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Martedì 27 Maggio 2014 Corriere della Sera
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Cultura Anteprima L’intervento della moglie Il profilo Un modo drammatico di Angela oggi in apertura di «Letterature» intendere l‘esistenza, sempre disposta a Festival internazionale di Roma confrontarsi con l’ombra della fine
Terzani, il senso del viaggio è sempre un ritorno a casa La grandezza, le emozioni e le ossessioni di un viandante «O per vocazione, alla ricerca di ANGELA TERZANI STAUDE
gnuno, ma proprio ognuno, è il centro del mondo» dice Elias Canetti, e io non sono d’accordo con lui. Capisco quel che intende dire, ma io stessa non mi sono mai sentita il centro di niente. Mi sono vista invece come la viaggiatrice nel sidecar di una motocicletta — «si-de car» si diceva nel Dopoguerra a Firenze e ancora oggi mi viene da pronunciarlo così — in quel carrozzino, insomma, attaccato al lato di una moto degli anni Quaranta guidata da un uomo in tenuta da viaggio. Avevo trovato un motociclista con un’idea precisa di dove voleva andare — un’idea di destino, forse? —– e poiché la sua meta era molto più lontana e originale della mia, m’incuriosiva accompagnarlo per vedere dove sarebbe arrivato. La sua passione per il viaggio e l’avventura erano tali da garantirmi che sarebbe finito in posti nuovi, insoliti, affascinanti — e io con lui. In tutti i quarantacinque anni che ho vissuto accanto al mio guidatore, accompagnandolo in qualsiasi direzione volesse andare, senza mai mettere in dubbio le sue destinazioni o semplicemente la sua voglia di partire, non mi sono mai annoiata né tantomeno pentita della mia prima, istintiva decisione. E ancora oggi che lui non c’è più, continuo a viaggiare su quello stesso trabiccolo guidato da lui, come viaggiatrice a latere, come satellite. Non mi sento per questo da meno. Non credo di aver speso male la mia vita, di non essermi realizzata. Sono stata nel mio centro: anche i satelliti ne hanno uno. Nel corso degli ultimi decenni, quelli in cui le donne hanno preso coscienza di essere sempre state satelliti e mai pianeti, sempre viaggiatrici a latere e mai guidatrici in proprio, in molte mi hanno chiesto se non fosse l’ora che anch’io mi mettessi al passo coi tempi. Ma avendo fin da giovane identificato il mio ruolo nell’essere «accanto», anziché «al centro» di un destino, ho sempre insistito che era proprio questa mia, diciamo, «seconda scelta», del tutto commisurata alle mie forze, ai miei talenti, alle capacità della mia mente, a rendere ricca la mia vita e a darle un senso. Penso infatti che chiunque senta davvero d’essere «il centro del mondo» o, meglio, chiunque si avventuri in terre inesplorate cercando di «trovare un altro punto di vista», di «pensare nuovo», come diceva il mio motociclista, ha bisogno di avere al fianco qualcuno che crede in lui, perché sa bene che uscendo dai ranghi rischia grosso. La solitudine degli innovatori è sempre stata così grande che nel Romanticismo tedesco, per esempio — e scusate se stasera ritorno talvolta alle mie origini — l’aver trovato den verstehenden Freund, l’amico che comprende, era considerata la più sublime
del suo destino. E il ricordo di colei che scelse di attraversare l’intera esistenza al suo fianco, su un ideale «sidecar» dell’anima delle conquiste. Basta ricordare l’Inno alla gioia di Beethoven nelle parole di Schiller – «wem der grosse Wurf gelungen eines Freundes Freund zu sein», chi è riuscito nella grande impresa d’essere l’amico di un amico — per capire quanto agognata era quella figura. Ogni persona, del resto, anche la meno ambiziosa, sogna la vicinanza di un amico che la comprenda — nella Cina classica lo si chiamava «colui che ti capisce come se stesso» — e io ho cercato di essere proprio questo per il pilota del mio si-de car. Si trattava di non imporsi ma di esserci sempre, d’essere raggiungibile in ogni frangente; altre volte di restare nell’ombra, allontanarsi, scomparire. Una cosa, però, la devo precisare: l’importante è non sentirsi mai vittime. La vittima si fa odiare perché ti fa sentire in colpa, e chi ha voglia di vivere sotto il peso di una colpa portata in spalla? Meglio in tal caso non avere nessuno a cui appoggiarsi, meglio cavarsela da soli. «Peggio del boia non c’è che la vittima», diceva Niccolò Tucci, un bravissimo scrittore oggi scomparso, mezzo russo e mezzo napoletano, cresciuto nella campagna toscana e sposato a una donna fiorentina, che negli anni Trenta emigrò negli Stati Uniti, continuando sempre a scrivere in italiano. Era un nostro grande amico di quando da giovani vivevamo a New York.
