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Anonima Scrittori
Il bit dell’avvenire Racconti di Baroni, Pascale, Pavolini, Pennacchi e altri A cura di Massimiliano e Graziano Lanzidei con la collaborazione di Stefano Tevini e Roberto Cerisano
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Il bit dell’avvenire I edizione: dicembre 2009 © Tunué S.r.l. Da una idea di Deltaeffe S.r.l. (deltaeffe.com)
A cura di: Anonima Scrittori (anonimascrittori.it)
Grafica e impaginazione: Tunué Copertina: Iena Animation Studios S.r.l. (ienastudios.com) Tunué Editori dell’immaginario Via Bramante 32 04100 Latina – Italy tunue.com | info@tunue.com Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi. ISBn-13 GS1
978-88-89613-77-1
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Indice 01101001 01101110 01100100 01101001 01100011 01100101
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Prefazione, di Davide Ferrari
11
1.
Avanti veloce (simile all’oro) Marco Berrettini
19
2.
Videotape da Carnate Nicola Villa
23
3.
Bit Generation Giorgio Galetto
29
4.
Il giovane M Lorenzo Pavolini
33
5.
Il bozzolo Stefano Carbini
39
6.
Il telefonino Antonio Pennacchi
43
7.
Il Padrù Stefano Tevini
49
8.
Glaucone Luca Baldini
53
9.
Love, Sex and iPhone Camilla Cannarsa
61
10. Savile Row (i Beatles nell’avvenire) Stefano Cardinali
67
11. Tom Daniela Rindi
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71
12. I sassi, la vera storia dell’uomo che migliorò il mondo Angelo Orlando Meloni
81
13. L’attesa Antonio Pascale
87
14. Parigi, 1896 Gabriele Santoni
91
15. Senza titolo Vedrana Martinovic
95
16. Errore irreversibile di sistema Silvia Mericone
101
17. Dillo alla Luna Fabio Brinchi Giusti
107
18. Sex-aplomb Roberto Marinucci
113
19. Imperfezioni Gerardo Rizzo
121
20. Blackout Anna Profumo
127
21. Perdere un treno Andrea Bonvicini
133
22. L’uomo interattivo Vittorio Rainone
141
23. L’officina Zaph & Torque Lanzidei
149
24. Chissà, forse riuscirò a toccare i cento Edoardo Micati
153
25. Rapsodia in bit A cura di Anonima Scrittori
159
26. Appunti di viaggio in Fiandra Giancarlo Baroni
163
Gli autori Note biografiche
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Prefazione di Davide Ferrari 01000100 01100001 01110110 01101001 01100100 01100101 00100000 01000110 01100101 01110010 01110010 01100001 01110010 01101001 00001010 01010000 01110010 01100101 01100110 01100001 01111010 01101001 01101111 01101110 01100101
Iniziai il mio lavoro per passione e per incoscienza, come credo tutte le cose importanti nella vita. Era il 1999. Mi sentivo un pioniere, più ne parlavo in giro e più la gente mi guardava con occhi sbarrati, come a dire «ma che ti salta in mente». Avevo anche deciso di sfruttare la mia conoscenza dei linguaggi di programmazione per realizzare questo progetto. Mi ritrovai per settimane a pensare come poter rendere più accessibile il sistema di e-commerce. Chiedevo consigli ad amici e parenti, che di computer non sapevano un granché, per capire se il sistema che avevo messo in piedi era comprensibile. Quando pensai che il prodotto fosse finito, qualcuno a cui feci vedere il sistema in anteprima mi chiese se potevo vendergli il programma. Fu un’illuminazione. Fino ad allora pensavo di aver solo perso tempo. In realtà, avevo scoperto che la Deltaeffe non avrebbe venduto un solo computer, ma applicativi. Da allora lavoriamo nel settore delle tecnologie legate a Internet, dallo sviluppo software all’accesso alle rete, grazie soprattutto a importanti partner in Italia e in Europa. Ad aprile 2009 iniziai a pensare al modo migliore per festeggiare i dieci anni di attività della mia azienda. Volevo realizzare qualcosa di importante, di prezioso che fosse in linea con le caratteristiche che da sempre hanno contraddistinto la Deltaeffe. Fare ogni cosa in un modo diverso, esplorare nuovi mercati, nuovi prodotti. Sperimentare. Come faceva mio nonno. Mi sono sempre chiesto perché non fossimo una famiglia di contadini «normali» come tutti gli altri che avevano un podere intero, un trattore con più cavalli del nostro, le mucche. noi no. Avevamo mezzo podere e un piazzale di cemento con un grande capannone. Mio
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nonno aveva portato i commercianti del nord di ortofrutta spingendosi anche oltre l’Italia, controllava ogni cosa, sapeva consigliare i contadini su tutto: la semina, l’irrigazione, i concimi, perché qualsiasi variante l’aveva già sperimentata lui e sapeva meglio dei libri che leggeva, come reagiva la nostra terra ancora acerba di palude. non ha mai capito di cosa mi occupassi. Del resto, qualsiasi parente di un informatico ha un’immagine che varia da piccolo genio a qualcosa di simile hacker . Lui era convinto, per esempio, che sapessi riparare i televisori. Più di una volta mi ha additato a modello un tizio che si era preso 50 mila lire, solo per «pulire i contatti». Ora che non c’è più, spero che veda quello che faccio veramente, e che il modello che seguivo era lui e quelle poche regole di cui s’era, forse inconsciamente, dotato: innovare e sperimentare. Regole che tutt’oggi incarnano lo spirito della Deltaeffe. Viviamo un’epoca di grandi cambiamenti e di possibilità aumentate dalle nuove tecnologie. Contemporaneamente stiamo attraversando una crisi senza precedenti, con lo stillicidio costante di notizie negative. Rischiamo di perderci. Il futuro non occorre che ce lo racconti un guru: il mondo dei media, specialmente quello legato alle nuove tecnologie, è pieno di questi personaggi. Sono sicuro che è più profetico un pensiero condiviso e una coscienza collettiva che il vaticinare di un singolo, sia esso un personaggio famoso, un eremita di Palo Alto o semplicemente un esperto di tecnologie. Il guru non esiste. C’è la Rete dove chiunque può esprimere la sua idea e la sua visione di futuro in un dibattito aperto. Questo è il punto di partenza de Il bit dell’avvenire. L’antologia nasce grazie allo straordinario contributo di Anonima Scrittori, il collettivo di scrittori, presente sul web dal 2004, che ha selezionato spunti, riflessioni, racconti poi pubblicati dalla casa editrice Tunué. Il futuro appartiene a noi, abbiamo il diritto e il dovere di immaginarlo per poterlo costruire insieme.
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Il bit dell’avvenire
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Marco Berrettini
Avanti veloce (simile all’oro) 01001101 01110010 01110110 01101111 01101100
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Sono anni che non nevica a natale. Mio zio scansa la strage di briciole e macchie di spumante e accende la televisione. Laurel e Hardy lo inchiodano con i gomiti sullo schienale della sedia e le gambe incrociate. I baffi ritmicamente si inarcano e una lacrima slitta sul naso lucido tuffandosi nel bicchiere di grappa. «Alla tua mamma piacevano da matti, rideva così tanto che le veniva da piangere». non rispondo, vado in cucina e osservo via Timavo deserta, qualche albero addobbato traspare dai vetri carichi di condensa, una Fiat 127 bordeaux buca il silenzio e scompare verso Cinisello Balsamo, accatasto i piatti nel lavello e rubo un grumo freddo di olio, aglio e grasso di pollo al forno. Le zie stanno riposando, Alfredo e Giovanna hanno portato le ragazze al cinema a vedere Red e Toby nemici amici, io osservo la sveglia arancione sulla credenza. I grandi numeri bianchi stanno per comporre le sei e un quarto, ho bisogno di un campari ghiacciato e una canna. «Io vado a casa, dì alla zia che la chiamo dopo, ci vediamo domani». «Va bene, mi cambi canale per favore? non ho voglia di alzarmi, toglimi il primo che non lo sopporto, prova Capodistria». «C’è ancora solo il monoscopio, ti metto il secondo, ciao». «Micione dove vai?»
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«Sei sveglia? Ciao ziona, vado a casa, sono un po’ stufo, ho bisogno di vedere qualche amico». «Fai il bravo, mi raccomando. Domani andiamo al cimitero?» «Se vuoi sì, ma di mattina perché nel pomeriggio ho da fare». Mia madre è morta da cinque mesi e mia zia starebbe tutto il tempo sulla tomba, le parla, le racconta ciò che accade nella giornata, spolvera la lapide, poi va dai nonni e fa la spola con fiori e straccio incerato e tiene i contatti tra i defunti della famiglia; a me monta la rabbia. non ce l’ho con mia zia, figurarsi, ma mi sembra tutto inutile e poi continua a venirmi da piangere, mi sento colpevole e colpito allo stesso tempo. Bestemmio contro un dio inesistente. Ho smesso di credere da un pezzo e a luglio, durante la cerimonia funebre, mi scappava da ridere ripensandomi bambino tra quei banchi zittire chi, durante la messa, divagava in chiacchiere. La Ritmo è gelida, mi spalmo sui sedili in sky arancione e parto con Lene Lovich che strugge i miei recettori con What will I do without you, apro la scatoletta ovale in argento che mi donò mamma due anni fa e scaldo una microscopica caccola di nero impastandola col tabacco di una Kim. Rollo guidando e chiudo a fiore, abbasso il finestrino e accendo il mono. Viale Zara si sta ripopolando, chissà, magari oggi muoio anch’io. Lascio l’auto nella via, non ho voglia di aprire il box, l’odore di via Milano mi mette allegria, salgo le scale tre gradini alla volta e al terzo piano ho il fiatone, accendo subito una sigaretta ravvivando per un attimo il THC disperso. Mi cadono le chiavi, rido come un cretino. All’interno il telefono suona, finalmente riesco a entrare, sollevo la cornetta, ma hanno già riattaccato, bah… «La segreteria telefonica non è un lusso per pochi», mi sa che devo dare retta alla SIP. Vado in bagno, mi accomodo e ovviamente squilla il telefono, ancheggio con i pantaloni abbassati e mi avvento sull’apparecchio. «Pronto…» «Cazzo è tutto il giorno che ti chiamo, che fine hai fatto?» «È natale, Marchino, ero dai miei zii, che succede?» «Siamo ricchi ragazzo, ho una dritta per domani!» «Un’altra? Dai Mark, ma ci credi ancora?»
MARCo BERRETTINI
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Nicola Villa
Videotape da Carnate 01001110 01101001 01100011 01101111 01101100 01100001 00100000 01010110 01101001 01101100 01101100 01100001 00001010 01010110 01101001 01100100 01100101 01101111 01110100 01100001 01110000 01100101 00100000 01100100 01100001 00100000 01000011 01100001 01110010 01101110 01100001 01110100 01100101
nell’estate del 2002 ero confinato a Roma, solo alle prese con un duro esame di macroeconomia. Una sera, dopo una giornata di ripasso serrato, decisi che ne avevo abbastanza e constatando la povertà del frigo uscii per fare la spesa almeno per la cena. Mi arenai nel reparto alcolici del drugstore di viale Portuense, quello con il mosaico del satiro danzante di epoca romana dentro al supermercato, indeciso su quale bottiglia comprare. Alla fine scelsi, tra gli scaffali pieni, due bottiglie di rhum da 4 euro l’una. Pampero: roba fina. Da mettere sotto i denti avevo comprato un casco di banane, unico alimento che mi andasse quella sera. Credevo che i sapori dolciastri del liquido e del frutto mi potessero regalare qualche sensazione da isola delle Antille. Rientrando nel portone di casa, con la busta della spesa in mano, notai che il postino aveva testardamente incastrato un pacchetto marrone, evidentemente troppo spesso, nella fessura della mia cassetta delle lettere. Sotto la carta marrone c’era una VHS e una breve lettera di Marco, il mio amico lombardo di Carnate, che lessi d’un fiato, salendo in ascensore. Carissimo Valerio, è un sacco che non ci sentiamo. Come stai? Dopo la tua visita qui, ho avuto diversi problemi con la mia casella e-mail e ho perso la rubrica con tutti i contatti. Proprio ieri ho ritrovato il tuo indirizzo di casa dietro la copertina di un libro e ho pensato di scriverti subito e mandarti questo video. È il documentario che finalmente sono riuscito a montare sulle giornate di Genova. Cazzo: sembra un secolo fa ed è solo l’estate scorsa. Ci siamo divertiti eh? Rispondimi all’indirizzo qui sotto e dimmi se t’è piaciuto il video. Dai, magari questa volta vengo io a trovarti a Roma.
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Ti abbraccio, a presto. Marco.Via Resegone, 12 20040 Carnate, Milano. Marco l’avevo conosciuto per caso il giugno scorso, in un campeggio di Assisi. Suonava la chitarra dentro una tenda piena di ragazze e io non so se lo avvicinai più per la prima che per le seconde. Diventammo amici anche per la passione comune per la musica e andammo, a fine luglio, a Genova per partecipare alle contestazioni al G8. Ci divertimmo un mondo, ci facemmo un sacco di amici e poi, quando fu tutto finito, lo seguii a Milano e poi al suo paese sopra Monza e sotto il lago di Como, Carnate. Quel posto faceva schifo, era, realisticamente, il paese più triste dove abitare sulla terra. C’erano capannoni industriali abbandonati ovunque, strade rovinate, puzza di merda, abitanti poco accoglienti e fascisti, villette omologate dipinte di rosa salmone. Ma Carnate ci serviva come punto di appoggio per andare a Milano la sera o al lago di Como di giorno. Poi per lungo tempo io e Marco non ci eravamo sentiti. Ricordavo, tenendo in mano la cassetta, l’ultima nottata passata insieme prima della mia partenza. Eravamo finiti in cima al tetto di casa sua. Io suonavo la chitarra e lui diceva cazzate esistenziali sopra la foschia da videogioco di Carnate. Con quel ricordo uscii sul terrazzino di casa mia con la prima bottiglia di rhum e tre banane. Fumai un numero imprecisato di sigarette e bevvi il rhum prima a sorsate brevi, poi sempre più lunghe. Il rhum è uno strano distillato. Al primo contatto non solo ti brucia la gola, ma anche tutta la trachea fino a che non ti senti lo stomaco ardere pericolosamente. Può capitare che il naso inizi a pizzicare e non c’è modo di far smettere quel bruciore se non bevendo altro rhum. È l’unico antidoto fino a che i tuoi organi non sono completamente anestetizzati e puoi bere quanto ti pare. Mangiavo le banane pensando di creare un composto base alimentare per tutto l’alcol che stavo ingerendo. Quella base, impastata di banane e rhum, mi serviva ad attutire il ricordo di tutti gli avvenimenti dell’estate scorsa fatti salire in superficie dalla lettera di Marco. Sorridevo, guardavo fuori oltre i palazzi antistanti, mi fumavo una sigaretta masticando la polpa delle banane e mandavo tutto giù con il rhum. Finita la bottiglia, entrai dentro casa per prendere l’altra e vedere questo documentario su Genova fatto e montato da Marco. Collegai la presa scart alla TV del soggiorno, misi dentro la VSH e mi buttai sul divano con la bottiglia e un’altra banana. Mi stavo ingozzando di banane. Solo allora mi ricordai che il videoregistratore era rotto da
NICoLA VILLA
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Giorgio Galetto
Bit Generation 01000111 01101001 01101111 01110010 01100001 01101100 01100101 01110100 01110100 00100000 01000111 01100101 01101001
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«E dove lo devo mettere?» «nel suo caso deve appoggiarlo in una narice e tirare indietro la testa con un movimento deciso nel momento esatto in cui inspira. Deve inspirare forte, però». «Perché ho visto altri ingoiarlo o metterlo sotto la lingua?» «Di sicuro cercavano un altro tipo di effetto. Lei hai fatto una richiesta particolare, abbastanza specifica. Di che si occupa nel vita_ job?» «Sono impiegato al Mailing Center da tre anni». «Contratto pieno di 15 ore settimanali o Formula?» «Ho avuto il Formula fino allo scorso anno, da gennaio finalmente ho tempo pieno e una buona entrata. Anche per questo ho pensato adesso di investire». «Curioso: un impiegato delle poste con velleità artistiche». «Mio bisnonno era drammaturgo. Ha scritto per parecchi anni per il tech_teatro qui in città: ho preso da lui, credo». «E invece nel vita_free come riempie?» «È cambiata la denominazione, non lo sa? Ora si dice open_time». «Sempre più politicamente corretto. In omaggio ai nuovi accordi internazionali». «Sì, la neostandard_lingua tiene conto dei retaggi delle vecchie religioni. C’è ancora una diffusione notevole dei culti postbellici». «Soprattutto dei Cristoslamici del vecchio continente. Immagino che vita_free fosse un’espressione ancora troppo forte per i loro gruppi più conservatori». «Già, così la Commissione Interministeriale di Psicotecnolinguistica ha inserito nel tech_dizionario di marzo questa nuova espressione».
