TravelGlobe Luglio 2016

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Federico Klausner direttore responsabile Federica Giuliani direttore editoriale Devis Bellucci redattore Silvana Benedetti redattore Maddalena De Bernardi redattore Francesca Spanò redattore Paolo Renato Sacchi photo editor Isabella Conticello grafica Willy Nicolazzo grafico Paola Congia fotografa Antonio e Giuliana Corradetti fotografi Vittorio Giannella fotografo Fabiola Giuliani fotografa Monica Mietitore fotografa Graziano Perotti fotografo Emanuela Ricci fotografa Giovanni Tagini fotografo Bruno Zanzottera fotografo Progetto grafico Emanuela Ricci e Daniela Rosato Indirizzo: redazione@travelglobe.it Foto di copertina: GRAZIANO PEROTTI | Palazzo del maharaja di Mysore Tutti i testi e foto di questa pubblicazione sono di proprietà di TravelGlobe.it® Riproduzione riservata TravelGlobe è una testata giornalistica Reg. Trib. Milano 284 del 9/9/2014 2


EDITORIALE

TTIP: UN FANTASMA RISCHIOSO internazionale, spesso composti da avvocati provenienti dalle imprese stesse. Appare chiaro come la situazione possa essere molto pericolosa e mettere in gioco la stessa legittimità democratica delle decisioni prese da ogni Paese, che verrebbe privato di parte della propria sovranità in materie tanto sensibili per la salute umana. Che sia davvero così lo si capisce anche dalle affermazioni di Stuart Eizenstat, del Transatlantic Business Council “Molti standard europei sono ingiustificabilmente alti, e questo non ha basi scientifiche: ciò che può mangiare una famiglia americana, dovrebbe andar bene anche a una famiglia europea”. Il TTIP rischia, così, di diventare il mezzo per aggirare tutte le norme scomode: dagli OGM ai controlli sui prodotti dell’industria cosmetica e di quella agroalimentare (carne, pollame, ecc). Basti ricordare come, quando nel 1988 l’UE ha vietato l’importazione di carni bovine trattate con gli ormoni della crescita cancerogeni, Il Tribunale delle dispute del WTO abbia obbligato la UE a pagare a USA e Canada sanzioni da oltre 250 milioni di dollari nonostante le evidenze scientifiche e le tante vittime. Ritorsione finita nel 2013 quando l’Europa si è impegnata ad acquistare dai due Paesi carne di alta qualità fino a 48.200 tonnellate l’anno. D’altro canto l’Europa difende a spada tratta le proprie tipicità, come il nostro formaggio di fossa e il lardo di Colonnata, prodotti secondo secolari ricette, considerate ora pericolose da chi governa dall’altra parte dell’Oceano. Noi crediamo che per fare accordi come il TTIP i partner debbano avere non solo un’idea di sviluppo analoga, ma anche una filosofia e una storia che rispecchi gli stessi valori, non opposti. Poiché così non è - e non credo che noi italiani ci priveremmo mai di delizie che appartengono alla nostra tradizione in nome di una supposta “igienicità” - meglio tifare per noi e mantenere le multinazionali, anche sotto mentite spoglie e acronimi, il più possibile fuori da alcune porte. Sul mangiar bene e sano, per esempio non hanno nulla da insegnarci: prova ne sia che secondo le statistiche OMS l’Italia è il secondo Paese più longevo al mondo dopo la Svizzera (dati relativi al 2014). Gli Stati Uniti? Al 42°…

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Un fantasma dall’acronimo impronunciabile si aggira per l’Europa. Si chiama TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), cioè Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, e consiste in un accordo di libero scambio tra UE e USA, in funzione chiaramente anti Cina, che, integrando i rispettivi mercati, creerebbe di fatto l’area di libero scambio più vasta del pianeta, dato che insieme le due economie rappresentano la metà del PIL mondiale. Il negoziato per la sua ratifica è in corso dal 2013, in modo più o meno segreto, ma è stato reso pubblico l’anno successivo su iniziativa italiana, suscitando un diluvio di reazioni, positive e negative, che ne condizionano il cammino. Se i sostenitori ne mettono in luce i vantaggi economici, sottolineando, come fa il Centre for economic policy research di Londra, il positivo impatto sulle stremate economie europee, con una crescita prevista di 120 miliardi (di 90 quella USA), molti dubbi in materia vengono espressi dai critici. Primo tra tutti il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, che mette in dubbio le motivazioni stesse dell’accordo: “Gli Stati Uniti, in realtà, non vogliono un accordo di libero scambio, ma di gestione del commercio, che favorisca alcuni specifici interessi economici”. Secondo Steglitz la posta in gioco non sono le imposte sulle importazioni tra UE e USA, già molto basse, ma le norme sulla sicurezza alimentare e sulle tutele di ambiente e consumatori. Lo scopo sarebbe quello di diminuire i vincoli sulle attività economiche delle multinazionali, spesso nocive per l’ambiente e la salute, e quindi la protezione dei propri cittadini da parte dei governi nazionali, invertendo la direzione di un percorso virtuoso. Perché oltre ai contenuti discutibili, il TTIP introduce la clausola ISDS (investor-to-state dispute settlement), secondo la quale se regole, standard e leggi nazionali in materia di ambiente, salute, finanza, ecc. si trovano in contrasto con gli interessi e gli investimenti delle imprese, gli Stati potrebbero essere obbligati a pagare multe salate. L’ISDS, infatti, permette alle imprese stesse di scavalcare le giurisdizioni nazionali, facendo ricorso direttamente a tribunali di arbitrato


Il richiamo delle isole…

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S O M M A R I O EDITORIALE di Federico Klausner INDIA

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Un viaggio da maharaja Foto di F. Klausner, G. Tagini, G. Perotti, Taj, Oberoi, Palace on wheel | Testi di F. Klausner, G. Tagini, G. Perotti

israele

Tel Aviv, capitale vegana

Foto e testi di Giovanni Tagini

NEWS

francia

La provenza di Camus

Foto e testi di Vittorio Giannella ITALIA

Eolie, rombo di tuono

Foto e testi di Vittorio Giannella

Australia

E tutti giù per terra

Foto e testi di Bruno Zanzottera

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LEGENDA

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M E N T E C U O R E N AT U R A G U S TO CORPO


BEAUTY

LIBRI

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BENESSERE

PARTIRE

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ACCESSORI

SICILIA

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FOOD


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Fascino, raffinatezza, storia, profumi e colori. Palazzi di maharaja trasformati in hotel, senza perdere l’anima. L’india ha tutto per un viaggio memorabile.

india | UN VIAGGIO DA MAHARAJA

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Apertura: il Taj Mahal, una delle meraviglie del mondo e tra i più celebri simboli dell’India, si trova ad Agra, in Uttar Pradesh. Protetto dall’UNESCO, fu iniziato nel 1632 dall’imperatore moghul Shah Jahan in onore della moglie preferita Mumtaz Mahal, morta di parto dando alla luce il 14° figlio l’anno precedente, per adempiere a una promessa fattele. I lavori del mausoleo durarono 22 anni e vi parteciparono 20.000 persone tra cui numerosi artigiani provenienti


dall’Europa e dall’Asia centrale. In questa pagina: un particolare del tempio indù di Meenakshi di Madurai, uno dei più antichi e ricchi che si possono ammirare nel Tamil Nadu. È dedicato a Shiva e alla sua compagna Parvati, conosciuta meglio come Meenakshi; è un perfetto esempio di architettura barocca dravidica con le gopurams (torri) completamente ricoperte da statue colorate raffiguranti dei, animali e figure mitiche.


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A sinistra: il Samode Palace, a Jaipur in Rajasthan. Esclusivo e discreto, il Samode Palace ha ospitato, celebrità, artisti e viaggiatori incantati. È uno splendido esempio di architettura, che combina il meglio degli stili rajasthani e mughal. Costruito nel XVI secolo come forte, venne convertito in palazzo nel XIX e successivamente in hotel storico. Conserva ancora gli ambienti di un tempo, come il Sheesh Mahal (nella foto) l’area destinata alle donne. A destra: una giovane ragazza del Rajasthan sfoggia i suoi gioielli e due incredibili occhi verdi.

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A sinistra: nello Sheesh Mahal un gruppo di ragazze in costume tradizionale balla accompagnato dal suono dell’harmonium e al ritmo scandito dal dholak, una particolare specie di tamburo. Tutto il pavimento è coperto da grandi tappeti. A destra: le indiane amano ornarsi di anelli e bracciali anche caviglie e piedi. Soprattutto in Rajasthan dove gli ornamenti di argento vengono indossati permanentemente dalle donne delle comunità rurali e tribali per mostrare le loro ricchezze e i segni distintivi di casta.

