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ESPRIT
COLLANA DI STUDI SU MEDIA E IMMAGINARIO diretta da Sergio Brancato e Gino Frezza
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Marco Pellitteri
IL DRAGO E LA SAETTA
MODELLI, STRATEGIE E IDENTITÀ DELL’IMMAGINARIO GIAPPONESE Prefazione di Kiyomitsu Yui
Con un saggio di Jean-Marie Bouissou Contributi di
Gianluca Di Fratta
Cristiano Martorella Bounthavy Suvilay
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GUIDA PER LA CATALOGAZIONE BIBLIOGRAFICA Pellitteri, Marco, 1974– Il Drago e la Saetta. Modelli, strategie e identità dell’immaginario giapponese / Marco Pellitteri; Prefazione di Kiyomitsu Yui Include Riferimenti bibliografici p.cm.–(Sociologia–Globalizzazione–Giappone–Mass Media) ISBN-13 GS1 978-88-89613-35-1 1. Sociologia delle comunicazioni di massa – Giappone – Società giapponese – Industria culturale – Immaginario. 2. Globalizzazione – Asia – Cultura popolare – Beni di consumo – Cinema d’animazione – Fumetto. 3. Marketing – Cultura giovanile – Manga – Anime – Robot. Collana «Esprit» n. 1 I edizione: aprile 2008
Direzione scientifica: Sergio Brancato e Gino Frezza Copyright © Tunué S.r.l. Via Bramante 32 04100 Latina – Italy tunue.com | info@tunue.com
Direttore editoriale: Massimiliano Clemente Grafica, impaginazione e copertina: Tunué S.r.l. Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi. ISBN-13 GS1 978-88-89613-35-1
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Questo libro è dedicato alla mia cara nonna Giusi
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INDICE
XV XXV
PREFAZIONE di Kiyomitsu Yui PREMESSA
Nota bibliografica, Avvertenze editoriali, Ringraziamenti
1 IL DRAGO
E LA
SAETTA
3 INTRODUZIONE 7 I Le direttrici generali 13 II Limiti della saggistica italiana 14 III Tre cambiamenti nell’approccio ai media e all’immaginario 16 IV UFO Robo Grendizer V Pokémon 20 VI Un’ottica sincretica per lo studio dei fenomeni mediatici 22 VII Tre modelli e due strategie 24 31 PARTE I – TEMI
DELLA POP CULTURE TRANSNAZIONALE GIAPPONESE
NEL FUMETTO, NELL’ANIMAZIONE E NEI VIDEOGIOCHI
33 I 33 33
POP’N’GLOBAL JAPAN ALCUNI CONCETTI UTILI PER SCRUTARE IL GIAPPONE I.1 Globalizzazione e transnazionalità della cultura
E LA SUA POP CULTURE NEL XXI SECOLO
I.1.1 Globalizzazione culturale e postmodernità
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I.1.2 Orientalismi e transnazionalità della cultura giapponese
I.2 Dalla taishû bunka alla J-pop
I.2.1 Cultura popolare e pop culture I.2.2 Pop culture, cool Japan e J-pop
I.3 Nazionalismo e «odori» nella cultura globalizzata giapponese
I.3.1 Nazionalismo e cultura di massa nel Giappone contemporaneo I.3.2 Culture inodore, culture odorose e culture profumate
70 II LA CULTURA VIAGGIANTE DI MANGA E ANIME I FUMETTI E I DISEGNI ANIMATI GIAPPONESI ALLA LUCE DELLE DINAMICHE TRANSCULTURALI CON IL FUMETTO E L’ANIMAZIONE OCCIDENTALI 72 II.1 Il manga 73 II.1.1 Cosa sono i manga e come sono arrivati in Italia 76 II.1.1.1 Cenni sull’editoria del manga in Italia 79 II.1.1.2 Il rilievo del manga presso i lettori occidentali 82 II.1.1.3 La distinzione fra character e kyarâ nel manga attuale 87 II.2 Disney, la televisione e il consolidamento di una «norma» per i disegni animati 88 II.3 L’animazione seriale in Giappone e un nuovo standard tecnico-linguistico 91 II.4 Un’analisi comparativa 92 II.4.1 Differenze storico-grafiche 95 99 103 106 108 109 115 119 121 123 124 125 127
Sketch e cartoon VS. emakimono e kamishibai II.4.2 Differenze antropologico-espressive Vaudeville, chalk talk e tipi umani VS. teatro Kabuki, teatro Nô e idioma multidimensionale II.4.3 Differenze semiotico-comunicative Enfasi verbale basata sul teatro VS. dominio dell’immagine sulla parola
II.5 Brevi indicazioni sui generi dell’animazione seriale giapponese II.5.1 Una definizione di «anime»
II.6 Sui codici espressivi degli anime II.6.1 II.6.2 II.6.3 II.6.4 II.6.5 II.6.6
La verità, tutta la verità, sugli occhi grandi Disegno dei personaggi Note di regia Temporalità e spazialità Metafore visive Sonorità
II.7 La «cultura viaggiante» veicolata da manga e anime II.8 L’odore degli anime
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133 III/1 MACHINA EX NIPPON IL ROBOT E L’UOMO ARTIFICIALE IN OCCIDENTE E IN GIAPPONE III/1.1 La tensione all’automazione, dal mito ai robot 134 III/1.1.1 La fantascienza classica 134 137
e l’idea conflittuale di robot III/1.1.2 Dagli omuncoli alchemici al movimento meccanico come arte
142 144
III/1.2 Guscio e spirito del cyborg giapponese III/1.3 Il Giappone e la «meccatronica»
155 155 157 159 161
III/2.1 I manga di Gô Nagai negli anni Settanta
151 III/2 NIPPON EX MACHINA ROBOT E CYBORG NEGLI
165 168 168 170 172 174 177 181 182 184 184 186
191 IV 192 194 195 197 198 204
ANIME: CONTRASTI GENERAZIONALI
E METAFORE POLITICHE
III/2.1.1 Cenni sul manga «gekiga» III/2.1.2 Dèmoni e ferraglia
III/2.2 Robot e no. Corazze identitarie, uteri metallici
III/2.2.1 Tetsuwan Atom, la tabula rasa del dopoguerra e la profezia cibernetica III/2.2.2 I robot da Mazinga Z a Gundam III/2.2.2.1 III/2.2.2.2 III/2.2.2.3 III/2.2.2.4 III/2.2.2.5 III/2.2.2.6
Mazinga Z e il riscatto del subconscio Tradizione, nazionalismo e identità Dramma, dolore e conflitto generazionale Trauma e catarsi Cooperazione e sessualità Robot post-nagaiani ed esotizzazione della malvagità
III/2.2.3 Dai robot samurai ai carri armati con le gambe III/2.2.4 Onore, responsabilità e cittadinanza nelle guerre robotiche III/2.2.5 Nuove prospettive robotiche III/2.2.5.1 Novità e revival delle vecchie glorie III/2.2.5.2 Oltre i robot: cyborg e androidi
INFANTI KAWAII ESTETICHE DELL’EFFIMERO IV.1 Il kawaii IV.1.1 IV.1.2 IV.1.3
E GIOVANI NEL
GIAPPONE D’OGGI
Il kawaii prima del kawaii (di Cristiano Martorella)
IV.1.1.1 IV.1.1.2
Livello sociologico (CM) Livello estetico (CM)
Il kawaii nel fumetto e nell’animazione giapponesi Il kawaii nella società giapponese
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IV.1.3.1 Animal Mania IV.1.3.2 Nascita del kawaii come cultura giovanile IV.1.3.3 Il kawaii come «ideologia»
IV.2 Otaku e hikikomori. Il rimosso degli adulti contro il disadattamento giovanile IV.3 Un promemoria sulla shinjinrui IV.4 L’infanzia negata come opposizione al kawaii e alla moratorium ningen
IV.4.1 I legami con la letteratura occidentale negli anime sui bambini IV.4.2 Le radici della solitudine giovanile negli anime
IV.5 Normatività negli anime come reazione simbolica alla moratoria giovanile DAI DORAMA A SUPERMARIO CENNI SULLA TELEVISIONE E I VIDEOGIOCHI IN GIAPPONE V.1 Struttura e contenuti della TV giapponese V.2 Anime e pubblicità V.3 Da Puckman a Sonic. I videogiochi e il kawaii
251 VI FRA LE SPIRE DEL DRAGO UFO ROBO GRENDIZER E L’IDENTITÀ GIAPPONESE 252 VI.1 Il progetto e il film pilota 254 VI.2 La serie. Una visione del Giappone dietro al doppio maglio perforante 254 VI.2.1 Dati tecnici e trama VI.2.2 Linguaggio filmico e colonna sonora 257 VI.2.3 Design ed equilibri simbolici fra invasi e invasori: 260 264 265 268 271 272 273 277 281
la cooperazione Terra-Fleed come metafora dell’asse Giappone-USA VI.2.4 Valori, filosofie e metafore. Politica e robot negli anni Settanta
VI.2.4.1 Personaggi e ambientazione VI.2.4.2 Generazioni, guerra e rappresentazione del nemico VI.2.4.3 Messaggi in filigrana sull’identità politica del Giappone • Prima metafora. I dolori del giovane Kôji, fra marketing e autorialità • Seconda metafora. Il Giappone, gli USA e l’assetto geopolitico del dopoguerra
VI.3 Conclusioni. L’inquietudine giapponese per l’accerchiamento totalitario VI.4 A latere. Il successo giapponese di UFO Robo Grendizer
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285 VII FULMINATI DALLA SAETTA NASCITA E GLORIE DI POKÉMON NELL’ERA DEL POLIMEDIALE VII.1 Coordinate generali del cosmo Pokémon 285 VII.1.1 Autori e prodotti pokémoniani 287 VII.1.2 I contenuti. Temi, messaggi, codici 288 VII.1.2.1 L’aspetto dei Pokémon 288 VII.1.2.2 L’animazione e la resa grafica 288 290 291 292 294
della serie TV e dei videogiochi VII.1.2.3 Storia e valori
VII.1.3 I contenitori. Media, formati, supporti
VII.1.3.1 L’accidentata carriera mediatica di Pokémon
VII.2 Rapporti fra strategie commerciali e percorsi di senso
299 PARTE II – RICEZIONE E STRATEGIE DI SVILUPPO DELL’IMMAGINARIO GIAPPONESE DA GOLDRAKE A PIKACHÛ 301 I 302 302 304
LA TV DEL DRAGO TELEVISIONE E CULTURA TELEVISIVA IN ITALIA I.1 Cenni sulla televisione in Italia I.1.1 I.1.2
NEGLI ANNI
Dalla TV pedagogica alla TV commerciale Cultura di massa nazionale e trasformazione delle strategie televisive
306
I.2
312 319
IL DRAGO DAL FUJIYAMA AL MONTE BIANCO CHOC CULTURALE E RIVOLUZIONE LUDICA II.1 Atlas UFO Robot in Italia II.2 Goldrake, il dibattito politico e il pericolo che viene dall’ignoto
311 II
327 333 335 335 338
II.3
SETTANTA
I figli della TV. E la TV dei figli
II.2.1 Rifiuti viscerali, disagio occidentale e pedagogia iperprotettiva II.2.2 Lo stigma degli anime in prospettiva storica
Su Goldrake e gli anime come prodotti mediali
II.3.1 Giocattoli e competenze cognitive II.3.2 Anime, affabulazione e nuove pratiche ludiche
343 III SCRIPTA MANGA LA PUBBLICISTICA ITALIANA
E OCCIDENTALE SULL’IMMAGINARIO
GIAPPONESE PER RAGAZZI E I PROBLEMI DI MUTUA CONOSCENZA
344 344
III.1 In Italia
FRA I SOGGETTI INTERNAZIONALI DEL DIBATTITO
III.1.1 Dalle fanzine alle riviste professionali (di Gianluca Di Fratta)
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III.1.2 Studi critici e saggi amatoriali (GDF) III.1.3 La stampa giornalistica (GDF) III.1.4 Studi accademici e opere divulgative (GDF)
III.2 In Francia
III.2.1 Uno studio francese della prima ora III.2.2 Strumenti teorici vecchi per linguaggi nuovi III.2.3 Un excursus nella letteratura critica d’oltralpe (di Bounthavy Suvilay)
III.3 La saggistica occidentale
III.3.1 Manga e anime negli USA, base per la tradizione saggistica locale III.3.2 La ricerca negli Stati Uniti III.3.3 Cenni sullo sviluppo di una saggistica e di una ricerca europee III.3.4 Autoreferenzialità e isolamento linguistico nel dibattito scientifico
387 IV DA ASTROBOY AI POKÉMON E OLTRE SEI MODELLI DI SVILUPPO INTERMEDIALE DEI COSMI LUDICO-NARRATIVI PER RAGAZZI 388 IV.1 Due piani della progettazione intermediale 388 IV.2 Cinque modelli di crescita intermediale 389 IV.2.1 Modello aurorale IV.2.2 Modello binario 390 IV.2.3 Modello binario inverso 392 IV.2.4 Modello sinergico organizzato 394 IV.2.5 Modello sinergico spontaneo 395 397 IV.3 Modello supersinergico 398 IV.3.1 Pervasività del fenomeno pokémoniano IV.3.2 Quasi simultaneità nel lancio dei prodotti pokémoniani 399 IV.3.3 Evoluzione globalista nella circolazione degli immaginari 400 IV.4 Shrek, Harry Potter e i nuovi «pastoni» multimediali 401 407 V 409 415 416 421 436
IL POTERE SOFFICE DELLA J-POP FASI, STRATEGIE ED EFFETTI DEI MANGA E DEGLI ANIME IN ITALIA E IN EUROPA V.1 Strategie e reazioni durante la fase del Drago V.1.1 Codifiche e ricodifiche culturali in partenza e a destinazione
V.1.1.1 In partenza. Cinque tipi di ambientazione culturale V.1.1.2 A destinazione. Cinque tipi di riadattamento
V.1.2 Dalla ricezione alla produzione/1 Il meticciato grafico in Italia durante la fase del Drago
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V.2
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V.1.2.1 V.1.2.2
I manga dei bambini Fanzine e manga amatoriali
V.2.3.1
L’ibridazione del segno fumettistico
V.2.5.1
L’affermarsi della lettura dei manga da destra a sinistra I festival del fumetto come quartier generale dei mangafan Sigle musicali, cover band e revival Sorti del cinema d’animazione giapponese nelle sale occidentali WITCH, Winx Club e la transcreolizzazione L’espansione del manga in Europa Giapponi reali e Giapponi immaginari
Strategie e reazioni durante la fase della Saetta V.2.1 V.2.2 V.2.3 V.2.4 V.2.5
Neotelevisione e animazione per ragazzi negli anni della Saetta Rigetto e interpolazione dell’odore culturale giapponese Dalla ricezione alla produzione/2 Il meticciato grafico in Italia durante la fase della Saetta I cosiddetti otaku italiani, una questione aperta Sviluppi della fase della Saetta in Italia e oltre
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V.2.5.2
481 482 487
V.2.5.5 V.2.5.6 V.2.5.7
472 477
V.2.5.3 V.2.5.4
491 VI GLOBAL MANGA PERCHÉ IL FUMETTO 491 492 494 496 499 502
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GIAPPONESE È DIVENUTO UN PRODOTTO
CULTURALE MONDIALE (DI JEAN-MARIE
BOUISSOU) VI.1 Paradossi VI.2 Breve storia di un baby boomer francese amante dei fumetti VI.3 La forza d’impatto di un prodotto industriale VI.4 Un’esuberanza (quasi) libera da censure VI.5 Scenari per la gioventù postindustriale di tutto il mondo/1 Akira, o la disillusione dinamica VI.6 Scenari per la gioventù postindustriale di tutto il mondo/2 L’addio ad Astroboy
507 VII LEGGERE IL MANGAFANDOM RECENTI SVILUPPI NEGLI STUDI SUL PUBBLICO DI MANGA E ANIME 508 VII.1 Dal proibito alle biblioteche 511 VII.2 La ricerca internazionale Japan’s New Cultural Power 512 VII.2.1 Un rapido sguardo ai primi risultati italiani 513 VII.2.1.1 Dati sociodemografici
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VII.2.1.2 Alcuni aspetti del rapporto con i manga VII.2.1.3 Conoscenze sul Giappone precedenti all’incontro con i manga VII.2.1.4 Desideri/propositi conoscitivi sul Giappone stimolati dai manga VII.2.1.5 Immagine del Giappone ricevuta/ricavata dai manga
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VII.3 Un piccolo approfondimento su dei giovani lettori di manga VII.3.1 VII.3.2 VII.3.3 VII.3.4 VII.3.5 VII.3.6
Ritratto del lettore di manga da giovane Essere adolescenti, leggere manga La cultura del Giappone Manga, vita quotidiana e valori Realtà e finzione nei manga Note a margine
543 CONCLUSIONI 547 I La macchina 555 II L’infante 558 III La mutazione 561 IV Il Drago, la Saetta e… 568 V Il viatico mitico dal nipponico all’italico 572 VI Note finali per il lavoro futuro
577 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 577 Volumi accademici Articoli accademici, parti e capitoli di libri accademici, 594 608 616 625 628
relazioni a convegni e conferenze Volumi divulgativi, testi di narrativa citati e altri contributi Articoli divulgativi, parti e capitoli di libri divulgativi, numeri speciali di riviste di settore Articoli, giornali, riviste di attualità, dibattiti radiofonici Principali riviste amatoriali e professionali italiane su anime e manga citate
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PREFAZIONE
di Kiyomitsu Yui1
I. Un giapponese colpito da una saetta
Con questo «folgorante» libro Il Drago e la Saetta, pubblicato nella fase iniziale del XXI secolo, mi sono reso conto che finalmente siamo entrati in un’era di analisi onnicomprensiva e sistematica dei manga e degli anime – i fumetti e i cartoon giapponesi – come fenomeno glocale. Prima di questo volume, gli analisti di queste due forme espressive non avevano mai raggiunto una tale accuratezza e attenzione. Una delle caratteristiche più stupefacenti (e più «fulminanti», in effetti) di questo libro risiede nella sua perfetta combinazione di informazioni dettagliate, puntiglio nella cura delle argomentazioni e approfondimento nella loro analisi. In qualità di studioso giapponese, quindi «compatriota» del fenomeno manga/anime, il mio stupore è doppio e si condensa in due domande: innanzitutto, come ha fatto l’autore di questo volume a raggiungere il suo obiettivo, e, in secondo luogo, come ha fatto a conseguirlo pur essendo – dal mio punto di vista di studioso giapponese – un autore straniero. Leggendo questo libro, sono sicuro che i lettori si troveranno di fronte allo stesso intrigante interrogativo. 1
Kiyomitsu Yui (Kobe 1953), formatosi presso le università Waseda (Tokyo) e di Kobe, è oggi professore ordinario di sociologia nella facoltà di Lettere di quest’ultimo ateneo. Numerosi i suoi volumi, articoli e comunicazioni internazionali, fra cui sulla teoria funzionalista di Talcott Parsons, sulla sociologia del corpo e, in anni più recenti, sul ruolo del Giappone nelle nuove dinamiche di globalizzazione culturale. La Prefazione è tradotta dall’inglese. N.d.A.
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PREFAZIONE
Al cospetto di questo volume, mi sembra anche che non sia il caso di aggiungere altro su di esso, ma posso invece provare a esplorare altri temi collaterali da sviluppare sulla base di quelli che il libro ha già indagati; ed è quello che faccio in questa Prefazione. II. Glocalizzazione e anime
XVI.
Negli ultimi anni, in cui ho avuto modo di viaggiare in diversi paesi presentando conferenze su manga e anime in molte università in Polonia, Austria, Italia, Francia, Egitto, Cina e Corea del Sud, ho spesso usato come punti di partenza due diagrammi, di cui a p. XVII mostro il primo. A mio parere i manga e gli anime, sebbene possano differire anche profondamente l’uno dall’altro in quanto prodotti culturali distinti, hanno in comune alcuni aspetti sociologici di base; si tratta di caratteristiche legate alla glocalità [Robertson 1992] e al postmoderno. Come mostrato nel diagramma, ho provato a teorizzare una disposizione sociale di base intorno al fenomeno manga/anime. Al centro dell’asse verticale/temporale v’è l’età moderna, caratterizzata dagli stati-nazione. Più in alto, come situazione contemporanea, v’è l’età postmoderna o tardomoderna, mentre in basso si trova l’era premoderna. Sull’asse orizzontale/spaziale, nella direzione della dimensione Locale troviamo i fenomeni appartenenti a una statura «meno che» nazionale, come i regionalismi, l’etnicità, o i piccoli gruppi definibili come «tribali»; invece nella direzione della dimensione Globale vi sono fenomeni che appartengono a una statura «più che» nazionale, come la macdonaldizzazione e la società dell’informazione. Credo che i manga e gli anime possano essere posizionati nella direzione del postmoderno e a metà dell’asse Locale-Globale, cioè nella zona del Glocale. Si dice che i movimenti delle NPO e NGO (no-profit e non-governative organizations) possano essere glocali, espressi dallo slogan «pensa globalmente, agisci localmente»; mentre i manga e gli anime sono anch’essi glocali, ma non esattamente come altre produzioni culturali nell’era della glocalizzazione. Per come la mette Appadurai, «il legame fra immaginazone e vita sociale, vorrei suggerire, sta divenendo in modo crescente globale e deterritorializzato» [Appadurai 1996: 55]. A mio avviso Appadurai intende dire che oggigiorno tutti i prodotti culturali generati e distribuiti attraverso i media elettronici hanno lo stesso destino di intersecarsi con queste due tendenze contemporanee: il postmoderno e la glocalizzazione. In questo contesto risiede la differenza basilare fra manga e anime: gli anime sono un prodotto prettamente attinente ai media elettronici e spesso ambasciatori dei manga nell’arena globale prima che il manga sia esportato come forma a mezzo stampa. I fan di manga nel mondo sono spesso stati esposti prima agli anime e poi
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GLOBALIZZAZIONE
E ANIME
la loro passione li ha condotti ai più approfonditi contenuti dei manga e al grosso apparato di informazioni collaterali intorno a essi. Ironia della sorte, stante la creatività di questo enorme settore dell’industria dei contenuti, è proprio il fumetto giapponese che ha fatto da sorta di pozzo senza fondo e ha costituito l’immagine centrale per una tipica strategia di media mix; serie televisive animate, film, videogiochi, prodotti alimentari, carte da gioco e così via. Quella, insomma, chiamata altrove image alliance [Shiraishi 1997]. Ovvero, in tutta questa strategia di media mix il punto di partenza è il manga, esattamente al contrario rispetto al processo storico e cronologico di penetrazione dei fumetti nipponici al di là del Giappone. Per cercare il vero core della creatività dell’industria dei manga/anime, gli appassionati di tutto il mondo stanno ora andando alla ricerca e all’approfondimento dei manga originali.
•Asse
DIAGRAMMA 1
Postmoderno (Tardomoderno)
temporale Etnicità
Tribalità
Società dell’informazione NPO-NGO
.XVII
Manga come fenomeno glocale Mcdonaldizzazione
Regionalismo
Moderno Locale
e.g. Intellettuali, mondo medievale, Pax romana
e.g. Sistema feudale
•
Globale
Stati-nazione
Tradizionale
•
Asse spaziale
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PREFAZIONE
III. Il postmoderno e gli anime/manga
XVIII.