Il bilancio Nei quarantancinque anni che ho vissuto accanto a lui, a latere, senza mettere in dubbio le sue destinazioni, non mi sono mai annoiata né pentita
Allora lui aveva sessant’anni e noi nemmeno trenta, ma la sua affascinante figura di media altezza, vestita come per la scena, è ancora davanti a me. E se mi chiedete se Tucci nella solitudine della sua attività di scrittore avesse almeno trovato «l’amico che comprende», vi dico di sì. Ma era una donna, era la moglie italiana da cui si era separato anni prima e che come lui era rimasta a vivere a New York. I due non si incontravano mai, ma ogni giorno che Dio metteva in terra lui dopo mezzanotte le telefonava e si parlavano per molte ore. Perché lei capiva. E quando lei morì, anche la vita di Niccolò Tucci in un certo senso finì. Era amicizia, quella? O era l’amore non-possessivo dei poeti sufi? Esiste un amore che vuole possedere l’altro, inchiodarlo, metterlo in catene per averlo sempre vicino ed è l’amore che schiavizza ed è a sua volta schiavo. E c’è quell’altro, che dà la libertà. Ma ora, per non parlare soltanto del passeggero nel si-de car senza dire del guidatore della moto, vorrei dire due parole su chi nella nostra coppia si è sentito il centro del mondo e in quel centro ci è voluto stare: non per darsi importanza ma, come appare dai suoi diari, per dare importanza alla meravigliosa occasione di poter vivere per alcuni anni su questa Terra: appena 66 nel suo caso. La sfida implicita in questa chance lui l’ha raccolta in pieno, senza mai desistere dall’usarla per vivere una vita intensa e originale, sempre cercando di scrivere di quel che gli era capitato e lo aveva fatto pensare. Gli premeva comunicare con gli altri e venerava la parola scritta perché solo in quella resta traccia di una vita che passa e scompare, a meno che non la si fermi con la scrittura. In questo la pensava come i contadini cinesi d’una volta, che veneravano un pezzo di carta se sopra vi era scritto anche un
L’autrice
Protagonista e cosmopolita
Angela Terzani Staude (nella foto sopra), vedova di Tiziano Terzani, è nata a Firenze da genitori tedeschi. È cresciuta in Italia e ha studiato a Monaco di Baviera. Dal 1972 ha vissuto con il marito e i figli, in numerosi Paesi asiatici: da Singapore a Hong Kong, da Pechino a Tokyo, Bangkok e Delhi. Oltre a Giorni giapponesi e Giorni cinesi (Longanesi e Tea) ha pubblicato tra l’altro il volume Giappone: cibo come arte.
