per salvaguardare i propri interessi, erano passate dalla parte guelfa nel giro di pochi anni. Dopo la defezione dal campo ghibellino di famiglie importanti (come i Tolomei, i Salimbeni e i Piccolomini), il populus, che a Siena aveva sempre sostenuto i seguaci dell’impero, non aspettava che il momento favorevole per sbarazzarsi di entrambi i partiti, cosí da assumere da solo il governo della città. A Colle, dove i guelfi erano riusciti a cacciare i ghibellini fin dal 1267, la situazione presentava aspetti diversi: il popolo era sempre stato dalla parte dei seguaci del papa, perché le diverse condizioni economiche facevano gravitare questo centro piú verso Firenze (guelfa) che non verso

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Siena (ghibellina); inoltre, si sperava in una decisiva sconfitta dei Senesi che avrebbe probabilmente consentito di entrare in possesso di alcuni territori in Val di Strove, da tempo fonte di aspri contrasti. Neppure la sconfitta di Tagliacozzo e la morte di Corradino di Svevia (1268) avevano avuto in Toscana quel contraccolpo immediato che si sarebbe potuto attendere da un evento di tale portata. È vero che diverse terre e castelli, che avevano giurato fedeltà e obbedienza allo Svevo, dopo la sua morte, erano passate ai suoi nemici, ma Siena e Pisa si trovavano ancora saldamente nelle mani dei fautori dell’impero. Anzi, il pericolo incombente aveva fatto sí che le due città si fossero maggiormente avvicinate, rinsaldando i patti di amicizia e di reciproco aiuto giurati negli anni precedenti. Intanto, verso la fine del 1268, quale vicario del re Carlo d’Angiò, era arrivato in Toscana Jean Britaud (messer Giambertaldo nelle fonti fiorentine), scortato da un forte numero di cavalieri francesi. Per Siena il

maggior pericolo proveniva però dai fuorusciti guelfi, che non lasciavano nulla di intentato per rientrare da vincitori nella loro città. Punta avanzata dei guelfi nel territorio senese, avevano fatto di Colle di Val d’Elsa il loro centro di raccolta. Da qui, con cavalcate improvvise, si muovevano a devastare le terre dei loro avversari, arrivando spesso fin sotto le mura cittadine. Queste incursioni nuocevano, oltre che per i danni che apportavano agli uomini e alle cose del contado, anche per le conseguenze politiche: terre e castelli di Siena (o sotto il suo potere) tendevano a staccarsi, per avvicinarsi alla fazione che, al momento, sembrava prevalere. In città Provenzano Salvani era luglio

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Nella pagina accanto Madonna col Bambino e i santi Giuseppe, Giovanni Battista, Cosma e Damiano e i beati Alberto da Chiatina e Pietro Gargalini (particolare), olio su tela di Simone Ferri da Poggibonsi. 1581. Colle di Val d’Elsa, Museo San Pietro. Nel dettaglio qui riprodotto si vede il beato Alberto che consacra alla Vergine l’imago urbis di Colle di Val d’Elsa. A sinistra Provenzano Salvani raccoglie le elemosine in Piazza del Campo, olio su tela di Amos Cassioli. 1873. Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Capitano del Popolo.

il piú deciso assertore del rifiuto a ogni trattativa, convinto sostenitore della lotta a fondo contro i fuoriusciti e i ribelli: infatti se avessero atteso ancora, i ghibellini sarebbero andati incontro a sicura rovina, sia per la montante forza guelfa, sia per l’inevitabile logoramento a cui erano sottoposti nelle continue scaramucce. Al contrario, se fossero riusciti a espugnare Colle, avrebbero inferto un duro colpo ai guelfi toscani, scacciandoli da un territorio strategicamente importante. Pur potendo contare sugli alleati tedeschi guidati dal conte Guido Novello e sui cavalieri spagnoli di don Arrigo di Castiglia, Siena aveva chiesto aiuto anche a Pisa: il patto

MEDIOEVO

luglio

di alleanza entrava cosí in funzione e i ghibellini pisani, con i Tedeschi al loro soldo, mossero contro Colle. Gli accordi furono presi in gran segreto, ma i preparativi non passarono inosservati. Le spie guelfe avevano cominciato a controllare i movimenti degli armati pisani e avevano poi seguito l’esercito fin sotto le mura di Colle.

Gli eserciti in marcia

Partito da Poggibonsi, dove si era acquartierato per rifornirsi, il contingente pisano aveva preso la via Romea e, passando sotto Castiglion Ghinibaldi (vedi box alle pp. 40-41), aveva raggiunto Monteriggioni, dove era ad attenderlo il grosso delle

forze senesi. Congiuntisi, i ghibellini avevano ripreso insieme la marcia che avrebbe dovuto condurli in breve tempo su Colle. L’esercito ghibellino si era messo in marcia su questa strada, ponendo gli alloggiamenti a Bigozzi, castello poco distante da Strove; da qui si era portato a Borgo d’Elsa per giungere lungo il corso dell’Elsa alla Badia di Spugna, posizione considerata favorevole per l’accampamento. I Colligiani e i fuoriusciti senesi non erano restati senza soccorsi. In quei giorni si trovava in Valdelsa il fiorentino Neri de’ Bardi, già podestà di Colle tra il dicembre 1268 e il maggio 1269, che, a capo di duecen(segue a p. 44)

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BADIA DI SPUGNA

Luoghi e simboli Dopo il trionfo ghibellino a Montaperti del 1260, la battaglia di Colle di Val d’Elsa fu il primo decisivo passo verso la definitiva sconfitta del fronte ghibellino in Toscana. Per questo ha acquistato un valore che va ben oltre la reale portata degli eventi che i contemporanei si trovarono a vivere in quei giorni di metà giugno del 1269. Se tutti i cronisti concordano sui luoghi in cui gli eserciti si accamparono e indugiano anche su particolari cruenti della vicenda, come la morte di Provenzano Salvani, nessuno parla del luogo dello scontro, alimentando le piú disparate congetture degli studiosi. Per alcuni la battaglia avvenne nel Piano delle Grazie a ovest delle mura di Colle, al lato opposto, cioè, da quello in cui si trovavano gli accampamenti ghibellini; per altri, invece, il combattimento non si svolse nelle immediate vicinanze di Colle «bensí in quella pianura tra Colle e Monteriggioni, denominata Piano di Sant’Antonio, in prossimità di Castiglion Ghinibaldi». Quest’ultima ipotesi, però, che non ha alcuna base storica o documentaria a supporto, è influenzata dal ruolo svolto da Sapia, la nobildonna senese immortalata da Dante nella Commedia. Secondo la vulgata, infatti, Sapia gioí della strage dei suoi concittadini da Castiglion Ghinibaldi, dimora del marito Ghinibaldo Saracini posto su quel breve tratto della via Romea fra Staggia e Monteriggioni. Tuttavia, accettare che lo scontro sia avvenuto nel Piano di Sant’Antonio, significherebbe ipotizzare, vista la distanza da Colle, una vera e propria ritirata dell’esercito ghibellino, piuttosto che un semplice cambiamento di posizione. In questa prospettiva, inoltre, sarebbe venuta meno la sorpresa, ovvero una componente fondamentale per la vittoria guelfa. Occorre poi notare che, se l’esercito ghibellino si fosse ritirato verso il Piano di

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PIANO DI SAN MARZIALE

TORRE DI ARNOLFO

LO SPUNTONE BASTIONE DI SAPIA

COLLE DI VAL D’ELSA ALLA FINE DEL XV SECOLO

Sant’Antonio, sarebbe andato a cacciarsi in un vero e proprio vicolo cieco privandosi di ogni possibilità di manovra poiché quella zona era in gran parte paludosa. I guelfi, inoltre, seguendo la strada già percorsa dai ghibellini per arrivare a Colle, avrebbero potuto tagliar loro facilmente la strada verso le mura amiche, con effetti facilmente prevedibili. Considerando poi che il grosso dell’esercito ghibellino era disposto presso la Badia di Spugna e chiudeva a semicerchio il Borgo Nuovo (l’attuale Colle Bassa) – certamente il punto piú debole delle fortificazioni colligiane (per la posizione in pianura e il tipo di fortificazione) – e che le

forze guelfe asserragliate in Colle si erano mosse quando i ghibellini avevano iniziato lo spostamento dell’accampamento per attestarsi in un luogo piú sicuro, sembra evidente che l’unico punto in cui possa essersi svolta la battaglia sia nel piano che unisce Colle a Gracciano, risalendo lungo il corso del fiume. Tale ipotesi è stata recentemente confermata anche dalla storia manoscritta di ser Giovanni Bardi, che, ancora nel XVI secolo, definisce il Piano di San Marziale come planities proelii. Per quanto riguarda il luogo da dove Sapia avrebbe visto la «caccia», non sembra che esistano validi motivi per luglio

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ritenere che la gentildonna senese si trovasse in Castiglion Ghinibaldi. Se si ammette che lo scontro si sia svolto nel piano di San Marziale, non è pensabile che l’inseguimento alle truppe ghibelline si sia protratto fino a essere visibile dalle mura di Castiglion Ghinibaldi, sia per la natura del terreno, sia perché i guelfi, in numero troppo inferiore, non avrebbero osato inseguire tanto lontano i loro nemici che avevano ancora forze sufficienti per mutare quella sconfitta in una vittoria. Del resto, i Pisani e i Tedeschi, poco prima del loro congiungimento con l’esercito senese, erano passati proprio sotto le mura della rocca di Ghinibaldo Saracini e sembra strano che non abbiano voluto espugnarla. Ma l’evidenza apparentemente piú incredibile è che Sapia, nemica acerrima dei ghibellini e del loro capo Provenzano Salvani, abbia potuto vivere indisturbata in pieno territorio senese e in una posizione strategicamente rilevante come quella di Castiglion Ghinibaldi, che dominava la via di comunicazione piú importante fra Siena e Firenze. Questi dubbi, che non sono bastati a mettere in dubbio la secolare credenza popolare circa la permanenza di In alto Colle di Val d’Elsa. La torre detta «di Arnolfo». Nella pagina accanto ricostruzione di Colle di Val d’Elsa cosí come doveva presentarsi alla fine del XV sec. A sinistra Scontro a San Marziale, bozzetto preparatorio per un affresco di Gino Terreni. 1996. Colle di Val d’Elsa, Museo San Pietro.

MEDIOEVO

luglio

Sapia a Castiglion Ghinibaldi, sono stati fugati dal ritrovamento di un documento del Comune di Siena del 1268 relativo a un pagamento effettuato al castellano e ai suoi dieci «masnadieri» per la guardia a Castiglion Ghinibaldi, a conferma del fatto che, già un anno prima dello scontro, il presunto avamposto guelfo in terra ghibellina era già saldamente in mano senese. È presumibile, quindi, che Sapia, a seguito della supremazia guelfa a Colle, avesse spostato la sua residenza proprio a Colle, come avevano fatto in gran numero i fuoriusciti guelfi e che da questo luogo avesse avuto modo di vedere sia la battaglia, sia l’inseguimento delle forze ghibelline in fuga. Curzio Bastianoni

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battaglie colle di val d’elsa Luoghi e simboli

Sapia Salvani: tra mito e realtà storica... Sapia Salvani è non solo, per usare le parole di Momigliano, «uno dei piú complessi e delicati impasti di ritratto della Divina Commedia», ma soprattutto una delle figure piú sfuggenti del testo dantesco, costretta tra la plastica rappresentazione delle passioni umane (peccatrice invidiosa e blasfema) e l’immagine di donna pia, ricolma di carità cristiana, come, al contrario, traspare dai pochi tratti biografici tramandati dalle fonti. Quando Dante scrisse le pagine della Commedia, Sapia era morta da pochi decenni e doveva essere ancora vivo il suo ricordo nei familiari e nelle persone che l’avevano conosciuta. Ma la sua figura si è presto persa nelle nebbie della leggenda, tanto che già i primi commentatori della Commedia, nel cercare di ricostruire la prosopografia del personaggio, suggerirono diverse identificazioni, fino a che il geografo e storico Emanuele Repetti (1776-1852), parlando di Castiglion Ghinibaldi, indicò in Sapia, nata Salvani, la moglie di Ghinibaldo Saracini, signore di quel castello. Anche l’arte dimentica la nobildonna senese, almeno fino al XIX secolo. Solo nel corso dell’Ottocento, in concomitanza con la riscoperta dei personaggi danteschi, la memoria di Sapia sembra emergere nuovamente proprio là dove la tradizione popolare aveva immaginato la donna affacciata a uno spalto o a una finestra per vedere la fuga dei Senesi dopo la sconfitta del 1269, ovvero a Colle di Val d’Elsa. Secondo lo storico fiorentino Luigi Biadi, autore di una Storia della Città di Colle di Val d’Elsa, Sapia morí a Colle, non si sa se per inedia o strangolata non lontano da quel bastione che ancora oggi porta il suo nome, che Antonio Salvetti fissò nel 1929 in una delle pagine piú alte della sua pittura verista e naturalista. In realtà, grazie agli studi di Alessandro Lisini degli anni Venti del XX secolo, conosciamo alcuni importanti elementi della sua vita, che consentono di recuperarne la memoria storica, attraverso i luoghi in cui visse o che sono legati alla sua vicenda terrena, restituendo una dimensione umana, fisica, quasi terrena a quella che,

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grazie ai versi immortali di Dante, è divenuta, suo malgrado, rappresentazione allegorica di come le umane passioni, se portate all’estremo, possano allontanare dagli affetti piú cari, come l’amore per la famiglia e, soprattutto, per la patria. Nacque Salvani e si sposò con Ghinibaldo Saracini, insieme al quale aprí uno «spedale» lungo la strata Francigena per l’accoglienza dei pellegrini e dei bisognosi, ai piedi della loro residenza di Castiglion Ghinibaldi nei pressi di Monteriggioni. Presa dal vortice degli scontri tra guelfi e ghibellini, sappiamo che, a seguito della morte del marito (1268), si trasferí prima a San Gimignano e poi a Colle, dove ebbe modo di assistere alla battaglia del 1269. Dopo la cacciata dei ghibellini da Siena, la nobildonna rientrò in città, nella residenza nel Popolo di San Donato, già di proprietà del Saracini, dove morí nel 1274, come testimonia il suo testamento. Ripercorrere la vita di Sapia significa, quindi, fare un viaggio nella storia della Valdelsa del XIII secolo, ma anche tuffarsi nei miti e nelle leggende che hanno avvolto questa figura letteraria: i luoghi di Colle collegati al suo nome scoprono cosí il velo su questa donna che fu madre, restituendole una dimensione umana, fisica. In questo senso la Torre di Arnolfo, simbolo di Colle di Val d’Elsa, posizionata proprio nella zona da cui, verosimilmente, la nobildonna vide la caccia dei Senesi, rappresenta il luogo della memoria dove ritrovar Sapia, anche grazie all’opera di Gino Terreni, che trasformò la torre nel suo studio d’artista: attraverso un’arte fortemente espressionista, il maestro è riuscito a restituire carne e sangue all’icona letteraria straordinariamente fissata nei versi di Dante. Giacomo Baldini

In alto, sulle due pagine Episodi di Sapia, affresco di Emilio Ambron. 1952 circa. Siena, Accademia Musicale Chigiana. Nella pagina accanto Bastione di Sapia, olio su tela di Antonio Salvetti. 1929. Colle di Val d’Elsa, Museo San Pietro. luglio

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...e tra letteratura e arte Sapia Salvani è anima protagonista del canto XIII del Purgatorio di Dante. Fortemente caratterizzata, la sua figura emerge con tratti molto sofferti e risentiti, quale interprete dell’invidia. Peccò sí tanto d’invidia da giungere all’insania. Nonostante il nome, infatti, la zia paterna di Provenzano Salvani, capo della parte ghibellina, già incontrato da Dante fra i superbi (canto XI), non fu «savia» nell’augurarsi la sconfitta dei propri concittadini senesi guidati dal nipote Provenzano nella battaglia di Colle (vv. 109-111): «Savia non fui, avvegna che Sapia fossi chiamata, e fui delli altrui danni piú lieta assai che di ventura mia». Sapia ha i connotati degli invidiosi, i quali, costretti a vestire panni ispidi e pungenti di cilicio dal colore spento, si sostengono fiacchi l’un altro con un atteggiamento di affetto reciproco, contrario al sentimento provato in vita. Ma il dettaglio iconografico piú forte è il mento alzato, cosí come sogliono fare i ciechi, giacché Sapia ha gli occhi cuciti da un fil di ferro ed è dunque costretta ad alzar la testa per vedere ombre dalle strette fessure in mezzo alle palpebre. Sapia non si illude di essere amata dopo la morte, ma chiede a Dante di «ben rinfamarla» presso i suoi concittadini (vv. 148-150). Quale anima del Purgatorio, il suo desiderio piú grande è la preghiera dei vivi: «E cheggioti, per quel che tu piú brami, se mai calchi la terra di Toscana, che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami». Rispetto ad altri personaggi muliebri danteschi, Sapia non ha avuto una larga «fama» iconografica e si tratta dunque di un soggetto prezioso, raro. Al tema, nel 2018, è stata dedicata una mostra, allestita

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nei suggestivi spazi del Museo San Pietro, promossa dal Comune di Colle di Val d’Elsa e dall’Arcidiocesi di Siena, Colle di Val d’Elsa e Montalcino con la partecipazione e organizzazione di Opera-Civita. L’esposizione ha raccolto le testimonianze di miniatori, incisori, scultori e pittori, interpreti di una figura non convenzionale che, per i caratteri di umana fragilità con cui è delineata, può considerarsi una sorta di antieroina della storia medievale senese. Fra coloro che ne hanno tramandato l’immagine si segnalano il pittore Adeodato Malatesta (1806-1891), il grande incisore francese Gustave Doré (1832-1883), lo scultore Fulvio Corsini (1874-1938) ed Emilio Ambron (19051996), autore di uno straordinario ciclo dedicato alla figura dantesca nel Palazzo Chigi Saracini a Siena (vedi foto in alto, sulle due pagine). La mostra, che ha dato avvio alle celebrazioni del 750º anniversario della battaglia di Colle, è stata anche l’occasione per esporre le opere raffiguranti questa tematica dipinte da Gino Terreni (1925-2015), poliedrico artista afferente all’espressionismo, e generosamente donate dagli eredi al Comune di Colle. La sua visione di Sapia è quella di una figura nuda che infierisce, con toni teatrali e angosciosi, contro i suoi concittadini. Un dramma femminile che si riscontra anche nelle donne sugli spalti che assistono allo scontro tra le truppe senesi e fiorentine nella piana di San Marziale. Sebbene la mostra si sia conclusa, in una delle sale della collezione permanente del Museo San Pietro, si può ammirare ancora il dipinto di Antonio Salvetti raffigurante il Bastione di Sapia (foto qui sopra), che è stato fulcro dell’itinerario di esposizione e dove, secondo una leggenda del tutto priva di fondamento, Sapia sarebbe morta strangolata. Marilena Caciorgna