La popolarità degli anime (e poi dei manga) e la prontezza ad accoglierli, in particolare da parte delle nuove generazioni di giovani, è indicativa di una più profonda predisposizione alla condizione postmoderna. Il ruolo di manga e anime va oggi spiegato in connessione con le tendenze/concezioni del postmoderno che illustro a seguire. 1 — Frammentazione del tempo e riorganizzazione dello spazio, in stretta relazione con quel processo già denominato glocalizzazione. Si pensi alla vita quotidiana a contatto con MTV e internet, che può portarci in ogni angolo del mondo in un batter d’occhi. Questa situazione può condurre a continue frammentazioni spazio-temporali della nostra vita. 2 — Estetizzazione della vita quotidiana. Questo processo riguarda la diffusione degli stili di vita urbani. Il sociologo e filosofo Georg Simmel spiegò molto bene questo processo di estetizzazione della vita, ma per lui questa tendenza era limitata a dei gruppi ristretti dell’alta e della media borghesia centro-metropolitana, la quale presentava un’ampia varietà di possibilità e nel cui ambito si poteva decidere di assumere un ampio raggio di comportamenti dettati dal gusto e dallo stile. Ora, invece, questa tendenza si è espansa ad altre classi sociali in quasi tutti i paesi capitalisti avanzati. 3 — Decentralizzazione del self o decostruzione del soggetto. In seguito alla frammentazione di spazio e di tempo, l’«uomo moderno» descritto da David Riesman in quanto essere umano che ha interiorizzato un sistema di valori trascendentale non esiste più. Qui per «trascendentale» si intende che il sistema di valori non è inserito in un contesto concreto ma lo trascende, cioè ne prescinde. Invece di questo tipo di uomo moderno, adesso è dominante la persona «eterodiretta», così definita appunto da Riesman [et al. 1950]. 4 — Dedifferenziazione dei confini. Tra cultura alta e cultura bassa, fra nazione ed etnicità, tra originale e copia, fra reale e fittizio, tra i generi e le forme come le arti classiche, gli oggetti, le arti visive, i romanzi, i giochi ecc.: tutti questi confini tendono a sfumare. Riguardo al tema del declino delle grandi narrazioni nelle trattazioni sul postmoderno, si è di fronte a tante, piccole narrazioni e storie da ogni angolo del mondo che hanno ciascuna la sua «esotica» fragranza. È facile scorgere il legame tra questo fenomeno e la frammentazione di spazio e tempo, dunque la connessione fra questa situazione e il processo di pluralizzazione dei centri di globalizzazione. Gli anime e i manga che possiamo trovare in quasi ogni edicola, libreria, fumetteria e drogheria 24h del mondo è uno degli esempi di questa pluralità. Inoltre questa frammentazione di tempo e spazio corrisponde, nel caso del Giappone, a un sincretismo al livello del sistema di valori. Il noto
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IL
POSTMODERNO E GLI ANIME/MANGA
sincretismo giapponese è in corrispondenza diretta tanto con i processi di modernizzazione quanto con quelli di postmodernizzazione. Il compito basilare della modernizzazione in Giappone fu assai diverso da quello dell’Occidente. Dal momento che in Giappone – sia nel secondo Ottocento sia dopo il 1945 – i problemi centrali furono l’accettazione, l’adattamento e una strategia di conseguimento di obiettivi nel breve termine, il sincretismo tipico locale e il miscuglio di religioni ebbero una rilevanza funzionale. Quindi sia la società sia la cultura giapponesi possedevano già alcuni elementi di postmodernità nel loro processo di modernizzazione, e ora questi stanno salendo sempre più alla ribalta. Si faccia però caso alle differenze tra il Giappone moderno e quello postmoderno: se nel primo la parola chiave era il «raggiungimento» (di obiettivi industriali, economici, urbanistici, politici, militari, coloniali ecc.), nello scenario postmoderno i punti più importanti sono l’«invenzione» e la «creazione». Non è un caso che il Giappone venga oggi enfatizzato come uno degli attuali centri di propulsione della glocalizzazione. Questo tipo di sincretismo nipponico investe quasi tutti i punti nevralgici della condizione postmoderna. Dubito fortemente che la cruciale immagine riesmaniana di «uomo moderno» che interiorizza un valore trascendentale sia stata compresa nel processo di modernizzazione storica e sociale in Giappone. Certo il «self situazionale», cioè la capacità di porsi in modo diverso da situazione a situazione – una sorta di collezione di sé differenti a seconda dei vari contesti – non è affatto un fattore inconsueto nella struttura mentale e organizzazione sociale giapponesi. Ma è l’occidentalizzazione uno degli aspetti più cruciali della modernizzazione del Giappone: durante il processo di «importazione» degli elementi della civiltà occidentale, i precedenti confini e distinzioni tra generi, aree e gerarchie sono andati confondendosi. Infine, il Giappone è celebre come terra di grande attenzione all’estetica. Ma perché? Si può ancora una volta chiamare in causa il caso della modernizzazione di tipo occidentale. Da un punto di vista giapponese la combinazione di un nucleo di valori ritenuti trascendentali, di un super ego disciplinante in senso freudiano e di una tradizione ascetica in senso weberiano non è universale a livello storico, e non lo è nemmeno se considerata all’interno del processo di modernizzazione. Non sto di certo affermando che in Giappone non siano noti o professati l’ascetismo e la soppressione dei propri istinti da parte del super ego; al contrario, sussistono alcune importanti aree e situazioni, principalmente nella vita pubblica, dove la «repressione» è essenziale per la società e per la mentalità giapponesi. Ma vi sono altri settori della vita sociale del tutto liberi da tali processi di contenimento. Ciò, ancora una volta, in base alla ripartizione nella società di porzioni di spazio e tempo frammentati. In ogni settore della vita sociale, le persone seguono diversi comportamenti. Cioè, l’espressione del
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desiderio è diversa in Giappone rispetto a ciò che accade in Occidente. La differenza ha permesso alla società giapponese di sviluppare in modo relativamente facile l’ascetismo della vita quotidiana, senza soluzione di continuità nel passaggio dalle epoche tradizionali all’era moderna. Così, attraverso questi passaggi, nei quali le caratteristiche postmoderne e i movimenti glocali si incontrano, si è venuta a formare una situazione favorevole allo sviluppo di una pop culture giapponese e al fiorire dei manga e degli anime, basata proprio su tali presupposti. IV. Come «leggere» manga e anime
XX.
A lato, in un secondo diagramma che rende conto di aspetti meno generali, propongo uno schema in base al quale «leggere» i manga e gli anime.2 In alto, divisi dalla metà superiore dell’asse verticale, da un lato ci sono i mittenti/creatori, sul versante della produzione; in direzione opposta vi sono i destinatari/lettori, sul versante del consumo. Manga e anime stanno su entrambi i lati dell’asse orizzontale per un verso in quanto prodotti di un contesto storico e sociale, e per l’altro come opere. Vari critici hanno discusso della componente testuale dei manga e degli anime e delle loro sfaccettate caratteristiche in quanto narrazioni; invece altri hanno cercato di spiegarli in termini socioculturali, vedendo a volte i temi o la qualità di alcuni manga e anime come la ricaduta di grandi eventi sociali. L’image alliance è posizionata nel quadrante che abbina la produzione e il contesto sociale, mentre i fan più assidui si trovano nel quadrante della ricezione. Ho scelto di posizionare le fanzine dalla parte della produzione, ma va sottolineato che una delle peculiarità del manga è la vaghezza della distinzione fra produttori professionali e produttori amatoriali: la base di fan e il mondo delle fanzine sono la fonte inesauribile di creatività nel mondo dei manga. In ricerche recenti è stato rilevato che la cooperazione fra redattori, editori e autori è sempre più importante. Questa collaborazione e la stretta relazione fra gruppi di fan che realizzano fanzine e gli autori professionisti, indicano ancora una volta l’indefinitezza del confine tra fan e autori professionali di manga. Il fenomeno è collegato, nel mondo del manga, al cosiddetto niji sosaku (‘creazione derivata’), che indica la natura intertestuale del fumetto giapponese. È ben noto che la reazione dei lettori nel rispondere ai questionari in cartolina sul gradimento per le varie storie pubblicate sulle riviste antologiche è lo strumento principale per controllare la qualità dei manga dal punto di vista dell’apparato produttivo. 2
In questo schema sono citati concetti che poi vengono ripresi nel libro da Marco Pellitteri: la distinzione kyarâ/character e le origini del manga (Parte I, Capitolo II). Il Komiket, citato nel diagramma, è un’enorme fiera semestrale del manga che ha luogo a Tokyo.
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DIAGRAMMA 2
Contesto (sociale e storico) • Image alliance • Fanzine • Cooperazione fra redattori e autori
•
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Mittente/creatore Produzione
• Base di lettori/fan • Pubblico del Komiket come rappresentanza del corpus primario di lettori • Reazioni dei lettori inviate tramite questionari allegati alle riviste di manga • Campagne di associazioni di genitori e insegnanti contro i manga ritenuti nocivi Destinatario/lettore Consumo
• Competenze sul manga del mittente
•
• Competenze sul manga del destinatario
Kyarâ e character Kyarâ, struttura in vignette (koma) e testo Creazioni derivate = intertestualità dei manga Eredità degli emakimono Struttura linguistica di base del giapponese = invenzione della tradizione, nazionalismo culturale Glocalizzazione e/o ibridizzazione Condizione postmoderna Corpo invlunerabile e immortale del kyarâ
•
Anime/manga come testi
Sul versante inferiore lungo l’asse verticale, sono indicati numerosi aspetti legati al manga in quanto «testo». Non mi soffermerò in questa sede sulla dettagliata discussione di tali aspetti, che sono stati già abbondantemente studiati, in Giappone e all’estero, da almeno quindici anni; ma accennerò a uno dei più recenti elementi di riflessione, la differenza tra kyarâ e character nei manga, proposta e spiegata dal critico giapponese Gô Itô [2005]. Kyarâ, Koma e Parola3 sono i tre elementi che Itô propone nella sua teoria dell’espressione del manga come testo. Itô indica che la 3
Kyarâ è traslitterazione di chara, abbreviazione di character (‘personaggio’), ma ha un diverso significato; cfr. anche infra, Parte I, Capitolo II. Koma è, nel manga, la ‘vignetta’; nell’anime, il singolo disegno realizzato su fogli trasparenti di acetato. N.d.A.
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differenza qualitativa fra kyarâ e character come espressione simbolica nei più recenti manga risiede nella diversa natura del corpo: la vulnerabilità del character da una parte, l’immortalità del kyarâ dall’altra. Se il kyarâ ha una natura postmoderna poiché non ha un corpo che si può ferire o che può morire, il character era e continua a essere raffigurato e inteso come dotato di una corporeità offendibile e mortale. Sia come sia, in quanto testo nel manga conta sia la competenza dell’autore di comporre un fumetto fruibile, sia quella del lettore di saperlo leggere. Sulla base di queste due competenze prosperano tanto l’industria del manga e dell’anime quanto le strategie di image alliance. È noto che il manga trae le sue origini dai rotoli disegnati di epoca medievale, gli emakimono, come ben illustrato anche dal cineasta Isao Takahata in suo libro [1999]. Takahata aggiunge che la stessa lingua giapponese è un’autentica radice del manga per la sua natura di idioma ibrido. Io, più prosaicamente, ritengo che, poiché ogni tradizione è una costruzione culturale elaborata a posteriori, il Giappone stia enfatizzando questo ricco retaggio storico per il manga e per gli anime da quando si è accorto del loro grande successo internazionale. Ciò può essere collegato, in tal senso, a un nazionalismo culturale in fase di intensificazione. Nel contempo, i temi delle origini culturali del manga e dell’eredità in essi custodita possono essere ancora una volta fattori di ibridazione e glocalizzazione del fumetto e del cartoon in Occidente. La questione delle campagne contro i manga ritenuti dannosi nei primi anni Novanta può rivelarsi importante, considerando il processo di progressiva accettazione degli anime e dei manga nel mondo. Notoriamente, le maggiori sostenitrici del movimento anti-anime/manga furono le mamme, preoccupate dal proliferare dei fumetti pornografici, potenzialmente sotto gli occhi dei loro bambini. A mio avviso, questo è uno degli effetti dei processi di variegata interrelazione di settori prima separati che anima la condizione postmoderna, e che tende a sfumare i confini fra ambiti prima molto diversi e distinti fra loro. A causa di questo processo di dedifferenziazione, i manga «pornografici» sono emersi all’attenzione di un popolo di casalinghe che prima ne ignoravano o ne snobbavano l’esistenza. Lo stesso tipo di dinamica ha avuto luogo, anche all’estero, quando il mondo genitoriale si è trovato a contatto anche indiretto con anime «nocivi» perché ricchi di allusioni erotiche. Per come la mette Tamaki Saitô [2000a], gli otaku giapponesi possono godere delle perversioni del mondo fittizio degli anime proprio perché essi non sono dei pervertiti; più precisamente, il confine tra fiction e realtà è profondamente diverso in Giappone rispetto a quello che è dato osservare in Occidente. Ad ogni modo non posso entrare nei dettagli di questo tema in questa sede: sto solo cercando di stendere qualche appunto e impressione sul processo
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di accettazione degli anime e manga giapponesi nel mondo in base ad argomentazioni generali, dal momento che ogni concreto processo circa la loro accettazione differisce da paese a paese. DIAGRAMMA 3
•
Intrattenimento
II
Intrattenimento mainstream Anime robotici, d’avventura ecc.
•
Anime pericolosi, nocivi, pieni di violenza, sesso, perversioni
•
Movimento centrifugo Rifiuto
Movimento centripeto Accettazione
Opere d’arte e d’avanguardia (anche se contenenti sesso e violenza) Oshii, Ôtomo ecc.
Buona qualità Anime di Osamu Tezuka, Hayao Miyazaki ecc.
III
I
•
Arte
IV
L’accettazione dei manga e anime giapponesi sembra che parta con delle resistenze. Gli anime erano e si suppone siano ancora ricchi di violenza, sesso e perversione – per lo meno un certo tipo di anime – e questo tipo di temi non è adatto alla visione dei bambini. Alcuni codici etici o regolamentazioni dei paesi recettori hanno portato in passato al blocco della messa in onda degli anime. Da questo punto di partenza, raffigurato nel quadrante I, in molti paesi si è in seguito passati alla fase II, in cui il pubblico riconosce la qualità degli anime e dei manga in quanto prodotti d’intrattenimento, secondo giudizi più calibrati. Nella fase III, gli anime di Tezuka o quelli di Hayao Miyazaki – tanto per fare due esempi eclatanti – hanno riscosso consensi internazionali e vinto molti importanti premi nei festival del cinema. Nella fase IV, che sta avendo luogo in questi anni, film come Ghost in the Shell di Mamoru Oshii e Akira di Kat-
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suhiro Ôtomo, o fumetti come NonNonBâ di Shigeru Mizuki, hanno raccolto un successo internazionale qualificandosi come arte sofisticata. A mio modo di vedere il flusso di eventi che ha portato alla progressiva accettazione dalla fase I alla fase IV è fra posizioni «centrifughe», di maggiore rifiuto da parte dei paesi recettori – i quali per anni hanno ritenuto che i prodotti giapponesi fossero solo intrattenimento a basso costo e di scarsa qualità – a posizioni «centripete», di maggiore accoglienza di manga e anime visti adesso anche nelle loro potenzialità artistiche e rispetto alle opere di maggiore pregio. In questo secondo caso, le opere in questione potrebbero anche alimentare di nuovo una dinamica centrifuga, di rifiuto, ma ora nell’accezione di opere avanguardistiche e foriere di immagini e contenuti «radicali» e «pericolosi» in quanto nuove forme d’arte. «Perversione» come forma d’arte d’avanguardia. Non dico certo che la questione del sesso e della violenza nei manga e negli anime non esista più o sia stata derubricata dagli osservatori occidentali, ma con essa convivono altri giudizi.4
XXIV.
Con questo di certo incompleto riassunto di alcuni elementi fondativi per tentare di capire i processi generali del graduale accoglimento degli anime e dei manga nel mondo, concludo la mia Prefazione per aprire al lettore le porte di questo libro, un traguardo saggistico di grande valore e nel quale sono contenute investigazioni innovative ed eccezionalmente approfondite.
4
Per le informazioni su molti punti di questa Prefazione voglio ringraziare Tadahiro Saika, che sta svolgendo la sua ricerca di dottorato sui fumetti giapponesi presso l’università di Kobe.
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Nel 1999 pubblicai un volume che cercava di fare il punto sull’immaginario giapponese presso i giovani italiani che erano stati bambini durante il periodo di primo fulgore delle serie animate nipponiche diffuse dalle reti televisive. Il libro si intitolava Mazinga Nostalgia ed era un lavoro che oggi potrei definire «militante»: proveniva da un appassionato che da giovane adulto, a 25 anni, aveva riscoperto l’attrazione per il mondo eroico della sua infanzia e si era accorto che dietro a esso non c’era solo un insieme di comunità e sottoculture ma un popolo di ex bambini che con varie intensità erano divenuti nostalgici degli eroi giapponesi conosciuti durante l’infanzia di fronte al televisore. Mazinga Nostalgia era ed è ancora, nel bene e nel male, un testo che si potrebbe definire di sottile rivendicazione generazionale: sebbene fosse tutt’altro che un pamphlet – la ricchezza documentale e l’articolazione argomentativa lo pongono nel novero dei saggi critici – una puntuta vis polemica emergeva in più punti; l’approccio inoltre non era focalizzato sulla coerenza e profondità teorica ma piuttosto sull’accumulo di notizie, riflessioni e confronti fra i testi – i disegni animati – e i discorsi pubblici su quei testi da parte dei commentatori adulti che li denigravano a dispetto di ogni evidente gradimento giovanile. L’accoglienza per Mazinga Nostalgia fu lusinghiera; fra gli appassionati e fra molti addetti ai lavori si disse che era il libro giusto al momento giusto, e in genere anche i giornalisti ne diedero pareri benevoli. A rileggerlo oggi, noto una marea di difetti, ma ancora regge ed è uno strumento utile per chi voglia capire cos’è l’immaginario giapponese per una genera-
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zione – quella a cui appartengo anche io – di spettatori televisivi. Mazinga Nostalgia si concentrava però su ciò che è arrivato in Italia dalle TV giapponesi interessandosi solo al punto d’approdo e alla visuale nostrani. Rimase escluso dalla sua analisi tutto ciò che c’è prima: le dinamiche inter- e transnazionali di circolazione di questo immaginario fatto di robot, orfani e ragazze dagli occhioni lacrimanti; il contesto socioculturale originario di queste tematiche e di queste estetiche; il modo in cui esse si rapportano ad altri paesi oltre che all’Italia; gli effetti sociali e culturali sulle pratiche da parte degli appassionati. Per questo motivo, ho ritenuto che fosse opportuno riprendere in mano alcuni concetti e temi di Mazinga Nostalgia con un’ottica ora attenta non solo al contesto italiano ma ai flussi più generali, di cui l’Italia è una foce fra le altre; per costruire una nuova ricerca più corposa, completa e – voglio sperare – matura. Lo scopo è quello di mettere un più solido strumento teorico e una fonte di notizie e riflessioni a disposizione di studenti, ricercatori e docenti nei campi della sociologia dei processi culturali, dei mass media e della globalizzazione culturale; di critici del settore; di giornalisti e cultori della materia; di operatori nel campo dell’editoria a stampa e audiovisiva. Infatti, da molto tempo ormai si avverte la necessità di rinnovare le analisi delle dinamiche culturali in corso fra i mondi immaginativi orientali e occidentali per la gioventù. Si è di fronte a una congerie di questioni che non insistono soltanto sui movimenti generali di tale scambio culturale, sul piano macroeconomico e macrosociologico. Questa materia è fatta pure di tanti personaggi immaginari e dei valori da loro proposti; di linguaggi e universi narrativi; delle interazioni fra il mondo produttivo e il mondo del consumo; del dialogo fra le platee di consumatori, lettori e spettatori. Tale dinamica ha ampiezza vastissima e non si tratta di «un» fenomeno, ma di una pluralità di eventi e processi. Gli approcci a questi temi possono essere molti, e l’ampia e spesso valida letteratura internazionale in tema lo ha finora confermato. Proprio per questi motivi, Il Drago e la Saetta cerca di armonizzare la presentazione di un quadro teorico d’insieme, relativo ai processi generali inerenti alle dinamiche di immissione di alcuni importanti immaginari e modelli culturali orientali – nello specifico, nipponici – in contesti occidentali – in particolare, in Italia – a riflessioni e analisi più dettagliate, riguardo ad alcuni noti cosmi narrativi e personaggi giunti con successo dal Giappone. Inoltre, ancora poca attenzione è stata accordata agli studi sul pubblico e sulla ricezione di tale immaginario giovanile. Per fortuna negli ultimi anni nuovi lavori si sono mossi in questa direzione, in Italia e in altri paesi europei; in tal senso il piccolo contributo di questo libro è un sintetico e iniziale compendio relativo a un’inchiesta campionaria sui lettori italiani di fumetti giapponesi, parte di una ricerca in corso più ampia, su base europea, di cui si parla meglio in seguito.
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Quello che avete in mano è un volume che ho realizzato cercando di seguire un criterio di organicità e continuità; tuttavia, è in parte una raccolta di materiali diversi. Alcuni testi hanno già trovato casa altrove nel passato ma, prima della loro riedizione riveduta in questa sede, per lungo tempo erano stati mal reperibili: perché ospitati su libri oggi esauriti o magari editi in poche copie e non sempre ben distribuiti nelle librerie di varia, o perché accolti da giornali e atti di convegni poco o punto diffusi in Italia. La maggior parte dei testi qui presentati sono invece, beninteso, in prima edizione. A tutti questi scritti ho cercato di dare una sistemazione organica, guidata da una traiettoria argomentativa unitaria e all’interno di un edificio teorico spero più compiuto rispetto a quanto da me finora costruito intorno a temi che in vario modo tratto dal 1997. Seguono indicazioni circa la pubblicazione originaria degli interventi già editi. I testi sotto segnalati sono stati implementati per la presente edizione, nei limiti delle mie capacità; e in quasi tutti, a onor del vero, gli aggiornamenti sono stati così radicali che nella nuova versione tali scritti sono divenuti qualcosa di sensibilmente o del tutto diverso. Prima, però, vi racconto un episodio per me importante ai fini di questo libro. Riguarda un bel viaggio in Corea del Sud e Giappone svolto nell’ottobre-novembre 2006. L’occasione fu fornita da una conferenza internazionale a Gwangju in cui intervenni sulla vicenda del fumetto e dell’animazione giapponesi in Italia, insieme ad altri due relatori europei, Bernd Dolle-Weinkauff e Olivier Vanhee, che presentarono relazioni in tema sui rispettivi paesi, Germania e Francia. Inviati da Jean-Marie Bouissou, coordinatore del progetto di ricerca internazionale sul fumetto giapponese di cui si dirà, costituivamo una «spedizione» europea, in un ambiente dove gli occidentali erano pochi. Già quella si rivelò un’esperienza di arricchimento culturale, accademico e umano. Dopo, trovandomi a due ore di aereo, approfittai per passare dieci giorni in Giappone. Lì ho vari amici e colleghi. Il mio giro fu appagante, a Osaka, Aomori, Tokyo, Kobe, Nara. Bene. Tutto quello che feci e vidi in quel viaggio è già stato materia di racconto per gli amici e i parenti. Ma fu anche determinante per la stesura di questo libro. Nei mesi precedenti avevo già pensato, in modo sommario, ad alcune ipotesi sulle strategie di diffusione di determinati modelli culturali giapponesi in Europa, grazie anche alla lettura di alcune fonti particolarmente accreditate di cui nel corso del volume si rende conto. Tuttavia a catalizzare le mie energie e a fare sì che mi concentrassi su Il Drago e la Saetta fu un incontro che, per qualche motivo, ritengo cruciale. A Tokyo alloggiavo in uno dei più tipici ryôkan della città, una locanda tradizionale e spartana a prezzo oltremodo basso. È lì che incontrai Deborah, una simpatica e colta signora australiana che si trovava in visita con il figlio Oscar, di sedici anni, appassionato di videogiochi (e di surf, ma questo
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non c’entra). E come spesso capita nelle situazioni di transito, facemmo amicizia e organizzammo qualche pranzo nelle tavole calde del quartiere, scambiandoci impressioni sul Giappone. Alla partenza di Oscar e Deborah, questa mi regalò la prima edizione di Wrong about Japan di Peter Carey (2003), che già conoscevo nella sua traduzione in italiano come Manga, fast food & samurai: un libro che racconta il soggiorno in Giappone di un papà australiano (ma trapiantato a New York) con il figlio dodicenne e grande appassionato di fumetto e animazione nipponici. La coincidenza di una mamma che si era documentata sul Giappone a tutto tondo, spaziando dai templi e le armature dei guerrieri medievali alle espressioni più pop dell’attuale cultura giapponese per non rimanere troppo spiazzata di fronte all’attrazione del figlio per le immense sale giochi del quartiere Akihabara, ripeteva, in qualche modo, l’iter di Carey nel porsi con mente aperta nei confronti di una civiltà che a un adulto sprovveduto può causare il cosiddetto choc culturale; ciò mi aveva già impressionato. Ma ricevere, senza preavviso, quel libro in regalo, mi fece tantissimo piacere e – ancora non so né come né perché: misteri della mente umana – mi diede la spinta finale per riunire le mie idee e provare a sistematizzarle in questo libro. Quindi, nel caso, un po’ prendetevela anche con lei. XXVIII.
