Culture del Giappone contemporaneo

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ISBN 978-88-97165-00-2

9 788897 165002

Euro 16,50

Copertina: Mandarinoadv.com Copyright © Tunué

Culture del Giappone contemporaneo

La cultura contemporanea giapponese è un mosaico di arti, professioni, fenomeni di costume e innovazioni che non cessano di stupire gli osservatori occidentali. In questa eccezionale raccolta di saggi, scritti da alcuni dei maggiori esperti italiani, europei, giapponesi sulle culture del Sol Levante, sono passati in rassegna tendenze e temi di settori di enorme rilievo per la cultura giapponese e per il suo posizionamento a livello globale: la narrativa postmodernista, l’architettura di grido, i fumetti (manga) e i disegni animati (anime) che ormai hanno un posto d’onore nell’immaginario giovanile, la letteratura tradizionale, il teatro classico e contemporaneo, la robotica, la controversa immagine «mostruosa» che il paese spesso assume agli occhi degli occidentali, il cinema, l’arte «Neo Pop». Culture del Giappone contemporaneo, curato da Matteo Casari, è un volume che unisce la completezza di un manuale propedeutico per studenti e curiosi sulla cultura del Giappone odierno alla ricchezza negli approfondimenti tipica di uno studio universitario, prezioso sia per la qualità dei contenuti sia per la piacevolezza della lettura.

Matteo Casari (Nogara 1975) è docente di Teatri Orientali presso l’Università di Bologna. I suoi principali interessi scientifici riguardano i generi tradizionali di teatro giapponese indagati privilegiando un approccio antropologico.

A cura di Matteo Casari

Culture del Giappone contemporaneo

Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura

Comprendere la cultura giapponese contemporanea significa comprendere fenomeni che appartengono a più mondi e a più tempi, un atto di riflessione tanto complesso quanto utile a valutarne in una prospettiva interculturale le reali proporzioni.

Culture del Giappone contemporaneo Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura A cura di Matteo Casari Interventi di: Giorgio Amitrano, Ariane Beldi, Jean-Marie Bouissou, Matteo Casari, Gianluca Coci, Bernd Dolle-Weinkauff, Fabriano Fabbri, Marcello Ghilardi, Toshio Miyake, Roberta Novielli, Marco Pellitteri, Gaetano Ruvolo, Sagiyama Ikuko, Leone Spita, Laura Testaverde


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Lapilli Collana diretta da Marco Pellitteri

«Lapilli» è una collana di volumi che si propone di percorrere i settori del fumetto e della grafica, del cinema di animazione e delle arti audiovisive, dell’immaginario popolare e dei mass media, attraverso le tre sezioni Segni, Visioni e Culture.


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Lapilli Segni • Visioni • Culture Ultimi volumi pubblicati: Il secolo del fumetto Lo spettacolo a strisce nella società italiana 1908-2008 A cura di Sergio Brancato Viaggi nell’animazione Interventi e testimonianze sul mondo animato da Émile Reynaud a Second Life A cura di Matilde Tortora Susanna Scrivo Nuvole e Arcobaleni Il fumetto gLBT Sara Zanatta, Samanta Zaghini, Eleonora guzzetta Le donne del fumetto L’altra metà dei comics italiani: temi, autrici, personaggi al femminile Silvia Leonzi Lo spettacolo dell’immaginario Storie, corpi, luoghi Marco Arnaudo Il fumetto supereoico Mito, etica e strategie narrative Le donne del cinema d’animazione A cura di Matilde Tortora Marco Accordi Rickards – Paola Frignani Le professioni del videogioco Una guida all’inserimento nel settore videoludico Il catalogo completo è disponibile on line su www.tunue.com


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Culture del giappone contemporaneo Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura

A cura di Matteo Casari Interventi di giorgio Amitrano, Ariane Beldi, Jean-Marie Bouissou Matteo Casari, gianluca Coci, Bernd Dolle-Weinkauff Fabriano Fabbri, Marcello ghilardi, Toshio Miyake Roberta Novielli, Marco Pellitteri, gaetano Ruvolo Sagiyama Ikuko, Leone Spita, Laura Testaverde

Lapilli. Segni 22


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I edizione: febbraio 2011 Copyright © Tunué Srl Via dei Volsci 139 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.

ISBN-13 gS1 978-88-97165-00-2 Progetto grafico: Daniele Inchingoli Illustrazione di copertina: Mandarinoadv.com grafica di copertina: Tunué © Tunué Stampa e legatura: Stampa Sud S.p.A. Via P. Borsellino 7 74017 Mottola (TA) – Italy


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Indice

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Introduzione. Un gioco di specchi di Matteo Casari

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PARTE I — LA TRADIZIoNE E LE SUE METAMoRFoSI I

Wabi e sabi nella tradizione estetica giapponese di Sagiyama Ikuko

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I.1 Wabi I.2 Sabi II Il manga secondo Murasaki di Giorgio Amitrano

25 26 26 30 34 39

II.1 L’inesauribile vitalità del Genji monogatari II.2 Le trasposizioni manga del Genji monogatari II.2.1 Asaki yume mishi di Yamato Waki II.2.2 Il Genji monogatari di Maki Miyako II.2.3 Il Genji monogatari di Egawa Tatsuya

III La tradizione oltre sé stessa Il teatro classico giapponese e alcuni suoi sconfinamenti contemporanei di Matteo Casari

41 43 45

III.1 Che cos’è la tradizione: identità e autorità III.2 L’ortoprassia del kata III.3 Le maschere nō fra tradizione e innovazione


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53 58 60 63

III.4 L’innovazione nel teatro kabuki: l’ombra della regia e il decentramento dell’attore III.5 Il teatro nō tra nuovi allestimenti e canoni tradizionali III.6 Il teatro incontra i linguaggi della pop culture IV Il mito nel presente Suggestioni del passato nella narrativa giapponese contemporanea di Laura Testaverde

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IV.1 Bellezza androgina e travestitismo IV.1.1 Fumetti e tradizioni IV.1.2 Kitchin e Mūnraito shadō

IV.2 Incesto IV.2.1 N.P. IV.2.2 N.P. e gli antichi miti

IV.3 Mondi paralleli IV.3.1 Nejimaki dori kuronikuru IV.3.2 Kami no kodomotachi wa mina odoru I.V.3.3 Fushi

IV.4 Conclusioni V L’eco del wabi-sabi nei giovani architetti giapponesi di Leone Spita

91 94 95 101 105 106

V.1 Wabi-sabi e iki: i nuovi architetti giapponesi eredi dei maestri del tè V.2 La Engawa House dei Tezuka Architects V.3 Superflat architecture V.4 Pet architecture V.5 Nishizawa Taira: corpi e attività V.6 Wabi-sabi e iki: la poetica del «qui e oggi»


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PARTE II — LA CoNTEMPoRANEITà E I SUoI PARADoSSI

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I

Takahashi Gen’ichirō Il romanzo giapponese tra postmoderno e avant-pop di Gianluca Coci

111 114

I.1 I.2

116 120

I.3 I.4

Prologo Considerazioni spicciole intorno al dibattito sul postmodernismo Il fenomeno postmoderno in giappone Takahashi gen’ichirō: il più postmoderno degli scrittori giapponesi

122

I.4.1

127 131

I.4.2 I.4.3

135

Dr. Slump & co.: il manga nel romanzo di Takahashi ghostbusters Sayonara, gangsters – oltre l’arcobaleno – John Lennon contro i marziani: la «trilogia degli anni Sessanta»

II Linguaggi a confronto Il cinema giapponese nell’era multimediale di Roberta Novielli

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III Da sabi a cyber Un immaginario in trasformazione di Marcello Ghilardi

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III.1 L’epopea dei robot III.2 Tra uomo e macchina: il cyborg III.3 Verso un nuovo immaginario IV Mostri made in Japan Orientalismo e auto-orientalismo nell’era della globalizzazione di Toshio Miyake

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IV.1 Il giappone: paese dei mostri o paese mostruoso? IV.2 Il mostro come mediatore ibrido di identità e alterità


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172 175 182 188 196 199

IV.3 IV.4 IV.5 IV.6 IV.7 V

Mostri e identità nazionale Mostri e orientalismo Mostri e auto-orientalismo «J-culture», «cool Japan» e «soft power» Il giappone globalizzato: specchio identitario deformato o deformante?

Far East & Far West nella storia dei videogiochi di Gaetano Ruvolo

207

VI L’arte giapponese tra Biopop e «universo liquido» di Fabriano Fabbri

207 207 209 210 212 215 219 221 222

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VI.1 Il Biopop VI.1.1 Le origini: Kusama Yayoi VI.1.2 Mori Mariko: rilancio e perfezionamento del Biopop VI.1.3 I «PixCell» di Nawa Kohei VI.1.4 Il soffio primario di Paramodel VI.1.5 odani Motohiko, Kito Kengo, Kato go e Mishima Ritsue

VI.2 L’«universo liquido» VI.2.1 L’Afro Samurai di okazaki Takashi VI.2.2 Le bolle sottomarine di Nguyen-Hatsushiba Jun, le «Peaches» di Fukuchi Hideomi e l’anguilla grafica di Yamaguchi Ai

VII Manga in Europa I primi risultati di una ricerca comparativa internazionale in corso di Marco Pellitteri con Jean-Marie Bouissou, Bernd Dolle-Weinkauff, Ariane Beldi

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VII.1 Il mercato del manga in Europa, oggi VII.2 Un’analisi iniziale del fandom del manga in Francia, Italia, germania e Svizzera


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VII.2.1 VII.2.2 VII.2.3 VII.2.4 VII.2.5. VII.2.6.

L’indagine del Manga Network del 2006-2007 Una sociologia del mangafan Come si comincia a leggere manga? Abitudini e pratiche di lettura La dimensione sociale del fandom Motivazioni della lettura dei manga: non solo «escapismo»

VII.3 I lettori italiani di manga secondo l’indagine esplorativa del Manga Network

242 244 244 246 248 250

VII.3.1 VII.3.2 VII.3.3 VII.3.4 VII.3.5 VII.3.6

Dati sociodemografici Le serie di manga preferite Aspetti del rapporto con i manga Perché i lettori apprezzano i manga I manga e le opinioni Desideri/propositi conoscitivi sul giappone stimolati dai manga VII.3.7. Immagini del giappone ricevute/ricavate dai manga

252 257 270

Riferimenti bibliografici Riferimenti internet

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Gli Autori


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CULTURE DEL gIAPPoNE CoNTEMPoRANEo


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Introduzione Un gioco di specchi di Matteo Casari

Il presente volume è l’esito della convergenza e della giustapposizione di diversi approcci alla cultura giapponese emersi nelle prime due edizioni di un convegno, Wabi Sabi Cyber. Cultura e subculture del Giappone contemporaneo, tenutesi nel 2007 e nel 2008 presso l’Università degli Studi di Napoli «L’orientale», promosse dal Dipartimento di Studi Asiatici dello stesso Ateneo e da Nipponica.Tappe iniziali di un progetto ancora in atto, vengono ora raccolte in volume in una forma completamente aggiornata per mantenere la massima aderenza alla dinamica mutevolezza che l’oggetto della sua indagine mostra da sempre. Wabi Sabi Cyber è nato come momento di confronto e riflessione sulla contemporaneità giapponese, nonché sulle sorprendenti rielaborazioni attraverso cui la tradizione perpetua sé stessa rinnovandosi, adottando uno sguardo composito e sinergico, marcatamente interdisciplinare, frutto della partecipazione di specialisti di diversa provenienza e formazione. Questa impostazione plurale e sincronica, voluta da giorgio Amitrano e da chi scrive in qualità di ideatori e curatori dell’iniziativa, è stata pensata per riecheggiare quel caleidoscopio in costante mutazione che è la cultura contemporanea giapponese, cercando un modo per accostarsi a essa da una giusta prospettiva e, possibilmente, aprirla a nuove occasioni di conoscenza e comprensione. Per avvicinare tale obiettivo è stato dato ampio spazio ai principali linguaggi attraverso cui la tarda modernità nipponica si esprime e che stanno guadagnando una sempre più ampia schiera di appassionati fruitori, spesso giovani o giovanissimi, su scala mondiale: manga, anime, arti visive,


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videogiochi, cinema, letteratura, teatro, architettura, nodi di un serrato intreccio teso a far emergere, come il titolo Wabi Sabi Cyber suggerisce, le fruttuose interferenze tra i più ineffabili e classici emblemi della cultura tradizionale giapponese e i temi cari alle cosiddette subculture giovanili. Nella tensione tra questi due poli della cultura le relazioni biunivoche emerse sono tante e tali da dover subito convertire una preconcetta immagine di opposizione in una di complementarità. L’oscillazione della cultura giapponese tra la strenua affermazione di una propria irriducibile identità e la costante ridefinizione di sé stessa attraverso l’incontro sincretico con una qualche alterità è infatti nota e diffusamente osservata. Da questa osmosi, probabilmente, è emerso il cliché del giappone come paradosso, paradosso nutrito da una certa ambivalenza nei confronti della modernità: l’espressione wakon yōsai (spirito giapponese, tecnica occidentale), che ha motivato la modernizzazione del paese sul finire del xIx secolo, ne chiarisce un aspetto significativo e introduce, inoltre, l’elemento «occidente» come Altro, quale specchio per riflettere sulla forza e unicità del proprio passato e sulle modalità più fruttuose per conquistare il futuro. Provare a leggere la contemporaneità evincendola dalla tradizione, considerandola a essa totalmente antagonista, significherebbe in primo luogo negare la dinamica storica della sua insorgenza. La giusta considerazione della medesima dinamica storica, inoltre, aiuta a non sottovalutare la dimensione contemporanea della tradizione. Si è tentato così di indagare la tradizione e le sue forme espressive sia come serbatoio di temi, suggestioni, prassi e valori, sia come laboratorio di sperimentazione pienamente attivo nella definizione della cultura a noi coeva. La mutazione di senso dei termini wabi e sabi – da un’accezione negativa legata alla sofferenza e alla mestizia a quella positiva divenuta pilastro portante di una visione estetica tipicamente giapponese a partire dal periodo Kamakura (1185-1333) – le ardite proposte del superkabuki – reinterpretazione contemporanea del classico kabuki – che hanno coniugato una poderosa riconsiderazione del fatto scenico con una tradizione teatrale codificata da secoli, le più recenti e straordinarie strutture create da giovani architetti per ospitare la cerimonia del tè sono solo alcuni dei possibili esempi a sostegno dell’assunto in questione.


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Adottando un punto di vista non vincolato a luoghi comuni, libero di accostarsi a un romanzo scritto per essere scaricato su un cellulare – la telefonia mobile è il nuovo eldorado per il polimorfo mondo dell’industria multimediale e dell’intrattenimento giapponesi – o alla trasposizione in manga del classico testo Genji monogatari senza veti pregiudiziali ma anche senza arrestarsi a un’acritica e superficiale impressione motivata da semplice stupore, non si poteva che scegliere Wabi Sabi Cyber come termine medio tra questi opposti, con l’ambizione di fornire gli strumenti adatti a coglierne l’aspetto organicamente unitario e il senso più recondito. L’attribuzione del senso, o più banalmente del significato a un prodotto della pop culture giapponese, ha fornito un tema trasversale di riflessione in ragione della stimolante eterogeneità – di genere, età, appartenenza culturale – dei suoi fruitori. Attorno alla metà degli anni Settanta del Novecento le televisioni italiane e occidentali hanno conosciuto la prima ondata di serie animate nipponiche, principalmente robotiche ma non solo, che avrebbe provocato interessanti effetti sul lungo periodo aprendo la strada all’inesorabile affermazione della J-culture (‘cultura pop giapponese’) su scala planetaria: intere generazioni, a dispetto della lontananza geografica e culturale, hanno avuto l’opportunità di crescere condividendo medesimi eroi e vicende così da portare a progressiva maturazione un immaginario comune che ha reso il giappone una presenza familiare, quotidiana, vicina. Sarebbe ingenuo, però, trarre l’immediata conclusione che sia sufficiente questa condivisione e questa sensazione di domestica prossimità a produrre una medesima modalità di lettura e decodifica: il paradigma culturale sulla cui base il prodotto è fruito gioca in tal senso un ruolo determinate e, di conseguenza, i motivi che ad esempio decretano il successo di uno stesso anime o un manga in giappone e all’estero variano di paese in paese. Anche il termine otaku, da tempo presente nel vocabolario corrente di numerose lingue e inestricabilmente associato a questo mondo, perde fuori dai confini giapponesi quell’accezione di passione patologica che ne copre in patria un ampio spettro semantico.


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Comprendere la cultura giapponese contemporanea significa allora comprendere fenomeni che appartengono a più mondi e a più tempi, un atto di riflessione tanto complesso quanto utile a valutarne in una prospettiva interculturale le reali proporzioni. La J-culture ha dato un volto piacevole, accessibile, non elitario, cool, alle istanze del postmoderno – termine tanto fortunato quanto ineffabile – con la sua tendenza al mescolamento, al riciclo, allo straniamento, all’inversione di segno e, soprattutto, alla sperimentazione e al paradosso. Autori della pop-bungaku (letteratura pop) come Haruki Murakami e Takahashi gen’ichirō hanno obbligato la critica nipponica, tra gli anni Settanta e ottanta del secolo scorso, a fare i conti con l’impossibilità di ricondurre le loro opere ai tradizionali filoni della junbungaku (‘letteratura pura’) o della taishūbungaku (‘letteratura di massa’). Un discrimine, che richiama quello tra cultura alta e cultura bassa oggi difficilmente sostenibile, è venuto così a cadere o almeno a incrinarsi. Nel 2008 la seconda edizione di Wabi Sabi Cyber è stata ufficialmente aperta da un videomessaggio di Doraemon, il gatto robot protagonista dell’omonimo fumetto e serie animata, da poco nominato dal governo giapponese – con tanto di cerimonia ufficiale – ambasciatore di anime. Nei fatti, ambasciatore della cultura giapponese. Una sapiente e attenta strategia di politica culturale, unitamente a efficaci azioni di marketing a sostegno dell’industria legata alla J-culture, esplicitano l’importanza rivestita da questo universo nella ridefinizione dell’immagine che il giappone ha di sé e delle modalità privilegiate attraverso le quali mediare tale immagine verso l’altro. Il rutilante gioco di specchi su cui si struttura la dialettica inclusiva ed esclusiva del mantice culturale nipponico – la discussione articolata sui temi dell’orientalismo e dall’auto-orientalismo cari alle teorie sui giapponesi (nihonjinron) ne è un volto ulteriore – è giunto a farsi sistema divenendo la norma che smonta, o meglio risolve estremizzandolo, il paradosso precedentemente individuato. La struttura data al volume, infine, non ripete quella dei convegni del 2007 e 2008 ma, considerando le due edizioni quali tappe di un unico percorso, ricompone i saggi dei dodici relatori/autori sulla base di una


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nuova e unitaria coerenza funzionale al testo: ogni autore, lo si è già accennato in apertura, non si è limitato a trascrivere il proprio intervento ma lo ha rivisto e a volte ampliato per per offrire al lettore uno sguardo il più possibile aggiornato sui temi proposti. Per praticità espositiva sono state individuate due sezioni che, in realtà, hanno ampie aree di sovrapposizione: la prima raccoglie contributi che pongono l’enfasi, sebbene non in modo esclusivo, sui rapporti tra i linguaggi della tradizione e la contemporaneità; la seconda si concentra in modo più sistematico su alcune forme espressive e alcuni emblemi del giappone d’oggi. Elemento trasversale alle due sezioni è la contestualizzazione, estetica e socio-antropologica, dei fenomeni indagati. A conclusione di questa breve Introduzione è doveroso ricordare il sostegno e la collaborazione dell’Ambasciata del giappone e dell’Università degli Studi di Napoli «L’orientale» nella realizzazione delle due edizioni di Wabi Sabi Cyber qui raccolte. Rivolgo inoltre un ringraziamento personale a giorgio Amitrano, per la fiducia accordatami e gli infiniti confronti a cui si è pazientemente sottoposto per mettere a punto ogni dettaglio di questa esperienza comune – a lui, inoltre, il merito per l’intuizione del titolo, Wabi Sabi Cyber, il cui ritmo alliterativo possiede tutte le sfumature di senso di un ideogramma – e a tutti i colleghi che hanno prima partecipato alle giornate napoletane e poi proseguito il proprio impegno per rendere possibile la composizione di questo volume. Nota editoriale In questo testo si rispetta, per i nomi di persone giapponesi, l’ordine originario cognome-nome. Nei termini giapponesi, le vocali allungate sono segnalate con l’accento diacritico. Tutti i toponimi giapponesi sono resi senza accenti diacritici.