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battaglie colle di val d’elsa A sinistra La battaglia di Colle, xilografia di Gino Terreni. Fine del XX sec. Colle di Val d’Elsa, Museo San Pietro. In basso miniatura raffigurante la sconfitta dei Senesi a Colle di Val d’Elsa, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

to cavalieri, accorse subito in aiuto degli assediati. Ma anche a Firenze si stavano prendendo contromisure. Raggiunto dalla notizia dell’imminente attacco senese a Colle la sera di venerdí 14 giugno, il Consiglio si riuní la mattina successiva, deliberando che tre sestieri della città si armassero e muovessero subito contro il nemico. Le cronache sono discordi sul luogo dove si trovava in quei giorni Jean Britaud, uno dei protagonisti della battaglia: alcuni sostengono che il conestabile, già in Valdelsa, si diresse a Colle non appena l’esercito senese si fu accampato alla Badia di Spugna, mentre Giovanni Villani riporta che Britaud partí il sabato mattina da Firenze con i suoi quattrocento cavalieri francesi, arrivando a Colle in giornata. Il giorno della battaglia le forze della cavalleria in Colle dovevano ammontare ai 400 Francesi del Britaud, ai 200 Fiorentini di Neri de’ Bardi e a un numero imprecisato – intorno ai 200 – di fuoriusciti e di colligiani. L’esercito ghibellino, forte di 1400 cavalieri e 8000 fanti, era frattanto ancora accampato presso la Badia di Spugna in attesa di portare un attacco generale alle mura. La battaglia fu combattuta lunedí 17 giugno 1269, giorno dedicato alla traslazione di san Bartolomeo. Ai

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ghibellini cominciarono ad arrivare notizie allarmanti sui movimenti dell’esercito fiorentino, che si stava avvicinando a marce forzate. Preoccupati per la posizione sfavorevole in cui si sarebbero venuti a trovare se attaccati, essi pensarono di spostare gli accampamenti risalendo dalla sponda dell’Elsa sulle collinette vicine sulla destra del fiume. Tutti i cronisti concordano sul primo luogo nel quale si accampò l’esercito dei Senesi, tacendo, al

contrario, su quello dove avvenne lo scontro, precisando soltanto che i ghibellini tentarono di portarsi «in piú salvo luogo». Grazie a studi recenti, possiamo asserire che la battaglia si svolse nel Piano di San Marziale: la conferma è arrivata dal ritrovamento di un documento d’archivio, la storia manoscritta di ser Giovanni Bardi, che, ancora nel XVI secolo, indica il Piano di San Marziale come planities proelii. Figura centrale della vicenda è Sapia Salvani, la nobildonna senese immortalata da Dante nella Divina Commedia: la sua gioia per la sconfitta dei suoi concittadini, tanto audace da trasformarsi in lacerante blasfemia, le causò l’inserimento nella cornice degli invidiosi (vedi box a p. 43). Con l’esercito fiorentino anco-

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ra distante da Colle, le forze che si fronteggiavano avevano una consistenza assai diversa. Davanti ai guelfi, che ammontavano a 800 cavalieri e a qualche centinaio di pedoni, stavano i 1400 cavalieri e gli 8000 fanti ghibellini. Come spiegare allora una sconfitta di tale portata? La maggior parte di colpa per questo tracollo è forse da attribuire all’imprevidenza dei capi e a una quasi completa mancanza di animus pugnandi di alcuni gruppi dell’esercito, in special modo di quelli che facevano capo al comandante Guido Novello, il quale, infatti, riuscí a fuggire insieme alla maggior parte della cavalleria tedesca.

La mossa migliore

Lo spostamento del campo verso le collinette che si trovano sulla riva destra del fiume, per evitare di essere presi alle spalle e restare chiusi nella morsa dei guelfi, era la mossa migliore, per controllare agevolmente la strada per Siena, utile via di scampo per ogni evenienza. L’errore consistette nella fretta di spostare il campo e nella sottovalutazione delle forze che si trovavano in Colle. In alto Colle di Val d’Elsa. Il Palazzo del Campana visto dall’omonimo ponte.

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In basso Colle di Val d’Elsa. Veduta del Castello da Spugna: in primo piano la torre detta «di Arnolfo».

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battaglie colle di val d’elsa Didascalia Colligiani aliquatur adi odis

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Culla di artisti e letterati que Nel verovortice ent qui di politica e religione, guerre e scontri che videro doloreium conectu guelfi e ghibellini tra la seconda metà del XIII e contrapposti rehendebis eaturXIV secolo si collocano le vicende degli uomini e delle l’inizio del tendamusam donne del tempo. Tra di loro anche artisti e letterati. Al colligiano Arnolfo di consent, perspiti Cambio spetta un posto di primo piano, per il valore che riveste nella storia conseque dell’artenismedievale a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Nato probabilmente negli maxim anni eaquis Quaranta del XIII secolo, affiancò Nicola e Giovanni Pisano a Pisa e a earuntia Siena,cones esperienza nella quale acquisí un ruolo fra le maestranze impegnate apienda. in questi importanti cantieri e grazie alla quale riuscí a elaborare un proprio,

personale linguaggio artistico. Poco conosciamo della sua vita: non sappiamo, nei torbidi anni degli scontri tra le opposte fazioni dei seguaci del papa o dell’imperatore, per quale schieramento parteggiasse, anche se la sua vicinanza a Carlo d’Angiò e alla curia romana, per i quali lavorò tra il 1277 e il suo ritorno in Toscana per la fabbrica di S. Reparata (1306), potrebbe suggerire una vicinanza alla causa guelfa. Di sicura fede ghibellina e coevo di Arnolfo fu invece Mino da Colle: notarius (notaio), magister e gramaticus (insegnante di grammatica), appartiene a quella schiera di letterati e poeti che fecero della lotta politica un modus vivendi, lasciandone traccia anche nei propri scritti, spesso sotto forma di invettiva. Non colligiano di nascita, ma importantissimo per la fama che dette a questa terra, Dante Alighieri ricordò Colle nel canto XIII del Purgatorio. Proprio attorno alla figura del poeta fiorentino si riuní un sodalizio di seguaci, che individuarono nello stile del «padre Dante» la cifra del loro poetare: tra questi il colligiano Gano di Lapo de’ Pasci, fiorito attorno alla metà del XIV secolo e il pisano Fazio degli Uberti, che nel Dittamando (libro III, canto 8) parlò di Colle a proposito della durezza delle acque del fiume Elsa. Arte e letteratura medievale che hanno lasciato profondi segni nella tradizione toscana, come è evidente dal richiamo ad Arnolfo di Cambio fatto da Giacomo Puccini nel Gianni Schicchi, opera comica rappresentata a New York la prima volta nel 1918, o nella tradizione del canto popolare: proprio alla battaglia di Colle è dedicato l’ultimo bruscello (una forma di teatro popolare toscano, n.d.r.), scritto negli anni Ottanta del XX secolo. Giacomo Baldini

Busto di Arnolfo, gesso del 1865 di Reginaldo Bilancini da cui è stata ricavata la colata in bronzo. Colle di Val d’Elsa.

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In alto particolare di un affresco raffigurante cavalieri alla conquista di un castello in Terra Santa (già identificato nella città fortezza di Acri). Scuola senese, seconda metà del XIV sec. Colle di Val d’Elsa, Sala di Sant’Alberto.

Jean Britaud, infatti, avendo avuto notizia che i ghibellini erano in procinto di spostare gli accampamenti, fece uscire in segreto le fanterie colligiane e le dispose nei boschi alle spalle dei Senesi, per muovere improvvisamente con la cavalleria verso il campo nemico e attaccare contemporaneamente alle fanterie nascoste, provocando la rotta del nemico. Si riporta la notizia che, con una mossa audace, il vicario francese fece tagliare il ponte sull’Elsa subito dopo il passaggio dei suoi cavalieri, per impedire ogni possibilità di ritirata. Il combattimento fu rapido, ma cruento. Solo pochi, e fra questi Provenzano Salvani, si opposero con le armi ai guelfi: tutti gli altri si preoccuparono soltanto di salvare luglio

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Da leggere Duccio Balestracci, La battaglia di Montaperti, Laterza, Bari-Roma 2017 Curzio Bastianoni, La battaglia di Colle, Colle di Val d’Elsa 2017 Anna Benvenuti (a cura di), Sant’Alberto di Colle, Mandragora, Firenze 2005 Marilena Caciorgna, Marcello Ciccuto (a cura di), Savia non fui. Dante e Sapia fra letteratura e arte, catalogo della mostra, Sillabe, Livorno 2018 Paolo Cammarosano, Storia di Colle di Val d’Elsa nel Medioevo. 1. Dall’età romanica alla formazione del Comune, CERM, Trieste 2008 Paolo Cammarosano, Storia di Colle di Val d’Elsa nel medioevo. 2. Colle nell’età di Arnolfo di Cambio, CERM, Trieste 2009 Renzo Ninci, Colle Val d’Elsa nel medioevo. Legislazione, Politica, Società, Il Leccio, Monteriggioni 2003 Gabriella Piccinni (a cura di), Fedeltà ghibellina, affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla storia di Siena tra Due e Trecento, Pacini Editore, Pisa 2008 Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di Giuseppe Porta, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, Parma 1990

la propria vita fuggendo. I cronisti, sia di parte senese che fiorentina, concordano sulle cifre delle perdite, accreditandole come verosimili: circa mille i combattenti che trovarono la morte, mentre oltre milleseicento furono fatti prigionieri. L’intero accampamento dei Senesi venne distrutto: le loro insegne e quelle dei Tedeschi furono trascinante per terra. Soltanto al gonfalone che si trovava sul carroccio non fu riservato un simile trattamento perché vi era raffigurata la Madonna. Fu invece portato a Firenze ed esposto prima in Piazza e poi in S. Giovanni. A pagare piú duramente la sconfitta fu Provenzano Salvani, il piú intransigente fautore dell’impresa, ma anche il piú valoroso combattente. Fu ucciso infatti da un fuoruscito senese, Cavolino (o Regolino) Tolomei, e la sua testa, staccata dal busto e infissa sopra una picca, fu portata in giro per il campo senese per poi essere issata sulle mura di Colle ad ammonimento dei ghibellini sene-

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si. Si avverava cosí la profezia che un indovino gli aveva fatto e che era stata dettata, fu detto, dal diavolo stesso: che la sua testa sarebbe stata la piú alta nel campo.

Lo spettro della fine

Con la battaglia di Colle, che fu considerata dai guelfi come la rivincita di Montaperti, naufragarono le residue speranze ghibelline di allontanare nel tempo lo spettro della fine. I seguaci dell’impero non furono piú in grado di passare all’offensiva e solo una serie di circostanze favorevoli consentí loro di mantenersi al potere per un altro anno. Finito questo scontro, i contendenti non furono in condizione di riprendere la lotta. Invano gli esuli senesi spostarono il loro campo piú vicino a Siena, a Lucignano d’Arbia; invano mossero con successive spedizioni a distruggere quel poco che restava. Anche l’esperienza del controgoverno di Cortona, nato sotto la protezione di Ugo il Forte di Fornoli, non ebbe possibilità di successo e

la sua azione può essere considerata conclusa già nel 1272. Jean Britaud con i suoi cavalieri francesi tornò in una Firenze pronta per la controffensiva a Pisa, accorrendo in soccorso dei Lucchesi, senza il supporto degli altri piccoli comuni guelfi alleati (come Colle), ormai stremati e impossibilitati a mantenere gli uomini validi sotto le armi: si preannunciava la carestia; le campagne spopolate e arse non erano in grado di dare raccolti a sostegno della popolazione e delle truppe. Allontanatosi il pericolo, i comuni ripresero la loro politica grettamente municipale, guardando ai propri interessi contingenti piú che a quelli della parte. In questo clima, solo una trattativa consentí ai fuorusciti di rientrare nella loro città e i guelfi, fatti prigionieri dai Senesi nella battaglia di Montaperti, poterono finalmente riacquistare la libertà dieci anni dopo «lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso». Curzio Bastianoni

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Le crociate dopo le

di Riccardo Facchini e Davide Iacono

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Nel 1095 papa Urbano II chiamò le forze della cristianità a prendere le armi contro gli «infedeli» e diede cosí inizio alla stagione delle crociate, che si protrasse fino al XIII secolo. Ma gli ideali della «guerra santa» hanno conosciuto vasta fortuna anche nelle epoche successive, fino a essere sinistramente rievocati da fanatici e terroristi

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ella primavera del 1291 cadeva San Giovanni d’Acri, l’ultimo baluardo cristiano in Terra Santa. L’evento segnò la fine delle crociate in Oriente. Nei secoli a seguire esse si riproposero, piú o meno esplicitamente, ogni qual volta la minaccia ottomana in Europa si faceva piú pressante. Fino al Settecento dei Lumi, quando l’importanza attribuita al pensiero razionale, alla tolleranza religiosa e all’anticlericalismo, contribuií definitivamente al tramonto del mito della crociata. Filosofi e storici – Voltaire, Gibbon e Hume – liquidarono le crociate come una barbara follia medievale; come un dispendioso e inutile sforzo, portato avanti da avidi briganti o da una Chiesa ingannatrice. Durante l’Ottocento romantico, invece, le crociate furono riabilitate, insieme ai secoli di Mezzo. A metà strada tra medievalismo e orientalismo, il mito della crociata si rivelò utile per sostanziare le nuove ideologie nazionali e coloniali. In particolare, fu la campagna egiziana di Bonaparte del 1798-1799 – la prima invasione occidentale del Levante dai tempi di san Luigi IX – a riattivare l’immaginario europeo. Paradossalmente, mentre Napoleone poneva fine all’ultimo Stato crociato, con i Cavalieri di San Giovanni a Malta che si arrendevano al passaggio dell’armata francese, l’Europa tornava a sognare guerre sante e cavalieri in marcia verso l’Oriente. Il nuovo approccio alle crociate si discostava da quello illuminista grazie a un esercizio spesso immaginativo, speculativo, tipico della sensibilità dell’epoca. Mentre l’illuminismo aveva «respinto» la religione come materia superstiziosa e causa di fanatismo, ora la prospettiva cambiò nuovamente. Infine, l’Islam in generale e il dominio turco in particolare, erano denigrati, persino demonizzati come violenti, corrotti, decadenti; antitetici alla libertà, al progresso e alla civiltà.

La presa di Costantinopoli da parte dei crociati (12 aprile 1204), noto anche come L’ingresso dei crociati a Costantinopoli, olio su tela di Eugène Delacroix. 1841. Parigi, Museo del Louvre.

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costume e società A sinistra La battaglia di Ascalona, 18 novembre 1177 (particolare), olio su tela di CharlesPhilippe-Auguste de Larivière. 1842 circa. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. In basso Luigi Filippo, la regina, il re Leopoldo I e la regina dei Belgi visitano la grande Sala delle Crociate, luglio 1844, olio su tela di Prosper Lafaye. 1844. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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Tra i piú influenti sostenitori di un recupero positivo delle crociate vi fu François-René Chateaubriand (1768-1848). Monarchico e riconvertito al cattolicesimo, Chateaubriand sviluppò in particolare le sue idee sul tema nell’Itinerario da Parigi a Gerusalemme, un resoconto di un viaggio pubblicato nel 1811. L’autore, il cui viaggio culminava nell’investitura a cavaliere del Santo Sepolcro, rifiutava l’aridità dei philosophes, mettendo al centro il potere edificante della religione e della fede; le crociate divennero cosí una missione cristiano-culturale dell’Occidente europeo a fronte di un decadente mondo musulmano e vicino-orientale.

«Una rivoluzione felice»

In quegli stessi anni lo storico Joseph-François Michaud sviluppò una storia delle crociate basata su fonti primarie, spogliate dalla critica protestante o dallo sdegno illuminista. Attraverso una narrativa potente, costruita su un uso acritico delle fonti rafforzate da voli immaginifici, la monumentale Histoire des croisades (scritta tra il 1811 e il 1822) costituí un successo letterario e accademico. Fervente monarchico, Michaud credeva che la crociata fosse stata, anche se un sostanziale fallimento militare, una ricchezza, un orgoglio e «una rivoluzione felice» per tutte le nazioni europee in essa coinvolte. La barbarie delle popolazioni occidentali non assomigliava in alcun modo a quella di Turchi e Bizantini, intrappolati in mentalità religiose e costumi che negavano ogni speranza di progresso: gli Occidentali possedevano invece l’onore e la cavalleria che incoraggiavano la giusti-

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zia e la virtú. L’opera di Michaud ebbe una tale forza da influenzare addirittura la storiografia post-romantica sulle crociate, incarnata da autori come René Grousset, Carl Erdmann e Steven Runciman. In questo clima di rinnovato spirito crociato i Francesi invasero e conquistarono l’Algeria nel 1830, in una campagna descritta come erede della crociata di san Luigi IX a Tunisi del 1270, mentre nel 1843 si aprivano le Salles des Croisades del castello di Versailles, volute da re Luigi Filippo. Le crociate diventarono parte del patrimonio nazionale francese, tanto che tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, la Société de l’Orient latin avviò, con il sostegno di Napoleone III, una vasta raccolta di fonti crociate nota come Recueil des historiens des croisades. Nel pieno del revival cavalleresco che caratterizzò l’Inghilterra vittoriana, il tema della crociata era stato letto nel contesto dell’espansione dell’impero britannico in Oriente. Il tema aveva affascinato il futuro primo ministro Benjamin Disraeli, il quale, di ritorno da un viaggio in Terra Santa sulle orme dei crociati, scrisse il libro Tancred or The New Crusader (1847), in cui emergevano gli ideali neo-cavallereschi del movimento conservatore della Young England di cui era a capo. Nel 1856, l’orgoglio nazionale britannico arrivò a celebrare il re crociato per eccellenza, Riccardo I d’Inghilterra, con una colossale statua eretta fuori il Palazzo di Westminster. Nell’Italia, coinvolta nelle guerre d’Indipendenza, il richiamo alla crociata stimolava l’orgoglio guerriero, divenendo metafora del riscatto nazionale. Cosí nell’opera di Giuseppe Verdi I Lombardi alla prima crociata (1843), ispirata a un poema di Tommaso Grossi, i patrioti erano i crociati che dovevano liberare l’Italia/Terra Santa dagli invasori austriaci/saraceni. Fu lo stesso poema di Grossi a ispirare a Francesco Hayez La sete patita dai crociati sotto Gerusalemme, un’opera monumentale commissionatagli nel 1833 dal re-cavaliere Carlo Alberto di Savoia per il palazzo Reale di Torino. In Belgio, invece, il neonato regno – istituito dopo la ribellione nel 1830 contro il Regno Unito dei Paesi Bassi – si raccoglieva attorno alla figura di Goffredo di Buglione, che diveniva un mito unificatore per un Paese diviso tra Fiamminghi e Valloni. Un’impressionante statua equestre dedicata al difensore del Santo Sepolcro veniva allora innalzata nel 1848 davanti al Palazzo Reale di Bruxelles, con lo scopo di creare una coscienza nazionale all’ombra delle glorie del passato. Fu però durante la Grande Guerra che si assistette a un uso sistematico delle categorie di «crociata» e «guerra santa». La propaganda fece leva nell’identificazione del cavaliere crociato con il soldato per legittimare un esercizio giusto, divino, della violenza e della conquista. Cosí la brutale guerra di trincea si trasformava in una nobile lotta, combattuta in difesa della libertà e della