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Pagina precedente: l’Hava Mahal o Palazzo dei Venti a Jaipur, Rajasthan, splendido esempio di architettura rajput. Costruito nel 1799 in arenaria rosa, la pietra locale utilizzata per gran parte delle costruzioni cittadine, deve la sua incredibile facciata alla devozione del maharajah per Krishna alla cui corona doveva assomigliare. Conta 950 tra nicchie e finestre, ornate di grate, griglie e cupole, dalle quali le donne di corte potevano guardare la città restando invisibili a occhi estranei. A sinistra: il ussuoso ingresso del Samode Palace a Jaipur. A destra: una sala dell’hotel Oberoi Armavilas ad Agra con vista sul Taj Mahal all’imbrunire.

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Pagina precedente: una sala del Taj Falaknuma Palace ad Hyderabad. Costruito tra il 1884 e 1893 è uno dei pochi antichi palazzi con una gloriosa storia dell’epoca reale, residenza del Nizam Mehboob Ali Khan Bahadur. Il suo nome in lingua urdu significa “specchio del cielo”, nome assegnatogli per le sue fastosissime e spettacolari sale con molti record, come il tavolo più lungo del mondo (33 m. e 100 posti a sedere) e la più vasta collezione mondiale di candelieri veneziani. Qui sopra: il guardiano del tempio Sri Ranganathaswamy a Srirangam si affaccia a una finestra.


Una suggestiva immagine dell’Oberoi Wildflower Hall a Shimla nella catena della Himalaya. Un tempo dimora di Lord Kitchener, l’hotel conserva l’ambiente di una antica e nobile villa di montagna coloniale, il cui clima fresco era molto apprezzato dai sudditi di Sua Maestà.

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Jhunjhunun (Shekhawati) la Golden Room dell ‘hotel Jamuna Resort. Tutti i muri e i soffitti delle stanze sono riccamente dipinti e decoratii con motivi tradizionali alternati a nicchie e specchi, secondo l’uso degli antichi haveli, di cui conserva il fascino. La città ebbe un periodo di splendore quando fu capitale del regno di Shekhavati.

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La Nizam suite dell’hotel Taj Falakluma ad Hyderabad. L’hotel è stato ricavato all’interno del palazzo del nizam di Hyderabad (governatore della città) uno dei più ricchi possidenti dell’epoca. Il nome Falaknuma significa “specchio del cielo” in urdu a significarne la bellezza.

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Pagina precedente: il soffitto affrescato nella stanza del Palazzo Reale di Thanjavur con i colori che rappresentano la purezza (bianco), i principi (rosso) e la madre terra (giallo). All’interno di questo museo ci sono collezioni di sculture in pietra dei periodi Pallava, Pandya e Nayaka, la biblioteca Saraswati e il Sangeetha Sabha (music hall). In questa pagina: vista del cortile interno dell’hotel Taj Falakluma ad Hyderabad. Il palazzo, interamente in marmo italiano, occupa superficie di 94.000 mq. Venne costruito tra il 1884 e

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il 1890 da un architetto inglese che fuse ispirazioni di architetture italiane e Tudor, modellandolo a forma di scorpione, con due pungiglioni (la coda) a nord, un corpo centrale di camere e cucine e una zona sud occupata da Gol Bangla, Zenana Mehal, e dall’harem. Per una esperienza davvero regale, i clienti vengono accompagnati dall’aeroporto all’hotel su una carrozza guidata da un cocchiere in alta uniforme, tra una pioggia di petali di fiori al momento di salire la scala di accesso.

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Anche a Mumbai ci sono luoghi d’incanto: il Taj Mahal Palace (qui una immagine della sua Rajput suite) conta 560 stanze e 44 suite e deve la sua realizzazione alla famiglia Tata, una delle più ricche e influenti indiane. Si narra che il capostipite dell’impero, Jamsetji Tata, vistosi impedire l’ingresso al lussuoso Watson’s Hotel, riservato ai bianchi, decise di costruirne uno proprio la cui raffinatezza oscurasse quella del rivale. Una futura sposa, avvolta in uno splendido sari di seta, sfila su un baldacchino di cartone portato a spalla alla festa del deserto di Thar a Jaisalmer. La festa si tiene ogni anno durante la luna piena di febbraio e consiste in una serie di spettacoli di burattini, danze e ballate, che narrano le vicende degli uomini del Thar e le gesta eroiche dei condottieri Rajput, che si opposero all’avanzata delle armate dei Moghul provenienti dall’Asia centrale. La loro resistenza servì a contenere il dilagare dell’Islam nella regione e ne conservò l’indipendenza. Per fermare gli invasori i Rajput costruirono le città fortificate che contribuiscono al fascino di questa terra: da Amber a Jaisalmer, da Jodhpur a Chittorghar.

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Stesso ambiente in queste due foto. Qui sopra: l’area per il relax della Jiva Spa nel Taj Falaknuma Hyderabad splendidamente decorata con fiori e uccelli. Il ringiovanimento olistico, insieme alle tecniche di massaggio e relax e al benessere in genere, sono il grande business degli ultimi anni.

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Anche il Taj Rambagh Palace a Jaipur possiede una Jiva Grande Spa. Jiva è un termine sanscrito che indica l’essere vivente individuale, in quanto nato già vivo dal grembo materno. Su di esso è fondata la filosofia della “forza interiore” alla base della via indiana al benessere. Ispirata ad antichissime pratiche curative, secondo Jiva le spa svelano un cammino olistico di vita, che permette di aprire nuovi canali per accrescere la propria forza interiore.

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Nella pagina precedente: coralli, turchesi, giada e malachite, debitamente forati, insieme a piccoli ciondoli d’argento costituiscono gli elementi con cui vengono realizzati collane e braccialetti tradizionali. A sinistra: anelli esposti nel Prince Jewellery Corporate Office a Chennai. Gli indiani utilizzavano le pietre non solo per scopi ornamentali, ma come rimedi sia medicinali, che per contrastare le influenze negative dei Grahas, i pianeti. Gli Joharis (gioiellieri) indiani utilizzavano le tecniche kundan (a castone ribattuto, tipiche dei gioielli moghul), che conferiscono particolare risalto alle pietre e gli smalti (minakari). La tecnica della smaltatura nasce in india e successivamente viene introdotta dagli orafi europei. L’abilità degli smaltatori si esprime nell’accuratezza d’esecuzione e nella scelta del disegno, ispirato a miniature moghul raffiguranti arabeschi, divinità o coppie principesche incorniciate da fiori e uccelli. A destra: una giovane ragazza indossa gioielli in oro e pietre dure durante una festa di matrimonio. La collana è una tipica espressione orafa risalente al XVII secolo, costituita da piccole pietre dure colorate e un pendente in oro smaltato.

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A sinistra: dalla Gole Terrace del Taj Falaknuma di Hyderabad, sotto la bellissima cupola di vetro decorato che ricorda le piume di un pavone, la vista spazia sulla città. Quale posto migliore per un tè sollevati dalla pianura infuocata? Sopra: una partita di Elephant polo nei giardini del Rambagh Palace a Jaipur. Il polo in sella agli elefanti è praticato in Nepal, Rajasthan, Sri Lanka e Thailandia. È molto più lento di quello a cavallo e su ogni elefante ci sono 2 persone, il mahout e il giocatore, che gli suggerisce dove dirigere l’elefante e colpisce la palla. Con gli elefanti occorre prestare molta attenzione a causa delle loro dimensioni: durante un campionato nel 2007 un pachiderma si imbizzarrì ferendo due persone e distruggendo il minibus del team spagnolo.


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A sinistra: ragazze durante una festa con i loro coloratissimi sari. A destra: la portantina in oro e argento del Maharajah di Mysore, pesante oltre 100 kg. Il maharajah dà il via alla cerimonia privata e solenne per la festa della Dussehra, quando il palazzo viene illuminato con oltre 100.000 lampadine. È uso che ogni anno ospiti solo 5 persone esterne alla sua cerchia familiare. Alla fine della festa la portantina viene conservata con altre preziosissime all’interno del Palazzo. 41


Il Palace on Wheels è un lussuosissimo treno turistico lanciato in Rajasthan nel 1982 le cui carrozze riprendono le caratteristiche di quelle dedicate ai sovrani in epoca coloniale. Restaurato nel 2009 è ora affiancato da altri treni come il Maharajas Express e il Deccan Odyssey con le

loro cinque destinazioni, il Royal Rajasthan on Wheels, il Pride of South e lo Splendour of South nell’India. In comune questi treni hanno lo straordinario sfarzo, l’impeccabile servizio e la squisita cucina. In viaggi lunghi dai 4 agli 8 giorni permettono di visitare in modo alternativo i più bei monumenti e parchi indiani.

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La elegante facciata candida neo palladiana del Taj Falaknuma Hyderabad si erge, con solenne sobrietà, tra gli splendidi giardini dai fragranti profumi.

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Una raffinatissima sala nella lobby dello stesso albergo, dalle pareti affrescate con vedute di paesaggi e con panchine e statue rigorosamente in marmo bianco. Nei tempi passati le fontane interne, combinate con le finestre su lati opposti, erano un efficace sistema di condizionamento naturale.