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«Mah, dove arriveremo». «non lo so. A me fa un po’ ridere. E un po’ mi terrorizza». «Parla come un prebellico dell’Ovest, adesso». «Sì, lo so. Deve essere genetico, il mio Clan è originario di lì, sa? I miei avi si spostarono con la Grande Migrazione a cavallo delle due Guerre Tossiche, quando fu evidente che il vecchio continente sarebbe rimasto sott’acqua in capo a pochi anni». «Deve essere per questo che ha così tanta fantasia. Pare che la gente di quella zona fosse molto creativa. Bene. Sa che come medico e ispettore della psico_police devo ricordarle i parametri del Decreto P. Solo per la sua salute, ovvio». «Certo, si figuri». «Insomma, come riempie nell’open_time?» «Ultimamente me la passo davvero bene. Ho molti amici, faccio tanto sport e pseudosocializzo parecchio». «nuove conoscenze sulla cerchia esterna?» «Sì, devo dire. Mi arricchiscono molto, e, se posso parlare apertamente…» «Certo». «… il mio scroto se ne è giovato tanto». «Questo è sempre positivo!» «Sì. negli ultimi due anni ero stato troppo gonfio, non riuscivo a trovare il canale di espulsione più adeguato». «Ha fatto bene a incrementare la cerchia esterna: in genera porta meno complicazioni extrasessuali. Se ne guadagna in equilibrio psichico». «Esatto. Lei non lo usa mai il Sistema?» «no, ho regolarizzato la mia posizione su tutti i cerchi relazionali da dieci anni. Ho una famiglia e lavoro qui al Centro. Se mi beccano a cercare qualcosa di audace, per dirla come voi Occidentali, rischio qualche richiamo». «Perciò lei non può cercarsi relazioni sulla cerchia esterna?» «no, ho cliccato Posizione Consolidata. È l’opzione che filtra solo i contatti con chi è già presente su tutti i cerchi. Me ne sto tranquillo così. Ma parlavamo dell’esultanza del suo scroto». «Ah sì, insomma, selezionando Impatto 2 mi sono arrivate migliaia di richieste. Ho pseudosocializzato tantissimo e, incredibile ma vero, tra tante possibilità ho trovato anche diverse occasioni con canali di espulsione interessanti. nonostante la mia timidezza innata…» «Ah, puro slang occidentale!»
GIoRGIo GALETTo
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Lorenzo Pavolini
Il giovane M 01001100 01101111 01110010 01100101 01101110 01111010 01101111 00100000 01010000 01100001 01110110 01101111 01101100 01101001 01101110 01101001 00001010 01001001 01101100 00100000 01100111 01101001 01101111 01110110 01100001 01101110 01100101 00100000 01001101
«Voglio fare zero, voglio fare zero». Lo ripeteva due volte, quando veniva il suo turno. Prendeva l’orologio digitale dal compagno, si specchiava nel quadrante, sollevava il dito indice e, dopo averlo sgranchito con due rapide flessioni, lo posava sul pulsantino. Poi chiudeva gli occhi. 7 decimi di secondo, netti. «Scusa… guardate». nessuno gli andava di controllare. Tanto ogni volta riusciva a fare meglio, ogni giorno un numero più basso; tra l’avvio e lo stop del cronometro, l’intervallo di tempo scemava. Il giovane M aveva braccia e testa coperte di finissima setola, una peluria biondo cenere che in quei momenti, quando stabiliva l’ennesimo record, controluce, pareva sceso da un poster, perché gli restava intorno una linea argentata che lo staccava dallo sfondo. Gli orologi al quarzo, qualsiasi marca, qualsiasi modello Xo2, Omega rotor, H-y 3000, supersantos… se li faceva prestare dai tipi per strada e domandava: «Te quanto fai?» Poi chiudeva gli occhi, ripeteva che voleva fare zero e, anche se non lo faceva mai, zero, era comunque il più veloce di tutti. Pure quello di Mario, il cronografo Swarzipp, ucraino, coi millesimi indipendenti, che un ragazzo di passaggio, mi pare venisse da Fermo nelle Marche, era riuscito per primo a far scendere sotto gli otto decimi, con un 7 e una serie infinita di 9999999999… il giovane M l’aveva massacrato. Ed era pronto a scendere ancora e sempre. Eh, se era pronto! Ripeteva: «Voglio fare zero, voglio fare zero».
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non è detto che i segni di un talento univoco debbano, durante l’infanzia, essere accompagnati da esplicite enunciazioni di volontà, anzi è vero forse il contrario. Uno dei tratti principali delle più autentiche e precoci vocazioni, il più delle volte, sta proprio nella loro muta ineluttabilità. nessuno dice che vuole suonare una musica sublime, semplicemente fa di tutto per arrivare a suonarla, e poi la suona.
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Il giovane M aveva un congegno, una fotocellula, che quando entrava nella stanza faceva partire lo stereo e si sentiva We are the Champion a volume dirompente, due volte, tutta. E questo non mancava di destare viva preoccupazione nei genitori. Anche perché il giovane M, loro figlio, quando veniva interrogato a proposito delle sue inclinazioni e/o aspirazioni continuava a ripetere: «Voglio entrare in quel mondo»; che poi nessuno capiva di cosa stesse parlando. Poi tornava nella sua stanza e si sentiva We are the Champion, due volte, tutta. A ogni mondo deve corrispondere uno spazio nella nostra testa, se questo mondo è piatto, bidimensionale, fatto di numeri che progrediscono, ci vuole una fetta sottile di cervello per rappresentarlo e concedergli di esistere. Se io comunico degli impulsi attraverso un dito, e se con questo dito non devo fare altro che su e giù, premere e rilasciare, senza alcuna variabile, tranne quella del “più in fretta possibile”, questo esercizio non svilupperà in me alcuna sfera cerebrale dedicata, nessuna circoscrizione di neuroni. Ma se la complessità di questo mondo si moltiplica, al punto da imitare quella del reale (sempre nel segno del “più velocemente possibile”), allora l’esercizio si fa interessante, nel migliore spirito della sopravvivenza, o istinto, che dir si voglia. nel cervello dei violinisti si sviluppa un globo che soprintende le comunicazioni della mano sinistra, e gli altri non ce l’hanno. Il giovane M ce l’aveva tutta invasa da questo mondo che diceva lui, la testa, credo non ci fosse posto per quello che aveva intorno davvero, tipo “noi”. Per questo ci sembrava un rincoglionito. Perché non aveva posto per noi nella sua testa. Quei suoni che ogni tanto emetteva, i suoi proclama, quelli che giudicavamo riscoppi della sua persona nascosta, erano la maturazione involontaria di ciò che gli aveva già preso tutto il cervello, e vibrava lì dentro, come una nuvola di segnali senza risposte.
LoRENzo PAVoLINI
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Stefano Carbini
Il bozzolo 01010011 01110100 01100101 01100110 01100001 01101110 01101111 00100000 01000011 01100001 01110010 01100010 01101001 01101110 01101001 00001010 01001001 01101100 00100000 01100010 01101111 01111010 01111010 01101111 01101100 01101111
La voce vagamente femminile scandì le parole lentamente: «Attenzione, l’azione avrà inizio in… cinque… quattro… tre… due… uno… ora». La scena, fino ad allora immersa nell’oscurità, andò progressivamente illuminandosi, acquistando i colori caldi che doveva avere la campagna in autunno. Con un solo colpo d’occhio Charun riuscì a cogliere le caratteristiche del paesaggio che gli si apriva di fronte: terreno pianeggiante, campi incolti, distese di erba alta, case diroccate ai margini di un paese abbandonato. «Posto da cecchini», pensò mentre correva zigzagando, piegato in due, il fucile stretto nelle mani. Alcune figure lo superarono sulla sinistra correndo e sparirono subito tra l’erba alta, ma le scritte rosse che gli fluttuavano sopra la testa li identificavano come altri. ne seguì la scia mentre si allargavano sul terreno. I nomi che riuscì a leggere erano Snip3rKing e Gr4ndePuFF038 il primo doveva essere un cecchino, come lui, il secondo un ragazzino, il che era peggio. Charun strisciò ancora qualche metro lungo il muro, poi, arrivato a una breccia abbastanza larga, tirò su il fucile e lo fece passare al di sopra dei mattoni. Anche gli altri si stavano disponendo sul terreno e se era fortunato poteva centrarne qualcuno prima che si rendessero conto da dove arrivavano i colpi. Il vento portava in giro le foglie cadute dagli alberi e questo confondeva la vista, gli dava continuamente l’impressione di scorgere un movimento. Poi li vide. non correvano, si muovevano circospetti guardando verso il terreno, Erano due macchie verdi poco più scure dello sfondo. Charun si portò il fucile alla spalla, e ne seguì gli spostamenti
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attraverso il mirino telescopico. Avrebbe sparato a quello più indietro, così che il primo non si accorgesse del compagno a terra. Trattenne il respiro aspettando che la croce di collimazione si allineasse alla figura. Come l’arma fece fuoco spostò la mira appena un po’ a destra per colpire l’altro ma quello doveva aver intravisto il lampo perché si era buttato di lato nascosto nell’erba. Charun d’istinto fece fuoco lo stesso, due colpi in rapida successione a vuoto. Ora sapevano dov’era. Si sarebbe spostato dalla parte opposta cercando di ricongiungersi con i compagni. Ritirò il fucile e si alzò in piedi stando attento a rimanere al riparo, ma non fece in tempo a fare un passo. Un unico sparo e lui era morto. Divenne tutto buio, poi la voce fuori campo annunciò: «Rientro in dieci secondi». «Cavolo, ora devo proprio stare in campana». Charun ricomparve in mezzo ai suoi compagni impegnati in uno scambio infernale di colpi. Posto e momento sbagliati. Si mise subito a correre cercando di trovare un riparo. Dietro un angolo, a pochi metri, vide un mitra. Portò istintivamente il fucile alla spalla per prendere la mira e l’altro l’aveva già crivellato. Di nuovo il buio e voce fuori campo: «Raggiunto numero massimo di cinquanta eliminazioni nelle ventiquattro ore, prossimo rientro non prima di ore 12». La scena si era oscurata per l’ultima volta. Charun si tolse occhiali, auricolari, guanti e tornò a essere Matteo, trentadue anni, celibe. Ancora scosso per il prolungato effetto dell’adrenalina, provò pochi passi e si lasciò andare su una confortevole poltrona del salotto. Sentiva nausea, stanco morto ma nervi tesi, i sensi ancora all’erta, tanto che era sicuro di aver visto un attimo prima due mangiapolvere sfrecciare sul pavimento. In condizioni normali era impossibile scorgere in giro per casa quegli aggeggi. Grandi meno di un topo, si muovevano furtivi e fulminei raccogliendo ogni briciola, ogni granello di polvere; si riusciva a vederli solo quando stavano attaccati alle prese di corrente. Tirò giù due cialde di Ansioblast, appoggiò la testa all’indietro e chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi. L’avevano massacrato. Da quando era entrato in servizio l’avevano ucciso più di quattrocento volte. E ogni partita andava peggio. Era troppo vecchio. C’erano ragazzini che si muovevano sul terreno come fulmini. Il tempo di vederli ed eri bello che morto. La guerra era oramai roba per loro.
STEFANo CARBINI
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Antonio Pennacchi
Il telefonino 01000001 01101110 01110100 01101111 01101110 01101001 01101111 00100000 01010000 01100101 01101110 01101110 01100001 01100011 01100011 01101000 01101001 00001010 01001001 01101100 00100000 01110100 01100101 01101100 01100101 01100110 01101111 01101110 01101001 01101110 01101111
Il telefonino? Io non so nemmeno cosa sia. Già non posso sopportare il telefono vero, quello con il filo, figuriamoci quello finto, senza fili, che ti suona pure in tasca. Una rottura di coglioni. Da ragazzino queste cose non c’erano. Volevi parlare con qualcuno? Prendevi la bicicletta e andavi a casa sua. Strillavi sotto la finestra – pure il citofono lo hanno inventato dopo – e quello s’affacciava. Se gli andava di chiacchierare scendeva, se no ti faceva rispondere dalla madre che non c’era. Tu giravi la bicicletta e andavi da un’altra parte. Vaffanculo. Sì, sapevamo che esisteva questo cavolo di telefono, non foss’altro perché lo avevamo visto al cinema. Al cinema dei preti. Facevano sempre quei film americani. E tagliavano tutte le scene dei baci. Ma i telefoni li lasciavano. Sapevamo che esisteva, ma era roba americana. Che ce ne fregava a noi? Mica stavamo in America. Qualche volta, per giocare, qualcuno aveva fatto il telefono coi bicchieretti del gelato, quelli di cartone legati con lo spago. Il maestro gli aveva detto che le onde sonore si propagano più facilmente attraverso i solidi – lo spago appunto – che attraverso l’aria, così come gli indiani, sempre al cinema dei preti, poggiavano l’orecchio a terra per sentire da lontano la cavalleria dei visi pallidi in arrivo. «Fate l’esperimento», gli aveva detto il maestro. Ed è lì che ho cominciato a nutrire seri dubbi sulla scuola e ancora adesso, tutte le volte che sento parlare un professorone in televisione, mi viene sempre in mente – non so perché – il telefono coi bicchieretti del gelato e con lo spago. Era un gioco deficiente. Che non serviva a niente. Per farti sentire dovevi strillare. E a quel punto sentivi pure se ti staccavi il bicchieretto dall’orecchio. L’affare di Mariacazzetta, per l’appunto.