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In alto manifesto di propaganda della Legione dei volontari francesi che fa appello a una «grande crociata» contro il bolscevismo. 1939-1945. In basso il Crac des Chevaliers in un manifesto di promozione turistica realizzato da Jean-Picart Ledoux. 1935.

giustizia contro la barbarie, per impedire, per esempio, al militarismo prussiano di dominare l’Europa e liberare i Luoghi Santi dalla dominazione turca. Soprattutto i britannici «War Memorials», sparsi per il Commonwealth, presentavano i soldati come novelli crociati caduti in nome della buona causa o vegliati da vetrate raffiguranti san Giorgio, san Michele, san Luigi IX, Riccardo I, Giovanna d’Arco o re Artú e i suoi cavalieri. A Paisley, in Scozia, uno di questi monumenti fu chiamato The Spirits of the Crusaders, e raffigura un cavaliere a cavallo fiancheggiato da quattro «tommies» (soprannome con il quale venivano chiamati i fanti inglesi della prima guerra mondiale, n.d.r.) che stoicamente arrancano con il capo chino. Anche nel documentario del 1918, Pershing’s Crusaders, il parallelo tra i militari americani e i crociati è esplicito. La ricezione romantico/imperialista del movimento crociato raggiunse il suo grado zero con i mandati di Regno Unito e Francia in Palestina e in Siria dopo la prima guerra mondiale. Il 9 dicembre 1917 il generale Edmund Allenby, capo delle forze di spedizione inglesi, conquistava Gerusalemme togliendola di mano ai Turchi e faceva il suo ingresso nella città. Era dal 1244 che nessun conquistatore occidentale metteva piede nella Città Santa e, per l’occasione, il giornale londinese Punch raffigurò – in una vignetta intitolata significativamente «The Last Crusade» («L’ultima crociata») – Riccardo Cuor di Leone guardare verso Gerusalemme e affermare «My Dream Comes True» («il mio sogno diventa realtà»). L’immaginario della crociata riemerse nel periodo tra le due guerre, in particolare durante la guerra civile

Il Crac des Chevaliers

Un monumento nella Francia d’Oriente L’appropriazione imperialistica del passato crociato è rappresentata perfettamente dal Crac des Chevaliers (il fortilizio costruito dagli Ospitalieri nella contea di Tripoli, tra Tortosa ed Emesa, in Siria, n.d.r.), che, nel novembre 1933, finisce sotto il controllo dello Stato francese. I restauri, una volta terminati, ne fecero una delle principali attrazioni turistiche del Levante francese fino al 1946, anno della conclusione del mandato. Coinvolta nella produzione di una «grande Francia» che si irradiava non solo nello spazio ma anche nel tempo, la fortezza

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degli Ospitalieri era considerata un patrimonio la cui esistenza confermava l’eterna grandezza della civiltà francese e una legittimazione della colonizzazione del Medio Oriente. Allo stesso tempo, però, è importante osservare come le urgenze politiche portarono alla pubblicazione di importanti scritti sulla storia delle crociate e a fare di quell’epoca un’età d’oro per lo studio dei castelli in Terra Santa, come dimostrano i lavori degli storici Camille Enlart (1862-1927) e Paul Deschamps (1888-1974). luglio

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Riccardo I e Saladino alla battaglia di Arsuf, incisione di Gustave Doré per un’edizione della Storia delle crociate di Joseph-François Michaud. 1877. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

in Spagna, dove il caudillo Francisco Franco si accompagnò all’idea di cruzada e al richiamo della Reconquista nell’intento di liberare la Spagna dal comunismo e dall’ateismo. Allo stesso modo l’Italia fascista legittimava l’occupazione dell’Etiopia, oltre che sul solco di Roma antica, come una crociata per la conversione dei copti, mentre a Mogadiscio, in Somalia, la cattedrale, inaugurata nel 1928, era ispirata a quella di Cefalú, simbolo della riconquista cristiana della Sicilia. Durante la seconda guerra mondiale, sicuramente con meno intensità rispetto alla prima, l’immaginario crociato riemerse in particolare in occasione dell’Operazione Barbarossa (che non a caso prese il nome di un imperatore tedesco e crociato). L’invasione della Russia sovietica venne presentata dalla propaganda del Terzo Reich come una «crociata contro il bolscevismo» per la

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libertà dell’Europa. All’appello risposero le brigate di volontari dei vari partiti fascisti dei Paesi collaborazionisti che, come quelle provenienti dalla Francia di Vichy o dal Belgio di Degrelle, si dotarono di un bagaglio eroico neocrociato. Il manifesto della Legione dei volontari francesi contro il bolscevismo recitava per esempio «La Grande Croisade». Negli Stati Uniti il discorso crociatista perdurò nella forma di un messianismo democratico e fu per esempio riutilizzato dal generale Dwight D. Eisenhower, che intitolò Crociata in Europa il resoconto della sua campagna militare.

L’importanza di un mito

Nel 1975 Franco Cardini sottolineava l’importanza dello studio, oltre che della Crociata «storica», anche del mito a essa collegato, che egli vedeva «tanto profondamente radicato nella coscienza e nella cultura dell’Occidente». Tale mito, negli anni del secondo dopoguerra, sembrò affievolirsi rispetto ai decenni fin qui esaminati, ma, in verità, si adeguò ai mutati contesti storici e sociali. Esso abbandonò quasi del tutto il discorso storiografico, che

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iniziò quindi un percorso autonomo, il piú possibile scevro da incrostazioni ideologiche, e si riversò soprattutto nel mondo sociale e politico dell’Occidente. Soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, la mitizzazione della guerra santa non fu però compiuta allo scopo di rivendicare la superiorità dell’Europa/Occidente nei confronti dell’infedele, con il quale, anche a causa del processo di de-colonizzazione, si veniva sempre meno a contatto. Il nemico in funzione del quale il neocrociatismo iniziò a strutturarsi non era il mondo arabo, ma quello comunista, e tale ostilità trovò terreno fertile nel contesto cattolico-tradizionalista, consistente in

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uno sfaccettato movimento – caratterizzato, tra le altre cose, da una forte matrice antisovietica – sviluppatosi in seguito alla chiusura del Concilio Vaticano II, di cui criticava aspramente le aperture alla modernità. Nel 1974, sulle pagine di Cristianità, organo ufficiale del movimento Alleanza Cattolica, compariva infatti un articolo in cui si commentava la necessità di un’azione concreta a favore delle popolazioni oppresse dai totalitarismi di matrice comunista, paragonandola all’aiuto prestato dai crociati ai cristiani d’Oriente. Una simile necessità era ribadita anche in un contributo comparso nel 1982 sulla rivista La Torre. In questo caluglio

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walter scott

Dal romanzo al cinema A colpire l’immaginario romantico sulle crociate non furono però le opere degli storici: musica, arte e letteratura furono influenzate infatti soprattutto dalla storia della prima crociata raccontata da Torquato Tasso e dai cavallereschi romanzi di Sir Walter Scott. Scott in particolare può essere considerata una delle personalità piú influenti nella creazione di un immaginario sul Medioevo e le crociate, che costituiscono lo sfondo o il tema centrale di Ivanhoe (1819), The Talisman e The Betrothed, pubblicati insieme come Tales of the Crusaders (1825). Lavori che ebbero risonanza in tutta Europa con adattamenti teatrali, come l’opera lirica Ivanhoé di Gioacchino Rossini, rappresentata la prima volta al Teatro dell’Odéon di Parigi nel 1826 e alla quale assistette un estasiato Walter Scott in persona. La fortuna di Scott è proseguita sino ai piú recenti adattamenti cinematografici dell’epopea crociata. Ne Le crociate, film del 2005 di Ridley Scott, Saladino è per esempio raffigurato come il romantico cavaliere-gentiluomo (cortese ma temibile in battaglia) delle opere dello scrittore inglese.

In alto costumi per un allestimento dell’Ivanhoé, melodramma basato sul romanzo di Walter Scott con musiche di Gioacchino Rossini, dall’Illustrated London News del 31 gennaio 1891. A destra tavola raffigurante sir Kenneth, re di Scozia (a destra), al cospetto di Riccardo Cuor di Leone, da un’edizione del romanzo The Talisman di Walter Scott. 1887. I personaggi in secondo piano sono Henry Neville e Thomas de Vaux.

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costume e società A sinistra Gerusalemme, 9 dicembre 1917. Le forze di spedizione inglesi, guidate dal generale Edmund Allenby, entrano in città dopo averla strappata ai Turchi. Nella pagina accanto Paisley, Scozia. The Spirits of the Crusaders, monumento che celebra i combattenti della prima guerra mondiale di Alice Meredith Williams. 1922.

so la crociata veniva addirittura presentata come una forma di «vera» Ostpolitik. L’autore auspicava che Giovanni Paolo II, novello Urbano II, «in piedi sulla loggia di S. Pietro, attorniato dai notabili» si rivolgesse «urbi et orbi alle masse di cristiani» affinché si mobilitassero «in direzione della Polonia».

Una categoria da difendere

Il consolidamento dell’identità neo-crociata nel campo cattolico-tradizionalista si verificò però agli albori del XXI secolo, soprattutto a causa dell’ascesa dei fenomeni migratori e ai tragici eventi dell’11 settembre 2001. Al contrario di quanto si possa pensare, non si assistette però nel mondo neocrociato di matrice cattolica, almeno in Italia, a una mitizzazione della guerra santa finalizzata a esacerbare lo scontro di civiltà con l’Islam. La crociata non fu vista tanto come un ideale a cui tendere, quanto come una categoria da difendere al fine di costruire un’identità da opporre, da un lato, al «relativismo» occidentale e, dall’altro, alla «colonizzazione» islamica condotta dalle comunità musulmane insediatesi in Europa. Nel giugno del 2010, per esempio, comparve sulle pagine del quotidiano Il Foglio, una Apologia della Crociata, una sorta di manifesto del neocrociatismo cattolico di stampo tradizionalista. Per l’autore, Roberto de Mattei, la crociata era infatti «una “categoria dello spirito” che non tramonta», non «solo un evento storico circoscritto al Medioevo ma (…) una

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costante dell’animo cristiano». Un punto di vista che ne evidenza l’attività «mitopoietica» svolta nei confronti di alcuni movimenti cattolici che ne hanno fatto un modello di esemplare militanza cristiana. La risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 fu, come ben sappiamo, sia militare che culturale, due aspetti che non possono essere disgiunti. La reazione degli Stati Uniti, prima contro l’Afghanistan e poi, nel 2003, contro l’Iraq, fu infatti caratterizzata da forte tinte medievaliste e tra queste, ovviamente, l’idea di crociata rappresentò un tema fondamentale della propaganda statunitense. Il 17 settembre 2001, il presidente George W. Bush tenne infatti a Camp David un discorso che ebbe una significativa eco sia nel mondo occidentale che in quello di cultura islamica. Riferendosi a come e per quanto gli Stati Uniti avrebbero reagito agli attacchi, il presidente dichiarò: «Questa crociata, questa guerra al terrorismo, richiederà del tempo». Affermazioni simili, nei mesi successivi, divennero all’ordine del giorno nel contesto staunitense, dove soprattutto gli intellettuali neoconservatori sfruttarono ampiamente il concetto di guerra santa all’interno del dibattito pubblico. In quegli anni, infatti, l’amministrazione Bush, insieme ai suoi intellettuali di riferimento, riuscí a ridefinire un’idea di crociata funzionale alla legittimazione delle azioni militari condotte in Medio Oriente. Tale rimodulazione risultava essere il frutto di una commistione di idee «medievali» e moderne: in essa, infatti, luglio

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trovava spazio l’atteggiamento di matrice progressista di chi vede in popolazioni «arretrate» – in questo caso quelle di religioni islamica – le portatrici di ideali spregiatamente definiti «medievali»; al tempo stesso, per combattere questa guerra contro il «Medioevo» islamico ci si appellava, paradossalmente, a un concetto autenticamente medievale, come la crociata. Essa, in questo caso, veniva declinata secondo i dettami delle discutibili teorie di Samuel Huntington, che vedevano la presenza di un plurisecolare «Scontro di Civiltà» tra Islam e Occidente, risolvibile solo attraverso l’esportazione in contesti «medieval-islamici» dei modernissimi ideali di tolleranza, libertà e democrazia.

Neocrociatismo e terrorismo «bianco»

Il 22 luglio 2011, il trentatreenne Anders Behring Breivik si rese responsabile dell’uccisione di 77 persone tra Oslo e la cittadina di Utøya, dove si stava svolgendo un campus di giovani organizzato dal Partito Laburista Norvegese. Ciò che emerse nelle settimane successive sconvolse l’opinione pubblica quasi quanto gli atti criminali in sé. All’indomani del tragico evento, iniziò a circolare in rete un manifesto redatto da Breivik, mostrando al mondo intero l’esistenza di qualcosa fino a quel momento neanche ipotizzato: una forma di terrorismo autoctono, «bianco», dalle decise tinte medievaliste. L’attentatore, infatti, non solo si definiva «cavaliere templare», ma sosteneva di essere il rappresentante di un «Movimento crociato pan-europeo», necessario per impedire l’islamizzazione del Vecchio Continente. Intere parti del suo manifesto erano dedicate a una approssimativa analisi della storia delle crociate, in cui venivano deformate le interpretazioni storiografiche piú vicine al mondo cristiano-cattolico (come quelle degli storici Thomas Madden e Jonathan Riley-Smith), sfruttandole per legittimare il suo piano di stampo suprematista e «controjihadista». Purtroppo, il caso norvegese non è rimasto isolato. Il 15 marzo 2019, a Christchurch, in Nuova Zelanda, il ventottenne Brenton Tarrant attaccava una moschea e un centro islamico durante la preghiera del venerdí, uccidendo 49 persone. L’attentatore aveva armi e dotazioni con su scritti nomi e date di un suo personale pantheon neocrociato e islamofobo: «Carlo Martello», «Skanderberg», «Marco Antonio Bragadin», «Sebastiano Venier», «Poitiers 732», «Vienna 1683». Nel suo delirante manifesto, caricato on line, Tarrant affermava di aver ricevuto una benedizione da un rinato movimento di «Cavalieri Templari» legato ad Anders Breivik, e citava inoltre Urbano II, il papa che indisse la prima crociata nel 1095. Nel testo emergeva quindi la lucida e al tempo stesso farneticante consapevolezza di sentirsi in qualche modo l’ultimo alfiere di una «crociata perenne», che partiva dagli scontri tra Franchi e Saraceni e arrivava fino alla difesa di Vienna contro l’avanzata ottomana.

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Come per Breivik, anche in questo caso, purtroppo, la rete si è rivelata il terreno fertile per la formazione di un terrorista «autoctono», nutritosi di messaggi suprematisti diffusi da quella stessa rete di blog e forum a cui faceva riferimento l’attentatore norvegese. Un fenomeno spaventosamente simile a quello che ha portato spesso i «rivali» jihadisti, in particolare i foreign fighters europei di origine islamica, a sviluppare un odio viscerale per la cultura occidentale, definita ovviamente, a piú riprese, una degenerata cultura di stampo «crociato». F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Re Artú. Un mito per il XX secolo

Da leggere Franco Cardini, Europa e Islam: Storia di un malinteso, Laterza, Bari-Roma 2007 Tommaso di Carpegna Falconieri, Il medievalismo e la grande guerra, in Studi storici, 56/1, 2015; pp. 49-78 Pedro García, L’immaginario delle crociate, a cura di Saverio Russo, Edipuglia, Bari 2016

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Vestiti di pietra di Elisabetta Gnignera

Relegati ai margini della storia ufficiale e, spesso, meri elementi di contorno all’interno della grande produzione artistica. È la sorte che perlopiú toccò ai ceti popolari nell’età di Mezzo. C’è però un’eccezione, significativa, costituita dai Cicli dei Mesi scolpiti in molte delle piú illustri architetture religiose europee. A essi dobbiamo vivide istantanee di uomini e donne al lavoro, che ne tramandano con realismo anche l’abbigliamento Nella pagina accanto vignette miniate raffiguranti Gedeone nei panni di un contadino che batte il grano e poi mentre sacrifica un agnello al Signore, da un’edizione dell’Antico Testamento nota come Bibbia del Crociato. Produzione francese, Parigi, 1244-1254. New York, The Morgan Library & Museum. Il protagonista delle scene e gli altri personaggi che le animano indossano costumi tipici dell’epoca in cui il manoscritto fu realizzato. A sinistra Parma, Battistero. Giugno, particolare del Ciclo dei Mesi scolpito da Benedetto Antelami. Fine del XII-inizi del XIII sec. Il mietitore che impersona il mese indossa una camisa corta, indumento in canapa o in canapa mista a lino, tipico di questa classe di lavoratori.

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ome ha scritto il giornalista e critico d’arte Pier Paolo Mendogni i Cicli dei Mesi mettono in scena una vera e propria «storicizzazione» del tempo divino: «Il tempo è stato creato da Dio, appartiene a Dio ma nel suo dispiegarsi terreno diventa il tempo degli uomini, un tempo storico al quale la Chiesa ha conferito una cadenza liturgica, che si rispecchia pure nelle ore della giornata, scandite dal rintocco delle campane (…). Il tema dei Mesi è collegato pure all’azione positiva dell’uomo che tramite il lavoro e la fatica si riscatta definitivamente dalla colpa di Adamo, già lavata col Battesimo, per giungere alla salvezza, alla mèta celeste». Tali cicli possono essere letti come una celebrazione degli operosi ceti subalterni – quali i contadini e gli artigiani –, spesso invisibili nella storia dei «grandi». Per questa ragione, tali cicli costituiscono una fon-

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te preziosissima per documentare l’abbigliamento popolare, le cui raffigurazioni raramente sopravvivono se non, eccezionalmente, in qualche codice manoscritto del tempo.

La versione di Benedetto

Tra le opere piú significative, spicca il cosiddetto Ciclo dei Mesi e delle Stagioni di Benedetto Antelami (1150 circa-1230 circa), realizzato tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo nel Battistero del Duomo di Parma. Attualmente collocati sul lato orientale della loggia inferiore dell’alzato del Battistero, i rilievi antelamici dei Mesi e delle Stagioni mostrano una collocazione sicuramente molto antica, forse appena successiva alla conclusione del cantiere stesso, ma probabilmente non rispecchiano del tutto quella originaria, tanto piú che, essendo appoggiati a lastre, fanno propendere – secondo alcuni studiosi – per

una collocazione originaria sulla facciata della Cattedrale. Tralasciando i mesi di Aprile e Maggio e le personificazioni di stagioni che raffigurano ceti magnatizi dagli abbigliamenti ricercati, in queste pagine ci concentriamo sui mesi nei quali è dunque meglio apprezzabile l’abbigliamento popolare. Il giovane mietitore, personificazione del mese di Giugno, mentre miete con la falce un fascio di grano, documenta l’abbigliamento dei lavoratori per i quali, nella bella stagione, l’unico indumento indossato, di lana o canapa mista a lino, era appunto una camisa corta al ginocchio, tale da non intralciare i movimenti. Spesso aperta ai lati, la camisa permetteva talvolta di intravvedere le brache sottostanti: l’iconografia che va dal tardo XII a tutto il XIII secolo, ci restituisce esempi di brache maschili con lembi oltre il ginocchio, che terminano in lac-

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ciclo dei mesi ci ravvolti intorno alla cintura delle brache stesse, spesso costituita semplicemente da una fettuccia o da un cordone passante attraverso appositi fori e intorno ai quali veniva ravvolto su se stesso il sottostante tessuto in esubero. Nel mese di Settembre del Ciclo dei Mesi già nel Duomo di Ferrara (1220-1230 circa) e ora nel Museo della Cattedrale, il vendemmiatore mostra chiaramente l’uso di ravvolgere e annodare su se stessi i lembi delle brache, mentre il suo omologo nel Battistero di Parma

A destra Arezzo, pieve di S. Maria Assunta. Settembre, particolare del Ciclo dei Mesi. 1216. Il personaggio che simboleggia il mese è intento alla vendemmia e, fra gli altri, indossa una infula, tipico copricapo con lembi pendenti.