Nota bibliografica
Il titolo del libro, con le sue due metafore, proviene direttamente da quello che avevo dato alla mia tesi di laurea, Il Drago e la Saetta. Transcultura di massa e multimedialità da Oriente a Occidente, conseguita il luglio 2002 con Alberto Abruzzese presso la cattedra di Sociologia delle comunicazioni di massa, corso di laurea in Sociologia – indirizzo «Comunicazione e mass media», facoltà di Sociologia, università «La Sapienza» di Roma, A.A. 2001-2002. Devo però dire, con molta serenità ma a scanso d’equivoci, che di quello studio, in questa sede, non resta che un’idea di fondo, che in generale ha modellato parte delle mie ricerche successive. Il Paragrafo II dell’Introduzione deriva da una parte della Prefazione per il libro di Francesco Filippi – Maria Grazia Di Tullio, Vite Animate. I manga e gli anime come esperienza di vita, Roma, King|Saggi, 2002, pp. 5-11. Nel Paragrafo II.1 e nei subparagrafi II.1.2, II.1.2.1 e II.1.2.2 alcuni brani sono ripresi dai miei interventi – qui tradotti in italiano – «Japanese Comics Abroad: The Case of Italy. A Short History of Manga’s Absorption in the ‹Bel Paese›’s Comics Tradition», presentato all’Asia Culture Forum 2006, pubblicato negli atti del convegno «Mobile and Pop Culture in Asia» (Gwangju, Corea del Sud, 28-29 ottobre 2006) ed edito in Shin Dong Kim – Mi Young Lee (a cura di), Mobile and Pop Culture in Asia, Gwangju, Asia’s Future Initiative, 2006, pp. 249-60, e «Le manga
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BIBLIOGRAFICA
en Italie. Du débat politique sur l’‹invasion› des héros japonais à la créolisation transculturelle», presentato a Parigi (16 marzo 2007) al congresso La globalisation culturelle et le rôle de l’Asie, organizzato dal gruppo di ricerca «International Manga Study Network» (abbr. Manga Network) presso il Centre d’études et recherches internationales (CERI), Fondation nationale des Sciences politiques, con la Japan Foundation. Il Paragrafo II.1.2 e i suoi due primi subparagrafi derivano da brani tratti dalla Prefazione a Mario A. Rumor, Come bambole. Il fumetto giapponese per ragazze, Latina, Tunué, 2005, pp. VIII-XIV e dall’articolo «Manga in Italy: History of a Powerful Cultural Hybridization», International Journal of Comic Art, vol. 8, issue 2, Fall 2006, Philadelphia, Temple University, pp. 56-76, presentato qui in italiano sulla falsariga di una prima versione già apparsa come «Il manga in Italia. Storia di una ibridazione fastidiosa», in Matteo Stefanelli (a cura di), Fumetto International. Trasformazioni del fumetto contemporaneo, Roma, Drago Arts & Communication, 2006, pp. 50-54 (catalogo della mostra eponima, Triennale di Milano, Milano, 18 maggio – 3 settembre 2006). Eccetto i subparagrafi II.1.2, II.1.2.1, II.1.2.2 e II.1.2.3, i Paragrafi dal II.1 al II.4 (con i tre subparagrafi II.4.1-2-3) e il II.7 sono stati editi in italiano, qui con molti tagli e integrazioni, con il titolo «Fumetti e cartoon da Est e da Ovest, una serena convivenza», in Roberta Ponticiello – Susanna Scrivo (a cura di), Con gli occhi a mandorla. Sguardi sul Giappone dei cartoon e dei fumetti, Latina, Tunué, 2005, pp. 192-221, libro edito in II edizione riveduta nel 2007 e che in tale versione presenta il medesimo saggio alle pp. 275-321. Il Paragrafo II.6 e i suoi sei subparagrafi sono una versione profondamente rivista e aggiornata di quanto era apparso in Mazinga Nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation, Roma, Castelvecchi, 1999, pp. 217-40 e 250 (II ed. riv. e agg. Roma, King|Saggi, 2002, pp. 222-44 e 255). Parte del Capitolo III/1 e del Paragrafo I delle Conclusioni sono ripresi dal più esteso «Promemoria per un discorso sul robot e sull’uomo artificiale», che costituisce la Postilla al libro a cura di Gianluca Di Fratta Robot. Fenomenologia dei giganti di ferro giapponesi, Caserta, L’Aperìa, 2007, pp. 135-79 e 188-91. Il mio studio del tema trattato nel Capitolo III/2 ha iniziato a svilupparsi in una conferenza che ho presentata nel 2001 nell’ambito del festival I Castelli Animati di Genzano, dal titolo «Robot giganti e intelligenze artificiali negli anime». Brevi porzioni del Capitolo sono apparse in Mazinga Nostalgia, pp. 199-216 e 247-50 (II ed.: pp. 205-19 e 425-30); in «Arrivano i robot, e sono giapponesi. Animismo e simbiosi uomo-macchina» e «Macchine carnose. La filosofia del postumano negli eroi della infanzia giapponese», su Diogene – Filosofare oggi, anno IV, n. 4, giugno-agosto 2006, pp. 26-32 e 33-34; e in una relazione, dal titolo «Metafore e identità giapponese nei robot giganti», proposta in Robomorfosi: evoluzione del concetto di robot nell’animazione giapponese come specchio di un’analisi sociologica, una conferenza svoltasi a Roma, università «La Sapienza», il 13 luglio 2007. Le riflessioni complessive risultanti, estese e approfondite, sono qui presentate in prima edizione.
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Il Paragrafo IV.1, con i suoi otto subparagrafi, deriva da «Estetica kawaii e modelli di sviluppo intermediale da Topolino a Pikachû», in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell’effimero fra pedagogia e globalizzazione, Roma, SEAM, 2002, pp. 180-247; in quel saggio, così come nella versione qui presentata, il Paragrafo IV.1.1 (con i suoi subparagrafi IV.1.1.1 e IV.1.1.2) è opera di Cristiano Martorella ed è stato reinserito non solo per la sua chiarezza, ma anche perché è parte integrante di quel mio saggio apparso in Anatomia di Pokémon. Un’altra parte del quale è inoltre al Capitolo VII della Parte I. I subparagrafi IV.4.1 e IV.4.2 derivano, sintetizzati e sensibilmente aggiornati, da «Ad Est di Oliver Twist», nel citato Con gli occhi a mandorla, pp. 63-84 (nella II ed. come «A Est di Oliver Twist», pp. 83-114), saggio edito come «East of Oliver Twist: Japanese Culture and European Influences in Animated TV Series for Children and Adolescents», The Japanese Journal of Animation Studies, vol. 7, issue 1A (8), Fall 2006, Tokyo, The Japan Society for Animation Studies – Tokyo Zokei University, pp. 57-70. I subparagrafi da VI.2.1 a VI.2.3 derivano in nuce, nelle notizie di base presentate, da Mazinga Nostalgia, pp. 407-13 (II ed.: pp. 425-30), ma sono qui arricchiti da ulteriori approfondimenti e riflessioni analitiche. La struttura del Capitolo VII deriva in buona parte dalla sezione del citato saggio su Anatomia di Pokémon dedicata specificamente al fenomeno pokémoniano ed è in questa sede arricchita da diverse integrazioni. Nella Parte II, porzioni del Paragrafo I.2 sono riprese dal mio saggio «Il sistema cannibale», Valore Scuola – Rivista di politica scolastica e cultura professionale, anno XXVII, n. 10, 31 maggio 2004, pp. 46-53. Parti dei Paragrafi II.1, II.2 e II.2.1 sono state pubblicate in «Rileggere la Storia con Goldrake e Lady Oscar. Ethos e riflessione storica nel fumetto e nell’animazione giapponesi», Storia e problemi contemporanei, anno XX, n. 44, gennaio-aprile 2007, pp. 31-59. I Paragrafi II.3.1 e II.3.2 derivano, qui con vistosi aggiornamenti, da Mazinga Nostalgia, pp. 260-63 e 306 (II ed.: pp. 265-68 e 309). Il Paragrafo III.2.1 è apparso in Mazinga Nostalgia, pp. 277-86 (II ed.: pp. 28190) ed è stato qui aggiornato. Nel Capitolo IV, i Paragrafi IV.1, IV.2 e IV.3 (con i loro otto subparagrafi totali) derivano da una porzione del citato saggio ospitato nel già richiamato libro Anatomia di Pokémon. Una sintesi della proposta teorica ivi contenuta è edita in inglese, nel saggio «Mass Trans-Culture from East to West, and Back», The Japanese Journal of Animation Studies, vol. 5, issue 1A (6), Spring 2004, Tokyo, The Japan Society for Animation Studies – Tokyo Zokei University, pp. 19-26. Il Paragrafo IV.4 è invece una rielaborazione sintetica dei saggi «Le nuove frontiere dell’immaginario», LG Argomenti, anno XXXVI, n. 4, ottobre-dicembre 2000, pp. 15-17 e «Global Media? Eroi-merce, transcultura di massa e mediatizzazione mondiale», in Andrea Materia – Giuseppe Pollicelli, Comicswood. Dizionario del cinefumetto, vol. I (di 3), Roma, Bottero Edizioni, 2003, pp. 97-111.
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AVVERTENZE
EDITORIALI
I Paragrafi V.1.2 e V.2.3, con i loro subparagrafi, derivano – qui editi in italiano e aggiornati – dal citato intervento «Le manga en Italie. Du débat politique sur l’‹invasion› des héros japonais à la créolisation transculturelle», presentato a Parigi (16 marzo 2007) al congresso La globalisation culturelle et le rôle de l’Asie. Tutte le altre sezioni del libro qui non citate sono edite per la prima volta. Avvertenze editoriali
I nomi nipponici di persona rispettano, per semplicità, l’ordine nome-cognome. Le parole giapponesi, dove necessario, presentano le vocali sovrastate dall’accento circonflesso in luogo del macron, che ne indica l’allungamento (es. kyarâ, yûgô). Ciò non vale per i toponimi più noti in Occidente, come Tokyo, Osaka ecc., che mantengono l’ortografia italiana. I nomi occidentali presenti nei titoli di opere giapponesi sono traslitterati secondo l’uso europeo (es. angel invece di enjeru, tank invece di tanku ecc.); ciò, per favorire al lettore la comprensione dei riferimenti voluti dagli autori. Nei testi degli autori ospiti le traduzioni dal francese di Jean-Marie Bouissou e Bounthavy Suvilay e dall’inglese di Kiyomitsu Yui e le Note a piè di pagina contrassegnate dalla dicitura N.d.A. sono a cura di Marco Pellitteri. Eccetto che per la Nota bibliografica sopra riportata e per il Capitolo III della Parte II, il criterio di citazione dei testi si rifà a quello dell’ASA (American sociological association), benché con qualche modifica che tuttavia, non pregiudicando la coerenza dei rimandi, non dovrebbe risultare di difficile comprensione per il lettore. Per le voci complete si rinvia ai Riferimenti bibliografici in fondo al volume. Nei suddetti Riferimenti bibliografici sono indicate le traduzioni italiane dei titoli di libri, articoli e interventi in giapponese e tedesco ma non dei titoli in inglese e francese. Parimenti, nel corso del testo alcune citazioni in inglese e in francese sono lasciate in lingua originale, mentre sono tradotte in italiano quelle in giapponese. Nel caso di articoli ripresi da internet e di documenti inediti e privati, per ovvi motivi manca la segnalazione dei numeri di pagina per come intesi nelle pubblicazioni cartacee tradizionali. Per gli articoli su rivista cartacea, il numero di pagina è presente, per sobrietà, soltanto in caso di riferimento specifico a un brano; viceversa, nei Riferimenti bibliografici in fondo al libro si indicano i dati dell’articolo, comprensivi di volume e numero della rivista. Laddove vengano riportati indirizzi internet, sono segnalati anche il mese e l’anno in cui la pagina web è stata visitata. Se il lettore, cercando in rete la data pagina, non la troverà più perché possibilmente off line o soppressa, la data di accesso è l’indizio fondamentale per reperire l’indirizzo usando lo strumento di ricerca cronologica di internet presso www.archive.org, sito che dal 1996 cataloga ogni due mesi il contenuto della rete mondiale.
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PREMESSA Ringraziamenti
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Sono molto onorato che Kiyomitsu Yui abbia accettato di scrivere la Prefazione del libro e che Jean-Marie Bouissou abbia acconsentito a scriverne un Capitolo, e per questo ringrazio di cuore i rispettivi autori. Un sentito grazie ai maestri e amici Sergio Brancato e Gino Frezza, per il sostegno e la fiducia. Un grazie caloroso a Gianluca Di Fratta per i suoi commenti e per avere sviluppato i Paragrafi relativi alla saggistica italiana sul fumetto e l’animazione giapponesi. Un ringraziamento altrettanto sincero va a Cristiano Martorella, che ha concesso la pubblicazione del suo intervento; a Bounthavy Suvilay, per avere accettato di scrivere un Paragrafo nella Parte II; e a Roberta Ponticiello, per avermi fornito il testo di un’intervista. Devo fare un ringraziamento speciale alla grande disponibilità di Francesco «Ciccio/Kôji» Anteri per avermi letteralmente salvato, aiutandomi nella ricerca iconografica in tempi molto stretti e con grande competenza. Una segnalazione va ad alcuni dei colleghi del Manga Network, l’équipe con cui dal 2006 sto lavorando alla ricerca Japan’s New Cultural Power: Ariane Beldi, Bernd Dolle-Weinkauff, Olivier Vanhee. Grazie inoltre a Francesco Calderone, Silvia Gianatti, Jacopo Oldani e Clothilde Sabre, per avermi inviato le loro tesi di laurea o di master, e a Daniele Timpano, per avermi invitato a un suo spettacolo e avermene fatto visionare il copione. Per le segnalazioni, la qualità dei loro contributi e i proficui scambi d’opinioni e informazioni, ringrazio José Alaniz, Madeline Ashby, Hiroki Azuma, Christie Barber, Étienne Barral, Jaqueline Berndt, Julien Bouvard, Paul Caspers, Beth Davies, Ermanno Detti, Xavier Hébert, Patrick Honnoré, Gô Itô, Shin Dong Kim, Mikhail Koulikov, Jae-Woong Kwon, Pascal Lefèvre, John A. Lent, Frenchy Lunning, Paul M. Malone, Gianna Marrone, Andrew McKevitt, Alfons Moliné, Sandra Monte, Harry Morgan, Karna Mustaqim, Sophie Peacock, Leonard Rifas, Rolando José Rodriguez de León, Michael Rhode, Brian Ruh, Junko Saeki, Melanie Stumpf, Matt Thorn, Chris D. Vighagen, April T. Yap, Masao Yokota. Vorrei inoltre citare Antonio Cobalti, un cui seminario sulla globalizzazione tenuto a Trento nel 2005 si è rivelato particolarmente utile. Per avere ospitato il questionario «Tu e i manga» della citata ricerca Japan’s New Cultural Power ringrazio i webmaster dei 26 siti delle case editrici, dei forum, delle associazioni, delle fanzine, dei portali sul fumetto e l’animazione che sono stati così disponibili da aiutarmi. Essi sono troppi per nominarli tutti, quindi spero valga un riconoscimento collettivo. Cito però Carla Mossolin, che ha svolto la codifica dei dati dal cartaceo al digitale. Un grazie a Deborah Lockwood, per avermi regalato quel libro in modo così inatteso, e alla cara amica Sonya Seo-Young Kim per la sua stupenda presenza a Gwangju e Seul; a Kazuo Lee della Fondation du Japon / Maison de la culture du Japon di Parigi per avermi inviato due splendidi cataloghi; ad Andrea Baricordi,
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RINGRAZIAMENTI Claudio Coletta, Maria Ferin, Ettore Gabrielli, Grazia Lerose e Giovanni Villella per le preziose indicazioni. Un menzione a parte per l’amico e collega Gianluca Aicardi, per diverse notizie importanti sulla Disney e la Pixar, e per un confronto telefonico e telematico da cui è scaturita la Nota 57 al Capitolo V della Parte II. E grazie a Francesca Perri per le sue notizie sulla causa legale Disney-Rainbow. Grazie a mia madre per i provvidenziali aiuti telefonici e telematici sulla ricerca di alcuni testi, pagine, brani da rinvenire nella mia biblioteca di Palermo. E grazie a mio padre per tutto il resto, che non è poco, e perché legge sempre con interesse e attenzione critica tutto quello di mio che gli propino da leggere. Un ringraziamento cosmico va ai cari amici che hanno contribuito a rendere meno fastidiosi gli anni trentini, con la loro simpatia, il loro esserci, la loro intelligenza, con le nostre cene smodate, le risate, la goliardia, lo specialissimo servizio di soccorso da astinenza «Previously, on…», e tutto il resto: Claudio, Cristiano, Enrico, Franz, Maurizio, Pasquale, il nucleo speciale d’attacco amazzoni «ACM», Annalisa-Chiara-Manuela, o all’occorrenza «Adesso Cazziamo Marco», con cui mi sono divertito un mondo a giocare a cuscinate concettuali; e, per l’amicizia sempre disinteressata ancora in quel di Trento, Chiara, Katia, Katja, Letizia, Milena, Romina, Sara, Silvia. Infine, e soprattutto, ringrazio Corinna, perché ha scelto proprio me. Se, caro/a amico/a o collega, ho dimenticato di menzionarti, mi scuso molto e ti ringrazio proprio qui. Caro Lettore, sai bene che ogni errore presente nel libro solo mio è, e solo mio rimane.
M.P. Colonia, marzo 2008
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IL DRAGO
E LA
SAETTA
La prima impressione ci trova impreparati, e l’uomo è fatto in modo tale che si può convincere delle più fantastiche avventure, ma questa prima impressione si imprime così subito e fortemente nell’animo, che guai chi si prefigge di volerla mutare o distruggere. JOHANN WOLFGANG GOETHE I dolori del giovane Werther
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Da vari decenni ha luogo un dialogo transnazionale fra i sistemi mediatici e le industrie culturali occidentali e orientali. Esso si è snodato, nell’ambito della cosiddetta postmodernità, su molteplici piani quali le nuove tecnologie, le narrative, la moda e la pop culture nelle sue varie manifestazioni. Un passaggio cruciale di tale contatto si è dipanato su di un immaginario audiovisivo proveniente dal Giappone e destinato al pubblico infantile e adolescenziale sia locale sia internazionale. Questo immaginario è stato veicolato in particolar modo da eroi del fumetto e dell’animazione televisiva e, in seguito, anche dai videogiochi. Ciò è avvenuto con particolare intensità in una prima fase di questo processo, fra gli anni Settanta e Ottanta. Vari messaggi e contenuti culturali provenienti dal Giappone sono giunti, in modi diversi, all’attenzione di folte schiere di bambini e ragazzi europei e americani, benché con modalità non sempre plateali. Anzi, i contenuti inscritti nei prodotti ludico-narrativi giapponesi arrivati fino a noi – che ipso facto risultano, in origine, culturalmente collocati e che in seguito sono trasmigrati in contesti ricettivi lontani e non sempre in grado di carpirne tutte le sottigliezze – si sono spesso presentati ai destinatari occidentali quasi come mimetizzati fra le pieghe del fascino esotico emanato dalle tecnologie e dalle estetiche di provenienza nipponica. Infatti, benché in certi casi si registri, da parte di vari autori e produttori del Sol Levante, il deliberato intento di smussare – in prodotti quali serie televisive d’animazione o videogiochi – il colore culturale giapponese, l’impronta locale è semplicemente ineliminabile. In questo volume si va perciò alla ri-
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cerca di alcune delle tracce più macroscopiche di tali orme, poiché esse sono state impresse nel corso dei decenni su non pochi spettatori/lettori al di fuori dell’Arcipelago. Spettatori e lettori che comunque hanno assai spesso saputo rielaborare attivamente i variegati contenuti e tratti estetici dell’immaginario audiovisivo e poi fumettistico giapponesi. Il Giappone fino a non molto tempo fa nella vulgata occidentale era erroneamente preso in considerazione, quale nazione inserita a pieno titolo nella contemporaneità, soltanto in quanto produttore ed esportatore di prodotti dell’industria meccanica come automobili e motociclette, di macchine fotografiche, di alta tecnologia per la ripresa e la riproduzione audio/video. Dagli anni Ottanta però ha cominciato a far parlare di sé in Occidente anche come centro propulsore di un’industria culturale che è riuscita a farsi apprezzare in molte parti del mondo. I disegni animati, i fumetti, i videogiochi, i giocattoli e i gadget, la musica pop, il cinema d’avventura e romantico, gli sceneggiati televisivi e in generale la cultura di massa locale hanno riscosso e tuttora continuano a raccogliere un successo notevole in buona parte del continente asiatico, che ne costituisce il bacino di esportazione culturale più esteso. Ma una buona fetta di questa produzione, soprattutto quella che viaggia sotto forma di disegni animati e di fumetti, dagli anni Sessanta ha ottenuto un’attenzione crescente da parte di vari operatori statunitensi prima ed europei dopo. Nei tardi anni Settanta, in particolare, per concomitanze storiche e di mercato – di cui si parlerà meglio nel corso del libro – una gran quantità di serie TV e in seguito di fumetti nipponici è entrata in Europa, contribuendo seriamente a modificare gli assetti mediatici e il gusto di buona parte del pubblico giovanile comunitario. L’Italia è stata ed è ancora, seguita a ruota dalla Francia, il paese europeo più centrale in questa dinamica. All’interno dell’ingente varietà di temi, messaggi, valori e simboli che i giapponesi hanno giocoforza riversato nei fumetti e nei disegni animati di propria produzione, poi acquistati e distribuiti da operatori di varie nazionalità, ho individuato tre macromodelli culturali, dove «modello» è qui inteso nell’accezione di concentrato di contenuti culturali, di conglomerato di estetiche e tematiche riunite da un filo conduttore coerente, per quanto ricco e variegato. Ho ritenuto che questi macromodelli fossero particolarmente stringenti perché credo accolgano una congerie di istanze e contenuti cruciali per la contemporaneità, per il modo in cui il Giappone è stato recepito da molti giovani telespettatori e lettori occidentali di fumetti, e per alcuni punti di contatto con analoghe istanze e tematiche riscontrabili nel tessuto socioculturale in cui vivono oggi le nuove generazioni europee. Ho denominato i tre modelli macchina, infante e mutazione. Essi sono presenti – secondo criteri e intensità variabili – in svariati settori della cultura di massa giapponese contemporanea, come la moda, la TV e il cinema, la letteratura, le arti visive, i mercati del voluttuario, la
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musica e lo show business; tuttavia, come si diceva, sono arrivati in Occidente, fra gli anni Settanta e oggi, soprattutto tramite i cartoon e i fumetti, e con i rispettivi derivati merceologici. Questa immissione nei mercati occidentali di prodotti e personaggi giapponesi indirizzati alle giovani generazioni si può distinguere, fino a questo momento, in due fasi che, sulla base di altrettante metafore che in seguito vengono illustrate, ho scelto di denominare del Drago e della Saetta. La prima ha avuto luogo dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta; la seconda, dalla metà di quel decennio a oggi. Queste due fasi sono state scandite non solo dall’evoluzione estetica e tematica dei prodotti dell’immaginario che il Giappone ha offerti con grande efficacia, ma anche dalle modalità commerciali con cui tali eroi e merci sono stati proposti e distribuiti. Sebbene il Giappone, fino ad anni molto recenti, non abbia deliberatamente fatto progetti complessivi per l’inserimento nei mercati occidentali della propria industria culturale, quelle del Drago e della Saetta – è questo uno degli assunti di base di questo libro – possono essere definite, oltre che fasi, anche strategie d’innesto culturale in Occidente. Il processo storico di immissione in Europa e America di ampi stralci della pop culture nipponica, per quanto si sia declinato in modo per lo più acefalo e in base a dinamiche commerciali non predeterminate, presenta elementi in vario modo definibili come strategici. Questi però non fanno capo solo al Giappone, che pure a partire dagli anni Sessanta, prima timidamente e in seguito con sempre maggiore convinzione – dettata peraltro dal gradimento da parte dei pubblici stranieri – ha imboccato la via della proposizione sui mercati esteri delle proprie serie d’animazione e a fumetti; il processo è stato biunivoco, poiché molto spesso sono stati proprio i mercati e le platee occidentali a richiedere e ad acquistare fumetti e animazioni giapponesi, stimolati dai prezzi competitivi, dalla qualità narrativa e dalla novità stilistica.1 Dunque, durante queste fasi storiche dell’arrivo in vari paesi europei e americani di certa cultura di massa giapponese, diversi soggetti al di qua e al di là di due oceani hanno contribuito a porre in essere queste due strategie commerciali, in base a logici meccanismi economici di domanda e offerta.2 Come indicato La biunivocità si è estrinsecata anche in un altro senso, cioè nell’enorme richiesta da parte delle platee giapponesi di prodotti, personaggi e miti dell’industria culturale europea e soprattutto statunitense; tuttavia questo processo in Giappone ha radici più antiche, perché risale in una prima fase al periodo compreso fra la coatta apertura commerciale del Giappone all’Occidente (nel 1853, cfr. infra per ulteriori notizie) e gli anni Trenta; e in una seconda fase all’occupazione militare e politica degli americani sul suolo nipponico dal 1945 fino alla prima metà degli anni Cinquanta. Ad ogni modo, non rientra fra gli obiettivi di questo libro trattare come la cultura popolare statunitense abbia attecchito in Giappone. 2 Invece, in Italia e in Europa, opinioni ammantate di un certo timore naïf da vari decenni immaginano – fantasia, questa, ironicamente da fumetto – un Giappone popolato di 1
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alcune righe sopra, e come verrà spiegato meglio anche altrove nel libro, per quanto riguarda l’Europa la prima fase la si può fare iniziare alla metà degli anni Settanta e terminare alla metà degli anni Novanta. Per quanto riguarda gli USA la prima fase comincia invece un po’ prima, alla metà degli anni Sessanta, quando vi vennero trasmesse le primissime serie animate giapponesi – ma ad ogni modo qui ci interessa più che altro l’esperienza europea. Da un punto d’osservazione, dunque, italo/europeo, si può individuare la cristallizzazione simbolica di queste due macrofasi in due emblematici prodotti ludico-narrativi. Essi sono il robot dei disegni animati UFO Robo Grendizer, ideato in Giappone nel 1975 e giunto con grande successo in Europa nel 1978, e il cosmo multimediale Pokémon, lanciato in Giappone nel 1996, arrivato in Europa, via USA, nel 1999 e ancor oggi presente, seppure in tono minore rispetto al suo exploit di qualche anno fa.3 Attraverso questi due aggregati di merci-feticcio, famosi in molti paesi oltre che in Italia e in Giappone, ho cercato di dare un volto alle due metafore del Drago della Saetta, e perciò in questo volume, oltre agli altri argomenti di cui si dirà, si percorre, peraltro proprio in convergenza con quei temi, la vicenda di questi due prodotti giapponesi che hanno riscosso un pervasivo successo in Italia, in Francia e non solo. Tesi centrale di Il Drago e la Saetta è dunque che, attraverso complesse dinamiche di circolazione transnazionale degli immaginari riferiti a forme espressive postmoderne come il fumetto e il cinema d’animazione, il Giappone – in modo all’inizio non deliberato – abbia veicolato in Occidente tre modelli culturali, profondamente connessi con valori e particolarità del suo sistema sociale e della sua storia; e ciò è avvenuto sostanzialmente su due modalità, snodatesi in altrettante fasi in cui le estetiche alla radice dei personaggi e dei cosmi narrativi veicolanti tali modelli culturali si sono basate su differenti processi produttivi e distributivi. scienziati dagli occhi a mandorla e computer fantascientifici con il progetto di dominare il mondo tramite i loro strambi prodotti culturali, con cui soggiogare le giovani menti occidentali. Idee di questo tipo sono state messe per iscritto da vari giornalisti e psicologi. Per un quadro informato della questione, che comunque non è oggetto di questo volume, cfr. IF 1999, che presenta un compendio dell’immagine del Giappone nei media popolari italiani da fine Ottocento ad anni recenti. 3 La serie UFO Robo Grendizer, realizzata in Giappone dalla Tôei Dôga (o Tôei Animation) in 74 episodi fra il 1975 e il 1977 e basata su una storia del fumettista Gô Nagai, arrivò in Italia con il titolo Atlas UFO Robot; il nome del robot qui fu cambiato in Goldrake, in Francia divenne Goldorak. La serie fu apprezzata anche nel Canada francofono e in altri paesi, dagli Stati Uniti a varie nazioni di lingua araba. Il cosmo Pokémon, nato da un’idea del progettista di videogiochi Satoshi Tajiri, fu lanciato in Giappone da Nintendo a partire dal 1996 nei videogame, nei giocattoli, nell’animazione e in molti altri settori commerciali, diffondendosi come una mania in tutto il mondo. In Italia arrivò nel 2000.