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Alla pagina precedente: il Kandiya Heritage di Madurai, uno dei più grandi negozi di artigianato dell’India del sud. Otto vertine e tre piani stracolmi di oggetti d’antiquariato, modernariato, tappeti, tessuti, gioielli e statue di tutte le dimensioni in legno o in pietra si affacciano sulla centralissima East Main Street al numero 634. Qui sopra: la imponente sala da pranzo 101 del Taj Falaknuma Hyderabad, con il tavolo da pranzo da 33 metri e 101 posti, uno dei più lunghi al mondo, realizzato in teak e palissandro, che veniva apparecchiato con piatti e posate d’oro. Candelieri veneziani, lampadari in cristallo, stucchi e legni pregiati completano l’ambiente.


Un particolare del resort TSK House Chidambara vilas nel distretto di Pudukkottai. Un lussuosissimo palazzo del secolo scorso, caratterizzato da un mix di stili architettonici, che spaziano da quelli europei a quelli asiatici, stile conosciuto anche come “French Art Deco”. Al suo interno un tripudio di colonne di marmo provenienti dall’Italia, decori di legno birmano, pavimenti con piastrelle dai disegni geometrici e pareti decorate in argento e cristallo.

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Una giovane appoggia la mano ingioiellata su un pannello della Jami Masjid di Fatehpur Sikri (Uttar Pradesh). Costruita nel 1648 dall’imperatore Shah Jahan e da lui dedicata all’amata figlia, questa moschea è tra le più grandi dell’India, parte del Patrimonio UNESCO ed è un importante luogo di pellegrinaggio. La leggenda racconta che se la moneta premuta contro il pannello rimane sospesa per qualche attimo è un segno di buon auspicio.

Nella foto a destra: durante sfilata pubblica dell’apertura della grande festa di Dussehra, 3 danzatrici suonano e danzano su un carro utilizzando strumenti tradizionali: un surbahar, dotato generalmente di 20 corde 7 delle quali superiori e 13 di risonanza, e un tamburo packawaj, progenitore delle tabla, uno strumento antichissimo sulla cui pelle più grande, destinata ai bassi, viene applicato una specie di chapaty (pane indiano), espediente per ottenere suoni cupi e brevi.

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Il tilak (o pundra) è l’usanza di segnare la fronte con un cerchio di color rosso. È realizzato unendo terre colorate con ceneri di yajna e pasta di sandalo. È il rituale di benvenuto indiano, è considerato una sorta di benedizione e la sua applicazione prima di entrare in un luogo sacro ha un significato di buon auspicio. Il tilak può acquisire anche un significato di appartenenza religiosa, a seconda dei diversi colori e forme usate: i devoti di Vishnu lo applicano in forma di U rossa, quelli votati a Shiva tracciano invece tre linee orizzontali.

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Un dettaglio di produzione artigianale di tessitura a telaio del laboratorio Sri Mahalakshmi Handloom Weaving Center di Karaikudi (Tamil Nadu). Il laboratorio, visitabile, è costituito da circa venti telai antichi manovrati da mani esperte. Il risultato sono tessuti coloratissimi e preziosi, disegni unici e raffinati realizzati con materiale di altissima qualità.

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Sotto: la raffinatezza della Sala da Fumo del Taj Falaknuma Hyderabad: da notare le ricercate boiserie, le piccole statue lignee e il pool table (biliardo) per completare il quadro squisitamente british dell’ambiente. L’unica traccia di tradizioni locali è rappresentata dall’hookah (pipa ad acqua) appoggiata sul tavolo.

A destra: la Rajput suite del Taj Mahal Palace a Mumbai, con il bassorilievo del pavone come elemento decorativo.

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A sinistra: la Sala di Giada del Taj Falaknuma Hyderabad, così chiamata per il suo colore. Possiede soffitti dipinti in stile vittoriano, candelabri belgi e lampadari in cristallo, preziose cineserie, uno straordinario parquet a disegni geometrici ed altri arredi preziosi.

A destra: cena romantica sul lago di Udaipur (Rajasthan) presso il Taj Lake Palace. Situato al centro del lago Pichola e costruito nel 1746, il Taj Lake Palace è una struttura in marmo dall’architettura maestosa con una Jiva Spa, e sedute di yoga. Lusso nel lusso le camere prevedono un servizio di maggiordomo.

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A sinistra: usciere in uniforme da rajput all’ingresso dell’hotel Umaid Bhawan Palace a Jodhpur. Costruito tra il 1928 e il 1943 è appartenuto alla famiglia reale di Jodpur e oggi è la sesta residenza privata per dimensioni al mondo. Costruito sulla Chittar Hill domina la città, chiamata blue city per il colore delle sue case, e le vicine dune di sabbia. A destra: il Taj Mahal Palace di Mumbai. Aperto nel 1903 accanto alla Gateway of India, il suo lusso leggendario ha attratto regnanti, ministri e VIP internazionali. Affacciato sul mare, conta 550 stanze, 10 famosi ristoranti e una spa. La leggenda vuole che l’architetto lo disegnò dall’estero e non visitò mai il cantiere finché non fu terminato. Mentre la sua barca si avvicinava vide che l’hotel era stato costruito al contrario e per la frustrazione si gettò in acqua. Perché è proprio così: dal mare si vede il retro dell’hotel mentre la facciata (qui in foto) è riservata al piacere degli ospiti.

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A destra: uno dei grandi corridoi, che attraversa le viscere del Taj Mahal Mumbai, alto sette piani, uno degli alberghi più grandi del mondo. A sinistra: la imponente scalinata del Taj Falaknuma Hyderabad in marmo intarsiato con statue portalampada, quadri dalle cornici barocche e vetri colorati. La ricchezza dei nizam del principato di Hyderabad, prima che l’India divenisse uno stato unico indipendente, fu leggendaria e 60


il settimo e ultimo della dinastia, Mir Osman Ali Khan, il più ricco, classificato al 5° posto della lista dei più ricchi di tutti i tempi da Forbes (Bill Gates è al 20°, per dire). Aveva forzieri di lingotti d’oro e argento per 150 milioni, oltre 500 in gioielli, tra cui il rarissimo diamante Jacob (80 milioni) usato come fermacarte. Poi montagne di perle centinaia di cavalli da corsa, dozzine di Rolls-Royce e una serie di palazzi che impiegavano molte migliaia di persone.

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Nella pagina precedente: il palazzo del maharajah di Mysore illuminato durante la festa Dussehra, che celebra la vittoria del dio indù Rama sul re demone Ravana (re di Sri Lanka), raccontata nel grande libro epico Ramayana. Chiamato anche Amba Vilas Palace è un edificio costruito in stile indo-saraceno ultimato nel 1912 su progetto inglese Henry Irwin, Al suo interno vetrate policrome e specchi illuminano pavimenti a mosaico. Una serie di quadri raffigura la vita che si conduceva a Mysore nel periodo edoardiano del raj.

Sopra: una delle numerose porte del Meenakshi temple, decorata con figure lignee di dee indù, introduce alla stanza religiosa delle mille colonne dedicata a Sundareswarar. Si tratta di uno dei pochi templi ad avere quattro ingressi che si affacciano nelle quattro direzioni ed è candidato nella lista delle trenta meraviglie del mondo. A fianco: l’Heritage di Madurai è il tipico esempio di architettura locale. Loggiati e portici di legno intarsiato accolgono gli ingressi delle suite, realizzate in pietra scolpita con motivi floreali. Gli interni mescolano sapientemente un modernismo sobrio ed elegante con arredamenti in stile indiano. 64


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Una suggestiva immagine dell’Oberoi Udaivilas a Udaipur, affacciato sul lago Pichola, circondato da giardini e alberi in fiore ispirato all’architettura mewar, tipica della zona.

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Uno dei privilegi delle stanze dell’Oberoi Amarvilas di Agra è la vista. A quella dell’immagine qui sotto il Taj Mahal si offre in tutto il suo splendore.

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L’India, si sa, è la patria dello yoga. Molti hotel offrono corsi e hanno spazi dedicati dove praticarlo. L’Oberoi Udaivilas, per esempio, è perfetto: tranquillità, silenzio, panorama incantevole. La parola yoga viene dal sanscrito e indica un insieme di tecniche anche meditative aventi come scopo l’unione con la Realtà ultima e tese a controllare, governare i sensi (indriya) e i vissuti da parte della coscienza.