A sinistra la versione di Settembre come vendemmiatore nella formella appartenente alla Porta dei Mesi della Cattedrale di Ferrara, distrutta nel XVIII sec. 1220-1230 circa. Ferrara, Museo della Cattedrale.

indossa una tunica con spacchi laterali, ma dalla quale non si intravede alcun indumento intimo: sebbene le brache maschili mantengano invariata la loro foggia sino all’inizio del XIV secolo, non possiamo escludere l’uso di versioni molto piú corte del normale, precorritrici delle piú tarde sarabullae (simili agli odierni slip) e compatibili con la citata scultura antelamica.

Taglio «a scodella»

Entrambi i vendemmiatori che impersonano Settembre nel Battistero di Parma e nel terzo registro del Ciclo dei Mesi sull’imbotte dell’archivolto di S. Maria della Pieve ad Arezzo (datato al 1216 e ascritto a un certo Marchionne, capomastro di bottega, secondo l’epigrafe alla base della lunetta del portale centrale), indossano una infula: il diffusissimo

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copricapo di lino o canapa con lembi pendenti che copre per intero la corta capigliatura «tondita», ossia tagliata alla moda del tempo e detta «a scodella», per via della caratteristica forma arrotondata e convessa. Nel Ciclo di Parma cosí come in quello di Arezzo, le figure maschili indossano camise o tuniche (alias vestitus), vale a dire vere e proprie vesti sovrapposte alle camicie, i cui larghi scolli tondi consentivano di indossarle in assenza dei maspilli o coppelle (rispettivamente bottoni senza fori ma con occhiello o picciolo posteriore per il passaggio del filo e spesso convessi), che apparvero soltanto nella seconda metà del XIII secolo. In entrambi i cicli non sono raffigurate calze o calze a braga, che venivano appunto fissate alla cintura delle brache con lacci, ma che erano quasi sempre appannaggio delle classi elevate, in quanto il popolo poteva al massimo avvolgere intorno alle gambe bende strettamente avviluppate o gambali di fortuna per proteggersi dal freddo della brutta stagione, secondo un’usanza attestata in primis presso popoli settentrionali, quali i Vichinghi e i Longobardi. Il cosiddetto «arazzo» di Bayeux, della seconda metà del XI secolo – che è Parma, Battistero. Anche nell’altorilievo di Benedetto Antelami Settembre ha le fattezze di un contadino intento alla vendemmia; sotto di lui, si riconosce la personificazione del segno zodiacale della Bilancia. Fine del XII-inizi del XIII sec.

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in realtà una tela ricamata ad ago di manifattura normanna lunga 68,3 m circa e alta 50 cm, realizzata per volere dell’entourage di Guglielmo il Conquistatore al fine di celebrare la vittoria del sovrano sui Sassoni di re Aroldo II nella battaglia di Hastings (14 ottobre 1066) –, costituisce una delle testimonianze piú preziose e importanti dell’abbigliamento maschile nell’XI secolo. Questo autentico racconto per immagini presenta numerosi esempi, alquanto precoci, di tuniche maschili gheronate, ossia dotate di piegoni o inserti triangolari nella parte bassa, che consentono di ampliare il volume dell’indumento dalla vita in giú. Gonnelle maschili percorse da consistenti pieghe appaiono raffigurate anche nel coevo fregio figurato dall’antica Porta Romana di Milano, datato al 1171.

L’inizio dell’anno

Per le sopravvesti maschili usate sopra la tunica o vestitum, possiamo volgerci alla raffigurazione di Gennaio nei due Cicli dei Mesi di Parma e Arezzo: dato che al tempo l’anno poteva iniziare ab incarnatione (23 marzo) o ab nativitate (25 dicembre), in entrambi i casi sopravvive evidentemente la memoria dell’antico calendario solare, detto «giuliano», e basato sul ciclo delle stagioni e sul giro della terra intorno al sole che fissava l’inizio dell’anno a gennaio, mese che segnava la conclusione di un anno e l’inizio di un altro. Ecco perché, in entrambi questi calendari di pietra, Gennaio si lega all’allegoria di Giano Bifronte: lo Janus che dà il nome a Januarius, il signore di tutti gli inizi e di

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Particolare della tela ricamata di Bayeux (comunemente detto «arazzo»), raffigurante alcuni uomini che indossano tuniche gheronate, ossia dotate di piegoni o inserti triangolari nella parte bassa che consentono di ampliare il volume dell’indumento dalla vita in giú. Produzione normanna, 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.

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ogni fine il quale, essendo bifronte (bifrons) vede davanti e dietro di sé. Seduto dunque accanto al fuoco a festeggiare il meritato riposo dai lavori della terra, Gennaio è piú simile a un agiato patrizio che a un rude lavoratore: la personificazione antelamica nel Battistero di Parma ci fornisce infatti uno squisito esempio di lungo mantello di foggia aristocratica, per via della lunghezza e del dettaglio della pelliccia che ne orna lo scollo; piú dimesso appare il mantello della analoga personificazione nel Ciclo aretino, ma simile all’altro nella lunghezza, spesso proibitiva per le classi popolari, che indossavano corti mantelletti (di origine gallica) detti cocolle, dall’antico termine latino cucullus, se provvisti di un cappuccio, e che, se ne erano privi, venivano chiusi da fibule o lacci frontali. Viceversa, l’Ottobre di entrambi i cicli (aretino e parmense), intento alla semina del grano, e usando talvolta il mantello come sacca, fornisce esempi realistici di questi mantelli popolari di forma circolare e di lunghezza contenuta visibili anche indosso al Febbraio collocato originariamente nella Cattedrale di Ferrara. L’Aprile del Battistero di Parma, raffigurato come un giovane re coronato con una palma nella mano

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Rilievo raffigurante uomini che indossano gonnelle percorse da consistenti pieghe, particolare del fregio che in origine ornava la Porta Romana di Milano. 1171. Milano, Castello Sforzesco.

destra e un fiore in quella sinistra, ci mostra il modo usato al tempo di indossare il mantello, circolare anche in questo caso, e chiuso sulla spalla destra, cosí da lasciare liberi, alla bisogna, i movimenti del braccio destro, necessario non soltanto a compiere le normali azioni quotidiane, ma anche ad assolvere a operazioni di difesa personale che prevedessero l’impugnatura di armi.

Rare presenze

Nei Cicli dei Mesi sono rarissime le raffigurazioni di donne, non tanto perché anch’esse non si adoperassero nei lavori stagionali, quanto per una consuetudine iconografica che tendeva a identificare i mesi con figure maschili e solamente alcune stagioni quali la primavera, con figure femminili. Nel Battistero di Parma quest’ultima appare abbigliata come una giovane aristocratica del suo tempo, ovvero con un ampio mantello, che poteva in realtà essere chiuso con lacci oppure affibbiato, e una lunga tunica

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ciclo dei mesi Parma, Battistero. Gennaio raffigurato come Giano bifronte nel Ciclo dei Mesi di Benedetto Antelami. Fine del XII-inizi del XIII sec.

cinta, le cui pieghe sembrano iniziare da sotto il seno, anticipando di piú di due secoli le camore (vesti) femminili gheronate della prima metà del Quattrocento. Per individuare figurette femminili che possano illuminarci sull’abbigliamento popolare del tempo occorre passare al setaccio diversi Cicli dei Mesi. A differenza di quanto visto per gli uomini, le vesti femminili popolari differivano da quelle aristocratiche nei tessuti e nelle decorazioni, piú che nelle forme e nelle lunghezze, in quanto sarebbe stato immorale per una donna mostrare alla vista parti del proprio corpo, quali per esempio le gambe, che dovevano rimanere celate a prescindere dallo stato sociale di appartenenza. Possiamo comunque dedurre che i codici moralizzanti del tempo fossero meno osservati nelle stagioni calde e durante il duro lavoro dei campi, quando i sotani (lunghe camicie) delle braccianti potevano facilmente accorciarsi tramite gli sboffi, a causa del gran caldo e per non intralciare i movimenti durante i lavori agricoli.

La raccolta dei fichi

Un esempio di abbigliamento femminile corrente e non troppo aulico può essere considerato quello indossato dalla personificazione del segno della Vergine: nel registro inferiore del Battistero di Parma la si vede infatti rappresentata come una fanciulla che coglie i fichi, sotto al mese di Agosto, identificato con un falegname che appronta una botte stringendo i cerchi di ferro attorno alle doghe. La ragazza indossa una lunga tunica, di cui sorregge un lembo con la mano sinistra e che presenta un ampio scollo e maniche strette, ben diverse da quelle di cui era dotata il bliaud, una veste aristocratica femminile la cui voga è già attestata nella seconda metà dell’XI secolo. Un esempio precoce di bliaud è quello indossato da una delle uni-

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A sinistra la versione di Gennaio come Giano bifronte nel Ciclo dei Mesi della pieve di S. Maria Assunta ad Arezzo. 1216.

che tre figure femminili ricamate sulla tela di Bayeux, nella scena in cui la donna che abita nella casatorre incendiata dai Normanni per aprire la visuale agli armati in procinto di battersi a Hastings (1066) viene colta nell’attimo in cui fugge con il figlioletto. Una versione piú tarda e molto piú sofisticata di questa veste è quella ritratta indosso alle «vergini stolte» nelle pitture mu-

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rali del Castel D’Appiano in Trentino-Alto Adige (XII-XIII secolo), dove le fanciulle indossano bliaud aderentissimi sul busto e con maniche strettissime fino al gomito che si aprono poi in lunghissimi «polsi a campana», che sfoceranno nei cosiddetti manicottoli trecenteschi. Sia le vergini stolte di Castel d’Appiano, sia la personificazione

A destra Febbraio, con un corto mantello, formella appartenente alla Porta dei Mesi della Cattedrale di Ferrara. 1220-1230 circa. Ferrara, Museo della Cattedrale.

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ciclo dei mesi A destra un altro particolare della tela ricamata di Bayeux, in cui la donna che fugge con il figlioletto indossa un bliaud, una veste aristocratica femminile la cui voga è già attestata nella seconda metà dell’XI sec. Produzione normanna, 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.

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della Vergine che coglie i fichi nel Battistero di Parma sfoggiano lunghe capigliature, annodate in trecce o che dobbiamo immaginare fluenti (a Parma), indizio inequivocabile del loro status virginale. Già nell’VIII secolo, infatti, donne «in capillo» vengono menzionate nel corpus normativo longobardo in riferimento a donne non sposate ma nemmeno monacate: si trattava dunque di una categoria specifica, contraddistinta da un nome e da diritti speciali, ossia di quelle figlie non ancora sposate, chiamate, da questo momento in poi, figlie «in capillo». «Il chiamare le donne non casate vergini in capillo – scriveva già Pietro Giannone nel 1844 – non altronde deriva, che dall’istituto de’ romani, i quali distinguevan le vergini da quelle che avevan contratte nozze, perché queste velavano loro il capo, e all’incontro le vergini andavano scoverte e mostravano i loro cavelli». Una raffigurazione assai raffi-

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A destra Parma, Battistero. Personificazione della Primavera, che indossa un ampio mantello, indumento tipico delle giovani aristocratiche del tempo. Fine del XII-inizi del XIII sec. Nella pagina accanto le «vergini stolte», particolare degli affreschi di Castel d’Appiano (Missiano, Bolzano). XII-XIII sec.


ciclo dei mesi In questa pagina particolari del Ciclo dei Mesi che orna il Portale Maggiore della basilica di S. Marco, a Venezia. 1215-1245. A sinistra, Maggio, rappresentato come un re in trono; in basso, un uomo intento alla preparazione del formaggio, aiutato da una donna, una delle rare presenze femminili in questo genere di composizioni.

nata di aristocratiche fanciulle vergini, le cui capigliature intrecciate in lunghissime trecce sono ornate da preziosi nastri e ghirlande, è fornita nel bassorilievo del mese di Maggio nel Ciclo dei Mesi nell’intradosso degli archi del portale maggiore della basilica di S. Marco a Venezia, dove sono raffigurate le personificazioni dei mesi dell’anno con i rispettivi segni zodiacali (1215-1245). Qui, dove evidenti sono gli influssi d’Oltralpe, le due fanciulle che incoronano Maggio indossano infatti tuniche lunghe alla caviglia dalla cui cintura pende una scarsella (borsa) minuta e decisamente à la page. A testimonianza della matrice squisitamente nordica dell’iconografia, reale e narrata che pertiene al topos della «fanciulla vergine», si

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Da leggere Chiara Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Laterza, Bari-Roma 2001 Pietro Giannone, Storia civile del Regno di Napoli, Borroni, Milano 1844 Elisabetta Gnignera, Vergini, spose, vedove. Stati sociali e acconciature femminili nell’ Italia del Quattrocento, Amazon Editions (e-book e a stampa), 2017 Cristina La Rocca, Velate e «in capillo»: donne nell’Italia longobarda, in Maria Giuseppina Muzzarelli, Maria Grazia Nico Ottaviani e Gabriella Zarri (a cura di), Il velo in area mediterranea fra storia e simbolo. Tardo Medioevo-prima Età moderna, Il Mulino, Bologna 2014; pp. 69-87 Federico Marangoni, XIII SECOLO. L’Abbigliamento maschile, I Quaderni di Rievocazione di Federico Marangoni, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 2015 Pier Paolo Mendogni, Arte, fede e cultura agricola nei «Mesi» dell’Antelami, on line su www. pierpaolomendogni.it Guido Tigler, Il Portale Maggiore di San Marco a Venezia. Aspetti iconografici e stilistici dei rilievi duecenteschi, Istituto Veneto di Scienze, Venezia 1995

può citare un’altra narrazione di pietra, databile all’ultimo quarto del XIII secolo, che si trova nella cattedrale di Notre Dame a Strasburgo. Qui, un elegante tentatore in guarnacca (sopravveste) dalle maniche pendenti seduce una vergine stolta, dalla lunga capigliatura a vista, appena trattenuta da una vezzosa corona: un accessorio di moda tra le fanciulle agiate del XIII e XIV secolo.

Un’operosità nascosta

Nelle raffinate narrazioni bibliche dei portali di pietra delle cattedrali si eclissa definitivamente la memoria della donna comune, la cui operosità è raramente documentata persino nei Cicli dei Mesi, dove eccezionali appaiono, come abbiamo argomentato, le rare figurette femminili che, di tanto in tanto, fanno capolino tra i mestieri stagionali: preziosa, in questo senso, è l’immagine della donna con lunga tunica rimboccata sulle anche e cortissime maniche che lasciano

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Strasburgo, Notre Dame. Altorilievo raffigurante un tentatore che seduce una vergine stolta. XIII sec. L’uomo indossa una guarnacca (sopravveste), mentre la fanciulla ha il capo cinto da una corona.

scoperte le braccia, la quale, non senza grazia, aiuta gli uomini nella preparazione del formaggio in una delle raffigurazioni del già citato Ciclo dei Mesi della basilica marciana di Venezia. Grazie a queste autentiche narrazioni «di pietra», il mondo quoti-

diano di uomini e donne di quasi mille anni fa riaffiora nella concretezza di maniche e vesti rimboccate, che mai l’aristocratico ed elitario universo magnatizio avrebbe concepito. I Cicli dei Mesi hanno insomma tramandato riti stagionali fatti di uomini, gesti e indumenti. F

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l’arte delle antiche chiese /8

SpiritualitĂ e bellezza

di Furio Cappelli

Le Marche possiedono un patrimonio, ricco e diffuso, di chiese e abbazie nelle quali troviamo declinati, in forme originali e affascinanti, i canoni stilistici tipici della grande stagione monastica europea


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e Marche vantano pregevoli esempi di chiese monastiche medievali, il cui interesse storico e monumentale si lega spesso a sfondi paesaggistici di grande effetto, cosicché arte e natura sembrano legate da un vincolo prezioso. Non si tratta solo di una suggestione estetica, poiché l’armonia tra la costruzione e il paesaggio in cui essa si inserisce è il segno di un’identità precisa. Di fatto, sebbene vi siano inevitabili varianti nello stile e nella conformazione, queste chiese raccontano in modo corale una vicenda di storia e di civiltà con i suoi precisi connotati, e spesso con aspetti sorprendenti. La regione marchigiana, tesa tra i rilievi dell’Appennino e il mare, richiede un’attenzione particolare, poiché non ha espresso edifici di grande impatto, sia per dimensioni che per impegno realizzativo. Per conoscere bene un mondo cosí ampio e sfuggente, occorre costruire una visione di insieme, a partire da episodi diversi, sparsi qua e là. Ecco perché in questa puntata proponiamo ben tre capisaldi del patrimonio artistico regionale. Ciascuno a suo modo è uno snodo essenziale, ma nessuno di essi ha la pretesa del capolavoro. La sapienza del rigore e dell’essenzialità unisce e caratterizza queste espressioni, anche quando si legano a insediamenti monastici di una certa consistenza, come nel caso di Fiastra. E proprio la vicenda intensa e capillare del monachesimo benedettino, lungo i secoli del pieno Medioevo, ha condotto a questo simbolico culmine. Portonovo e S. Vittore alle Chiuse, infatti, ci insegnano quanto nelle Marche fosse già affermata, nell’ultimo quarto dell’XI secolo, una solida e originale concezione del romanico europeo.

La chiesa di S. Maria di Portonovo, affacciata sulla baia omonima, nel comprensorio del Monte Conero (Ancona). La fondazione del complesso si data nell’XI sec.


l’arte delle antiche chiese /8 S. Maria di Portonovo La storia

Un’antica agiografia, recuperata all’interno di un santo sepolcro nel XVIII secolo, narra che a Portonovo approdò l’asceta san Gaudenzio, ormai alla fine della sua esistenza. Era un seguace di san Romualdo di Ravenna (952-1027), a sua volta leader carismatico del monachesimo benedettino e personaggio di punta tra gli ispiratori della riforma della Chiesa. Negli anni intorno al 1040, Gaudenzio rinunciò agli onori della cattedra vescovile. Era stato infatti nominato a presiedere l’episcopato della città di Ossero, sull’isola di Cherso, verso la sponda croata dell’Adriatico. Desideroso di chiudere la sua vita nel ritiro di una casa monastica, non lontano dai luoghi legati alla presenza e all’opera di san Romualdo, Gaudenzio giunse dunque sulla costa marchigiana. Avrebbe avuto cosí modo di passare un lungo periodo (due anni) nel monastero appena fondato di S. Maria di Portonovo, situato su una scogliera a picco sul mare. Un altro illustre personaggio della Chiesa dell’epoca, il monaco-cardinale san Pier Damiani (1007-1072), conobbe Gaudenzio, tanto che lo ricorda in almeno una lettera pervenuta. Non sappiamo se l’amicizia tra i due

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Falconara Marittima Ancona S. Maria di Portonovo Jesi

Pergola

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Loreto S. Vittore alle Chiuse

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Fabriano

Macerata

Gualdo Tadino

Chiaravalle di Fiastra

SS44

Spello

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Foligno

Comunanza Parco Nazionale dei Monti Sibillini

Ascoli Piceno

Norcia

luglio

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A destra l’interno della chiesa di S. Maria di Portonovo sulla direttrice del transetto (corridoio dei monaci). Nella pagina accanto la facciata della chiesa.