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Parte II LA CONTEMPORANEITĂ E I SUOI PARADOSSI


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I. Takahashi Gen’ichirō:il romanzo giapponese tra postmoderno e avant-pop di Gianluca Coci

La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte. ITALo CALVINo, Lezioni Americane Sai cos’è un miracolo […] l’intrusione di un altro mondo nel nostro. Per buona parte del tempo coesistiamo pacificamente, ma quando veniamo a contatto succede un cataclisma. THoMAS PYNCHoN, The Crying of Lot 49

I.1 Prologo

In un pianeta a duemila anni luce dalla Terra, dove il cielo è sempre più blu e gli atomi schioccano nell’aria a mo’ di madrigale, sta per accadere qualcosa di sconvolgente, un po’ folle, da toglierti il fiato… (Sun turnin’ ’round with graceful motion  We’re setting off with soft explosion Bound for a star with fiery oceans… Ma il cielo è sempre più blu, uh uh, uh uh Ma il cielo è sempre più blu, uh uh, uh uh… ) «Parzan, Parzan, vieni subito giù di lì!» si sgola nonna Haru, fino a mostrare l’ugola e sbracciandosi come un ragno-piovra aldebaraniano. «oh, oh, nonnetta, t’è forse andato qualcosa di traverso?» le risponde Parzan, stiracchiandosi nella sua chiara, fresca e dolce amaca. «Perché non mi lasci riposare in pace?»


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TAKAHASHI gEN’ICHIRŌ: IL RoMANZo gIAPPoNESE TRA...

«Sbrigati, babbeo! Il dottor Norimaki ha calcolato che un meteorite si abbatterà sulla tua chiara, fresca e dolce amaca tra un minuto e undici secondi… anzi, no, un minuto e dieci secondi… anzi, no, un minuto e nove secondi… anzi, no, un minuto e otto secondi…» «Sì, sì, va bene, ho capito, un minuto e sette secondi, aggiudicato! Ma datti una calmata, okay? oh, non sarà mica uno dei soliti scherzetti di re Nikochan?» «Ma quale scherzetto e scherzetto! Non lo vedi, lassù, il meteorite?!» Nel cielo sempre più blu, uh uh, uh uh, sull’esatta verticale della chiara, fresca e dolce amaca di Parzan, un oggetto rotondeggiante e goffo veniva giù in picchiata a velocità betelgeusiana, mentre gli abitanti del Villaggio Pinguino versione orbis Tertius, radunatisi in massa, incitavano Parzan a lasciare la sua chiara, fresca e dolce amaca e a mettersi in salvo. Così, travolto da una sinfonia di fischi, cigolii, raggi laser e chi più ne ha più ne metta, Parzan si rammenta finalmente di essere una parodia di Tarzan e, con gesto scimmiesco, agguanta una liana e plana lesto lesto sulle spalle di nonna Haru, giusto un nanosecondo prima che l’oggetto rotondeggiante e goffo si abbattesse al suolo dopo aver disintegrato la sua chiara, fresca e dolce amaca. «Dottor Norimaki…» fa Parzan, la voce rotta dal pianto, in direzione del riccioluto Norimaki Senbei appena sopraggiunto sul luogo del disastro. «Ma questo non è un meteorite… È uno di quei sacchi che Paperon de’ Paperoni custodisce gelosamente nel suo deposito, o sbaglio?» «Sì, è vero, hai ragione! Il meteorite deve aver subito una mutazione molecolare mentre sfrecciava nei pressi dell’orbita del pianeta Die Verwandlung… Arale, Atomino» dice Norimaki Senbei rivolgendosi ai due simpatici robottini del Villaggio Pinguino, «cosa aspettate ad aprire il sacco? Su, forza, vediamo cosa contiene». «Uh, ma cosa diavolo sono ’sti cosi?» esclamano all’unisono Arale e Atomino. «Son belli e colorati solo fuori e all’interno son tutti pieni d’insettucoli immobili e neri! Che saranno mai, dottor Norimaki? Ce ne sono almeno una cinquantina. gli insettucoli immobili e neri qui sul dorso sono tutti uguali. Apparterranno forse alla stessa specie?… Chi siamo?! Da dove veniamo?!» «Calma, calma, ragazzi. Ho inventato giustappunto l’altro ieri un traduttore simultaneo per “cosi belli e colorati solo fuori e all’interno son tutti pieni d’insettucoli immobili e neri”. Dai, prendetene uno e ficcatelo in questa specie d’imbuto».


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Arale e Atomino obbediscono senza farsi pregare e inseriscono uno di quei cosi nell’imbuto. Al che, dopo un paio di secondi di assoluto silenzio, una voce spettrale risuona nell’aria: T-A-K-A-H-A-S-H-I G-E-N’-I-C-H-I-R-Ō T-A-K-A-H-A-S-H-I G-E-N’-IC-H-I-R-Ō T-A-K-A-H-A-S-H-I G-E-N’-I-C-H-I-R-Ō «Che bello, che bello!» esultano Arale e Atomino sotto lo sguardo incredulo degli abitanti del Villaggio Pinguino. «Dai, dai, ficchiamo tutti ’sti cosi nell’imbuto, così sapremo finalmente chi siamo e da dove veniamo!» «Calma, calma, ragazzi» li ferma Norimaki Senbei, «non in quest’imbuto qua, ma in quest’altro qui. Ho inventato giustappunto ieri un interprete simultaneo per T-A-K-A-H-A-S-H-I G-E-N’-I-C-H-I-R-Ō, così sapremo finalmente chi siamo e da dove veniamo». (Sun turnin’ ’round with graceful motion We’re setting off with soft explosion Bound for a star with fiery oceans… Ma il cielo è sempre più blu, uh uh, uh uh  Ma il cielo è sempre più blu, uh uh, uh uh… ) E dopo un paio di secondi di assoluto silenzio la macchina collegata all’imbuto-proboscide prende a emettere suoni e rumori mai uditi prima d’allora, dando a tutti gli abitanti del Villaggio Pinguino la sensazione di essere saliti a bordo di un ottovolante multicolore fatto di zucchero filato e golosità, un mondo di pensieri e libertà.

PatapumPatapumPataEhi,tu!pumPatapumPatapumPaMmh,chetimanca?tapumCRASHCRASHCRASHCRAPassaSHCRAmilalamaperlaSHFLAPFLAPFLAPFLAPFLAP/TATATATATATATATATATAmolatrice!FLAPFLAPFLAP/TATATATATATAEh,cooosa?FLAPFLAP/TATATATALamolatrice!WEEEEEEChehaidettooooo?EEEEEMo-la-triE EENce!PlocPlacPlocPlaCheeeee?cPlocHOWLLalama!Cazzo!Lalama!LLLLLLLINCazzocheee?GHOWLLLLamo!la!LLLItri!NNNce!e e!GHOWLLLLamo!la!LLLItri!NNNce!ee!GZIPZIP/ZAPZAPzuzu-


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TAKAHASHI gEN’ICHIRŌ: IL RoMANZo gIAPPoNESE TRA...

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I.2 Considerazioni spicciole intorno al dibattito sul postmodernismo In tempi recenti si continua a sparare a zero contro la letteratura postmodernista, allo stesso modo in cui, soltanto un paio di decenni addietro, la si era esaltata come la più straordinaria delle Next Big Thing in tutti gli angoli del globo, gettando nel suo immenso calderone almeno un romanzo ogni tre e appiccicando l’etichetta «post» a tutto ciò che aveva anche solo una parvenza di nuovo. Stefano Calabrese taccia per esempio il postmodernismo di essere pervaso da un alone «nichilista, analcolico e vagamente menagramo»2e sottolinea che «i testi [del postmodernismo] pretendevano di essere gli antenati di sé stessi, mettendosi al riparo dalle incursioni della storia e candidandoci a entrare in un labirinto con la certezza, tuttavia, che non vi avremmo trovato nulla degno di essere raccontato e ricordato. Posto che ne fossimo usciti».3 L’analisi di Calabrese, per quanto spietata, è per molti versi irrefutabile e mira a mettere in luce la genesi del cosiddetto global novel, che egli definisce «il protocollo terapeutico di una nuova epoca»4 all’indomani del declino del postmodernismo verso l’autismo e l’autofagia. ora, è chiaro che la morte della letteratura postmodernista, nella realtà contemporanea resa multidimensionale dall’ipersviluppo dei mezzi informatici, fosse inevitabile. Ed è altrettanto chiaro che il romanzo avesse dunque assoluto bisogno di ricostruirsi, di riappropriarsi della storia e del tempo in modo da sistematizzare il mosaico globale e di evitare il corto circuito all’uomo/lettore odierno, che rischia continuamente di smarrirsi nei molteplici iperspazi della realtà. Ben 1 Takahashi gen’ichirō, Sayonara, gangsters (1982), trad. it. e postfazione di gianluca Coci, Milano, BUR, 2008, p. 73. 2 Stefano Calabrese, www.letteratura.global. Il romanzo dopo il postmoderno, Torino, Einaudi, 2005, p. VIII. 3 Ibid. 4 Ivi, p. Ix.


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venga, dunque, la terapia del global novel (nel suo saggio, Calabrese analizza in particolare i casi di autori propriamente global come Stephen King, Michael Crichton e Isabel Allende, ma anche autori di confine come Don DeLillo e Salman Rushdie), ma come dimenticare che Italo Calvino aveva indicato proprio nel postmodernismo una delle vie per il romanzo del terzo millennio? Sarà possibile la letteratura fantastica nel Duemila, in una crescente inflazione d’immagini prefabbricate? Le vie che vediamo aperte fin da ora possono essere due. 1) Riciclare le immagini usate in un nuovo contesto che ne cambi il significato. Il post-modernism può essere considerato la tendenza a fare un uso ironico dell’immaginario dei mass media, oppure a immettere il gusto del meraviglioso ereditato dalla tradizione letteraria in meccanismi narrativi che ne accentuino l’estraniazione. 2) oppure fare il vuoto per ripartire da zero. Samuel Beckett ha ottenuto i risultati più straordinari riducendo al minimo elementi visuali e il linguaggio, come in un mondo dopo la fine del mondo.5

Del resto è molto probabile che il carattere sfuggente, ai limiti dell’indefinibilità, del termine «postmoderno» abbia causato prima esaltazione e poi diniego nei suoi confronti. Su questo punto è doveroso citare Umberto Eco, il quale afferma che «malauguratamente “post-moderno” è un termine buono à tout faire».6 Eco crede inoltre che il postmodernismo «non sia una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale, o meglio un Kunstwollen, un modo di operare».7 E vale qui la pena di riferire anche le parole di Brian McHale, il critico che forse più di ogni altro ha tentato di sistematizzare la letteratura postmoderna in base alle sue caratteristiche morfologiche e attraverso un’analisi approfondita di un vasto corpus di opere:

5 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1988), Milano, Mondadori, 1993, p. 107. 6 Umberto Eco, «Postille a Il nome della rosa 1983», in Id., Il nome della rosa (1980), Milano, Bompiani, 2007, p. 528. 7 Ibid.


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È fuor di dubbio che non ci sia nessuna «cosa» che possiamo chiamare postmodernismo. o meglio, essa non c’è se ciò che abbiamo in mente è una sorta di oggetto perfettamente individuabile nel mondo esterno, circoscritto da un profilo ben definito, sottoponibile a ispezione e in possesso di caratteristiche su cui noi tutti possiamo essere concordi. Ma l’impossibilità stessa del postmodernismo di soddisfare i criteri dell’oggettivazione è ciò che in fondo esso condivide con altri preziosi e interessanti manufatti culturali, come, ad esempio, il Rinascimento, la letteratura americana, l’elegia pastorale o Shakespeare. Al pari di questi altri manufatti, il postmodernismo esiste «discorsivamente», ovvero nei discorsi che facciamo su di esso e servendoci di esso.8

Quel che è certo è che l’importanza del postmodernismo, anche nella sua funzione di veicolo di sperimentazione letteraria, sarà forse riconosciuta solo in futuro, quando l’aria di tempesta che lo circonda si sarà finalmente placata. Bisognerà insomma attendere la lucidità dei posteri perché, come dice Benjamin, «non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, “moderna” e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità».9 I.3 Il fenomeno postmoderno in Giappone D’altra parte non può essere trascurata un’altra fondamentale verità, messa bene in evidenza da Remo Ceserani, ovvero che, considerando giustamente gli Stati Uniti come l’epicentro del fenomeno postmodernista e Francia, germania e Inghilterra come i suoi immediati satelliti, il resto del mondo è stato spesso tardivo o addirittura refrattario alla sua piena ricezione – soprattutto l’Italia, per via dell’inveterata tendenza di una buona parte della critica a privilegiare gli aspetti realistici della letteratura, e il Brian McHale, Constructing Postmodernism, London – New York, Routledge, 1992, p. 1. Walter Benjamin, Parigi, capitale del xIx secolo, ed. it. a cura di giorgio Agamben, Torino, Einaudi, 1986, p. 701. 8 9


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giappone, in seguito alla peculiarità storico-culturale che lo ha costretto entro i binari di una modernità ibrida mutuata dall’occidente e a una conseguente postmodernità priva di basi solide.10 Nel caso specifico del giappone va aggiunto, come fa notare Ōe Kenzaburō, che proprio la modernità occidentalizzante, vissuta male e con una fretta eccessiva, ha provocato l’incapacità tipica dei giapponesi di metabolizzare criticamente, adattandole alla realtà interna, le correnti filosofiche e letterarie straniere: I giovani intellettuali giapponesi, in virtù del nostro carattere nazionale, hanno analizzato e sistematizzato diacronicamente le varie teorie basate sullo strutturalismo e hanno fatto lo stesso riguardo al corpus critico in base al quale «accettare» o […] «respingere» quelle teorie. Per accettare Foucault, bisognava anzitutto respingere Barthes. Solo dopo che Lacan era stato accantonato, si poteva prendere in considerazione Derrida. […] Inoltre, in materia di fenomeni e tendenze culturali, è stato adottato un approccio molto giapponese nell’uso del prefisso post-. […] I giovani intellettuali giapponesi ipotizzavano, ottimisticamente, che, nel momento in cui una determinata corrente culturale era in auge, una nuova ne sarebbe presto seguita aggiungendo semplicemente il prefisso post- a quella esistente. […] A dispetto della marcata tendenza ad assimilare nuove correnti culturali, quasi nessuno sforzo è stato esercitato al fine di interpretarle nel dettaglio, alla luce delle situazioni specifiche in cui si trovava il giappone. […] Io credo che questo fenomeno possa essere attribuito in buona parte a una particolare caratteristica del nostro giornalismo intellettuale, sin dal periodo Meiji. Per dirla in tutta franchezza, era allora assai diffusa la tendenza a credere che uno sforzo intellettuale si potesse ritenere compiuto meramente trapiantando o traducendo le nuove correnti culturali americane ed europee in giapponese. E sia i traduttori, sia quelli che leggevano le traduzioni, erano inclini a pensarla allo stesso modo. Una tale tendenza esiste ancora oggi.11 10 Cfr. Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp. 146-47, in particolare p. 166. 11 Ōe Kenzaburō, «Japan’s Dual Identity: A Writer’s Dilemma», in Masao Miyoshi – H.D. Harootunian (a cura di), Postmodernism and Japan, Durham – London, Duke University Press, 1989, pp. 203-205.


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Il giappone, sovente ispiratore dei mondi distopici creati da tanti scrittori di fantascienza postmodernista, si è per ironia della sorte trovato confuso e impreparato al momento dell’impatto con il postmodernismo, soprattutto all’inizio approcciato soltanto attraverso sporadiche traduzioni dei capolavori dei vari Pynchon, Barth e Barthelme e per niente sostenuto da studi critici – un po’ come è avvenuto in Italia. In anni successivi, e precisamente a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e soprattutto dalla prima metà del decennio successivo, quando alcuni giovani scrittori (Murakami Ryū, Murakami Haruki, Tanaka Yasuo, Hashimoto osamu, Takahashi gen’ichirō) riportavano la letteratura giapponese in linea con la contemporaneità, ispirandosi alle sottoculture occidentali, al cinema, alla musica rock, al mondo dei fumetti e a certa nuova letteratura americana – in altre parole dando vita alla cosiddetta pop bungaku (‘letteratura pop’)12 – l’interesse verso il postmodernismo, seppure senza clamori, è finalmente cresciuto anche sui lidi nipponici. Critici letterari di primo piano come Yoshimoto Takaaki e Karatani Kōjin hanno scritto saggi importanti sul fenomeno postmodernista. Soprattutto il secondo vi ha basato parte del suo impianto speculativo, decostruendo per esempio, in Nihon kindai bungaku nokigen (‘Le origini della letteratura giapponese moderna’, 1980), la letteratura giapponese del periodo Meiji e inquadrandola non più nella classica ottica esclusivista dei circoli letterari (il bundan, così come in giapponese viene definito il mondo letterario istituzionale), bensì analizzandola come un insieme di processi e pratiche materiali immanenti alla costituzione del giappone moderno. Tutto questo ha contribuito all’annichilimento o almeno alla mitigazione di una classica dicotomia vigente nel mondo letterario nipponico, ossia l’esasperata distinzione tra junbungaku (‘letteratura pura’) e taishūbungaku (‘letteratura di massa’),13 che 12 Riguardo la «nuova» letteratura giapponese, cfr. giorgio Amitrano, The New Japanese Novel: Popular Culture and Literary Tradition in the Work of Murakami Haruki and Yoshimoto Banana, Kyoto, Italian School of East Asian Studies, 1996; Carl Cassegård, Shock and Naturalization in Contemporary Japanese Literature, Honolulu, University of Hawai’i Press, 2007; Nakamata Akio, Posuto Murakami no Nihon bungaku (‘La letteratura giapponese del post Murakami’), Tokyo, Asahi Shuppansha, 2002; Stephen Snyder – Philip gabriel (a cura di), oe and Beyond: Fiction in Contemporary Japan, Honolulu, University of Hawai’i Press, 1999. 13 La distinzione continua a perdurare, almeno a livello teorico, a tutt’oggi. Tuttavia è lecito affermare che si tratta ormai di una demarcazione più che altro concettuale, dal momento che nel concreto essa


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poi non è molto dissimile dalla dicotomia tra cultura alta e cultura bassa in occidente. L’ipersviluppo dei media – «perché una delle grandi trasformazioni che hanno investito la nostra vita culturale è venuta proprio dall’enorme espansione dei media e dallo straordinario rimescolamento e allargamento del pubblico che consuma oggetti culturali e che non è più divisibile in categorie del tipo highbrow, lowbrow o middlebrow»14 – ha abbattuto la barriera tra i due mondi, tanto in occidente quanto nel giappone ultrainformatizzato, dando così spazio a uno dei Leitmotiv della postmodernità, che consiste per l’appunto nel crossover tra cultura «alta» e cultura di massa. Tornando alla peculiarità del postmodernismo giapponese è molto interessante il discorso in cui Karatani individua una differenza fondamentale con l’occidente: «Il postmodernismo giapponese possiede una qualità diversa rispetto alla sua controparte occidentale. Esso è sì fondato su un procedimento radicale, proprio come in occidente, ma non per questo include quel senso di “opposizione” tanto atavico nel mondo occidentale».15 Così, mentre in occidente il postmodernismo rappresenta per molti aspetti una reazione naturale al modernismo (ma non al cosiddetto high modernism dei vari Joyce, Yeats, Pound ecc.), avvenuta in parte attraverso la grande innovazione degli anni Sessanta (Pop Art, Beat generation, musica rock, Nouvelle Vague cinematografica e così via), in giappone i due fenomeni non sono da considerarsi sempre in antitesi ed è possibile anzi individuare elementi costitutivi di entrambi nelle opere di diversi scrittori e artisti contemporanei.

si è fatta molto labile, se non del tutto inesistente. Per rendere meglio l’idea, si può citare l’esempio dei premi letterari Akutagawa e Naoki – il primo tradizionalmente assegnato a opere di junbungaku e il secondo a opere di taishūbungaku – che negli ultimi hanno finito per smarrire l’identità originaria, nel senso che vengono ormai assegnati indistintamente a romanzi non più classificabili secondo la rigida distinzione di cui sopra. Esemplificativi, in tal senso, il Premio Naoki assegnato a Kirino Natsuo (1999), scrittrice di notevole spessore, e il Premio Akutagawa a Kanehara Hitomi e a Wataya Risa (2003), giovani e promettenti scrittrici che si rivolgono essenzialmente a un pubblico di giovani adulti. 14 R. Ceserani, op. cit., p. 159. 15 Cit. in Alan Wolfe, «Suicide and the Japanese Postmodern: A Postnarrative Paradigm?», in M. Miyoshi – H.D. Harootunian, op. cit., p. 228.