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INFO UTILI Foto di F. Klausner, G. Tagini, G. Perotti, Taj, Oberoi, Palace on wheel Testi di F. Klausner, G. Tagini, G. Perotti CLIMA L’ India è praticamente un continente. Il suo clima varia grandemente influenzato dalla latitudine, dall’altitudine (si va dal mare all’Himalaya), e dalla conformazione orografica. In generale si distinguono 4 stagioni: inverno (gennaio-febbraio), estate (marzo-maggio), stagione monsonica (giugno-settembre) e post-monsonica (ottobre- dicembre). È quindi difficile trovare un periodo unico che sia il migliore per tutto il Paese. Comunque, per visitare la gran parte dell’India il periodo migliore va da metà novembre a febbraio in pianura e collina, gennaio e febbraio lungo le coste sud-orientali e nelle isole meridionali. Marzo è ancora un mese secco, ma comincia ad essere caldo, con punte che possono superare i 35 gradi al sud. Se si può viaggiare solo in estate meglio scegliere il Rajasthan, dove il monsone è meno intenso oppure lo Jammu & Kashmir. Per le spiagge conviene scegliere il periodo tra dicembre e febbraio per la costa occidentale (Goa) e tra gennaio e febbraio per quella orientale. VACCINAZIONI Obbligatorie: Nessuna ad eccezione di quella contro la Febbre Gialla per viaggiatori provenienti da luoghi in cui è endemica. Consigliate: anti

tifo, anti tetano anti epatite e anti malaria (a seconda di dove ci si reca e quando). Consultare sempre Viaggiare Sicuri DOCUMENTI Occorre il visto che viene rilasciato presentando il passaporto con più di 6 mesi di validità residua, e 3 facciate libere. Se il passaporto è stato rilasciato da meno di 6 mesi anche il vecchio, 2 fototessere a fondo bianco, a colori, 5cm x 5cm, uguali tra loro e recenti (inoltre devono essere identiche alla foto da allegare al modulo online). Si può richiedere anche per corriere. Tutti i particolari sul sito Visti India COME ARRIVARE Innumerevoli compagnie servono l’India. I porti di ingresso più serviti sono Delhi e Mumbai (da circa 360 €) DOVE DORMIRE Per un viaggio da vero maharajah consultare i siti delle catene: Heritage Hotels of India Taj | Oberoi CUCINA Fa molto uso di spezie e latticini e si differenzia regionalmente. In generale a nord si fa più uso di carni e meno di spezie, mentre a sud è più speziata e vegetariana. Molte le varietà di pane e riso. La cucina indiana è ricchissima in varietà e profumi, spesso assai piccante, ma deliziosa. Lettura raccomandata: Sari, Samosa e Sutra di Federica Guliani. INFO Ente del turismo indiano


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Un fremito di ali gialle tra i filari blu. E la farfalla sparisce rapida, sprofondando nel profumo di lavanda. Lo stesso profumo che sedusse il grande scrittore venuto a Lourmarin a trascorrere gli ultimi anni della sua vita.

francia | LA PROVENZA DI CAMUS

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Pagina precedente: una farfalla cedronella svolazza tra filari di lavanda. In questa pagina: tra i primi borghi che s’incontrano sulla strada panoramica che porta all’abbazia di Senanque c’è Gordes. Appare all’improvviso da una curva in tutta la sua bellezza, con le case e i tetti che si


mimetizzano tra le rocce circostanti. I lati della via ciottolata principale sono pieni di atelier di artisti che hanno scelto Gordes come buen retiro. Le vecchie case color pastello sono saldate le une alle altre con archi e scale e nell’aria l’odore pungente di pastis.


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Nella pagina precedente: filari di Lavanda angustifolia, la varietà più coltivata, che dà i migliori rendimenti in oli essenziali e può vivere fino a 1500 metri d’altitudine. La raccolta della lavanda avviene in genere tra il 20 e il 28 luglio e i contadini, come François nella foto, sono dotati di un savoir faire tutto particolare nel descrivere la loro passione e le tradizioni riguardanti la coltivazione della lavanda. Francois spiega che ci vogliono ben 120 chili di fiori per ottenere un litro di essenze ed elenca tutte le potenzialità benefiche dell’olio: cicatrizzante, antisettico e tre quattro gocce nel bagno caldo attirano inesorabilmente Morfeo per sonni tranquilli. Con mano esperta taglia alcuni steli e ci dice: “portate in Italia un po’ di profumo della Provenza”, mettendo i mazzetti con cura in un canestro.

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A ogni incrocio una sedia, un canestro di lavanda e un’indicazione; distilleria Les Coulets una delle più note in questo territorio dove l’aria è inebriante e il vento non va mai in vacanza. A destra: i grandi vasconi ermetici dove centinaia di chili di lavanda vengono immersi nell’acqua bollente per estrarne l’essenza. Da sempre i contadini parlano di essenza, i profumieri professionali lo chiamano estratto, gli aromaterapeuti di olio essenziale, ma indicano tutti lo stesso prodotto.

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Il sabato mattina a Cadenet si tiene il mercato settimanale, dove curiosare e comprare i prodotti del territorio, le tovaglie in lino, i tessuti provenzali e le immancabili saponette azzurre (foto a destra) profumatissime di lavanda.

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Roselline secche profumate in vendita al mercato di Roussillon, cittadina che ha conservato intatta la sua atmosfera, con strette viuzze ornate di fiori, piccole piazze e deliziosi invitanti bistrot.


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Una farfalla Podalirio attratta dal polline della lavanda in piena fioritura e a destra la crisalide di una cicala che ha scelto lo stelo di lavanda come sostegno per uscire dopo tre anni vissuti come larva sottoterra.

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Nella pagina precedente: a Roussillon ci si accorge che non sono tanto i fiori a cambiare il colore e i connotati alla regione, ma è la terra stessa, che si accende di un rosso intenso in contrasto col verde dei pini. Per godere appieno di questo spettacolo bisogna percorrere un sentiero, facile per tutti, che porta tra pinnacoli e canyon dove domina il colore rosso.

Portone dipinto a Roussillon, paese noto per le terre color ocra, che trasuda dalle pietre dei muri e delle case. Foto a destra: ballo in strada al mercato di Cadenet.

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Il borgo di Lourmarin, poco più di mille anime, è tra i villaggi più belli di Francia. Posto in un’ampia vallata soleggiata ai piedi delle montagne calcaree del Luberon, ha numerosi caffè e sale da tè. Foto a destra: se bisogna spedire una cartolina della regione c’è solo l’imbarazzo della scelta.

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Nel cuore di Lourmarin la figura di Albert Camus (1913-1960), scrittore premio Nobel per la letteratura nel 1957, è ancora profondamente presente. Un percorso letterario dal titolo “Sur le pas d’Albert Camus” ripercorre i luoghi cari allo scrittore, come la casa della sua governante con le tipiche finestre provenzali. A destra: un angolo del borgo di Murs.

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La Provenza è anche la regione delle vigne e nota nel mondo per i suoi vini eccellenti. Qui ogni stagione dell’anno sembra essere propizia a questa meravigliosa terra, che cambia colore con


il variare dell’intensità dei raggi del sole. L’aria tersa, sempre mossa dal mistral, smuove le foglie novelle delle viti, che regalano rosé unici.


A pochi chilometri da Pertuis si possono visitare le cantine di Chateau Val Joanis, abbellite da un giardino dichiarato patrimonio culturale nazionale. Dalle centinaia di botti di rovere si spilla un rosé molto richiesto per accompagnare lauti piatti di pesce e crostacei. Sicuramente da qui si riparte appesantiti da qualche bottiglia.

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Una finestra del castello di Lourmarin incornicia un cielo azzurro e un paesaggio che sembra uscito da un quadro impressionista, e impreziosisce ulteriormente questo luogo già ricco di suggestioni letterarie. Foto a destra: la targa di una via dedicata al celebre scrittore, che qui ha vissuto pochi mesi.

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Un dépliant per un evento culturale su Abert Camus. Qui a Lourmarine, con il ricavato del premio Nobel, lo scrittore scelse il suo rifugio. E qui in questa casa (foto a destra) mentre sua figlia Catherine ci ospita per una intervista, vediamo qualche foto dello scrittore in compagnia di Michel Gallimard, editore. Legati da una forte amicizia personale e professionale, incontrarono insieme una tragica morte nell’incidente automobilistico del 4 gennaio 1960.

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Tra le viuzze di Cucuron, paese con le case tutte raccolte attorno alla piccola piazza, le giornate sono scandite dai rintocchi dell’originale campanile. Un luogo intimo, lontano anni luce dalle atmosfere chiassose e “charmose” della costa. Qui è tutto talmente rilassante, che i numerosi gatti sonnecchiano sui davanzali delle finestre. Foto a destra: una scultura nel castello di Lourmarin che accoglie giovani artisti, organizza concerti ed esposizioni in tutto l’arco dell’anno e, da giugno a settembre un importante festival della musica, con un programma molto fitto.

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A cinque chilometri da Gordes, si trova l’abbazia cistercense di Senanque, un luogo fuori dal tempo. All’arrivo tutto sembra essere opera di una regia ben curata: filari di lavanda accompagnano gli occhi alle armoniose forme del monastero, datato 1148. Un luogo dello spirito dove l’unico rumore percettibile è il ronzio delle api intente alla ricerca di nettare.

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INFO UTILI Come arrivare Autostrada A8 fino a Ventimiglia. Proseguire per Nizza e Aix en Provence, poi A51 per Manosque e uscire a Pertuis.