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Il telefono – quello vero – a casa mia è arrivato nel 1964. Avevo quattordici anni. Mio padre sessanta. Fino allora aveva fatto senza: «Ma a che ci serve?» ha chiesto a mia madre. «Zitto tu!» gli ha risposto: «Ci serve, ci serve: mi sono stufata di stare in grazia alla gente, sempre a telefonare dalla signora Bice», perché era capitato due volte – due parenti che stavano per morire – che ci avessero telefonato dalla signora Bice, il cui marito faceva l’impiegato e allora aveva messo il telefono per far vedere al capufficio. Era pure l’unica che avesse il televisore e il sabato sera andavamo tutti là, tutto il quartiere, a guardare Il musichiere. Ci voleva far pagare 10 lire a testa. C’erano ancora le 10 lire di carta. Ma il marito non ha voluto: «Ridagli i soldi». Due volte sole abbiamo usato quel telefono. Due volte in tutto. E poi quei parenti nemmeno sono morti. Campano ancora. Ma mia madre ha messo il telefono anche lei. non ci ha telefonato mai nessuno. Per vent’anni. Le poche volte che ha suonato era un fuggi fuggi, dentro casa. nessuno voleva andare a rispondere. Tutti si nascondevano in camera da letto. E quello suonava per delle ore. Alla fine mio fratello Gianni – il fratello istruito – mi costringeva ad andare. Tergiversavo: «Che gli dico?» facevo. «Che sei uno stronzo», mi rispondeva Gianni. E poi alla fine era sempre qualcuno che aveva sbagliato numero. Ogni volta che squillava quel telefono era una coltellata al cuore. Per tutta la famiglia. Ogni squillo una pugnalata. noi, per parte nostra, non telefonavamo mai a nessuno. A chi dovevamo telefonare? Innanzitutto stavamo tutti bene. non c’era nessuno che stesse per morire. In secondo luogo – come detto – avevamo le biciclette. In terzo luogo mia madre non voleva. Eri buono tu a avvicinarti a quel telefono: «Disgraziato», cominciava a strillare, «a fine mese chi la paga la bolletta?» non ha mai telefonato nessuno in quella casa. Che io sappia. O, almeno, io non ho mai visto nessuno. Ogni due mesi però arrivavano bollette mostruose. O almeno mostruose secondo mia madre. E ogni due mesi, regolarmente, mia madre andava a fare mostruose baccagliate alla SIP. Gli avrà fatto cambiare una settantina di contatori. Alla fine la conosceva di nome pure il direttore. E quando, ogni tanto, cambiavano pure i direttori, era la prima cosa che quello uscente diceva a quello nuovo: «Ogni due mesi arriva la signora Pennacchi». Poi s’è saputo che era mio padre. Appena lei usciva s’attaccava al telefono. Faceva le telefonate per la Corale S. Marco. Lui era una specie di general manager. Quando è andato in pensione lo ha fatto
ANToNIo PENNACChI
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Stefano Tevini
Il Padrù 01010011 01110100 01100101 01100110 01100001 01101110 01101111 00100000 01010100 01100101 01110110 01101001 01101110 01101001 00001010 01001001 01101100 00100000 01010000 01100001 01100100 01110010 11111001
nella più totale assenza di altri rumori percettibili, il crepitio della brace della sigaretta è tanto nitido da sembrare un fascio di sterpi che brucia nei paraggi. Aspiro il fumo e lo tengo giù un paio di secondi per poi sbuffarlo piano dalle narici in un cono che, poco alla volta, cambia in una nuvola indistinta. Dalle tapparelle, una lama di luce proveniente dai lampioni da poco accesi in strada attraversa la penombra dell’archivio illuminando debolmente le volute di fumo che, pigramente, si dissipano. «Ma che cazzo ti fumi, le MS? Roba da vecchiacci come te!» «Certo, sei giovane te che ti sopporto dalle medie!» rispondevo menando una pacca sulla spalla a Lucio, l’amico di sempre che ha pensato bene di schiattare d’infarto quando più avrei avuto bisogno di lui. Ce la siamo goduta, noi, figli della Brescia bene. Studiavamo all’Arnaldo, il liceo di quelli che sarebbero diventati qualcuno, la mattina a scuola e il pomeriggio al lago di Garda con lo spiderino. Superfluo dirlo, mai senza ragazze. Eh sì, non ne lasciavamo stare una. D’altronde ci voleva poco, eravamo belli, giovani e di soldi ce ne giravano eccome. non ci siamo persi di vista nemmeno dopo, quando lui ha iniziato a studiare legge e io a lavorare nella fonderia di mio padre, la Fondital. Lui è diventato un avvocato di un lusso e io il padrone, anzi, il padrù, come dicono dalle mie parti. Padrone di cosa, poi? La fabbrica l’ho chiusa. Ho dato un paio d’ore fa la liquidazione all’ultimo dei ragazzi, l’apprendista, Alberto. È rimasto lì un attimo senza sapere esattamente cosa dirmi. In realtà non gliene frega un cazzo, ma si faceva scrupolo a farmelo notare. L’ho salutato sbrigativamente e gli ho indicato la porta.
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Subito dopo, senza nemmeno pensarci, ho allungato la mano verso il piattino delle caramelle, come faccio sempre quando sono nervoso. Vuoto. Se l’è presa quello stronzo, l’ultima. Spengo la sigaretta strisciandola sotto la suola e la metto in tasca. non ho mai sopportato che si buttassero i mozziconi per terra, non m’incazzavo così neanche quando mi sbagliavano una stampata intera e per correre dietro alle consegne bisognava tirarsi il collo. Andava bene tutto, ma i maiali non li reggo. non risparmiavo nemmeno Marino, il responsabile del controllo qualità. Se lo pescavo lo cazziavo come l’ultimo dei ragazzini appena arrivati dalla scuola professionale. Bel rischio che mi prendevo, se gli fossero girati i coglioni e mi avesse piantato da un momento all’altro sarebbero stati casini. Se la fabbrica non ha chiuso anni fa è stato soprattutto grazie a lui, Marino. Era un lavoratore vecchio stile, di quelli che l’orologio non lo guardano mai, dentro alle sette e fuori quando ha finito quel che ha da fare, uno che ci tiene a far le cose bene. non ne lascia passare una, e che bestemmie quando una quota non tornava! Quando un cliente chiamava per una rogna non serviva che io ne venissi informato, semplicemente sentivo un rosario di madonne sgranato in crescendo e la sua figura minuta sfrecciare con un passo da locomotiva fra i torni a controllo numerico tutto sbilanciato in avanti, roba che uno si chiedeva come facesse a non cadere di faccia. E giù altre madonne, e vai di macomecazzoèchenonriusciteafareunafresatadiritta, e avanti di mabisognacheabbiategliocchinelculopernonvederechequestiforisonofuoriasse, un fascio di nervi con il pezzo incriminato in una mano e la sigaretta nell’altra. Sapeva che avremmo chiuso i battenti entro pochi mesi e un tecnico capace come lui non si sarebbe dovuto nemmeno scomodare a cercarlo, il lavoro, lo chiamavano per portarmelo via ancora quando le cose andavano bene. non ha battuto ciglio quando gli ho chiesto di restare a farmi il controllo qualità fino alla chiusura. Quando l’ultimo pezzo è uscito dalle mie macchine lui era lì a controllarlo. «Direi che può andar bene. Al primo colpo, una volta tanto», ha balbettato con la voce rotta prima di voltarsi di scatto e tirare dritto fino alla macchinetta del caffè. Se l’è meritata, la buonuscita principesca che gli ho passato. L’ho pure raccomandato io per il nuovo posto, le qualifiche non gli mancano e il suo nuovo titolare è amico mio.
STEFANo TEVINI
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Luca Baldini
Glaucone 01001100 01110101 01100011 01100001 00100000 01000010 01100001 01101100 01100100 01101001 01101110 01101001 00001010 01000111 01101100 01100001 01110101 01100011 01101111 01101110 01100101
Il primo lo comprai usato il secolo scorso, consumava come un buco nero e aveva una batteria che durava sì e no un’ora. Aveva lo sportellino come quello del capitano Kirk. Mi aveva preso la smania. «Mi serve un telefono», continuavo a dirmi frenetico. Solo dopo mi accorsi che mi serviva per chiamare sì e no tre o quattro persone che tra l’altro vedevo tutti i giorni. Però il gesto di aprirlo, a scatto o lentamente tirando l’antennina fuori, era la giusta scena che mi ci voleva. Così ho iniziato. Mi sono dotato di tutto, la prima videoscrittura, il fax, la fotocopiatrice con lo zoom, il primo 086 e poi via a salire fino al PC più moderno, con due TB di RAM e tre HD così potenti che per scriverli tutti mi ci vorrebbero più di un paio di vite. Anche una calcolatrice scientifica che fa le radici e i fattoriali da dodici cifre, e io ci credo. Il metro laser che calcola distanze, aree e volumi, e io ci credo. Pure la fotocamera da 100 MP senza mirino. Internet sempre connesso, il videofonino, l’MP3 con trecento ore di musica e naturalmente il navigatore da passeggio. Per non perdermi. Mi sono aggiornato, un po’ alla volta ho imparato l’uso degli attrezzi e pure di qualche comando DOS. Oggi dipendo dal Programma: per scrivere, per disegnare, per computare, per elencare, per vedere, per sentire, per cercare, per andare, per avere, per dare. Pure per comprare e per pagare, con la targhetta della banca, che della mia capacità economica sa tutto. E, faccio per dire, tutto questo in neanche la metà della mia vita.
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Pensare che al paese passavo i pomeriggi al telefono per dire le parolacce alla signorina dell’ora esatta. È stato tutto una accelerazione costante, un doppler di avvicinamento da spacca timpani. Quegli anni, in cui c’erano le cose per fare le cose, appaiono così lontani che c’è rischio di dimenticare. O non sapere più. Come la scrittura, a mano. Oggi quando provo a rileggere quello che ho scarabocchiato ci riesco a fatica. Oppure il disegnare, a mano: mi sento tutto duro e impacciato, peloso, come quando non lo sapevo fare. «Ho perso la mano». Mi giustifico così. Quando Carmide si è laureato in Hackeraggio alla newTorrentUniversity, summa cum laude, con una transazione di e-commerce che mi è ancora poco chiara, si è pagato un viaggio nel Melaneso e mi ha regalato un PDA serie gold. «Tie’ Pa’, butta tutto e pija questo, qui t’attacchi pure aggratis». «A che?» «Pa’, te connetti alla rete, aggratis, ce so’ posti che se pija e allora t’attacchi senza pagà ‘na lira, usi la connessione loro». «Ma di chi?» Lui è un tipo veloce, un empirico che si esaspera subito e così, ammucchiando prassi e teoria, mi ci ha portato, lì sotto all’Empam, vicino al cestino dei rifiuti. «Ecco, guarda qua. Mica ciài ‘rfilo! Sta in WAn aggratis». eMule mi downloadava la discografia completa di Ana Belen a più di 50 MBITS. «Tie’ Pa’, questo te dice ‘ndo stanno i punti liberi. Se vedemo, te messaggio io o te cerco co Skype, nun me chiamà che sennò spenni i sordi. Ciao Pa’». Mi diede una scompigliata affettuosa ai capelli e con un bel sorriso mi passò la rivista arrotolata a tubo mentre saliva sulla metro leggera per l’aeroporto. Freezones, attacchi liberi, ti porti il PC, magari pure una sediolina e t’attacchi. Sotto l’Empam, l’aiuola di fronte i Carabinieri, la terza cabina dello stabilimento di Rocco, il ponticello rifatto della Migliara 42 e mezzo, il bagno dell’infopoint della Stazione, la piazzetta di Borgo nevesa, il secondo cancello della nucleare, la torre dell’acquedotto sull’Appia, il campanile di Sabaudia e chissà quanti altri ancora.
LuCA BALDINI
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Camilla Cannarsa
Love, Sex and iPhone 01000011 01100001 01101111 01100001
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Ore 8:00 Le otto, e la mia sveglia non smette di ripeterlo. Mi alzo, accendo il PC e il gas, metto su la macchinetta del caffè, mi siedo e attendo che il mio acer riparta. Anche lui avrebbe bisogno di una buona dose di caffeina, così ne bevo due tazze. Una per me, una per lui. Tra le email ci sono tre comunicati stampa, due dei quali utilizzerò per scrivere i pezzi di oggi. L’email dedicata alle amicizie è infestata da segnalazioni di Facebook,. Tutti mi vogliono, tutti mi cercano, ma esattamente chi, ancora non l’ho capito. Le mie amiche storiche mi invitano a dare un’occhiata alle 253 foto che hanno postato stanotte, ma adesso non ho voglia di tuffarmi nei ricordi e mi metto a spulciare tra gli inviti di persone sparse qua e là per il mondo. C’è questo tizio che mi vuole aggiungere tra i suoi amici perché circa 15 anni fa siamo stati in vacanza insieme. Mi dispiace ciccio, non so proprio chi cazzo sei e ti cancello all’istante. nel frattempo, quel maiale del mio fidanzato è di là che se la dorme, e se la dormirà fino alle 15:00, quando inizierà la mia seconda giornata. Mi sparo la terza tazza di caffè e mi butto sotto la doccia. Meglio non pensare a quanti nervi il maiale mi fa saltare ogni giorno. Ci stiamo lasciando, questo è chiaro, perché la nostra storia ha raggiunto il capolinea ed è diventata lenta e nevrotica, proprio come me durante la crisi premestruale. Mi asciugo e via, mi chiudo nello studio, cordless alla mano e telefonino bene in vista. Le notizie di oggi sono tutte su Google news:
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tra le più lette è segnalata quella che ci avvisa delle nozze di quel figone di Clooney e di quella culona della Canalis. non che abbia il culo grosso, per carità, ma di fortuna ne ha da vendere. Spulcio tra gli argomenti tecnologici e scopro con orrore che anche oggi la libertà d’informazione è in pericolo. In un modo o nell’altro, in questo paese lo è sempre. Ci scappa il primo pezzo della giornata, con l’immancabile commento.
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Ore 10:33 Qualcuno mi ha appena aggiunto tra i suoi contatti su Skype, ma non riesco a capire chi è. Il nick Midnight non mi dice nulla ma forse una sbirciatina al profilo potrebbe tornare utile. Midnight, Roma, 12 febbraio 1968… ma chi cazzo è? ‘Ciao!’ la barra arancione inizia a lampeggiare. ‘Mmmh, ciao, chi sei?’ digito in un secondo ‘Sono Alex’. Ooops. È quell’Alex? L’incredibile, bellissimo, simpaticissimo Alex che ho conosciuto al pranzo di ieri? ‘Ehilà’, gli scrivo, ‘sei l’Alex di Luca?’ Luca è il marito di Gaia. Ieri, mentre la maschera al cetriolo risucchiava le impurità dalla pelle del mio viso e l’olio di semi di lino ungeva i miei capelli, Gaia, la mia best friend, mi ha messaggiata all’incirca 16 volte per dirmi che stava arrivando in quel di Roma e che io dovevo PER FORZA andare a pranzo con lei. E con Luca. E con Sandro. E con Alex. L’incredibile, bellissimo, simpaticissimo Alex. ‘Esatto! Come stai? Va un po’ meglio con il tuo lui?’ Ah già, il mio lui. Perché ieri, mentre l’incredibile eccetera Alex raccontava del suo ultimo viaggio, il maiale telefonava per chiedermi dove cazzo ero. Lui era a casa, come al solito, sul letto, come al solito, con il PC acceso, come al solito. Puah. Ma dopo aver conosciuto Alex, l’ho detto. Ho raccontato in modo composto e senza esagerare, che il mio fidanzato e io ci stavamo per lasciare. Mossa furba, lo ammetto, ma è saltato fuori così, senza nessuna malizia. ‘no, veramente, no. Ma come hai avuto il mio contatto?’ ‘Mi ricordavo il tuo cognome e ti ho cercata, tutto qui. Ti dà fastidio?’ ‘no anzi, piacere di rivederti ;), anzi, di riparlarti ;)’ ‘Che fai? Io sono già in ufficio perché ho dei contratti da firmare, che noia…’ ‘Io anche già al lavoro, da casa però… tra pochissimo vado in palestra’.