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I.4 Takahashi Gen’ichirō: il più postmoderno degli scrittori giapponesi T-A-K-A-H-A-S-H-I G-E-N’-I-C-H-I-R-Ō T-A-K-A-H-A-S-H-I G-E-N’-IC-H-I-R-Ō T-A-K-A-H-A-S-H-I G-E-N’-I-C-H-I-R-Ō «Dottor Norimaki!» esclamano Arale e Atomino scambiandosi uno sguardo impaurito. «Ma non è che in quel sacco c’era un fantasma che ha messo fuori uso la macchina che interpreta simultaneamente Taka… Taka-taka-ghiccirò?» «Un fantasma? Sì, forse, bah, bih, boh, sala gadula, magica bula, bidibibodibibù!» replica Norimaki Senbei rivolgendosi all’uditorio, mentre agita una mano nell’aria come se stringesse una bacchetta magica tra l’indice e il pollice. «La macchina deve essersi surriscaldata. Dopotutto l’ho inventata ieri, no? È ancora in fase di rodaggio. State tranquilli, ricomincerà a fare il suo lavoro in un battibaleno. Undue-tre! Simsalabim!»

Tenuto conto che il discorso generale sul postmodernismo nipponico meriterebbe di essere ulteriormente sviluppato, alla luce di quanto detto finora mi sembra adesso opportuno procedere all’analisi di una parte del corpus letterario – sarebbe pressoché impossibile prendere in esame in una sola volta circa venti romanzi e altrettanti saggi – di Takahashi gen’ichirō (nato a onomichi, prefettura di Hiroshima, il 1° gennaio 1951), un autore ancora poco tradotto16 in occidente che incarna molto bene, forse più di ogni altro suo connazionale, la figura dello scrittore postmoderno. Saranno presi in considerazione alcuni dei suoi scritti più rappresentativi, mettendo di volta in volta in evidenza la presenza delle 16 oltre alla traduzione italiana di Sayonara, gyangutachi (cfr. Nota 1), si segnalano le seguenti traduzioni in inglese: «Christopher Columbus Discovers America» (terzo capitolo del romanzo Niji no kanata ni [‘oltre l’arcobaleno’], 1984) (trad. di Alfred Birnbaum), in Aa.Vv., Monkey Brain Sushi: New Tastes in Japanese Fiction, Tokyo – New York, Kōdansha International, 1993, pp. 49-72; «The Imitation of Leibniz» (secondo capitolo del romanzo Yūga de kanshōteki na Nihon yakyū [‘Il raffinato e sentimentale baseball giapponese’], 1988) (trad. di Mochizuki Minoru), in Aa.Vv., New Japanese Voices: The Best Contemporary Fiction from Japan, New York, Atlantic Monthly Press, 1991, pp. 102-22. Su Sayonara, gangsters cfr. gianluca Coci, «Fenomenologia di un libro alieno non identificato», in Takahashi g., Sayonara, gangsters, cit., pp. 345-69; Nakayama Etsuko, «Un “nuovo” linguaggio letterario: Takahashi gen’ichirō», Atti del xxVIII convegno di Studi Giapponesi (Milano), Venezia, AISTUgIA, 2004, pp. 147-58.


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caratteristiche morfologiche del postmoderno, senza tuttavia dimenticare che molti suoi romanzi sono spesso ugualmente collocabili entro la cornice della letteratura avant-pop,17 in particolare per il fatto che «vivono» nell’immaginario mass-mediatico e non si limitano a sfruttarne le forme e gli stilemi per poi criticarlo subdolamente. Nelle opere di Takahashi sono presenti pressoché tutti gli elementi morfologici contraddistintivi della letteratura postmoderna: intertestualità, metanarrazione, eterotopia, apocrifismo, pastiche, pluralismo, prevalenza della spazialità sulla temporalità e così via. Affascinato in egual misura dal romanzo postmoderno americano (Barthelme, Brautigan e Barth su tutti) e dalla poesia giapponese moderna e contemporanea (Tanigawa gan, Tamura Ryūichi, Tanikawa Shuntarō, solo per citarne alcuni), nonché appassionato cultore di manga, baseball e letteratura giapponese del periodo Meiji, Takahashi è un perfetto illustratore dell’immaginazione contemporanea e va assolutamente schierato in riga con quegli autori nei cui testi il predominio ontologico è indiscutibile. Takahashi, come è facile arguire dalla lettura dei suoi romanzi, si pone esclusivamente quegli interrogativi che McHale indica come caratterizzanti dello scrittore postmoderno, agli antipodi dell’approccio epistemologico degli autori modernisti: Che cos’è un mondo? Quali tipologie di mondo ci sono, come sono costituite e in che modo differiscono? Che cosa succede quando tipologie diverse di mondo vengono poste a confronto o quando i confini tra i mondi vengono violati? Qual è il modo di esistenza di un testo, e qual è il modo di esistenza del mondo (o dei mondi) che esso rappresenta?18 17 Movimento artistico-letterario nato negli Stati Uniti verso la fine degli anni ottanta e scaturito dal postmodernismo. È caratterizzato dall’uso massiccio di elementi mutuati dai mass media e da tecniche espressive di matrice avanguardistica e sperimentale. Il principale tratto distintivo con il movimento postmoderno è rappresentato dal differente rapporto con l’universo massmediatico, non più imperniato sulla parodia bensì sulla sua esaltazione: gli autori avant-pop sono essi stessi «prodotti» di quella cultura massmediatica amata/odiata di cui scrivono. Fondatore del movimento è Mark Amerika, artista poliedrico autore del Manifesto dell’Avant-pop (reperibile solo su internet all’indirizzo: Altx.com/manifestos/avant.pop.manifesto.html). Tra gli autori coinvolti nel movimento: Kathy Acker, Jonathan Lethem, Ricardo Cortez Cruz, David Foster Wallace e Philip K. Dick. Si segnalano, in italiano, le antologie: Larry McCaffery (a cura di), Schegge d’America, Roma, Fanucci, 1998; Id. (a cura di), Avant pop. Racconti per una nazione che sogna ad occhi aperti, Milano, ShaKe, 1997. 18 Brian McHale, Postmodernist Fiction, London – New York, Routledge, 1987, p. 10.


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I.4.1: Dr. Slump & co.: il manga nel romanzo di Takahashi Alle domande di McHale, Takahashi risponde costruendo un universo finzionale che attinge in particolar modo dal mondo dei manga, dal cinema, dalla televisione e dalla letteratura del passato, sia occidentale sia giapponese. Il manga sfruttato più di ogni altro – e non avrebbe potuto essere altrimenti, se si pensa all’uso massiccio di sottotesti, parodia, trasmigrazione dei personaggi e quant’altro – è Dr. Slump (1980-’85) di Toriyama Akira. I suoi personaggi, quasi che vivessero una comédie humaine in chiave pop, fanno la loro comparsa in ben tre romanzi: Pengin mura ni hi wa ochite (‘Il sole tramonta nel Villaggio Pinguino’, 1989), Wakusei P13 no himitsu (‘Il segreto del pianeta P13’, 1990) e Gōsutobasutāzu (‘ghostbusters’, 1997). Il sole tramonta nel Villaggio Pinguino (piccola e ridente località situata su un’isola tropicale in cui si svolge buona parte delle vicende del manga su citato) inizia con un incipit metanarrativo in cui Takahashi, nella parte di sé stesso, è alle prese con il figlio che, come compito per le vacanze, deve scrivere addirittura un romanzo. Malgrado i consigli del papà scrittore, il bambino non riesce a combinare nulla di buono, finché ha una splendida intuizione: descrivere e imitare ciò che guarda ogni giorno alla TV, perché si tratta dell’unica cosa che conosca veramente a fondo (del resto l’imitazione consapevole, alias il principio postmoderno del «saccheggio» letterario, è a dir poco fondamentale per Takahashi, che in un saggio scrive: «Imitare i romanzi così come i neonati imitano le parole della mamma»).19 Padre e figlio si piazzano per ore e ore davanti alla TV a guardare i disegni animati. Il risultato, però, è tutt’altro che esaltante: il bambino riesce a scrivere solo un elenco di personaggi famosi dei manga, abbinandovi a malapena un paio di aggettivi. Takahashi, al colmo della preoccupazione, decide allora di svolgere il compito al posto del figlio e scrive le sei storie che seguono, ambientate nel mondo dei manga e degli anime, in cui descrive – l’approc19 Takahashi gen’ichirō, Ichiokusanzenman’nin no tame no shōsetsu kyōshitsu (‘Un corso di scrittura per centotrenta milioni di persone’), Tokyo, Iwanami Shoten – Iwanami Shinsho, 2002, p. 101.


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cio è simile a quello di Donald Barthelme nei confronti di Batman e Robin in uno dei racconti di Ritorna, dottor Caligari – la vita reale, i problemi quotidiani e le angosce di Atomino della serie a fumetti e in animazione Dr. Slump, il quale rivela al dottor Norimaki di essere in grado di sognare e si sente rispondere che ciò è impossibile in quanto i robot non sognano, non crescono e non hanno futuro; di Sazae-san, storica protagonista di una striscia a fumetti, assistente sociale in una casa di riposo che accoglie i protagonisti e i mostri (uno dei quali, Zetton, s’innamora di lei) della famosa serie televisiva Ultraman; di Kinnikuman (‘Muscleman’, supereroe comico dei fumetti), che deve riconquistarsi la fiducia dei suoi familiari, i quali hanno preferito affidarsi alla protezione di Kenshirō di Hokuto no Ken (Ken il guerriero); della giovane attrice teatrale Kitajima Maya di Garasu no kamen (1976-2009, manga di Suzue Miuchi pubblicato in Italia col titolo Il grande sogno di Maya), che si vede appioppare dalla severissima maestra di recitazione, la signora Tsukikage, il compito di interpretare la parte di un misterioso «canguro contemporaneo»; e infine di Doraemon, il celeberrimo gattone robot, che si moltiplica in trentuno differenti sé stesso, ognuno con una caratteristica fisica diversa. In Il segreto del pianeta P13, che reca l’eloquente sottotitolo di «Letteratura dal mondo piena d’amore e tristezza per due robot rotti», Norimaki Senbei, lo strampalato inventore del Villaggio Pinguino, assume sin dalla prima riga il ruolo di io narrante e presenta al lettore due bizzarri robot che rispondono ai nomi di Tom e Jerry (!), i quali non sono capaci di fare nulla fuorché leggere libri di loro esclusivo gusto, libri strani che raramente piacciono agli esseri umani. Dopo una breve introduzione, Senbei si scusa ossequiosamente dicendo che deve partire a bordo del suo razzo e che si assenterà per un bel pezzo, e prepara una serie di «racconti» per intrattenere i lettori e Tom e Jerry. Seguono quindi, a mo’ di un folle zibaldone in chiave futuristica, brevi capitoli di argomento disparato legati da un unico minimo comun denominatore: l’assoluto ed esilarante elogio della stravaganza. La collezione comprende, tanto per rendere meglio l’idea, un «Estratto dal catalogo delle invenzioni del dottor Norimaki Senbei» (tra cui una macchina che legge la poesia contemporanea a velocità costante e


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un’altra che cambia il finale di Romeo e Giulietta in virtù di una conversazione a base di nonsense fra Al Pacino e Shakespeare); un’antologia di poesie scritte dagli abitanti del pianeta Nikochan sotto l’influenza terrestre e commentate da Kurigashira Daigorō (uno dei membri del corpo docente del Villaggio Pinguino); una mini-enciclopedia delle professioni estinte, tra cui quella di «guida dei sogni», nata per aiutare i bambini a scappare dagli incubi notturni; una versione apocrifa del Milione di Marco Polo,20 scritta dallo zio Maffeo, in cui vengono elencate le mille stranezze del lontano oriente, come la «valuta vivente» o i «libri fatti senza carta»; le «Lettere da Adakkia», ovvero missive inviate da un’altra dimensione da un giovane americano scomparso nel corso degli anni Sessanta in cui viene descritto il mondo misterioso in cui è stato catapultato (si tratta in realtà di un luogo del famoso gioco di ruolo Dungeons & Dragons). E si va avanti così, fino alla fine del libro, tra decine e decine di bislacchi e divertentissimi bozzetti di letteratura «aliena», tra l’altro affiancati dalle splendide illustrazioni di matrice surreale di Takahashi Tsunemasa. Bozzetti che vanno apprezzati, al pari di buona parte della genialità takahashiana, nell’ottica di quella particolare «banalità» cercata e tipicamente postmoderna, nonché propria della letteratura fantastica. Come sarebbe possibile, altrimenti, non rifiutare a priori un gregor Samsa che si trasforma in insetto, il ragazzino che parla con le tigri in Zucchero di cocomero di Richard Brautigan, la tigre che vive come se niente fosse in compagnia di una normalissima famiglia in Bestiario di Julio Cortázar, il sangue che piove dal cielo in Bloodfall di T. Coraghessen Boyle o lo stesso protagonista di Sayonara, gangsters di Takahashi che discorre di letteratura e filosofia col suo gatto Enrico IV, amante di cocktail a base di latte caldo e vodka?

20 Lo stratagemma dell’apocrifo è uno strumento tipico di cui lo scrittore postmoderno si serve sovente per esplorare le aree oscure della storia ufficiale, violando e contraddicendo quell’ufficialità o mescolando elementi storici e fantastici in modo da ottenere un effetto eterogeneo pluralizzante. Si pensi, ad esempio, a LETTERS di John Barth, dove la storia americana viene decostruita attraverso le riprese di una troupe cinematografica, o anche a The Public Burning di Robert Coover, in cui la storia ufficiale descritta dal Time e dal New York Times viene presentata come mera finzione.


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«Non dovremmo mai essere troppo stupiti di questa mancanza di stupore» diceva Camus a proposito di Kafka, e lo stesso dovrebbe essere detto riguardo a «Bloodfall», «Bestiary» o In Watermelon Sugar. Perché la questione è precisamente questa: l’assenza di stupore dei personaggi di fronte a fenomeni paranormali serve ad acuire il nostro stupore. La retorica della banalità contrastiva: ecco come potremmo definire questa strategia. Ben lungi dallo sminuire o neutralizzare l’effetto fantastico, […] questa «banalizzazione» del fantastico riesce invece ad accrescere e intensificare il confronto tra normale e paranormale.21

Norimaki Senbei e gli altri abitanti del Villaggio Pinguino la fanno da padroni anche in uno dei nove capitoli di Ghostbusters, il romanzo più ambizioso e postmoderno di Takahashi, di cui si parlerà in dettaglio più avanti. Il settimo capitolo, «Il sole tramonta nel Villaggio Pinguino», reca lo stesso titolo del romanzo del 1989 e ne costituisce una sorta di sequel. Stavolta la comunità è minacciata da un «qualcosa di sconosciuto» che appare in sogno a Parzan e che, a poco a poco, si materializza provocando la fine progressiva delle cose e delle persone, ovvero la morte. Il dottor Norimaki e gli abitanti del Villaggio Pinguino sono costretti ad affrontare un problema tipicamente umano, che mai avevano dovuto fronteggiare nel loro habitat naturale, ossia nelle tavole dei manga o sugli schermi televisivi. La sovrapposizione tra il mondo umano e quello dei fumetti ci pone di fronte a una classica eterotopia, dove l’incompatibile regna sovrano ed è possibile l’incontro fra elementi incongrui. L’eterotopia costituisce uno degli spazi preferiti dagli autori postmoderni, in quanto permette di creare, attraverso strategie come la giustapposizione, l’interpolazione, la sovrapposizione e la contraffazione,22 «zone» assolutamente impensabili nel nostro mondo. Come dice Foucault, ideatore di tale concetto: c’è un tipo di disordine addirittura peggiore di quello dell’incongruo, che è il legare assieme cose inappropriate; mi riferisco a quel disordine in cui frammenti di un gran numero di ordini possibili rifulgono separatamente 21 22

B. McHale, op. cit., pp. 76-77. Ivi, pp. 45-48.


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nella dimensione, priva di leggi o geometria, dell’eteroclito. […] Le eterotopie sono disturbanti, probabilmente perché insidiano segretamente il linguaggio, perché rendono impossibile dare un nome a questo e a quello, perché distruggono la sintassi a priori, e non solo la sintassi con cui costruiamo le frasi, ma anche quella meno evidente che consente alle cose e alle parole di tenersi insieme.23

La scelta di Takahashi di attingere a piene mani dal mondo dei manga è di natura sia passionale sia funzionale. In gioventù aveva vissuto in diretta l’esplosione commerciale del fenomeno manga, divenendo un accanito lettore di due note riviste fondate nel 1959: Shōnen magajin e Shōnen sandē. Da allora non ha mai smesso di leggere manga, appassionandosi in particolare al genere shōjo e scrivendo numerosi saggi brevi sull’argomento. Del resto, l’omaggio che tributa nei suoi romanzi a famose mangaka come Hagio Moto, Takemiya Keiko, Ōshima Yumiko e Miuchi Suzue, solo per citarne alcune fra le più note, rende molto bene l’idea. Un omaggio che viene espresso, in Sayonara, gangsters, mediante l’inserimento intertestuale di due tavole tratte da Mada yoinokuchi (‘La notte è ancora giovane’, 1976) di Ōshima nel punto in cui Nakajima Miyuki Song Book si addormenta e il protagonista dà una sbirciata al manga che questa stava leggendo.24 Secondo lo stesso criterio, in Il sole tramonta sul Villaggio Pinguino viene inserita una tavola tratta da Il grande sogno di Maya di Miuchi.25 Il tributo assume invece connotati intertestuali quando per esempio i nomi di alcuni personaggi dei manga di Hagio Moto (Dana Don Bumbum, Ciuciù Elia Ix d’oricas, Alan Twilight, Frolbericeri Frol) e il titolo di un manga di Takemiya Keiko (Sonata Nordica) vengono presi in prestito nell’episodio di Sayonara, gangsters in cui il protagonista è alle prese, nell’aula dove insegna poesia, con cinque terribili gemelli assolutamente identici di cui non riesce a distinguere nemmeno il sesso (inutile dire che l’androginia è un tema molto caro allo shōjo manga). Infine va ricordato l’epi23 Michel Foucault, The order of Things: An Archeology of the Human Sciences (1966), New York, Pantheon, 1970, p. xVIII. 24 Cfr. Takahashi gen’ichirō, Sayonara, gangsters, cit., pp. 213-15. 25 Cfr. Takahashi gen’ichirō, Pengin mura ni hi wa ochite, Tokyo, Shūeisha Bunko, 1992, p. 114.


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sodio magistrale di Jon Renon tai kaseijin (‘John Lennon contro i marziani’, 1985) in cui Tatum o’Neil fa la sua comparsa in un mare di manga che si apre come il Mar Rosso al passaggio di Mosè, allorché il protagonista le si fa incontro e le regala la prima edizione originale di Ribon no kishi (La principessa Zaffiro).26 Riguardo al ruolo funzionale dei manga nei suoi romanzi, Takahashi dice: In giappone, quando si pensa di inserire in un romanzo qualcosa che ogni lettore conosca, vengono subito in mente i manga. Se Kafka e Dr. Slump fossero letti nella stessa misura, non mi farei problemi a servirmi anche del primo. oggi, nel caso si voglia utilizzare qualcosa di ben noto a tutti, non si può fare a meno di ricorrere alla televisione.27

Mettendo a confronto le parole di Takahashi con la dichiarazione di Steve Katz riportata qui di seguito, si può a ragione parlare di una vera e propria tendenza generazionale, comune a molti scrittori profondamente influenzati da cinema, televisione e fumetti. Se io fossi nato nell’isola di Lesbo – dice Katz – probabilmente il mio lavoro avrebbe preso una direzione completamente diversa, ma io sono nato in una serie di cinematografi, leggendo fumetti tra una proiezione e l’altra.28

I.4.2 ghostbusters Veniamo adesso a Ghostbusters, il cui titolo basterebbe a corroborare quanto appena detto e citato. Si tratta di un romanzo lungo e ambizioso, che Jinnō Toshifumi definisce «una sorta di rimescolatura dei lavori precedenti»,29 dal momento che molti dei personaggi cari all’autore fan26 Cfr. Takahashi gen’ichirō, Jon Renon tai kaseijin, Tokyo, Shinchōsha – Shinchō Bunko, 1988, pp. 118-19. 27 Cit. in Nakagaki Tsuneyuki – Suzuki Shigeru, «gen’ichirō kīwādo», Gendaishi techō (numero speciale dedicato a gen’ichirō Takahashi), Tokyo, Shichōsha, 2003, p. 260. 28 Cit. in Tom LeClair – Larry McCaffery (a cura di), Anything Can Happen: Interviews with American Novelists, Urbana, University of Illinois Press, 1983, p. 239. 29 Toshifumi Jinnō, «Shōsetsu kaidai – Gōsutobasutāzu», Gendaishi techō, cit., p. 252.