Foto e testi di Vittorio Giannella

Mercati settimanali Martedi mattina a Gordes, giovedi mattina a Roussillon, venerdi mattina a Lourmarin e sabato mattina a Cadenet. Dove dormire La Bastide du Bois a Maubec en Luberon Le Moulin de Lourmarine Dove mangiare La Recreation 15, rue Philippe de Girard, Lourmarine t.+33 0490682373 Ristorante La Feniere, ottima cucina del territorio. Link utili Ente del turismo francese Portale del turismo della Provenza Portale di Lourmarin

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Aperta, tollerante, Tel Aviv si apre a tutte le minoranze. Anche alimentari. Con 150 ristoranti vegan – friendly e con il 5-10 % di popolazione vegana è stata riconosciuta dal Daily Mail capitale mondiale vegana.

iSRAELE | TEL AVIV, CAPITALE VEGANA

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Nella pagina d’apertura: uno stand gastronomico nel nuovo Sarona Market, il mercato coperto ispirato dai più grandi mercati di tutto il mondo. Al suo interno 100 tra negozi alimentari, ristoranti internazionali, vinerie e banchi di frutta. Per gli appassionati di food è il luogo perfetto dove trascorrere l’intera giornata. Pagina precedente: una parete ricoperta da frammenti di ceramiche colorate a Neve Tzedek, l’antico quartiere della città. Fino a qualche anno fa angolo poco frequentato, oggi grazie ad atelier d’artisti, giovani artigiani, ristoranti alla moda e boutique raffinate, è diventato il quartiere più trendy della città.

In queste pagine: i due ristoranti del Carlton, lussuoso hotel sul lungomare di Tel Aviv. Il Lumina (sopra) è un bistrot luminoso ed elegante, combina una cucina ebraica rivisitata con una cucina fast food occidentale; assolutamente da provare il Gelife e uno squisito fish & chips. A sinistra il Blue Sky, gestito da Meir Adoni, uno degli chef più famosi della città, propone piatti della cucina tradizionale e internazionale. L’elegante ristorante si trova sulla terrazza al 15 piano, da dove si può godere di una bellissima vista sullo skyline della città.

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Tel Aviv in questi ultimi anni è diventata la capitale mondiale vegana. Solo nella città ci sono più di 40.000 seguaci della dieta, in continuo aumento. Il cibo vegano è da sempre parte integrante della cucina israeliana, ci sono 150 ristoranti completamente vegani e più di 500 quelli che offrono piatti vegani nel menù. Il The Daily Mail ha inserito Tel Aviv come miglior meta per vacanze vagane.

Il 24 settembre si terrà il più grande festival vegano del mondo. L’intero parco di Hayarkon sarà dedicato a questo evento internazionale. Oltre a ristoranti, coltivatori e iniziative vegane, ci saranno aree dedicate allo yoga, allo shiatsu, con sessioni di pilates e stand di aziende di cosmetici e abbigliamento con prodotti senza sperimentazione su animali.

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Uno dei punti di forza di Israele non è legato solo all’agricoltura high-tech, ma si sviluppa nella produzione di quasi tutte le varietà di frutta e verdura conosciute al mondo. Un mercato fiorente che guarda a prodotti sani e innovativi. In questi ultimi anni la ricerca ha prodotto nuove specie, tra cui l’Angelo, un peperone dolce senza semi, il pomodoro nero, ricco di vitamina C e molto gustoso e le zucchine Goldy, dal colore giallo brillante, molto più gustose delle tradizionali.


Sopra: In tutta la città in questi ultimi anni si è sviluppato un mercato legato al cibo da strada. La cucina in Israele è tanto variegata quanto lo sono i suoi abitanti. Ed è per questo che, in ogni angolo della città, si trovano piccoli stand, che offrono spuntini a qualsiasi ora della giornata. Potrete trovare e gustare piatti della tradizione ebraica, della cucina cinese, giapponese, indiana, araba ed europea. Non resta che usare il proprio istinto e scegliere la cucina che più ispira. Buon appetito!

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Sotto: l’ingresso del Zakaim, considerato uno dei migliori ristoranti vegani di Tel Aviv. L’aspetto e l’arredamento sono in sintonia con lo spirito ecologico del proprietario. Tavoli, sedie, tovaglie, bicchieri, stoviglie e tutti gli oggetti d’arredamento sono rigorosamente di seconda mano o riciclati. Un mix di stili e colori, che comprende anche vecchi arredi della nonna dal fascino vintage.

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Sotto: nel nuovo quartiere Sarona, ex colonia tedesca oggi villaggio dedicato allo shopping e all’intrattenimento, c’è il Picnic 24h, un ristorante aperto 24 ore su 24, che non ha né tavoli né sedie. I clienti, una volta scelto il menù, vengono forniti di coperta/tovaglia e di un cestino in vimini da pic nic per consumare lo spuntino scelto nel parco adiacente, all’ombra di un grande ficus. Un’idea che piace molto a chi vuole passare la pausa pranzo all’aperto.

A destra: due piatti serviti al ristorante Zakaim. Sopra: squisiti mini burekas cotti al forno: sottile sfoglia croccante ripiena di melanzane, patate, noci e basilico. Sotto: patatine novelle spezzate a mano e fritte, accompagnate da una salsa di avocado all’aglio. Un piatto semplicissimo e delizioso, tanto che il Time Out magazine lo segnala come il miglior piatto di patate di tutta Tel Aviv.

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Una forma del popolare labneh, una sorta di formaggio/ yogurt preparato con latte di capra, pecora o mucca. Può avere una consistenza più o meno morbida, a seconda del latte utilizzato e dal tempo di asciugatura. Se molto morbido si usa come salsa delicata per condire piatti di verdura. Se più compatto si gusta come snack o per farcire i sandwich.

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Lo chef Harel Zakaim, che insieme ai suoi fratelli Hani e Hila circa quattro anni fa ha aperto il ristorante vegano Zakaim. La motivazione è lodevole: Harel era un macellaio e decise che allevare e uccidere animali per mangiarli non era giusto e non aveva senso. Fu subito un successo. Il segreto? Preparare piatti, utilizzando prodotti freschissimi, stagionali e di provenienza locale. “Quando cucino un piatto, non penso a farlo vegano, voglio solo farlo buono”. E i suoi piatti sono buonissimi e piacciono a tutti, vegani e non.

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Un negozio di dolci espone varietà di halva, il dolce tradizionale israeliano. La base è preparata con pasta di sesamo (tahina) e zucchero o miele, impreziosita dall’aggiunta di pistacchi, mandorle, cioccolato, vaniglia, noci o fichi secchi.


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Nella pagina precedente: un banco di spezie colorate al Caramel Market, il più assortito e grande mercato della città. Nella cucina ebraica le spezie sono molto usate per insaporire e condire piatti a base di carne o verdure. Sopra: un banco espone prodotti di stagione. Al Caramel Market non si trova solo frutta e verdura, ma è il luogo giusto per l’ottimo street food: falafel (polpetta di legumi), hummus (crema di ceci) bureka (pasta fillo ripiena e fritta), la zuppa Kube e il Shakshuka (uova, peperoni, cipolla pomodoro e spezie), tutti piatti freschissimi e preparati al momento.

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Un coloratissimo banco frutta al Sarona Market, il mercato coperto più grande di tutto Israele, 8700 mq. Parte proprio da Sarona la terza edizione di Open Restaurant, un appuntamento, intorno al quale gravitano discussioni culinarie, con sessioni di cucina e suggerimenti degli chef più famosi di Tel Aviv. L’evento prevede degustazioni nei vari ristoranti della città, eventi innovativi e shopping al mercato con gli chef, per scoprire gli ingredienti più freschi e poco conosciuti.

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A fianco: al Shlomo Doron, in Yishkon street, una traversa del Caramel Market, viene servito il miglior Hummus di tutta la città. Semplicissimo ristorante con tovaglie di carta e sedie di plastica consumata, offre pochi piatti, tutti freschissimi e buonissimi. Il momento più affollato è alla mattina: le persone ci vengono per mangiare un piatto di hummus e ceci con pane arabo, prima di fare la spesa al mercato.

Sopra: un simpatico Rabbino mentre beve un buon caffè da Cohen, una delle torrefazioni migliori della città, sempre in Yishkon street. Oltre a offrire ottime miscele arabiche è famoso per il suo proprietario Shlomo, che lavora cantando. E che voce! Ex insegnante di musica e tenore a tempo perso, “O sole mio” è il suo pezzo forte. Quando la canta una folla si raduna bloccando la strada.

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Nella pagina precedente e in queste pagine: alcuni piatti serviti al ristorante Mantaray. Pavimento di legno, sedie impagliate, vecchie credenze ricolme di verdure fresche e vasi di sottaceti, sottofondo di musica reggae e la posizione strategica, in riva al mare, lo rendono uno dei più frequentati ristoranti di Tel Aviv. Il menù offre un’ampia selezione di piatti della tradizione, a base di pesce e frutti di mare. Ma il cavallo di battaglia sono i mezze, piccoli piatti di antipasti, una vera delizia per la vista e il palato.

