la Repubblica
LUNEDÌ 13 APRILE 2015
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Il tributo di un grande reporter a Terzani e al mestiere comune
Caro Tiziano solo adesso posso dirti che ho capito JOHN F. BURNS CAMBRIDGE
A luce del giorno svaniva sulle colline che si af-
L
facciano sull’Arno, e il mio più caro amico tra i logori ranghi dei corrispondenti stranieri era seduto a gambe incrociate su un divano cinese a baldacchino, in una vecchia e bella casa circondata dagli alberi nel suo paese natale, non lontano dal centro di Firenze. Si chiamava Tiziano Terzani, uno degli scrittori più celebri d’Italia, e in quel fine settimana, una decina di anni fa, sarebbe stato ospite con la moglie, Angela, per il matrimonio della loro figlia in una basilica rinascimentale di Firenze. Tiziano aveva 65 anni, stava affrontando le ultime settimane di un cancro terminale, e in un languido pranzo il giorno dopo il matrimonio volle dare, seduto sul divano, un addio personale, accompagnato da quella saggezza dolce che aveva maturato in quarant’anni come corrispondente itinerante per la rivista tedesca Der Spiegel e importanti giornali italiani, e come autore di una biblioteca di libri di avventura e di riflessioni profondamente coinvolgenti. «Mai dimenticare», disse a quel gruppo assorto di musicisti, medici, politici, imprenditori, scrittori, diplomatici e giornalisti. «Non si tratta di quanto hai viaggiato, ma di quello che hai riportato indietro». Ho ricordato Tiziano perché anch’io ho raggiunto il traguardo di 40 anni di carriera al New York Times, e sono andato in pensione. Le nostre carriere, quella di Tiziano e la mia, sono state inverosimilmente simili: per anni ci siamo ritrovati l’uno accanto all’altro nella Russia sovietica e nella Cina di Mao
avevamo raccontato, e quali erano i dittatori o i governanti più affascinanti o crudeli che avevamo conosciuto. Era bello, disse Tiziano, aver accumulato tutti quei visti e timbri sui passaporti, tutte quelle scadenze esotiche, tutti quei pupazzi di Saddam Hussein o Libretti Rossi con la saggezza di Mao, tutte quelle storie riccamente condite di temerarietà. Ma ditemi, per favore, che cosa avete riportato indietro? Dal mio zaino di viaggiatore spunta quello che ci si può aspettare da un giornalista che ha trascorso tanti anni in alcuni tra i luoghi peggiori del mondo, che si presentavano in modo fraudolento, nella loro propaganda avvolgente, come qualcosa di completamente diverso e benevolo. Ciò che quegli anni, più di ogni altra cosa, hanno nutrito in me è una profonda repulsione per le ideologie di ogni genere. Dalla Russia sovietica alla Cina di Mao, dall’Afghanistan governato dai Taliban alla repressione vigente in Sudafrica negli anni dell’apartheid, ho imparato
IL VIAGGIO
Non si tratta, disse, di quanto hai viaggiato, ma di ciò che hai riportato indietro
che non c’è limite alla follia, alla cattiveria e alla sofferenza che possono affliggere le società dove esiste un’ideologia dominante, e nessuna perfidia che non possa essere giustificata manipolando i precetti di Mao o di Marx, del profeta Maometto o di Kim Il-Sung. Come Tiziano sapeva, distillare qualcosa che abbia l’apparenza di un’intuizione illuminante dal lavoro di una vita non è la più facile delle sfide, e non solo perché presuppone la capacità di mettere ordine e di dare un senso ad anni di esperienze confuse e caotiche — a repressioni messe in atto da forze di sinistra e di destra, alla pro-
pensiero. Il fallimento dell’approccio che divide il mondo in destra e sinistra è stata una lezione che ho imparato presto. Un incarico in Cina agli inizi degli anni Settanta mi mise di fronte alle dottrine omicide del “Pensiero” di Mao Zedong, che fece milioni di vittime; e un altro incarico a Mosca nei primi anni Ottanta, mi mise a contatto con le miserie che una forma perversa di marxismo-leninismo aveva imposto alla Russia sovietica, con un tragico tributo di milioni di vittime.