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no la loro comparsa nel corso del racconto. Sotto questo aspetto in particolare ricorda LETTERS di John Barth, in cui i personaggi dei romanzi precedenti tornano in scena scrivendo delle lettere a un tipo chiamato John Barth. Takahashi, a sottolineare i circa quattro anni di lavoro occorsi per la stesura, ha affermato: «Come nel caso di Niji no kanata ni (‘oltre l’arcobaleno’, 1984), procedevo scrivendo una piccola quantità di pagine al giorno e poi, quotidianamente, rileggevo e correggevo tutto ciò che avevo scritto fino a quel momento. Andavo avanti così, senza intravedere una fine e, quando a un certo punto mi sono fermato a riflettere, mi sono reso conto che erano trascorsi tre anni. Ho pensato addirittura di smettere e di cominciare a scrivere un altro romanzo, temendo che non sarei mai riuscito a mettere un punto definitivo. Dopodiché ho deciso di limitare il progetto a circa la metà rispetto a quanto mi ero prefissato e sono riuscito a completarlo. Se non avessi preso quella decisione, forse adesso sarei ancora qui a scrivere. Ad ogni modo, questo romanzo ha costituito per me un’esperienza molto importante».30

La struttura narrativa di Ghostbusters, polifonica e fondamentalmente omodiegetica, è piuttosto complessa in quanto il testimone della narrazione non si limita a passare da un personaggio all’altro di capitolo in capitolo, bensì è oggetto di continui passaggi anche all’interno dello stesso paragrafo. Come se non bastasse, il registro si fa di tanto in tanto extradiegetico, senza alcun preavviso. I vari frammenti, intertesti e sottotesti che compongono il romanzo sono tenuti insieme da un’appassionante caccia a un misterioso fantasma chiamato semplicemente «ghost», il quale valica ogni confine spazio-temporale e rende assai labile la distinzione tra realtà e dimensione onirica. Ne sono protagonisti non solo i personaggi storici e fittizi chiamati in causa (nelle stesse pagine convivono il grande maestro di haiku Bashō Matsuo, Don Chisciotte e Butch Cassidy e Sundance Kid!), ma anche lo stesso Takahashi, che interviene direttamente nella vicenda, con piglio 30 Takahashi gen’ichirō, «Takahashi gen’ichirō jishin ni yoru chosaku kaidai», Bungei (numero speciale dedicato a Takahashi gen’ichirō), estate 2006, p. 92.


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metanarrativo, verso la fine della storia. Procedendo con ordine, il racconto si apre con Butch Cassidy e Sundance Kid31 che, simili a due picari catapultati nel Far West, attraversano città e deserti in sella ai loro destrieri rapinando banche e diligenze. Un giorno, un reverendo protestante racconta loro di un misterioso fantasma che starebbe seminando il panico nel lontano Est, al che Butch e Sundance, vestiti i panni dei «paladini della giustizia», decidono di partire e dare la caccia al famigerato «ghost». Il fantasma diventa, in termini beckettiani, il vero protagonista del romanzo in quanto, oltre a tenere i vari personaggi e gli stessi lettori costantemente sul chi va là, riveste il ruolo di perno centrale, dal momento che tutti sono ossessionati dalla sua presenza e, per un motivo o per l’altro, dal desiderio di imbattersi in lui. Nel secondo capitolo, intitolato «oku no hosomichi» (‘Lo stretto sentiero dell’oku’) come il capolavoro di Bashō Matsuo, Butch e Sundance si dilettano a comporre haiku sperando che risultino pregni di wabi e sabi 32 e rievocano l’incontro con un vecchio poeta straniero incontrato durante il viaggio, tra il Missouri e il Mississippi: si trattava proprio di Bashō che, in compagnia del fedele discepolo Sora – i due giravano in moto vestiti come Peter Fonda e Dennis Hopper in Easy Rider – viaggiava verso Est in cerca dell’ultima ispirazione prima della morte. Si apprende poi che l’anziano poeta è finito in una dimensione magica sospesa tra la veglia e il sonno, dove sale a bordo di un treno che vola nel cielo guidato da un conducente fantasma: il quarto e l’ottavo capitolo s’intitolano, entrambi e non a caso, «Haiku tetsudō no yoru» (‘Una notte sul treno dello haiku’), a omaggiare Ginga tetsudō no yoru (‘Una notte sul treno della Via Lattea’) di Miyazawa Kenji, poeta e scrittore amato visceralmente da Takahashi. Mentre è sul treno, sospeso in questa fantastica dimensione onirica, Bashō sogna di incontrare la nipote di Alonso Quijano, alias Don Chisciotte, la quale dichiara di volersi mettere in viaggio alla ricerca dello zio defunto che, prima di morire, aveva rivelato il desiderio di trasmigrare in un mondo parallelo in cui 31 I due erano già stati protagonisti di un sottotesto di Il raffinato e sentimentale baseball giapponese, altro romanzo di Takahashi tipicamente postmodernista, in cui s’intrecciano filosofia occidentale moderna, cultura giapponese e storia recente degli Hanshin Tigers. 32 Cfr. Takahashi gen’ichirō, Gōstobasutāzu, Tokyo, Kōdansha, 1997, p. 62.


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viveva il fantasma di sé stesso, incontrato anni prima in compagnia di Sancho Panza. Come se non bastasse, mentre la narrazione rimbalza come una scheggia impazzita da una vicenda all’altra, nel sesto capitolo l’autore fa la sua comparsa nelle vesti di sé stesso in piena crisi creativa. Sarà dunque raggiunto dalla nipote di Alonso Quijano, che lo crede il fantasma di suo zio. Il tutto si conclude in un ritorno al punto di partenza, con Butch e Sundance a cavallo nelle sconfinate praterie del West e la rivelazione che l’intera storia non era altro che il delirio ante mortem di un giovane cacciatore di taglie. La trama, pur se qui sommariamente descritta, è sufficiente a rivelare quanto Ghostbusters sia un romanzo che gravita entro i cardini del postmoderno. Sotto diversi aspetti – e mi riferisco sia alla lunga genesi, sia alla struttura complessa del romanzo e all’uso del pastiche, della parodia e dell’ironia – non è forse azzardato dire che Ghostbusters sta a Takahashi come Vineland a Pynchon. Entrambi i romanzi rappresentano alla perfezione, chiamando in causa Alan Wilde, «la percezione e l’accettazione di un mondo il cui disordine eccede e sfida ogni ricomposizione».33 Del resto lo spazio intertestuale dei due romanzi è davvero notevole e «disordinato», e la sua straordinaria ampiezza è dimostrata dai numerosi personaggi trasmigrati da altre opere, all’insegna di una eterogeneità estrema sia dal punto di vista temporale sia da quello dimensionale. Si chiede McHale, in tema di retour de personnages: Ma perché giocare in questo modo con il fuoco? Be’, di certo anche perché tirare in ballo il nome di una celebrità risulta in qualche modo intrigante per il lettore; è una strategia che racchiude un certo profumo di scandalo. E qual è, esattamente, la fonte di questo scandalo? Essa è, in definitiva, ontologica: il confine tra i mondi è stato violato. C’è uno scandalo ontologico quando un personaggio del mondo reale viene inserito in un contesto fittizio, dove interagisce con personaggi puramente fittizi.34

33 Alan Wilde, «Postmodernism and the Missionary Position», New Literary History, vol. 20, n. 1, 1988, p. 28. 34 B. McHale, op. cit., p. 85.


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Allo stesso modo in cui Max Apple, in Understanding Alvarado, inserisce Fidel Castro in una partita di baseball fra personaggi finzionali, o in cui guy Davenport fa incontrare Kafka e Wittgenstein in Aeroplanes at Brescia – solo per citare due dei tanti «scandali ontologici» della letteratura occidentale – Takahashi rende possibile l’incontro fra il più noto dei poeti giapponesi e famosi personaggi del mondo letterario e cinematografico occidentale. L’approccio intertestuale oriente/occidente era tra l’altro già stato magnificamente esplicitato nel romanzo d’esordio, Sayonara, gangsters, attraverso una citazione in cui Takahashi fonde Finnegans Wake di Joyce e Sonezaki shinjū (Gli amanti suicidi di Sonezaki, 1703) di Chikamatsu Monzaemon: Lei mi guardò e sussurrò al mio orecchio: «o mio dolce fluidofiume ci conduce con un più commodo vicus di ricircolo di nuovo a Howth Castle Edintorni». Io stavo lì lì per eiaculare, perciò mi venne naturale sentirmi alquanto contrariato. Baciai la punta del suo naso velato da una lieve patina di sudore e le raccomandai di prestare più attenzione. «Scusa, ma Fluidofiume che ci conduce con un più commodus vicus di ricircolo non è il mio nome!» «oh sì, Mio dolce fluidofiume, passato Eva e Adamo, da spiaggia sinuosa di Dublino, la brina sulla via della piana di Adashigahara che svanisce a ogni passo, saremo in eterno uniti come le due stelle innamorate, oh sì!».35

I.4.3 Sayonara, gangsters – oltre l’arcobaleno – John Lennon contro i marziani: la «trilogia degli anni Sessanta» Decisamente avant-pop e molto meno ambiziosi e autoreferenziali sono i primi tre romanzi di Takahashi, che costituiscono un’ideale «trilogia degli anni Sessanta» imperniata su una poetica fatta di frammenti, amore, pace e rivoluzione, ovvero sul tentativo di ricreare la tipica 35

Takahashi g., Sayonara, gangsters, cit., p. 70.


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atmosfera trasognante dei favolosi anni del flower power. «Non volevo semplicemente scrivere un romanzo», dice Takahashi a proposito di oltre l’arcobaleno, «bensì gli anni Sessanta in tutto e per tutto».36 I tre romanzi hanno inoltre in comune l’impianto strutturale, ampiamente basato sulla metanarrazione. In Sayonara, gangsters, il protagonista e io narrante è un insegnante, sognatore e idealista, di un’improbabile scuola di poesia. Si innamora della bellissima Nakajima Miyuki Song Book (personaggio ispirato alla famosa cantante folk giapponese Nakajima Miyuki), una ex gangster che lo coinvolgerà, suo malgrado, nel proprio passato e ne determinerà la metamorfosi da insegnante di poesia a sfortunato «malvivente». Dopo una lunghissima serie di episodi esilaranti, lirici e densi di personaggi stravaganti spesso mutuati dal database della letteratura mondiale, poco prima della trasformazione finale, il protagonista, palesando senza reticenze la natura metanarrativa del testo, confessa: «Abbandono la penna sul tavolo, mi alzo dalla sedia e sbadiglio. Non mi è rimasto più nulla da scrivere. Mi sono infine ricongiunto con questo presente».37 Anche in oltre l’arcobaleno (il titolo del romanzo è dovuto alla over the Rainbow del film Il mago di oz), ricco di sottotesti ispirati come al solito ai mondi più disparati (manga, filosofia, baseball, fiabe occidentali ecc.) e fedele come non mai alla lezione del racconto nel racconto delle Mille e una notte, il protagonista e io narrante è egli stesso autore, in un’ipotetica storia in presa diretta, di ciò che leggiamo. Scrive inoltre seguendo le indicazioni della figlia dodicenne cercando di accondiscendere alle sue richieste. In John Lennon contro i marziani (il titolo allude semplicemente a una bizzarra imprecazione senza senso pronunciata da uno dei personaggi), il protagonista e io narrante sogna di scrivere, sulla base di appunti presi durante un periodo di detenzione in carcere,38 una «pornografia seria». gliene capitano però di tutti i colori e il suo tentativo fallisce miseramente. A sconvolgere la sua sgangherata esistenza è soprattutto l’improvvisa ri36 Takahashi gen’ichirō, «Zensekai o kakō to shite ita», in Id., Niji no kanata ni, Tokyo, Kōdansha Bungei Bunko, 2006, p. 204. 37 Takahashi gen’ichirō, Sayonara, gangsters, cit., p. 338. 38 Takahashi, durante gli anni dell’università e della contestazione studentesca del Sessantotto, subì realmente l’esperienza del carcere, per circa un anno, dietro l’accusa di partecipazione a banda arma-


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comparsa di un suo ex compagno di prigione, chiamato Subarashii Nihon no sensō (‘La meravigliosa guerra giapponese’) e ossessionato da incubi in cui abbondano cadaveri putrefatti e immagini necrofile. Il protagonista tenta invano di guarirlo, ricorrendo a decine e decine di metodi che culminano in cinquantatré (corrispondenti ad altrettanti brevi paragrafi) «lezioni d’amore». A parte le trame frammentarie, discontinue e postmodernamente schizofreniche, ciò che forse colpisce più di ogni altra cosa è il puntiglioso lavoro di ricerca sulla parola, fondato sulla poeticità del suono e sul valore iconico del linguaggio, che raggiunge il perfetto equilibrio tra poesia e sperimentazione in Sayonara, gangsters. È una ricerca che ha da un lato le sue origini nei tentativi «scultorei» effettuati prima di ogni altro da Flaubert (aspirava a scrivere un livre sur rien, ovvero una collezione di frasi prive di contenuto in cui le parole potessero assumere la condizione di una scultura) e poi da gertrude Stein (in questo senso raggiunge i massimi risultati in Teneri bottoni) e ancora da Queneau, Brautigan, Barthelme e molti altri, e dall’altro lato dalla passione di Takahashi per il sanbunshi39 e per la poesia giapponese contemporanea. Doveva pur esistere, da qualche parte, un legame tra poesia e romanzo. Ricordo che mi chiedevo spesso cosa fosse successo al giappone e dove diavolo fosse finita la poesia. […] Ho sempre pensato che nel nostro paese poesia e romanzo vengano concepiti come due generi letterari completamente diversi. L’unico momento in cui essi scendono a patti è quando un poeta abbandona la poesia e viene reclutato dal mondo della narrativa. […] Di norma, per uno scrittore giapponese «normale» la poesia contemporanea nazionale equivale a uno scritto di un lontano paese straniero. […] Io volevo scrivere romanzi supportati dalla forza e dall’intensità delle parole.40

ta. Il trauma della carcerazione gli causò seri problemi psicologici, che lo destabilizzarono al punto tale da provocargli una forma di afasia dalla quale si riprese proprio grazie alla lettura e alla scrittura, dopo diversi anni di lavoro in fabbrica come operaio. 39 Termine con cui si è soliti indicare la poesia giapponese moderna in prosa, nata negli anni Venti del secolo scorso e ispirata a Baudelaire e al simbolismo francese. 40 Takahashi gen’ichirō, cit. in Takahashi g. – Katō N. – Nagae A., «Kotoba, kakumei, sekkusu», cit., pp. 19-22.


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Leggendo queste righe è facile individuare le ragioni della passione di Takahashi per Miyazawa Kenji e del doppio tributo che gli ha dedicato, rispettivamente nel 2005 e nel 2006, con Miyazawa Kenji Gurētesutohittsu (‘Miyazawa Kenji greatest Hits’), una raccolta di venti racconti che recano i titoli di altrettante opere di Miyazawa e consistono in una sorta di stravaganti reinterpretazioni molto diverse dagli originali, e con Daisankai Miyazawa Kenji seikai taikai ni sanka shite (‘Partecipando alla terza conferenza mondiale su Miyazawa Kenji’), un racconto apparso sul numero del sessantenario (ottobre 2006) della rivista Gunzō.

«Ehi, dottor Norimaki» protestano disperati Arale e Atomino, giusto un nanosecondo prima di acciuffare la vera essenza della loro intima natura. «L’interprete simultaneo di Taka… Taka-taka-ghiccirò si è inceppato!» «Mmh…» mugugna cogitabondo Norimaki Senbei, ficcando il testone riccioluto nell’imbuto-proboscide dell’interprete simultaneo per T-A-K-A-H-A-S-H-I G-EN’-I-C-H-I-R-Ō. «Corpo di mille balene! Ma questa non è la macchina che ho inventato ieri! È solo una sporca imitazione della macchina che ho inventato ieri… Mashirito me l’ha fatta di nuovo, maledetto! Presto, presto, chiamate Butch e Sundance e fate distruggere questo inutile ammasso di ferraglia!!» Sun turnin’ ‘round with graceful motion We’re setting off with soft explosion Bound for a star with fiery oceans… Ma il cielo è sempre più blu, uh uh, uh uh  Ma il cielo è sempre più blu, uh uh, uh uh… 

つづく


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IV. Mostri made in Japan: orientalismo e auto-orientalismo nell’era della globalizzazione di Toshio Miyake

The monstrous body is pure culture.A construct and a projection, the monster exists only to be read […]. Like a letter on the page, the monster signifies something other than itself; it is always a displacement, always inhabits the gap between the time of upheaval that created it and the moment into which it is received, to be born again. JEFFREY JERoME CoHEN 1

IV.1 Il Giappone: paese dei mostri o paese mostruoso? Sin dall’apparizione del dinosauro radioattivo godzilla, i mostri made in Japan hanno conquistato uno status rilevante nell’immaginario mostruoso internazionale, diventando uno dei marchi distintivi della «cultura giapponese»; o meglio, sono ormai a tutti gli effetti un contrassegno della sua versione contemporanea e più popolare nota come «Jculture». Con questo neologismo si comprendono ambiti eterogenei che vanno dall’anime al videogioco, dal manga al character design, dal sushi alle mode giovanili, fino ad arrivare all’arte Neo-pop. Tra i suoi prodotti più noti ricordiamo l’anime apocalittico Neon Genesis Evangelion (1995) di Anno Hideaki e il pluripremiato La città incantata (2001) di Miyazaki Hayao; oppure Ringu (‘Ring’, 1998) di Nakata Hideo, il simbolo del nuovo cinema J-horror; o ancora l’esercito sterminato dei Pokemon, i «mostri tascabili» della Nintendo, senza dimenticare l’este1 Jeffrey J. Cohen, «Monster Culture (Seven Theses)», in Id. (a cura di), Monster Theory: Reading Culture, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996, p. 4.


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tica del Superflat di Murakami Takashi. Tutti mettono in scena un ricco repertorio di icone mostruose – cyberpunk, nostalgiche, spettrali, ludiche, pop-artistiche – contribuendo così alla recente immagine cool del giappone sullo scenario globale dell’economia culturale. In giappone, la proliferazione e il successo dei nuovi mostri costituiscono solo una sfaccettatura del crescente interesse per le tradizioni spi-


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IL gIAPPoNE: PAESE DEI MoSTRI o PAESE MoSTRUoSo?