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DIRETTRICI GENERALI
I. Le direttrici generali
UFO Robo Grendizer e Pokémon sono solo due dei rilevanti esponenti del mare magnum di personaggi mediali, merci, mode giapponesi arrivati da trent’anni a questa parte in Italia, in Francia e in altri paesi europei. Tuttavia i disegni animati di fantascienza e i mostriciattoli mutanti possono essere inquadrati, nell’ambito delle narrative per ragazzi, come i più significativi in assoluto fra i prodotti giapponesi, e non soltanto per l’Italia.4 Lo sono perché, sebbene a distanza di vent’anni, hanno generato analoghe reazioni nell’opinione pubblica e, pur presentandosi nell’arena del multimedia con caratteristiche diverse, hanno prodotto nei loro fruitori una risposta in parte simile e sovrapponibile. Certo, come appena rilevato, essi sono soltanto due dei tantissimi prodotti mediali giunti dal Giappone dagli anni Settanta a oggi, insieme a ulteriori fenomeni sociali e/o culturali di ampio spettro provenienti anche da altre zone del continente asiatico quali i film e il mito di Bruce Lee negli anni Sessanta-Settanta, le arti marziali trasformate in sport, l’emergere di una cultura pop cinese e indiana sempre più presenti in Occidente. Tuttavia gli eroi nipponici per ragazzi giunti da queste parti sono centinaia e centinaia. In particolare sono gli albi a fumetti e – soprattutto – i disegni animati prodotti per la televisione che dagli anni Sessanta hanno trasportato con enorme successo i personaggi giapponesi nelle Americhe e in Europa. Gli anime e i manga5 hanno contribuito a forgiare l’immaginario audiovisivo di moltissimi bambini e ragazzi italiani ed europei, complici anche bizzarre dinamiche di programmazione televisiva. Giunta in Europa dalla seconda metà degli anni Settanta, una prima grande ondata di serie animate giapponesi ha gettato le basi di una nuova sensibilità estetica: caratteristica oggi propria, presso le nuove generazioni, a coloro i quali sono cresciuti con la costante presenza della TV e poi anche dei videogiochi, e che nel corso degli anni sta potenziandosi in base alle modalità di rinnovamento commerciale, espressivo e tematico del mercato degli anime e dei manga nel frattempo avvenuto in Italia e in molti altri paesi. Si deve citare di nuovo la Francia ma anche altri paesi come la Spagna e la Svizzera francese e italiana, in cui i disegni animati e poi i fumetti giapponesi hanno avuto simile successo. Per esempio, in Spagna la prima serie robotica giapponese trasmessa fu, già nel 1978 sul canale TVE 1, Mazinger Z (la serie originale, del 1972 e ancora della Tôei su storia di Gô Nagai, consta di 92 episodi). Inutile dire che Pokémon, in quanto fenomeno globale più sofisticato di quelli che lo hanno preceduto, ha riscosso un vastissimo successo in tutti i paesi qui menzionati. 5 Gli anime sono i cartoon nipponici per la TV e l’home-video. La parola contrae il termine inglese animation. Manga designa i fumetti: la traduzione letterale è ‘immagini casuali’, ‘schizzi involontari’. Fu coniata nel 1814 dall’artista Katsushika Hokusai (1760-1849); dall’epoca Taishô (1912-1926) si presentò arricchita della connotazione comica e fu quindi tradot4
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DIAGRAMMA 4
Il Giappone, attraverso le tre forme
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(e videogame)
anime
manga
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ha veicolato in Occidente tre macromodelli culturali:
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macchina
infante
mutazione
Giunti in Europa e nelle Americhe, durante due fasi storico-culturali e commerciali, per mezzo di altrettante «strategie»
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Fase/strategia del Drago (1975 – 1995)
•
Fase/strategia della Saetta (1996 – presente)
Il Drago e la Saetta viaggia essenzialmente su tre direttrici, che indagano gli altrettanti modelli culturali sopra anticipati. La prima direttrice percorsa inerisce al costrutto tecnologico androide, da cui è promanato il grande successo – non solo giapponese – di serie animate come UFO Robo Grendizer, basate talora su robot antropomorfi e talaltra su cyborg, e che gioca una parte preponderante nel sostanziare il modello culturale della macchina qui individuato. La seconda è quella del cosiddetto kawaii, una categoria estetica che impregna molta cultura pop giapponese; essa informa il modello culturale dell’infante, una giovinezza indifferente alla maturità per la quale gli adolescenti e i giovani, per vari motivi che si trovano radicati in profondità nella società mainstream, tendono a ritardare, o a veder loro malgrado procrastinato, il loro ingresso nella vita adulta. La terza, simbolizzata dai Pokémon, evidenzia in via metaforica il modello ta anche come ‘immagini buffe’. Occorre precisare che fino all’inizio degli anni Novanta il termine anime era ignoto in Italia e si è affermato, prima fra gli appassionati e poi – faticosamente – anche nella stampa generalista, dopo la pubblicazione delle prime riviste amatoriali e di due volumi pionieristici: Baricordi – De Giovanni – Petroni – Rossi – Tunesi 1991 e Raffaelli 1994. Cfr. infra, Parte I, Capitolo II e Parte II, Capitolo III.
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DIRETTRICI GENERALI
culturale della mutazione, una metamorfosi che si delinea su tre livelli: quello dei personaggi del voluttuario, trasformazione che investe i temi e le estetiche di tali figure; quello dei modi della loro commercializzazione e medializzazione; e quello reale dei rapporti fra le generazioni, della dialettica fra gioventù e vita adulta. Lo schema a pagina 8 visualizza in generale i rapporti topografici fra i macrotemi toccati dal libro. Il volume è articolato in due Parti. Nella prima, temi portanti sono i modelli della macchina e dell’infante: le questioni a essi relative sono viste nelle loro varie sfaccettature e, inoltre, sono esaminate rispetto alle principali trasformazioni in essi maturate negli ultimi tre decenni; in tal senso, quindi, il modello della mutazione fa come da filtro ai primi due. I due modelli sono esaminati alla luce di alcuni concetti inerenti agli studi sulla globalizzazione culturale, delle principali forme espressive in base alle quali i modelli stessi sono stati portati in Occidente, di considerazioni commerciali complessive e dell’identità nazionale giapponese. Nella seconda parte si contestualizza e si analizza l’arrivo in Italia di questo immaginario e si ripercorre l’evoluzione delle modalità di proposizione multimediale degli aggregati di merci basati sui maggiori cosmi narrativi per i giovani, per verificare le manifestazioni di questo altro aspetto del modello della mutazione; e infine, sulla scorta dell’avvenuta individuazione delle due fasi/strategie del Drago e della Saetta, si propongono brevi analisi esplorative sulla ricezione e sulle pratiche di consumo giovanile dell’immaginario giapponese in Italia. La Parte I si apre con la presentazione di otto concetti importanti della postmodernità, in cui il Giappone gioca un ruolo chiave. La chiarificazione di cosa si intende, in questo libro, con tali termini – cultura di massa, pop culture, globalizzazione culturale, transculturalità e transacculturazione, transnazionalità, nazionalismo, odore culturale – fa da base ai temi successivi e fornisce una prima spiegazione di un tema trasversale, quello della/delle identità della cultura di massa giapponese sia in patria sia presso i pubblici stranieri. Nel Capitolo II è riportata una trattazione introduttiva sul manga e l’anime come forme espressive tipicamente giapponesi, nonché sulle loro somiglianze e differenze con il fumetto e l’animazione occidentali. Per un verso è indispensabile, ai fini della trattazione dei temi presentati successivamente, che si faccia chiarezza su cosa sono il manga e l’anime nelle loro linee generali; per l’altro verso, la popolarità internazionale delle due forme e i loro inevitabili contatti e a volte le contaminazioni con forme culturali occidentali, rendono opportuno che tali dinamiche transculturali siano portate alla luce, poiché è proprio attraverso i manga e gli anime che molti giovani lettori/spettatori/videogiocatori/consumatori europei e americani hanno recepito queste forme culturali giapponesi, affezionandosene.
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Ai Capitoli III/1 e III/2 si traccia un percorso sul mito e sulla realtà del robot in Occidente e in Giappone, attraverso vari sentieri che si intrecciano. Essi sono una rapida trattazione generale che pesca da miti sia occidentali sia nipponici; un excursus sui modi con cui in Giappone si è sviluppato un forte attaccamento culturale alle macchine robotiche; un sunto delle opere di Gô Nagai, il più rappresentativo ideatore di storie a fumetti e in animazione con protagonisti robot giganti, la cui popolarità e le cui suggestioni estetiche e tematiche hanno riscosso grande consenso in patria e in molti paesi occidentali, specialmente in Italia; una panoramica delle principali peculiarità dell’animazione giapponese di genere robotico-fantascientifico, attraverso le quali non è difficile individuare paralleli con questioni non secondarie legate alla società nipponica. Tutti questi temi sussumono le molte facce attraverso cui il modello della macchina nipponica si è presentato in Occidente tramite i fumetti, i telefilm di supereroi e i disegni animati di fantascienza dagli anni Settanta a oggi. Il Capitolo IV affronta quattro temi strettamente legati fra loro e tutti informanti il modello culturale dell’infante. In primo luogo lo svilupparsi in Giappone della cosiddetta estetica del kawaii; a seguire, la spasmodica attenzione al consumo di beni voluttuari da parte di una larga fascia di giovani e alcuni indizi su come il kawaii sia giunto in Occidente; in terzo luogo, l’immagine dell’infanzia per come rappresentata nelle maggiori serie animate con protagonisti bambini giunte in Occidente fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta; infine, la simbologia che da tale tipo di animazione emerge, condensata in un conflitto generazionale e in un’idea di società fortemente normativa, società che ha prodotto anche alcuni effetti negativi, fra i quali il fenomeno di presunta devianza giovanile oggi noto nella vulgata come otaku. Il Capitolo V contiene brevi informazioni sulla televisione e i videogiochi in Giappone, al fine di contestualizzare i Capitoli VI e VII, con cui si chiude la Parte I, che vertono in modo più particolareggiato su Grendizer/Goldrake6 e sui Pokémon, visti come polimerci e universi ludiconarrativi di primo piano. L’excursus critico su Grendizer ha la funzione di individuare elementi salienti dell’identità giapponese e di introdurre il consenso popolare senza precedenti che il robot gigante riscosse in Italia contro il tiepido successo prima raccolto in Giappone; quello su Pokémon è votato a rilevare la vastità di tale cosmo ludico-narrativo e il ri6
Da questo momento in poi ci si riferisce alla serie UFO Robo Grendizer citandola o con il nome giapponese o con il titolo con cui è nota in Italia; lo stesso valga per il nome del robot protagonista. Un trattamento simile è riservato ad altri prodotti citati ripetutamente, che dopo la prima presentazione con i dati originali e dell’edizione italiana verranno indifferentemente richiamati seguendo l’una o l’altra nomenclatura.
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LE
DIRETTRICI GENERALI
scontro ormai senza più frontiere riscosso vent’anni dopo Grendizer da questo più recente fenomeno commerciale dell’immaginario di massa destinato ai giovanissimi. La strumentazione di cui ci si dota in questi due Capitoli, dunque, ha la funzione di fornire gli elementi per interpretare le differenze – e le ragioni di tali differenze – nell’estensione e intensità di popolarità che questi due prodotti hanno raggiunte, il primo per lo più in Italia e in Francia, e il secondo in tutto il mondo ricco, in due fasi distinte dell’evoluzione dei media di massa. La Parte II è dedicata a documentare le forme che il modello, o meglio – come si vedrà in seguito – il «transmodello» della mutazione ha assunte nel suo svolgersi dagli anni Settanta a oggi. La mutazione in esame è consistita non solo nelle trasformazioni che temi ed estetiche dei personaggi del manga e dell’anime appartenenti ai modelli della macchina e dell’infante hanno attraversate in questi trent’anni – oggetto trattato nella Parte I – ma soprattutto nel passaggio dalla fase/strategia del Drago a quella della Saetta. Nodo cruciale della questione è la dinamica d’arrivo e di ricezione dell’immaginario giapponese in Italia, e le pratiche fruitive dei pubblici che ne sono derivate. Il transito e poi la permanenza di tale immaginario hanno decretato una metamorfosi nei meccanismi di produzione e distribuzione dei prodotti narrativi e commerciali provenienti dal Giappone, e negli ultimi anni hanno pure provocato la nascita di un’attenzione tutta nuova, da parte del governo nipponico – e simili attenzioni si registrano anche da parte di altri governi, come quelli sudcoreano e cinese, nei confronti delle rispettive industrie culturali nazionali – che spinge a far pensare che si stia assistendo all’ingresso in una fase ulteriore, su cui si spenderanno alcune parole nelle Conclusioni. Al Capitolo I sono rapidamente descritti alcuni aspetti salienti del sistema radiotelevisivo italiano a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, per contestualizzare l’arrivo dei primi disegni animati giapponesi e in particolare, al Capitolo II, della serie dedicata a Goldrake, prodotto che apre il periodo dell’«invasione» dell’immaginario nipponico presso il pubblico giovanile europeo e attraverso la cui vicenda mediatica si possono ricostruire elementi significativi dello scenario socioculturale e pedagogico italiano nella seconda metà degli anni Settanta. Al Capitolo III si dedica ampio spazio, in una rassegna critica, alla letteratura di settore italiana e straniera dedicata al fumetto e all’animazione giapponesi, per rendersi conto di quale impatto la cultura popolare audiovisiva nipponica abbia avuto in Italia e in altri paesi sul fandom e su una nuova generazione di studiosi di varia estrazione disciplinare. Il Capitolo IV presenta una proposta teorica che rende conto, a grandi linee, delle modalità con cui – dalla fine dell’Ottocento a oggi – sono stati prodotti, presentati e distribuiti alle platee internazionali i maggiori fenomeni ludico-narrativi per i bambini e gli adolescenti, dal mondo Di-
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sney a Barbie, da Goldrake ai Pokémon, da Spider-Man e Harry Potter. È su questa tipologia di modelli che si espleta l’aspetto, sopra già richiamato, del modello della mutazione inerente alle modifiche con cui gli eroi dell’immaginario sono stati prodotti e distribuiti. Il Capitolo V è dedicato a un affondo sulla tesi su cui il libro è costruito, la successione delle due fasi del Drago e della Saetta nell’arrivo e nel consenso fra i giovani occidentali di certo immaginario giapponese. Vi si approfondiscono alcune questioni cruciali: i cosidetti otaku italiani; il processo di ibridazione delle pratiche di disegno dei ragazzi e perfino di vari autori di fumetti in seguito all’innesto del manga e degli anime nel contesto occidentale; la contrapposizione fra modalità strategiche di presentazione della cultura giapponese da parte degli autori di anime nei loro prodotti e le procedure occidentali di rimaneggiamento narrativo e tematico di molte di queste serie in base alla rappresentazione del pubblico; i molti effetti sulle pratiche di fruizione, condivisione e partecipazione della cultura derivata dagli anime e dai manga su varie sottoculture e comunità di lettori/spettatori/consumatori; gli sviluppi del mercato del manga e dell’anime in Italia e in Europa in seguito alla forte espansione sia delle vendite dei fumetti giapponesi in vari paesi, sia della crescente legittimazione del cinema di animazione nipponico fra la critica più accreditata e a livello di incassi al botteghino. Il Capitolo VI, scritto per Il Drago e la Saetta dallo storico e politologo francese Jean-Marie Bouissou, analizza in modo complementare a quanto svolto nel resto del volume le possibili ragioni per le quali l’immaginario fumettistico nipponico ha avuto questo grande successo in Europa, e perché nelle forme che esso di fatto ha assunte negli ultimi quindici anni. Al Capitolo VII, quasi come a titolo di breve appendice empirica ai Capitoli V e VI, sono infine presentati, in sintesi, i primissimi risultati di un’indagine sui lettori italiani di manga nell’ambito di un progetto comparativo internazionale che in futuro vedrà ulteriori sviluppi.7 Nelle Conclusioni al volume si riprendono i temi principali del libro e si presentano alcuni, ultimi argomenti che provano ad aprire qualche spiraglio su future possibilità d’analisi.
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L’indagine si intitola Japan’s New Cultural Power, è diretta da Jean-Marie Bouissou, directeur de recherche presso il CERI (Centre d’études et recherches internationales), facente capo a «Sciences Po», la Grande École di Scienze politiche di Parigi, è finanziata dalla Japan Foundation e vi partecipano vari ricercatori europei. I dati divulgati in questa sede sono l’elaborazione del survey italiano, frutto parziale della prima fase, esplorativa, di un lavoro che sta impegnando vari paesi fra cui la Francia, la Germania, l’Italia, la Svizzera e altri. Lo studio complessivo è in corso e sarà edito nel 2009.
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LIMITI
DELLA SAGGISTICA ITALIANA
II. Limiti della saggistica italiana
La produzione italiana di saggi sul fumetto, sul cinema e sulla televisione è vasta, come notevole è la bibliografia locale sull’industria culturale dall’Ottocento fino a oggi. Ma in ben pochi fra questi contributi si trovano cenni sull’arrivo in Occidente di quella cultura di massa giapponese manifestatasi attraverso i suoi disegni animati, telefilm, fumetti; e, laddove tali accenni sussistano [Grasso 1996: 43, 350; Id. 2000 e 2002], sono suggeriti dalla saggistica di settore, che è riuscita a indicare che l’argomento esiste ed è meritevole di trattazione.8 Alcuni di questi contributi, concentrandosi su modelli di distribuzione, statistiche e politiche di rete [Menduni 1996], lasciano poco o nessuno spazio alla materia televisiva in senso stretto, ovvero i programmi, i generi, i formati, i protagonisti. Altri invece, che pure si propongono sguardi retrospettivi generali [Grasso 1992, Rondolino 2003], paiono viziati da una sorta di centrismo generazionale nella loro indifferenza verso prodotti, autori e protagonisti nipponici i quali hanno comunque avuto un ruolo nella cultura di massa in Italia e continuano a farne parte. Altri ancora, infine, parlano sì di personaggi televisivi per i ragazzi, e perfino di eroi giapponesi, ma con una conoscenza della materia che dà l’impressione di non essere esaustiva [D’Amato 1993] e che a volte si basano perfino su impianti teorico-argomentativi parecchio opinabili o ballerini [Cofano 1999]. La situazione non è molto diversa in altri paesi europei. Ci si può dunque domandare a cosa si debba l’omissione o la traballante trattazione dei prodotti culturali nipponici dalle analisi sull’industria culturale in Occidente. Rimanendo al solo contesto italiano, in alcuni testi, di grande pregio, la ragione va attribuita all’impianto argomentativo, per cui l’assenza dei prodotti giapponesi dal loro indice è comprensibile [Colombo 1998]; ma in molti altri il motivo sembra essere piuttosto la costante rimozione di un’importante fetta della cultura mediatica italiana. Ciò porta a ipotizzare che il corpus di animazioni e di fumetti del Sol Levante sia stato sistematicamente ignorato, da autori di varia provenienza accademica, per incompatibilità generazionale, forse dovuta all’insofferenza che fin dall’arrivo in Italia della serie giapponese UFO Robo Grendizer ha scatenato le note polemiche sulla presunta di8
Dalla metà degli anni Novanta sono numerose le tesi di laurea dedicate al fumetto e all’animazione giapponesi. Molti lavori sono simili, dal momento che non c’è una comunicazione fra gli atenei e manca un database telematico nazionale delle tesi di laurea, ma il fatto è davvero interessante: una generazione di giovani sta riflettendo criticamente sui miti della propria gioventù, e nel contempo sta svolgendo un lavoro di infoltimento bibliografico su un campo dell’analisi dei media ignorato dagli studiosi della generazione precedente. Situazioni simili si registrano negli ultimi anni anche in Francia e Germania.
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seducatività degli anime; dando origine a un rimosso culturale che sta emergendo solo da alcuni anni, attraverso una nuova e più informata pubblicistica. Solo alcuni accademici e critici non hanno trascurato la rilevanza del cosiddetto anime boom e poi dei manga in Italia. Basti citare lo scrittore premio «Andersen» Gianni Rodari [1980], il semiologo Daniele Barbieri [1991 e 2004], il sociologo Sergio Brancato [1994 e 2000], lo scrittore e saggista Ermanno Detti [1998], il sociologo Alberto Abruzzese [1999], la pedagogista Gianna Marrone [2005], che già da anni riconoscevano che l’arrivo in Europa degli anime e dei manga è stato una tappa culturale importante per due generazioni di utenti televisivi. È anche vero che in questi ultimi tempi perfino il mondo dell’informazione, che pure ha spesso usato un tono denigratorio su molte produzioni giapponesi, ha cominciato a fare apparire notizie sul tema di diverso e più positivo tenore, soprattutto in base a un progressivo e naturale avvicendamento generazionale fra i pubblicisti dell’area culturale. Era importante accennare a tali limiti strutturali e, a tratti, ideologici nel dibattito sulla cultura audiovisiva giapponese in Italia da parte delle generazioni di osservatori over 40, perché tali manchevolezze sono in contrasto con una nuova fase del dibattito, inaugurata negli anni Novanta, le cui redini sono state prese da autori e accademici più giovani. Soggetti senza dubbio condizionati in senso opposto dal fatto di essere cresciuti a stretto contatto con questo immaginario nipponico, eppure più attenti nell’impostare le problematiche a esso legate con maggiore obiettività e con una più ricca varietà di argomentazioni, notizie e competenze.9 III. Tre cambiamenti nell’approccio ai media e all’immaginario
Si assiste oggi a un cambiamento strutturale nell’immaginario e nelle sue routine produttive, avvenuto sia nell’ambito di quel rinnovo di eroi e miti di cui si parlava sopra, sia attraverso una triplice innovazione sui piani tecnologico, mediatico-linguistico e cognitivo. Ai tradizionali apparati tecnico-produttivi dell’industria culturale quali la stampa, la radio e il cinema, che hanno dominato la prima metà del XX secolo, si sono aggiunti in successione, a partire dagli anni Cinquanta, la televisione, il videogioco, il computer domestico, il telefono cellulare e l’internet. L’introduzione di questi media ha prodotto nuovi linguaggi, con i quali sono nate e/o cresciute le persone che oggi, 2008, hanno dai 35-40 anni in giù. Pratiche ormai consuete come lo zapping, 9
Il Capitolo III della Parte II è dedicato a questa saggistica di nuova generazione, per indicarne pregi e limiti.