S. Maria di Portonovo

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N

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Planimetria di S. Maria di Portonovo: 1. atrio; 2. navata centrale; 3. navate laterali; 4. cappelle laterali; 5. santuario.

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religiosi fosse scaturita da un incontro, o da un semplice rapporto epistolare. Sta di fatto che diversi storici hanno voluto riconoscere in Portonovo il luogo in cui essi ebbero modo di frequentarsi. Non solo: il riferimento che Pier Damiani fa nel Paradiso dantesco (XXI, 122-123) alla «casa di Nostra Donna in sul lito adriano» celerebbe, secondo una tradizione locale, un inequivocabile ricordo del monastero anconetano. In realtà, si tratta del monastero ravennate di S. Maria in Porto, che all’epoca di Dante si credeva fondato proprio da Pier Damiani, e la presenza stessa di Gaudenzio a Portonovo, seppur plausibile, non è chiaramente documentata. Di certo, la fondazione fu motivata da un clima di religiosità e di rinnovamento che doveva essere ben diffuso in un ampio settore del medio Adriatico. In prima battuta, fu determinante in tal senso il forte messaggio propagato dal predetto san Romualdo, la cui eco si estese tra il litorale e le solitudini dell’Appennino, da Ravenna ad Ascoli Piceno, investendo anche l’Istria e la Croazia. Un documento perduto, con la data del 7 luglio 1034, tramandava la concessione che permise all’abate Paolo di insediarsi in novo Portu, all’ombra del Monte Conero. San Romualdo era morto da appena sette anni. La chiesa superstite si data ai decenni successivi, intorno al 1070-80, e il cenobio vide il suo apogeo nel secolo seguente, come attestano i privilegi concessi da papa Alessandro III (1177) e dall’imperatore Enrico VI (1186). Si giunse però a una fase inarrestabile di decadenza nei primi decenni del XIV secolo, allorché i monaci decisero di abbandonare questo meraviglioso presidio

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l’arte delle antiche chiese /8

La visita

spirituale. Un terremoto dette il colpo di grazia, rendendo le abitazioni inagibili. La ricostruzione sarebbe stata troppo costosa e oltretutto non sicura, perché il terreno dava segni di forte instabilità. In piú, il luogo isolato era facilmente preda di furfanti che giungevano sia dalla costa (infestata dai pirati) che dall’entroterra. La chiesa continuò tuttavia a essere officiata almeno una volta all’anno, nella festa dell’Assunzione, ed è per questo motivo che si è fortunatamente conservata.

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Isolata e bene in vista dalla spiaggia sottostante, nel quadro del Parco Regionale del Conero, la chiesa di Portonovo è una costruzione di dimensioni contenute, ma di estremo interesse per l’articolazione e per i requisiti stilistici. La pianta è infatti molto originale e sono sorprendenti gli sviluppi in alzato come pure i caratteri costruttivi e decorativi. Sembra di vedere materializzato sulla costa adriatica un saggio «in scala» della grande architettura monumentale che si irraggiava in tutta Europa, sull’onda, per esempio, della celebre abbazia di Cluny. Sebbene venga spesso presentata come una chiesa di influsso bizantino, S. Maria di Portonovo, infatti, si ricollega piuttosto, con maestria e originalità, ai modelli dell’edilizia benedettina che si erano affermati nel Nord Italia e oltralpe. Ha una cupola centrale, ma non è a croce greca. Presenta infatti un «classico» corpo basilicale, a tre navate, al quale si affiancano due corpi minori, dalla volumetria distinta, che individuano due cappelle a sé stanti. In tutto questo c’è una logica, legata alle diverse fun-


zioni dell’ambiente interno. Un indizio prezioso, utile a chiarire questa complessità, è il pavimento originale, realizzato in pietra chiara e in pietra scura. Là dove la seconda disegna un pattern lineare occorre immaginare il percorso riservato ai laici (ovest-est); dove si formano invece «tappeti» a trama diagonale vanno situati, rispettivamente, il corridoio dei monaci (nord-sud), il loro punto di riunione (il coro, sotto la cupola) e l’area sacra principale in cui il sacerdote celebrava la messa (il santuario corrispondente all’abside centrale). Le cappelle laterali, sopraelevate da gradini e servite dal corridoio dei monaci, svolgevano la funzione di Nella pagina accanto, in alto la cupola, costituita da una volta emisferica schiacciata di lato, in modo da assumere una caratteristica forma ovoidale. Nella pagina accanto, in basso la decorazione del capitello di una delle colonne che scandiscono le navate. In basso particolare del tamburo della cupola (in secondo piano), impreziosito da un finto loggiato.

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oratori secondari per liturgie particolari. A Cluny, per esempio, simili strutture, staccate o integrate alla chiesa, servivano alla liturgia funebre, alle messe per i laici o a particolari riti previsti in onore di determinati santi. I cori secondari, d’altronde, venivano anche utilizzati per le messe dei monaci in certi periodi dell’anno (in inverno) o in alcuni momenti della giornata (di notte). La complessità della chiesa rifletteva quindi l’articolata vita del monaco, sia all’interno della propria comunità che in rapporto al mondo dei laici. La semplicità dell’aspetto ornamentale, anche se ridotto all’essenziale, non nasconde, poi, l’impegno profuso nella costruzione. Sull’asse della navata centrale, «spezzata» dalla cupola, si sviluppa una volta a botte cinghiata, ripartita cioè da archi a rilievo che ricadono su semicolonne «sospese» su mensole. Tutti gli altri spazi sono coperti da volte a crociera. All’esterno le pareti sono alleggerite da gallerie di archetti pensili sulle sottogronde, ma sull’abside centrale, e sul tamburo della cupola, corre per giunta un finto loggiato, erede dell’architettura aulica della tarda antichità.

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l’arte delle antiche chiese /8 S. Vittore alle Chiuse La storia

Saliamo ora di quota, in una deliziosa località pedemontana, Genga (Ancona), situata all’imbocco della Gola di Frasassi, con le sue grotte famose in tutto il mondo. In questo punto di snodo, molto importante nelle relazioni tra i due versanti dell’Appennino, appena trascorso l’anno Mille, il nobile Gozo di Raco, appartenente a una stirpe illustre di feudatari (gli Attoni-Alberici-Gozoni), fondò il monastero di S. Vittore. Il cenobio ebbe garantita da subito la propria autonomia, visto che i patroni si riservavano il solo diritto

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di conferma della nomina dell’abate. E, trascorsi cinquant’anni, S. Vittore visse una prodigiosa espansione patrimoniale. Il cambio di marcia si ebbe durante il lungo governo dell’abate Morico I (1058-1098). Nel 1066 risulta aver assunto la doppia dignità di vescovo e di abate, essendo riuscito a distaccarsi dalla giurisdizione diocesana, e, negli anni 1070-80, dispose la costruzione della mirabile chiesa superstite. Nel secolo successivo, la fondazione giunse a livelli davvero ragguardevoli di potenza, tanto da acquisire il controllo su 13 castelli. Soltanto la dura pressione del comune di

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La poderosa mole della chiesa di S. Vittore alle Chiuse, presso Genga (Ancona). XI sec.

Fabriano poté arginare la forza del cenobio, che già nel XIII secolo si avvia a una decadenza inesorabile.

La visita

Un ponte medievale con arco a sesto acuto, presidiato da una porta-torre, attraversa il fiume Sentino negli immediati paraggi della chiesa, componendo con gli edifici vicini e con l’ambiente fluviale un quadro di rara armonia. Dal canto suo, S. Vittore domina su un manto erboso dall’alto di una lieve prominenza, con le montagne che fanno da sfondo solenne. Difficilmente un edificio riesce a manifestare con la stessa intensità un senso di eleganza come pure una compattezza severa, degna di

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l’arte delle antiche chiese /8 Una veduta che ben documenta la suggestiva ubicazione di S. Vittore alle Chiuse: la chiesa sorge all’imbocco delle Gole di Frasassi, ed è preceduta da una porta-torre e da un ponte a sesto acuto che scavalca il corso del sottostante fiume Sentino.

una fortezza inespugnabile. La chiesa si compone infatti di un parallelepipedo compatto di pietra calcarea, con una cupola centrale, ed è dominata da una cospicua torre che svetta sul lato d’ingresso, accorpata all’insieme. La pianta è singolare, anche se ha conosciuto una certa fortuna nella regione, visto che si trova in altre tre importanti costruzioni coeve. Si tratta di un impianto a quattro pilastri centrali, con due assi che si incrociano nel mezzo, determinando una croce greca iscritta. Tale schema è attestato anche nel mondo bizantino, ma qui giunge attraverso la mediazione

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dell’edilizia di rappresentanza del mondo d’oltralpe. Mostra una pianta analoga l’oratorio carolingio di Germigny-des-Prés, in Francia, realizzato intorno all’806 dal dignitario Teodulfo di Orléans. E, in piena età romanica, negli anni 1080-1100, lo stesso impianto si rispecchia, per esempio, nella cappella annessa al duomo imperiale di Spira, in Germania. Nelle Marche la pianta a quattro pilastri centrali viene introdotta dal vescovo Udalrico di Fermo (1057-1074), forse oriundo della Germania, per la sua pieve di S. Claudio al Chienti presso Corridonia (Macerata), un vero e proprio edificio palatino, a due piani, annesso a una residenza episcopale. Secondo un analogo concetto, l’abate Morico utilizzò a S. Vittore l’atrio e la massiccia torre di facciata come snodo tra la chiesa e gli edifici monastici che si sviluppavano verso sud. L’unico percorso di accesso disponibile per gli ambienti sopraelevati era dato dalla scala a chiocciola alloggiata nella struttura cilindrica (torre scalaria) che fa corpo con il fronte della chiesa, all’angolo nord. Da lí si poteva accedere al terrazzo che si estende su tutta la chiesa, oppure alla sala che sormonta l’atrio, e di lí alla torre quadrangolare e agli altri edifici che componevano il chiostro. Al di sopra dell’atrio era stato dunque creato un ambiente di snodo, che comunicava visivamente con la chiesa: poteva fungere da cancelleria e da sala di riunione, per la stipula di accordi e per accogliere visitatori illustri. La torre quadrangolare, direttamente connessa agli ambienti dell’edificio monastico, costituiva il palatium dell’abate. Doveva forse prevedere sulla cima accorgimenti difensivi, magari una tipica merlatura. Alla compattezza dell’assetto esterno, e alla scrupolosa concezione difensiva degli spazi abitati, fa da contrappunto l’aula della chiesa, davvero entusiasmante e coinvolgente per slancio verticale, musicalità e imponenza dell’insieme. Le volte del soffitto, tutte impostate alla medesima quota, unificano l’ambiente, reso d’altra parte complesso e «labirintico» dalla molteplicità degli scorci che offre al visitatore. Si crea cosí la sensazione di un edificio dalle dimensioni maggiori di quelle reali. luglio

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Chiaravalle di Fiastra La storia

L’ultima tappa di questo percorso marchigiano ci conduce a Fiastra (Macerata), in una ridente località di pianura lungo il corso del torrente omonimo, che sfocia nella media valle del Chienti. Qui, nei pressi dell’antica città in rovina di Urbs Salvia (i cui resti si possono oggi visitare nell’area archeologica attrezzata presso l’odierna Urbisaglia, n.d.r.) giunsero 12 monaci come altrettanti apostoli, decisi a colonizzare un luogo abbandonato per trasformarlo in una oasi di spiritualità, che doveva anche fungere da caposaldo di una vasta e razionale opera di bonifica e di produzione agricola. I confratelli, di probabile origine francese, erano stati inviati dall’abbazia cistercense di Chiaravalle Milanese. All’origine dell’insediamento, secondo la tradizione, vi fu la volontà di Guarnerio II, duca di Spoleto e marchese di Ancona, il quale, tra il 1140 e il 1144, avrebbe anche concesso ai monaci bianchi la giurisdizione su un vasto territorio. Sebbene la cronologia risulti attendibile, l’intervento di un’autorità superiore fu chiamato in causa in maniera fittizia, tempo dopo, per consolidare i diritti acquisiti, di fatto, su ampi possedimenti. In ogni caso, l’impegnativo can-

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Il chiostro e la facciata dell’abbazia di Chiaravalle di Fiastra (Macerata). La fondazione del complesso si deve a monaci cistercensi, su impulso di Guarnerio II, duca di Spoleto.

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l’arte delle antiche chiese /8 Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

tiere della chiesa fu presto avviato, insieme al cospicuo complesso che le è annesso, e si concluse verosimilmente intorno all’anno 1200. La struttura venne gravemente compromessa dalle devastazioni compiute dal condottiero umbro Braccio da Montone, nel 1422, allorché crollò estesamente il soffitto della chiesa, sulla navata centrale e sul transetto, e si rese per giunta necessaria la ricostruzione dell’ampio chiostro. Il monastero venne infine acquisito dalla famiglia Bandini, e gli eredi ne hanno affidato la cura alla Fondazione Giustiniani Bandini, che tuttora gestisce l’intero complesso. La chiesa è tornata a essere officiata nel 1985 da un gruppo di monaci, giunti di nuovo dall’abbazia madre di Chiaravalle Milanese, in una sorta di simbolica rinascita, ma nel 2018 la comunità si è sciolta. Chiaravalle di Fiastra è tornata cosí a essere una semplice parrocchia.

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La visita

Intorno al chiostro, e in modo particolare sui lati meglio conservati – vale a dire nei bracci ovest ed est –, si legge ancora bene l’articolazione del complesso monastico. Vi si ritrova, in particolare, una razionale gestione degli spazi, riconducibile a schemi applicati con meticolosa fedeltà dai monaci cistercensi in tutte le loro fondazioni, che sono cosí perfettamente riconoscibili in tutta Europa. Gli spazi dedicati al ricovero delle derrate e alle abitazioni dei conversi, ossia dei confratelli laici, sono ubicati a ovest, con accesso diretto all’esterno, mentre gli ambienti principali del cenobio, come la sala capitolare dei monaci, si situano a est. Tale impostazione fa sí che monaci e conversi dispongano di due distinti ingressi alla chiesa, i primi sul braccio destro del transetto, gli altri sulla prima campata dell’aula, nei pressi della facciata. Di particolare suggestione è il refettorio dei conversi luglio

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Da leggere Alvise Cherubini, Arte medievale nella Vallesina. Una nuova lettura, Effeci, Ancona 2001 Paolo Piva, Marche romaniche, Jaca Book, Milano 2003 Hildegard Sahler, San Claudio al Chienti e le chiese romaniche a croce greca iscritta nelle Marche, Lamusa, Ascoli Piceno 2006

(a ovest), una lunga sala a due navate suddivise da tozzi e ingegnosi sostegni composti per intero da materiali antichi di riuso provenienti dalle vicine rovine di Urbs Salvia. Come la chiesa madre lombarda, la chiesa è in massima parte realizzata in laterizio. Si adegua all’elegante essenzialità propugnata dai Cistercensi, sull’onda degli ammonimenti di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), e si pone cosí perfettamente in linea con le esperienze regionali del romanico benedettino, già sperimentate tra la metà dell’XI e gli inizi del XII secolo. Oltre alla persistenza degli archi a tutto sesto, ritroviamo persino le semicolonne su mensole già viste a Portonovo, anche qui poste a servizio degli archi trasversali che delimitavano le campate, tra una volta e l’altra. A causa delle devastazioni del XV secolo, si è conservata, sulla navata centrale, la sola volta della campata iniziale, mentre è andata perduta la torre che

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In alto la decorazione di uno dei capitelli. Nella pagina accanto la sala del capitolo, uno degli ambienti situati negli edifici che fanno da contorno alla chiesa.

impreziosiva la struttura all’incrocio dei bracci della croce, tra la navata e il transetto. A metà campata sono poi assai singolari le semicolonne interrotte che servono solo a rinforzare i pilastri. Tutta una serie di composizioni decorative prende corpo sui capitelli in pietra calcarea man mano che ci si avvicina alla facciata, nell’ultima fase della costruzione. Rompendo un poco l’assoluto rigore dell’impostazione iniziale, si crea cosí uno spazio per l’inventiva degli scultori, che si attengono comunque a un repertorio estremamente stilizzato, con raffigurazioni di gusto araldico e ornamenti di stampo quasi geometrico. In qualche caso, sembra di assistere persino a una rinascita degli stili ornamentali delle piú antiche fasi dell’arte romanica. F

NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte (n. 263, dicembre 2018); Valle d’Aosta (n. 264, gennaio 2019); Lombardia (n. 265, febbraio 2019); Veneto (n. 266, marzo 2019); Emilia-Romagna (n. 267, aprile 2019); Toscana (n. 268, maggio 2019); Umbria (n. 269, giugno 2019) NEL PROSSIMO NUMERO Lazio: Priverno (Latina), Fossanova; Veroli (Frosinone), Casamari

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Nel 1295, dopo oltre vent’anni di assenza, Marco Polo fece rientro nella sua Venezia, reduce da un’esperienza straordinaria: un viaggio nelle piú remote regioni dell’Asia, dettagliatamente raccontato nel Milione, un’opera dal valore documentario unico nel suo genere

MARCO POLO La vera storia del mercante

mediatore testi di Elisabeth Crouzet-Pavan, Lorenzo Pubblici e Alvaro Barbieri

Particolare di una statua in legno policrono dorato tradizionalmente identificata con Marco Polo che tiene un melograno, simbolo di ricchezza e prosperità. Copia ottocentesca dell’effigie del Veneziano venerata nel Tempio dei Cinquecento Dèi di Canton, in Cina. Venezia, Museo Correr.


Dossier

A A

distanza di oltre due secoli, l’umanista e geografo Giovanni Battista Ramusio (1485-1557) descrive, nell’opera Delle Navigazioni e Viaggi, la scena del ritorno dei Polo a Venezia, in un giorno del 1295. I viaggiatori rientrati nella Laguna, dopo ventisei anni di assenza e un viaggio disseminato di pericoli, sono tre: Marco Polo, suo padre Niccolò e suo zio Matteo. E ai tre Veneziani viene riservata, a leggere Ramusio, la stessa accoglienza ricevuta da Ulisse, quando era giunto nella sua isola di Itaca, dopo vent’anni di tribolazioni. Per tutti, essi sono morti da lungo tempo e nessuno riconosce dunque questi stranieri vestiti di stracci, che dall’andatura e

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dall’aspetto somigliano a Tartari. E nessuno li crede quando rievocano il loro lontano soggiorno in Cina, nemmeno i membri della loro stessa famiglia, installati nella dimora dei Polo, situata nel campo di San Giovanni Crisostomo. A destra miniatura raffigurante la partenza dei Polo da Venezia, da Li Livres du Graunt Caam (Il Libro del Gran Khan), edizione in francese arcaico del Milione. Inizi del XV sec. Oxford, Bodleian Library. Marco, allora diciassettenne, salpò nel novembre 1271, al seguito del padre Niccolò e dello zio Matteo, già da tempo inseriti nei redditizi traffici commerciali con l’Oriente. In basso Marco Polo, in un ritratto affrescato nella Sala del Mappamondo di Palazzo Farnese a Caprarola. 1573-1575.