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rituali, il misticismo e l’«altro mondo» (kaii), popolato da un numero ancora più nutrito di vecchi mostri (yōkai, bakemono, yūrei). Progetti di ricerca governativi, mostre nei musei nazionali e monografie accademiche conferiscono legittimazione alla scienza dei mostri giapponesi (yōkaigaku) e, indirettamente, al fascino popolare per il (re)incantamento della propria cultura e delle origini locali.2 Al contempo, con la negoziazione in atto di un’immagine nazionale più attraente agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, si assiste a una rivalutazione istituzionale dei contenuti ricreativi della J-culture che attinge a piene mani dal suo repertorio mostruoso moderno. Sono in particolar modo le versioni più amicali e carine (kawaii) a essere oggetto di una sorta di branding nazionale, come nel caso del gatto-robot atomico Doraemon, nominato nel 2008 primo «Ambasciatore Culturale degli anime» da parte del Ministero degli Affari Esteri. Alla luce di questa situazione, un interrogativo immediato riguarda senz’altro il perché della ricchezza e rilevanza di tale repertorio mostruoso proprio nell’Arcipelago. I mostri sono convenzionalmente considerati delle costruzioni culturali su cui vengono proiettate le ansie, le paure o i desideri di una comunità locale, regionale o nazionale. Si prestano quindi a essere interpretati come dei simboli collettivi, come una sorta di specchi metaforici di un’identità bisognosa di dare forma a un’alterità deformata per affermare la propria esistenza. In quanto tali, la loro ricchezza può essere ricondotta, come avviene nell’ambito antropologico della «scienza dei mostri» (yōkaigaku), sia all’eterogeneità sincretica delle molte tradizioni religiose che si sono sviluppate in giappone una accanto all’altra (buddismo, shintō, taoismo), ognuna con il proprio bagaglio mostruoso, sia agli aspetti animistico-politeistici condivisi da tali tradizioni, tuttora prevalenti nella religiosità popolare e nel folklore.3 oppure è possibile storicizzarne l’esistenza, come avviene in ambito dei cultural studies del 2 Per una panoramica del successo moderno e contemporaneo dei mostri tradizionali in giappone, cfr. Michael Dylan Foster, Pandemonium and Parade. Japanese Monsters and the Culture of Yōkai, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2009. 3 Per un’introduzione allo yōkaigaku cfr. Komatsu Kazuhiko, Yōkaibunka nyūmon (‘Introduzione alla cultura dei mostri tradizionali’), Tokyo, Serika Shobō, 2006.


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giappone, secondo i mutamenti socioculturali che i nuovi mostri sono chiamati a incarnare.4 In effetti, l’associazione fra mostri e cambiamenti è riscontrabile più volte nella storia recente nipponica. Prima, durante il difficile passaggio dall’epoca premoderna a quella moderna alla fine del periodo Tokugawa (1600-1867), con la moltiplicazione senza precedenti di mostri nuovi, immortalati dall’iconografia e dal teatro dell’epoca; poi, durante i cambiamenti più intensi o critici nel corso della modernizzazione, come all’inizio del Novecento, con la rielaborazione moderna dei mostri tradizionali e l’istituzionalizzazione della «scienza dei mostri»; e ancora, nel periodo post-bellico, con godzilla e la nuova generazione di smisurati e terrificanti mostri chiamati a personificare il ricordo della distruzione atomica e l’ansia per un’apocalisse a venire. Tuttavia, a prescindere che si tenti di spiegare questi mostri in termini culturalistici come emanazione naturale della tradizione religiosa e folklorica, oppure piuttosto come prodotto storico di qualche specifico cambiamento socio-politico o economico (urbanizzazione, capitalismo, industrializzazione, guerra, alienazione sociale ecc.), si rimane comunque confinati dentro a una prospettiva interpretativa unilaterale e interna al paese. In altre parole, rimane elusa la questione contemporanea circa il successo dei mostri giapponesi al di fuori dei confini nazionali: la loro potenzialità sconfinante non solo di incuriosire o affascinare il pubblico europeo e americano per le caratteristiche intrinseche della loro mostruosità o per ciò che essi possono dire del giappone, ma di indurre, in veste di specchi deformanti, a riconoscere la natura delle proprie proiezioni sui mostri e quindi sull’altro giapponese. In considerazione quindi della crescente affermazione (ri)creativa non solo nazionale ma anche globale dei mostri made in Japan, in questa sede ci si interroga sui risvolti ancora poco noti e studiati di questo fenomeno, attinenti alle dinamiche transnazionali di costruzione di 4 Per un approccio critico alle origini dello yōkaigaku cfr. gerald Figal, Civilization and Monsters: Spirits of Modernity in Meiji Japan, Durham – London, Duke University Press, 1999. Mentre per una monografia sul successo globale dei mostri nell’industria ludica cfr. Anne Allison, Millennial Monsters: Japanese Toys and the Global Imagination, Berkeley – Los Angeles – London, University of California Press, 2006.


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IL MoSTRo CoME MEDIAToRE IBRIDo DI IDENTITà E ALTERITà

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identità e alterità culturali. Lo scopo di fondo è di porre l’attenzione non tanto sui singoli mostri in sé e sulla loro specifica genealogia interna al giappone, quanto sul loro ruolo discorsivo più esteso – in senso di mostruosità – nel mediare i complessi rapporti interculturali, fra autorappresentazioni in giappone ed eterorappresentazioni del giappone da parte europea e americana. Nonostante i diversi orientamenti, la reciprocità e complicità di entrambe queste modalità di rappresentazione – le prime verso la costruzione di identità, le seconde verso quella di alterità – sono state strategiche nella retorica moderna delle «teorie sui giapponesi» (nihonjinron): un nazionalismo culturale egemone nel dopoguerra in cui voci autorevoli giapponesi ed euro-americane hanno partecipato a una sorta di gioco di specchi, di orientalismo e auto-orientalismo, articolando e riflettendosi a vicenda il mito di una «cultura nipponica» unica ed essenzializzata. L’affermazione dei mostri come un contrassegno della J-culture offre l’occasione per verificarne il potenziale (s)confinante, la discontinuità o meno con la precedente retorica, affrontando gli aspetti metaforici della mostruosità con le sue connotazioni di ibridismo, ambivalenza, eccesso, e il suo potenziale di articolare di una versione postmoderna del gioco di specchi, forse più adatta alle nuove dinamiche transculturali della globalizzazione. IV.2 Il mostro come mediatore ibrido di identità e alterità Prima di entrare nello specifico di questa riflessione sul rapporto fra nipponicità e mostruosità, autorappresentazioni ed eterorappresentazioni, sono opportune alcune precisazioni terminologiche. Riguardo al termine «mostro» esistono ovviamente nel contesto euro-americano un’infinità di definizioni, e lo stesso vale anche per i corrispondenti termini giapponesi, che declinano la mostruosità ricorrendo a una gamma ancora più eterogenea di designazioni. Il termine yōkai (‘apparizione misteriosa’) è quello più caratteristico nell’ambito del folklore, adottato nei confronti della miriade di creature e manifestazioni soprannaturali o inspiegabili, a metà strada fra divinità e demoni, quali oni (‘orco’), tengu


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(‘mostro alato delle montagne’) e kappa (‘folletto dei fiumi’). La designazione bakemono (‘cose che si trasformano’), solitamente usata come sinonimo di yōkai, rimanda piuttosto alle capacità mutanti delle versioni soprattutto zoomorfe come kitsune (‘volpe’), tanuki (‘procione’) e neko (‘gatto’), tutte in grado di assumere sembianze umane, finendo spesso, data l’insistenza sugli aspetti mutanti o fantasmatici, con il sovrapporsi al termine di yūrei, gli spiriti veri e propri degli esseri defunti.5 A questi termini più tradizionali se ne aggiungono altri ancora più generici come kaibutsu (‘cosa misteriosa’) o monsutā (dall’inglese monster), riferiti soprattutto ai mostri moderni, sia autoctoni come i kaijū (‘belva misteriosa’), creature dalle dimensioni e dalla forza terrificanti sul modello del dinosauro radioattivo godzilla e della sua progenie, sia stranieri come tutti quelli che danno vita al repertorio mostruoso mondiale. In questa sede si è preferito utilizzare il termine «mostro» secondo un’accezione in grado di comprendere i significati più generici attribuitigli in ambito sia euro-americano sia giapponese: creatura immaginaria, costituita da elementi incongrui, spesso dall’aspetto abnorme e terrificante. oltre a questo significato generico si è voluto porre l’attenzione su alcuni suoi aspetti simbolici, ritenuti più adatti a estendere la riflessione dal senso letterale del mostro a quello più ampio della mostruosità nella costruzione di alterità/identità culturali. Il mostro è di solito ambivalente, sia terrificante sia affascinante; può rappresentare o suscitare sentimenti e significati antitetici; può incutere paura o ribrezzo, e proprio per questo essere attraente e seducente. Inoltre risulta spesso smisurato, o per eccesso o per difetto; troppo grande o troppo piccolo; troppo forte o troppo veloce; con troppi occhi, arti, protuberanze grottesche, comunque sempre differente rispetto agli standard umani. È anche incongruo, aspetto che riguarda non solo la sua dimensione quantitativa, ma anche quella logica. Questo significa che dal punto di vista delle tassonomie convenzionali e normative, esso è tale dal momento in cui viene considerato innaturale, contraddittorio, bizzarro o assurdo. 5 Per una presentazione sommaria dei mostri tradizionali cfr. il dizionario illustrato in due volumi di Mizuki Shigeru, Enciclopedia dei mostri giapponesi (A-K), Bologna, Kappa Edizioni, 2004; Id., Enciclopedia dei mostri giapponesi (M-Z), Bologna, Kappa Edizioni, 2005.


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IL MoSTRo CoME MEDIAToRE IBRIDo DI IDENTITà E ALTERITà

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grazie alle suddette caratteristiche, tali figure sono in grado di svolgere una funzione simbolica importante. Primo: il mostro costituisce un’immagine evidente dell’altro da sé, del diverso rispetto alla dimensione umana, simbolo della differenza in confronto alla propria identità (umani/non-umani, noi/altri, civiltà/barbarie); secondo: questa figura non rappresenta solo una mera alterità capace di terrorizzare o suscitare disgusto, considerando il fatto che i mostri più interessanti sono quelli che combinano e (con)fondono, unendo tratti che dovrebbero invece rimanere separati perché appartenenti a categorie e a mondi differenti (umana, animale, vegetale, artificiale o divina). In altre parole, i mostri – almeno quelli culturalmente più significativi – rappresentano in modo metaforico non tanto una diversità univoca, quanto una di tipo ibrido. Sono figure composite e mutanti che non solo segnalano i confini fra mondi e categorie diverse, creando distanza o allontanando, ma, grazie alle loro caratteristiche ibride, sono anche in grado di oltrepassare e trascendere i confini stessi. Possono diventare dei principi dinamici che consentono di avvicinare dimensioni e categorie diverse, mettendo in discussione la natura stessa dei confini che le separano e quindi la logica tassonomica di fondo che ne giustifica l’esistenza, fino a favorirne in definitiva un cambiamento. I mostri rappresentano dei mediatori simbolici strategici di identità e alterità, il cui potenziale simbolico di tipo sconfinante si misura nel passaggio da un’alterità deformata a una deformante. La prima è una sorta di specchio culturale, in cui è possibile proiettare tutto ciò che non si vuole o si ha paura di essere, dalle ansie e inquietudini più generiche fino ai desideri più intimi e viscerali. Un’alterità deformata, la cui modificazione o deformazione deve essere tale da non riconoscervi la propria autorialità di fondo; un misconoscimento indispensabile per confermare per contrasto la propria identità ideale, delineandola tuttavia secondo modalità statiche e conservatrici dello status quo culturale. L’alterità deformante del mostro costituisce invece un principio riflessivo e trasformativo, che nasce dal momento in cui si inizia a riconoscere sé stessi nel mostro, assieme a tutte le proprie proiezioni. In questo caso, lo specchio mostruoso diventa l’occasione conoscitiva e critica per individuare i li-


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miti confinanti della propria identità, modellata su convenzioni e logiche insoddisfacenti, dischiudendo così la possibilità per una mutazione creativa e liberatoria. IV.3 Mostri e identità nazionale oltre al ricco repertorio di mostri nella storia culturale passata e nell’industria culturale presente, un’indicazione importante della rilevanza di queste creature in giappone è data soprattutto dalla loro «istituzionalizzazione» in epoca moderna. Tra la fine del xIx e l’inizio del xx secolo, si assiste alla prima legittimazione accademica dello studio scientifico dei mostri. La testimonianza maggiore in tal senso è la nascita dello yōkaigaku, la teratologia nipponica o «scienza dei mostri», attribuita all’opera del filosofo Inoue Enryō (1859-1962), soprannominato proprio Yōkai Hakase (Dottor Mostro). In verità, Inoue era un estremo oppositore dell’esistenza empirica di tali esseri e aveva avviato uno studio sistematico di quelli autoctoni in chiave psicologica, conducendo campagne pedagogiche volte a sradicare nelle nuove generazioni le credenze nei fenomeni soprannaturali od occulti. Ci sono tuttavia altri studiosi che hanno dato negli stessi anni un’impronta più duratura alla disciplina, quali Yanagita Kunio (1875-1962), fondatore dell’etnologia giapponese (minzokugaku) e fautore della rinascita moderna dei mostri tradizionali in ottica culturalista. Di Inoue, Yanagita condivide la prospettiva scientifica circa la loro inesistenza empirica, insieme alla convinzione circa il loro carattere specificamente giapponese, che lo conduce a considerare lo studio dei mostri come indispensabile nella documentazione e comprensione del folklore minacciato dalla modernizzazione e occidentalizzazione. I mostri tradizionali, a suo vedere espressione dei sentimenti più intimi e caratteristici della gente comune del paese, dopo avere seminato per secoli terrore e paura, assurgono ora – ormai quasi estinti dall’ambito del folkore – allo status di veri e propri simboli nazionali. Per esempio, nel sottolineare l’unicità tutta autoctona del tengu, uno dei mostri più popolari e temuti nel passato, gli vengono attribuite adesso una serie di


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MoSTRI E IDENTITà NAZIoNALE

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virtù marziali: purezza, tenacia, animo vendicativo e la vocazione a schierarsi con i deboli contro i prepotenti, tanto da accomunarlo alla «via del samurai», il bushidō formulato filosoficamente negli stessi anni da Nitobe Inazō (Bushidō, 1899).6 Così, di fronte alla progressiva erosione delle credenze sull’esistenza reale dei mostri, si assiste nel corso del primo Novecento a una loro rivalutazione tutta moderna, che dall’ambito degli studi etnografici si estende a quello delle arti e della cultura in generale. Tra gli esempi più noti si ricordi Kappa (1927) dello scrittore Akutagawa Ryūnosuke (1892-1927), in cui i mostri-folletti dei fiumi e la loro società intera sono protagonisti di un romanzo distopico, in veste di specchio deformante e satirico, volti a evidenziare gli aspetti disfunzionali della modernizzazione del giappone reale (imperialismo militare, capitalismo avido, eugenetica, depressione, nichilismo).7 Mentre, nel dopoguerra, è in particolar modo la fortunata serie di manga Gegege no Kitarō (1959-’69) di Mizuki Shigeru a inaugurare un vero e proprio boom degli yōkai negli anni Sessanta, con infiniti riadattamenti nell’animazione, nel cinema e nei videogiochi. Nonostante la marginalità della «scienza dei mostri» nei decenni successivi alla sua nascita, stiamo assistendo di recente a un revival di questo singolare tema accademico. Uno degli sponsor istituzionali più importanti è il Nichibunken (Centro di ricerca internazionale per gli studi giapponesi), vicino a Kyoto: un centro semi-governativo di ricerca internazionale di studi nipponistici, che sin dalla sua nascita nel 1987 ospita stabilmente progetti di ricerca dedicati al cosiddetto «altro mondo» (kaii) e ai mostri tradizionali (yōkai) che lo popolano. L’attuale progetto di ricerca è guidato dall’antropologo Komatsu Kazuhiko, che sin 6 Cfr. rispettivamente «Yūmeidan» (‘Conversazioni sul ‹mondo nascosto›’), Shinkō bunrin I, n. 6, 1905, pp. 242-58 e «Tengu no hanashi» (‘Storie di tengu’, 1909), in Yanagita Kunio zenshū, vol. 6, Tokyo, Chikuma Shobō, p. 184. Per un’analisi del tengu si veda Toshio Miyake, «Il tengu, demone divino della montagna», in Takashi Yoichi, La storia del tengu (trad. it. di Marcella Mariotti), Padova, CasadeiLibri, 2008, pp. 9-40. 7 Cfr. Akutagawa Ryūnosuke, «Nel paese dei kappa» (trad. it. di ghio Keiko), in Id., Rashōmon e altri racconti, Torino, TEA, 1988, pp. 237-93. Per un’analisi del kappa cfr. Toshio Miyake, «Il kappa, caleidoscopio dell’immaginario nipponico», in Takashi Yoichi, Storia di un kappa (trad. it. di Marcella Mariotti), Padova, CasadeiLibri, 2006, pp. 41-69.


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dal 2002 ha costruito un’imponente banca dati consultabile sul sito internet del Nichibunken.8 Esso è composto da più di 35 mila voci che documentano testimonianze su fenomeni soprannaturali e mostri in giappone, comprese le rivisitazioni meMostri neo-pop (Murakami Takashi, 727, 1996). tropolitane di fantasmi che infestano le scuole (gakkō kaidan) o di spiriti vendicativi in forma di donna dalla bocca sfigurata (kuchisake onna). Komatsu ha tra l’altro pubblicato molte monografie su questi temi, concentrandosi proprio sui mostri quali depositari del sentire più intimo e radicato della gente comune, una sorta di «luogo natio dell’anima» (furusato), come già avvenuto con Yanagita Kunio ai primi del Novecento.9 L’apprezzamento dei mostri come possibile simbolo culturale non è tuttavia circoscritto alle versioni tradizionali (yōkai, bakemono, yūrei), è esteso anche allo sterminato numero di nuovi tipi offerti dall’industria culturale. Un’importante elaborazione identitaria in chiave critico-estetica viene offerta sin dagli anni Novanta da esponenti del Neo Pop come Murakami Takashi, l’artista giapponese più affermato sullo scenario internazionale e creatore in prima persona di un numero infinito di mostri inediti. In sintonia con il critico d’arte Sawaragi Noi e altri teorici del postmoderno, Murakami interpreta le culture popolari e le sottoculture giovanili del dopoguerra come le espressioni più sintomatiche della condizione ambivalente del giappone contemporaneo, tanto da averne assunto in pieno stilemi e motivi nel proprio progetto estetico: una condizione paradossale, testimoniata dai rapporti conCfr. Nichibun.ac.jp/YoukaiDB (visitato il 5 gennaio 2009). Cfr. Komatsu Kazuhiko, Yōkaigaku shinkō. Yōkai kara miru Nihonjin no kokoro (‘Nuove riflessioni sulla scienza dei mostri. L’animo dei giapponesi visto attraverso i mostri tradizionali’), Tokyo, Shōgakukan, 1994. 8 9


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traddittori con la propria esperienza bellica, il trauma atomico, i vicini paesi asiatici, gli Stati Uniti e il ruolo dell’imperatore.10 Si tratterebbe di questioni problematiche non apertamente o sufficientemente discusse e risolte sulla scena pubblica, che pertanto sarebbero state rimosse e trasfigurate nell’ambito più marginale dell’anime, del manga, dei videogiochi e delle sottoculture giovanili, come quella degli otaku. Semplificando, questa sarebbe la ragione per cui le fantasie e gli stili visivi delle culture popolari sarebbero tanto deformati e grotteschi, così saturi di violenza e sesso, infantilismo, catastrofismo apocalittico e, soprattutto, pieni di mostri. Una mostruosità diffusa intesa non solo come sintomo generico delle contraddizioni intrinseche di un’identità nazionale sempre subalterna all’egemonia politica e culturale degli Stati Uniti, ma rivendicata addirittura con orgoglio come possibile progetto estetico della nuova arte giapponese: We are deformed monsters. We were discriminated against as «less than humans» in the eyes of the «humans» of the West. […] the Superflat project is our «Monster Manifesto», and now more than ever, we must pride ourselves on our art, the work of monsters.11

IV.4 Mostri e orientalismo Il «Monster Manifesto» (kaibutsu sengen) di Murakami, nonostante il tono provocatorio e promozionale, offre lo spunto per porre l’attenzione su un aspetto strategico nel rapporto fra mostri e costruzione collettiva dell’identità/alterità nel giappone moderno. Pur concentrandosi su una riflessione circa la genealogia e lo statuto dell’«arte» in giappone, l’enfasi posta sull’autorialità euro-americana come logos normativo 10 Cfr. Sawaragi Noi, «on the Battlefield of “Superflat”: Subculture and Art in Postwar Japan», in Murakami Takashi (a cura di), Little Boy: The Arts of Japan’s Exploding Subculture, London, Yale University Press, 2005, pp. 187-207 e Azuma Hiroki, Dōbutsuka suru posutomodan: otaku kara mita Nihonshakai (‘Il postmoderno ‹animalizzato›. La società giapponese vista attraverso gli otaku’), Tokyo, Kōdansha, 2001. 11 Murakami Takashi, «Superflat Trilogy: greeeting, you are alive», in T. Murakami (a c. di), op. cit., p. 161.