Lo chef Ronen Skinezis, prima di approdare al Mantaray, ha lavorato in molti ristoranti europei e si percepisce: i suoi piatti tradizionali rivisitati si fondono con la cucina mediterranea. Da provare lo tzatziki con le melanzane fritte, il ceviche di cefalo marinato, servito con cipolla rossa, i freschissimi gamberi con spinaci e melone. Non fatevi mancare lo straordinario filetto di cernia su un letto purè di patate blu e scalogno. Un suggerimento: prenotate per cena un tavolo sulla terrazza: la vista su Jaffa al tramonto è insuperabile.

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Due giovani ragazze mussulmane si divertono sulla spiaggia di Alma al tramonto. Sullo sfondo la moschea Al-bahr nel vecchio quartiere di Jaffa, l’antico porto di Tel Aviv.


A Tel Aviv non ci si ferma mai, neanche la notte. Tutti i giorni, al calare del sole, i giovani si ritrovano nei numerosissimi locali notturni. Si inizia con l’aperitivo nei numerosi locali sul lungomare; il più modaiolo è il Banana Beach nel vecchio porto. Si prosegue la serata nei quartieri di Florentin e Neve Tdzedek, dove ci sono i ristoranti più trendy e giovani e la maggior parte dei locali notturni.

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Tantissimi sono i locali notturni aperti tutta la notte. L’Hostel 51 è uno degli ultimi arrivati: un lounge bar con giardino interno, dove assaporare ottimi cocktail ascoltando musica suonata da Dj internazionali. Non molto distante c’è lo Sputnik, uno dei locali notturni più sorprendenti della città: musica hip hop e house, diversi spazi con arredamenti e murales, che richiamano il passato e il futuro. Per gli appassionati di discoteche il Solo club è il locale perfetto per scatenarsi fino all’alba.

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Nella pagina precedente: lo skyline notturno della città. Sopra la lunghissima piazza illuminata di Giv’on. Questa piazza, appena ristrutturata e poco distante da Sarona, è diventata uno dei luoghi preferiti dai giovani. Un tempo degradata e poco sicura, a grazie alla riqualificazione della zona è diventata un luogo di incontri: bar, ristoranti, gallerie d’arte e negozi alla moda attirano i giovani in cerca di novità.

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La cucina israeliana è un insieme di piatti mediorientali, libanesi ed ebrei. Basti pensare ai falafel e all’hummus, che sono associati alla cucina israeliana, anche se sono a tutti gli effetti libanesi. Molti piatti di carne arrostita, verdure ripiene, e zuppe di fagioli, accompagnate con il pane pita, sono invece di derivazione araba-yemenita. Uno dei piatti specificatamente israeliano è il ptitim, una sorta di cuscus condito con ceci, verdure e molte spezie.

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Sotto: l’antico edificio in mattoni rossi circondato da grattacieli, è il Claro, l’ultimo ristorante aperto nel quartiere Sarona. Un ampio locale su due livelli. All’ingresso un’ampia sala, con cucina a vista, offre due menù: uno vegano e l’altro di cucina mediterranea, con piatti tipici spagnoli, italiani, libanesi, francesi e greci. Nel seminterrato un grande bar, con comodi divani in pelle, luce soffusa e musica lounge, ideale per l’aperitivo e per gustare ottimi hamburger.

A destra: sopra la sala da pranzo del Kimmel, un delizioso ristorante in Neve Tzedek, arredato come un vecchio bistrot francese. La cucina offre piatti della tradizione ebraica e piatti internazionali. Il Kimmel per molti è considerato uno dei miglior ristoranti della città. Sotto: il banco affollato del pub Radio E.P.G.B. in Shadal street 7, uno dei locali notturni frequentato da giovani studenti, dove bere ottime birre e ballare tutta la notte.

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Il bar nel giardino dello Sputnik, in Allenby street, il locale notturno per antonomasia.

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INFO UTILI Dove dormire Hotel Carlton, 10 Eliezer Peri Street, tel +972 3 5201818. The Norman, 25 Nachmani street, tel +972 3 5435555. Hotel 75, Allenby street 75, Tel + 972 3 5212518. The Diaghilev buotique hotel, Maze street 56, Tel + 972 3 5453131.

Foto e testi di Giovanni Tagini

Dove mangiare Zakaim, simtat Beit Hashoeva 20, Tel + 972 3 6135060. Mantaray, Alma beach Koifman street 7, tel + 972 3 5174773. Claro, Sarona Market, Tel + 972 3 6017777. Kimmel, Hashahar street 6, Tel + 972 3 5105204. Indirizzi utili Ufficio del turismo israeliano

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L’arcipelago delle Eolie, patrimonio UNESCO, è costituito da sette isole dalla natura di una bellezza selvaggia. E dai vulcani più attivi di Europa che ogni anno attirano migliaia di turisti.

italia | Eolie, Rombo di tuono

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Apertura: Salina al tramonto. “Il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole” (Giovanni Verga). Sette isole, frammenti di terra emersa con un minimo comun denominatore: tutte sono nate forgiate dal fuoco dei vulcani, ciascuna con una propria caratteristica. Incluse nella lista del patrimonio mondiale UNESCO nel 2000, sono diventate parco nazionale nel 2007, frequentate dagli stranieri attratti dal clima e dalle case colorate sul mare come il porto vecchio di Lipari (nella foto).

Pagina a fianco: in alto; trasparenze lungo la costa di Lipari, l’isola più grande dell’arcipelago. Sotto: le mani esperte di un artigiano di Salina cominciano a confezionare un canestro in vimini.

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Pagina precedente: “Giungemmo nell’Eolia, ove il diletto agli immortali Dei, d’Ippota figlio, Eolo abitava…Questo il paese, questo è tetto in cui me per un intero mese cò modi più gentili Eolo trattava” (Odissea, libro X). L’ospite che parla è Ulisse e l’isola è Lipari, nella foto. In questa pagina: nella via principale di Lipari, che porta alla cattedrale di San Bartolomeo, patrono dell’isola, sono numerosi i negozi che vendono ceramiche artigianali. A destra: un’arte tramandata da generazioni quella della frutta martorana, dolce fatto con pasta di mandorle, colorata con coloranti alimentari e sagomata con attenzione, che le fa assomigliare a frutti veri.

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Pagina precedente: una delle risorse ancora importanti di salina, e che occupa gli abitanti da maggio a settembre, è la raccolta dei capperi, che, salati, vengono esportati in tutto il mondo. 158


Corolle di flora eoliana dalle forme e dai colori magnifici. Non certo allo scopo di allietare gli occhi di noi umani ma per attirare gli insetti impollinatori. 159


L’aliscafo parte da Milazzo e dopo venti chilometri raggiunge Vulcano, l’antica Hiera, casa del Dio del fuoco Efesto e dei suoi Ciclopi, intento, nelle viscere della terra, a forgiare fulmini per Zeus. Sulla sommità dell’isola a 386 metri, ci sono fumarole attive. Se volete provare l’elettrizzante esperienza di salire su un vulcano fumante, quest’isola fa per voi.

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Il faro di Lingua, frazione di S. Marina di Salina. Da decenni versa in stato di abbandono, in una location stupenda, che regala scorci meravigliosi sulla vicina Lipari. Da poco, con l’arrivo di cospicui sovvenzionamenti, si potrà trasformare questo simbolo di Salina in museo del mare e del sale. La struttura sorge sulle rive di un’antica salina di epoca romana.

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Uno dei punti più panoramici e spettacolari di Lipari è senza dubbio la località Quattrocchi. Falesie altissime e in fondo Vulcano. Tutt’intorno la macchia mediterranea, che emana profumi da stordire.

Un terrazzino del Therasia resort di Vulcanello, in fondo a poco più di 700 metri la costa di Lipari.

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Un luogo del cuore da non perdere a Salina è la spiaggia a mezzaluna ciottolosa di Pollara, che nel 1994 fece da sfondo alle scene del film “Il postino” con Massimo Troisi, che da lì a pochi giorni ci lasciò. Un luogo struggente, con le pareti di arenaria verticali scolpite da onde e vento. Vicino le piccole case dei pescatori, le balate, scavate nella roccia tenera. A destra in alto: Vulcano. Il laghetto dei fanghi curativi per varie patologie della pelle. Unica controindicazione è che bisogna resistere al forte odore di zolfo. Foto sotto: la scogliera a Pecorini, piccola località dell’isola di Filicudi.

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Pagina precedente: l’isola di Filicudi da Capo Graziano. In questa pagina: una colata lavica scivola dalla Sciara del fuoco a Stromboli, uno dei vulcani più attivi del mondo. Ogni 10-20 minuti il vulcano mostra, a chi faticosamente raggiunge la vetta a 700 metri, che la terra è viva, pulsa, sbuffa, brontola, mostra i muscoli e ridimensiona la figura umana, elemento piccolo in questo universo delicato e grandioso. A destra: da qualche anno molti terreni incolti e aridi di Filicudi sono stati coltivati per produrre carciofi e altri ortaggi, che trovano qui un fertile terreno vulcanico.

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Murales nel centro di Lipari. A destra e pagina successiva: case eoliane a Filicudi.