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Dossier

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La narrazione continua e impiega, per stupire il lettore, tutti i procedimenti propri del racconto e il piú meraviglioso dei colpi di scena. I tre Polo invitano gli increduli, parenti e familiari, a un grande banchetto al quale si presentano magnificamente vestiti con abiti di raso, di damasco e di velluto. E Marco lascia tutti di stucco, facendo fuoriuscire pietre preziose in quantità dagli stracci che portava indosso al momento del suo arrivo. La scena è suggestiva, ma, va detto, è totalmente inventata. Tuttavia, traduce bene l’entità della gloria postuma conosciuta da Marco Polo. Perché il racconto dei suoi viaggi – Il Milione (vedi oltre, alle pp. 104-111) – viene ricopiato in abbondanza, prima d’essere stampato e diventare oggetto di una serie ininterrotta di riedizioni.

Favole straordinarie

Alla fine del Medioevo, Marco Polo è divenuto il mediatore attraverso il quale vengono trasmesse la descrizione delle meraviglie asiatiche e le stupefacenti avventure degli Occidentali che erano giunti ai confini del mondo. Egli fa sognare e racconta favole straordinarie. Certo, fornisce anche numerose indicazioni sulle distanze, le risorse dei diversi Paesi, ciò che vi viene prodotto, le mercanzie che vi si possono acquistare; descrive i vascelli cinesi, ci parla della stella polare o dei venti dominanti. Si fa geografo e antropologo, ma, al tempo stesso, rimane un mercante. Nel racconto l’esotismo è ben presente e il meraviglioso e lo straordinario vi si infiltrano continuamente. Chi legge Ramusio, non si stupisce se le pietre preziose cadono a cascata dagli abiti di Marco, poiché egli ben conosce Il Milione e sa che l’Oriente è una terra prodigiosa, dalle ricchezze esuberanti e inesauribili: spezie e gioielli, zenzero, pepe e perle. Egli conosce senza dubbio i capitoli nei quali sono descritte le isole magnifiche e generose dell’Oceano Indiano. A Ceylon, si trova-

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A destra Venezia. La corte seconda del Milion, sulla quale prospetta la presunta casa di Marco Polo. L’adiacente Teatro Malibran (XVII sec.) sorge invece sul sito della casa appartenuta alla famiglia Polo. Nella pagina accanto i fratelli Polo si congedano dall’imperatore Baldovino Il di Costantinopoli, da un’edizione del Livre des merveilles miniata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

La casa sul Canal Grande

Nel cuore della città lagunare Al ritorno dalla Cina, alla fine del 1295 o, al piú tardi, nei primi mesi del 1296, i tre fratelli Polo acquistano a Venezia un’abitazione nella parrocchia di S. Giovanni Crisostomo. Siamo sulla riva sinistra del Canal Grande, nel cuore della città lagunare, in una delle zone a piú densa urbanizzazione, non molto lontano dal grande mercato di Rialto, situato sull’altra riva. L’investimento dimostra bene come i Polo abbiano scelto allora di fissare a Venezia la loro residenza e con essa capitali ed energie. La proprietà viene acquistata in regime di indivisione e la comunione dei beni e di vita viene mantenuta fino alla morte di Marco il Vecchio. Di questa casa, della quale oggi non resta traccia, conosciamo solamente l’esatta collocazione. Ma un importante incartamento, andato sedimentandosi nel tempo, sulla base dei testamenti, degli atti processuali, delle divisioni e delle sentenze via via pronunciate dalle differenti corti di giustizia veneziane, lascia indovinare una vasta proprietà a piú piani, che comprendeva una grande sala, o «portego», dodici stanze, una cucina e, nel cortile, un pozzo e una latrina, utilizzati sempre in comune, anche quando la casa venne divisa. Proprio questo incartamento ci ha permesso di seguire, da una generazione all’altra, il passaggio, spesso complesso e oggetto di dispute, di parti della proprietà.

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Dossier la colleganza

Un sistema diffuso e redditizio Nel Medioevo la «colleganza», chiamata «commenda» al di fuori dei confini veneziani, è un contratto di società ampiamente utilizzato nel commercio marittimo. La colleganza semplice unisce un finanziatore (socius stans), che rimane a terra, con un mercante che viaggia e fa fruttare il capitale; gli eventuali profitti vengono divisi nella proporzione di 3/4 per il capitale e il resto per il lavoro. Nel rapporto di colleganza bilaterale, 1/3 del capitale è fornito dal mercante (socius procertans) e, alla scadenza del contratto, i 3/4 dei profitti vengono dunque divisi in proporzione agli investimenti di ciascuno dei due partner. Questo tipo di contratto fu a lungo il piú utilizzato per raccogliere capitali. L’associazione durava il tempo di un viaggio, ma talvolta poteva essere prolungata. Ogni accomandatario aveva tuttavia la possibilità di lavorare con piú finanziatori no zaffiri, topazi, ametiste e rubini eccezionali. Altrove, ai piedi delle montagne, alcune valli profonde pullulano di diamanti. Nella realtà, il ritorno dei Polo a Venezia fu meno fantastico. Quanto alla loro fortuna, essa fu incontestabilmente piú modesta. Il mito, nel corso dei secoli, ha ingigantito la loro ricchezza, inventato aneddoti e stranezze: ha, insomma, ricostruito e abbellito la storia della famiglia. E, spogliata dei suoi ornamenti leggendari, la vicenda dei Polo si scrive in maniera molto piú semplice. Una tradizione ben fondata li vuole originari di Sebenico, in Dalmazia, ma nulla lo conferma. Viene annotata, in compenso, la presenza di individui che portano questo nome nei documenti veneziani dei secoli XI e XII. Alcuni Polo vivono a Venezia, nelle parrocchie di S. Trovaso o di S. Barnaba, e altri sono attestati a Torcello, a Lio Maggiore e a Iesolo. A Chioggia è documentata la presenza di una famiglia Polo di

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e ognuno di questi ultimi poteva, dal canto suo, investire con piú mercanti. Poteva anche accadere che un accomandatario fosse al tempo stesso investitore. Ne risultava, in primo luogo, una grande flessibilità del credito e delle associazioni a breve termine, nonché l’organizzazione di un sistema di finanziamento che, nei primi secoli dell’espansione commerciale veneziana, penetra molto in profondità nella società lagunare, poiché non necessita di un ingente accumulo di capitali. Altra conseguenza fu la fioritura di contratti e di società provvisorie, che frazionavano i rischi e le attività, ma che finivano per mobilitare capitali considerevoli, permettendo cosí un’attività globale notevole. Ne derivava, infine, un ritmo di arricchimento rapido, almeno a giudicare dalle fruttuosissime spartizioni degli utili che, a migliaia, sono attestate dai documenti notarili.

A destra miniatura raffigurante lo scarico delle merci nel porto indiano di Khambhat, dall’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

antica origine, ricca e numerosa. In tutto il mondo lagunare, dal sud al nord del ducato, nella capitale, Rialto, come nelle isole e lungo i cordoni litorali, troviamo dunque alcuni Polo. Tuttavia, è impossibile costruire una genealogia e stabilire una continuità tra i nostri viaggiatori e l’uno o l’altro di questi personaggi.

Un’ascendenza incerta

Occorre infatti attendere il XIII secolo perché un primo antenato esca dall’ombra: si tratta di Andrea Polo, ma la sua figura si disegna con grande fatica. La memoria del suo nome si è conservata, ma non c’è alcun documento che lo confermi. La sua parrocchia di residenza è probabilmente conosciuta: egli avrebbe vissuto, infatti, nella contrada veneziana di S. Felice. Non si sa altro, salvo una co-

sa, la piú importante: ebbe una figlia, di nome Flora, e tre maschi, Marco, detto il Vecchio, Matteo e Niccolò, padre di Marco, il viaggiatore. A questa storia familiare, che prende forma con difficoltà, un testo, alla fine, apporta qualche consistenza. Si tratta del testamento stilato da Marco il Vecchio, in data 27 agosto 1280, a Venezia, in cui il nostro uomo afferma che, dopo un lungo soggiorno a Costantinopoli e in Oriente, si è installato nella parrocchia veneziana di S. Severo, dove divide la residenza con la cognata Fiordelisa Trevisan, moglie di Niccolò. Egli ricorda l’impresa familiare, con base nel Mar Nero, a Soldaia (l’odierna Sudak, in Crimea), e i suoi due fratelli ai quali è legato, in seno a una «fraterna compagnia», dalla comunione dei beni. luglio

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A destra miniatura raffigurante i fratelli Polo che partono da Venezia, tratta anch’essa dall’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Dossier A sinistra un’altra miniatura tratta dall’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina raffigurante Khubilai Khan che consegna ai fratelli Polo un paiza (vedi foto alla pagina precedente). 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

In basso paiza in argento. Dinastia Yuan, 1206-1368. Si tratta dello speciale passaporto rilasciato dal Gran Khan ai suoi ospiti illustri, fra i quali vi furono i Polo: Marco, infatti, ne parla nel Milione. È costituito da una lamina d’argento dorato, incisa sui due lati con la scrittura mongola phagspa, istituita direttamente da Gengis Khan. La frase incisa significa: «L’Imperatore è l’autorità suprema e a lui si deve obbedire, pena la morte».

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Il testamento di Marco Polo

Perché i beni non rimangano male ordinati Pochi mesi prima di morire, Marco Polo, giunto al suo settantesimo anno di età, chiamò il notaio Giovanni Giustiniani (che era anche il suo parroco) e il 9 gennaio 1324 dettò il suo testamento. Redatto in latino, con minuta scrittura gotica, il prezioso reperto è l’unico documento esistente riferito al grande viaggiatore autore del Milione ed è oggi conservato negli archivi della Biblioteca Marciana di Venezia. Nell’eccezionale documento – vergato su una pergamena che misura 67,5 x 24,5 cm – il nome di Marco Polo è citato due volte e, tra l’altro, si legge che «è dono d’ispirazione divina e decisione di provvida mente che, prima del sopraggiungere della morte, ognuno abbia la sollecitudine di disporre dei propri beni in modo che tali beni non rimangano male ordinati». Sentendosi «ogni giorno indebolire per malattia del corpo, ma per grazia di Dio sano di mente», Marco Polo nomina eredi le figlie Fantina, Bellela e Moreta, lasciando alla moglie Donata Badoer una pensione annua di 8 ducati oltre alla dote, il guardaroba e gli arredi, compresi tre letti completi di corredo. Pagata l’usuale decima, dopo alcuni lasciti e remissione di debiti che gli erano dovuti da parenti e religiosi vari, affranca lo schiavo Pietro tartaro, lasciandogli 100 lire di denari piccoli, oltre a tutto ciò che aveva guadagnato con il suo lavoro. È questa l’unica «pallida eco» del suo celeberrimo viaggio in Oriente. In questo modo Marco luglio

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Ecco dunque lo scenario: i fratelli Polo appartengono a questa società dei Latini d’Oriente, ben impiantati nel Mediterraneo orientale come nei porti del Mar Nero. E la loro storia, con i suoi ritmi e le sue vicissitudini, riassume perfettamente la vicenda della loro città e del suo commercio. Dopo la quarta crociata e la costituzione dell’impero latino, in seguito alla cessione a Venezia di un vero e proprio impero coloniale (corrispondente in termini di superficie a un quarto e mezzo della Romania) e di importanti privilegi commerciali, era venuto il tempo di un primo apogeo. Nella seconda metà del XIII secolo, la prosperità veneziana non è intaccata, ma la sua preponderanza In basso le prime righe del testamento di Marco Polo, dettato il 9 gennaio 1324. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Nel riquadro si legge il nome di Marco Polo (Marcus Pauli).

ha termine. La formidabile ascesa al potere di cui è protagonista la città rivale di Genova rimette brutalmente in causa i rapporti di forza e, ad Acri, ha inizio la lotta fra le due città mercantili. Finché, nel 1261, Costantinopoli viene ripresa dai Greci, sostenuti dai Genovesi. L’imperatore latino, Baldovino, fugge e per la colonia veneziana di Costantinopoli, per gli interessi stessi di Venezia, il colpo è durissimo.

Il primo viaggio

I Polo non avevano però aspettato l’ingresso trionfale del nuovo imperatore greco per lasciare il Corno d’Oro. Il trasferimento dei loro affari da Costantinopoli a Soldaia, data infatti dalla fine del regno di Baldovino. Ed è da questo banco, nel 1261, che i due fratelli Matteo e Niccolò partono per il loro primo viaggio in Asia. Proprio nel 1261, quando alcune famiglie veneziane scelgono di rientrare in patria, altri mercanti, sull’e-

Polo ci dà l’ultima notizia che potremmo allegare al Milione: dall’impero del Gran Khan nel 1291 si era portato a Venezia un servitore tartaro. Il testamento si conclude con una esplicita minaccia: «E se qualcuno presumesse infrangere e violare questo testamento, incorra nella maledizione di Dio onnipotente et sub anathemate trecentorum decem et octo Patrum conscrictus permaneat, e sia costretto a pagare alle dette mie eredi 5 libbre d’oro, e questo mio testamento resti fermo». Marco Polo verrà sepolto, come da sua volontà, nel cimitero del Monastero di San Lorenzo a Venezia, ma all’inizio dell’Ottocento per effetto delle leggi sanitarie napoleoniche la sua tomba, come tutte le altre, verrà dispersa. (red.)

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sempio dei fratelli Polo, trasferiscono i loro affari, preferendo esplorare nuove piazze e battere nuove strade. In questa scarna cronologia, un’altra data è sicura: quella della nascita di Marco Polo, avvenuta nel 1254. Egli ha dunque l’età richiesta per partecipare, al fianco di suo padre e di suo zio Niccolò, al secondo grande viaggio dei Polo, a partire dal 1271. I tre viaggiatori fanno ritorno nella Laguna nel 1295. L’altro fratello, Marco il Vecchio, si era già da tempo ritirato a Venezia. Gli anni orientali terminano dunque per i principali protagonisti della famiglia. C’è ancora un viaggio di Niccolò, figlio di Marco il Vecchio, e uno di Matteo il Giovane, che si imbarca nel 1300 per Creta, munito di qualche avere per commerciare. Vengono dunque lasciati ai piú giovani, figli naturali o illegittimi, le fatiche e i rischi dei traffici. Marco il Vecchio e l’altro Marco, il viaggiatore, preferiscono investire capitali in contratti di colleganza, facendo fruttare i loro beni in affari di scarsa importanza. Ormai sedentarizzati, essi preferiscono godere della loro nuova dimora familiare. Dalle cuciture dei loro abiti le pietre preziose non escono piú copiose. A Trebisonda, al ritorno dal loro secondo viaggio, i Polo sono stati d’altronde spogliati di buona parte dei loro averi. Ma il testamento di Marco, redatto un anno prima della sua morte, avvenuta il 9 gennaio 1323, i suoi lasciti alla moglie e alle tre figlie, le sue disposizioni caritatevoli, rivelano un’onesta agiatezza. Agiatezza testimoniata anche dall’inventario, redatto piú di quarant’anni dopo, dei beni che una delle sue figlie aveva ricevuto da lui: drappi da letto e tessuti, mantelli e sete. La lista non enumera le meraviglie dell’Oriente, descrive piuttosto il quadro di vita di un mercante dotato di una grande casa, di beni adeguati, e convenientemente inserito nella società del suo tempo. Elisabeth Crouzet-Pavan

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Dossier

MISSIONE AI CONFINI DEL MONDO IN

di Lorenzo Pubblici

A

l tempo in cui i fratelli Polo intrapresero il primo viaggio verso l’Estremo Oriente (1250), l’Occidente cristiano aveva una nozione piuttosto vaga e spesso alterata dal fantastico di quelle terre lontane. Sin dai secoli dell’Alto Me-

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dioevo e fino al Duecento si riteneva che in Asia orientale vi fosse il Paradiso, pur senza saperlo ben localizzare. In pratica, si aveva di questa parte del mondo un’immagine statica e molto letteraria. Questa scarsa conoscenza era

comunque circoscritta all’Estremo Oriente, poiché l’Europa dell’Est e anche i Paesi del Vicino Oriente erano ben noti agli Occidentali. I mercanti, in particolare, si spinsero assai presto verso Levante. È noto quali proporzioni assunse la colo-

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nizzazione latina in Crimea e su tutta la costa del Mar Nero; Amalfitani, Veneziani, Pisani e Genovesi furono molto attivi nelle regioni dell’Impero bizantino già dal XII secolo; Veneziani e Genovesi arrivarono sino alla foce del Don, sul Mar d’Azov, appropriandosi di Tana, e i Genovesi in particolare si spinsero fino al Mar Caspio; lo stesso Marco Polo dice: «’L mare che io v’ho contato si chiama lo mare di Geluchelan [la regione di Ghelan faceva parte della provincia persiana sulla costa del Mar Caspio o Mare di Geluchelan, come lo chiama Marco] (…) E nuovamente mercatanti di Genova mavica-

no per quel mare». In tale contesto il viaggio dei Polo rappresenta quasi un’eccezione, un evento che assume i caratteri di una vera e propria avventura, di cui fu protagonista la straordinaria intraprendenza del mercante duecentesco.