CAMILLA CANNARSA
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Stefano Cardinali
Savile Row (i Beatles nell’avvenire) 01010011 01100001 01010011 01110111 01101100 01100001
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In questa strada i palazzi sembrano tutti uguali, alti non più di tre piani con una cortina di fitti mattoncini colore terra bruciata che li rende omogenei e compatti. Savile Row corre parallela alla più famosa Regent Street. Siamo nell’immenso centro di Londra, non lontani da Piccadilly Circus e dalla sua confusione. Al numero 7 di questa strada, intorno al 1870, Jules Verne immaginava l’abitazione di Phileas Fogg, il protagonista del Giro del mondo in ottanta giorni, ma a noi non interessa scoprire il punto di partenza di una delle più famose avventure della letteratura, siamo qui per vedere da vicino il punto di arrivo di una fantastica vicenda musicale. Vogliamo trovare l’ingresso della palazzina il cui tetto ospitò l’ultimo concerto dei Beatles. Era il 30 gennaio 1969. Abbiamo logorato i solchi dei nostri dischi in vinile sognando i luoghi d’origine della musica che ascoltavamo e oggi, finalmente, stiamo visitando e fotografando i posti più importanti nella storia del quartetto di Liverpool. In realtà l’idea della caccia fotografica è di Enzo. Io mi sono accodato con entusiasmo, ma se ad Abbey Road abbiamo fatto la fila per scattarci una foto mentre attraversavamo la strada, qui non c’è nessuno. Dopo varie consultazioni al nostro stradario sdrucito e indicazioni poco precise da parte di londinesi distratti, finalmente entriamo in Savile Row provenienti da Vigo Street. La strada si presenta dritta, in piano e lunga circa duecento metri. I miei ricordi del film Let it be, nel quale è testimoniata l’ultima performance dei Beatles, sono confusi,
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vaghi. Rammento una costruzione scura con un piccolo ingresso e nient’altro. Enzo è nella mia stessa condizione e, trovandoci davanti a una serie di edifici con le stesse caratteristiche, cominciamo a chiedere a qualche raro passante: Excuse me, do you know where the Beatles…? Le risposte si somigliano tutte: Sorry… maybe… I don’t know… Avanziamo lungo la strada decidendo di affidarci alla nostra memoria, anche se labile e, per non sbagliare, fotografiamo tutte le costruzioni somiglianti a quella dei nostri ricordi. Una ragazza bionda con una ricetrasmittente all’orecchio ci ferma decisa: una troupe sta riprendendo delle indossatrici lungo la via e quel tratto è per il momento interdetto. Vestite come Brando in Fronte del porto con completi di pelle e berretti con la visiera, le modelle sfilano a turno accanto a una moto di grossa cilindrata. Proviamo a chiedere alla ragazza che ci ha fermati l’informazione che ci interessa ma lei ci guarda con disappunto e dalle sue labbra esce uno stitico: No! neanche un sorry ci siamo meritati. Finalmente il regista accorda una pausa e il nostro semaforo biondo ci concede il verde con un sorriso di circostanza. La nostra ricerca può ricominciare. Ogni edificio sembra quello del concerto, ogni foto che scattiamo può essere la copia di un’inquadratura del film o destinata alla cancellazione. Entriamo in un negozio e facciamo la solita domanda. La signora che abbiamo di fronte ci spiega che non è sicura ma forse la costruzione che cerchiamo è quella accanto alla sua. Usciamo carichi di speranza ma ben presto ci accorgiamo che la donna si è sbagliata: l’unica cosa che ricordiamo con certezza sono i piccoli mattoni marroni della facciata del palazzo del concerto. Il palazzo indicato dalla donna invece è uno dei pochi edifici completamente bianchi di Savile Row. Al terzo incrocio la strada piega leggermente a sinistra e cambia nome. Siamo arrivati alla fine senza alcun risultato. Torniamo indietro e ripercorriamo il tragitto col naso all’insù alla ricerca di un particolare da incasellare nei nostri ricordi, qualcosa che ci dia la certezza di aver trovato quello che cerchiamo. Ripassiamo davanti al set con le modelle. Sono di nuovo in pausa, alcune sedute lungo il marciapiede, altre in compagnia di due giovani poliziotti. Enzo si fa coraggio e si rivolge a uno dei due bobbies il quale, in maniera gentile, indica una palazzina all’inizio della strada, il civico 3 ci dice, proprio dalla parte dalla quale siamo arrivati. Aggiunge che potrebbe sbagliare, lui a quel tempo non era neanche nei programmi dei suoi genitori.
STEFANo CARDINALI
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Daniela Rindi
Tom 01000100 01100001 01101110 01101001 01100101 01101100 01100001 00100000 01010010 01101001 01101110 01100100 01101001 00001010 01010100 01101111 01101101
Elisa sfoglia nervosamente il quindicinale degli annunci cercando sotto la voce Lavoro Offresi. Da quando si è separata dal marito è diventata un’ossessione, oltre che una necessità primaria. ‘Cercasi neolaureata’ … no, ‘Cercasi donna sotto i trent’anni’… no. ‘Cercasi signora con bella presenza, spigliata, automunita per lavoro di rappresentante in importante multinazionale’… eccolo! Elisa prende in mano il telefono e compone subito il numero. «Buongiorno, chiamo per quell’annuncio, l’offerta di rappresentante… sì ho l’auto, ma quale sarebbe il prodotto?… un elettrodomestico all’avanguardia?… sì so cucinare, ma non è la mia passione, sa… il tempo non basta mai… ottimo?… ah va bene, se è proprio quello che cercate… ci vediamo domani alle 10… grazie mille…» Deve fare dimostrazioni porta a porta di un robottino tuttofare e la qualità primaria che bisogna possedere non è una laurea, una specializzazione, un curriculum dignitoso, ma un banalissimo ‘non saper cucinare’. niente di più facile per una che riesce a mangiare la pasta al forno di prima mattina pur di non mettere su il caffè, o che riesce a cucinare nel forno anche il fegato. Due giorni dopo Elisa è già in macchina con il suo bell’apparecchio nel cofano diretta al primo appuntamento. non ha molta affinità con la toponomastica, si perde facilmente e non ha nessun senso dell’orientamento per cui, visto che la maggior parte dei suoi possibili acquirenti sulla lista ricevuta dalla ditta, vivono nell’hinterland , si è procurata un satellitare, un TomTom. Lo ha scelto per il nome evocativo e simpatico e ha già selezionato una calda voce maschile, che non la fa sentire più sola di quello che è.
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La giornata autunnale è piacevolmente tiepida e soleggiata, di buon auspicio. Elisa ha impostato la sua prima via sul TomTom. La sta guidando perfettamente, segnala i punti di rifornimento, gli apparecchi per il controllo della velocità e l’avverte delle svolte sempre per tempo. Incredibile la precisione. Questi apparecchi sono proprio l’invenzione che fanno per una come lei, che ha sempre e solo avuto come punto di riferimento la strada di casa sua. Gli occhi sul mondo che lei non ha mai avuto. Chissà, se avesse scoperto prima Tom, forse non avrebbe perso un marito dopo 18 anni di matrimonio. Tom l’ha appena fatta arrivare al casello, paga e la voce della signorina della cassa Fastpay chiede cortesemente di aspettare la ricevuta, poi sempre soavemente ringrazia e augura buon viaggio. «Certo che le sanno scegliere bene queste voci registrate, sembrano esseri umani in carne e ossa», pensa Elisa sorridendo. Riprende il viaggio affidandosi nuovamente alla calda voce di Tom. E, dopo una buona mezz’ora di macchina, Elisa si ritrova nuovamente al casello di prima. La voce del Fastpay, sempre eroticamente gentile, le ricorda ancora la ricevuta e le augura buona prosecuzione. «Perché sono ancora qui? Com’è possibile? Ci dev’essere qualcosa che non va…» Elisa reimposta il TomTom, forse inavvertitamente ha dato un comando sbagliato e si è impostato per il ritorno al punto di partenza. Elisa riprova e riparte. Dopo un’altra mezz’ora di viaggio l’auto viene riportata allo stesso casello, davanti allo stesso Fastpay. La voce di Tom che dice: «Destinazione raggiunta». «Ma come destinazione raggiunta? Ma se sono di nuovo alla stessa uscita?» Inutile domandare al Fastpay, è solo una voce programmata, qui non c’è nessun essere umano che ragioni col cervello suo, pure quel tizio dell’Anas fermo laggiù sembra che faccia prendere solo aria alla sua divisa. Elisa scoraggiata decide di rinunciare al suo primo appuntamento e di fare un salto al negozio dove ha acquistato Tom. È ancora in garanzia, quindi l’inserviente può revisionarlo e capire dove Elisa può aver sbagliato. Il ragazzo del negozio, un bel tipo, simpatico e cordiale esamina subito l’apparecchio comunicandole in breve la corretta funzionalità. Anche le impostazioni sono state inserite correttamente, neanche lui capisce cosa può essere successo. Suggerisce a Elisa di riprovare con un altro indirizzo e ripartire. Elisa – rinfrancata dalle sue parole – decide di ascoltarlo, in macchina prende un nuovo indirizzo e dà le coordinate a Tom, il quale in-
DANIELA RINDI
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Angelo Orlando Meloni
I sassi, la vera storia dell’uomo che migliorò il mondo 01000001 01101100 01101111 01110011 01100101 01100001 01101101 01100111
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Chiarissima Sig.ra Josephine Filler, è nostro sommo piacere comunicarle che lei ha vinto un premio alla Grande Riffa della Gioia e della Felicità. Speriamo perciò voglia gradire questo nostro dono. Cordialità, suo RX4-bb-112, segretario della Grande Riffa della Gioia e della Felicità. P.S. Rhinelander è una cittadina deliziosa, anni fa mi son trovato a passarvi uno spensierato fine settimana. Ottimo lo sciroppo d’acero. Il primo sasso era stato recapitato il 24 agosto 2009 nella cassetta delle lettere di Josephine Filler, a Rhinelander nel Wisconsin. Quando aprì la cassetta e vi trovò una scatola che odorava di violetta, mai si sarebbe aspettata, l’arzilla signora, che il suo nome sarebbe finito nei libri di storia, né che il suo contributo alla storia si sarebbe fermato lì. La consegna dei sassi blu fu esaminata da numerosi gruppi di ricerca sparsi tra i cinque continenti, che ne ricostruirono a fatica la comparsa e la distribuzione litigando selvaggiamente fino a quando il massimo esperto vivente di calcolo delle probabilità, il futurologo Leon Jena, applicò il rasoio di Occam con un ferocia mai vista. La comunità scientifica arretrò terrorizzata e la signora Filler si ritrovò da un giorno all’altro sulla copertina di Times. Restava solo da capire cosa fossero i sassi.
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Soprammobili, sembravano. Di colore blu oltremare, a toccarli, a lanciarli, a leccarli, sassi erano e sassi rimanevano, con un retrogusto di salnitro. Erano ben levigati, come dalle mani di un artigiano che lavorava con la precisione di un cervello elettronico, e ognuno era diverso dall’altro, minime variazioni che aggiungevano mistero al mistero. Da un giorno all’altro il mondo attendeva che un art director scoprisse le carte, ammettendo che si trattava della campagna per uno yogurt in grado di far andare in bagno anche i morti. Ma i pubblicitari, se interrogati, cambiavano discorso, e tra di loro si guardavano in cagnesco. Si trattasse del più colossale reality-spot di tutti i tempi, o di uno sporco tiro di Al-Qaeda, i sassi blu con il loro peso variabile tra i centosette e i centotrentadue grammi annientavano le ipotesi più ardite e facevano ammutolire gli ufologi. Beati e inerti, crogiolavano sui comodini o finivano negli stagni, e nel caso della famiglia Barnes di Rhinelander sulla vetrata del salotto. A un anno esatto dal giorno in cui Tommy, il nipotino della signora Filler, aveva frantumato la porta-finestra di mister Barnes, settantadue secondi dopo, cioè, che la signora Filler aveva aperto la sua scatola odor di violetta, poggiato il sasso e dato una scorsa al bigliettino personalizzato posto sul fondo della stessa scatola, si era calcolato che le consegne ammontavano a circa tre miliardi e duecentoventinovemila massi. E non sembravano finire. Dall’Alaska a Zanzibar le società di spedizione private e pubbliche furono passate in rassegna una per una. Portalettere, direttori di filiale, grand commis e ministri delle poste furono torchiati senza pietà dagli specialisti della guerra psichica. La polizia postale finì sotto l’occhio del ciclone e in un secondo momento ottenne finanziamenti mostruosi. Era come se i sassi si materializzassero dal nulla. I cervelloni sudavano sette camicie. I poliziotti più nervosi passavano le giornate a escogitare capri espiatori di concerto con gli uffici stampa. Quelli più pazienti si appostavano sotto le cassette delle lettere di concerto con i calcoli del professor Leon Jena. I venditori di cristalli magici si sentivano defraudati. nuove religioni erano lì lì per spuntare come funghi. nessuno ci capiva niente. A parte che i sassi erano blu e che alcuni designer e arredatori d’interni li trovavano dozzinali.
ANGELo oRLANDo MELoNI
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Antonio Pascale
L’attesa 01000001 01101110 01110100 01101111 01101110 01101001 01101111 00100000 01010000 01100001 01110011 01100011 01100001 01101100 01100101 00001010 01001100 00011001 01100001 01110100 01110100 01100101 01110011 01100001
L’annuncio era stato dato nel pomeriggio. Tutti ora lo sapevano. L’uomo, per esempio, era stato avvisato da una vicina. «Avete sentito…? avete sentito…?» diceva la vicina: «Accendete la televisione, accendete la televisione!» Era concitata, isterica. Ripeteva le cose due volte. A un certo punto ebbe quasi una crisi. Cominciò a battere i piedi per terra, due volte il destro e due il sinistro. L’uomo non riuscì a capire niente. Chiamò sua moglie affinché gli desse una mano, a capire o almeno a calmare la vicina. La moglie dell’uomo si allontanò con la vicina, di due o tre passi, poi i due rimasero immobili. L’uomo vide sua moglie e la donna nell’ombra del pianerottolo che parlottavano. non fece in tempo a capire cosa la vicina stesse dicendo a sua moglie che si aprirono tutte le porte, non solo quelle degli appartamenti che davano sul pianerottolo, ma quelle di tutto il condominio. Uscirono tutti fuori. non solo quelli del condominio, in breve l’intero quartiere fu invaso da persone concitate. Sembrava di vedere un formicaio isterico. Poi, com’era cominciato così finì. Del resto era un quartiere operaio. L’indomani bisognava svegliarsi presto e raggiungere la fabbrica. Anche l’uomo si sarebbe alzato presto. Come tutti. E anche la moglie dell’uomo. Come tutte le mogli dei suoi amici. Ma era notte e l’uomo e la donna non riuscivano a dormire. «Ci sono novità?» chiese la donna. «Dormi». La donna si rigirò nel letto. Tirò su le lenzuola e si coprì. «Perché non vai a sentire se ci sono novità?» «Dormi. non c’è nessuna novità. niente di nuovo».
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«Che cosa accadrà?» «Dormi». La donna allora scalciò le lenzuola, si tirò su. «non mi dire: dormi, come vuoi che dorma. In una situazione come questa. Perché non vai a vedere?» «Dove vuoi che vada?» «Accendi la radio…» «non ci sono novità, dai, dormi». «La televisione allora…» «A quest’ora, cosa vuoi che trasmetta?» «Cosa vuoi che trasmetta? Come fa a non trasmettere? non capita tutti i giorni…» «non trasmettono perché non hanno notizie, nessuno le ha, ci vorranno giorni prima di sapere qualcosa di più preciso». «E tu che ne sai? Chi te l’ha detto? nessuno lo sa quanti giorni ci vorranno, forse due o tre, o forse le notizie stanno già arrivando e tu dovresti andare a sentire. Come fai a essere così tranquillo?» «Ascolta, domani la sveglia suona alle cinque, ho il primo turno e tu ti alzi subito dopo…» «Ma che importanza ha il domani? Pensi che domani la gente andrà a lavorare? Con una notizia così?» L’uomo si coricò accanto alla donna, non aveva voglia di continuare quella discussione, inoltre gli stava venendo sonno. «Perché stiamo andando a dormire? Domani non esisterà più niente, più niente, è spaventoso tutto questo e tu cosa fai, ti metti il pigiama e vuoi dormire, ma vai a controllare…» «Ascolta, domani ci alzeremo a andremo a lavorare, come tutti i giorni, poi perché mai dovrebbe essere tutto nero, domani. Ci sarà il sole, sarà una bellissima giornata e noi andremo a lavorare e poi, dopodomani, ci riposeremo, vedrai, andremo al mare, prendiamo la macchina e andiamo verso la spiaggia, come tutti, come fanno tutti in questo mese e non sarà una brutta estate, adesso dormi». La donna non ascoltò oltre, si alzò e si diresse nella stanza dove c’era la televisione. L’uomo ascoltò in silenzio. Sentì la televisione accendersi, lentamente. Il tubo catodico faceva fatica a illuminarsi. Poi una luce bianca invase la stanza della televisione, e l’uomo vide lo sfarfallio arrivare fino alla camera da letto. non c’era nessuna voce. nessun telegiornale. nessuna notizia. Solo lo sfarfallio, in bianco e nero. L’uomo sentì poi i passi della donna. Tornava indietro, verso di lui.