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Per osservare le testimonianze degli sconvolgimenti geologici, che hanno formato Lipari, bisogna andare a Capo Bianco, dove colate di pietra pomice vengono nascoste da intense fioriture di ginestre in primavera. A destra: una lucertola Podarcis wagleriana in abito nuziale e una farfalla Charaxes tipica delle isole mediterranee.


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Sopra: un cuscino di scabiosa marina abbarbicata sulla roccia di Panarea. A sinistra: linguine alla cernia del ristorante La Canna a Filicudi. Sotto: filetto di aguglia e pesce spada del ristorante Dal Filippino di Lipari. 179


Terrazzo panoramico di una casa nella parte alta di Filicudi. “Quassù i pensieri volano al vento”, ci dice la proprietaria Ines.

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Le vigne a Salina, tenute basse per resistere meglio al vento salmastro e alle estati siccitose, producono un’ottima malvasia, tornata in auge grazie a Carlo Hauner, artista tedesco che, trapiantatosi qui, cominciò a produrla con metodi più consoni al consumo di qualità.

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Pagina precedente: il faraglione della Canna a Filicudi al tramonto, una magia. E sullo sfondo Panarea, che sembra un gigantesco cetaceo. In questa pagina: un fiore di cappero.

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INFO UTILI Foto e testi di Vittorio Giannella

Come arrivare In aereo fino a Catania Fontanarossa, poi si raggiunge Milazzo con bus o auto a nolo. Da Milazzo traghetti o aliscafi per le isole. Siremar. Porto tel. 090 9796533. Parcheggi per auto 090 9288585. Dove dormire Hotel Signum a Malfa, isola di Salina, posizione incantevole all’ombra del gigantesco cono vulcanico, e grande piscina. Tel. 090 984 4222. Hotel La Canna a Filicudi, accoglienza familiare, veduta strepitosa sul mare e Capo Graziano, piscina. Tel. 090 98 89 956 Dove mangiare Ristorante dal Filippino, storico, da oltre cent’anni a Lipari, pesce freschissimo, vasta scelta di vini. Tel. 090 9843075 Ristorante La Canna a Filicudi, pesce e ortaggi appena colti. a km 0. Tel.090 9889956 Da Alfredo a Salina, Lingua sul lungomare, pane cunzato con pomodorini, capperi, tonno e olive, granite siciliane indimenticabili. Tel.090 984307.


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È il modo di dipingere abituale degli aborigeni australiani, quando rappresentano la natura che li circonda con tanti i punti sulla tela. Ma guardando dall’alto c’è più di una sorpresa.

australia | E TUTTI GIÙ PER TERRA

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Al principio la Terra era piatta e senza vita. Non vi era luce né tenebre. Un giorno da questa sorta di brodo primordiale sorsero esseri metafisici chiamati Wondjina. ‘Gli Uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi e le catene montuose, le s-aline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono, uccisero: in ogni punto lasciarono una scia di musica’ (Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti). Era il Tempo del Sogno. Cantando diedero vita ad ogni cosa e la Terra Australis prese forma trasformandosi in una gigantesca partitura musicale percorsa da una ragnatela di invisibili Vie dei Canti. Al termine di questo viaggio infinito, gli antenati provarono un’enorme spossatezza.

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Decisero quindi di trasmettere agli esseri umani, che avevano creato, le conoscenze utili per vivere seguendo l’ordine cosmico e svanirono tra le viscere della terra. Scomparvero ma non morirono, semplicemente si trasformarono in spiriti, continuando ad abitare quei luoghi che essi stessi avevano creato. E il territorio divenne un immenso luogo sacro da non violentare per nessun motivo. Pagina precedente: un dipinto del gruppo di artisti aborigeni della tribù Arrenrte della comunità di Titjikala nel Northern Territory a sud di Alice Springs.

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Pagina precedente: panoramica aerea sulla distesa di sale del lago Eyre nel South Australia. Qui sotto: Delfina Doolan, una bimba della tribù Arrenrte, della comunità di Titjikala nel Northern Territory, a sud di Alice Springs, ritratta nell’Art Centre dove le donne producono i loro dipinti. Il primo importante segno di un rinascimento dell’arte aborigena si ebbe nel 1997, quando un dipinto di John Warangkula Tjupurrala, un artista del Central Desert, venne venduto per 206.000 dollari australiani durante un’asta di Sotheby’s a Melbourne. Successivamente le cifre salirono vertiginosamente fino a raggiungere i 2,4 milioni di dollari per un dipinto di Clifford Possum Tjapaltjarri acquistato dalla National Gallery d’Australia.

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Rosie Stafford aborigena membra dell’associazione Ngurratjuta Iltja Ntjarra di Alice Springs dipinge il ‘sogno del serpente’. I dipinti punteggiati raffigurano i miti del Tempo del Sogno. Possono essere letti come mappe riprese dall’alto. Molto spesso tracciano itinerari seguiti da uccelli, da esseri umani, da antenati e dagli anziani.

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I soggetti vengono rappresentati a seconda delle impronte che lasciano sulla sabbia. Un arco può simboleggiare una persona, un boomerang una nuvola o un arcobaleno; un cerchio invece è il fuoco di un bivacco. Alcune linee orizzontali rappresentano la pioggia, mentre la figura maschile è associata a un bastone da scavo e quella femminile a un piatto di legno. I punti possono rappresentare stelle, terreno bruciato, nuvole. Il significato profondo dei simboli è conosciuto esclusivamente dall’artista e dai membri del suo clan.

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Pansy Napangardy e Janie Nelson due aborigene dell’associazione Ngurratjuta Iltja Ntjarra di Alice Springs stanno dipingendo rispettivamente ‘body painting’ (pittura corporale) e ‘women business’ (affari di donne). L’arte aborigena è un’arte magnetica. Nonostante siano opere moderne, nate dall’incontro della cultura aborigena con l’Occidente, trasmettono un atto d’amore per la propria terra, di cui ne rappresentano una sorta di cartografia mitica.

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Pagina precedente: particolari delle formazioni di arenaria di Rainbow Valley nel Northern Territory.

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In questa pagina: osservando in volo il paesaggio dell’Outback australiano, i pensieri vagano tra le leggende del Tempo del Sogno quando le Pleiadi erano un gruppo di sette giovani donne che, per sfuggire agli approcci di un cacciatore, furono tramutate in un emù, il loro antenato totemico. Avendo così sviluppato delle bellissime ali, si rifugiarono in cielo, dove presero le sembianze di sette stelle a cui vennero tagliate le ali, in modo da non poter più tornare sulla terra e non soffrire più. Per questo motivo l’emù ha le ali ma è incapace di volare.

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Lenie Namatjira, aborigena dell’associazione Ngurratjuta Iltja Ntjarra di Alice Springs e nipote di Albert Namatjira, il capostipite dei pittori paesaggisti aborigeni, appartenente alla tribù degli Arrenrte Occidentali. Albert nacque nel 1902 nella missione luterana di Hermannsburg nel territorio dei Monti Mc Donnell.

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I suoi acquerelli, che ritraevano i paesaggi dell’Outback australiano erano molto diversi dalla pittura puntinista conosciuta come dot art, e alla missione si sviluppò un vero e proprio movimento artistico che prese il nome di Scuola di Hermannsburg. Grazie ai suoi meriti artistici, Albert Namatjira fu il primo aborigeno a ricevere, nel 1957, la piena cittadinanza australiana con il diritto di votare, costruire una casa e muoversi liberamente sul territorio nazionale, cosa allora vietata a tutti gli aborigeni.

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La dot art (arte a punti) si sviluppò nel movimento artistico aborigeno partendo dai disegni che essi stessi facevano sulla sabbia, quando volevano raccontare delle storie. Esistono varie teorie sull’origine di questa particolare forma artistica. Una di queste sostiene che, in una prima fase, i pittori si preoccupassero di non svelare parti sacre e segrete delle loro storie.

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Disegnare sulla sabbia non poneva problemi perché al termine il disegno veniva cancellato. Ma trasporre lo stesso su tela e presentarlo a un pubblico di non iniziati lo esponeva a occhi indiscreti. Artisti come Galya Pwerle o Johnny Warangkula utilizzarono una tecnica di sovrapposizione dei punti in modo da confondere il messaggio del disegno originario.

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Pagina precedente: la galleria d’arte aborigena Papunya Tula Artists di Alice Springs, di proprietà degli stessi artisti aborigeni. La dot art deve la sua nascita anche al fatto che il deserto australiano, che si trova al centro di molti dipinti aborigeni, è costellato di punti quali pietre, piante di spinifex, fiori e alberi. Per questo motivo le loro opere d’arte richiamano le geometrie delle fotografie aeree dell’Outback, sebbene molti di essi non siano mai stati in volo.

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Pag. precedente: panoramica aerea sul deserto del South Australia nei dintorni di William Creek. A fianco: Esibizione del gruppo aborigeno APY Lands Project al Tandanya National Aborigenal Cultural Institute di Adelaide. A destra: antichi dipinti su corteccia, di aborigeni di varie tribù e regioni, esposti all’Australian Aborigenal Cultures Gallery di Adelaide.