Stirpi nomadi

All’inizio del XIII secolo l’Asia fu oggetto di un vero e proprio sconvolgimento politico-geografico che ne mutò profondamente confini e struttura amministrativa. Attori di tale fenomeno furono i Mongoli, o Tartari (come li chiamavano in Occidente) o i Tartaro-mongoli, come li definiscono i Russi. Essi erano un insieme eterogeneo di stirpi nomadi, da lungo tempo in lotta per accaparrarsi i pascoli migliori, che, per motivi diversi e grazie all’opera di un grande condottiero, formarono il piú vasto impero che sia mai esistito. Temujin, noto a tutti come Gengis Khan, era il capo di una delMiniatura raffigurante la carovana dei Polo in viaggio verso le Indie, da una tavola comprensiva di tutti i mari del mondo, nota come Atlante catalano, perché realizzata appunto da geografi catalani che operavano a Maiorca; ultimata nel 1375, l’opera venne offerta in dono al re di Francia Carlo V. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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le tante tribú della Mongolia orientale. Egli riuscí a unificare le tribú mongole costituendo una popolazione solida, compatta e omogenea, il cui esercito riscosse vittorie a ripetizione e pose in atto una serie di conquiste del tutto eccezionali. I Mongoli si appropriarono di un territorio le cui dimensioni erano impressionanti e, anche dopo la morte di Gengis, avvenuta nel 1227, di conquista in conquista, ampliarono il già vasto dominio. Il sovrano volle che, alla sua morte, l’impero fosse diviso fra i suoi quattro figli. Il maggiore di essi, Giuci, ebbe le steppe dei Khirghisi e i Paesi dell’Ovest, in pratica tutti i Paesi a nord e a ovest dei Monti Altai. A Ciagatay toccarono in eredità l’Asia Centrale, il Turkestan russo e i Paesi fino al Lago di Aral, e a Ogodej l’Estremo Oriente, cioè la Cina settentrionale e i territori vicini. Era antico costume mongolo lasciare al figlio minore le terre degli avi, e fu la sorte che toccò a Tuli, quarto figlio di Temujin. La parte di territorio che conosciamo col nome di Orda d’Oro coincideva piú o meno con l’attuale Russia centrale e sud-occidentale. L’immagine tradizionale dei Mongoli è quella di un popolo crudele, caratterizzato da una furia distruttiva straordinaria e privo di ogni interesse culturale. La storiografia ha discusso molto su questo aspetto e su quanto essi siano stati dominatori spietati o fautori di un processo di unificazione tutto sommato positivo. Va detto subito che quanto sappiamo su di loro proviene sostanzialmente dalle fonti prodotte da cronisti che subirono in prima persona la dominazione dei Tartaro-mongoli, quindi il loro giudizio non poteva essere troppo positivo. Il Pianto sulla distruzione di Rjazan’, una cronaca russa scritta in seguito alla conquista mongola della città medesima, nel 1237, e di Kiev nel 1240, li descrive come un castigo divino, una catastrofe spaventosa mandata da Dio per l’espia-

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Miniatura raffigurante Gengis Khan con due dei suoi quattro figli, da un’edizione del Giami’ at-Tawarikh (Raccolta di storie) dello storico persiano Rashid ad-din Fadl Allah. 1430-1434. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

zione dei peccati: «E scorreva come un fiume impetuoso il sangue cristiano in ragione dei nostri peccati». Sempre intorno alla metà del XIII secolo, però, Ata-Malik Juvaini, cronista originario dell’Iran nord-orientale, scrisse una storia dei Mongoli nella quale non esita a definire feroci e spietati gli invasori, ma ne elogia al tempo stesso la ca-

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pacità di gestione delle città e riconosce la bellezza di alcune di esse, che sotto la loro dominazione vissero un’epoca di splendore «unico». Il periodo compreso fra la costituzione dell’impero mongolo e il suo rapido declino (dagli anni Quaranta del Duecento ai Sessanta del secolo successivo) va sotto il nome di pax mongolica. Fu anche grazie all’unità amministrativa raggiunta in questo periodo se la «via di terra» per l’Oriente divenne sicura, consentendo agli uomini occidentali di spingersi laddove non avevano mai osato. Si pensi, per esempio, che, al tempo delle prime invasioni tartare,

la Russia era un insieme di ben sessantaquattro domini nelle mani di centinaia di principi che si facevano la guerra in continuazione. Intanto in Occidente il potere era dominio sostanziale di tre grandi autorità: quelle del papato, di san Luigi di Francia e di Federico II. L’avanzata mongola era vista, soprattutto quando i Tartari giunsero fino all’Ungheria (1241) ed ebbero preso Pest e Buda, come una sorta di castigo divino, una punizione finale. Tale situazione fu presa molto sul serio dal papa, l’energico genovese Sinibaldo Fieschi, salito al soglio di Pietro col nome di Innocenzo IV nel luglio

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A destra mappa dell’impero mongolo: alla proclamazione di Gengis Khan imperatore (1206; giallo); alla morte di Gengis Khan (1227; verde); massima estensione dell’impero e dei khanati tra il 1259 e il 1368 (rosso); invasioni mongole in Europa tra il 1237 e il 1242 (frecce).

Europa OR

DA D’O

RO KHANATO DI OGODEI KHANATO DI CHAGATAI

ILK AT O

N

Arabia

HA

1243. Fu proprio il papa (in seguito al Concilio di Lione del 28 giugno 1245) a organizzare i primi viaggi apostolici in Oriente presso il Gran Khan, al fine di conoscere meglio queste popolazioni e la loro civiltà, carpirne i segreti militari, valutare quanto fosse possibile avviarne l’opera di conversione e quali fossero le loro reali intenzioni. Gli emissari che meglio potevano assolvere tale compito erano gli Ordini mendicanti. E fu grazie anche a queste iniziative che, nell’immaginario collettivo, la

Mare del Nord

Africa

Karakorum

IMPERO DEL GRAN KHAN

Shangdu

Giappone

Khanbaliq/Dadu

Oceano Pacifico

India

Oceano Indiano Indonesia

L’arrivo di una nave di mercanti a Hormuz, nel Golfo Persico, in un’altra miniatura dall’edizione del Livre des Merveilles illustrata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Dossier

Sulle due pagine altre miniature tratte dall’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In questa pagina, Khubilai Khan consegna ai fratelli Polo una lettera per il papa; nella pagina accanto, Niccolò e Matteo Polo consegnano una missiva a Gregorio X.

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penetrazione verso l’Estremo Oriente divenne meno irrealizzabile. Il primo Domenicano a viaggiare verso il Gran Khan e di cui si abbiano notizie documentate fu Andrea di Longjumeau, il quale dopo varie difficoltà raggiunse Tabriz, allora capitale della Persia mongola e oggi nel Nord-Ovest dell’Iran. I viaggi di Andrea e di un suo confratello, Ascelino da Cremona, non ebbero risultati apprezzabili. Il primo, come detto, non proseguí oltre Tabriz; il secondo, pur arrivando fino al Karabagh, dov’era il campo del Khan

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Batu (maggio 1247), a causa forse della sua intransigenza, rischiò quasi la morte e fece rientro alla corte papale dopo aver ricevuto nelle proprie mani un editto del Gran Khan destinato a re Luigi IX di Francia.

Per conto del papa

Ben altro risultato, anche ai fini della conoscenza di quella realtà lontana, ottenne il viaggio del francescano Giovanni di Pian del Carpine. La sua fu una missione che oggi potremmo definire di intelligence. Come abbiamo detto, al papa inte-

ressava infatti capire quale fosse il modo di combattere di queste popolazioni. Personaggio interessante, il frate umbro aveva forse conosciuto personalmente il santo di Assisi e aveva maturato una solida esperienza in campo diplomatico (rappresentando l’Ordine prima in Sassonia, poi in Germania, in Spagna e di nuovo in Sassonia dal 1221 al 1239). Nel 1245 gli fu affidata la missione ad Tartaros, grazie alla quale sappiamo molte cose sulle popolazioni tartaro-mongole. Il viaggio è narrato dall’Historia Mongalorum, un

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Dossier lt ic

o

MARCO POLO E IBN BATTUTA: VIAGGIATORI A CONFRONTO

Ba

Mare del Nord

Ma

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E U R O PA Venezia Genova

Astrakhan

Mar Caspio

Mar Nero Costantinopoli

Tabriz

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Fez

iterra Mar Med

Alessandria

Marrakech

Balkn

Antiochia

Tunisi

PERSIA

Baghdad Damasco Gerusalemme

Kabul

Cairo Hormuz Medina

ARABIA

Timbuktu

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Taghaza

Surat

Mecca

DESERTO DEL SAHARA

o

Gao

Mar Arabico

Aden

Jenne

Mogadiscio

MALDIVE

Mombasa

OCEANO

Kilwa

ATLANTICO

Vi a gg i d i M a rc o P o l o Vi a gg i d i I b n B a t t u t a

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OCEANO

resoconto preciso e ricco di particolari sugli usi civili, religiosi e militari dei Mongoli. Dopo aver attraversato la Polonia e poi la Galizia, il frate giunse a Kiev, da dove proseguí verso Est fino all’accampamento di Batu sul Volga. In seguito all’incontro col Khan, il Francescano riuscí a ottenere il permesso di proseguire verso la capitale dell’impero, Karakorum, situata a est dei monti Altai, dove incontrò il Gran Khan appena eletto Güyük (agosto 1246). L’Historia rappresenta un risultato straordinario per dovizia di particolari e l’ampiezza del quadro presentato. L’esperienza di Giovanni di Pian del Carpine fu seguita da altre simili per scopo, ma solo l’Itinerarium di Guglielmo di Rubruck (fiammingo, anch’esso inviato dal papa) raggiunse la precisione e l’efficacia dell’Historia carpiniana nel raccontarci quel popolo nomade che tanto spaventava l’Occidente.

PA C I F I C O

Commercio di gioie

RUSSIA Lago Baikal

Karakorum DEL ERTO

T U R K E S TA N

I

GOB

DES

Kashgar

Shangdu Pechino (Cambaluc)

CINA

Yangzhou

Xi'an

TIBET

Suzhou Hangzhou

Chengdu

HI

MA L AY A Delhi

Fuzhou

Kunming

Chittagong

Guangzhou

INDIA Pagan

Calicut

Mar Cinese Meridionale

CEYLON

Pasai Malacca SUMATRA GIAVA

OCEANO INDIANO

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Il primo viaggio in Cina fu intrapreso dai fratelli Polo, Niccolò e Matteo, rispettivamente padre e zio di Marco, «ne li anni di Cristo 1250». Partirono da Costantinopoli, dove avevano un’attività certamente ben avviata di commercio in pietre preziose e gemme («molte gioie per portare», come scrive Marco Polo; erano infatti beni che si potevano facilmente trasportare e di cui erano particolarmente amanti i sovrani mongoli). Da Costantinopoli «andarono in Soldania», l’odierna Sudak, in Crimea. Città a ovest di Caffa ed emporio frequentato dai Polo, i quali vi avevano un magazzino, Sudak era molto importante per i mercanti che lavoravano in questa zona: ne giungevano, infatti, molti dalla Turchia, ma non solo, diretti verso settentrione, soprattutto verso i mercati baltici. I fratelli Polo furono sicuramente nella città che Marco chiama Bolgara, l’attuale Bolgary a sud di Kazan’, sulla riva del Volga, dove incontraro-

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Dossier no Berke, successo a Batu (generale e khan dei Tartari di Ponente), col quale ebbero un incontro felice: «E lo re fece grande onore a messere Niccolaio e a messere Matteo ed ebbe grande allegrezza della loro venuta». Successivamente i due furono a Bukhara, in Uzbekistan, anticamente capitale della Grande Turchia, dove conobbero Barac, re della Transoxiana, pronipote di Ciagatai. Rimasero nella città per ben tre anni e qui incontrarono gli ambasciatori del Gran Khan, coi quali partirono per raggiungere il sovrano. La loro presenza a corte suscitò la curiosità di Khubilai, il quale volle che i fratelli veneziani recassero ambasciate al papa (era da poco stato eletto Clemente IV, succeduto a Urbano IV).

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

La lettera di Gregorio

Partiti per fini commerciali, i fratelli Polo si trovarono cosí a dover rappresentare presso il papa nientemeno che il Gran Khan. Dopo un lungo viaggio di ritorno, furono ad Acri nel 1269 e rientrarono a Venezia. Al rientro appresero che era da poco (1268) morto il pontefice e dovettero attendere la nuova elezione. Di fatto questa non avvenne prima del 1271, anno in cui fu posto sul soglio di Pietro Tebaldo Visconti, legato papale che aveva

rabban sauma

Il Marco Polo cinese Tutti conoscono, piú o meno bene, la vicenda di Marco Polo e molti sanno che c’è stato un viaggiatore arabo che ha forse viaggiato piú del mercante veneziano: Ibn Battûta. Meno noto è che, negli anni in cui Marco Polo viaggiava per conto del khan mongolo, un monaco cinese di nome Sauma percorse quasi le stesse sue tappe, ma al contrario, da Oriente a Occidente. La sua avventura è narrata in una cronaca, Storia di Mar Yahballaha e di Rabban Sauma, scritta da autore ignoto in siriano e scoperta nella seconda metà del XIX secolo. Inviato del khan Argun, sovrano dell’Iran,

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egli guidò, fra il 1287 e il 1288, una missione diplomatica presso i Regni occidentali di Francia e Inghilterra e la Santa Sede. Partí con l’amico Marco (che divenne Mar Yahballaha in seguito alla sua elezione come catholicos d’Oriente) dall’eremitaggio ove risiedevano, vicino a Kawšang. Furono a Khanbaliq, Tangut, Khotan e Kašghor. Non utilizzarono, come Marco Polo, la via del Pamir, ma passarono verso nord-ovest, dal Tien Shan, e raggiunsero Talos. Furono nella regione del Khorosan e nella città di Tus, poi a Maragha in Azerbaigian. Qui Marco divenne catholicos d’Oriente e a Sauma fu affidata l’ambasciata per i sovrani d’Occidente. luglio

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affidato proprio ai Polo le lettere per il Khan. L’elezione del Visconti, col nome di Gregorio X, avvenne quando i fratelli, con Marco, erano già partiti da Laiazzo. In questo frangente si colloca un avvenimento curioso. Saputo dell’elezione papale, i fratelli rientrarono ad Acri, dove ricevettero ulteriori direttive per la loro missione. In quest’occasione furono loro affiancati due Carmelitani, Niccolò da Vicenza e Guglielmo da Tripoli. Questi viaggiarono con i tre mercanti fino a quando seppero che vi erano stati assalti musulmani a carovane in viaggio verso Levante. I frati non vollero proseguire oltre. L’itinerario dei fratelli Polo e del giovane Marco (giovane lo era davvero, ma non si pensi che fosse un’eccezione, per quei tempi, portarsi dietro un ragazzo di appena quindici anni, anche se il viaggio era pericoloso; anzi, era consuetudine nelle famiglie mercantili fornire ai figli un’educazione «commerciale» di base e inviarli a fare esperienze lontano da casa) rappresenta un esempio straordinario di come l’intraprendenza dei mercanti in quest’epoca fosse divenuta davvero notevole. Essi passarono per la Cilicia e l’Armenia, poi per Tabriz e Hormuz (Golfo Persico),

poi attraversarono l’Afghanistan settentrionale e gli altopiani del Pamir fino alla valle di Tarym, e il deserto del Gobi. Approdarono alle regioni del Turkestan cinese, passando per la parte meridionale della Via della Seta, e, all’inizio dell’estate del 1275, giunsero a Clemenfu. Qui incontrarono il Gran Khan (Clemenfu, o Ciandu, era infatti la sua residenza estiva).

Privilegi eccezionali

Da questo momento inizia un periodo straordinario per Marco. Il Gran Khan lo elesse ambasciatore consentendogli di viaggiare in lungo e in largo per gli sterminati territori dell’impero, sempre ben protetto e attrezzato. Grazie a questa sua nuova veste il nostro poté visitare luoghi che ad altri Occidentali erano praticamente inaccessibili, di cui ci ha lasciato descrizioni straordinarie. Durante questi anni Marco viaggiò attraverso lo Shen-si, il Sezechuan, fino a raggiungere lo Yunnan, nell’alta valle dello Yangtze. Fu sulla costa orientale della Cina, da Pechino al Fu-Kien sino al porto di Zaiton. Non bisogna però trascurare l’importanza che ebbe per le nostre conoscenze il viaggio di ritorno. Quasi sicuramente (è

Sauma passò quindi da Trebisonda, navigò per il Mar Nero fino a Costantinopoli e poi verso l’Italia. Sbarcò a Napoli e si recò a Roma, dove non poté incontrare il papa, in quanto erano in corso le elezioni per designare il successore di Onorio IV. Partito da Roma passò per la Toscana, raggiunse Genova e andò a Parigi dove incontrò Filippo IV. La delegazione partí poi per l’Inghilterra (per la Guascogna, che era feudo inglese). Giunsero a Bordeaux, dove incontrarono Edoardo I, e da qui ripartirono per la corte di Argun, dove giunsero probabilmente nell’autunno del 1288.

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Nella pagina accanto ancora una miniatura dal Livre des merveilles di Marco Polo illustrato dal Maestro della Mazzarina raffigurante Khubilai Khan che riceve dai Polo i doni del papa. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

quanto afferma Marco nel Milione), nel 1291, vi fu un’ambasceria inviata da Arghun, re di Persia, in base alla quale egli chiedeva a Khubilai in sposa una principessa. Khubilai accettò e affidò ai tre Polo la giovane Cocacin, destinata ad Arghun. I nostri si imbarcarono nel 1292 a Formosa e viaggiarono per il Mare Cinese fino a Sumatra, dove rimasero per cinque mesi. Giunsero a Hormuz l’anno seguente. Per capire le difficoltà a cui andarono incontro si pensi che di oltre 600 persone facenti parte l’equipaggio originario ne sopravvissero solo 18. I tre Veneziani conclusero la missione lasciando la principessa a Ghazan, successore di Arghun che nel frattempo era morto. Dopo aver soggiornato, fra il maggio 1293 e il febbraio dell’anno seguente, in Persia, i nostri viaggiarono per terra fino a Trebisonda, sulla costa meridionale del Mar Nero. Da qui raggiunsero Costantinopoli e Negroponte. Furono a Venezia nel 1295 dopo quattro anni di viaggio e 17 passati in territori lontanissimi, e non solo geograficamente, da quell’Occidente europeo dal quale essi erano partiti. La figura di Marco Polo e l’attendibilità del Milione hanno fatto molto discutere gli studiosi. Ma ciò che vale la pena evidenziare è che dalle pagine del libro appare un uomo del suo tempo che sempre sottolinea, da «buon cristiano», se un popolo crede in Maometto oppure in Cristo, ma soprattutto appare un mercante, sempre preoccupato di contare, osservare le lavorazioni tipiche dei luoghi, gli animali da carne e da lavoro, le materie prime e i prodotti dell’operosità umana. L’opera poliana è quindi degna di fede molto piú di quanto l’andatura narrativa non faccia spesso ritenere e per noi, che questi avvenimenti li studiamo attraverso le fonti, Il Milione rappresenta un documento unico e lucido nell’aprire all’Estremo Oriente «ne gli anni di Cristo 1295».

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PAGINE DI

MERAVIGLIE

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di Alvaro Barbieri

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T

ra le grandi creazioni della letteratura romanza del Medioevo, Il Milione è un’opera scaturita dalla collaborazione fortuita e feconda tra due figure del tutto diverse per provenienza, esperienze e mentalità: il veneziano Marco Polo e il pisano Rustichello, catturati dai Genovesi in due successivi scontri navali e incontratisi nel 1298 nelle carceri della Superba. Da un lato c’è l’uomo d’azione, formatosi nel mondo della mercatura, che ha percorso le immense estensioni dell’Asia gengiskhanide e solcato le acque dell’Oceano Indiano; dall’altro lato abbiamo invece il sedentario, l’uomo di penna che padroneggia gli strumenti della comunicazione letteraria. Come spesso accade nelle scritture di viaggio medievali, anche questo libro nasce dal contributo di due personalità distinte che mettono in gioco le loro rispettive competenze.