solo ideogramma. Forse, per sentire la drammaticità del fatto che gli anni a nostra disposizione sono pochi e fugaci, bisogna avere fin da giovanissimi la consapevolezza della morte. E lui, della morte, già a 19 anni, quando ci siamo conosciuti, ne parlava spessissimo. Mi regalava i versi di Pavese, «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», mi recitava «Alle cinque della sera», il lamento di García Lorca sull’amico ucciso. Nella prima lettera che ho ricevuto da lui, non firmata perché era sotto forma di racconto, un contadino diceva all’altro: «È morto Tiziano», e quasi ogni lettera successiva conteneva il dubbio se la vita gli sarebbe bastata per poter dare un segnale che testimoniasse che lui l’aveva vissuta e apprezzata. Quando arrivò a trovarsi là dove voleva essere — in Asia — e a fare ciò che voleva fare — scrivere, quest’angoscia si placò. Ma appena cominciò a rendersi conto di quanta poca presa facevano i suoi sforzi di influire sull’andamento del mondo, la preoccupazione per il volare del tempo si ripresentò. Nei suoi ultimi anni, già prima di ammalarsi, rientrando da una cena o un ricevimento mi chiedeva: «Quante ore mi restano da vivere: 33.924? Ebbene, tre le ho appena sprecate». Se c’era angoscia nella sua consapevolezza che il tempo scade, la sua gioia di essere «a giro» era di una intensità equivalente. Spaziava con delizia per la bella Saigon nei giorni della guerra, per l’immensa Cina fra i resti del comunismo, nei dimessi casinò sull’isola di Macao, fra gli dèi indiani che aleggiano attorno alle vette dell’Himalaya. Ma neppure questo gli sarebbe bastato se non avesse potuto scriverne per chi restava a casa. Sentiva forte la responsabilità di essere «gli occhi, le orecchie e il naso» dei suoi lettori, di dover riferire a chi non aveva le sue stesse opportunità di fare grandi espe-
Scienza La visione sistematica del saggio di Fritjof Capra e Pier Luigi Luisi
Poesia I versi di Romanetti prendono di petto l’attualità. Partendo dal passato
Tutto è Rete: il cosmo e l’uomo
Con Pasolini, via dall’inferno globale
di IDA BOZZI
di FRANCO MANZONI
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a decrescita da sola non basta, l’intero universo (le forze fisiche ma anche l‘uomo e le costruzioni sociali) funziona come una Rete e non come una macchina, e, soprattutto, il nostro approccio con il pianeta ha bisogno di «un aumento di complessità». Lo sostiene il fisico Fritjof Capra (1939, foto), che ha presentato ieri all’auditorium San Fedele di Milano il volume scritto con il biochimico Pier Luigi Luisi, Vita e natura. Una visione sistemica (pp. 606, 34), pubblicato dall’azienda Aboca che è anche editore di lectio di ecologia della natura e dell’uomo (stasera è al Circolo dei lettori di Torino, domani al Maxxi di Roma). Capra è l’autore di un libro di culto, Il Tao della fisica (del 1975, edito in Italia da Adelphi nell’82) che già 40 anni fa mostrava i punti di contatto tra antiche discipline orientali e fisica: ora una visione olistica dell’universo è sempre più importante per i fisici, e questo nuovo libro racconta — con un bell’excursus iniziale sulla storia della scienza — il divario tra la visione meccanicistica e una visione sistemica. «Vi è un fondamentale cambiamento di metafore — ha spiegato
Capra —, in natura le strutture sono risultato di processi vitali, e tali sono anche la coscienza, la mente, il cervello, “processi” e non “cose”; ci troviamo sempre di fronte a un “sistema”, una rete». E prosegue: «Isolare un solo elemento per studiarlo non ha senso: questo vale per la natura, la società o la crisi economica». Il pensiero sistemico, su cui già negli Anni 20-30 del ‘900 gli scienziati iniziarono a ragionare, porta infatti non solo a considerare il mondo intero come un sistema in rete («i giovani lo capiscono bene, perché nella rete sono immersi»), ma a scartare anche la sola decrescita come soluzione per un’ecologia del pianeta: «In natura la crescita è essenziale. Solo che non è lineare: alcune parti crescono, altre no. Cioè occorre una crescita qualitativa e non quantitativa, che valorizzi la qualità e non i coefficienti monetari, il risanamento e non l’avidità». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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oesia anticonvenzionale della concretezza, che si nutre del passato, ma non dimentica l’oggi. L’autore dimentica l’emarginazione, a volte volontaria, degli artisti, diventando il portavoce della verità pubblica. È l’interprete del proprio impegno contro una cultura piatta, assimilante, sentimentalistica, ipersoggettiva. È quanto si evince dalla silloge Non siamo noi che andremo all’inferno di Francesco Romanetti (Intra Moenia, pp. 162, € 10). Non a caso in epigrafe l’autore sceglie due frasi significative, una di Pasolini tratta da La Divina Mimesis: «Osservai meglio, e non tardai ad accorgermi che quel simbolo non consisteva in nient’altro che in uno Stronzo»; l’altra di Tommaso Campanella, da una lettera inviata a Galilei: «E già tutte le cose son poste in dubbio, tanto che non sapemo s’il parlare è parlare». Le citazioni tendono a sottolineare che in una società globalizzata anche il segnale d’allarme ha perso ormai il suo significato, proprio perché il pericolo non è più incombente, ma continuo. Un malessere comune, a cui non si presta più attenzione. Si dovrebbe allora reagire ad una esistenza vissuta quale testimonianza passiva.
Ecco perché il poeta sceglie di recuperare il diritto ad una parola forte, esplicita nella sua cruda semplicità. Come è in fondo la scelta dell’immagine di copertina, ripresa dal film «Salò o le 120 giornate di Sodoma» di Pasolini, un fotogramma che fa riferimento al repubblichino scoperto a fare sesso con la serva nera e perciò condannato a morte. Davanti a suoi assassini Ezio, pure lui carnefice, prende coscienza della propria identità, alzando il braccio sinistro a pugno chiuso: gesto che per un attimo turba i fascisti che stanno per giustiziarlo. Così nei testi erosivi di Romanetti troviamo vita e morte, amore e dolore, bambini dell’asilo e G8, rom in rivolta e trame della Cia, Gesù e il «criminale» George W. Bush. E soprattutto l’amato comandante Chavez, a cui dedica una ballata, con «la sua grossa testa / da indio / la schiena da bisonte / il collo da toro / il labbro abbassato / e grosso / e carnoso / da pugile…». © RIPRODUZIONE RISERVATA
Corriere della Sera Martedì 27 Maggio 2014
Cultura 39
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A sinistra: una immagine di Tiziano Terzani a Hong Kong, tratta dal libro «Un mondo che non esiste più», e curato dal figlio Fulco. Il giornalista e scrittore, fiorentino, è scomparso nel 2004 a 66 anni. Dal suo ultimo libro «La fine è il mio inizio» è stato tratto un film
Arte Da Bompiani un libro di Giovanni Reale e un film in dvd di Elisabetta Sgarbi
Romanino, un Michelangelo per i fedeli poveri di Cristo Gli affreschi di Pisogne come una Cappella Sistina
rienze, inclusa quella di aspettare la morte a occhi aperti per sette lunghi anni. Di quella sua avventura, da lui definita la più interessante, ha voluto rendere conto minuto per minuto, quasi fino all’ultimo respiro. Le sue ultime conversazioni con il figlio sono state interrotte, per mancanza di forze, solo poche settimane prima che chiudesse gli occhi e se Folco ha intitolato il libro che le raccoglie La fine è il mio inizio è perché così — come un ritorno nell’infinito dello spirito di cui ugualmente siamo fatti — suo padre aveva inteso il concludersi della propria vita. Viaggiando nel mio si-de car accanto a lui, ho visto molto mondo anch’io. Bei paesaggi, destini drammatici, culture in trasformazione. E ho visto lui, forte e rapido nelle decisioni, ora amabile ora sprezzante, secondo il caso. Sempre però col controllo assoluto delle situazioni, perché prima di ogni altra cosa era uno che sapeva viaggiare. L’ho visto anche ritornare a casa dove, se la vita si faceva