“Dal mio zaino di inviato alla fine spunta più di tutto una profonda repulsione per le ideologie”
“I miei principi furono fissati dal direttore del Times: mantenere l’onestà del giornale” Zedong e Deng Xiaoping, a raccontare le guerre, gli omicidi e altri disastri in India, Pakistan, Corea del Nord, Afghanistan. Fummo entrambi messi in prigione in Cina, con accuse poi riconosciute come false dai cinesi stessi, e abbiamo condiviso, allo stesso tempo, negli anni Novanta, lo stesso cancro — il linfoma non-Hodgkin — e lo stesso oncologo di New York. Ora è giunto il momento di cogliere la sfida lanciata da Tiziano in quel pomeriggio fiorentino, dopo aver conversato in modo familiare con i suoi ospiti: quanto ciascuno di noi aveva viaggiato, quali meraviglie e miserie
pensione dell’uomo ad agire con crudeltà verso l’uomo, e alle reazioni di umanità che fioriscono dovunque prevalgano le peggiori cattiverie. C’è anche il timore di indulgere in ciò che i giornalisti della mia generazione si sono imposti di evitare: di abbandonare le regole della cronaca e finire sul pericoloso terreno del giudizio morale e nelle tristi valli della superiorità. Quello che un giornalista fa nasce dalle sue convinzioni e dai suoi principi. Per me, furono fissati dal direttore del Times che per la prima volta mi
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L’AUTORE
John F. Burns è un giornalista britannico, scrive per il “New York Times” e ha vinto due Premi Pulitzer
mandò all’estero nel 1976, A. M. Rosenthal. Abe chiedeva di «mantenere l’onestà del giornale». Lo disse prima del mio primo incarico all’estero: l’apartheid in Sudafrica, un paese visto come un caso di evidente oppressione. Ma anche lì la necessità di mantenere l’onestà del giornale imponeva, disse Abe, che raccontassimo non solo la storia degli oppressi, ma anche quella di tutti gli altri principali protagonisti della tragedia sudafricana, compresi gli afrikaner, che avevano fatto diventare il paese una fortezza del pregiudizio razziale. Quelle storie, disse, potrebbero sorprenderci e darci un senso più strutturato della verità. La mia insofferenza per l’ideologia è proseguita negli anni più recenti nel mio rapporto con le società occidentali che sono la mia casa: per la propensione diffusa, che avverto in gente che non ha la scusante della brutale coercizione del mondo totalitario, a cadere sotto il dominio degli «ismi» di destra e di sinistra, tutti pieni di quella che Yeats definiva “un‘appassionata intensità” che di fatto soffoca il libero
L’ideologia è stata il flagello del XX secolo, e ha continuato ad esserlo in molti dei peggiori regimi del XXI. Forse il più omicida di tutti gli Stati è la Corea del Nord della famiglia Kim, con milioni di morti di fame e le sofferenze di grandi campi di prigionia nascosti. E anche le decapitazioni, le fucilazioni di massa e le persone bruciate vive ad opera dello Stato islamico hanno la loro origine in un altro genere di pensiero estremista e corrotto. Se dovessi catalogare questi momenti nelle truci dittature del mondo potrei riempire un libro, o forse tre. Ma nel tornare a casa, nei paesi occidentali, dove nessuno muore per un calo di fedeltà a un primo ministro o a un presidente, può essere deprimente sentire i sostenitori di un credo politico adottare le inflessibili certezze degli stati totalitari. Abbiamo conquistato a caro prezzo il diritto di pensare e parlare liberamente, ma ne facciamo un cattivo uso a nostro rischio e pericolo. Traduzione di Luis E. Moriones © The New York Times © RIPRODUZIONE RISERVATA