Narratori e compilatori

I piú noti Itineraria scritti tra la fine del Duecento e la metà del Quattrocento risultano dal sodalizio di un viaggiatore-narrante con un letterato-estensore: la cooperazione tra i due autori è di solito registrata da una nota liminare (collocata nelle parti proemiali o nell’explicit) in cui il compilatore, auctor-scriptor, garantisce di aver verbalizzato fedelmente le parole di colui che ha vissuto e ricorda l’avventura, l’auctor-dictator. Sintomatico, a questo riguardo, il caso del missionario francescano Odorico da Pordenone, protagonista di un’eccezionale spedizione ad partes Indiae, il cui resoconto venne redatto nel 1330 dal confratello Guglielmo da Solagna. Ma analoghe forme di osmosi fra due autori si incontrano anche nel mondo islamico: il celebre Ibn

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Battuta (1304-1368/69) dettò le memorie delle sue peregrinazioni a un certo Ibn Djuzay, che le rifuse e ordinò in un’opera compatta e di mole considerevole. Come si vede, l’homo viator possiede conoscenze verificate de visu o raccolte da informatori, ma non è in grado di fissarle in forma letteraria, sicché deve avvalersi dell’homme du livre, il quale opera la trasposizione del vissuto sul piano testuale. Lo schema di collaborazione appena presentato ritorna nella com-

In alto un’altra miniatura dal Livre des merveilles di Marco Polo illustrato dal Maestro della Mazzarina raffigurante i fratelli Polo durante l’attraversamento della Persia. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto particolare di una miniatura raffigurante cercatori di perle e pietre preziose destinate al Khubilai Khan, da un’edizione del Livre des merveilles illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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posizione del Milione: a Marco Polo, infatti, vanno ascritti i contenuti informativi del libro; a Rustichello dev’essere attribuita la messa per iscritto di tali contenuti in prosa francese. Circa la genesi e le modalità di stesura non si può dire nulla di assolutamente sicuro. In assenza di dati certi, ci dobbiamo accontentare di quanto si ricava dal capitolo proemiale, dove si legge che il Veneziano, essendo «prigioniero nelle car-

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ceri di Genova, fece esporre [fist retraire] tutte queste cose [le notizie sull’Asia] a maestro Rustichello da Pisa, che si trovava in quelle stesse carceri» (questa e le citazioni che seguono sono tratte dalla versione del Milione tradotta da Luigi Foscolo Benedetto e pubblicata da Garzanti, Milano 1942).

Piú di una dettatura

Le esperienze e i saperi accumulati da Marco durante il soggiorno in

partibus Orientis furono organizzati e messi in forma da Rustichello. Tuttavia, date l’ampiezza e l’organicità dell’opera, sembra molto difficile pensare a una semplice dettatura. È lecito anzi ipotizzare che il viaggiatore avesse messo a disposizione del maestro pisano un quaderno di appunti presi nel corso dell’itinerario e negli anni di permanenza nell’impero dei Mongoli, forse un brogliaccio di luglio

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Miniatura raffigurante il Khubilai Khan che fa apporre il sigillo imperiale sulle monete, da un’edizione del Livre des merveilles illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

diffusa, quella cioè che poteva assicurare la piú ampia ricezione. Come si evince dall’incipit del Milione, Marco e Rustichello aspiravano a raggiungere un pubblico internazionale, vasto e diversificato. Un pubblico che avrebbe dovuto comprendere tutti gli stati sociali laici: «Imperatori e re, duchi e marchesi, conti, cavalieri e borghesi, o voi, chiunque siate, che volete conoscere le varie razze umane e le singolarità delle diverse regioni del mondo, prendete questo libro». Il francese era di certo il mezzo piú adatto per indirizzarsi a un uditorio cosí eterogeneo. Si aggiunga che Rustichello, «professionista» della scrittura, aveva una buona dimestichezza con quella lingua, essendosene già servito in precedenza per scopi letterari: verso il 1272, aveva redatto una compilazione di materia arturiana nota come Roman de Meliadus. È inoltre probabile che anche Marco Polo avesse una qualche conoscenza dell’idioma di Francia, circolante a Venezia e largamente diffuso come strumento di scambio nell’Oriente latino e nei fondachi del Mediterraneo.

Un successo duraturo annotazioni di interesse mercantile strutturato alla maniera delle pratiche di mercatura. Il libro, lo si è già ricordato, venne composto originariamente in francese. Questa scelta non è affatto sorprendente per un testo di tipo didattico-informativo scritto in Italia settentrionale alla fine del XIII secolo. Nel Due-Trecento il prestigioso volgare d’Oltralpe era sovente utilizzato nella produzio-

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ne letteraria nord-italiana, sia per compilazioni e rifacimenti di argomento cortese e cavalleresco (si pensi soltanto alla cosiddetta epica franco-veneta), sia per la composizione autonoma di opere enciclopediche e storiografiche (basti citare il Trésor di Brunetto Latini e le Estoires de Venise di Martin da Canal). La lingua d’oïl non solo poteva vantare un’illustre tradizione letteraria, ma era anche la parlata romanza piú

Il testo originario del libro di Marco e Rustichello è andato perduto. A noi restano oltre 130 codici che tramandano molteplici versioni dell’opera, redatte in lingue differenti e secondo diverse strategie comunicative. Del Milione abbiamo dunque numerose versioni antiche (in toscano, veneto, latino, ecc.) composte in svariati ambienti socioculturali fin dai primi decenni del Trecento, versioni che documentano l’immediato successo dell’opera in luoghi e contesti diversi. (segue a p. 111)

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Dossier

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In alto la nave di Marco Polo in una cinquecentina portoghese. Nella pagina accanto frontespizio del Libro del famoso Marco Polo, traduzione in lingua spagnola del Milione curata da Rodrigo Fernández de Santaella. 1503. In basso un ritratto del mercante veneziano nell’edizione pubblicata a Norimberga nel 1477.

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Opera incompiuta

Come una dissolvenza Il segmento conclusivo del libro di Marco Polo è composto da una sequenza di capitoli sulle gelide regioni dell’estremo Nord e i potentati mongoli indipendenti, o solo formalmente dipendenti, dall’autorità di Khubilai Khan. Questa sezione appare meno coesa e strutturata rispetto al resto dell’opera: l’esposizione è meno posata e le «cartelle» geografiche sulla Russia e la Siberia occidentale sembrano affastellare i dati in modo frettoloso. Non solo. L’opera poliana si apre in modo maestoso, con un proemio ben articolato e di tono sostenuto. Ebbene, questa ampia ouverture non trova corrispondenza in un finale altrettanto solenne. Il Milione si conclude bruscamente, con una specie di «dissolvenza a nero», su una scena di battaglia: mentre ancora echeggia il frastuono dello scontro, un capo mongolo abbandona il campo per mettersi in salvo... A tali segni evidenti di incompiutezza si aggiungono ulteriori tracce di non-finito rilevabili da un estremo all’altro del testo: ambiguità delle voci narranti, instabilità del punto di vista, dimenticanze e pentimenti esplicitamente dichiarati: tutte sbavature affioranti a livello enunciativo che denunciano le esitazioni e il travaglio di una composizione ancora in progress. È possibile che la liberazione di Marco dalle carceri genovesi e il suo ritorno a Venezia e alla vita attiva abbiano provocato l’interruzione del sodalizio con Rustichello. In ogni modo, quali che siano state le vicissitudini dei coautori e le fasi della stesura, resta il fatto che al libro mancarono gli ultimi tocchi e il lavoro di revisione.

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Dossier Il Milione ha le forme di un trattato, e, al tempo stesso, di un favoloso racconto di viaggio

Sulle due pagine un’edizione in latino del Milione con annotazioni a margine di Cristoforo Colombo. XV sec. Siviglia, Bibliotheca Colombina. A sinistra pagina tratta da una delle cinque edizioni manoscritte originali dei Viaggi di Marco Polo, appartenuta al re Carlo V di Francia. XIV sec. Stoccolma, Kungliga Biblioteket.

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Tra tutti i testimoni pervenutici, quello meno distante dalla stesura primitiva, tanto nella veste linguistica quanto nell’ordine della materia, è il manoscritto francese 1116 della Bibliothèque Nationale di Parigi, correntemente indicato con la sigla «F». Nel manoscritto F l’opera poliana è chiamata Divisament dou monde, «Descrizione del mondo», titolazione che inserisce il libro nel filone della trattatistica geografica e che probabilmente risale alla volontà dei due coautori. Milione, denominazione documentata in alcuni esemplari della versione toscana trecentesca e abitualmente adottata in Italia, non è che la forma ridotta di Emilione, soprannome di un ramo della famiglia Polo. Altri codici riportano un ventaglio di diciture

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che sembrano orientare altrimenti l’interpretazione del dettato: Livre des Merveilles mette l’accento sui mirabilia Indiae; Del Gran Khan o Historia Tartarorum assegnano una posizione di primo piano a Khubilai e all’impero mongolo, ecc.

L’incontro fra generi diversi

Questa proliferazione di titoli è, almeno in parte, il riflesso dell’ibridismo del testo che si situa nel punto d’intersezione di generi diversi. E va detto che la polimorfia del libro di Marco, certo incrementata dalla molteplicità delle traduzioni e degli adattamenti, è già evidente nella stesura originaria, del cui disegno generale il manoscritto F offre un’immagine abbastanza attendibile.

La redazione francese tràdita dal manoscritto parigino sembra incrociare il modello dell’itinerarium con quello del trattato geografico. Le notizie sull’Asia si distendono sul tracciato delle peregrinazioni orientali del Veneziano, sicché le schede geo-etnografiche relative alle regioni via via descritte, oltre a scandire la segmentazione in capitoli dell’atlante poliano, si sovrappongono alle tappe del viaggio. Tolta la sezione iniziale, che serve a fondare la credibilità degli autori, l’opera appare suddivisa in tre blocchi, che ricalcano la doppia parabola Europa-Oriente-Europa: il primo pannello, concernente i fatti di Persia e di Mongolia, rimanda al percorso d’andata, attraverso la Via della Seta; il secondo, che tratta del Gran Khan e del suo impero, rinvia ai diciassette anni di soggiorno presso il sovrano mongolo; il terzo, infine, dedicato alle Indie, corrisponde al tragitto di ritorno per mare, lungo le rotte della Via delle Spezie. Un trattato, dunque, e al tempo stesso un racconto di viaggio. Ma non è tutto. L’abbondanza di notizie di natura commerciale e la precisa caratterizzazione merceologica dei prodotti inventariati fanno pensare a un’altra tipologia testuale, quella degli zibaldoni d’affari, dei manuali di mercatura. A tratti, inoltre, il tono scientifico del resoconto geografico è contaminato con temi e motivi propri del romanzo cortese. La marcia verso il cuore del potere gengiskhanide, incerta e piena di insidie, sembra riprendere lo schema narrativo della queste, mentre certi momenti della carriera di Marco nell’apparato imperiale mongolo ricordano da vicino l’ascesa e le imprese qualificanti dei cavalieri erranti del mondo arturiano. Ecco, in questa indefinitezza di statuto letterario, in questa mobilità estrema di forme e contorni, risiedono l’interesse e il fascino che il libro poliano esercita ancor oggi, a piú di sette secoli dalla sua composizione. V

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CALEIDO SCOPIO

Note di viaggio MUSICA • Le straordinarie avventure di Ibn Battuta

rivivono nel progetto discografico firmato da Jordi Savall alla guida del gruppo Hespèrion XXI

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iaggiare – ti lascia senza parole, poi ti trasforma in un narratore»: questo celebre aforisma si deve al viaggiatore arabo Ibn Muhammad Battuta, originario di Tangeri, che visse nel primo sessantennio del XIV secolo. I suoi straordinari viaggi lo portarono fino in India e in Cina, attraversando l’Africa settentrionale, l’Anatolia, la Penisola araba, l’Asia centrale, per poi toccare, al suo ritorno in Marocco, anche la Spagna e l’Africa centrale. Un’esperienza eccezionale per l’epoca, i cui frutti furono raccolti in un’opera, la Rihla, scritta con il contributo dello storico e scrittore andaluso Ibn Juzayy. A questa singolare figura, testimone di prim’ordine della cultura islamica nel mondo allora conosciuto, è dedicato un cofanetto – composto da un libro e da due CD – ideato da Jordi Savall. Sin dagli esordi, il maestro catalano ha sempre avuto un occhio attento alle culture mediterranee ed extraeuropee, puntando a programmi concertistici e discografici basati sull’incontro multiculturale, nei quali esperienze musicali di diversa provenienza si mescolano, rivelando al tempo stesso influenze reciproche. Le scalette dei due CD che compongono l’itinerario «musicale» di Ibn Battuta, registrati dal vivo ad Abu Dhabi e a Parigi, si ispirano idealmente alle peregrinazioni del grande viaggiatore, attraverso i luoghi visitati. Risulta dunque incredibilmente variegata la materia musicale, che viene proposta

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attraverso un’affascinante alternanza di testi recitati in varie lingue – tratti anche dalla Rihla – e brani delle tradizioni musicali dei luoghi evocati. Attraverso un’oculata regia musicale, Savall ci accompagna attraverso le atmosfere di luoghi, popoli e culture messi nel giusto risalto dal linguaggio sonoro.

Un mosaico di tradizioni Leit motiv delle due registrazioni è senza dubbio la musica medievale islamica, di cui si ascoltano vari generi e in cui non è raro imbattersi nei tipici taqsim, improvvisazioni strumentali a preludio di brani tradizionali. Accanto a questi non mancano brani che si rifanno alla tradizione sufi, espressione piú spirituale dell’islamismo a cui Ibn Battuta, come ci narra nella sua cronaca, si avvicinò in piú occasioni nel corso dei suoi viaggi. Altri brani toccano anche l’affasciante tradizione bizantina, per poi avvicinarsi alle tradizioni uzbeka (Samarcanda) e afghana (Kabul). Nel secondo CD il viaggio musicale tocca le Maldive, l’India, la Cina, l’Asia centrale (Baghdad), per poi far ritorno in Marocco (Fez), da cui Ibn Battura ripartí per visitare il Mali (Timbuctu) e la Spagna (Granada). Anche questa seconda registrazione offre momenti di grande fascino, con brani tradizionali afghani, indiani, cinesi, tutti assecondati dall’uso degli strumenti propri di ciascuno degli ambiti musicali proposti.

Ibn Battuta. Le voyageur de l’Islam 1304-1377 AliaVox (AVSA 9930), 2 CD + libro Hespèrion XXI, direttore Jordi Savall www.alia-vox.com Avvalendosi del suo gruppo storico, Hespèrion XXI, Jordi Savall raccoglie attorno a sé strumentisti e cantanti di origine siriana, turca, cinese, francese, italiana, afghana, bulgara, armena, greca, spagnola. Accanto alle diverse prassi strumentali, diversificato è anche l’uso dell’apparato strumentale, che vede protagonisti un gran numero di strumenti, ciascuno con le sue singolari sonorità. Difficile, se non impossibile, rendere, a parole, giustizia a ogni singolo brano come a ogni singola tradizione musicale proposta e mirabilmente interpretata, tanti sono gli stimoli musicali suscitati. Non resta dunque che abbandonarsi all’ascolto incantatorio di queste musiche, che ci fanno rivivere, idealmente, l’incredibile itinerario di Ibn Battuta. Franco Bruni luglio

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Fulvio Delle Donne La porta del sapere Cultura alla corte di Federico II di Svevia Carocci Editore, Roma, 270 pp., ill. b/n

25,00 euro ISBN 978-88-430-9502-5 www.carocci.it

Come scrive nella Premessa, Fulvio Delle Donne offre in questo saggio un quadro che scaturisce da tre decenni di «indagini minute e di edizioni delle

fonti»: un tempo che singolarmente coincide con il trentennio in cui Federico II di Svevia fu re e imperatore. Di quel lungo imperio viene qui analizzata la produzione culturale, sviluppando tale definizione nella sua accezione piú ampia, che spazia dunque dalla letteratura alla filosofia, dall’architettura alla scienza, senza tralasciare – e si tratta di una delle sezioni piú interessanti dell’opera – il rapporto

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con le culture «altre». Di capitolo in capitolo, l’autore ripercorre il ruolo assunto dal sovrano germanico nelle diverse situazioni, che lo videro mecenate, promotore, organizzatore, ma anche autore. A lui, infatti, si deve il trattato De arte venandi cum avibus, un’opera monumentale che, a dispetto del titolo, non è soltanto un manuale di falconeria, ma anche una sistematica classificazione e descrizione delle specie di volatili allora note. Altrettanto importanti sono le considerazioni sugli interventi operati in campo architettonico – oggi testimoniati innanzitutto dai castelli, ma che compresero anche altre categorie di fabbriche –, cosí come quelle sulla produzione artistica. E altrettanto significative appaiono, per esempio, la creazione di uno Studium a Napoli – una delle piú antiche scuole di studi superiori d’Europa – o la redazione delle Costituzioni melfitane (o Liber augustalis), la grande raccolta di leggi che vide la luce nel 1231. In circa trent’anni, insomma, Federico ebbe modo di lasciare un’impronta

marcata e sebbene Delle Donne sottolinei in vari passaggi quanto sia opportuno rifuggire da certe visioni quasi agiografiche del suo regno, resta innegabile lo spessore di una vicenda che ebbe un respiro ben piú ampio del semplice esercizio del potere. Stefano Mammini

fascino di una crociata che sarebbe stata organizzata spontaneamente da una moltitudine di ragazzini e che, addirittura, si sarebbe composta di due «armate», l’una formatasi in Francia e l’altra in Germania. Né Marigliano si

Enzo Marigliano La crociata dei bambini

Alba Edizioni, Meduna di Livenza (TV), 124 pp.

14,00 euro ISBN 978-88-99414-36-8

L’episodio a cui il volume è dedicato costituisce a tutt’oggi un autentico caso storiografico: sull’effettivo svolgersi, nel 1212, di una crociata «dei bambini» il dibattito resta aperto ed Enzo Marigliano ha il merito di riepilogare l’intera vicenda in maniera chiara e articolata. L’autore apre la sua trattazione illustrando il complesso momento storico nel quale la spedizione avrebbe avuto luogo per poi offrire una rassegna delle testimonianze piú importanti, sottolineando di volta in volta il grado di attendibilità delle notizie che i diversi autori riferiscono. Resta intatto il

spinge a negare che un’iniziativa popolare di quel genere possa effettivamente aver preso corpo, ma fa giustamente osservare come ad alimentarne il mito possano aver contribuito, per esempio, perfino le errate interpretazioni dei termini utilizzati per designarne i presunti protagonisti, come pueri o stulti. S. M. Gianna Baucero Predestinati Non solo i vincitori scrivono la storia

Undici Edizioni, Crescentino (VC), 216 pp.

10,00 euro ISBN 978-88-94823-21-9 www.undiciedizioni.it

Storie minori per una storia maggiore. Può essere riassunto cosí lo spirito che anima il volume di Gianna Baucero, che ha riunito le vicende di ventisei personaggi vissuti fra il VII e il XVII secolo. Pur trattandosi, infatti, di comprimari, le loro esistenze si sono dipanate in momenti salienti della storia d’Inghilterra, incrociandosi con quelle di molti dei suoi protagonisti principali. Il campionario dei Predestinati è assai vario e viene presentato con stile godibile, affiancando al piacere della

lettura l’opportunità di ricordare eventi che hanno costituito altrettante tappe salienti di una vicenda plurisecolare, come la conquista dell’isola da parte di Guglielmo di Normandia nel 1066, «annunciata» dal passaggio della cometa di Halley. S. M. luglio

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