ripetitiva e a volte noiosa, si metteva a ordinare le sue collezioni di tappeti, le gabbie dei grilli e soprattutto i suoi libri: se li faceva spedire dai librai antiquari di Londra, gli dava la cera, li timbrava, li sistemava negli scaffali. Poi studiava i nuovi cataloghi e ne ordinava ancora. Imparava sempre. E se non c’era altro con cui svagarsi, come in Giappone, si inventava mete oscure, ormai dimenticate da tutti, come le isole Curili, scoprendo che nelle nebbie fitte e basse di quel gelido, piccolo arcipelago si era nascosta la flotta giapponese prima di partire all’attacco di Pearl Harbour: e così lo rimetteva sulla carta geografica. Oppure andava in cerca di indovini... Ha avuto alcuni grandi amici, rapporti intensi centrati su interessi comuni, oppure — e quelle erano le amicizie vere — sulla passione per la vita
stessa. Due anni prima di morire, ha conosciuto un uomo più vecchio di lui, un indiano che abitava nei monti dell’Himalaya, e insieme, lui col Vecchio e il Vecchio con lui, hanno goduto di una gioiosa intesa che non è durata moltissimo, ma è stata così perfetta da rendere felici entrambi. Ha avuto varie vite, il guidatore del mio si-de car. Molte le conoscevo, alcune le vivevamo insieme. Poi c’era quell’altra, sotterranea, che faceva paura persino a lui, tanto era dirompente. Era lì, in quel drammatico sottosuolo portato alla luce dai suoi diari, che nasceva tutto. Avendo lui, però, un forte senso della forma e della misura, ed essendo anche un fiorentino consapevolissimo della necessità di fare «bella figura», un attore che sapeva benissimo recitare se stesso, quel sottosuolo lo teneva per sé. Leggere i suoi diari, quindi, mi ha fatto capire ancora di più quanta sofferenza ha accompagnato le sue battaglie. Era in quella stiva che covava il fuoco che ha finito per consumarlo: prima con una inaspettata tendenza alla depressione, poi con la precoce malattia. In questo senso i diari completano, per me, l’idea che avevo della sua persona: sono lo yin rispetto allo yang, il buio che accompagna la luce. Spesso il mio motociclista partiva da solo, con il si-de car vuoto. Era attratto dalle lontananze, dai mondi oltre i consueti orizzonti. Sentiva la curiosità per terre e modi di vivere diversi dai nostri, e che più diversi erano più lo stimolavano a viverci in mezzo. Era guidato da una vivida Sehnsucht — ancora una parola tedesca — una «brama di vedere», come anche dal suo opposto: la nostalgia di casa. Si era fatto una famiglia proprio per non impazzire di solitudine, per avere sempre un porto al quale riportare la sua nave. Perché se non avesse avuto casa, dove avrebbe messo la preda, il leone che aveva appena catturato? Somigliava a quei primati di milioni di anni fa che, come ho letto in un bel libro di Luigi Zoja, riuscivano a ricordare il luogo da cui erano partiti in cerca di qualcosa da mangiare, e a ritornarci ripercorrendo la stessa strada. Con questo saper tornare a casa è cominciata la storia dell’uomo. È da allora che ci interessano soltanto i viaggiatori che tornano a casa, non quelli che si perdono, i vagabondi, i senza meta. Ci interessano quelli che ritornano con qualcosa da raccontare. Lui partiva, come gli antichi, a caccia di conoscenza, e tornava ogni volta con le valige piene. Riportava stoffe leggere, colbacchi di pelo di cane contro il freddo, sandali di rafia, sciarpe con cui asciugarsi il sudore, pararsi dal sole o fasciarsi una ferita. C’erano anche belle stuoie su cui sedersi o dormire, tappeti con cui rendere accogliente una yurta, incensi e statue di idoli, buddha in pose tranquille che sarebbero vissuti fra le nostre cose. E soprattutto tornava con tante belle storie. Ogni suo ritorno sembrava il ritorno dal paese delle meraviglie. Tutti insieme disfacevamo le sue valige e aggiungevamo nuovi pezzetti di storia alla nostra casa. Poi lui si metteva a scrivere e a chiarirsi le nuove mete. Per la sua vivida immaginazione, la sponda del fiume sulla quale si trovava era sempre quella sbagliata. Dopo un po’, invariabilmente, agognava di trovarsi sull’altra… e ripartiva. Dall’ultimo viaggio non è tornato e io, da allora, viaggio da sola. Parto per brevi tragitti, prendo strade che ricordo sperando di non sbagliarmi, vado a racimolare quel che lui strada facendo aveva seminato — o nascosto nei suoi diari — e lo riporto a casa. © RIPRODUZIONE RISERVATA