ANToNIo PASCALE
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Gabriele Santoni
Parigi, 1896 01000111 01100001 01100010 01110010 01101001 01100101 01101100 01100101 00100000 01010011 01100001 01101110 01110100 01101111 01101110 01101001 00001010 01010000 01100001 01110010 01101001 01100111 01101001 00101100 00100000 00110001 00111000 00111001 00110110
Avevo ai piedi le scarpe di Jean, ancora troppo grandi per me. La mamma me le aveva passate e aspettavamo che il mio piede crescesse abbastanza per passarle a Louis quando sarebbe stato in grado di camminare. «Guillaume», mi aveva detto mia madre, «devono resistere ancora anni. non prendere a calci i sassi o tuo fratello un giorno dovrà camminare senza!» Quell’ammonimento mi tornava alla mente ogni volta che mi ritrovavo un selcio piatto tra i piedi. Immaginavo di calciarlo con la punta della scarpa e vederlo saltare sulle acque nere della Senna. Sarei stato in grado di farlo arrivare sull’altra sponda. Lo immaginavo volare, risalire l’argine del fiume e girare tra i vicoli di Parigi schivando cappelli a cilindro, carrozze e cavalli, rompere la vetrina del Café des Roses e finire nella tazza di Monsieur Rochard nel giorno in cui sarebbe venuto a chiedere i soldi dell’affitto. Erano passati pochi giorni dal natale. Ancora quattro anni e avremmo salutato il 1800. Succedevano tante cose in città, un gran movimento rendeva l’aria frizzante, sebbene mio padre giurasse che presto sarebbe finito il mondo e non avremmo fatto in tempo a veder nascere il nuovo secolo. Pittori, scultori, circensi, avventurieri e zingari affollavano le strade di Parigi. Mercanti da ogni parte del mondo si incontravano per le vie di Montmartre come fedeli a un appuntamento fissato dalla storia. Prodotti mai visti prima coloravano le bancarelle, spezie dalle Indie e dalla Turchia, stoffe italiane, tappeti dalla Persia, alambicchi dalla Bretagna Gli aromi si rincorrevano annullandosi l’un l’altro. I mori offrivano tè di menta per pochi centesimi, i giocolieri lanciavano in aria palle e clave. Uno sputava il fuoco, un altro con un berretto sudicio chiamava a raccolta i più generosi.
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Durante i festeggiamenti di natale potevamo girare soli per le vie del centro. non dovevamo leggere e scrivere e nemmeno aiutare nostro padre nella raccolta dei rami secchi. Allora Jean e io ci rincorrevamo per le vie del centro fin quando lui, più grande e più veloce di me, andava a nascondersi dietro un angolo o dietro un gruppo di passanti. Io lo cercavo disperato. All’improvviso sbucava fuori e mi sorprendeva con pesanti palle di neve gelata. Madame Marie Rose, a sera, ci regalava piccole buche de noël avanzate dal suo negozio di dolci, dietro la solenne promessa che avremmo studiato abbastanza da diventare maestri. Percorremmo Rue des Italiens, volevamo raggiungere gli ChampsÉlysées poi giù fino al fiume per scivolare sull’acqua ghiacciata. Lungo Boulevard des Capucins un capannello di persone si affollava davanti al Gran Café. Jean si fermò a guardare, salì sulle punte dei piedi, provò a farsi largo tra i gentiluomini e le loro signore, ma non riuscì a leggere il manifesto colorato all’entrata. «Sono i figli del fotografo», sentii dire. «Chissà cosa avranno in mente questa volta». Una signorona dall’aria sbigottita predisse un futuro nero per il fotografo «Mon Dieu! se quei due non si mettono in testa di lavorare seriamente, il povero padre dovrà chiudere bottega!» La piccola folla si dissolse al cenno di uno dei curiosi. «Un infuso caldo per tutti, offre Monsieur Duschamp! non perderò un altro secondo appresso all’ennesima trovata dei figli del fotografo». Tutti lo seguirono obbedienti e noi rimanemmo soli davanti al manifesto. Jean finalmente riuscì a leggere e tentò di spiegarmi. I figli del fotografo davano appuntamento all’imbrunire nel seminterrato del Gran Café per uno spettacolo di luce che veniva sbandierato come sbalorditivo. Avrebbero mostrato cose e persone che in realtà non c’erano. Pensai che volessero risvegliare i morti, mettersi in contattato con gli spiriti dell’aldilà, riportarli in vita con il loro nuovo macchinario. I figli del fotografo avrebbero dato una seconda possibilità alle anime inquiete che vagavano su Parigi e su tutta la Francia. Immaginai mio nonno tornare per costruire la casa di fango per i suoi galli da battaglia. Una palla di neve in piena faccia mi fece tornare in me. Rincorsi Jean e mi dimenticai dei figli del fotografo, del loro macchinario e delle anime dei morti di Parigi e di tutta la Francia. Arrivammo fino al fiume, mangiammo pane nero e bevemmo succo di mele. Jean ammucchiò tanta neve da farne un pupazzo dalla pancia enorme. Gli diede sembianze umane con sassi al posto degli
GABRIELE SANToNI
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Vedrana Martinovic
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Dicono alcuni che i giovani sono perduti: essi infatti sono privi di quell’esperienza che potrebbe indicare loro la direzione giusta da prendere nella vita. Sconvolti dalle infinite possibilità che gli si offrono, contemporaneamente condotti verso cammini spesso incompatibili e non avendo ancora la precauzione che li aiuterebbe nella selezione, sono insicuri, vacillanti, dubbiosi dinanzi alla via a loro adatta. Forse non si pongono neppure la domanda di cosa vogliano nella vita. Confesso che anch’io fui uno di questi giovani persi. no, non sono mai stato senza desideri. Volevo qualcosa pur non sapendo cosa, ma di certo avevo desideri. Il mio Qualcosa aveva contorni chiaramente riconoscibili. Doveva essere grande, forte e assolutamente eccezionale, e credevo che la mia vita valesse esattamente quanto il capire qual era questa cosa eccezionale che volevo. Probabilmente lo credo anche oggi, sebbene gli anni mi abbiano portato la calma e non debba più pensare così febbrilmente. Camminavo senza neanche sapere dove andassi. Ero convinto di una cosa sola: di quanto forte doveva essere questo Qualcosa che alla fine avrei trovato. Potente come un uragano che fa alzare i piedi da terra. Si dice anche che la giovinezza sia il tempo della ricerca dell’amore. Lo avevo. I miei amici lo cercavano invano e disperatamente. Mi invidiavano, affermavano che la mia fortuna era stata un’eccezione quasi irreale, dicevano che la scoperta dell’amore non dipende né dalla premura né dalla virtù, ma da qualcosa al di fuori della nostra portata. Ero cosciente di tutto questo ed ero grato di aver ricevuto il dono. Ringraziavo il destino che questa donna di incredibile dolcezza e dalla fronte intelligente amasse proprio me, era assolutamente
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inspiegabile. no, la nostra strada non è la stessa che percorrevamo quando ci siamo conosciuti. Il nostro amore era gentile, generoso, ma è stato più di quanto meritassi, cresceva indipendentemente dai miei meriti, si basava sulla fortuna e sul caso. Se ci sono stati condizionamenti esterni che hanno contribuito a farlo nascere non saprei. Perfino nella dolce presenza di mia moglie, e lei era celestiale, ero ossessionato dalla necessità di scoprire quanto valessi come uomo. Volevo tornare da lei con questa scoperta, volevo essere degno di lei. Privo della risposta non avrei mai potuto essere davvero felice, sarei stato al massimo contento come una mucca nel prato. non sapevo quanto valore, forza e virtù possedessi, se fossi degno dell’amore dei miei genitori, di mia moglie, dei figli. Quotidianamente evitavo di rispondere a queste domande; ma ciò non significa che vivessi immobile. Lavoravo e mi muovevo di qua e di là, naturalmente, ma in un cammino che non avevo deciso io. Mi muovevo come i chicchi di grano nel vaso o i moscerini attorno alla luce, gettato da una parte all’altra da forze esteriori, per inerzia, perché le situazioni o la tradizione di famiglia lo richiedevano. non ho scelto il mio lavoro. Volevo, dunque, qualcosa di più grande della comune esistenza umana, qualcosa che non aveva ancora assunto né nome né aspetto proprio, ma è sempre meglio avere un obiettivo anche indefinito da raggiungere a costo di sacrifici, che vivere senza desideri, soddisfatti della propria passività. Volevo una felicità che si basasse sulle mie capacità, ma con disperazione scoprivo di non sapere come raggiungerla. Lavoravo nei campi, cacciavo, navigavo, combattevo, principalmente perché tutti gli altri lo facevano, ma alla fine mi chiedevo sempre: «Cosa c’è di me in tutte queste cose?» Sentivo che non venivano da me. A dire il vero non sono affatto un essere eccezionale: persino più che mediocre, meno abile degli altri nel mio lavoro. Mi sono sempre sentito a disagio, in disarmonia con il mio corpo e con il viso, già parecchio segnato dagli anni. I miei vicini e amici non si sono mai accorti di questo senso di vuoto e perciò mai me ne hanno domandato. Amandomi mi hanno sopravvalutato, ma i riconoscimenti che ho ricevuto non hanno grande importanza: sono determinanti per la mia esistenza ma li ho guadagnati con poca partecipazione personale, quasi non dipendevano da me. Agli altri è sfuggito che in me non era ancora nato il germoglio del “grande desiderio”. Impegnati nei loro doveri quotidiani, non hanno notato il mio bisogno di trovare qualcosa che sarebbe servita per vincere me stesso, i miei limiti. Quella che alla fine ho trovato, finalmente.
VEDRANA MARTINoVIC
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Silvia Mericone
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non è tanto per l’errore di sistema, è l’aggettivo “irreversibile” che mi rende nervosa e questa schermata blu uniforme. Decido di chiamare l’assistenza tecnica, e appena prendo la comunicazione un’entusiasta Voce Guida mi informa che da ben sei giorni sono stati messi a mia disposizione tantissimi operatori a cui rivolgere le mie domande e i dubbi più disparati. Per parlare con uno di loro, l’unica cosa che devo fare è ascoltare “attentamente” la Voce Guida. E già qui mi metto in allarme perché in genere la Voce Guida dice solo di seguirla, senza specificare “attentamente”. Ma io non mi faccio intimorire e soprattutto non mi faccio guastare il clima di gioiosa familiarità che mi dà la musica di sottofondo (la stessa dello spot in TV). Ascolto attentamente il menu della Voce Guida una prima volta, ma in nessun caso mi offre l’opzione di parlare con un operatore. Forse mi è sfuggito, del resto i numeri sulla tastiera sono addirittura dieci e io sono solo una donna. Risento il menu una seconda e poi una terza volta, e mi rendo conto che l’opzione se vuoi parlare con un operatore cambia ogni volta che richiamo, una volta è sul due, poi sul nove, poi sul cinque. Inizio a pensare che sia un complotto della Voce Guida, lei non vuole “davvero” che io parli con un operatore. Mi ripasso il menu per la quinta volta, adesso per l’operatore devo digitare sei. Lo faccio. non devo perdere la calma. Voglio il mio stracazzo di operatore che sa tutto e che mi risolve tutti i problemi della vita. La Voce Guida ha accusato il colpo. Lo capisco perché dopo che ho digitato sei, mi offre tutta una gamma di possibilità inenarrabili, e io mi trattengo a stento, ma capisco che le sue offerte cercano solo di distrarmi dal mio reale obiettivo. Voglio l’operatore.
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Subdola come una faina la Voce Guida dopo il MegaMenu mi chiede se voglio tornare al messaggio principale o risentire tutta la tiritera e poi, dopo una pausa drammatica, aggiunge: «Se vuoi davvero parlare con un operatore digita nove». Il senso di colpa è strisciante, me la sento di darle questo dolore? Sì. Digito nove. La Voce Guida ritenta con la strategia dello sfibramento e mi propone un SuperMegaMenu, sta perdendo colpi. Io ormai conosco la sua tecnica e aspetto. Anche se inizia a pulsarmi l’occhio destro. Vuoi davvero parlare con un operatore? Assolutamente sì. Brutta stronza. Digito nove. Sono gasatissima. La Voce Guida è alla frutta. Ora mi propone uno StraSuperMegaMenu, sto sudando, ma ce la faccio, conosco il metodo, ho già il pollice sospeso sul numero nove. Stavolta ti inculo. Se vuoi parlare con un operatore… digita TRE. TRE. Maledetta. TRE. Mi ha blandito per dieci minuti col numero nove e ora mi spara TRE. Ha ipnotizzato le mie onde beta con il nove e poi mi dice TRE. Riesco a farmi venire un tempestivo crampo al pollice per non digitare nove. Digito tre. Mi tremano le pupille dall’estasi. Avverto il potere scorrermi dentro. A questo punto la Voce Guida gioca la sua ultima carta. Mi risveglia dal subcosciente il demone della segreteria telefonica. È una specie di archetipo perché nessuno ricorda quando si è trovato la prima volta a tu per tu con una segreteria, ma tutti sanno come hanno reagito: hanno riattaccato dopo il bip. La informiamo che la sua telefonata con un operatore sarà registrata ai fini del controllo qualità. Maledetta! nessuno ha mai rovistato così segretamente nelle mie paure più inconsce, gli altri call center ti sfiancano solo con l’attesa, questo invece ti destruttura mentalmente. Sono esausta, ma ce la devo fare. È l’ultimo baluardo che mi separa dal mio operatore. Acconsento e la Voce Guida mi punisce con 28 minuti di attesa in cui sogno il mio operatore che sta venendo a rispondermi su un cavallo bianco. «Salve sono Matteo, in cosa posso esserle utile?»
SILVIA MERICoNE
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Fabio Brinchi Giusti
Dillo alla luna 01000110 01101110 01110100 01100001
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…e se c’è qualcosa che non ti vaaa… Dillo alla Lunaaaaaa «Può darsi che porti…» aggiunse Michele, dondolando la testa. «Fortuna» strillarono insieme le cuffiette del lettore MP3 che gli oscillava al collo. Il ragazzo istintivamente alzò gli occhi. In quella calda sera di giugno non si vedeva la Luna e nemmeno le stelle, il cielo era sepolto sotto un muro di nubi. Michele camminava a testa bassa, diretto verso la più vicina fermata della metropolitana. Aveva alla fine concluso un interminabile anno scolastico. I suoi l’avevano costretto a frequentare un istituto per il quale non era portato, faceva sempre una gran fatica per essere promosso senza troppi danni. negli ultimi mesi però, un’insegnante – scambiando la sua rassegnazione per strafottenza – lo aveva messo sotto torchio. Era convinta che così facendo l’avrebbe stimolato e sarebbe diventato il migliore della classe. Lo chiamava continuamente alla lavagna, pretendeva si ricordasse i più minimi dettagli delle lezioni e a ogni compito e interrogazione gli dava apposta voti bassi e ingiusti. Con il risultato che il secchione non era mai emerso e Michele era stato rimandato a settembre. A casa la notizia aveva scatenato una bufera. «non ti potevi impegnare un po’ di più?» lo incalzava sua madre appena ricevuta la notizia, «Sempre a fare il ribelle! Sempre con quella faccia da impunito menefreghista e questo è il risultato!» «Mamma, mica sono stato bocciato!» «non sei stato nemmeno promosso. Con tutti i sacrifici che facciamo io e tuo padre. Adesso passerai l’estate a studiare. A cominciare
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da domani. E non dirmi che sei stanco e devi riposarti perché lo hai già fatto tutto l’inverno». Michele aveva evitato di replicare, silenzioso si era diretto nella sua stanza. Dopo aver scaraventato lo zaino in un angolo da dove non lo avrebbe più spostato per almeno tre mesi, trascinò la sedia verso il computer accendendolo. «È tutta colpa di quell’aggeggio», borbottò la madre che lo aveva seguito nella sua stanza. Michele drizzò le orecchie, temendo il peggio. «Per stare davanti a quel coso ti distrai e non pensi più allo studio, appena torna tuo padre glielo faccio staccare». «no, mamma!» La donna incrociò le braccia con decisione: «non insistere, è per il tuo bene», e se ne tornò in cucina appresso alle sue faccende. Michele vide il mondo crollare sulla sua testa. Grazie a quel coso, il ragazzo aveva scoperto di avere talento per la scrittura. Si piazzava lì davanti e per qualche ora trasformava le bianche pagine di Word in emozioni, sentimenti, storie. Per qualche ora soffriva, sudava, gioiva insieme ai personaggi che creava e volava con la sua fantasia, libero dai suoi problemi e dalle sue paure. Su consiglio di un amico, aveva iniziato a pubblicare le sue storie su un blog. Michele amava scrivere. Aveva finalmente scoperto qualcosa che gli riusciva bene. E tra i lettori fissi del suo blog c’era pure Luca nastri, l’astro nascente dell’horror italiano e che guarda caso viveva nella sua stessa città. Luca aveva una grande fiducia in lui, gli scriveva e-mail pieni di complimenti e di consigli, fra loro era nata una solida amicizia virtuale. nell’ultima lettera, Luca gli aveva comunicato che aveva convinto il suo editore a leggere alcune delle pagine di Michele e questo aveva deciso di pubblicare il suo romanzo. L’unica condizione era che l’avrebbe dovuto completare entro settembre. E adesso si sarebbe ritrovato senza computer. Seduto davanti al monitor – in attesa che il padre rientrasse dal lavoro – Michele vide che Luca era entrato in chat. Lo contattò subito. ‘Luca mi disp ho brutte notizie. :( ‘ ‘Che succede?’ ‘Mi hanno seccato a scuola, mi leveranno il computer’. ‘Merda! Quindi non potrai neanche più scrivere…’ ‘Purtroppo no. Che faccio?’ ‘Prova a parlare di nuovo con i tuoi. Magari cambiano idea’.