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CAMBIAMENTI NELL’APPROCCIO AI MEDIA E ALL’IMMAGINARIO
l’uso del Walkman prima e dei lettori MP3 poi, il gioco con i videogame palmari o domestici, hanno generato un nuovo rapporto con la realtà e con il proprio corpo, come teorizzato da Marshall McLuhan prima [1964] e da altri studiosi dopo [Meyrowitz 1985, De Kerckhove 1991]. Gli SMS, l’email, le chat, i blog e la navigazione per il web, la visione di videoclip e di programmi con un linguaggio registico dall’andamento saltellante, multilineare e indirizzati ai giovani, tutto questo e molto altro ha abituato i ragazzi dei paesi mediaticamente avanzati a universi di senso quasi del tutto fuori dalla portata dei loro genitori. Ciò ha determinato un cambio di paradigma cognitivo, consistente sia in un nuovo rapporto con le proprie capacità motorie e reattive sia in differenti modalità di comprensione e flessibilità di fronte a nuove situazioni e nuovi codici.10 Ora, il corpus di anime giunti in Italia e in Europa dalla seconda metà degli anni Settanta11 si è innestato in questo triplice passaggio tecnologico, mediatico-linguistico e cognitivo; anzi, lo ha in parte agevolato e vi ha aggiunto due altri piani, quello estetico e quello ideologico-valoriale. La Goldrake-generation12 ha ricevuto un’impronta estetica dagli anime con cui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza; da essi ha anche ascoltato e appreso, spesso, suggerimenti valoriali ignoti alla maggior parte dei cartoon televisivi prodotti in Occidente, di taglio per lo più umoristico. Gli assetti morali, le tematiche e le estetiche di tali prodotti hanno impresso, in questa generazione ormai adulta, e stanno continuando a proporre, in quelle nate negli anni Ottanta e Novanta, una sensibilità che scorre su due binari. Da una parte vi sono gli scenari che ancora dominano la culSul concetto di cambio di paradigma cognitivo, espresso talvolta con altra terminologia, cfr. Detti – Maragliano 1992 e Simone 2001. Per un approccio divulgativo al concetto in merito agli anime cfr. Pellitteri 2000b e 2003a. 11 Si tratta, per l’Italia, di oltre un migliaio tra film, miniserie e serie, per non parlare poi della miriade di manga pubblicati dagli anni Sessanta a oggi e in continuo aumento (cfr. infra, Parte I, Paragrafo II.1). Da questo punto in poi, quando è citata una serie animata ne sono indicati nel testo e/o in Nota i dati salienti: autore/i, titolo originale ed eventuale titolo italiano, se rilevanti la traduzione del titolo originale e il numero di puntate, anno e casa di produzione, eventuale prima trasmissione in Italia. Dati significativi sono presentati anche nel caso dei fumetti, film e telefilm citati. L’obiettivo ovviamente non è la totale esaustività filologica – per quello esistono altre fonti indicate in seguito – ma il semplice orientamento biblio-filmografico. Resta da segnalare che, dove non diversamente indicato, tutti i fumetti e i prodotti televisivi giapponesi citati da qui in poi sono regolarmente arrivati in Italia, che si configura come il paese occidentale in cui è giunto di gran lunga il maggior numero di manga e di anime. Proprio per questo l’Italia è un terreno di ricerca cruciale a livello mondiale. 12 In Italia da alcuni anni, quando si parla di questi temi, si indica colloquialmente con Goldrake-generation la generazione di utenti televisivi, oggi adulti, cresciuti negli anni Settanta e Ottanta a stretto contatto con i primi anime giapponesi giunti in TV, come UFO Robo Grendizer, il cui protagonista è il robot eponimo (in Italia Goldrake), forse il più rappresentativo personaggio giapponese di quel periodo. La definizione è stata proposta per la prima volta in Pellitteri 1999. 10
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tura occidentale; dall’altra sono presenti gli eroi giapponesi, un blocco molto nutrito di personaggi, cosmi narrativi, etiche ed estetiche a volte anche molto diversi, ma proprio perciò da studiare con scrupolo. Personaggi e prodotti di un’industria culturale esotica sono penetrati con grande pervasività in Europa – in particolare in Italia, Francia, Svizzera, Spagna, ma non solo13 – indipendentemente dalle scelte di politica culturale delle istituzioni locali. C’è da dire che l’immaginario giapponese in Europa non è ubiquo come quello nordamericano, e che interessa piuttosto frange – per quanto estese – delle generazioni giovanili, ma si tratta in ogni caso di un innesto culturale degno di rilievo. Il fenomeno di cui è stata protagonista la Goldrake-generation, che credo sia lecito definire di sincretismo transculturale, è insomma da non sottovalutare. Una cultura di massa straniera, in ascesa sulla scena internazionale – o almeno quella parte di essa, per lo più televisiva, dedicata ai fanciulli – nei tardi anni Settanta è entrata in contatto con contesti nazionali molto distanti, con effetti che ancora oggi richiedono attenzione. IV. UFO Robo Grendizer
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A queste riflessioni preliminari si allaccia il discorso su Grendizer e sui Pokémon. Del cosmo multimediale Pokémon si parlerà più sotto. Qui spendo alcune parole su quella configurazione ludico-narrativa nota ai più, in Italia, trivialmente come «UFO Robot» (Figura 1).14 Nel 1999 Alberto Abruzzese osservò, al proposito, che la reazione di violento rigetto, con cui il senso degli anime giapponesi fu accolto dai Testimoni e Controllori del sistema italiano, sta a dimostrare la povertà critica e politico-amministrativa di chi ha affrontato il momento in cui la nostra cultura nazionale […] è entrata davvero in contatto – senza potere o volere comprenderne il senso e le opportunità – con l’uomo tecnologico, con la grande raffigurazione post-umana di Goldrake, la sua riconosciuta fusione antropologica, affettiva e sensoriale, tra i corpi della natura e i corpi della macchina. [Abruzzese 1999: 8]
Abruzzese individuava cioè la fase di passaggio che coinvolse una generazione di piccoli spettatori televisivi nella seconda metà degli anni Una storia a parte la meriterebbe per esempio l’ingresso degli anime nelle TV dei paesi arabi: sia di quelli del bacino del Mediterraneo sia di altri, mediorientali. Goldrake per esempio è molto noto in paesi come l’Egitto; e in altri, come l’Iraq, è stranoto Captain Tsubasa, lì chiamato Captain Majed [Asô 2006: 10]. Su Tsubasa cfr. infra, Parte I, Paragrafo II.1.2.2. 14 In Italia la parola robot è quasi sempre pronunciata alla francese, robò. Una pronuncia più corretta sarebbe ròbot. 13
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Figura 1 Grendizer, noto in Italia come Goldrake. Nell’inglese medievale drake significa ‘drago’, dal latino draco, -nis. Per estensione, si può giocare con il nome fino a indicare Goldrake quale «drago d’oro» per inserirlo quindi a pieno titolo nella metafora del Drago, la quale in parte proprio da esso prende il nome. UFO Robo Grendizer © Gô Nagai / Dynamic Planning / Tôei Dôga / D/Visual.
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Settanta. Tra il 1975 e il 1980 si assisté a una concatenazione di innovazioni tecnologico-linguistiche nel campo delle comunicazioni di massa. In una manciata d’anni le tecnologie e i prodotti mediali meccanici ed elettrici con cui i bambini da oltre vent’anni avevano a che fare (la televisione, il mangiadischi e poi il mangianastri) furono affiancati da innovative attrezzature ludiche. I videogiochi, innanzitutto: da sala, palmari e poi anche da casa [Bittanti 1999, Pellitteri 2006a]. Naturalmente non si evolsero soltanto tecnologie e prodotti. Uno dei temi che ancor oggi si dibattono con insistenza nel campo della critica sulla TV italiana è quello della rapidità con cui, tra il 1975 e il 1976, l’intero assetto delle telecomunicazioni in Italia fu stravolto in favore della libera emittenza privata; ciò produsse una moltitudine di effetti economici, politici e comunicativi tout court,15 ma per quel che riguarda nello specifico il nostro argomento tale liberalizzazione intervenne anche nel 15
Su questi temi cfr. ad esempio Cesareo 1974, Grasso 1992, Abruzzese 1995, Menduni 1996, Anania 1997, Colombo 1998. Se ne parla anche infra, al Capitolo I della Parte II. Fra il 1975 e il 1976 fu varata una riforma del sistema radiotelevisivo italiano per la quale si pose fine al monopolio della RAI concedendo la possibilità di trasmettere ad altre emittenti. Di qui la nascita di una miriade di reti locali e, in breve tempo, del network di tre reti Fininvest (oggi Mediaset).
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modificare i formati e le cadenze di programmazione. Se prima della riforma i disegni animati e i telefilm avevano spazi prefissati e settimanali, dal 1976, prima in RAI e poi nei canali privati, quei programmi cominciarono ad apparire con frequenza giornaliera modificando definitivamente il tipo di rapporto comunicativo fra la TV e i suoi utenti, in particolare i più piccini [Pellitteri 1999 e 2004d: 47-50, Ponticiello 2005]. Dal canto suo il cinema di fantascienza produsse in quegli anni notevoli exploit, specie per quel che riguarda la spettacolarizzazione audiovisiva – basti pensare a Guerre stellari, del 197716 – e sempre più familiare divenne la figura del robot inteso non più solo come macchina industriale ma anche nella sua accezione speculativa e meravigliosa di manufatto intelligente, senziente e di aspetto almeno vagamente umanoide [Di Fratta et al. 2007a]. In questa situazione, l’arrivo delle prime serie animate giapponesi in Italia e in altri paesi europei come la Francia produsse grande sensazione sia nei bambini sia negli adulti, anche se in modi diversi. Il livello al quale dispositivi come i videogiochi erano intervenuti nel tessuto sociale e nella mentalità dei loro utenti riguardava per lo più l’aspetto tecnico-ludico e il modo in cui nuovi usi e nuove abitudini s’intrecciavano con la tradizione [Ascione 1999]; invece l’entrata in scena di eroi inediti per gli occidentali, quali enormi samurai meccanici che combattevano in terra e cielo contro invasori alieni, e telefilm animati che in generale si prendevano sul serio rispetto al candore dei cortometraggi di scuola statunitense, interveniva su un altro livello. Quello più propriamente linguistico e narrativo.17 Non più teneri quadretti, in cui erano protagonisti animali che interagivano in scenari tranquillizzanti e dagli intenti spesso solo comici; non più situazioni in cui vi fossero «buoni-buoni» contro «cattivi-cattivi», nei cartoon Disney, o «furbi» contro «fessi», in quelli Metro-Goldwin-Mayer e Warner Bros. [Raffaelli 1994], ma drammi in cui spesso anche gli eroi morivano tragicamente, e in cui si parlava di temi forti e senza troppe accondiscendenze verso i piccoli spettatori. Come anticipato dalle parole di Abruzzese, Goldrake e l’animazione giapponese di genere fantascientifico furono fra i segnali dell’ingresso in una nuova fase dei media: quella, per l’appunto, della «fusione» fra la tecnologia e l’uomo. Il binomio carne & metallo è certo affascinante e molti autori vi si sono dedicati.18 Ma questa insistenza giapponese sui Star Wars – Episode IV: A New Hope, di George Lucas, 125’, USA 1977 (ed. speciale 1997). Sia chiaro: anche i videogiochi hanno modificato l’approccio alla narrazione e l’immaginario giovanili. Tuttavia l’innovazione portata dalle serie animate televisive giapponesi è intervenuta a un livello più massiccio e indifferenziato, laddove i videogiochi hanno potuto agire, nella loro prima fase di diffusione, essenzialmente sui videogiocatori. 18 Si pensi a scrittori quali Philip K. Dick, William Gibson, Bruce Sterling e a registi come David Cronenberg (Videodrome [Vidéodrome/Network of Blood, 89’, Canada 1983], eXi16
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mondi della macchina e sulla loro proposizione a un pubblico infantile, in un periodo storico in cui ci si andava spostando da un’interpretazione massiva, fordista della civiltà industriale a una concezione più soft degli apparati produttivi, stava suggerendo quella che a uno sguardo occidentale potrebbe sembrare una bizzarria, e che va invece inquadrata come una tendenza peculiare dell’immaginario nipponico. Di qui, l’incontro fra le culture euroamericane e quelle giapponesi – per molti occidentali ignote, esotiche e travestite di tecnologia avveniristica – negli anni Settanta si rivelò, per molti adulti, perturbante, anche perché inattesa. Per esempio, è quasi solo un caso che l’anime di Grendizer/Goldrake sia giunto nella TV pubblica italiana. Fu una coincidenza che a decidere quali programmi esteri per ragazzi mandare in onda si trovasse nel 1978 una funzionaria, Nicoletta Artom, che dimostrò lungimiranza, e a dare il placet fosse un competente cultore di fumetto e animazione, Sergio Trinchero [Trinchero 1983]. Viceversa, è possibile che i dirigenti RAI non avrebbero mai dato il permesso di trasmissione a quella serie ritenuta così strana.19 Tanto che dopo, nel periodo in cui si scatenarono le polemiche sulla presunta pericolosità degli anime, la RAI si sentì costretta a lasciare andare i diritti delle sue opere giapponesi a varie società di distribuzione, se si esclude una manciata di serie soft come Mitsubachi Maya no bôken (in Italia L’ape Maia), Alps no shôjo Heidi (in Italia Heidi) e Akage no An (Anna dai capelli rossi).20 Tuttavia Goldrake/Grendizer aveva già svolto il suo compito: cominciare a forgiare un nuovo approccio alla fantasia e alla narratività alieno ai canoni (non malvagi, intendiamoci) del cartoon classico di stampo occidentastenZ [eXistenZ/Crime of the Future, 97’, Canada 1999]) e Paul Verhoeven (Robocop, 97’, USA 1987): ispiratori di film quali Dark City (di Alex Proyas, 100’, USA 1998) o Matrix (The Matrix, di Andy e Larry Wachowski, 136’, USA 1999). Tuttavia va rilevato che in tal senso i più visionari sono proprio i cineasti giapponesi: basti citare il grand guignol tecnorganico di Tetsuo di Shinya Tsukamoto (‘L’uomo di ferro’, 67’, Giappone 1989) e l’approfondita riflessione sui confini fra umano e non umano nel film d’animazione Ghost in the Shell (Kôkaku kidôtai, ‘Polizia mobile armata antisommossa’, di Mamoru Oshii, 82’, Giappone 1995). Nel campo della speculazione artistico-filosofica sul cyborg e sui conflittuali rapporti fra carne e metallo cfr. Caronia 1985 e Perniola 1998. 19 Si tenga comunque presente che la stampa dell’epoca reagì inizialmente con entusiasmo alle originali avventure robotiche di Goldrake, delle quali si rilevò la familiarità con il canovaccio di Superman: un eroe alieno che giunge sulla Terra come orfano, per proteggerla con i suoi superpoteri [Buongiorno 1978, Cucco 1978]. Fu in seguito che la rilevata cruenza ripetuta delle battaglie presenti in ogni episodio sollevò le polemiche sulla eventuale dannosità per i piccoli telespettatori. 20 Alcune serie quali Heidi (1974, regia di Isao Takahata, 52 episodi, Zuiyo / BetaFilm / Taurus Film) e L’ape Maia (1975, regia di Seiji Endô e Hiroshi Saitô, 52 episodi, Zuiyo / Bastei Verlag), o anche Rittai anime: ie naki ko (1978, regia di Osamu Dezaki, 51 episodi, Tokyo Movie Shinsha, in Italia Remì, le sue avventure) e altre sono state acquisite da Mediaset. Rimane della RAI Anna dai capelli rossi (1979, di Isao Takahata e Yoshifumi Kondô, 50 episodi, Nippon Animation).
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le. Più in profondità, Goldrake dimostrò ai piccoli telespettatori dei tardi anni Settanta che si poteva pensare a una TV diversa e che era possibile godere di prodotti provenienti da lontano non solo incamerando valori guida positivi perché pedagogicamente calibrati da parte degli autori nipponici, ma anche mantenere la propria identità culturale nazionale, grazie al fatto che tale fusione sul piano dei codici espressivi si rivelava essere piuttosto una ben più moderata giustapposizione su quello dei contenuti. V. Pokémon
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Pokémon (Figura 2) è senza dubbio l’ensemble merceologico e ludiconarrativo che ha riscosso il maggiore successo mai registrato nell’ambito dell’intrattenimento specificamente dedicato ai bambini. Progettato sulla base di un videogame che fonde quattro strutture ludiche – la battaglia, la ricerca di oggetti e competenze, il collezionismo, lo scambio con altri giocatori – non è solo un videogioco: nell’arco dei mesi, dopo il suo lancio in Giappone nel 1996, è stato esportato con successo in buona parte del mondo – sicuramente, in tutto il mondo ricco – ed è divenuto giocattoli, prodotti dolciari, serie animate, film, fumetti, musical, fenomeno di costume, una mania collettiva per milioni e milioni di bambini. Per le sue caratteristiche di successo realmente planetario, per la rapidità nel raggiungerlo e, in certa misura, anche per la velocità nello sgonfiamento dell’entusiasmo da parte del suo pubblico, Pokémon è da vedersi senza dubbio come una grande novità mediatica e merceologica, che con le sue caratteristiche di presentazione alle platee internazionali si può considerare come un punto di svolta nelle strategie commerciali relative all’immaginario multimediale a destinazione giovanile. Il cosmo pokémoniano è stato indagato in molti convegni e saggi, in varie parti del mondo, fin dall’inizio degli anni Duemila. Uno dei migliori contributi in lingua inglese è Pikachu’s Global Adventure [Tobin et al. 2004a]. Nel 2002 era già uscito, in Italia, un libro collettaneo, Anatomia di Pokémon [Pellitteri et al. 2002a], con obiettivi in parte analoghi a quelli del volume assemblato da Tobin. Essi ospitavano saggi di docenti di pedagogia e letteratura per l’infanzia, di scrittori per ragazzi e maestri di scuola, di nipponisti ed esperti di fumetto e cinema d’animazione, di ludologi e sociologi, con la partecipazione di autori anche francesi, israeliani, spagnoli, statunitensi e giapponesi. La produzione di questi due libri fra il 2002 e il 2004 – insieme ad altri qui non presi in considerazione solo per comodità – testimonia la ricchezza delle ricerche sulle culture e sui media nei vari paesi in riferimento ai fenomeni di massa per i ragazzi, che proprio con Pokémon paiono entrati in una nuova fase evolutiva.
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POKÉMON
Figura 2 Pikachû, il mostriciattolo Pokémon più famoso nel mondo perché scelto dalla Nintendo come fulcro visuale dell’espansione planetaria di questo cosmo ludico e narrativo, qui in una foto in cui una ragazza giapponese ne stringe a sé un peluche. Il potere specifico di Pikachû in quanto Pokémon è quello di lanciare scariche elettriche contro gli avversari: una caratteristica che giustifica la denominazione metaforica della fase della Saetta anche sulla base del fenomeno pokémoniano. Foto (part.) di Masaaki Kato / Yamato Video. Pikachû, Pokémon © Nintendo / Shôgakukan.
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Dopo avere assistito agli sviluppi nella riflessione sul fenomeno – fra i quali cfr. Lipperini 2000, il testo di Tobin, e Allison 2006: 192-270 – ho pensato, anche sulla base di Anatomia di Pokémon e di un altro mio precedente lavoro [Pellitteri 2002b], che quella di contrapporre Goldrake a Pikachû fosse una chiave di lettura sensata. I due personaggi possono inquadrare metaforicamente due interessanti strategie attraverso cui filtrare la visione degli immaginari nipponici per ragazzi giunti in Occidente dagli anni Settanta ai Duemila. Se ne parla più sotto in questa Introduzione, nell’ultimo Paragrafo. Pokémon è la più evidente manifestazione di un modello culturale qui definito mutazione. Nei suoi protagonisti si ravvisano i concetti di crescita e maturazione e le problematiche a essi legate. Ma la mutazione è anche qualcosa di esterno a Pokémon, che interviene sull’insieme merceologico: attraverso questa polimerce si registra un mutamento profondo delle strategie di promozione e distribuzione commerciale transnazionale delle merci connesse al ludico e al voluttuario. La macrostrategia legata a Pokémon si contrappone a quella del Drago, simbolizzata da Grendizer, e non a caso è stata denominata della Saetta, prendendo a prestito il fulmine scagliato da Pikachû, il Pokémon utilizzato come icona del cosmo polimediale della Nintendo e delle tante aziende sue sublicenziatarie.
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INTRODUZIONE
Nell’avvicendamento delle fasi del Drago e della Saetta i soggetti preposti all’«ideazione» dell’immaginario nipponico – case di produzione d’animazione e case editrici di fumetti – si sono organizzati con sempre più sistematicità, passando da una fase interlocutoria sui mercati esteri a crescenti coordinamento e convinzione circa la forza contrattuale della pop culture giapponese nei confronti dei pubblici e degli apparati di distribuzione americani ed europei. I processi culturali e commerciali che si sono snodati durante tali periodi, dunque, ancora fino a tempi recenti solo in parte sono dipesi da una responsabilità dei soggetti e degli oggetti coinvoltivi (autori, aziende, fabbriche, prodotti). Ha scritto Joseph Tobin:
22.
Nintendo planned the development and launch of Pokémon very carefully, and they made many wise, strategic decisions about how to capture the children’s market. But this is not to say that Nintendo anticipated Pokémon’s incredible success, that they followed a scripted plan, or that they did not make marketing mistakes along the way. When they started out, Tajiri and his employers at Nintendo seem to have had no plan or aspiration for Pokémon beyond developing another successful Game Boy cartridge. The comic book, the television show, and the trading cards were not part of Pokémon’s original marketing strategy. It is only in such thirdwave markets in Italy and Israel that the rollouts of the various products were fully coordinated and integrated. […] the greatest strength of Pokémon is that it is a multidimensional, interrelated set of products and activities, but the multidimensionality was emergent, rather than planned. [Tobin 2004b: 10]
Se ciò è vero per il fenomeno polimediale Pokémon, che moltissimi osservatori occidentali hanno a torto ritenuto un’orchestrazione perfettamente predeterminata, è a maggior ragione vero anche per i prodotti e le narrazioni a esso precedenti, appartenenti alla fase del Drago. È ad ogni modo al Capitolo VII della Parte I e ai Capitoli IV e V della Parte II che questi punti sono affrontati con maggiore dovizia e nelle loro varie implicazioni. VI. Un’ottica sincretica per lo studio dei fenomeni mediatici
Fausto Colombo, nel suo libro La cultura sottile, nel tracciare l’evolversi dell’industria culturale italiana dall’Ottocento in poi annota due fasi cruciali nella storia sociale e nei paradigmi della ricerca sui media. Da un’iniziale attenzione alla nascita della società dello spettacolo dal punto di vista storico-sociologico, nei suoi elementi tecnologici e nelle sue
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UN’OTTICA
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SINCRETICA PER LO STUDIO DEI FENOMENI MEDIATICI
forme culturali – presente nei principali contributi prodotti fino alla metà del XX secolo21 – si è cominciato a sviluppare un nuovo modello di studio, secondo diverse direttrici. La prima è quella costituita dalle ricerche sulle culture e sul loro rapporto biunivoco con i media. In questa direttrice si muovono tre prospettive di indagine assai diversificate: su un versante l’antropologia culturale, che studia per esempio le forme del visibile dal Medioevo ai giorni nostri; su un altro versante gli studi sociologici delle culture «locali», con la loro attenzione alle forme specifiche di ricezione entro le quali i media si trovano concretamente a proporre i loro contenuti; infine le indagini sulle strutture premediatiche come luogo di spiegazione e di articolazione preventiva dei bisogni cui i media puntano a rispondere. [Colombo 1998: 11-12]
La seconda direttrice è quella percorsa dalle storie delle comunicazioni di massa: cronologie che in realtà spesso, più che concentrarsi su formati, programmi, protagonisti, come si diceva si limitano ad affrontare il pur importante tema dell’evolversi delle istituzioni dei media. La terza direttrice, infine, è quella dello studio della tecnologia e delle sue innovazioni, in rapporto (anche se non sempre) ai contenuti supportati. Colombo ribadisce la distinzione dei tre filoni di studio, chiarendo però che il nuovo paradigma di ricerca si sta consolidando proprio attraverso la loro integrazione, al fine di operare analisi più complete. È secondo tale ottica sincretica che qui ho cercato di analizzare i modelli culturali e le strategie commerciali da me individuati, e gli schemi di presentazione dei fenomeni di massa dedicati alla gioventù nelle loro dinamiche transnazionali; anche se, come certo si rileverà, la natura stessa dei temi qui indagati mi ha condotto con più frequenza nell’alveo della prima direttrice poc’anzi individuata. Tale direttrice infatti si interessa di indagare i personaggi dell’immaginario, i prodotti, le forme e gli stili espressivi che intervengono nelle dinamiche dei media [ivi: 12]. Colombo accenna anche alle forme e ai formati di ricezione, temi che Il Drago e la Saetta tocca nella Parte II; e alle cosiddette strutture premediatiche, alle quali in questa sede è dedicata una qual certa attenzione in accordo, da un lato, col fatto che la società giapponese e i valori in essa condivisi determinano le forme di presentazione e i contenuti dei prodotti poi proposti a pubblici anche occidentali, e, dall’altro, con le modalità con 21
Per quanto riguarda la riflessione sociologica basata sull’analisi storica i riferimenti sono a Weber 1922, cruciale anche per il discorso sul metodo in sociologia, a Id. 1904-1905 e a Foucault 1969. Per ciò che concerne l’evoluzione degli apparati tecnici del sistema dei media, ad esempio a Flichy 1994 e 1995. Per quanto attiene infine all’analisi storica delle forme culturali del sistema nei media nel suo periodo di formazione, a Benjamin 1927-1940.