di GIOVANNI REALE
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irolamo di Romano detto il Romanino (ca 1484-1566) da pittore di secondo ordine è emerso in primo piano, e si sta ristudiando e rivalutando a fondo. Qual è stata la ragione del radicale mutamento nei confronti di questo pittore? Se ci si pone il problema in ottica critico-filosofica, la risposta emerge chiaramente. Da alcuni decenni, infatti, si è affrontata la lettura della pittura di Romanino con un nuovo modello interpretativo, che capovolge i criteri connessi con il paradigma che si è sempre seguito. Per comprendere Romanino bisognava intendere il senso e la portata della rottura da lui operata nei confronti del paradigma classico dominante, soprattutto a Venezia. E tale comprensione è iniziata con Roberto Longhi, mediante la sua rivalutazione della pittura lombarda, in particolare di quella bresciana. Longhi ha visto in essa addirittura precedenti caravaggeschi. Di conseguenza, il giudizio di quella pittura, giudicata «provinciale» in senso negativo, si è capovolto in positivo, e sono state indicate le novità che vi emergevano e la loro importanza. Longhi conosceva Romanino molto bene, ma non lo inseriva espressamente fra i precursori di Caravaggio. Tuttavia proprio a seguito delle sue interpretazioni della pittura bresciana, non pochi studiosi lo hanno considerato, e giustamente, un precursore di Caravaggio, per i motivi che vedremo. Ma è stato soprattutto Giovanni Testori che ha contribuito a tracciare le connotazioni del nuovo paradigma ermeneutico con la metafora della pittura di Romanino come «dialetto figurale», o semplicemente di «dialetto», in contrapposizione al paradigma accademico dominante. Testori ha addirittura rafforzato questa sua metafora con quella anche più forte della pittura di un «barbaro». Dalle sue osservazioni si giunge a comprendere l’«espressionismo» di Romanino, che – sotto certi aspetti – anticipa in nuce ben tre secoli e più di storia. Prima che io lo studiassi a fondo, Romanino mi turbava molto. Ma l’insistenza di Elisabetta Sgarbi alla fine mi ha convinto. Ero sconcertato dal fatto che non riuscivo a trovare nelle sue opere un’unità, e mi sembrava di scorgere sotto il suo nome autori diversi. Provavo la stessa impressione di Pier Paolo Pasolini, che, entrato a vedere la grande mostra del Roma-
nino del 1965 (della quale si può consultare il catalogo curato da Gaetano Panazza, purtroppo in bianco e nero), guardando i vari quadri, trovava «disuguaglianze» e «incoerenze», e chiedeva al suo accompagnatore: «Ma dov’è il Romanino, qual è? Ogni due o tre quadri la mia idea del Romanino era costretta a cambiare. Alla fine del mio giro della mostra e poi oggi in val Camonica alla fine delle mie indagini ancora dovevo sapere dov’era e qual era il Romanino. Secondo un’idea preconcetta e sbagliata che noi abbiamo di quello che deve essere un artista [...], del Romanino, di un Romanino che soddisfi tutti noi, su cui tutti noi siamo d’accordo, un’immagine, un’idea plastica e magari un po’ lirica
La pellicola
Cavalcata di immagini tra Veneto e classicismo Esce da Bompiani Romanino. La «Sistina dei poveri» a Pisogne del filosofo e studioso del pensiero antico Giovanni Reale (pp. 442, 50). Al volume è unito un film in dvd dell’editrice, regista e organizzatrice culturale Elisabetta Sgarbi intitolato Dimenticare Tiziano. Girolamo Romanino a Pisogne (1531-1532 una cavalcata gonfia e chiassosa). Il testo qui sopra è tratto dall’introduzione al suddetto volume. In alto La deposizione di Romanino nella chiesa di Santa Maria della Neve a Pisogne.