FABIo BRINChI GIuSTI
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Roberto Marinucci
Sex-aplomb 01010010 01101111 01100010 01100101 01110010 01110100 01101111 00100000 01001101 01100001 01110010 01101001 01101110 01110101 01100011 01100011 01101001 00001010 01010011 01100101 01111000 00101101 01100001 01110000 01101100 01101111 01101101 01100010
Dopo un’attesa di oltre due ore durante le quali (aggredita dalla solita disperazione di tutti i giorni a quell’ora) aveva passeggiato zampettando sulle vertiginose zeppe su e giù lungo il ciglio della strada che da anni le dava di che vivere stringendosi al petto infreddolito la borsa dell’acqua calda preparata la sera prima e ormai fredda (durante le molte ore di lavoro notturno l’ha tenuta nascosta nel canneto tra asfalto e fiume), la sua fidanzata credeva d’aver finalmente trovato un passaggio da sostituire al passeggio ma purtroppo non aveva fatto i conti con un inconveniente che, da quando s’era messa in proprio, non le era ancora mai capitato: al maiale di turno proprio non tirava: «Senti», gli aveva gridato dopo tutta una serie di tentativi a vuoto, fissando il sifone apatico tutto raggrinzito e svenuto contro un internocoscia straordinariamente peloso, «se non hai voglia non è colpa mia. Portami subito a casa e per il saldo della corsa puoi passare domani alla stessa ora». non una piega quel suo discorso, anzi. C’era di che leccarsi i baffi. Un’occasione del genere mica capita tutti i giorni, ma il cliente non ne aveva voluto sapere: dava a lei la colpa della sua momentanea ingloriosa impotenza, a lei che l’ha ferito nell’orgoglio di toro da monta, a lei che s’è offerta in via eccezionale di pagarlo in un secondo tempo. In un moto di rabbia impossibile da reprimere aveva estratto con forza il preservativo dal pene cocciutamente barzotto e, mentre il ritardante schizzava da tutte le parti insozzando cruscotto e sedili e vetri, girata la manopola del finestrino l’aveva scaraventato fuori dall’abitacolo, centrando in pieno un tombino un po’ divelto ancora risparmiato dai ripetuti lanci delle di lei colleghe e dei loro clienti,
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ma poi ci aveva ripensato e siccome dabbasso intuiva tenui segnali d’una vita autonoma le sussurrò lascivamente: «Scartane un altro gioia, mi sa che mi tira». Così i preservativi sprecati al momento erano già due, e di tornare a casa ancora non se ne parlava. «Almeno fammi scendere, un passaggio prima o poi lo trovo», l’aveva supplicato in preda a una crisi isterica, ma lui niente: imperterrito continuava a manipolarle una tetta con una mano, mentre con l’altra si pompava vanamente. La sua fidanzata si era recata al lavoro nel tardo pomeriggio e Sexaplomb, incapace di sopportare la veglia durante lo scempio che si consumava giorno per giorno ai suoi danni, aveva pensato bene di farsi un pisolino. Quando la sua bella saliva sul taxi e si faceva lasciare sul lungofiume accanto al canneto e lui restava solo in casa e non avendo uno straccio di macchina nel caso in cui con le buone o con le cattive avesse voluto andare a riprendersela e proprio non riusciva a non pensare a ciò che stava facendo, automaticamente gli veniva di pensare a Borges, secondo cui nessun evento accade contemporaneamente a un altro, e a Warhol, che in casi di questo genere suggeriva di cambiare canale, ma Borges diceva pure che il dolore non è cumulativo, e quindi tutto il dolore che si può provare è quello contenuto nel cuore d’un solo uomo, e Warhol passò presto alla più stupefacente delle pay-TV, cosa che avrebbe fatto anche lui se avesse avuto la disponibilità economica del pittore, ma se ce l’avesse avuta forse non sarebbe stato costretto a cambiare canale, in più illudendosi che non possono esistere eventi contemporanei, stupidamente, ché la comunicazione in tempo reale ha dimostrato l’esatto contrario e tra breve ne avrebbe avuto un dolorosissimo assaggio. Per cui preferiva dormire. Per lui dormire era pregustare la pace dei sensi promessagli dalla sua stessa natura d’essere umano finito geneticamente condannato all’oblio, dormire era per lui la fine del bel turbinio di emozioni che costantemente lo destabilizzavano nei precordi, minandogli nelle fondamenta il sistema nervoso. Ora però era sveglissimo e in culo a Warhol e Borges per non pensare a ciò che avrebbe visto se solo si fosse recato sul luogo del delitto, aveva infine deciso di darsi una bella lavata: le abluzioni erano durate a lungo, protratte dalla paura di ritrovarsi in casa con le mani in mano, ma quand’era uscito dal bagno, per resistere ancora un po’ alla tentazione di sapere come stavano andando al momento le cose sul lungofiume, aveva ripercorso mentalmente tutte le tappe più significative della loro unione.
RoBERTo MARINuCCI
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Gerardo Rizzo
Imperfezioni 01000111 01100101 01110010 01100001 01110010 01100100 01101111 00100000 01010010 01101001 01111010 01111010 01101111 00001010 01001001 01101101 01110000 01100101 01110010 01100110 01100101 01111010 01101001 01101111 01101110 01101001
I piedi freddi sull’impiantito, lo spiffero raggelante sul collo, l’umore ne risente un poco ma ormai ha capito cosa voleva dire quel fuori dal letto nessuna pietà alla radio tanti anni fa. Da quella certa sera un trambusto inusuale coinvolge tutti i componenti della famiglia Venduti. Al mattino. Li trova così, verdastri e giallognoli intorno al tavolo della cucina per la colazione. «Papà… buongiorno». «Ciao, come va? Hai dormito bene?» «Sì, forse mi sono raffreddato un poco». «non tirare su col naso, soffiati, lo vedi che non ti copri abbastanza». Un mormorio dall’altra parte del tavolo. «non è che per caso bisognava pagare il riscaldamento…» «no. non è così, il riscaldamento non serve , di notte, se uno si copre». «Anfatti…» la mamma sovrappensiero col pentolino del latte in mano, che scotta, in bilico con quello del caffè, ormai freddo, nell’altra e tradisce dicendo così le sue origini del sud di proposito, come di proposito esibisce la sua disapprovazione. Ridono tutti. E a quel punto anche il burbero, invasato, molto compreso del ruolo, capofamiglia sorride sciogliendo pezzi di pane duro, scordato, nel cicarone del latte con quel poco di caffè che lo colora. È una mattina come tante da due mesi a questa parte in casa Venduti. La mamma Genevieve che non approva, l’entusiasta oltre l’immaginabile figlietto Totò decenne di molte qualità e di altrettanta volontà, la murmure sfinge di là dal tavolo, silente e impenetrabile principessa Sissi figlietta primogenita, e il padre orgoglioso e sprov-
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veduto emblematico schema di essere umano moderno con un piede nel passato e lo sguardo vacuo e confuso verso un futuro apparentemente minaccioso ma forse solo indifferente. Un uomo senza sostanza e senza speranza come tanti. Come i suoi amici. Come i suoi conoscenti. Come i suoi nemici. Come i suoi parenti. «Chi accompagno? Siete pronti?» Col passo stanco di certe mattine livide Gianfranco Venduti si avvia alla porta di casa. Un bacio svogliato, un’occhiata svelta al vestito della moglie a valutarne le generose scollature o le micro gonne che si usano oggi per andare a lavorare. «E tu quando esci? non farai tardi?» «no, ti dico che mi viene a prendere Gabriella». Quell’altra sbroccata, separata da un marito che odia da cent’anni ma molto presente tutt’ora nei suoi pensieri “di com’era ieri e anche per te”. Appena fuori il cancello, la faticosa realtà dell’accompagnamento quotidiano dei figli a scuola cala la sua mannaia fatta di mani gelate, ombrelli aperti, pozzanghere fangose da evitare per i due tre chilometri di tragitto a piedi fino al traguardo. Un passo indietro, però, si rende necessario. La sera del tre ottobre 2008, a casa Venduti accadde quello che in altre case normali, in altri quartieri, in altre città sarebbe stato derubricato ad avvenimento consueto, a incidente serale di poco conto. Si tirarunu a luci. Era andata via la corrente. Erano giorni di blackout frequenti, i telegiornali riferivano di accordi internazionali non onorati, il gas della Russia, quei coglioni dell’Ucraina, e l’America ci marciava. Putin avvelenava il capo dello stato avversario che sopravviveva per miracolo e una certa bellissima Giulia prendeva le redini del governo con le trecce compostamente annodate sul capo, un vestito tradizionale casto e sexy di colore arancione, avvolgeva di occhiate timorose e ossequianti l’ex leader butterato, un gran casino insomma. Razionamenti si auspicavano, prevedevano, i politici si rimbrottavano gli uni gli altri. Responsabilità diffuse, imprevedibili. Imprendibili i veri fatti ai telespettatori dei telegiornali, agli ascoltatori delle radio, ai lettori dei quotidiani. Crisi internazionale, crisi locale, bollette da aumentare, già stratosferiche peraltro. Comunque, palla al balzo. Quella sera al lume di candela il silenzio fu interrotto da una voce profonda meditata dal piano di sotto, dal soggiorno.
GERARDo RIzzo
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Anna Profumo
Blackout 01000001 01101110 01101110 01100001 00100000 01010000 01110010 01101111 01100110 01110101 01101101 01101111 00001010 01000010 01101100 01100001 01100011 01101011 01101111 01110101 01110100
Squilla, squilla e non risponde. «Ho sentito, dammi il tempo di arrivare». Da quando il comando vocale per la risposta si è rotto deve fare le corse. Quando entra nella stanza il volto di Daniel è già apparso sulla parete, le labbra si muovono ma non sente la voce, l’apparecchio sta già registrando. Legge il labiale: «Fatti bella stasera che si va a mangiar fuori». Lo richiama. Squilla una sola volta. «non voglio uscire stasera». «non c’è problema, restiamo a casa». «Allora, va bene». «Lucy?» «Sì?» «Fatti bella stasera, ho voglia di te!» Lo sapeva. Uscire era una scusa. Sono anni che finge che tutto vada bene, che tutto sia normale. E dove potrebbero mai andare, lui è a ottomila chilometri di distanza. Di nuovo un uscita virtuale. Come può ancora credere di salire nella sua auto. Lui che la bacia. La stringe. Lei che scende dalla macchina ed entra al ristorante giapponese al suo braccio. Salutano Makoto, il titolare, che li fa accomodare. Mangia sushi contro il muro nella sua cucina, illudendosi di guardarlo negli occhi. «E tutto per portarmi a letto», pensa, «quale letto, poi, sono anni che non faccio l’amore con lui, quella tuta mi ha fatto anche venire una dermatite allergica che non se ne è più andata, e lui neanche si è accorto che schiaccio un bottone e lo faccio scopare con il mio olo-
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gramma. Quando è stata l’ultima volta che abbiamo veramente dormito nello stesso letto? Dovrei interromperla questa storia, adesso che c’è Lucas». Ecco, questo pensiero la distoglie. Sta per rientrare e deve organizzarsi. Il suo ologramma è ancora impegnato con il telelavoro – se la cava bene – oramai deve intervenire raramente. Accende il robot. Il nutrizionista appare non appena la spia rossa smette di lampeggiare. Consiglia un piatto leggero, scaloppine al limone, con contorno di carotine al vapore. Seleziona gli ingredienti che indica sulla scheda e invia la richiesta on line allo store-express che tra poco le consegnerà tutto a casa. Con Lucas si sono conosciuti in un locale per persone sole. Uno di quelli in cui gli avventori sono ologrammi a pagamento. Hanno parlato per ore senza capire che erano entrambi umani. L’hanno scoperto al momento del conto, per tutti e due lo scontrino era zero cent. Un leggero bip bip avverte della consegna dallo store-express. Apre il portello e preleva la scatola. Lava via la confezione, basta un po’ d’acqua e la carne liberata dalla protezione molecolare recupera idratazione e volume. Così fa per le altre cose. Il robot è sempre acceso, infila gli ingredienti nell’oblò aperto, chiude e schiaccia play. Appare la luce per la selezione del dessert. «Il dolce no. Il medico me l’ha proibito», dice, e la spia si spegne. Suonano alla porta, è Lucas. Anche oggi ha scordato le chiavi. Dal blackout funziona la metà delle apparecchiature in città. Loro sono stati colpiti in maniera minima, ma finché non verranno a fare la manutenzione, la lettura delle impronte della mano non funzionerà. In questo periodo Lucas, è totalmente assorbito dal lavoro, è da sette anni alla guida del gruppo di lavoro per la progettazione della serra orbitante. Ormai è quasi terminata, in orbita e funzionante. Pochi secondi prima che la porta si apra, avvia i comandi perché un suo ologramma si presenti all’appuntamento con Daniel. Lucas passa nel tunnel di accesso e la doccia si attiva. Lo attende all’uscita. Lei le passa la mano intorno al fianco, lui devia il pancione sporgendosi di lato e la bacia sulla guancia. Hanno questo modo affettuoso di salutarsi. Un solo bacio, sulla guancia destra. Lucas aggiunge un annusata. Il suo profumo gli fa perdere la testa. Continua ad annusarla, con un gesto istintivo e selvatico. Lucas è il padre di suo figlio. Sta lavorando a questo progetto grandioso che migliorerà la vita di tutto il pianeta. Quando le aveva chie-
ANNA PRoFuMo
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Andrea Bonvicini
Perdere un treno 01000001 01101110 01100100 01110010 01100101 01100001 00100000 01000010 01101111 01101110 01110110 01101001 01100011 01101001 01101110 01101001 00001010 01010000 01100101 01110010 01100100 01100101 01110010 01100101 00100000 01110101 01101110 00100000 01110100 01110010 01100101 01101110 01101111
‘La Rete neurale garantisce il Controllo assoluto, a noi la vigilanza su milioni di vite’. La scritta passò lampeggiando sull’immenso video che occupava l’intera parete davanti a lui. Era una delle sue massime preferite. Doc Thickman gettò un occhio alla schiera di supervisori del traffico curvi sulle loro postazioni. Tutto procedeva nella normalità. Decise di concedersi una pausa ed estrasse dal cassetto inferiore un pesante faldone con una chiusura di sicurezza. Il volume vibrò sotto la mano mentre il sistema interno scansionava la rete di intrecci venosi del palmo per eseguire il riconoscimento. Il meccanismo si aprì davanti a lui con una lentezza che gli parve quasi deferenza. Anni di sforzi e di sacrifici erano raccolti in quelle carte, un viaggio nella memoria e nel suo impegno quotidiano. Estrasse il ritaglio di giornale che apriva la raccolta Decreto ONu per bloccare il collasso: tutti in Australia! Dieci anni prima aveva avuto l’intuizione: un’unica megalopoli sotterranea avrebbe ospitato tutta la popolazione mondiale sopravvissuta, quasi due miliardi di persone e i mezzi di trasporto sarebbero stati di importanza vitale. Serviva una nuova generazione di strumenti di controllo del traffico. Gli appunti gli scorrevano tra le mani. Una nota dal tratto violento tracciata di pugno sul margine di una delle prime relazioni diceva: ‘È nostro dovere far sì che nulla vada fuori controllo’. Le parole dovere e nulla erano sottolineate più volte. Se l’era studiato d’effetto il suo intervento all’OnU: «Ho calcolato il numero di rilevazioni l’ora di cui ho bisogno. non esiste oggi un sistema di sensori che ci permette di avere questi dati. Ma io posso crearlo».