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INTRODUZIONE
cui altre strutture, pre- o extramediatiche reagiscono, al di fuori del Giappone – nel caso specifico, in Italia – a tali forme narrative, a tali valori, a tali contenuti esotici e ritenuti talora dissonanti. VII. Tre modelli e due strategie
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Michel Foucault, in L’archeologia del sapere, spiega cosa intende quando indica «il punto d’inflessione di una curva, l’inversione di un movimento regolatore» [Foucault 1969; trad. it. 2005: 13]. Il filosofo illustra il concetto di «luogo di rottura» che determina un cambiamento storico in una «regolarità discorsiva». Nella sua trattazione sulle strutture che sostanziano la formazione e la sistematizzazione dei saperi dominanti, il filosofo francese afferma che «le scansioni più radicali sono […] le fratture realizzate da un lavoro di trasformazione teorica quando esso» [ivi: 8], continua Foucault citando Althusser, «“fonda una scienza staccandola dall’ideologia del suo passato e rivelando questo passato come ideologico”» [ibid.].22 Se è lecito trasportare il discorso nel nostro ambito, gli anime e l’immaginario nipponico in Occidente possono allora essere visti come costituenti una frattura, quale espressione di una trasformazione che vale «come fondazione e rinnovamento delle fondazioni» [ibid.]. I modelli culturali giapponesi veicolati dai manga, dagli anime e dalla cultura pop del Sol Levante insomma sono visibili come uno snodo fra il passato e il futuro delle forme culturali giovanili delle società tecnologicamente progredite; il filtro attraverso il quale si può – o si dovrebbe – partire per tracciare non più un’archeologia ma, seguendo ancora Foucault, una genealogia [Foucault 1971: 136-56] dei pensieri, valori, ideologie dell’immaginario postmoderno dei giovani occidentali appassionati di anime, manga, videogame e mode giapponesi nella loro circolazione in Occidente. Tale genealogia dovrebbe cercare di analizzare le fratture di cui parla Foucault e nel far questo sarebbe opportuno, o forse necessario, procedere a un nuovo modo di pensare in riferimento a fenomeni complessi come la globalizzazione culturale, in particolare nei riguardi delle dinamiche di relazione fra gli immaginari orientali e i pubblici occidentali. Occorrerebbe in definitiva staccarsi dalla visione ideologicamente filtrata dei non pochi osservatori che negli scorsi decenni hanno esaminato sommariamente le forme culturali giapponesi dall’alto di un sentimento eurocentrico, per osservare con maggiore serenità il punto di rottura prodotto da tali forme culturali a destinazione giovanile su quelle locali 22
Il riferimento di Foucault è ad Althusser 1965: 168.
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(nel nostro caso, europee) e i loro effetti sul costume, sull’estetica, sulle idee, sui gusti e le abitudini di consumo, sulle modalità con le quali sempre di più le consuetudini, le mode e i modi di fare e di essere si stanno ibridando fra Oriente e Occidente. Su questo scenario di frammentazione e di ricerca si fanno spazio i modelli culturali della macchina, dell’infante e della mutazione, che individuo come tre delle principali categorie della postmodernità con cui il Giappone si è proposto all’Occidente o, in molti casi, in base alle quali il primo è stato percepito dal secondo. La macchina a cui il Giappone viene associato è sia quella massiva delle catene di montaggio ancora legate al fordismo e al taylorismo – seppure con sostanziali differenze organizzative e concettuali legate ad alcune specificità giapponesi a cui si accenna nel corso del libro, rifacentisi al toyotismo – sia quella delle fantasie di potenza dell’immaginario fumettistico e animato, di cui robot come Mazinga Z e Goldrake sono stati, per una generazione di giovani utenti televisivi tanto in Asia quanto in Occidente, esponenti per antonomasia. Goldrake e altri miti meccanici coevi o successivi (si pensi a Kidô senshi Gundam e a Neon Genesis Evangelion, di cui si dirà)23 simboleggiano una macchina ipertrofica che, partita come metallica, negli anni successivi ha superato la sua classicità meccanica ed è divenuta un miscuglio di carne e acciaio, liquidi organici e plastica, mente e software, che dopo essere emersa dal sottosuolo terrestre o dallo spazio profondo oggi – o in un futuro non del tutto improbabile – vive dentro le metropoli ultratecnologiche di cui Tokyo è considerata il non plus ultra. La macchina qui principalmente trattata sarà quella degli anime e dell’immaginario emerso fra gli anni Settanta e i Novanta e appunto afferente alla robotica in apparenza solo giocosa e infantile di Goldrake & Co.; ma essa, sconfinando nel cyborg, nell’intelligenza artificiale e nell’industria del divertimento, renderà opportuno l’attraversamento di un territorio nuovo e perturbante, quello dei robot d’uso sessuale, un mercato in forte espansione, specie in Giappone. La macchina cessa cioè di dotarsi delle sue componenti fantascientifiche e assume caratteri più inquietanti, in cui il naturale si fonde con l’artificiale, dove la nostra corporeità biologica si lega a quella di fantocci prodotti come simulatori posticci di un’umanità emotivamente desiderata eppure fisicamente inaccessibile. L’infante, il secondo modello che attraversa con discrezione tutto il libro, è individuato a partire dall’etimo del termine infans, infantis, ovvero ‘incapace di proferire parola’. L’infante che emerge dalla società e dalla 23
Kidô senshi Gundam (‘Gundam, il guerriero dall’armatura mobile’), di Yoshiyuki Tomino e Yoshikazu Yasuhiko, Nippon Sunrise, 43 episodi, 1979, in Italia nel 1980; Neon Genesis Evangelion (Shinseiki Evangelion, ‘Nuovo secolo Evangelion’), di Hideaki Anno, Gainax, 26 episodi, 1995, in Italia nel 2000. Sono giunte in Italia anche le rispettive versioni a fumetti.
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cultura giapponesi contemporanee è, nelle sue manifestazioni più evidenti, il pupazzo kawaii, ‘carino’, dalle fattezze di cucciolo; l’oggetto tecnologico che richiede attenzione come il Tamagotchi, una creaturina elettronica da coccolare senza sosta;24 la gattina dei prodotti di cancelleria Hello Kitty, così dolce e indifesa, nel cui disegno è assente la bocca, fattore studiato ad arte che la rende infantile tanto a livello esteriore quanto in senso etimologico; e infine il mostriciattolo pokémoniano, che non parla se non, con l’insistenza iterata dei giocattoli elettrici e delle litanie per bambini, ripetendo palilalicamente le sillabe del suo nome – basti pensare al «pika-pika-pika-chuuu» di Pikachû. Tuttavia l’infante, a ben vedere, in un’accezione meno superficiale è individuato in altri soggetti. Vale a dire in buona parte della stessa gioventù giapponese, acquirente di quel caleidoscopico mercato dei fancy goods, beni di consumo quali giocattoli e oggetti delle più varie risme tutti accomunati dal loro essere kawaii e dai colori confetto. Questa gioventù, formata tanto da ragazzi considerati nella norma quanto da gruppi e sottoculture additati dal mondo adulto come devianti (gli otaku, gli hikikomori, le kogaru, le ganguro, le yamanba, le burikko e altri),25 è visibile come infantile in più modi. Innanzitutto per atteggiamenti e modi di porsi che, dalla visuale adulta e ufficiale dei trattati di sociologia e psicologia giapponesi, risultano immaturi; in secondo luogo, per una diffusa attitudine di questi ragazzi a rifiutare – almeno in apparenza – le responsabilità e le convenzioni del mondo adulto; infine – ciò che li rende infanti nel modo più problematico – perché la parola, cioè la facoltà di esprimersi liberamente per divenire un soggetto degno di attenzione politica nel suo senso profondo, inerente alla polis, è stata loro tolta dalle maglie della società civile e dai poteri forti. Il conflitto generazionale in atto negli ultimi vent’anni, sia in Giappone sia in molte società occidentali – fra cui l’Italia – ha assunto una forma molto diversa da quella che aveva caratterizzato la dialettica fra giovani e adulti negli anni Sessanta e Settanta. In tal senso il Giappone, visto da molta stampa generalista come luogo di contraddizioni e devianze nel contrasto tra genitori e figli, è in realtà superficie speculare di disagi che si registrano anche in Europa e in America con tratti non sempre dissimili. Il rifiuto dei modelli di vita adulti da parte delle nuove generazioni muove da un disagio che andrebbe analizzato con meno severità e più empatia per il problema rispetto a come fatto finora, tanto in Giappone da rinomati psicologi [Okonogi 1981] quanto in Italia da giornalisti naviSviluppato da Aki Maita e Akihiro Yokoi e immesso sul mercato giapponese nel 1996 dalla Bandai, il Tamagotchi è una sorta di ovetto elettronico (tamago significa ‘uovo’), che racchiude un software che simula un animaletto da accudire. 25 Definizioni di tali gruppi verranno date al Capitolo IV della Parte I. 24
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gati ma forse poco vicini ai temi che trattano [Pisu 2001a], tenendo presente quella crisi di continuità fra le generazioni che oltre trent’anni fa l’antropologo Georges Balandier [1974] aveva già rilevato. Infine la mutazione, un modello che, per sua stessa natura, assume status di transmodello nel suo intersecarsi sugli altri due, facendoli levitare. Macchina e infante sono stati sottoposti, rispetto alle loro forme originarie di presentazione, a cambiamenti sostanziosi nel corso dei decenni. La macchina, come si anticipava sopra, da meccanica e separata dal biologico si è avvicinata e fusa al carnoso prima nelle letterature e poi, sempre di più, anche nella realtà, in un processo ancora in fieri. L’infante, per parte sua, ha maturato un’evoluzione attraverso lo sviluppo degli immaginari, dell’industria del voluttuario e dei rapporti di potere fra giovani e adulti. E soprattutto, attraverso la dialettica da sempre esistente nella relazione fra utenti/consumatori e prodotti/messaggi; fra le strutture mediatiche, i prodotti e i percorsi di senso proposti dalle aziende, e le pratiche spontanee di fruizione da parte dei consumatori [Buckingham – Sefton-Green 2004]. I bambini e gli adolescenti degli anime lacrimevoli degli anni Settanta e Ottanta, spesso tratti dalla letteratura occidentale, sovente privi di una guida adulta e comunque quasi sempre liberi di muoversi in un loro spazio autonomo, per lo meno temporaneamente, sono in seguito divenuti gli infanti letteralmente senza verbo della simbologia pokémoniana: cuccioli mutanti che, in via indiretta consci del fatto che nella realtà ai loro spettatori la crescita risulta un processo irto di ostacoli perché oppresso da una ferrea normatività e dalla difficoltà di esprimere il proprio sé più profondo, spesso rifiutano di crescere e preferiscono rimanere in un limbo che gli studiosi giapponesi, sulla scorta di Erik H. Erikson [1950], hanno definito moratorium ningen, ‘generazione della moratoria’. Parallelamente a questi tre modelli e alle loro evoluzioni dettate dai progressi nell’industria dell’intrattenimento e nelle forme estetiche, ho individuato le due citate strategie in base alle quali è possibile inquadrare l’arrivo e il successo dell’immaginario giapponese per ragazzi in Italia, in Europa e in Occidente in generale. In una fase iniziale, dagli anni Sessanta alla prima metà dei Novanta, la modalità di viaggio e proposizione nel mondo occidentale degli eroi, narrazioni e prodotti nipponici sono inseribili in una strategia che definisco del Drago. In tale strategia, che ho voluto simbolizzare visivamente con l’icona del robot Grendizer, l’Oriente si presenta all’Ovest cercando – nei limiti del possibile – di adattarsi alle regole occidentali dal punto di vista commerciale, valoriale, estetico. Questa strategia è in massima parte il risultato di una tradizione inaugurata nel periodo Meiji (1868-1912), allorché il Giappone, tenuto ad aprirsi all’Occidente dopo oltre due secoli di relativo isolamento politico-culturale, si vide costretto a rimettersi al passo con le potenze straniere, obbligandosi a imitarne la tecnologia, i
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metodi di produzione, l’organizzazione politica, civica, urbanistica. Una modalità emulativa poi riprodottasi dal 1945 con maggiore capillarità [Reischauer 1964, Bouissou 1992]. Nel campo dell’industria culturale, questa attitudine non implicò l’imitazione pedissequa di prodotti, estetiche, linguaggi e merci, quanto piuttosto l’assunzione di routine produttive: basti pensare – per limitarsi a uno dei settori che più ci riguardano in questa sede – al campo del cinema d’animazione, nel quale le tecniche del disegno animato, raffinate in loco grazie all’osservazione attenta dei film statunitensi, negli anni ha consentito di pervenire a risultati e innovazioni notevoli dal punto di vista sia linguistico sia tecnico. In seguito questa strategia ha assunto l’ampiezza di un fenomeno di vera e propria globalizzazione culturale, in un periodo storico in cui le narrative nipponiche hanno fatto breccia nel gusto delle generazioni di spettatori televisivi prima statunitensi – dagli anni Sessanta – e poi europei – dagli anni Settanta. Questi sono stati gli anni per i quali non è più del tutto corretto parlare di strategia preordinata dall’alto da parte di un solo soggetto, come era stata negli anni Meiji e poi a seguire.26 Ciò, poiché i produttori/editori giapponesi di animazione e fumetti, dopo un’iniziale fase di interlocuzione sui mercati occidentali (1959-1975),27 hanno accolto di buon grado la richiesta e l’interesse di vari produttori ed editori occidentali i quali, invogliati al confronto e alla trattativa economica grazie a costi di licensing competitivi e al fascino innovativo dei prodotti giapponesi, si sono rivelati ricettivi all’acquisto dei diritti di diffusione di miriadi di serie TV prima (dal 1963), fumetti e videogiochi dopo (dagli anni Settanta). È in anni prossimi all’oggi che il Drago è stato sostituito da una nuova strategia, quella che ho definito della Saetta. Adesso le mosse del Giappone – e con esso degli altri paesi più ricchi e avanzati dell’Estremo Oriente, la Cina e la Corea del Sud28 – nel campo dell’industria culturale e dell’esportazione transnazionale della propria cultura di massa non Prima dell’epoca Meiji (1868-1912), periodo di grande fermento culturale con la forzata apertura alle potenze occidentali, si era snodata l’era Tokugawa o Edo (1603-1868), durante la quale l’unica fonte di relativa comunicazione del Giappone con l’Europa era stata un avamposto commerciale olandese confinato sull’isolotto di Deshima. All’era Meiji fanno seguito l’epoca Taishô (1912-1926) e l’epoca Shôwa (1926-1989). Oggi il Giappone è in epoca Heisei (1989-presente). 27 Faccio partire convenzionalmente questa fase nel 1959 perché quell’anno il primo film d’animazione a colori giapponese, Hakujaden (di Taiji Yabushita, 78’, 1958), venne presentato in un festival del cinema europeo, a Venezia, con plauso della critica; e la faccio terminare con il 1975 perché a partire da quell’anno i primi disegni animati giapponesi arrivarono prima nelle televisioni spagnole, poi italiane e subito dopo di molti altri paesi europei, a partire dalla Francia. Cfr. infra, Parte II, Paragrafo V.1. 28 Nazioni, queste, delle quali – dati la struttura e gli scopi stessi di questo libro – non è mia intenzione occuparmi. 26
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tende più a emulare l’Occidente per esserne riconosciuto. Invece rivendica in buona misura – con i limiti che saranno tuttavia evidenziati in seguito – un’identità e un’autonomia, forte della posizione di solidità commerciale e del seguito che ha riscosso presso le nuove generazioni. In questo scenario si inscrive il fenomeno Pokémon, basatosi su una congerie di prodotti e modalità di proposizione degli stessi; su una vastissima collaborazione fra capitali, fabbriche, apparati distributivi, aziende licenziatarie, operazioni pubblicitarie; e su un’accostumazione estetica e culturale ereditata da due generazioni di consumatori multimediali. Un consenso che nel frattempo era andato sedimentandosi in Occidente proprio grazie ai successi maturati presso le platee giovanili durante i decenni in cui era stata in azione la strategia del Drago. I tre modelli culturali individuati in questo volume non sono certo i soli che è possibile scorgere – da un’ottica occidentale – nei prodotti e nelle manifestazioni provenienti dal Giappone. Tuttavia l’importanza della macchina, dell’infante e della mutazione all’interno di un immaginario giovanile ormai transnazionale è a mio avviso preponderante e informa la maggior parte delle merci, dei personaggi e delle tendenze che arrivano dal Sol Levante e amati da molti consumatori/lettori/spettatori/videogiocatori italiani, europei e americani. Allo stesso modo, le strategie del Drago e della Saetta rappresentano le due fasi che finora hanno avuto luogo nell’ingresso delle culture di massa nipponiche in Occidente; ma ciò non esclude che altre strategie, altre fasi subentrino nei prossimi anni. Per certi aspetti, infatti, credo che una nuova fase stia avendo inizio, alimentata da una strategia di ufficiale riconoscimento da parte del governo giapponese della propria industria culturale, e di tattiche promozionali tardive ma anche piuttosto aggressive, che tendono a sfruttare il potere culturale dei manga, degli anime e dei videogiochi made in Japan a scopo politico-economico. Questa novità nella promulgazione della cultura e dell’immaginario giapponesi rimette in discussione il discorso sull’identità nipponica per come essa aveva preso forma e per come fino a non molto tempo fa era deducibile in prodotti come i manga e gli anime. Rispetto alle immagini identitarie più o meno visibili in filigrana nelle avventure di Tetsuwan Atom o di Gundam (Parte I, Capitolo III/2), o dei bambolotti Hello Kitty e Licca-chan (Parte I, Capitolo I) o ancora di Grendizer (Parte I, Capitolo VI) e dei Pokémon (Parte I, Capitolo VII), in anni recenti il Giappone ha preso a comunicare sé stesso all’estero – e intendo in Occidente, perché qui il contesto asiatico non ci interessa – in modi più definiti e autoassertivi, a partire da una nuova strategia che, come ho scritto sopra, sembra stia subentrando alle due precedenti (Parte II, Capitolo V). Di questa ipotetica terza fase si parlerà, tuttavia, nelle Conclusioni al volume.
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TEMI
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DELLA POP CULTURE TRANSNAZIONALE GIAPPONESE NEL FUMETTO, NELL’ANIMAZIONE E NEI VIDEOGIOCHI
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CAPITOLO I
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CONCETTI UTILI PER SCRUTARE IL GIAPPONE E LA SUA POP CULTURE NEL XXI SECOLO
Vorrei considerare questo Capitolo una sorta di seconda Introduzione: vi passo in rassegna diversi concetti chiave su cui il libro è in parte imperniato e dei quali fa spesso menzione. Va da sé che su ciascun tema qui presentato la letteratura è oltremodo vasta, e quindi in questa sede si propongono delle letture inevitabilmente parziali e indicative dei concetti in esame, in cui sono strumentalmente privilegiati gli aspetti che ho ritenuti più utili come basamento teorico per le successive discussioni. I.1 Globalizzazione e transnazionalità della cultura I.1.1 Globalizzazione culturale e postmodernità
Il termine globalizzazione è oggi uno slogan per indicare molte cose, e assai spesso senza la dovuta precisione. La parola avvolge una quantità talmente ricca di implicazioni da rendere molto difficile la disciplinazione delle sue accezioni e dei suoi riferimenti. È insomma quella che gli anglofoni chiamano buzzword, una sorta di ricorrente parola-ombrello che si adopera quando non si sa come inquadrare un problema di carattere sovranazionale. Le esagerazioni in tal senso non si contano, tant’è che è stato coniato il termine globaloney, traducibile come ‘globaloneria’; se ne rende conto in un libro intrigante e illuminante [Veseth 2005]. Uno dei principali problemi nell’affrontare la globalizzazione come questione teorica è che per molti autori, specialmente del settore econo-
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mico, la globalizzazione quasi non esiste quale fenomeno di circolazione mondiale di merci, idee, persone, capitali; e c’è per converso chi, pur ammettendo l’esistenza della globalizzazione e dandola come fenomeno assodato, giudica invece che i suoi tempi siano finiti, e ha coniato il termine postglobal [Deaglio 2004]. Anche se in realtà chi per primo propose l’introduzione di una sociologia «globale» fu Wilbert E. Moore negli anni Sessanta [Moore 1966: 475-82], la parola globalizzazione è entrata in uso negli anni Novanta a partire dagli studi di autori come Anthony Giddens [1990], Malcolm Waters [1995], Martin Albrow [1996], John Tomlinson [1997] e dopo David Held [2000], Manfred B. Steger [2003] e molti altri. La globalizzazione si estende su un campo assai vasto di problematiche, e per questo viene pensata come consistente in più dimensioni: quelle economica, politica e culturale sono le principali oggi considerate. Guillén è stato uno degli studiosi che hanno impostato il problema della globalizzazione in quanto settore di studi con maggiore lucidità. In un suo noto articolo l’autore si pone cinque domande cruciali sulla globalizzazione, e cioè se esista davvero un fenomeno di tale portata, poiché gli economisti preferiscono piuttosto parlare di internazionalizzazione dell’economia; se essa produca convergenza e porti a uno stato di effettiva globalità, cioè se le istituzioni e le culture diventino più simili o almeno se si approssimino (con un corollario molto importante, quello delle disuguaglianze sociali ed economiche fra le classi e fra le zone del mondo); cosa stia succedendo agli stati-nazione, il tema in verità più discusso poiché precede il discorso sulla globalizzazione e prende le mosse dal dibattito sulla modernità (cfr. infra); e, infine, se si stia formando una vera e propria cultura globale [Guillén 2001: 235-60]. Secondo Held, McGrew, Goldblatt e Perraton coloro che si occupano di globalizzazione, tanto nei termini generali quanto in modi più specifici, possono essere suddivisi in tre gruppi. Gli iperglobalisti o globalisti, per i quali la globalizzazione sta portando a una nuova epoca. Gli scettici o tradizionalisti, per i quali la globalizzazione è qualcosa di già visto; e in effetti si è assistito, nel corso del XIX secolo, a un’altra precedente globalizzazione, quella portata dalla grande espansione di persone, capitali e modelli politici dall’Europa ai paesi colonizzati, nell’ambito di una modernizzazione occidentalizzante. E i trasformazionalisti, all’interno dei quali gli stessi Held e McGrew si autoposizionano, e inserendovi Giddens e altri, per i quali tali processi sono imprevedibili e contraddittori ma non ineluttabili: un mix di eventi prodotti dalle istituzioni – come la deregulation – o dalle nuove tecnologie [Held et al. 1999]. Un discorso che ha finora proceduto in parallelo con gli studi sulla globalizzazione è quello sul globalismo, un’idea ottimistica secondo la quale l’espansione dei mercati e delle frontiere porterà a un mondo eco-
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nomicamente unificato [Beck 1997, Steger 2002]. Un’idea molto ben pubblicizzata dai media, finora, per rassicurare le persone sugli eventi futuri. Ma si tratta più probabilmente, come scrive proprio Ulrich Beck, di una logica commerciale che sostituisce o rimuove l’azione politica; un’ideologia del dominio del mercato globale e del neoliberismo. E del resto già Antonio Gramsci a suo tempo parlava di un fenomeno simile, sebbene inserito in un contesto non globalista, con la categoria da lui individuata di egemonia [1929-1935]. Il dibattito sulla globalizzazione, e sugli altri temi inscritti nel Capitolo, come scrivevo in apertura è assai vasto ed è stato svolto in larga parte da economisti e politologi prima ancora che da sociologi. Per un verso, la natura proteiforme del discorso impedisce in questa sede di affrontarlo in modo esteso; comunque una trattazione più dettagliata sarebbe superflua per i discorsi proposti a seguire. Per l’altro, il taglio economico-politologico nell’impostazione generale degli studi sulla globalizzazione ci guida a spostare l’attenzione sulla dimensione del fenomeno connessa in modo più specifico all’espansione transnazionale della cultura pop orientale – in specie, giapponese – verso Occidente, ciò che qui ci interessa di più. Si rende però utile indicare alcuni punti fondanti della dimensione economica della globalizzazione, perché lo spostamento di cultura/e da una parte all’altra del mondo inevitabilmente poggia, entro certi limiti – quelli che stanno all’interno della dimensione istituzionale e di quella di competenza delle aziende multinazionali – sui piani politico ed economico. Basti allora dire che per una numerosa cordata di teorici la globalizzazione è strettamente legata a due macrofenomeni storici etichettati come postfordismo e postmodernità. Fra i più lucidi v’è Krishan Kumar, che in un noto contributo trova cinque «grandi trasformazioni»:1 la postindustrializzazione, il postfordismo, l’informatizzazione, il postmodernismo (anche se, come vedremo fra breve, una definizione più corretta è postmodernità), la globalizzazione. E nota inoltre come alla fine del XX secolo si siano moltiplicati i post-ismi e le cosiddette post theories [Kumar 1978], poiché si sono avvertiti e individuati una serie di cambiamenti epocali ma non si sa ancora bene come teorizzarli, analizzarli e posizionarli a livello storico.2 In modo molto sommario si potrebbero suddividere gli studiosi di queste trasformazioni in pessimisti – la maggior parte – e ottimisti, dicotomizzando la tipologia tripartita di Held e McGrew. Kumar, similmente ai già menzionati Held, McGrew, Goldblatt e Perraton autori di Global Transformations [1999], con questa definizione cita consapevolmente il classico lavoro di Karl Polanyi, The Great Transformation [1944]. 2 Francis Fukuyama non a caso, anche se in modo pessimistico, avrebbe in seguito parlato di fine della Storia [1992]. 1
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Fra i primi v’è stato, fino alla metà degli anni Settanta, Daniel Bell, il quale sosteneva che con questa era fossimo entrati in una nuova fase evolutiva basata sulla produzione di servizi, sull’emergere di una potente forza lavoro di colletti bianchi, su una manodopera sempre più specializzata anche grazie agli istituti e scuole di specializzazione e alle università, su regimi democratici, su un ridimensionamento del conflitto sociale grazie all’affermazione di nuove classi, sul nuovo e pervasivo ruolo dell’informatica e della telematica [Bell 1973]. Tuttavia si ricredette alla luce dei complessi eventi degli anni Settanta – recessione economica in primis – e divenne meno entusiasta [Bell 1976], come autori fra cui Touraine [1977] e dopo Block [1990]. A essi devono essere aggiunti Lyotard [1979], Bauman [1991] e Ritzer [1997], teorici della postmodernità e acuti osservatori delle contraddizioni e dei problemi che suo malgrado essa sta causando agli equilibri economici e politici che erano stati stabiliti nella modernità. Si tratta di analisti che, in modi diversi e in varia misura, direttamente o meno, derivano almeno alcuni dei loro presupposti teorici da un grande classico di Ralf Dahrendorf [1957].3 Fra gli ottimisti cito Boyer e Saillard, che nel loro tentativo di demistificare le conseguenze del fordismo e del postfordismo per come essi sono visti in chiave marxista hanno coniato il termine neofordismo [1995]. È stato tuttavia Manuel Castells uno dei teorici a parlare in modo più equilibrato delle tante implicazioni del postindustrialismo e della globalizzazione, indicando le potenzialità della network society, i vantaggi strutturali dell’economia globale e l’importanza delle politiche di sviluppo da parte degli stati-nazione [1997-1999]. Fordismo e postfordismo poggiano sul concetto di modernità intesa come periodo nella cui tarda fase si è svolto il primo, e al cui limite estremo è subentrato il secondo: David Harvey [1989] ritiene che con la crisi energetica del 1973 si sia passati dalla società industriale a quella postindustriale e dunque si sia per molti aspetti consumato il transito dalla tarda modernità alla prima fase di quella che oggi viene chiamata, in mancanza di termini migliori, postmodernità. Ora, fra le principali strutture che reggono la modernità v’è, annota Giddens [1990], il capitalismo nella sua forma industrialistica. Questo per l’autore può sopravvivere in concomitanza di sistemi istituzionali di sorveglianza, cioè di supervisione sociale e controllo dell’informazione, e di detenzione dei mezzi di esercizio legittimo della forza, cioè quello che il politologo Joseph Nye [1989, 1990, 2004] ha chiamato hard power, la potenza militare. Questo ti3
Dell’edizione italiana del fondamentale studio di Dahrendorf sulla società postindustriale si vedano in particolare, oltre all’Introduzione di Alessandro Pizzorno, i Capitoli VI, VII e VIII della Parte II, dedicati al conflitto fra classi di tipo sociale, industriale e politico nelle società industriali e in quelle postindustriali.