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e «umano» che non riconosce varianti di sé stesso, se non come versione «subumana» di «mostro deformato», evidenzia il ruolo fondamentale dello sguardo occidentale nel determinare a priori qualsiasi discorso o prassi sull’«arte giapponese» e per estensione sui suoi stessi autori e sulla loro identità nazionale. In altre parole, i mostri contemporanei non sarebbero solo il prodotto storico di autorappresentazioni interne alla nazione per dare forma a una qualche alterità deformata o deformante, compreso lo stesso rapporto difficile con l’«occidente», ma sarebbero piuttosto condizionati proprio dallo statuto egemone di quest’ultimo, in grado di imporre al giappone intero una subalternità disumanizzata e mostruosa. Pertanto, almeno secondo la formulazione estrema di Murakami, qualsiasi espressione artistica o culturale nel giappone contemporaneo non può che essere mostruosa. Sono tuttavia proprio la constatazione di questa condizione e la sua appropriazione critica in veste di alterità deformante a costituire i primi passi per un’inversione creativa: una possibile elaborazione autonoma e ibrida dell’identità culturale giapponese, tanto da poter rivendicare nel suo «Monster Manifesto» la propria mostruosità in modo esplicito, sulla falsariga del «Cyborg Manifesto» (1985) della post-femminista Donna Haraway, di cui riecheggia non a caso titolo e intenti libertari. In verità, la consapevolezza di questo sguardo occidentale come specchio inferiorizzante, dispositivo moderno d’iscrizione al contempo culturale e politico-razziale, non costituisce una prerogativa esclusiva di Murakami. Si tratta di una premessa per potersi confrontare in modo critico con il dilemma irrisolto circa l’appartenenza sempre incongrua sia all’«occidente» sia all’«oriente», alla base inoltre delle formulazioni più canoniche dell’identità giapponese in epoca moderna. Un esempio noto in ambito letterario è quello dello scrittore nazionale Natsume Sōseki (1867-1916), che documenta efficacemente nel suo diario le implicazioni di tale dispositivo durante il suo soggiorno a Londra: Mi sembrava di vedere un uomo basso e particolarmente brutto che mi veniva incontro lungo la strada; solo per rendermi conto che si trattava di me


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stesso, riflesso in uno specchio. È solo venendo in questo luogo che ho realizzato che noi siamo veramente gialli.12

A quasi un secolo di distanza, è a sua volta Miyazaki Hayao, un simbolo dell’animazione giapponese e della J-culture, a testimoniarne in modo analogo la perdurante egemonia: Durante un soggiorno tanto agognato in un villaggio svizzero mi ritrovai a essere un orientale, un giapponese dalle gambe corte. In quella pallida e brutta figura riflessa nelle vetrine di una cittadina occidentale riconobbi senza dubbio me stesso. Nel vedere all’estero la bandiera del Sol Levante, diventavo un giapponese assalito dal disgusto.13

Risulta dunque fondamentale cambiare punto di vista e porre l’attenzione sulla natura di questo sguardo egemone occidentale, sulla sua capacità di configurare di volta in volta un altro orientale, tanto subalterno da poterne decretare eventualmente la disumanizzazione mostruosa. Il riferimento teorico più utile a questo proposito è l’orientalismo criticato efficacemente da Edward Said14 come pratica discorsiva fondante dell’imperialismo moderno, uno stile di pensiero e una prassi istituzionalizzata da parte euro-americana tra il Settecento e l’ottocento, alimentati da una storia eurocentrica ancor più antica delle presunte distinzioni ontologiche ed epistemologiche fra l’«occidente» da una parte e l’«oriente» dall’altra. Un orizzonte conoscitivo in cui la configurazione – o invenzione storico-culturale – essenzializzante dell’«oriente» nei termini dicotomici e subalterni all’«occidente», risulta funzionale, se non indispensabile, per il processo di auto-identificazione egemone dello stesso «occidente». 12 Natsume Sōseki, Sōseki zenshū (‘opera omnia di Sōseki’), vol. xIII, Tokyo, Iwanami Shoten, 1966, p. 30. 13 Miyazaki Hayao, Shuppatsuten 1979-1996 (‘Punto di partenza 1979-1996’), Tokyo, Tokuma Shoten, 2002, p. 266. 14 Edward W. Said, orientalism: Western Conceptions of the orient, New York, Pantheon Books, 1978 (trad. it. orientalismo. L’immagine europea dell’oriente, Milano, Feltrinelli, 2002).


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Cosa succede invece a proposito del giappone, configurato sin dall’epoca moderna come «Estremo oriente» pur in assenza di una vera e propria colonizzazione politico-militare come nel caso del «Medio oriente» teorizzato da Said? L’orientalismo moderno da parte euro-americana dell’Arcipelago, cioè l’insieme delle idee, rappresentazioni e pratiche per pensare, raffigurare e interagire con l’alterità nipponica, è stato sostanzialmente articolato secondo una dinamica antitetica – come nel caso del «Medio oriente» – rispetto alla presupposta modernità dell’identità occidentale e i vari paradigmi distintivi di tale modernità. La sua specificità e complessità risiede tuttavia in una configurazione doppia dovuta all’inaspettata irruzione del giappone nella storia mondiale come primo paese non occidentale a essersi modernizzato. La prima dinamica dell’orientalismo del giappone è quella classica, a lungo collaudata anche nei confronti di altri paesi arabi o asiatici, definiti come alterità orientale in senso gerarchico e oppositivo all’identità occidentale. Se il pilastro di quest’ultima è la modernità, declinata con una serie di paradigmi caratterizzanti quali la ragione, la tecnica, l’individuo, il progresso ecc., allora l’«oriente» dovrà necessariamente essere sopra ogni cosa tradizione o iper-tradizione, quindi emotivo, rigoglioso di natura incontaminata, collettivista, statico ecc. L’efficacia distanziante di questa cartografia geoculturale può essere ulteriormente innalzata dall’intersezione multipla con forme di subalternità sociale (di classe, di genere, etnico/razziale, generazionale) interna agli stessi paesi euro-americani; per cui l’«oriente» sarà anche povero, femminilizzato, colorato (non bianco), infantile ecc. Nel caso specifico del giappone questa patente di orientalità è attestata da un vasto repertorio di icone familiari che si sono consolidate nell’immaginario occidentale: geisha, samurai, zen, monte Fuji, fiori di ciliegio ecc. Tutte articolate preferibilmente in un modo a-temporale o arcaico, fuori dal tempo e dallo spazio. Il giappone definito quindi come iper-tradizione, per indicare la selezione e l’enfasi unilaterale posta sui suoi aspetti tradizionali o passati, articolati per contrasto con la modernità occidentale.15 15 Per una breve storia di questi stereotipi cfr. Endymion Wilkinson, «Il giappone visto dagli europei: un paese alla rovescia», in Id., Capire il Giappone, Milano, Longanesi & C., 1982, pp. 21-72 (ed. or. Misunderstanding: Europe vs. Japan, Tokyo, Chūōkōron-sha, 1981).


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Ma come è noto, questo non è oggi l’unico quadro o l’unica cornice, anche se tuttora molto influente, come dimostrano il best-seller mondiale Memorie di una Geisha (1997) di Arthur golden o film popolari quali L’Ultimo Samurai (2003) di Edward Zwick con Tom Cruise. Lo statonazione giappone si è sottoposto sin dalla fine dell’ottocento al proprio difficile processo di modernizzazione, arrivando infine a insidiare il monopolio euro-americano della tecnica, della scienza, della ricchezza; rischiando quindi di sconfinare, di oltrepassare i confini radicati dell’identità occidentale e della sua modernità. Nel corso degli anni ottanta del Novecento, quelli di massima ascesa economica e finanziaria del giappone, si è assistito pertanto a una nuova forma di orientalismo, definita da alcuni osservatori come tecno-orientalismo:16 un processo di articolazione dell’alterità, di allontanamento pratico-discorsivo, analogo a quello precedente, che in questo caso spinge il paese nipponico verso il lontano futuro, di nuovo ancora fuori dal tempo e dallo spazio. Il giappone come iper-modernità, frutto di una configurazione sempre contrastiva e gerarchica rispetto all’«occidente», declinata questa volta in base alla selezione strategica di alcuni aspetti moderni e high-tech. Ciò consente di proiettare su di esso i tratti ritenuti negativi o disfunzionali della propria modernità, dando luogo a un nuovo repertorio di icone altrettanto familiari: computer-robot-cyborg, suicidi, otaku, bomba atomica ecc. Il giappone, cioè, come paese del futuro, ma in termini sostanzialmente distopici data l’associazione implicita di tali icone alla reificazione dell’uomo in macchina, all’alienazione urbana e agli effetti devastanti della tecnica. Un nuovo orientalismo funzionale a salvaguardare il monopolio occidentale di almeno alcuni paradigmi identificativi della propria modernità: la ragione, l’individualismo, il progresso. I singoli tasselli che compongono questa geografia immaginaria possono variare di volta in volta, ma quello che accomuna sia il tecnoorientalismo che l’orientalismo classico è la loro logica di allontanamento dell’altro orientale. Dato che la presupposta identità occidentale 16 David Morley – Kevin Robins, «Techno-orientalism: Japan panic», in Idd. (a cura di), Spaces and Identity: Global Media, Electronic Landscapes and Cultural Boundaries, London – New York, Routledge, 1995, pp. 147-73.


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che si vuole in tal modo affermare per contrasto non è solo definita per la sua modernità, ma contiene anche il riferimento etnocentrico di fondo dell’idea stessa di umanità, diventa facile intuirne le implicazioni disumanizzanti. La geisha potrà essere una superdonna per eleganza, sensualità e gentilezza, ma anche una subdonna per obbedienza, passività e devozione incondizionata al desiderio maschile; il samurai un superuomo per doti marziali, lealtà eroica, senso estetico, ma anche un subuomo per impassibilità, crudeltà e obbedienza fanatica tale da squarciarsi lo stomaco (seppuku) o, nella sua versione moderna, schiantarsi con il proprio aereo sul nemico (kamikaze); e infine, il sararīman (colletto bianco) potrà essere anch’egli un superuomo per efficienza, disciplina, produttività, ma anche un subumano conforme agli imperativi sociali, robotizzato o alienato dalla reificazione tecnologica o economica. Certo è che queste icone, e per estensione il giappone intero, non possono assolutamente essere del tutto normali, almeno all’interno della geografia immaginaria dell’orientalismo: una cartografia tanto radicata e collaudata nella memoria culturale occidentale da poter prescindere dalle intenzioni dei suoi singoli autori, precedendone e orientandone la scelta secondo una cornice selettiva. Una cartografia geoculturale, insomma, che tende a precludere l’inclusione del «giappone» nell’idea di umanità caratterizzata in sostanza dalla ragione, dalla libertà individuale e democratica, dal progresso sociale. Esso sarà sempre smisurato rispetto agli standard fondativi dell’identità occidentale, o per eccesso o per difetto; sarà necessariamente fonte ambivalente di fascino esotico o di disprezzo razzista, che, nonostante le apparenze, costituiscono in definitiva due facce della stessa medaglia. Lo statuto deformato o mostruoso del giappone in quanto altro orientale allo sguardo occidentale è tuttavia potenziato da un’ulteriore dinamica, visto che si tratta di un estremo «oriente», quindi per definizione qualcosa di completamente diverso. L’idea del giappone non solo come estremamente tradizionale o moderno, ma più di ogni cosa come un qualcosa del tutto incongruo nel suo insieme, è effetto fra le altre cose della somma del tecno-orientalismo con quello classico. Un esempio figurativo di questo doppio orientalismo: il treno superveloce Shinkansen, uno dei simboli della modernità giapponese postbellica,


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Il giappone come ossimoro (iper-tradizione + iper-modernità).

che sfreccia sullo sfondo del monte Fuji, uno dei simboli invece della tradizione nipponica. L’idea complessiva del giappone non è quindi solo la sua riduzione a qualche essenza arcaica o futuristica, ma questi aspetti essenziali possono essere ulteriormente combinati, sommando elementi opposti o contraddittori fra loro in modo da dar luogo a un vero e proprio ossimoro culturale. Il risultato di questo doppio orientalismo (iper-tradizione + iper-modernità), o di altre combinazioni analoghe, è sempre lo stesso: un contrasto, un estremo contrasto, una vera e propria contraddizione.17 Il giappone come un topos che sembra essere fuori portata rispetto a una spiegazione razionale; un paese che deve essere misterioso e bizzarro, una «mente giapponese» imperscrutabile nella sua essenza ultima, se 17 Si possono avere altre combinazioni non necessariamente diacroniche, per esempio di tipo sincronico: Estremo oriente + Estremo occidente; di tipo culturale come esemplificato da un classico dell’antropologia sul giappone, Il crisantemo e la spada (1946) di Ruth Benedict, impostato sull’associazione estrema belligeranza, aggressività + estrema estetica, gentilezza; o ancora di tipo affettivopsicologico: estrema estraneità + estrema familiarità = familiarità estraniante. Per una genealogia del giappone come «paese dei contrasti», immagine riconducibile fino al xVI secolo nei resoconti dei missionari gesuiti, cfr. E. Wilkinson, «Il giappone visto dagli europei…», cit.


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non per intuizione mistico-estetica del suo enigma, o per riduzione tradizionalista a qualche tratto feudale, comunitario, animista. Come il mostro, il giappone risultante da questa geografia immaginaria è un’alterità deformata, funzionale a ribadire i confini impliciti della propria identità modellata secondo la logica di una cartografia geoculturale collaudata; un’alterità ambivalente, smisurata e incongrua, che proprio per questo può tanto affascinare ma anche inquietare. Come il mostro, il giappone orientalizzato è una costruzione, una proiezione che rivela in definitiva molto più degli investimenti identitari dei suoi autori euroamericani o del loro retaggio storico che di sé stesso. IV.5 Mostri e auto-orientalismo Il giappone però, diversamente dai mostri, non è solo immaginario, un’idea o una rappresentazione. Esso è anche un’esistenza empirica, un luogo reale, come reali sono le persone che vi abitano assieme alla loro storia, società e cultura. Ciò significa che qualsiasi orientalismo non è del tutto riducibile a una mera costruzione fantastica o arbitraria, visto che è chiamato a confrontarsi concretamente con una realtà empirica e vivente, come dimostra anche l’aggiustamento strategico espresso dal tecno-orientalismo nei confronti di un giappone modernizzato e superpotenza economica. La forza di questa geografia immaginaria non dipende tuttavia dall’esattezza o meno delle sue asserzioni in termini quantitativi, o dalla cattiva informazione nei confronti delle sue icone più rappresentative, che possono essere tutte descritte e analizzate in modo empiricamente verificabile, senza alterarne la logica tassonomica di tipo identitario, contrastivo e gerarchico. I limiti e le possibilità di tale cartografia si misurano piuttosto sul riscontro dialettico con la realtà vivente del giappone stesso, con le reazioni più o meno discordanti da parte nipponica. L’orientalismo non è infatti un semplice monologo, una prassi discorsiva unilaterale imposta con il puro dominio su di un «oriente» muto e passivo. Se vuole essere effettivo e pervasivo, se è da considerarsi un processo egemone secondo l’accezione data da Antonio gramsci (Qua-


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derni del carcere, 1929-’35), allora l’orientalismo deve fare affidamento al consenso e all’accettazione attiva, e non passiva, da parte dell’altro orientalizzato o subalterno. Non può esserci orientalismo come egemonia senza auto-orientalismo. Rispetto a una generica imitazione e appropriazione dei prodotti culturali o materiali di derivazione euro-americana, l’auto-orientalismo presuppone un’operazione molto più radicale e attiva: l’assunzione e l’interiorizzazione dell’orientalismo euro-americano nei suoi paradigmi fondativi di tipo contrastivo ed essenzializzante per definire la propria identità giapponese. In altre parole, guardare sé stessi come «oriente» attraverso lo sguardo occidentale. Si è trattato di un processo storico complesso e non sempre lineare, considerando soprattutto le implicazioni inferiorizzanti di questo sguardo, testimoniate in precedenza dai vari Sōseki, Miyazaki o Murakami col loro tentativo di opporvi una distanza critica. Il problema di fondo di questa operazione, avviata sin dalla formazione dello stato-nazione giappone nel periodo Meiji (1868-1912) e dalla sua immissione nell’ordine geopolitico mondiale, riguarda l’inversione valutativa nei confronti dell’«oriente» e quindi dell’«identità giapponese» in chiave nazionale, all’epoca ancora tutta da inventare e costruire, che nei contenuti doveva per necessità essere positiva e umanizzante. L’auto-orientalismo giapponese scaturisce dagli stessi imperativi identitari dell’orientalismo, in cui la rappresentazione di un altro orientale riconducibile a una presunta essenza culturale è funzionale per configurare secondo un’opposizione binaria una propria identità occidentale altrettanto unitaria e omogenea. Nel caso giapponese, l’uso strategico moderno a fini nazionalistici di questa cartografia geocuturale consiste quindi nell’articolazione di un altro occidentale (seiyō) in termini altrettanto essenzialistici, in modo da poter configurare per contrasto binario una propria essenza giapponese, tale da poter uniformare i tratti di un’identità nazionale ancora eterogenea e in fieri a fine ottocento.18 Nonostante le possibili implicazioni disumanizzanti, analoghe all’orientalismo euro18 Per la complicità reciproca fra orientalismo euro-americano e auto-orientalismo giapponese, cfr. Kōichi Iwabuchi, «Complicit exoticism: Japan and Its other», Continuum: The Australian Journal of Media & Culture, n. 8 (2), 1994, pp. 49-82.


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americano ed emerse soprattutto durante la guerra del Pacifico, l’efficacia coesiva in termini identitari di tale operazione si è rivelata tale da risultare ancora rilevante a più di un secolo di distanza:19 what gives the majority of Japanese the characteristic image of Japanese culture, is still its distinction from the so-called West. […] the loss of the distinction between the West and Japan would result in the loss of Japanese identity in general.20

Il nihonjinron (lo ricordo, ‘teorie sui giapponesi’) è stato nel periodo post-bellico uno dei contributi più determinanti alla riproduzione di questa cartografia geocuturale. Si tratta di una forma di nazionalismo culturale, un nazionalismo popolare non necessariamente istituzionalizzato in termini statali, costituito da un insieme sterminato di monografie accademiche e non, programmi televisivi, articoli giornalistici, conferenze, convegni ecc.21 Per molti decenni, grossomodo dagli anni Sessanta ai Novanta, esso si è basato, a prescindere dalle sue mille versioni, sul tentativo non solo generico di definire gli aspetti caratterizzanti del giappone, ma di farlo anche in termini particolaristici, per costruire l’idea di un’autenticità o di un’essenza giapponese, non solo unica in generale ma unicamente unica. Tra le nozioni più note vi sono «popolo omogeneo» (tan’itsu minzoku), «amore passivo» (amae), «società verticale» 19 Per i risvolti razzisti durante il conflitto bellico fra giappone e Stati Uniti nella guerra del Pacifico, cfr. John W. Dower, War without Mercy: Race and Power in the Pacific War, New York, Pantheon Books, 1986. Per gli effetti disumanizzanti dell’auto-orientalismo giapponese nei confronti dei paesi asiatici colonizzati cfr. Kang Sang-jung, orientarizumu no kanata e (‘oltre l’orientalismo’), Tokyo, Iwanami, 1996. 20 Naoki Sakai, lemma «the West», in Sandra Buckley (a cura di), Encyclopedia of Contemporary Japanese Culture, London – New York, Routledge, 2002, p. 563. Per la teoria dello «schema co-figurativo» e la sua struttura binaria che rende l’idea essenzializzata dell’«occidente» così indispensabile all’«identità giapponese» cfr. Naoki Sakai, Translation & Subjectivity: on «Japan» and Cultural Nationalism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997. 21 L’antropologo Harumi Befu interpreta il nihonjinron come un nazionalismo popolare «dal basso» o «religione civile» (nihonkyō), fondamentale nel compensare nel periodo post-bellico il deficit identitario da parte del nazionalismo istituzionale «dall’alto» con la sua insistenza su simboli controversi quali la bandiera nazionale (hi no maru), l’inno nazionale (kimi gayo) o l’istituzione imperiale. Cfr. Harumi Befu, Hegemony of Homogeneity: An Anthropological Analysis of Nihonjinron, Melbourne, Trans Pacific Press, 2001.