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Un eucalipto nelle gole di Ormiston nel West MacDonnell National Park. L’eucalipto è una pianta sempreverde originaria dell’Oceania della famiglia delle mirtacee. In Australia ne esistono circa 600 specie, di cui alcune, come l’eucalyptus regnans possono raggiungere altezze di 90 m. Grazie alla loro rapida crescita, gli alberi di eucalipto e in particolare la specie blue gum, vennero ‘esportati’ in altri continenti con conseguenze a volte piuttosto disastrose, visto il grande fabbisogno d’acqua di cui necessitano, che spesso comporta la distruzione della vegetazione locale. Le loro foglie costituiscono il pasto dei koala.


Disegni sul terreno seccato dal sole nei pressi di Rainbow Valley nel Northern Territory. Uno dei termini più diffusi per rappresentare il territorio australiano è Outback. Con questo nome si intendono tutte le zone più remote, desertiche o semi-desertiche del continente. Il suo fascino consiste nei giganteschi spazi vuoti, che si estendono a perdita d’occhio su buona parte del Paese. Sicuramente uno dei luoghi più famosi dell’Outback australiano è il Red Centre, un territorio desertico di terra rossa, che occupa l’Australia centrale attorno alla città di Alice Springs. Qui si trova l’immenso massiccio roccioso di Uluru, un monolite che gli occidentali conoscono con il nome di Ayers Rock.

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Le sculture in legno esposte all’Australian Aborigenal Cultures Gallery di Adelaide incarnano gli spiriti degli antenati degli aborigeni della tribù Tiwi, delle isole Melville e Bathurst nel Northern Territory.

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Panoramica aerea sulle formazioni rocciose attorno a Kings Canyon nel Watarrka National Park nello stato del Northern Territory. Questo canyon si è formato in milioni di anni di erosione di piccole spaccature nella roccia.


Il parco nazionale prende il nome dal termine aborigeno che indica l’acacia ligulata, la pianta più diffusa nella regione, ed è abitato da oltre 20.000 anni dalla popolazione Luritja.


Sarah Enata e Susan Amungar, aborigene della tribù Arrenrte della comunità di Titjikala, davanti alla formazione rocciosa di Chambers Pillar, a sud di Alice Springs. A Chambers Pillar il nome fu dato da John Mc Douall Stuart, un burbero scozzese venuto in Australia in cerca di fortuna. Era il 6 aprile 1860, quando l’uomo dalla salute cagionevole, trasformato in esploratore, raggiunse questa imponente massa di arenaria dalle sfumature bianco-rosse che si ergeva solitaria


sopra la pianura. Decise di chiamarlo il pilastro dei Chambers in onore dei suoi finanziatori, incise il proprio nome nella soffice roccia e continuò nei suoi vagabondaggi. Un paio d’anni più tardi riuscì nell’impresa di attraversare l’intero territorio australiano da sud a nord, unendo Adelaide con la selvaggia e inospitale costa settentrionale.


Mary Briscoe aborigena della tribù Arrenrte sta scavando alcune radici alla ricerca dei witchetty grubs larve dei vermi del legno molto amate in Australia. Sono bianche e molli, spesso così grandi da occupare l’intero palmo di una mano, e vengono mangiate solitamente crude e vive. Questo tipo di cibo rappresenta una prelibatezza particolarmente gradita a quasi tutti gli aborigeni.

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Nita Ferguson della tribù Arrenrte sta realizzando delle sculture in legno di mulga. Visto il grande successo ottenuto nel corso degli anni, oggi molte comunità di aborigeni hanno iniziato a produrre opere d’arte. Uno dei centri più importanti dell’arte aborigena è la comunità di Papunya, nel Central Desert a 230 km da Alice Springs, dove nel 1971 arrivò un giovane insegnante di nome Geoffrey Burdon.

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Nell’Australia Centrale la pittura viene insegnata ai bambini che in questo modo imparano la religione, i canti e le leggende della tradizione. Burdon fu affascinato dai disegni sulla sabbia di questi ultimi e chiese a un gruppo di anziani di dipingere dei murales sulla scuola. Nacque così l’opera Honey Ant Dreaming (il sogno della formica del miele) che segnò il primo passo di uno tra i movimenti artistici più importanti del XX secolo.

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L’ antica formazione rocciosa di Kings Canyon si staglia sopra una piccola foresta di palme ed è un’importante area di conservazione e rifugio per oltre 600 specie di piante e animali endemici australiani. Il sentiero che conduce alla sommità del canyon si addentra tra una serie di panettoni pietrificati, denominati Lost City, prima di incontrare brevi deviazioni verso vari punti panoramici a picco sopra le pareti del canyon alte fino a 270 m. Successivamente si incunea tra le palme nel Giardino dell’Eden fino ad una pozza d’acqua chiusa tra le pareti rocciose.

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Pagina precedente: panoramica aerea sulle Painted Hills nel deserto del South Australia. Qui sotto: giovani aborigeni della tribù Arrenrte alla base della formazione rocciosa di Chambers Pillar. John Mc Douall Stuart, l’esploratore scozzese che diede il nome a questo pilastro di arenaria, fu anche il primo occidentale che attraversò il continente da sud a nord. Quest’impresa però non gli portò la fortuna sperata. Chi cercò di emularlo non ritrovò i torrenti e le sorgenti da lui descritte, prosciugati da una terribile siccità. Venne trattato da impostore e si rifugiò nell’alcol. Ritornò a Londra dove si trasferì dalla sorella e morì pochi anni dopo. Sembra che al suo funerale parteciparono solo 7 persone.


LA LUNGA MARCIA DEGLI ABORIGENI VERSO I PROPRI DIRITTI

bianchi per assimilarli alla cultura occidentale. Questo crimine che divenne noto con il nome di ‘Stolen Generation’ (generazione rubata) si protrasse per oltre un decennio, ma giunse all’attenzione internazionale solo alla fine degli anni ’90. Nel 1967 venne riconosciuta loro la cittadinanza, ma non il diritto di tornare in possesso dei propri territori. Nel 1982, grazie a Eddie Mabo un indigeno delle isole Torres, che fece causa al governo per il riconoscimento del titolo di ‘Proprietari Nativi’, iniziò la lotta per il diritto alla terra. Nel 1992 l’Alta Corte australiana ha dichiarato abolito il concetto di ‘Terra Nullis’ e nel 1993 venne stipulato il ‘Native Act’, che riconosceva agli aborigeni il diritto alle terre dei loro antenati, anche se, negli anni successivi, vennero poste molte limitazioni a tale proposito. Il forte senso di colpa tra le moderne generazioni ha portato a una politica di riconciliazione, ma due secoli di espropriazioni e violenze fanno sì che la strada da percorrere verso l’integrazione sia ancora molto lunga. Nonostante i recenti successi legislativi, oggi molti aborigeni continuano a soffrire di povertà, disoccupazione e razzismo.

Subito dopo lo sbarco dei primi coloni sulle coste australiane e la dichiarazione di ‘Terra Nulllis’ (Terra di Nessuno) fu subito chiaro quale fosse l’intenzione dei nuovi arrivati verso le popolazioni indigene della mitica Terra Australis definita da Cook: ‘una terra che fa da contrappeso alla nostra’. Con il pretesto che gli aborigeni non avessero un sistema di gestione della proprietà privata, i coloni dietro la protezione delle leggi inglesi, operarono gigantesche confische territoriali. Gli aborigeni vennero relegati al ruolo di esseri primitivi rimasti al primo gradino dell’evoluzione umana e subirono ogni sorta di sopruso: dalla cosiddetta ‘Caccia alla volpe’, a veri e propri omicidi di massa. Anche con l’indipendenza avvenuta nel 1901, agli aborigeni venne negata la cittadinanza. Alcuni decenni più tardi vennero riuniti fuori dalle città e concentrati all’interno di missioni e riserve. Nel 1951 il Ministero degli Affari Aborigeni approvò la legge sull’Assimilazione, con lo scopo di integrare i nativi. In questo modo venne dato allo stato il potere di togliere i bambini alle famiglie aborigene per inserirli in istituti di accoglienza o in famiglie adottive di

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La luce del tramonto incendia i massicci di arenaria dell’outback australiano, che paiono ancora più luminosi, quasi fosforescenti, quando si stagliano sulla piatta pianura circostante, già all’ombra.

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INFO UTILI Gallerie d’arte di Alice Springs Molte gallerie d’arte ad Alice Springs offrono dipinti di qualità, tutto dipende da quanto siete disposti a spendere: Ngurratjuta Iltja Ntjarra, 29 Wilkinson st., Alice Springs, tel. 8951 1953, un centro dove a differenza di molte altre gallerie è anche possibile vedere gli artisti al lavoro (apertura lun-ven dalle 10 alle 4) Papunya Tula Artists, 78 Todd Street, di proprietà degli aborigeni della comunità di Papunya Aborigenal Art & Culture Centre, 86 Todd Street

Foto e testi di Bruno Zanzottera

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