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po di organizzazione istituzionale ha fornito linfa alle dimensioni strutturali che per Giddens sostanziano le società tardomoderne – e postmoderne – ovvero la distanziazione spazio-temporale, la disaggregazione e la riflessività [Giddens 1990].4 La presunta differenza fra moderno e postmoderno poggia sovente su basi così mutevoli da risultare in fondo poco consistente e coerente; per Giddens non viviamo un’età postmoderna ma una fase di radicalizzazione della modernità; o quella che viene altrimenti denominata modernità avanzata. Una delle visioni più divulgate della postmodernità indica che in questa epoca stia avvenendo una complessiva riflessione sulla modernità stessa, nella fase storica in cui l’Occidente sta perdendo – o, per alcuni, avrebbe già perso – il predominio economico e politico sul mondo con l’emersione di nuove forze nazionali. Queste avrebbero quindi portato alla dimensione considerata dominante del postmoderno, appunto la globalizzazione: prodotta a sua volta, per Giddens, dalla debolezza delle istituzioni attuali e dal concomitante aumento della loro diffusione a livello internazionale [ivi: 57-58]. Ciò ha prodotto e sta continuando a produrre, con sempre maggiore insistenza, nuove forme di organizzazione delle istituzioni stesse e modi di vita che stanno effettivamente conducendo a forme di società postmoderne. Venendo ora alla dimensione culturale della globalizzazione: è una di quelle che sono state meno trattate, fino a pochi anni or sono. Non la hanno tenuta in debito conto né i teorici di area economica e politica né quelli di scuola struttural-funzionalista e i post-strutturalisti, ciò che più sorprende proprio perché nell’ottica strutturalista la cultura occupa di certo un ruolo non secondario nello sviluppo e nel mantenimento dei sistemi, in un’ottica parsonsiana [Parsons – Shils 1951]. Giddens per esempio nel libro già citato [1990] propone molti schemi strutturali, individuando diverse tetrapartizioni della globalizzazione sugli assi dell’economia mondiale, del potere militare, del sistema degli stati-nazione e dell’organizzazione del lavoro (trovando più varianti a tale assiologia) ma soltanto al termine dell’analisi di queste dimensioni accenna a quella culturale [ivi; trad. it. 1994: 82], senza addentrarsi nella questione e solo sfiorandola. I movimenti della cultura – idee, prodotti e capitali a questi associati – dipendono ad ogni modo, come rammentato sopra, dalle altre dimen4
In questa sede non è il caso di dilungarsi sulla distinzione fra tardomoderno e postmoderno. Si rimanda ancora a Giddens 1990, dove l’autore riflette sulla liceità della contrapposizione fra moderno e postmoderno e sul significato dei due concetti [ivi; trad. it. 1994: 52-59], indicando anche una differenza semantica fra postmodernità e postmodernismo. Il primo termine indica il periodo postmoderno, mentre l’altro abbraccia tendenze artistiche, letterarie, architettoniche, legate alla riflessione sulla postmodernità, similmente a come tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX era nata la tendenza del modernismo.
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sioni della globalizzazione. Dunque diversi studiosi magari lontani dalla sociologia dei processi culturali hanno inserito questo aspetto del fenomeno nelle loro indagini, prima che ad appropriarsi più compiutamente dello studio di questa dimensione della globalizzazione fossero studiosi e ricercatori on field che partissero più precisamente da impianti teorici sociologici, afferenti ai settori dell’analisi dell’industria culturale, dell’immaginario e dei mass media. I concetti che ricorrono, sia presso i sociologi sia presso gli economisti e i politologi impegnatisi nello studio del tema, riguardano in prima istanza lo sconvolgimento della concezione di spazio e tempo: cioè il disequilibrio fra la dimensione locale e lo spostamento attraverso aree molto vaste, prima irraggiungibili in tempi brevi (oppure proprio inarrivabili). E poi l’esplosione dei flussi di cui s’è detto: capitali, persone, media, immagini, merci, modelli organizzativi [Appadurai 1996, Hannerz 1996]. Una parola chiave è deterritorializzazione [Appadurai 1996, Scholte 2000], accompagnata spesso dal concetto di compressione: di spazio e di tempo, appunto [Harvey 1989, Robertson 1992, Mittelman 2000]. Questi concetti sono attraversati da Featherstone, Lash e Robertson in approcci che coniugano l’attenzione alla circolazione delle culture con analisi dei problemi a questa relativi, sul piano delle istituzioni [Featherstone et al. 1990, Featherstone – Lash et al. 1999] e su quello della ri/costruzione di identità e relazioni sociali provocata proprio dai flussi globali in un’epoca di ridefinizione della tarda modernità, incalzata per l’appunto dalla postmodernità [Featherstone 1995, Featherstone – Lash – Robertson et al. 1995]. Uno dei concetti che fanno da collante rispetto alla questione dei flussi è quello su cui soprattutto Arjun Appadurai insiste, l’interdipendenza [1996]. Il concetto prende le mosse dalla constatazione che siamo di fronte a due modelli di dialettica fra le parti interessate agli – e prodotte dagli – scambi internazionali. Durante la Guerra fredda il modello dominante era quello centro-periferia; con questa fase avanzata della globalizzazione, anche dal punto di vista dei flussi culturali, il modello emergente è dunque quello qui segnalato. Uno dei modelli esplicativi ai quali ci si può ragionevolmente appoggiare per illustrare i meccanismi fondanti della globalizzazione culturale è proprio quello proposto da Appadurai, il quale la definisce come un fenomeno, verificatosi negli ultimi decenni, di rottura generale della stessa sostanza e struttura delle relazioni fra le società. Per lo studioso la globalizzazione culturale riposa essenzialmente su due elementi distintivi interconnessi, i mass media – e oggi specialmente quelli elettronici [ivi: 3-4 e passim] – e gli spostamenti della popolazione, con la conseguenza di un processo di progressiva deterritorializzazione [ivi: 55 sgg.], immaginaria quando non anche reale. Il mondo oggi è attraversato da
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transiti complessi e che tendono a produrre processi di separazione e disgiunzione; flussi nei quali i punti di partenza e d’arrivo non sono ben distinguibili e spesso si scambiano di posto. In una dinamica, cioè, sempre più circolare – orizzontale o trasversale si potrebbe dire – piuttosto che verticale, come invece si erano svolti i processi comunicativi antecedenti allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e all’internazionalizzazione di tali flussi. In questo contesto gli immaginari si fanno sempre più pervasivi, quali fatti collettivi e sociali e, potenziati dai nuovi strumenti mediatici in cui è possibile costruirsi identità plurime e mondi immaginati, emergono anche comunità deterritorializzate, a un tempo immaginarie e reali; nel primo caso, perché si basano su fantasie comuni e sulla virtualità della relazione non faccia a faccia ma mediata dal computer; nel secondo, perché di fatto le persone interagiscono tramite il PC soprattutto sulla base dei loro pensieri, delle loro idee, e in effetti a volte arrivano pure a incontrarsi nello spazio fisico. Il Giappone, in tali dinamiche, occupa un ruolo peculiare. Kiyomitsu Yui [2006] coglie un parallelo fra i processi di frammentazione/compressione di tempo e spazio provocati dalla deterritorializzazione e dai flussi comunicativi transnazionali con la capacità nipponica di svolgere sincretismi fra elementi culturali autoctoni ed esterni, a livello non solo esteriore ma anche strutturale. Questa capacità, che caratterizza il Giappone già dalla prima modernità, per Yui è un tratto che caratterizza il paese anche nella postmodernità, avviata dal Giappone prima che da molti altri paesi e che nel prossimo futuro ne farà uno dei luoghi nodali della globalizzazione culturale. In che modi, lo vedremo nei seguenti Paragrafi. I.1.2 Orientalismi e transnazionalità della cultura giapponese
Il Giappone è un paese in cui la convivenza di due anime è soprattutto un luogo comune buono per le discussioni da salotto. C’è tuttavia, in questo cliché, una qualche verità; ben più complessa delle schematizzazioni di comodo, ma c’è. Anche se da un punto di vista che oggi risulta eurocentrico, Ruth Benedict negli anni Quaranta ne aveva descritti elementi salienti. The Japanese are, to the highest degree, both aggressive and unaggressive, both militaristic and aesthetic, both insolent and polite, rigid and adaptable, submissive and resentful of being pushed around, loyal and treacherous, brave and timid, conservative and hospitable to new ways. [Benedict 1946: 2]
Vi sono d’altro canto una vasta saggistica e una narrativa incentrate sulle impressioni che gli occidentali hanno accumulate nel corso dei secoli sui giapponesi, ripetendosi in vari errori di stereotipizzazione orien-
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talista (cfr. infra), dovuti più a pigrizia intellettuale che non a un’oggettiva osservazione dei costumi locali: il Giappone come pieno di contraddizioni e coacervo di tradizioni autoctone e d’emulazioni di costumi, innovazioni sociali e strutture produttive ripresi dalle potenze occidentali.5 In tempi più recenti un acuto commentatore dei nostri tempi, lo scrittore inglese William Gibson, ha colto la visuale che gli occidentali hanno del Giappone in relazione alla sua unicità, nel singolare connubio di tecnologia esplosa e onnipresente, iperindustrializzazione, democrazia oggi convivente con rigurgiti nazionalisti e apparentemente bellicosi, e un’economia ancora aggressiva nonostante la crisi recessiva: Japan is the global imagination’s default setting for the future. […] they really do have a head start on the rest of us, if only in terms of what we used to call «future shock» […]. The result of this stupendous triple-whammy (catastrophic industrialisation, the war, the American occupation) is the Japan that delights, disturbs and fascinates us today: a mirror world, an alien planet we can actually do business with, a future. […] a sort of fractal coherence of sign and symbol, all the way down into the weave of history. [Gibson 2001]
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L’ottica che si abbraccia in questo volume è piuttosto un’analisi della forza transnazionale del Giappone. Vari osservatori hanno fornito ottimi contributi nel passato [Wilkinson 1981, Wilson – Dirlik et al. 1995, Iwabuchi 2002a]. Gli sguardi sono stati più di tipo economico-politico ma non ne mancano, e di vario tenore, sulla diffusione della cultura pop nipponica nel mondo [Schilling 1998, Shiraishi – Katzenstein et al. 1997, Martinez 1998]. Frederik L. Schodt, in un suo libro del 1994 sulle relazioni fra Stati Uniti e Giappone, fin dall’Introduzione spiega perché nella trattazione non usi quasi mai i due termini East e West; cioè, in italiano, Est e Ovest o, in una migliore e più densa traduzione, Oriente e Occidente. Schodt annota che l’uso dei due termini appartiene ormai più che altro a un’epoca in cui gli americani mentalmente abitavano ancora in Europa; e dall’Europa il Giappone è sempre stato raggiunto viaggiando verso levante. Cioè la dicotomia fra Est/Oriente e Ovest/Occidente è storicamente basata sulla contrapposizione del continente europeo a quello asiatico. In questa coppia oppositiva sotto gli aspetti sociali, culturali, economici, storici, artistici, folklorici, religiosi, non c’era un vero e proprio spazio per altri soggetti geopolitici. L’Africa fino a ieri, e in buona parte anche oggi, è stata ed è 5
Tra le fonti saggistiche classiche cfr. Martino 1906, Cooper 1965, Steadman 1969, Said 1978. Per quanto riguarda le fonti letterarie se ne riferisce in Madrignani 2000 e in Schiaffino et al. 1980. Un saggio recente è Kerr 2001.
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solo un territorio di scoperta e razzia da parte degli euroamericani, e mai di reale dialettica con l’Occidente; l’Oceania (leggi, l’Australia e la Nuova Zelanda) è un territorio per l’Europa ancor oggi in fondo nuovo e troppo lontano per la messa in campo di reali confronti; e lo stesso continente americano, dal punto di vista dell’Europa, nel Novecento non è stato che una vasta e sempre più autonoma appendice di quest’ultima: una visione eurocentrica, che in vari ambienti ancora resiste. Schodt fa però ironicamente notare che per i nordamericani l’Asia si trova a ovest, non a est, e dunque l’orientamento si confonde, perché vi si scontrano la dimensione geografica e quella culturale. Schodt ritiene che sarebbe l’ora, per le concettualizzazioni degli americani, di cominciare a pensare all’Asia e al Giappone non più in modo eurocentrico; dal suo punto di vista, forse ha ragione. Diversa è però la situazione per chi in Europa ancora vive e pensa. Non è difficile rendersi conto che Oriente e Occidente non sono due concetti da accantonare, per almeno due motivi, strettamente connessi ai temi di questo libro: perché i due termini racchiudono ben più di un indizio geografico, come potrebbero fornirlo una qualsiasi rosa dei venti o un planisfero, e indicano invece due vasti insiemi di problematiche geopolitiche, storiche, culturali, inerenti alla mappatura di due assi di civilizzazione visibili come distinti al di là degli inevitabili punti di contatto nei secoli; e inoltre, perché è proprio dalla progressiva con/fusione di vasti territori culturali, mediatici, industriali e finanziari prima afferenti o solo all’uno o solo all’altro, che l’Oriente e l’Occidente per come classicamente concettualizzati, rappresentati e vissuti sono oggi in una fase di sovrapposizione, discontinua ma progressiva. A questo proposito, non si può non menzionare il discorso orientalista avviato da Edward Said [1978] e poi messo in discussione da altri antropologi [per esempio in Clifford 1988]. L’orientalismo classico partiva dalla fissazione di un Est e di un Ovest del mondo in relazione asimmetrica, con la cultura occidentale in posizione superiore rispetto alle esperienze orientali. In tale discorso il Giappone, poiché geograficamente parte dell’Oriente, era messo nel mucchio insieme agli altri paesi asiatici; tuttavia l’Arcipelago non solo da un certo momento in poi non è più stato inseribile nel calderone dei paesi terzomondisti orientali – in realtà, si può dubitare che lo sia mai stato – ma confuta il discorso orientalista poiché nel XX secolo è stato un paese colonialista e militarmente molto organizzato. In tal senso, come illustra Jennifer Robertson, viene a cadere la validità dell’orientalismo per come presentato da Said e da altri studiosi europei e americani, quale distinzione essenzialista fra un Occidente portatore di valori universali e un Oriente come luogo assolutamente altro [Robertson 1998: 97-99]. Al contrario, in Giappone si è venuto a configurare un orientalismo di segno opposto che ha seguito i
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dettami del Nihonjinron. Cioè il dibattito domestico sull’unicità del Giappone considerato quale cultura nazionale, identitaria, omogenea ed esclusiva, a sua volta vista in termini parimenti essenzialisti ma, ovviamente, rovesciati [Dale 1986]. Un punto di partenza per avviare il discorso sulla dialettica fra Giappone e Occidente in relazione alla circolazione, sempre più frenetica, degli immaginari popolari rispetto alle dinamiche più complessive di comunicazione a volte anche conflittuale fra questi due mondi, può essere allora la riflessione generale di Johann P. Arnason [2006]. Arnason ripresenta, rivedendola, la locuzione clash of civilizations, ‘scontro di civiltà’, introdotta dallo scienziato politico Samuel Huntington in un articolo e poi in un libro [1993 e 1996].6 È una definizione che qui, oltre a essere rapidamente illustrata, sarà opportuno superare, poiché l’interazione di cui stiamo parlando oggi non si snoda in termini conflittuali ma comunque può generare – e di fatto ha generato, almeno a livello locale – tensioni di vario genere, in particolare frizioni culturali. Per Arnason c’è in effetti un termine più adatto a definire questo tipo di dinamiche, ed è intercivilizational encounters, ‘incontri fra civiltà’, proposto da Benjamin Nelson [1981]. Come annota Arnason, nei rapporti e nelle comunicazioni fra civiltà non ci sono solo le dimensioni più violente, le collisioni tangibili rientranti nella dinamica dello scontro: questa sarebbe l’accezione di Huntington, che nel suo articolo e poi nel libro presenta casi specifici come i contrasti fra l’Occidente e l’Islam o l’emergere della Cina rispetto all’egemonia statunitense. Arnason rileva invece che nella dialettica di tipo non violento fra civiltà l’ordine delle differenze risiede in quelle che lo studioso definisce «dissonanze ermeneutiche, logiche in mutuo conflitto di panorami culturali divergenti» [Arnason 2006: 45]. Benjamin Nelson aveva trovato, nelle dinamiche di incontro/scontro fra civiltà, quattro «strutture di coscienza». Nell’individuarle aveva cercato di superare la prospettiva weberiana, per muovere oltre l’originaria preoccupazione del sociologo tedesco circa la razionalizzazione di natura religiosa come cifra dell’Occidente [Weber 1904-1905] e per sfruttare i diversi punti d’arrivo dei significati che entrano in gioco quando si parla della costituzione di una civiltà. Nelson nominò le quattro strutture eros, logos, nomos e polis. Non entro nei dettagli, poiché questa sede non è politologica, ma annoto che nei processi di circolazione transnazionale degli immaginari, sebbene l’accento primario sia da rilevarsi sulla strut6
Nei suoi due lavori Huntington, che è di pensiero rigidamente conservatore ed essenzialista, individua sette modelli di civiltà basilari dell’umanità: occidentale, confuciana, giapponese, islamica, indù, slava-ortodossa, latino-americana e africane. Come si nota, il Giappone è l’unica civiltà che, secondo Huntington, coincide con uno stato-nazione.
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tura del logos – la sfera legata alla comunicazione – al suo interno gli immaginari veicolati interagiscono e muovono i fili delle altre strutture, in modo meno centrale ma non trascurabile.7 Vari osservatori hanno notato, per esempio, che il Giappone è sempre stato un paese dalla maggiore capacità ricettiva rispetto alla Cina. Basti pensare che nel XVI secolo l’Arcipelago dimostrò più attenzione alla cristianità che non la Cina, anche se dopo si sviluppò una violenta controtendenza. Nonostante la politica di isolazionismo del Giappone durante l’era Tokugawa o Edo (1603-1868), l’interesse verso la scienza e la cultura europee rimase molto vivo, e all’inizio del XIX secolo i giapponesi conoscevano dell’Occidente molto di più di quanto non ne sapessero i cinesi. Questo fatto non è spiegabile in termini di sola distanza geografica, ma in termini di fattori socioculturali, che se da un lato bloccarono la Cina, dall’altro resero più vivace la ricettività del Sol Levante [Arnason 2006: 47]. Resta il fatto che il Giappone risponde alla stessa regola notata da Arnason sulla scorta di Nelson, cioè che nei paesi dell’Asia orientale a periodi di forte crisi sociale e politica hanno corrisposto intensi periodi di incontro/scontro con l’Occidente; meglio, tali crisi in buona parte sono state provocate proprio dall’immissione di cultura occidentale nel paese di ricezione. Fu così per il Giappone al termine del periodo Tokugawa e fu così per la Cina dopo la ribellione filocristiana dei Taiping nel 1850-’64 e durante e dopo la Rivoluzione culturale di Mao Zedong [ivi: 49]. Gli appunti stesi finora riguardano tuttavia il punto di vista dell’Occidente nei suoi processi di scoperta e conquista dei territori asiatici. Ma certo non è esistita solo una modernizzazione intesa come occidentalizzazione, bensì anche una «nipponizzazione» (nipponka). Cioè un processo di colonizzazione/conquista di vari territori asiatici da parte del Giappone, non più volto solo all’appropriazione di tali aree – processo che era cominciato a fine Ottocento – ma, a partire dagli anni Trenta, proteso all’assimilazione (dôka) come strategia coloniale, politica e culturale nei confronti dei popoli assoggettati [Robertson 1998: 92]. L’assimilazione, che ha anche un’accezione legata alla capacità del Giappone di fondere in modo peculiare qualità indigene ed elementi di provenienza straniera (yûgô),8 in quel caso assunse i tratti di quello che in Occidente è stato chiamato imperialismo. La strategia dei giapponesi duSi può cogliere di passaggio che Appadurai qualche anno dopo [1990: 295-310] avrebbe individuato cinque scenari dei fattori strutturali e istituzionali della globalizzazione culturale: etnico, tecnologico, finanziario, mediatico e riguardante le idee (in senso politico). Mi sembra che essi possano essere fatti tutti rientrare nelle categorie nelsoniane. 8 In Giappone una lunga tradizione di studi e di politiche governative autoassegnano al popolo del Sol Levante questa caratteristica peculiare, che di recente è stata definita ibridismo strategico [Iwabuchi 2002a: 53]: la capacità di fare propri in modo nuovo elementi culturali esterni, senza cambiare il proprio core nazionale/culturale [ivi: 53-59]. 7
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rante il loro periodo coloniale era insomma quella di esercitare una missione di assoggettamento e incivilimento nei confronti degli altri popoli asiatici, ritenuti inferiori.9 È un tema, questo, che rinvia alla questione del nazionalismo giapponese, trattato infra, Paragrafo I.3; qui invece sarà il caso di menzionare due caratteristiche congenite alle strategie coloniali nipponiche. Il primo è il fattore primario implicato nel concetto di assimilazione, che il Giappone porta con sé ancor oggi con riguardo alle dialettiche con le altre culture: la capacità di assorbire e reinterpretare la differenza culturale secondo l’ideologia e i codici nazionali [ivi: 93]. L’altro, conseguente dal precedente, è l’ufficiale rimozione dall’alto della paura dell’alterità, insita negli incontri coloniali, con l’assunzione formale di una configurazione culturale nazionale basata alla radice sulla sintesi di elementi endogeni ed esogeni: ciò che produsse una vera e propria esorcizzazione delle operazioni di ibridazione transculturale allora in atto [ibid.]. Ciò ci porta al concetto di transnazionalità e all’oggi. Ulf Hannerz ha dedicato un libro alle cosiddette connessioni transnazionali [1996], indicando che il concetto di transnazionalità è più «umile» [ivi: 6] rispetto a quello di globalizzazione, perché presuppone scambi da nazione a nazione in modo più concreto e specifico rispetto ai generici scambi «globalizzati»; e inoltre perché implica, nel campo culturale e mediatico, tutti i problemi di asimmetria e mistura dei messaggi, delle estetiche, dei prodotti narrativi che da un paese muovono verso altre nazioni. Iwabuchi rileva che in Occidente si parla ben poco dell’influenza culturale giapponese nel mondo; forse, egli suggerisce, a causa di una discrepanza fra la percepita presenza culturale del Giappone e il suo effettivo potere culturale transnazionale [2004b: 56]. Per questo motivo mi pare corretto inserire nel discorso un altro autore giapponese. Il sociologo Kiyomistu Yui, proprio nella Prefazione a questo volume, parte opportunamente dall’acquisita nozione con la quale si distinguono – nella fase di modernità avanzata che ancora si regge sul sistema degli stati-nazione (kôto) – entità e fenomeni di dimensioni infranazionali ed entità e fenomeni di dimensioni sovranazionali [cfr. anche Yui 2006]. E definisce gli anime e i manga come un ibrido fra queste due dimensioni. Questo, aggiungo, perché gli anime per un verso sono una forma locale di produzione culturale, con le loro connotazioni tematiche ed estetiche; e per l’altro perché non hanno avuto difficoltà, e di certo non negli ultimi anni, a viaggiare a livello internazionale, a essere accolti nei sistemi distri9
Iwabuchi riferisce, per lo stesso concetto, il termine kôminka. La nipponizzazione, fino alla Seconda guerra mondiale, era intesa in due sensi: come addomesticazione delle altre culture asiatiche e come appropriazione e adattamento delle culture occidentali [Iwabuchi 2002a: 9]. Nel dopoguerra prevalse solo la seconda accezione: da dôka a yûgô.