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(tate shakai), «gruppismo» (shūdanshugi), «cultura della vergogna» (haji no bunka). In questo caso, a sottolineare la complicità e reciprocità di fondo con l’orientalismo euro-americano v’è, oltre all’assunzione generica dello sguardo occidentale, l’inclusione concreta di autori soprattutto statunitensi, quali la citata Ruth Benedict (The Chrysanthenum and the Sword, 1946), Edwin o. Reischauer (The Japanese, 1977), Ezra Vogel (Japan as Number one, 1979), le cui traduzioni giapponesi in milioni di copie sono fra i best-seller assoluti dello stesso nihonjinron.22 Il nihonjinron è caratterizzato dallo stesso processo essenzializzante e dicotomico dell’orientalismo euro-americano, anche se gli scopi sono diametralmente opposti. In questo caso abbiamo una dinamica di articolazione dell’alterità dell’«occidente», un suo allontanamento pratico-discorsivo, che potremmo chiamare occidentalismo, in contrasto a un processo di identificazione del giappone. Ma il punto importante è che i paradigmi sui quali si fonda questa geografia immaginaria sono sostanzialmente gli stessi dell’orientalismo: modernità razionale («occidente») contrapposta a tradizione irrazionale («giappone»). L’aspetto distintivo riguarda tuttavia il ribaltamento valutativo della tradizione e dei suoi paradigmi caratterizzanti, in modo da evocare un’identità culturale in termini affermativi e umanizzanti, cioè in modo da poter trasferire l’anima dal polo dell’«occidente-modernità» a quello del «giapponetradizione». Si tratta di un rovesciamento che ricorda quello avvenuto nel romanticismo tedesco a inizio ottocento nel definire la propria cultura nazionale (Kultur) in termini particolaristici, istintivi e naturali, in contrapposizione all’illuminismo francese (Zivilisation) e alle sue attribuzioni universalistiche, razionalistiche e materialistiche. L’enfasi sull’unicità della cultura giapponese in termini particolaristici è in modo analogo il risultato della dinamica contrastiva rispetto al presupposto universalismo dell’«occidente», il quale diventa il termine di riferimento imprescindibile di qualsiasi buon autore di nihonjinron. L’insistenza sulla presunta natura intuitiva o emotiva della cultura giapponese, evocata da nozioni 22 Per una critica dei limiti metodologici ed ideologici del nihonjinron cfr. Ross Mouer – Yoshio Sugimoto, Images of Japanese Society: A Study in the Social Construction of Reality, London, Kegan Paul International, 1990.


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animistiche quali «spirito yamato» (yamato damashii) o «spirito delle parole» (kotodama), diventa una strategia difensiva per porre fuori portata il suo nocciolo più intimo dallo sguardo così invasivo della ragione occidentale.23 Anzi, è proprio l’enfasi sugli aspetti più irrazionali al limite del mistico a garantire l’effetto congiunto di tipo sia distintivo sia nobilitante rispetto allo sguardo occidentale e alle sue implicazioni reificanti. Tradizione quindi non più come possibile sintomo di arretratezza rispetto alla modernità, ma come sua cifra nobilitante e soprattutto inafferrabile dalla ragione occidentale. Lo stesso statuto contraddittorio di paese dei contrasti, risultante dall’accostamento di aspetti estremizzati e incongrui, può venire ribaltato in statuto ibrido o addirittura in una sintesi superiore: una cultura che avrebbe saputo coniugare il meglio della tradizione orientale e della modernità occidentale, come in effetti già teorizzato nel periodo bellico dall’ideologia imperiale nei «Principi della politica nazionale» (Kokutai no hongi, 1937). Alla luce di questa geografia immaginaria, diventa lecito ipotizzare una necessità strategica insita nell’investimento mitico delle origini nazionali o in tante altre operazioni nostalgiche in epoca moderna. Un continuo re-incantamento della «cultura giapponese», testimoniato non solo dall’istituzione imperiale o dalla proliferazione di nuovi movimenti religiosi, ma anche dal ruolo fondamentale degli studi folklorici (minzokugaku), compresa la «scienza dei mostri», e più in generale dall’ubiquità del fantastico in ambito letterario e in seguito nelle culture popolari moderne e contemporanee.24 Tornando alla rilevanza dei mostri, si potrebbe a questo punto intendere lo statuto mostruoso del giappone all’interno dell’auto-orientalismo come un’identità deformata, piuttosto che un’alterità deformata.

23 Per una critica della mistificazione spirituale della lingua giapponese cfr. Roy Andrew Miller, Japan’s Modern Myth: The Language and Beyond, New York – Tokyo, Weatherhill, 1982. 24 Per il ruolo strategico del fantastico nella letteratura moderna giapponese cfr. Susan J. Napier, The Fantastic in Modern Japanese Literature: The Subversion of Modernity, London – New York, Routledge, 1996; mentre per quello della «scienza dei mostri» (yōkaigaku) nella modernizzazione giapponese cfr. g. Figal, op. cit.20 Naoki Sakai, lemma «the West», in Sandra Buckley (a cura di), Encyclopedia of Contemporary Japanese Culture, London – New York, Routledge, 2002, p. 563. Per la teoria dello «schema co-figurativo» e la sua struttura binaria che rende l’idea essenzializzata dell’«occidente» così indispensabile all’«identità giapponese» cfr. Naoki Sakai, Translation & Subjectivity: on «Japan» and Cultural Nationalism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997.


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Dell’orientalismo euro-americano viene infatti assunta la caratterizzazione deformata, ambivalente, smisurata e incongrua rispetto alla modernità razionale dell’«occidente», ma con un rovesciamento valutativo tale da fare del proprio statuto orientalizzato e subalterno un possibile fattore di identificazione culturale. Il segreto di ogni egemonia culturale consiste infatti non solo nell’imposizione più o meno forzata della propria Weltanschauung, ma nell’offrire al subordinato degli elementi utili e gratificanti insiti nella subalternità, in modo da renderlo un agente attivo nella riproduzione stessa di questa egemonia/subalternità.25 In questo senso, l’intersezione strategica fra orientalismo euro-americano e auto-orientalismo nipponico proprio attraverso la figura del mostro è ben esemplificata sin dagli inizi del Novecento dall’opera di Lafcadio Hearn (1850-1904), il commentatore forse più popolare in ambito anglofono del giappone, e quella dell’etnologo Yanagita Kunio, uno dei suoi pensatori più influenti in epoca moderna. Hearn è considerato il pioniere paradigmatico del nihonjinron nella riduzione essenzialista del giappone a uno «spirito natio» (kokoro) di tipo etnico-animista, alimentata proprio da un interesse appassionato verso i suoi fantasmi e mostri, che ne ha fatto anche il primo divulgatore del loro repertorio mitico-leggendario (Kwaidan: Stories and Studies of Strange Things, 1904). La sua popolarità è risultata maggiore nello stesso giappone ancora più che all’estero: prima, ravvivando l’interesse per gli studi folklorici e teratologici nipponici, tanto da influenzare l’opera iniziale del suo caposcuola, Yanagita Kunio (Tōno monogatari, 1892); poi, diventando parte integrante del canone letterario moderno, formando intere generazioni di lettori nel giappone post-bellico.26 25 La complicità reciproca di egemonia/subalternità risulta un processo altrettanto strategico nella riproduzione di differenze essenzializzate di genere, etnico-razziste o generazionali anche in assenza di un dominio coercitivo. Per esempio, la riproduzione della secolare riduzione patriarcale della donna ai suoi aspetti emotivi, fisici, sensuali («tradizione»), in contrapposizione al logos normativo razionale e maschile («modernità»), è direttamente proporzionale alla gratificazione e utilità che le stesse donne trovano nell’identificarsi in questa «femminilità». 26 Cfr. Yoko Makino, «Lafcadio Hearn and Yanagita Kunio: Who Initiated Folklore Studies in Japan?», relazione presentata al simposio Lafcadio Hearn in International Perspectives, Università di Tokyo, Komaba, 25 settembre 2004 (consultabile presso Seijo.ac.jp/faeco/misc/kenkyu/pdf/166/133146makino.pdf); Roy Starrs, «Lafcadio Hearn as Japanese Nationalist», Japan Review, n. 18, 2006, pp. 181-213.


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L’intersezione fra orientalismo e auto-orientalismo rivela come la loro complicità reciproca alimenti un gioco di specchi, in cui entrambe le prospettive si rimandano una rappresentazione del giappone che si conferma a vicenda: un’immagine in cui proiettare e rispecchiare le proprie necessità identitarie. Si tratta di un processo che nel suo complesso tende a configurare un’alterità/identità deformata o mostruosa, una sorta di monstering process. Tuttavia questo specchio, analogamente all’ambivalenza mediatrice e ibrida del mostro, oltre a segnalare i confini che separano comprende anche la possibilità di un avvicinamento fra dimensioni e mondi diversi. Qualsiasi cornice conoscitiva più o meno stereotipata costituisce infatti la condizione necessaria per favorire almeno un primo contatto, che può portare in alcuni casi anche a una dinamica più aperta e dialogica nel rapporto interculturale. A prescindere però dalle intenzioni e dagli esiti personali dei singoli, è bene ricordare la più ampia dimensione storico-politica di questa cartografia geoculturale: una geografia immaginaria la cui logica essenzializzante, antitetica e gerarchica, con i suoi effetti mostruosi o disumanizzanti, trova la sua ragion d’essere negli imperativi identitari posti dall’imperialismo e dai vari nazionalismi in epoca moderna. IV.6 «J-culture», «cool Japan» e «soft power» Che ne è di questa geografia immaginaria moderna in epoca contemporanea? Da ormai alcuni decenni si teorizza una condizione postmoderna e quindi il superamento delle logiche fondative della modernità. Viviamo in un mondo globalizzato in cui i flussi crescenti di capitali, informazioni e persone sembrano avere eroso i confini degli stati a favore dell’integrazione di regioni e nazioni in una società mondiale. Ha ancora senso parlare di orientalismo/auto-orientalismo e delle sue dinamiche distanzianti o mostruose in un villaggio globale, interconnesso in un’unica rete telematico-digitale e avviato all’eliminazione delle distanze culturali? In ambito euro-americano, il giappone ha in effetti perso molto del suo alone esotico e misterioso. La pervasività dei prodotti materiali


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della sua industria elettronica e meccanica prima, e la diffusione della sua industria ludico-culturale poi, hanno fatto del made in Japan un elemento integrante dell’inculturazione mainstream, ovvero una realtà familiare e quotidiana per gran parte delle nuove generazioni. Anzi, una realtà, sembrerebbe, sempre più unilateralmente attraente, tanto da fare parlare di nuovo japonisme.27 Non solo intrattenimento giovanile, come anime, manga, giocattoli, mode sottoculturali, ma anche letteratura popolare, alimentazione, design, architettura, fanno della «nuova cultura giapponese», «J-culture», un’indiscussa icona trendy sullo scenario internazionale. «Cool Japan» è la designazione più diffusa per sottolinearne l’attualità, attraverso uno slogan reso popolare in seguito alla pubblicazione di «Japan’s gross National Cool» (2002) di Douglas Mcgray su Foreign Policy. In questo influente articolo viene analizzato il passaggio del giappone da superpotenza economica a superpotenza culturale avvenuto proprio nel lungo decennio di recessione negli anni Novanta, un nuovo potere culturale o soft power con potenzialità geopolitiche ancora tutte da esplorare.28 Un successo globale che, in contrasto con quello statunitense, sembrerebbe fare affidamento a una maggiore indeterminatezza nazionale dei suoi prodotti, a una sorta di superficialità o fluidità, che ha fatto parlare anche di prodotti «senza odore culturale» (culturally odourless) o «a-nazionali» (mukokuseki).29 In questo scenario sembra ormai obsoleto parlare di orientalismo nei confronti almeno del giappone, visto che le dinamiche essenzializzanti, contrastive ed inferiorizzanti di questa geografia immaginaria «occi27 L’idea di nuovo japonisme è stata diffusa da Sugiura Tsutomu, direttore del Marubeni Research Institute, con una serie di diciassette articoli pubblicati sul quotidiano Nikkei Shinbun (settembre-ottobre 2003). La traduzione inglese («Cultural Power and Corporate Strategy») è consultabile on-line: Marubeni.com/dbps_data/_material_/maruco_en/data/research/pdf/0404_a.pdf (visitato il 5 novembre 2008). 28 Il ricorso di Mcgray alla nozione di soft power è desunta dal politologo Joseph Nye. L’espressione è stata coniata per indicare nelle relazionali internazionali la capacità di ottenere i propri scopi attraverso la persuasione e l’attrazione piuttosto che con la coercizione politico-militare e la ricchezza economica dell’hard power. Cfr. Douglas Mcgray, «Japan’s gross National Cool», Foreign Policy, n. 130, maggio 2002, pp. 44-54. 29 Cfr. Kōichi Iwabuchi, Recentering Globalization: Popular Culture and Japanese Transnationalism, Durham –London, Duke University Press, 2002, pp. 24-28, 70-78.


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dente/oriente» sono interamente indirizzate verso i nuovi spauracchi orientali di inizio secolo, come il mondo islamico o la Cina.30 Ma è proprio la persistenza di questa cartografia geoculturale così importante per l’identità di un presunto «occidente» a dimostrare come le ragioni moderne che hanno posto in essere l’orientalismo non siano ancora del tutto superate e quindi potenzialmente riproducibili come neo-orientalismo anche nei confronti del giappone. A questo proposito può essere interessante analizzare brevemente due esempi che hanno contribuito in Italia, alla fine degli anni Novanta, a inaugurare la stagione del giappone come trendy o cool. Il primo è Turisti per caso, un documentario sul paese nipponico ideato e condotto dalla coppia Syusy Blady e Patrizio Roversi. Trasmesso su RAI Tre per la prima volta nel 1997, è risultato tanto popolare da essere riproposto più volte nonostante la lunghezza, tre puntate per un totale di più di cinque ore. Si tratta di un reportage sul giappone in un certo senso innovativo, come tutta la serie d’altronde: molto divertente, ironico, quasi esilarante, una sorta di infotainment, di «informare divertendo», che deve molto del suo successo alla simpatia collaudata della coppia. Il giappone viene presentato attraverso il viaggio, apparentemente casuale, dei due attraverso il paese, scandito da esperienze strane, se non estreme: incontri ravvicinati con una geisha e un abate zen; visite a locali notturni sadomaso o a edifici high-tech; pernottamento in capsule hotel; bevuta di sangue di serpente appena squartato in un bar; e così via. L’immagine del giappone come paese dai contrasti bizzarri, incongrui, paradossali. Altrettanto indicativa è la struttura doppia di questo sguardo, per la verità non sempre rigorosamente mantenuta, in cui al Roversi veniva affidata la presentazione degli aspetti più moderni del giappone, mentre alla Blady gli aspetti più tradizionali e religiosi. Ma ancora più significativa è la sigla d’apertura della prima puntata («Tokyo e Tamagotchi»), ovviamente in stile disegno animato, in cui i due si preparano per la partenza vestiti da astronauti e Syusy Blady afferma: «Ho sempre pensato che un viaggio su Marte sarebbe eccitante, ma 30 Per l’espressione geopolitica più influente di questo neo-orientalismo cfr. Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World order, New York, Simon & Schuster, 1996.


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visto che su Marte non ci si può ancora andare, invece dei marziani mi accontenterò dei giapponesi… che nel mio immaginario sono la stessa cosa». Un giappone che, per quanto divertente e curioso, rimane confinato nello statuto dell’alieno. Il secondo esempio è il catalogo Bambole kokeshi della United Colors of Benetton, per la promozione internazionale della collezione primavera/estate 1999, stampato in più di due milioni di copie e distribuito in tutto il mondo. La direzione creativa è affidata a oliviero Toscani e si presenta al suo interno come un reportage fotografico che «documenta lo stile dei giovani giapponesi nel quartiere omote Sando», la mecca delle mode giovanili più alternative e sofisticate della capitale. oltre alle grandi foto a tutta pagina (34x24 cm, 48 pagine), il catalogo è corredato da un’introduzione di Yoshimoto Banana e da numerose didascalie sui singoli giovani ritratti e i capi Benetton indossati assieme alla loro età, professione e kanji dei nomi, tutto volto a garantire il livello di autenticità giapponese del reportage. Le foto sono nel loro insieme un caleidoscopio coloratissimo, che mette in scena gli esempi più bizzarri e fantasiosi delle mode giovanili di strada: molti piercing combinati a geta (zoccoli di legno), capigliature colorate neo-punk accostate a kimono, un vasto assortimento di parafernali come catene-borchie-spillette, accessori iperplastificati o iperartificiali, alternati a oggetti naturali come ventagli, bastoncini, sandali di paglia, pennelli. Insomma, ogni tipo di combinazione contrastiva o incongrua, foriera di una versione spettacolarizzata e patinata dei giovani giapponesi in veste di creature eccentriche; giovani che, nonostante l’evidente vitalità gioiosa e ludica, risultano tanto stilizzati e travestiti da risultare difficilmente definibili come del tutto normali o umani. Anzi, come indica in modo significativo il titolo, sono delle bambole, dei manichini a cui fare indossare i nuovi capi di Benetton, assieme a tutte le proiezioni collaudate dell’orientalismo euro-americano. Che cosa succede invece in ambito giapponese, in cui si assiste alla revisione della «nipponicità» proprio attraverso l’immagine letterale del mostro? Riguardo al revival di quelli tradizionali, in concomitanza al rinato interesse per la «scienza dei mostri», sono in aumento anche tutta una serie di iniziative loro dedicate (convegni, film, mostre, feste popolari). Le mostre organizzate da istituzioni nazionali trovano spazio


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nei musei più importanti del paese, come l’«Archivio culturale dei mostri» (Bakemono no bunkashi, ottobre-novembre 2006), tenuta nella capitale al Museo Nazionale della Scienza di Ueno. All’esibizione di un vasto repertorio iconografico sui mostri tradizionali si alternano anche reperti di esemplari ritenuti «veri» in passato, come l’artiIl giappone come bambola. United Colors of Benetton, glio mummificato di un kapBambole kokeshi, 1999. pa. Di particolare interesse è il seguente passaggio del fisico Terada Torahiko (1878-1935) inserito nella presentazione della mostra stessa, che evoca una «scienza nuova», essenzialmente giapponese e basata sullo studio dei mostri, proprio in contrapposizione alla «scienza moderna» occidentale: I mostri tradizionali sono stati relegati dalla «scienza moderna» nell’ambito della superstizione e della leggenda. Questo è stato un processo necessario al giappone moderno per rincorrere e raggiungere l’occidente. Tuttavia, quello che viene richiesto dall’epoca a venire non sarà forse una scienza che nasca dal senso della natura posseduta originariamente dai giapponesi?31

Mostre analoghe sono state organizzate negli stessi anni anche all’estero, soprattutto su iniziativa della Japan Foundation, l’istituzione più importante per la diffusione della cultura giapponese nel mondo. Esposizioni dedicate ai mostri tradizionali, come «Yôkaï – Bestiaire du fantastique japonais» (ottobre 2005 – gennaio 2006) presso l’Istituto di 31 Terada Torahiko, Bakemono no shinka (‘L’evoluzione dei mostri tradizionali’), 1929. Cfr. il sito web del Museo Nazionale della Scienza di Ueno dedicato alla mostra: Kahaku.go.jp/event/2006/10bakemono/tenji.html (visitato il 5 settembre 2008).


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La tradizione mostruosa in mostra: due manifesti. A sinistra: «Archivio culturale dei mostri», Museo Nazionale della Scienza di Ueno, 2006. A destra: «Yôkaï - Bestiaire du fantastique japonais», Istituto di Cultura giapponese a Parigi, 2005.