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Le gallerie della metro-mondiale saranno un sistema chiuso, in cui sensori nanotecnologici comunicheranno tra di loro fluttuando nell’aria. Misureremo tutto. «Ora capiamo un po’ meglio, dottor Thickman», interloquì il Presidente dell’OnU, «ma, così, per curiosità, quanti sarebbero questi sensori?» «Beh, sì, a dire il vero ne servono davvero parecchi: direi, uhm… circa sedici milioni di miliardi di miliardi di sensori-naufraghi nelle gallerie dell’intero continente». «E lei sarà di certo così gentile da scriverci il numero, vero?» «Veramente non aspettavo altro». Andò alla parete di fronte e tracciò un bel sedici seguito da ventiquattro zeri. Ci mise un po’. «Ma è solo una stima», disse posando il pennarello e uscendo. Ripose il fascicolo e il faldone e la chiusura di sicurezza scattò. Fu a tarda sera che cominciò a riscontrare dei problemi: il conteggio dei treni non tornava. Il sottosistema di monitoraggio attività dava un numero, ma non era lo stesso che risultava dal sottosistema di posizionamento. C’era poco da dire: mancava un treno, e la Rete neurale non gradiva quell’anomalia. «Cristo», si arrabbiò con sé stesso, «tanti treni sono attivi e altrettanti treni sono sui binari, no? Se non posso fidarmi di questo, di cosa mi devo fidare?» La Rete neurale si stava ribellando, come una bestia a cui sia stata violata la tana. Quel piccolo margine di errore era ormai un cancro in metastasi. “Effetto farfalla”. Vide il disastro che stava per crearsi: una sequenza incontrollabile di sistemi che crollavano uno dietro l’altro, trascinandone con sé altri, a catena. Si precipitò sulla tastiera del tecnico più vicino e aprì tutte le diciassette sessioni principali di controllo. Disattivò il software di protezione e cominciò a lavorare senza protezione sui byte di esecuzione. Era come operare a cuore aperto, ma il paziente era grande come l’intera popolazione mondiale. Sudava abbondantemente, mentre una voce gli strillava dentro: «Più in fretta, più in fretta, dipende da te, solo da te, devi farlo». Spacchettò le procedure e le assemblò daccapo. Qualcosa di nuovo e di unico stava nascendo. Gli ci vollero un paio d’ore, ma alla fine pensò di avercela fatta. I sistemi erano stabili. Quando chiuse le console la sala di controllo guardò a lui come a un dio, il dio della programmazione. Il collasso dell’intero sistema di trasporto della megalopoli mondiale era scongiurato.
ANDREA BoNVICINI
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Vittorio Rainone
L’uomo interattivo 01010110 01101001 01110100 01110100 01101111 01110010 01101001 01101111 00100000 01010010 01100001 01101001 01101110 01101111 01101110 01100101 00001010 01001100 00011001 01110101 01101111 01101101 01101111 00100000 01101001 01101110 01110100 01100101 01110010 01100001 01110100 01110100 01101001 01110110 01101111
È il mio primo giorno. Sono nella sala che chiamano “di lancio”, quella dove ti prepari. Armadi in finto acero pieni di vestiti, mattonelle bianche di qualcosa che assomiglia al marmo, pareti color crema. C’è l’ordine che vogliono mostrare al pubblico, quando organizzano le visite di presentazione. L’intero edificio ripete elementi di arredamento analoghi, concedendosi variazioni minime, funzionali ai diversi reparti. La chiamano “logica a texture”: se ci cammini dentro è tutto rassicurante come nell’ultima versione di Virtual Planet. non ci sono imperfezioni che saltano all’occhio, nessuna anomalia o dettaglio caotico. Una volta mio padre mi parlò del concetto di pittoresco. Mentre me ne parlava, potevo sentire la sua passione, romantica, quasi fanciullesca. Chissà quanto mi avrà maledetto, quando ha saputo che sono approdato all’agenzia. Lo specchio mi restituisce una giacca stirata, la cravatta di seta che sto annodando con cura, la camicia azzurra che scende in pieghe morbide fino alla cinta di pelle sintetica. Provo un sorriso e ripeto la storia di base nei punti fondamentali. Ce la farò: mi pagano troppo perché non succeda. Percorro il corridoio al rallentatore, sfioro la parete e mantengo lo sguardo fisso davanti a me. Un trillo. Guardo il palmare: è Maria che mi saluta, dice di star bene, ha incontrato uno a posto ieri, sono andati su nuovo Giove. Immancabile giro in superficie, uno sguardo al cielo rosso che si vede da lì. Stava per attivare la modalità sensoriale, poi ha pensato che al primo incontro è troppo presto per un contatto, seppure indiretto. Le rispondo ‘certo, hai ragione , ma che sia so-
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lo al primo appuntamento’. Guardo nella sua direzione, è proprio accanto a me, all’altezza della porta che conduce all’open space delle risorse umane. Digita veloce sul suo palmare: ‘Stupido, non sono mica una di quelle. E smettila di sbirciare’. Aggiunge: ‘Comunque in bocca al lupo. Quando guadagnerò abbastanza, ti affitto io’. Chiudo la comunicazione con un: ‘A disposizione :)’.
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Il bar si chiama Lou. I caratteri arrotondati del neon sormontano una tettoia metallica, dipinta di rosso, sotto cui si distende una vetrata liscia e morbida, come in un vecchio dipinto di Hopper. L’interno è un lungo bancone, un pavimento a scacchi bianchi e neri, poltrone rosse, tavolini in formica guarniti di sale, zucchero, olio, salse. Qualche avventore consuma al banco con gesti automatici, nel giallo diffuso di luci riflesse, mano al telefonino, occhiali accesi e la solita aria di essere altrove. Quando entro, il contatore aggiunge la mia unità alla popolazione del locale, compitando il totale col sussurro di una voce femminile. Conto gli sgabelli e siedo al quinto, registro la sua presenza alla mia destra: si chiama Chiara, è alta un metro e sessantatre, corporatura minuta, capelli neri a caschetto, occhi azzurri, naso appuntito e mento che sporge lieve. nei filmati del dossier aveva un’aria smarrita. Mi hanno spiegato che è normale: soprattutto all’inizio, quando si collezionano i primi dati biografici. È difficile raccontarsi davanti a una telecamera, anche se sei tu a volerlo. La guardo dallo specchio accanto alla macchina del caffè, lei e il suo enorme milk shake, le dita strette intorno al bicchiere. Sorseggia in brevi risucchi. Mi sporgo fino a che il mio indice teso non arriva a meno di venti centimetri dalla sua spalla destra, schiarisco la voce e chiedo la zuccheriera. Si volta. «Ma non ha ordinato nulla. A cosa le serve lo zucchero?» I miei occhiali sono accesi da qualche minuto, i dati scorrono in sovrimpressione: la sua temperatura è nella norma, sudorazione leggera, in aumento, la bocca trema un po’, alzandosi sulla destra, verso lo zigomo. Ci sono altri elementi che non colgo, millimetri quadri del suo volto che si spostano. L’algoritmo neurale lavora per me, mi fornisce la sua diagnosi istantanea: i tre descrittori di umore compaiono sulla destra, in rapida successione. Incerta, imbarazzata, curiosa. Una miscela positiva. L’indicatore numerico riassuntivo è vicino a cento e si mostra in caratteri verdi brillanti. Per mesi questa
VITToRIo RAINoNE
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Zaph & Torque Lanzidei
L’officina 01011010 01100001 01110000 01101000 00100000 00100110 00100000 01010100 01101111 01110010 01110001 01110101 01100101 00100000 01001100 01100001 01101110 01111010 01101001 01100100 01100101 01101001 00001010 01001100 00011001 01101111 01100110 01100110 01101001 01100011 01101001 01101110 01100001
Ho conosciuto Bill Gates nel 2003, in un assolato pomeriggio di fine gennaio. A nettuno. Rientravo al lavoro dopo la pausa pranzo – arrivo sempre dieci minuti prima all’officina di zio Mario per prendermi un caffè in santa pace – e quando ho girato l’angolo di via Montesanto c’era questa enorme limousine nera bloccata in mezzo alla stradina, con gli specchietti che sfioravano da una parte le macchine parcheggiate, dall’altra i muri delle case. Le ruote di sinistra si erano incagliate sul bordo del marciapiede. La testa dell’autista sporgeva dal finestrino ed era tutto un fiorire di «fucking» e «bastard» e «hell». I vetri dietro erano oscurati e non si riusciva a vedere il passeggero. Ma – chiunque fosse – era impossibilitato a uscire. Irrimediabilmente incastrato. Mi sono avvicinato e ho battuto la mano sul portabagagli per attirare l’attenzione dell’autista. «Follow me», gli ho detto. Ha alzato lo sguardo dalle ruote. La fronte lucida di sudore. Mentre alzavo le braccia e lo direzionavo a forza di «a little right» e «a little left», nel millimetrico pertugio che gli era rimasto libero, sembravo un addetto all’atterraggio di un boeing. Alla fine è riuscito a uscire a marcia indietro e l’ho fatto sistemare all’inizio della strada. «Park here», gli ho detto. Ha spento il motore ed è uscito sbuffando dalla macchina. Lo sportello posteriore si è aperto prima che lui potesse fare il giro della limousine e il passeggero è sceso. Sembrava stupito mentre guardava le case intorno. Come se si fosse aspettato di trovarsi in un altro posto.
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«I’m sorry, mister Gates», tentava di dire l’autista. Ma quello lo aveva già tacitato con un gesto e aveva detto – rivolto verso di me – «I’m looking for mister Orlandi». Mi chiedevo se avesse usato così disinvoltamente la sua lingua per chiedere un’informazione a causa della padronanza che avevo dimostrato nel dirigere la manovra, per il colore della mia pelle – per cui un nero a nettuno, Italia, Lazio, vicino Roma, deve per forza sapere l’inglese – o per un’abitudine a essere capito e obbedito in ogni parte del mondo. «Lenny», aveva strillato Giorgio passandomi accanto in motorino, «ma che te sì comprato la machina nova?» Mi chiamano Lenny in questo quartiere – come Lenny Randle, un interbase che giocava nel nettuno Baseball negli anni Ottanta – perché pare che gli somiglio come una goccia d’acqua. Però io una foto sua dell’epoca l’ho vista e – a parte i capelli e il colore della pelle – tutta sta somiglianza proprio non ce la vedo. E, pure col baseball, non piglio una palla nemmeno se me la tengono ferma. Comunque sto Gates deve essere proprio uno fortunato perché – a parte la lingua e la manovra risolutiva con la macchina – la persona che stava cercando era proprio il mio datore di lavoro, quindi gli ho fatto cenno di seguirmi e ci siamo infilati di nuovo – a piedi, stavolta – nella stradina. Ho suonato al citofono e, quando mi hanno aperto, ho strillato: «Zi’ Ma’, c’è ‘n americano che te cerca!» Siamo entrati, Bill Gates e il suo autista che mi seguivano. Zio Mario ad aspettare sulla porta che separa casa sua da quella che lui ha sempre chiamato ‘l’officina’. non gli è mai piaciuto il nome che usano tutti qui a nettuno, centro assistenza, – «mica semo psicologi», dice sempre, e si fa una risata delle sue – e ha sempre voluto che tutti la chiamassero così. Officina. Le presentazioni si sono svolte con molta difficoltà. Zio Mario non capiva una parola di inglese e BIll Gates non conosceva una parola d’italiano. «A more’, mica me vorrai lascia’ da solo», ha detto quando ho cercato di avviarmi dentro l’officina, «finiamo di parlare col signor Gates e poi torniamo a lavorare, va bene?» Aspettava solo che gli rispondessi. Infatti, appena ho fatto un cenno d’assenso con la testa, ha detto: «Di’ al signor Gates che s’accomodi in salone, arrivo subito». Mentre io e l’autista abbiamo preso posto, Gates è rimasto in piedi e ha fatto il giro della stanza per guardare da vicino le decine di foto dei figli e dei nipoti che Zio Mario ha incorniciato e appeso alle pareti. Dopo qualche minuto è entrato con la moglie Giovanna che si te-
zAPh
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ToRquE LANzIDEI
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Edoardo Micati
Chissà, forse riuscirò a toccare i cento 01000101 01100100 01101111 01100001 01110010 01100100 01101111 00100000 01001101 01101001 01100011 01100001 01110100 01101001 00001010 01000011 01101000 01101001 01110011 01110011 11100000 00101100 00100000 01100110 01101111 01110010 01110011 01100101 00100000 01110010 01101001 01110101 01110011 01100011 01101001
Da un po’ di tempo partecipo alle iniziative dell’Anonima Scrittori, dai racconti di (r)esistenza, a quelli di Fototerapia e di Modica Quantità, con le varie pillole. Aderisco sempre. Poi è sopraggiunto Il bit dell’avvenire, un impegno importante. Quindi spremitura di meningi alla ricerca di storie fantasiose, tecnologicamente avanzatissime. E così ho imbastito il Recuperatore d’immagini nel quale un programmatore di computer s’inventa degli occhiali portentosi per riuscire a leggere nel pensiero di chi gli sta davanti. È uno che vuole fare subito soldi. Organizza quindi una rapina in banca. il colpo gli riesce, ma poi la storia s’ingarbuglia e la lascio perdere. Che buffo, proprio mentre sto scrivendo per Il bit dell’avvenire il computer si scassa, fortuna che c’è quello di Michele, che però è dispettoso, a un certo punto, senza che glielo ordinassi, s’è messo a scrivere in corsivo, vorrà dire che andrò avanti così fino a quando non tornerà mio figlio. Nuova scervellata, ma niente. Poi, improvvisa, inaspettata, è arrivata quella giusta. E pensare che l’avevo a portata di petto. Direte: ma che vai dicendo, Edoardo, di petto? Proprio così, ognuno ha il vezzo di mettere le mani sul suo corpo. C’è chi le passa fra i capelli, si tocca il mento, una carezza sulla pancetta, io le porto al petto, là dove c’è sistemata sotto pelle una scatoletta magica. Ce l’ho da un anno e mezzo, prima ero uno che andava avanti senza sapere d’avere la morte accanto. A dire il vero, nel paesino dove son venuto ad abitare da circa cinque anni – per avere un affitto più basso rispetto a Lecce – i segnali della gente che muore si notano più che in città. Qui c’è un’unica chiesa, le sue campane da tempo immemorabile scandi-
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scono tutte le ore del giorno, persino i quarti, ma quando al pomeriggio suonano a morte tutti sanno che un paesano se ne è andato. ‘Però, sto cavolo di computer, avrà un’anima provocatoria, infatti è tornato a essere normale.’ Come dicevo, prima avevo la morte accanto, ma l’ho scoperto soltanto nel febbraio dell’anno scorso. Una mattina, durante la solita camminata a passo spedito nei viottoli di campagna, la morte si fece sentire. Mi ritrovai a terra, gli occhi che fissavano il cielo. Attorno avevo ulivi secolari, tronchi contorti che ruotavano vorticosamente. Figure spettrali, terrificanti. Durò non più d’un minuto, un’eternità. Riuscii a rialzarmi e dopo dieci minuti ero in farmacia per misurarmi la pressione. Vivevo solo allora. Franca, mia moglie, era a Messina da circa venti giorni per assistere la madre, novantatreenne, che s’era rotta il femore. «Edoardo, andiamo male», disse la farmacista, «28 i battiti, 190 la massima, 90 la minima, consulta subito il tuo medico». «Una visita cardiologica è necessaria, anzi urgente», mi disse il dottor Corina, «ma non te la daranno prima di un mese, in tal caso ti consiglio il dottor Pellegrino, è un bravissimo cardiologo». Al Centro unico di prenotazione della ASL mi confermarono che, nonostante l’urgenza, potevo essere sottoposto a visita cardiologica non prima di 36 giorni dalla richiesta, mentre il dottor Pellegrino, della Casa di cura Città di Lecce, una struttura privata, mi visitò tre giorni dopo. Il 19 febbraio. Studio del dottor Pellegrino. «Signor Edoardo, lei ha una cardiomiopatia dilatativa con severa disfunzione ventricolare sinistra. nel suo caso, i bassissimi battiti avrebbero dovuto crearle situazioni di frequenti capogiri, persino svenimenti. Diciamo che è stato un uomo fortunato, fortunato, lo ripeto, perché un possibile infarto era in agguato. In pratica, la funzione del suo cuore è al 24 per cento». «Quindi il rimanente settantasei…» «no, non funziona così. La misurazione è su base cinquanta. Lunedì prossimo alle nove la aspetto nel nostro centro. La ricoveriamo per tutti gli accertamenti e per l’installazione di un impianto di defibrillazione». «Un pacemaker». «Qualcosa del genere, ma più sofisticato». L’intervento. Circa tre ore in anestesia locale. Incisione sottocutanea al pettorale sinistro, via d’accesso: Vena Succlavia Sinistra. Ca-
EDoARDo MICATI
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Assemblaggio narrativo a cura di
Anonima Scrittori
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I caratteri rossi che lampeggiavano a video alternando Premere start per cominciare a Press start to play dicevano che tutto era pronto. La voce vagamente femminile scandì le parole lentamente: «Attenzione, l’azione avrà inizio in… cinque… quattro… tre… due… uno… ora». Ancora oggi c’è gente che viene presa dal panico quando pensa all’universo, alle stelle, alle profondità galattiche. Io sono solo. Ho bisogno di essere solo, non c’è niente da fare. Ho sempre guardato al cielo in tutte le tonalità dei suoi blu come fosse il sangue che scorre nelle vene di Dio. E così ho scoperto di saper levitare senza avere le carte in regola. Sono tornato senza strappi sul marciapiede, cercando di capire cosa fosse successo. L’auto fu inghiottita dal ventre della montagna, giù per lo scivolo la luce al magnesio sembrava servire da decompressione e lavacro per eventuali pensieri impuri o emozioni importune. nessuno sapeva se, oltre il confine che separa la Via Lattea dalle migliaia di galassie che trapuntano l’universo, i profughi avessero trovato il loro eldorado. non si finisce mai di essere immigrati, c’è sempre qualcuno che trova nel tuo cognome la radice che ti porta fuori dagli attuali confini, come se le tue mani non potessero mai lavorare nel giusto modo terra o ferro, come se le tue parole fossero sempre e per sempre inquinate. È difficile raccontarsi davanti a una telecamera, anche se sei tu a volerlo.