del Romanino non ce l’abbiamo». Ma poi, dopo averlo compreso, Pasolini divenne un suo grande estimatore, al punto da affermare: «Io direi addirittura che amo il Romanino più del Tiziano in conclusione delle mie ricerche». E anch’io, dopo lo studio che ho fatto, sono diventato un ammiratore di questo pittore. Romanino si è ispirato almeno a tre differenti paradigmi: il primo veneziano, il secondo rivoluzionario di carattere fortemente «espressionistico» (con alcuni anticipi anche in opere precedenti), e infine è tornato a un paradigma classicheggiante. Il primo Romanino, ispirato alla pittura veneziana, è quello più studiato e al quale si fa per lo più riferimento, anche perché è comprensibile e godibile dai più. In effetti, il secondo paradigma, quello espressionistico, è talmente rivoluzionario che non poteva essere compreso dai committenti di allora, in quanto si proiettava molto al di là dei suoi tempi, con tratti che sembrerebbero di un pittore del Novecento. E proprio per questo anche in età moderna ha faticato non poco a essere compreso: come poteva un uomo del Cinquecento, in certi tratti e in certi momenti della sua opera, parlare con un linguaggio così fuori dalla sua epoca? Dopo le esperienze della val Camonica doveva, per sopravvivere, tornare indietro, ossia tornare ai suoi tempi. L’ultima fase del Romanino, in collaborazione con Lattanzio Gambara (che sposò una sua figlia), è quella meno conosciuta. Tutto questo fa ben intendere le ragioni per cui, come dicevamo, ricostruire un’immagine adeguata del pittore sia molto difficile. In quest’opera, mi dedicherò al ciclo di affreschi di Romanino nella chiesa di Santa Maria della Neve a Pisogne (1533-34), che considero, sotto certi aspetti, l’espressione più alta della sua arte, per la coerenza e la consistenza del suo «espressionismo». Concentrandomi su questa grandiosa serie di opere, e studiandole a fondo, con l’ausilio del film di Elisabetta Sgarbi e delle belle fotografie fatte da Andrea Samaritani sul progetto da me tracciato, e naturalmente di alcune penetranti osservazioni di attenti critici, ho compreso quell’unità che sussiste fra i vari affreschi presi nel loro insieme. Mostrerò come le contestazioni rivolte contro Romanino di non aver rispettato la cronologia nella presentazione della vita di Cristo non reggano, in quanto partono da premesse sbagliate. Meno che mai regge la tesi secondo cui le parti inferiori (gli zoccoli) degli affreschi sarebbero presentate in maniera confusa, e secondo alcuni in qualche caso sarebbero da attribuire in parte a un collaboratore del pittore. In esse si vedono bene le innovazioni espressionistiche introdotte da Romanino, in quanto sono ad altezza d’uomo. E proprio queste turbano chi le giudica in modo accademico, partendo da un paradigma inadeguato. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Rassegne Da venerdì, a Cremona, quarantacinque appuntamenti letterari, anche al Museo del Violino. In tre anni il festival ha raddoppiato le presenze
Uno scrittore e un musicista: in coppia sulle corde dell’anima di SEVERINO COLOMBO
L