Cultura giapponese a Parigi, con un repertorio iconografico di xilografie ukiyo-e del periodo Tokugawa (1600-1867); e anche mostre dedicate ai mostri moderni, come «Monstrous Visions: Horror and Destruction in Japanese Films» (agosto-ottobre 2005) alla Japan Foundation di Toronto, basata sull’esibizione di quaranta poster cinematografici (da Godzilla ad Akira e Ringu). Tuttavia, oltre all’ambito più istituzionalizzato delle politiche culturali su scala nazionale, è altrettanto interessante notare la galassia composita del re-incantamento «dal basso»: un contesto sempre più affine alle logiche comunicativo-economiche della globalizzazione, in cui si intrecciano gli imperativi dell’industria culturale con quelli identitari, a formare una sorta di marketing identitario. Un esempio ne è Dōmo-kun, un peluche mostruoso dalle enormi fauci dentate, diventato sin dal 1998 la mascotte del canale satellitare B2 dell’emittente nazionale NHK. Tra i casi ancora più appariscenti v’è quello dei Pokemon, i mostri tascabili della Nintendo, che sin dalla loro nascita nel 1996 hanno via via sconfinato dall’ambito specifico della fruizione intermediale (videogiochi, anime, manga, giochi di carte ecc.), avviando un monster branding per qualsiasi prodotto concepibile. L’esempio più vistoso per dimensioni è il Pokemon Jet della All Nippon Airways, che offre voli domestici e internazionali su veivoli trasformati in veri e propri parco-giochi volanti,


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Il Gross National Cool dei Pokemon. Sopra: il Pokemon Jet della All Nippon Airways, 1999. A destra: la copertina del Time, (22 novembre 1999).

dedicati interamente al mondo Pokemon.32 Un monster branding riarticolato poi in veste di branding nazionale esterno, come testimoniato dalla copertina «Pokémon!» del periodico Time del 22 novembre 1999, con servizi sull’industria del giocattolo e l’animazione made in Japan. Altri investimenti identitari di tipo più locale o regionale possono concentrarsi sui mostri tradizionali, come nel caso curioso dei «villaggi kappa» (kappa mura): decine di organizzazioni informali amanti del folletto acquatico, riunitesi nel 1988 in Repubblica Federale dei Kappa (Kappa Renpō Kyōwakoku).33 L’assunzione invece crescente da parte di comuni, province e regioni delle strategie di marketing corporativo per creare un proprio «marchio» distintivo sta dando vita a un esercito sterminato di nuove creature del tutto inedite, più o meno mostruose. Tra gli esiti più evidenti di questo fenomeno glocal vanno annoverati i cosiddetti yurukyara (‘personaggi tranquilli, indulgenti’): centinaia di personaggi-mascotte creati per promuovere prodotti o eventi locali, ognuno con una specifica fisionomia e personalità, messe poi in scena da attori in costume durante le feste locali. Buona parte del loro aspetto accattivante e carino (kawaii) è affidato alle tecniche collaudate del character design nip32 Per una monografia dedicata al successo globale dei Pokemon (o Pokémon) cfr., fra gli altri, A. Allison, op. cit. 33 Cfr. il sito internet (in giapponese) della Repubblica Federale dei Kappa, Http://kappauv.com/sub3/sub302.html (visitato il 4 gennaio 2009).


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ponico che caratterizza, oltre all’ambito di videogiochi, manga e anime, anche quello ancora più pervasivo della gadgettistica. A questo proposito è interessante notare come Miura Jun, divulgatore del neologismo yurukyara, spieghi la vitalità di queste icone locali come un proseguimento delle credenze di derivazione shintō sulla natura animata di oggetti naturali e non, in grado di trasferirsi in epoca contemporanea alla creazione di icone altrettanto animate e ubique, come per esempio la gattina Hello Kitty della Sanrio.34 Monster branding locale: Sento-kun, la mascotte Non sorprende quindi che questi di Nara, (per l’anniversario dei 1300 anni dal trasferimento dell’antica capitale da Heijō a investimenti identitari e le loro tecniNara). che comunicative vengano infine estesi per essere incorporati anche nelle politiche culturali più ampie su scala internazionale. In concomitanza col successo commerciale della J-culture nel mondo, si assiste a una rivalutazione istituzionale dei contenuti popolari della «cultura giapponese», non più confinata alle sue collaudate icone tradizionali. Il saggio «Japan’s gross National Cool» di Mcgray, con le indicazioni sull’enorme potenziale di soft power insito nella J-culture, è stato tanto influente da accomunare sotto lo slogan «Cool Japan» una serie di iniziative governative volte a promuovere l’immagine all’estero del paese. Un nuovo autoorientalismo di inizio secolo, che assume lo sguardo occidentale per riformulare la propria nipponicità: studi commissionati dalla JETRo, l’ente giapponese che controlla le attività commerciali internazionali («Cool Japan’s Economy Warms Up», 2005; «“Japan’s Cool” Rises in global Im34 Cfr. Miura Jun, Yurukyara daizukan (‘grande guida illustrata agli yurukyara’), Tokyo, Fusōsha, 2004. Per una lista nazionale di circa 340 yurukyara cfr. il sito web (in giapponese) Http://yuru.tipstop.com (visitato il 4 gennaio 2009).


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portance and Significance», 2007); programmi televisivi settimanali della NHK su che cosa renda il giappone così attraente per gli stranieri («Cool Japan – hakkutsu»); o video promozionali della campagna governativa Visit Japan («Yōkoso! Japan. Cool Japan», 2007). Di particolare interesse è come anche questo branding nazionale interno si affidi alla figura del mostro, attingendo alle versioni più carine e amicali del repertorio J-culture per promuovere addirittura la propria diplomazia culturale. Tra gli esempi più recenti risalenti al 2008 vi sono il robot-gatto atomico Doraemon, nominato dal ministro degli Affari Esteri come primo Ambasciatore Culturale degli anime; o ancora Pikachu (il Pokemon più noto) e l’androide-bambino atomico Astroboy (Tetsuwan Atomu) in veste di icone mobilitate per la candidatura di Tokyo per le olimpiadi del 2016. IV.7 Il Giappone globalizzato: specchio identitario deformato o deformante? Quello descritto finora è un processo idenitario ancora in atto di cui è difficile valutare appieno la portata nei termini posti da questa indagine. Da una parte non è complicato individuare come anche in quest’epoca globalizzata l’intersezione di imperativi corporativi, politiche culturali e intrattenimento consumistico contribuiscano alla riproduzione di autorappresentazioni in giappone e di etero-rappresentazioni del giappone che si affidano a un’alterità/identità deformata o mostruosa. Dall’altra parte c’è da capire se questa sorta di monster branding del giappone sia il prodotto di un’analoga configurazione contrastiva e gerarchica dell’orientalismo/auto-orientalismo moderni; il frutto, cioè, di una cartografia geoculturale tuttora egemone che, nonostante l’integrazione con gli aspetti transnazionali, fluidi e ricreativi del marketing globale, concorre invece a una dinamica essenzializzante dell’identità propria e di quella altrui, con tutti i suoi possibili esiti disumanizzanti. In altre parole, la costruzione della nuova «nipponicità» da entrambe le parti attinge al simbolismo ibrido del mostro per avvicinare realtà diverse, con il risultato però confinante di ribadirne i confini e le differenze essenziali («occidente» vs «oriente/giappone»)? oppure, siamo di


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IL gIAPPoNE gLoBALIZZATo: SPECCHIo IDENTITARIo DEFoRMATo o...

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A sinistra: Doraemon, nominato primo «Ambasciatore Culturale degli anime» (Ministero degli Affari Esteri, 2008). Adestra: Pikachu e Astroboy mobilitati per promuovere la candidatura di Tokyo alle olimpiadi del 2016 (Tokyo International Anime Fair, 2008).

fronte a un processo che ricorre al potenziale sconfinante del mostro per farne invece un principio deformante e quindi trasformativo? In questo secondo caso, si tratterebbe allora di una trasformazione resa possibile dal riconoscimento critico di sé stessi nello specchio mostruoso, assieme a tutte le proprie proiezioni, in modo da offrire un’occasione conoscitiva delle logiche confinanti alla base della propria identità passata. Il mostro diventerebbe perciò il principio transculturale per un’identificazione più aperta e inclusiva, per una mutazione creativa e a venire. A future that would not be monstrous would not be a future; it would already be a predictable, calculable, and programmable tomorrow. All experience open to the future is prepared or prepares itself to welcome the monstrous arrivant, to welcome it, that is, to accord hospitality to that which is absolutely foreign or strange, but also, one must add, to try to domesticate it, that is, to make it part of the household and have it assume the habits, to make us assume new habits. This is the movement of culture. 35

35 Jacques Derrida, «Passages—From Traumatism to Promise», in Elizabeth Weber (a cura di), Points: Interviews 1974-1994, Stanford, Stanford University Press, 1995, p. 387.


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RIFERIMENTI BIBLIogRAFICI

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RIFERIMENTI BIBLIogRAFICI

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RIFERIMENTI BIBLIogRAFICI

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— Yūga de kanshōteki na Nihon yakyū (I ed. 1988) (‘Il raffinato e sentimentale baseball giapponese’), Tokyo, Kawade shobō shinsha, Kawade bunko, 2006. — Pengin mura ni hi wa ochite (I ed. 1989) (‘Il sole tramonta nel Villaggio Pinguino’), Tokyo, Shūeisha bunko, 1992. — Wakusei P13 no himitsu (I ed. 1990) (‘Il segreto del pianeta P13’), Tokyo, Kadokawa Shoten – Kadokawa Bunko, 1992. — Gōsutobasutāzu (‘ghostbusters’), Tokyo, Kōdansha, 1997. — Bungaku nanka kowakunai (I ed. 1998) (‘Chi ha paura della letteratura?’), Tokyo, Asahi Shinbunsha – Asahi Bunko, 2001. — Gojira, Tokyo, Shinchōsha, 2001. — Ichiokusanzenman’nin no tame no shōsetsu kyōshitsu (‘Un corso di scrittura per centotrenta milioni di persone’), Tokyo, Iwanami Shoten – Iwanami Shinsho, 2002. — Miyazawa Kenji Gurētesutohittsu (‘Miyazawa Kenji greatest Hits’), Tokyo, Shūeisha, 2005. TAKEDA, SACHIKo, «Dansō, josō – sono nihonteki tokushitsu to ifukusei», in Haruko Waita – Susan B. Hanley (a cura di), Jendā no nihonshi, 2 voll., Tokyo, Tokyo daigaku shuppankai, 1994, vol. I. TANIZAKI, JUN’ICHIRŌ, In’ei raisan, pr. ed. 1930 (trad. it. Libro d’ombra, Bompiani, Milano, 2002). TATEISHI, KAZUHIRo, «onna nite mitatematsuramahoshi kō: genji no yōshi to ryōseiguyū sei», Kokugakuin zasshi, vol. xCII, n. 12, dicembre 1991. TESTAVERDE, LAURA, L’erotismo e la sua rappresentazione nella narrativa giapponese contemporanea, tesi di dottorato di ricerca in orientalistica, Civiltà dell’Asia Estremo orientale – xIII ciclo, Istituto Universitario orientale, Napoli, 2003. TSUKAMoTo, YoSHIHARU, Pet Architecture Guide Book, Tokyo, World Photo Press, 2003. TSUKUKI, KYoICHI, Tokyo Style, San Francisco, Chronicle Books, 1999. TSURUTA, KIN’YA, «Soseki’s Kusamakura: A Journey to “the other Side”», The Journal of the Association of Teachers of Japanese, vol. xxII, n. 2, novembre 1988. VANZELLA, LUCA, Cosplay Culture. Fenomenologia dei costume players italiani, Latina, Tunué, 2005. VAN gENNEP, ARNoLD, Les rites de passage, Paris, Nourry, 1909 (trad. it. I riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1981, rist. 2002). VAN gESSEL, C. – MATSUMoTo, ToMoNE (a cura di), The Showa Anthology, Tokyo – New York – London, Kōdansha International.


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RIFERIMENTI INTERNET

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Riferimenti internet «Bakemono no bunkashi» (‘Archivio culturale dei mostri’), mostra del Museo Nazionale della Scienza di Ueno, Tokyo, ottobre-novembre 2006: Kahaku.go.jp/event/2006/10bakemono/tenji.html (visitato il 5 settembre 2008). «Kaii – yōkai denshō dētabēsu» (‘Database sul folklore dei mostri ed eventi misteriosi’), International Research Center for Japanese Studies (Nichibunken): Nichibun.ac.jp/YoukaiDB (visitato il 5 gennaio 2009). «Kappa Renpō Kyōwakoku» (‘Repubblica Federale dei kappa’): Http://kappauv.com/sub3/sub302.html (visitato il 4 gennaio 2009). «Minna no kyara» (‘I personaggi-mascotte di tutti’), lista nazionale degli yurukyara: Http://yuru.tips-top. com (visitato il 4 gennaio 2009).


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Gli Autori

GIORGIO AMITRANO (Jesi 1957) insegna Lingua e letteratura giapponese presso l’Università di Napoli «L’orientale». Ha tradotto in italiano opere di numerosi autori di rilievo, fra cui Kawabata Yasunari, Murakami Haruki, Yoshimoto Banana. ARIANE BELDI (ginevra 1976) è studentessa di dottorato in Comunicazione presso l’Università di ginevra, con un’indagine sul pubblico e il consumo dei DVD di animazione giapponese in Svizzera. JEAN-MARIE BOUISSOU (Parigi 1950), storico e politologo al CERI di Parigi, è specializzato sul mondo asiatico e autore di numerosi saggi storico-politici sul giappone. Di prossima pubblicazione per Tunué una sua opera sul manga (2011). MATTEO CASARI (Nogara 1975) è docente di Teatri orientali presso l’Università di Bologna. I suoi principali interessi scientifici riguardano i generi tradizionali di teatro giapponese indagati privilegiando un approccio antropologico. GIANLUCA COCI (Napoli 1970) insegna Lingua e Letteratura giapponese presso l’Università di Torino. Si occupa di letteratura giapponese moderna e contemporanea. Nel 2009 ha vinto il Premio biennale Scalise per la traduzione letteraria dal giapponese. BERND DOLLE-WEINkAUFF (Westerwald 1952), studioso di letteratura per l’infanzia, ricercatore presso l’Università di Francoforte sul Meno presso cui è direttore dell’Institut für Jugendbuchforschung. È tra i maggiori esperti tedeschi di fumetto.


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gLI AUToRI

FABRIANO FABBRI (Contarina,Ro 1975) insegna Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Bologna e il Polo scientifico-didattico di Rimini. Tra le sue pubblicazioni sul giappone Lo zen e il manga (Bruno Mondadori 2009). MARCELLO GHILARDI (Milano 1975) svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova. Ha tradotto e curato diversi testi relativi al pensiero cinese e giapponese e ha scritto e coordinato vari volumi. TOSHIO MIyAkE, nato a Kyoto, si occupa di occidentalismo critico e di studi culturali del giappone moderno e contemporaneo. Insegna lingua, cultura e società giapponese all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Fra le sue pubblicazioni recenti occidentalismi. La narrativa storica giapponese (in corso di stampa, Cafoscarina 2011). MARIA ROBERTA NOVIELLI insegna Cinema e letteratura del giappone all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È curatrice del sito AsiaMedia. Tra le sue pubblicazioni Storia del cinema giapponese (Marsilio 2001) e Metamorfosi. Schegge di violenza nel nuovo cinema giapponese (Epika 2010). MARCO PELLITTERI (Palermo 1974), sociologo dei processi culturali, collabora attualmente con la London Metropolitan University e il CERI di Parigi. È autore di numerosi libri e saggi accademici pubblicati in Italia e all’estero. G AETANO R UVOLO (Spoleto 1955), esperto di editoria e scenari digitali, è general Manager di Sony Computer Entertainment Italia, impegnato a traghettare l’azienda nella nuova era dell’intrattenimento videoludico. SAGIyAMA IkUkO insegna Lingua e Letteratura giapponese presso l’Università di Firenze. Le sue ricerche vertono principalmente sulla poesia giapponese, sia antica che moderna. Ha curato la traduzione di


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molte opere, tra cui la prima delle ventuno antologie imperiali compilata all’inizio del x secolo, Kokin Waka Shū (Ariele 2000). LEONE SPITA (Rieti 1971) è docente a contratto presso la Facoltà di Architettura dell’Università «La Sapienza» di Roma. Collabora con il Laboratorio di Progettazione per i Paesi Extraeuropei (LAPEx) al Dipartimento di Architettura e Progetto e con varie riviste. LAURA TESTAVERDE (Roma 1967) ha conseguito il dottorato in Lingue e Civiltà dell’Asia Estremo orientale, a Napoli, con un’analisi dell’erotismo nella letteratura contemporanea giapponese. Ha tradotto Mishima Yukio, Nosaka Akiyuki, Yamada Eimi e Daidō Tamaki.


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Stampato per conto di Tunué. Editori dell’immaginario presso Stampa Sud S.p.A. – Mottola (TA) nel mese di febbraio 2011 Stampato in Italia – Printed in Italy


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ISBN 978-88-97165-00-2

9 788897 165002

Euro 16,50

Copertina: Mandarinoadv.com Copyright © Tunué

Culture del Giappone contemporaneo

La cultura contemporanea giapponese è un mosaico di arti, professioni, fenomeni di costume e innovazioni che non cessano di stupire gli osservatori occidentali. In questa eccezionale raccolta di saggi, scritti da alcuni dei maggiori esperti italiani, europei, giapponesi sulle culture del Sol Levante, sono passati in rassegna tendenze e temi di settori di enorme rilievo per la cultura giapponese e per il suo posizionamento a livello globale: la narrativa postmodernista, l’architettura di grido, i fumetti (manga) e i disegni animati (anime) che ormai hanno un posto d’onore nell’immaginario giovanile, la letteratura tradizionale, il teatro classico e contemporaneo, la robotica, la controversa immagine «mostruosa» che il paese spesso assume agli occhi degli occidentali, il cinema, l’arte «Neo Pop». Culture del Giappone contemporaneo, curato da Matteo Casari, è un volume che unisce la completezza di un manuale propedeutico per studenti e curiosi sulla cultura del Giappone odierno alla ricchezza negli approfondimenti tipica di uno studio universitario, prezioso sia per la qualità dei contenuti sia per la piacevolezza della lettura.

Matteo Casari (Nogara 1975) è docente di Teatri Orientali presso l’Università di Bologna. I suoi principali interessi scientifici riguardano i generi tradizionali di teatro giapponese indagati privilegiando un approccio antropologico.

A cura di Matteo Casari

Culture del Giappone contemporaneo

Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura

Comprendere la cultura giapponese contemporanea significa comprendere fenomeni che appartengono a più mondi e a più tempi, un atto di riflessione tanto complesso quanto utile a valutarne in una prospettiva interculturale le reali proporzioni.

Culture del Giappone contemporaneo Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura A cura di Matteo Casari Interventi di: Giorgio Amitrano, Ariane Beldi, Jean-Marie Bouissou, Matteo Casari, Gianluca Coci, Bernd Dolle-Weinkauff, Fabriano Fabbri, Marcello Ghilardi, Toshio Miyake, Roberta Novielli, Marco Pellitteri, Gaetano Ruvolo, Sagiyama Ikuko, Leone Spita, Laura Testaverde


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Culture del Giappone contemporaneo

La cultura contemporanea giapponese è un mosaico di arti, professioni, fenomeni di costume e innovazioni che non cessano di stupire gli osservatori occidentali. In questa eccezionale raccolta di saggi, scritti da alcuni dei maggiori esperti italiani, europei, giapponesi sulle culture del Sol Levante, sono passati in rassegna tendenze e temi di settori di enorme rilievo per la cultura giapponese e per il suo posizionamento a livello globale: la narrativa postmodernista, l’architettura di grido, i fumetti (manga) e i disegni animati (anime) che ormai hanno un posto d’onore nell’immaginario giovanile, la letteratura tradizionale, il teatro classico e contemporaneo, la robotica, la controversa immagine «mostruosa» che il paese spesso assume agli occhi degli occidentali, il cinema, l’arte «Neo Pop». Culture del Giappone contemporaneo, curato da Matteo Casari, è un volume che unisce la completezza di un manuale propedeutico per studenti e curiosi sulla cultura del Giappone odierno alla ricchezza negli approfondimenti tipica di uno studio universitario, prezioso sia per la qualità dei contenuti sia per la piacevolezza della lettura.

Matteo Casari (Nogara 1975) è docente di Teatri Orientali presso l’Università di Bologna. I suoi principali interessi scientifici riguardano i generi tradizionali di teatro giapponese indagati privilegiando un approccio antropologico.

A cura di Matteo Casari

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Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura

Comprendere la cultura giapponese contemporanea significa comprendere fenomeni che appartengono a più mondi e a più tempi, un atto di riflessione tanto complesso quanto utile a valutarne in una prospettiva interculturale le reali proporzioni.

Culture del Giappone contemporaneo Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura A cura di Matteo Casari Interventi di: Giorgio Amitrano, Ariane Beldi, Jean-Marie Bouissou, Matteo Casari, Gianluca Coci, Bernd Dolle-Weinkauff, Fabriano Fabbri, Marcello Ghilardi, Toshio Miyake, Roberta Novielli, Marco Pellitteri, Gaetano Ruvolo, Sagiyama Ikuko, Leone Spita, Laura Testaverde


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