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Alla tecnologia ci si abitua velocemente e quella della passeggiata in automobile, tutti bardati a festa per la funzione domenicale, divenne presto un appuntamento irrinunciabile L’automobile mi portava via tempo prezioso. Dovevo essere attento a sfruttare il minimo varco tra un’auto e l’altra solo per poter conquistare qualche metro nella processione quotidiana verso il posto di lavoro. Prima e seconda, prima e seconda, le altre marce erano diventate inutili e mi chiedevo che senso avessero. In questa strada i palazzi sembrano tutti uguali, alti non più di tre piani con una cortina di fitti mattoncini colore terra bruciata che li rende omogenei e compatti. Ma sempre rosso sto semaforo? E il bello è che è rosso anche quando arrivo da lì, dalla strada perpendicolare a questa, un mistero. Ecco cosa dovrebbero inventare, il semaforo che fa passare tutti senza incidenti, altro che scemenze con calciatori e robot. La Rete neurale si stava ribellando, come una bestia a cui sia stata violata la tana. Quel piccolo margine di errore era ormai un cancro in metastasi. “Effetto farfalla”. Vide il disastro che stava per crearsi: una sequenza incontrollabile di sistemi che crollavano uno dietro l’altro, trascinandone con sé altri, a catena. Accidenti! C’è un numero d’emergenza per tutto: per i clienti Tim, per i Vodafone, per gli Wind, numeri verdi per i prestiti, scambi di coppie, salute… ma un numero per tirarsi fuori da una giornata di merda proprio non c’è? La verità è che nessuno, a questo mondo, si accontenta di fare la comparsa. Ultimi figli del boom economico, nei giochi basati sull’avventura e l’immaginazione passavamo con indifferenza dall’essere gli ultimi cowboys in lotta contro gli indiani al sentirci astronauti impegnati nell’esplorazione di lontane galassie. Sembra di stare dentro una bolla d’aria stamane. Dal mondo non arrivano segnali: nessuna voce, nessun rumore di città, nessun noiosissimo ronzio. Sarà che ieri era l’ultimo giorno dell’anno e in casa dormono tutti. Tutti tranne neruda, ovviamente. non c’era nessuna voce. nessun telegiornale. nessuna notizia. Solo lo sfarfallio, in bianco e nero. Dovevo scrivere la tesi di laurea assolutamente, avevo pochi giorni ancora per farlo. Il computer comodo sul suo tavolino giaceva immobile. Impallato. non ne voleva sapere della mia tesi e neppure della mia ansia.
ANoNIMA SCRITToRI
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Giancarlo Baroni
Appunti di viaggio in Fiandra 01000111 00100000 01110000 00100000 01101001
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I – Beaune Il cancelliere Rolin e la moglie fondano a Beaune un confortevole ospedale per i poveri; la cappella contiene il Giudizio universale del pittore fiammingo Rogier van der Weyden. Per assicurarci il Paradiso abbiamo creato un ospizio per i piÚ poveri. Vengono dalla Borgogna per trovare non semplici elemosine ma un letto con coperta e cassapanca e un luccicante piatto di peltro. Il pane serve per raccogliere dal fondo la minestra in vista del secondo. Certe volte con mia moglie ci chiediamo se il paradiso vero non sia quello che ogni giorno destiniamo a questi derelitti. Ci priviamo di tutto per soccorrerli. Ma le anime ritratte da der Weyden da una parte le elette in basso le dannate ci confortano delle nostre scelte.
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II – Il farmacista Si racconta che un farmacista, durante la Rivoluzione francese, abbia distrutto le statue del portale di Notre-Dame a Digione. Scendo le scale di casa subito dopo avere chiuso il negozio e porto con me un martello. In bilico sulla scala stacco facce di santi corpi di eremiti dalla facciata scolpita della chiesa. [160]
La piccozza è una medicina che libera le anime dei cittadini dai falsi pregiudizi.
III – Bruxelles 1695. Luigi XIV rade al suolo la grande piazza che viene ricostruita in pochi anni più sfarzosa di prima. Sire Luigi l’arrogante la nostra piazza che avete cercato di distruggere l’abbiamo ricostruita in pochi anni. Il legno delle case è diventato pietre scolpite. San Michele che ci protegge contendendo le anime al demonio ha sottratto la piazza alle vostre mire voi che vi ritenete sire cristianissimo e siete invece vassallo del malefico.
GIANCARLo BARoNI
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Gli autori
Note biografiche 01000111 01101100 01101001 00100000 01100001 01110101 01110100 01101111 01110010 01101001 00001101 00001010 01001110 01101111 01110100 01100101 00100000 01100010 01101001 01101111 01100111 01110010 01100001 01100110 01101001 01100011 01101000 01100101
Marco Berrettini (Monza, 8 ottobre 1961) Ha pubblicato Non so nemmeno con chi su Lama e Trama 4 (2007, Zona) e Dammi quattro diamanti su Storie di (r)esistenza (2008, L’Argonauta). Nicola Villa (Roma, 3 maggio 1984) Collabora con la rivista di arte Suole di Vento, con Omero.it e con altre riviste. Giorgio Galetto (Latina, 25 marzo 1975) Insegnante di Lettere classiche a Roma. Ha vinto il concorso poetico noi Poeti. Ha pubblicato l’articolo Bontempelli e il Sudamerica sul numero 16 della rivista L’illuminato del dipartimento di Italianistica dell’università La Sapienza di Roma e Il mito e il successo dell’anonimo sul numero 8 della rivista on line Fili d’aquilone. Lorenzo Pavolini (Roma, 1964) È redattore della rivista Nuovi Argomenti e collabora con Lo straniero. Ha pubblicato i romanzi Senza rivoluzione (1997, Giunti) e Essere pronto (2005, PeQuod). Ha anche curato l’antologia Italville – New Italian Writing (2005, Exile Edition). Alla regia ha al suo attivo il documentario sonoro Ninnananna di Natale, musica e storie dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Collabora con RadioRai 3 e con la casa editrice Laterza. È nel comitato artistico del Mercadante, teatro stabile di napoli. Stefano Carbini (Marino, Roma, 21 luglio 1959) Vive e lavora a Roma come consulente informatico. Coltiva l’hobby della grafica 3D. È stato primo classificato al concorso (r)esistenza 2009.
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Antonio Pennacchi (Latina, 10 settembre 1950) Ex operaio, ora scrittore. Sposato, due figlie e una nipote. Da ragazzo è stato iscritto al MSI, ne viene espulso e aderisce ai marxisti-leninisti di Servire il popolo. Viene espulso nel 1983, in maniera definitiva, dalla CGIL. Tra i suoi romanzi Mammut (1994, Donzelli), Palude (1995, Donzelli), Il fasciocomunista (2003, Mondadori). Collabora con LiMes. Suoi scritti sono apparsi su Nuovi Argomenti, Micromega, La Nouvelle Revue Française. Dal suo libro Il fasciocomunista è stato liberamente tratto il film Mio fratello è figlio unico, regia di Daniele Luchetti.
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Stefano Tevini (Brescia, 1981) Si laurea in filosofia nel 2004. Terzo classificato al concorso (r)esistenza 2009, con il racconto Il giardiniere. Appassionato di wrestling, aspira a diventare un professionista. nel frattempo ammazza il tempo lavorando. Ama i fumetti. Luca Baldini (Orvieto, 1 gennaio 1953) È architetto e vive a Latina dal 1971. Il suo hobby è leggere. non ha mai pubblicato un racconto, fino ad ora. Camilla Cannarsa (napoli, 14 aprile 1981) Vive a Roma da quasi otto anni. È blogger, redattrice, articolista, copywriter, ma se le chiedete che lavoro fa, lei semplicemente risponde «scrivo per il web». Dopo aver letto all’incirca un milione di libri, ha deciso di avvicinarsi anche alla scrittura creativa. E sembra proprio che le piaccia. Stefano Cardinali (Roma, 1955) Vive a Latina, dove si è trasferito per amore. Ex giocatore di basket. Ama dipingere e scrivere. Secondo classificato nel concorso (r)esistenza 2009, organizzato da Anonima Scrittori. Daniela Rindi (Milano, 29 luglio 1964) Ex attrice di teatro e cinema, ex responsabile ufficio stampa, ex imprenditrice. nel 2007 inizia a scrivere racconti che sono pubblicati da svariate riviste e siti letterari on line. Ha pubblicato racconti su antologie di varie case editrici. Sta scrivendo il suo primo romanzo. Angelo Orlando Meloni (Catania) Vive a Siracusa. Ha scritto la raccolta Ciao campione, Limina edizioni, e il romanzo Io non ci
GLI AuToRI
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volevo venire qui, di prossima pubblicazione con Del Vecchio Editore. Suoi racconti, interventi e recensioni sono apparsi su antologie e riviste letterarie. Antonio Pascale (napoli, 1966) Giornalista e scrittore italiano. È cresciuto a Caserta, ma adesso vive e lavora a Roma. Tra i suoi libri La città distratta (2001, Einaudi), La manutenzione degli affetti (2003, Einaudi), Scienza e sentimento (2008, Einaudi). Suoi scritti sono apparsi su Lo straniero, Nuovi Argomenti e sul quotidiano la Repubblica. Gabriele Santoni (Velletri, Roma, 14 aprile 1977) Dal 1997 al 2001 ha collaborato come redattore del settimanale il Cittadino, distribuito nei Castelli Romani. Vive a Velletri e lavora come assistente di volo. Vedrana Martinovic (Zagabria, 1966) Ha vissuto a Padova, dove è stata ricercatrice universitaria a contratto. Ha pubblicato per la raccolta Racconti di Sisifo – Nuova antologia di classe edita da L’Argonauta. Silvia Mericone (Roma, 13 gennaio 1976) Scrive sceneggiature a fumetti per Cronaca di Topolina. nel 2007 ha vinto il concorso (r)esistenza. nel 2009 ha pubblicato la raccolta di racconti Albina usa un dentifricio spermicida per la casa editrice 9muse. Fabio Brinchi Giusti (Cisterna di Latina, 1990) studia Scienze politiche a La Sapienza di Roma e collabora con il free press locale Incontro e con il sito Wild Italy. Il suo racconto una favola è stato pubblicato nella raccolta Italians – una giornata nel mondo curata da Beppe Severgnini per l’edizione on line del Corriere della Sera. Roberto Marinucci (Civitella del Tronto, 1972) nel 2006 pubblica il racconto breve Apnea nell’antologia del concorso Terzo, non discriminare. nel 2006 è 2° classificato al Premio letterario internazionale Container di Roma. Dal 2006 non scrive e non dipinge più. Dal 2000 è impiegato tecnico in un’azienda del settore tessile. Dal 2003 gestisce con la moglie un negozio etnico e un sexy shop ambulante.
NoTE BIoGRAFIChE
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Gerardo Rizzo (Agrigento, 28 giugno 1966) vive a Latina ed è consulente finanziario. Prima di questo racconto, ha pubblicato il libro Ma che vuoi su www.miolibro.it. Anna Profumo (1968) Pseudonimo di Franca Forzati. Vive attualmente a Latina, di professione designer, questa è la sua prima pubblicazione. Andrea Bonvicini (Trento, 14 maggio 1962) La sua attività lavorativa si svolge a Milano, dove dirige una società di servizi. Pubblica on line nel proprio sito www.comelapioggia.it. Ha vinto i premi Osservatorio 2009 e Racconti nella rete 2009. [166]
Vittorio Rainone (Bari, 1975) Laureato in ingegneria, si trasferisce a Roma, dove per Ibm prima, per Accenture poi, lavora dal 2000 come consulente informatico. Oltre al romanzo Viajera (2008, Akkuaria), due volte vincitore del premio Martucci a Valenzano, è pubblicato in Buia è la Notte vol. III. Zaph&Torque Lanzidei È la nuova sigla con cui si firmano i cugini Massimiliano e Graziano Lanzidei. Il vecchio nome de plum era Mario Orlandi, adesso diventato protagonista del loro racconto. Hanno pubblicato diversi racconti in varie antologie: Dittatore Interinale è stato pubblicato per Storie di (r)esistenza e per Morale della Favola (Purple Press). Edoardo Micati (1 maggio 1936) In pensione dal 2001, dopo 45 anni come rappresentante di commercio su e giù per la Puglia e la Basilicata. Gli piace la fotografia, ama la sua terra, il Salento. Finalmente ha realizzato il suo sogno: pubblicare storie. Giancarlo Baroni (Parma, 1953) Vive e lavora nella sua città natale. Ha pubblicato i romanzi brevi Irene Irene (1982, MobyDick) e Gli amici di Magnus (1996, MobyDick) e le poesie Enciclopatia (1990, Tracce), Simmetrie e altre corrispondenze (2003, Edizioni del Leone), Contraddizioni d’amore (1998, MobyDick), Cambiamenti (2001, MobyDick). Alcuni suoi racconti appaiono nelle raccolte Prospettive di Fuga (1993, MobyDick), Brevemente (1996, MobyDick), Confesso che ho bevuto (2004, DeriveApprodi).
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