etteratura e musica vanno d’accordo al festival «Le corde dell’anima», da venerdì 30 maggio a domenica 1° giugno a Cremona. La formula non è di un semplice abbinamento o di un reciproco intrattenimento piuttosto la ricerca di emozioni e sintonie. Scrittori e musicisti danno vita insieme a un connubio original e . A r m o n i co , p o e t i co , a rd i to , volutamente dissonante o capace di produrre scintille. La rassegna internazionale diretta da Anna Folli (nel comitato scientifico: Vittorio Cosma, Mercedes Meloni, Nicoletta Polla-Mattiot e Enrico Reggiani) propone quarantacinque appuntamenti in tre giorni, dislocati in vari luoghi della città, tra cui il nuovo Museo del Violino, tutti a ingresso libero (tel. 0372 404512, www.lecordedell’ani-
ma.it). L’obiettivo è quello di superare i 75 mila spettatori dell’ultima edizione. Nato nel 2010 il festival in tre anni ha più che raddoppiato le presenze. Merito di un programma che sa tenere in equilibrio qualità e leggerezza. E merito forse anche del «gioco delle coppie» tra musicisti e scrittori. Molti quest’anno gli abbinamenti curiosi come quello tra Roddy Doyle (nella foto Effigie), che con la musica ha un feeling duraturo dal bestseller The Commitments al suo ultimo romanzo, La musica è cam-
biata (Guanda); lo scrittore irlandese (in dialogo con Alessandra Tedesco) divide il palco con i fiorentini Street Clerks, lanciati da X Factor, con il loro energico pop’n’roll (il 31, alle 18). Un mood sentimentale, ma tanta voglia di riscatto, è ciò che unisce Silvia Avallone e Malika Ayane: i romanzi della prima — dell’ultimo, Marina Bellezza (Rizzoli), dialoga il 31 alle 22.30 con Roberta Scorranese; letture di Isabella Aldovini — e le canzoni della seconda. Chiara l’affinità tra lo spagnolo Ildefonso Falcones il cui un romanzo La regina scalza (Longanesi ) trabocca di sensualità (ne parla con Ranieri Polese) e le note seducenti del Duende Flamenco (il 30, alle 21); da scoprire quella tra la prosa arcaica e musicale di Salvatore Niffoi (La quinta stagione è l’inferno, Feltrinelli) e la voce popolare di Teresa de Sio, musa della canzone napoletana. Il festival si apre il 30 alle 17
con Lorenzo Beccati, autore televisivo e voce del Gabibbo, qui nelle vesti di scrittore di gialli storici — l’ultimo ambientato nella Genova del ‘600 è Petra è il mio nome (Nord) — e il folk rock dei Lou Dalfin. Tra gli altri abbinamenti: Giovanni Pacchiano con il cantautore Giulio Casale; Mauro Corona con i violoncellisti Lorenza Baldo e Andrea Nocerino; Mario Fortunato e i Musica Nuda; John Peter Sloan e Boosta; Pino Roveredo e Ornella Vanoni; Giuseppe Catozzella e Bombino; lo svedese Arne Dahl con Enrico Rava e Andrea Pozza. Da segnalare infine gli «a solo», ma non musicali, di Ivano Fossati con il romanzo Tretrecinque (Einaudi), la banda Osiris che firma Le dolenti note (Ponte alle Grazie) e Franco Battiato con l’anteprima del sui film documentario Attraversando il Bardo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
La palude degli scrittori Su Corriere.it Gilda Policastro risponde all’articolo di Franco Cordelli su «la Lettura» Su «la Lettura» #131 di domenica 25 maggio, in un lungo articolo, Franco Cordelli analizza la situazione della letteratura italiana contemporanea e si chiede: che cosa ci lascia la produzione editoriale degli ultimi vent’anni? E elenca 70 nomi di autori, giovani e non, che, più o meno volontariamente, si sono aggregati in diverse piccole tribù. Alcuni hanno chiesto di replicare: cominciamo con la risposta della scrittrice Gilda Policastro, oggi su Corriere.it.