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butivi di altri paesi, a far apprezzare i loro contenuti e il loro design dai consumatori in tante parti del mondo. Dunque, completerei, sono un conglomerato culturale che rientra nell’ambito della transnazionalità: transnazionalità che si è pienamente compiuta con l’espandersi generale della cosiddetta J-pop.10 La transnazionalità che più ci interessa in questo contesto è quella che viaggia al livello dei sistemi di comunicazione, dell’industria culturale e dell’immaginario popolare veicolato da forme quali il cinema d’animazione e il fumetto. Un contributo estremamente illuminante in tal senso è un saggio di Ian Condry [2007], secondo cui negli ultimi anni l’identità nazionale giapponese è sempre più toccata e modificata da identità transnazionali attraverso i mass media, in base alle mutevoli relazioni di intimità fra i contenuti di determinati spettacoli e i valori del pubblico giapponese. Nel contempo Condry pone l’accento sul tema dell’identità nazionale e su come recenti prodotti d’intrattenimento sembrino sfociare nell’indottrinamento. Oggi in Giappone sono emerse pulsioni nazionaliste anche in settori dei mass media che gli occidentali tendono in genere a considerare di puro intrattenimento, vale a dire i manga e gli anime, perché i prodotti importati in Europa e in America nella stragrande maggioranza sono scarni di contenuti di sapore politico; e, nei casi in cui messaggi politici siano riscontrabili, essi non sono pienamente – o non sono affatto – recepibili dai pubblici occidentali. La tendenza che Condry riscontra è in realtà duplice. Sulla scorta di Benedict Anderson [1991, cit. in Condry 2007] – ma a mia volta non posso fare a meno di riferirmi come minimo ad Appadurai [1996] e Tomlinson [1999] – lo studioso statunitense annota che i modi in cui le comunità nazionali sono pensate dai loro membri sono cambiati con i media globalizzati. Per Anderson [1991: 6, cit. in Condry 2007] i fattori che costruivano la percezione delle comunità nazionali erano la stampa, i viaggi attraverso la nazione stessa e la burocrazia su cui questa si fondava; invece con le nuove tecnologie e strategie, e i nuovi prodotti mediatici diffusi in tutto il mondo, le comunità immaginate sono costituite attraverso le frontiere etniche e nazionali, in modi che confliggono con le più tradizionali nozioni di nazionalismo. While some media messages aim to consolidate the sovereignity of Japanese nation through the reinforcement of a particular view of history, other
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L’etichetta J-pop, dove J sta per Japan, inizialmente designava solamente la musica leggera giapponese declinata nei vari generi noti in Occidente (rock, pop, rhythm & blues ecc.). Ultimamente, in Occidente il termine si è allargato a designare la cultura di massa nipponica nella sua globalità. In questo libro si distinguerà fra la musica leggera («il» J-pop) e l’accezione riferita alla cultura popolare e di massa nel suo insieme («la» J-pop), con una preferenza per l’uso della seconda.
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Figura 3 Un’immagine dal fumetto di Kaiji Kawaguchi Chinmoku no kantai (‘L’armata silenziosa’, tradotto in inglese come Silent Service), 1989-’96, dai contenuti sottilmente nazionalisti. Chinmoku no kantai © Kaiji Kawaguchi / Kôdansha.
media forms draw attention to transnationally imagined communities, […] of which anime and hip-hop are just two of the many possible examples […]. [Condry 2007]
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Da una parte v’è l’emergere di interventi di carattere tradizionalmente nazionalista, che rivendicano l’identità patria come punto da cui ripartire per la ridefinizione di una solidità politica e ideologica nazionale rispetto alla percepita confusione portata da fattori di comunicazione transnazionale: è il caso del governatore di Tokyo Shintarô Ishihara, autore di un impetuoso saggio nazionalista, ispirato a un deciso revisionismo storico relativo ai crimini di guerra dell’esercito giapponese in Asia durante la Seconda guerra mondiale [2006, cit. in Condry 2007], e dei fumetti patriottici di Yoshinori Kobayashi e Kaiji Kawaguchi (Figura 3).11 11
Kobayashi realizza fumetti corrosivi dal 1991, data di edizione di Gômanism sengen, ‘Dichiarazione di ‹arrogantismo›’ sulla rivista Spa! [Schodt 1996: 224-28]. I suoi fumetti più recenti sono Yasukuni ron – Shin gômanism sengen special (‘Il dibattito su Yasukuni – Nuova dichiarazione di ‹arrogantismo› special’), edito nel 2005 dalla Gentosha di Tokyo e Iwayuru A kyû senpan – Gôsen special (‘La cosiddetta classe A di criminali di guerra – Dichiarazione di arroganza special’), uscito nel 2006 per gli stessi tipi. Kaiji Kawaguchi appare più moderato di Kobayashi ma di altrettanto impatto sui dibattiti politici in Giappone. È autore, fra gli altri, di Chinmoku no kantai (‘L’armata silenziosa’), edito sul settimanale Weekly Morning della Kôdansha dal 1989 al 1996 e poi ripubblicato in 32 volumi e trasformato anche in una miniserie animata in sei puntate [Schodt 1996: 164-68]. In tema cfr. anche Bouissou 2006c e 2006d, e Pellitteri 2007a. Il manga di spirito patriottico e
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Da un’altra parte emergono invece testi di narrativa popolare che nell’affermare l’identità giapponese non rinunciano a vedere pregi e difetti del passato e del presente nazionali e a collocarsi in un contesto multietnico e globalizzato, in modi che non annullano né mitigano l’essere giapponesi ma lo pongono in relazione con altre realtà. Secondo Condry molti anime del passato, come Gundam, e recenti, come Blood+, trattano eventi quali la guerra, la razza, la morale, l’appartenenza, in termini problematici, sollecitando il pubblico alla riflessione e non alla piatta accettazione di questo o quel messaggio [Ôtsuka – Sakakibara 2001, cit. in Condry 2007].12 Ma è vero che coloro che più di ogni altra categoria di pubblico riflettono attivamente sui temi più critici presentati in anime come questi sono i fan, i fruitori più assidui che in molti casi, lungi dall’assorbire in modo passivo i contenuti dei loro film o serie preferiti, ne rielaborano i messaggi in base alle proprie conoscenze e a ulteriori approfondimenti, volti a renderli padroni delle implicazioni tematiche richiamate dalle narrazioni seguite. È il caso dei fansubber, per esempio, gli appassionati che realizzano amatorialmente i sottotitoli e che non di rado forniscono ad altri utenti – che di questo strumento aggiuntivo beneficiano tramite il download da internet – note esplicative su alcuni contenuti e riferimenti magari oscuri se si è privi di approfondite conoscenze storiche. Ciò accade per molte serie, e fra queste v’è la citata Blood+ da Condry evocata. Gli anime che ricevono questo trattamento amorevole e filologico da parte di utenti stranieri, da locali si trasformano in autenticamente transnazionali. Da un punto di vista occidentale viene spontaneo pensare che il proliferare della cultura popolare giapponese nei paesi asiatici sia dovuto a fattori di prossimità culturale: poiché la Corea, Taiwan e Hong Kong sono paesi asiatici, essi devono tutto sommato condividere con il Giappone almeno alcuni tratti culturali, tali che la J-pop risulti gradita. Basti solo pensare – il riferimento da parte occidentale è quasi istintivo – alla ricorrenza di alcuni tratti somatici come gli occhi a mandorla. Questa idea di prossimità, in tale accezione, non solo pare molto debole,13 ma è ritenuta secondaria anche da alcuni studiosi giapponesi, che indicano piuttradizionalista – ma non per forza nazionalista – ha una lunga storia. Dal filone jidaimono, ‘storie in costume’, ambientate nel passato feudale, al gekiga, genere crudo sul quale cfr. infra, Parte II, Capitolo III/2. Per una iniziale trattazione di manga che rappresentano uno «spirito giapponese» cfr. Schodt 1983; II ed. 1997: 68-87. 12 Su Gundam cfr. supra, Introduzione, Paragrafo VII, Nota 23 e infra, Capitolo III/2. Blood+, serie animata prodotta dalla I.G Production nel 2005-2006 in 50 episodi diretti da Jun’ichi Fujisaku, deriva dal mediometraggio, ancora della I.G, Blood The Last Vampire, di Hiroyuki Kitakubo, 48’, 2000. 13 È sostenuta per esempio in Zaccagnino – Contrari 2007, un articolo utile per alcune notizie che fornisce ma a tratti impreciso dal punto di vista della comprensione generale del manga sia in sé sia nel suo arrivo in Occidente.
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tosto, come motivo della positiva ricezione dell’industria culturale nipponica all’estero nella sfera asiatica, il tema della prossimità/condivisione di uno spazio e di un tempo fra due o più paesi (quello da cui proviene la pop culture accolta, quelli che la accolgono): un’idea che in senso lato si potrebbe definire contemporaneità. Una contemporaneità, sostiene Iwabuchi [2002a, 2004a e 2007], dinamica, appunto basata non solo sulla vicinanza nello spazio ma anche su di una contiguità temporale, cioè nella considerazione che la nazione latrice di pop culture e i paesi recettori stiano procedendo verso un futuro in cui le distanze si accorceranno e le similitudini si accentueranno, con la riduzione delle divergenze politiche, sociali, culturali. Questo ragionamento è valido nel caso dello scenario asiatico, eppure mi sembra che sia abbordabile anche da un punto di vista europeo. La pop culture giunta in Italia e in altri paesi europei dal Giappone non avrà certo avuto e non sta avendo sulle culture locali un effetto massivo come in vari paesi asiatici, poiché da queste parti ha agito su gruppi di persone meno numerosi; però nelle sottoculture di fan [secondo la definizione datane in Jenkins 1992: 1-2, 12-16] e a un certo livello anche nel più vasto gruppo di telespettatori/lettori di prodotti giapponesi, a lungo andare un effetto si sta percependo, come dimostrano le ricerche svolte finora in Italia e in Europa seguendo vari approcci argomentativi [Impegnoso 1999, Pellitteri 1999, Molle 2001a, Filippi – Di Tullio 2002, Vanhee 2004, Calderone 2006, Sabre 2006]. In effetti la modernità, intesa tradizionalmente come espansione della civiltà occidentale, da un lato ha forzato molti paesi non occidentali, oggi industrialmente progrediti o in una fase avanzata di sviluppo, a forme di modernità occidentalizzanti – almeno in fasi precedenti a quelle in atto negli ultimi decenni – ma dall’altro ha reso evidente come parlare di modernità solo in termini centrati sull’Occidente sia inadeguato alla comprensione corretta delle dinamiche in gioco. In tal senso, la prossimità di cui parla Iwabuchi si può esprimere a mio avviso nel progressivo, mutuo avvicinarsi di alcuni tratti delle varie culture nazionali anche tramite l’azione delle industrie culturali più forti, diffuse a livello transnazionale. È accaduto con quella statunitense in molti paesi europei, sta avvenendo con quella giapponese in molti paesi dell’Asia orientale; e, sebbene in termini più di nicchia, è probabile che stia accadendo con la Jpop negli Stati Uniti, in Italia, in Francia e in altre nazioni occidentali. V’è un termine, transcultura, che mi pare ritragga efficacemente la nuova fase delle culture di massa che attraversano le nazioni e le civiltà. Scrive Sabrina Brancato: la nozione tradizionale di cultura è in processo di revisione. Soprattutto nell’ambito socio-antropologico e filosofico […] si sente ormai sempre più
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GLOBALIZZAZIONE E TRANSNAZIONALITÀ DELLA CULTURA spesso parlare di transculturalità e transculturalismo. Questi nuovi concetti pongono enfasi sul carattere dialogico delle influenze culturali, tendendo ad una concettualizzazione dell’interazione in cui niente è mai completamente «altro» (straniero ed estraneo), e servono dunque a comprendere i processi di formazione dell’identità culturale in tutta la loro complessità. [Sa. Brancato 2004]
Introduco qui il termine transacculturazione per indicare la dinamica di innesto di temi, concetti, valori dell’immaginario giapponese tra le frange di appassionati italiani di fumetti e animazione nipponici. Il concetto originario era transculturazione, introdotto dall’etnologo cubano Fernando Ortiz [1940]. «Da allora il termine è stato usato in ambito antropologico per descrivere il processo di assimilazione, attraverso un processo di selezione e rielaborazione inventiva, di una cultura dominante da parte di un gruppo subordinato o marginale» [Sa. Brancato 2004]. Ho pensato di ridefinire il termine come transacculturazione sia per distinguerlo dal precedente, che poneva l’accento su di una logica culturale imperialista, sia per enfatizzare il processo di accrescimento culturale in senso positivo o quantomeno neutrale. Nella vicenda italiana questo processo di progressiva transacculturazione è partito proprio dall’arrivo nelle nostre televisioni degli anime. Non starò qui a spiegare le caratteristiche di questo incrocio culturale vissuto da almeno due generazioni di giovani telespettatori italiani e di molti ragazzi europei, visto che se ne parla in seguito. Bisogna invece rilevare che tale processo è giunto in questi ultimissimi anni a una seconda fase, in base a due eventi paralleli: da un lato il proliferare, per gli anni Novanta, di una incredibile quantità di fumetti giapponesi che si sono aggiunti alle vecchie serie TV e a una seconda ondata di anime più smaliziati e meglio realizzati di quelli della «prima generazione»; dall’altro l’affacciarsi di una versione tutta italiana di un fenomeno di adolescenza protratta – non solo al livello esteriore e delle condotte sociali – riscontrata dagli anni Ottanta in Giappone. Senza dubbio il fenomeno è prodotto da diverse concause, ma in parte, almeno nelle sottoculture legate al Giappone, ha assunto esteriormente tratti da esso ripresi: l’abbigliamento, gli accessori, gli atteggiamenti di certi adolescenti e giovani sono oggi ispirati a, o condizionati da, una tendenza estetica e comportamentale detta kawaii e trattata al Capitolo IV della Parte I. Naturalmente queste indicazioni andrebbero corroborate da analisi più precise e da rilevazioni sistematiche; mi sembra tuttavia che sia stata per lo meno individuata una interessante area problematica. Se oggi molti giovani europei e nordamericani sono così intrisi di contaminazioni dalla pop culture nipponica, lo si deve in larga parte ai linguaggi degli anime e dei manga e all’enorme intensità con cui questi sono
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stati somministrati in TV e pubblicati in edicola e in fumetteria. E del resto, ribaltando il punto di vista, i giovani giapponesi oggi mangiano pizza e hamburger, giocano a baseball e a calcio [Richie 1992], vestono Prada e Armani, indossano le maglie con il nome di Totti o Del Piero, in base a fenomeni quasi simmetrici di dinamica transculturale con l’Italia e gli USA, i paesi più amati dai giapponesi insieme alla Francia. Si tratta insomma di un tema di ricerca che attende sviluppi e che risulta ormai d’obbligo analizzare a fondo, specialmente alla luce dei cruciali elementi emersi negli ultimi anni. E un buon modo per cominciare è definire con maggiore precisione la cultura pop giapponese. I.2 Dalla taishû bunka alla J-pop
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Al di là del complesso dibattito internazionale – concettuale e terminologico – sulla cultura popolare e sull’espressione oggi molto usata pop culture, quello che qui ci interessa è il modo in cui i due termini sono stati e sono attualmente declinati in generale in Giappone, perché è dalla consapevolezza di una loro precisa definizione in ambito nipponico che si potrà passare a discutere sulla cultura popolare e di massa giapponese in Occidente. I.2.1 Cultura popolare e pop culture
Nella lingua inglese, nel lessico comune il concetto di popular culture oggi è generalmente associato al consumo di massa, ai beni voluttuari, alle espressioni di larga diffusione di media come la TV e il cinema e alla dialettica fra produzione e fruizione di tali forme; si tratta di una famiglia di accezioni che si aggiungono a un significato più classico, che in ambito europeo è ancora quello dominante. In Francia o in Italia, per esempio, la cultura popolare concerne, come area semantica, l’ambito delle espressioni tradizionali, legate al folklore e all’identità storica nazionale. Questa accezione di cultura popolare per John Fiske [1989] è basata su una marca di eccesso che sfugge al controllo delle ideologie dominanti e che può dunque essere usata in modo libero. È vero anche che molte forme di cultura popolare, invece di parodiare l’ordine costituito o di manifestarsi in modo del tutto slegato da una qualsivoglia dialettica con esso, possono legittimarlo e rinforzarlo, come sosteneva la scuola critica francofortese. In Giappone l’etnografo Kunio Yanagita, attivo nella prima metà del XX secolo, condusse le sue ricerche sulla cultura popolare con un atteggiamento ottimistico simile a quello di Fiske e intendendo la produzione tradizionale e folklorica come risorsa identitaria [Robertson 1998: 28].
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DALLA TAISHÛ BUNKA ALLA J-POP
Tuttavia, diversamente da Fiske, Yanagita e altri colleghi giapponesi erano dell’idea che la cultura popolare – Yanagita la chiamava jômin, riferendosi alle persone di campagna, viste come formanti la base del paese – avesse un accentuato potenziale politico e che di fatto fosse espressione della cultura dominante, con funzione di collante interclassista [Katô 1989: 315]. Si tratta in ogni caso, come segnala Jennifer Robertson [1998: 30], di una visione della cultura popolare non corrispondente alla realtà, perché dalla pretesa purezza d’espressione e d’intenti. In contrasto con questa visione presuntamente armoniosa e unitaria della cultura popolare giapponese, v’è da considerare una coppia di definizioni introdotte già alla fine del XIX secolo basate sulla distinzione fra due classi primarie di cittadini, taishû bunka e minshû bunka – dove bunka vuol dire, precisamente, ‘cultura’. La prima significa ‘cultura popolare / cultura di massa’, associata cioè alla classe media. L’altra si riferisce, in modo più vago, alla ‘gente in massa’, intesa come popolo indistinto e con una connotazione populista [ivi: 32-33]. La taishû bunka oggi trascende le classi sociali ed è trasversale; la minshû bunka, contrapposta alla cultura aristocratica (kizoku bunka), ha base regionale e folklorica/tradizionale.14 Robertson suggerisce, in riferimento al Giappone contemporaneo, l’uso del termine taishû bunka come traduzione di ‘cultura popolare’ e di ‘cultura di massa’ [ivi: 34]. Inoltre propone di parlare di cultura popolare per le definizioni generiche, e di cultura di massa in presenza di manifestazioni mediatiche in cui prodotti, narrazioni, supporti siano diffusi in modo pervasivo [ibid.]. Ne convengo, e in questo libro ci si rifà a tale concezione, in linea peraltro con quanto sostenuto da un’altra studiosa della produzione e fruizione culturale, Diana Crane [1992]: qui cultura popolare è intesa non come cultura folklorica ma quale sinonimo di popular culture nell’accezione anglosassone sopra ricordata. Quando si parlerà di cultura di massa si intenderà soprattutto l’azione dei produttori/distributori nei confronti del pubblico in quanto recettore e consumatore di prodotti culturali. Invece se si parlerà di cultura popolare si farà riferimento, oltre che alla produzione/trasmissione di contenuti e prodotti «dall’alto», anche alla possibilità – non sempre sfruttata, ma teoricamente nel discorso – che le persone agiscano «dal basso» coi/sui contenuti, partecipandone, rielaborandoli, condividendoli, trasformandoli. Per chiudere il discorso su queste definizioni, si annota che il termine industria culturale, nato in uno specifico contesto critico [Horkheimer – Adorno 1947] con accezione negativa, qui è inteso più neutralmente come processo di produzione, promozione e distribuzione di contenuti e 14
Altre definizioni emersero in seguito, tutte seguite dal termine bunka: fra queste, tsûzoku, riferita alla cultura laica e materialista, e shômin, una sorta di cultura dei parvenu [ivi: 33].
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merci culturali destinati a platee più o meno vaste. In questo senso, l’industria culturale si può indicare come la congerie di apparati atti a produrre la cultura di massa. Rimane da chiarire, e basti qui un rapido appunto, che il pop di pop culture è ovviamente contrazione di popular, introdotto negli anni Cinquanta negli USA e che poi sarebbe stato adoperato in svariati contesti, dalla pop music dei pop singer e delle pop star alla Pop Art, ma tutti legati alla produzione/diffusione di contenuti, personaggi, idee in vario modo indirizzati a un pubblico vasto, popolare in senso ampio. La pop culture si dispiega seguendo traiettorie in contrasto con – o al di là di qualsiasi aperta considerazione per – la cosiddetta arte alta. Ciò perché essa non è solo diramata dai centri nevralgici della produzione di cultura di massa ma spesso è suggerita e/o promulgata «dal basso», attraverso processi di partecipazione attiva di un pubblico il quale dà vita a mode, tendenze e significati poi ripresi, elaborati e potenziati da aziende, mass media, artisti, stilisti. Nel XX secolo le pop culture più presenti e potenti sono state, in Occidente, quella statunitense e quella britannica, pervasive al punto da penetrare con grande impeto nei mercati culturali orientali, in una dinamica che è stata da molti osservatori ritenuta parte fondamentale del percorso imperialistico delle grandi potenze euroamericane in Asia. Da una ventina d’anni a questa parte tuttavia, com’è ormai chiaro dai discorsi di questo Capitolo, il Giappone è diventato un ulteriore diffusore di pop culture a livello internazionale. I.2.2 Pop culture, cool Japan e J-pop
In Giappone i profitti dei settori di musica, videogame, anime, fumetti, arte, film e moda sono cresciuti tra il 1992 e il 2002 del 300%, laddove l’ammontare generale delle esportazioni nello stesso periodo è aumentato «solo» del 21% [Kawamata 2005]. Il cinema d’animazione, sempre nello stesso anno, è consistito del 3,5% delle esportazioni totali [Sugiura 2003, cit. in Iwabuchi 2007]. Hello Kitty, la gattina bianca e rosa della ditta Sanrio, quell’anno solo fuori dal Giappone ha guadagnato un miliardo di dollari [ivi]. Nel 2003 secondo la JETRO [2004, cit. in Leonard 2005b: 281-82]15 il fatturato totale riguardante gli anime e i beni a essi collegati è arrivato a due triliardi di yen, cioè 18 miliardi di dollari, superando le esportazioni di acciaio giapponesi [Ishiguro 2004]. Nel 2003 si è raggiunto il primato di 2 milioni e 350 mila persone che nel mondo studiano il giapponese, contro le 980 mila del 1990 [Asô 2006: 7].16 JETRO sta per Japan external trade organization, ente che monitora lo stato delle importazioni/esportazioni nipponiche. 16 Tarô Asô è stato Ministro degli Affari Esteri giapponese nei governi Koizumi e Abe. Nel settembre 2007 gli è succeduto Masahiko Kômura, sotto l’attuale governo di Yasuo Fukuda. 15
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La ragione attribuita a questo fenomeno di espansione per l’interesse verso il Giappone (l’apprendimento della lingua è il risultato o l’anticamera di uno o più viaggi verso il paese), è la J-pop, nelle sue varie sfaccettature. Lo stesso Asô osserva che in molti casi le sigle musicali degli anime trasmessi all’estero sono in giapponese, e ciò secondo lui potrebbe aver spinto molti ad approfondire la lingua [ibid.]. Di sicuro, dalle ricerche svolte finora in Europa sui fan stranieri della J-pop risulta che molti giovani che si legano ai lati considerati più superficiali, recepiti come meno raffinati della cultura giapponese – manga, anime, cinema d’azione, moda e musica leggera – poi desiderano approfondire le loro conoscenze e allargano il loro interesse al teatro tradizionale, alla storia e all’arte classica del Giappone, e quindi alla lingua, in una sorta di apprendistato che li porterà nel paese con tutta l’attrezzatura culturale per apprezzarlo con pienezza [Filippi – Di Tullio 2002, Sabre 2006]. Nei decenni la popolarità della J-pop in Asia è cresciuta, anche in paesi che per molto tempo sono stati ostili al Giappone per irrisolti rancori legati a questioni belliche; ma dove malgrado tutto la cultura giapponese è sempre arrivata, sebbene attraverso canali clandestini, con i suoi fumetti e disegni animati. Come nel caso della Corea del Sud [Yamanaka 2007]: ad esempio, nel campo dell’editoria, per quasi tutto il secolo scorso in Corea si sono importati più libri dal Giappone che da qualsiasi altro paese [Kim 2007]. In buona sostanza, per molti asiatici la J-pop è una versione continentale della pop culture occidentale; si tratta cioè di una versione riveduta, culturalmente rivisitata, di un altrove esotico a cui si guarda con desiderio, come è stato mostrato da Koichi Iwabuchi [2002a, 2004a] e come confermato dall’analista coreano dell’industria culturale Karl Hwang [cit. in Faiola 2003]. La pop culture nipponica, dal punto di vista occidentale, com’è ormai chiaro consiste per lo più in prodotti quali manga, anime, videogiochi – che ne sono il nocciolo – e la musica leggera, la moda associata agli stili urbani, i gadget e prodotti delle più diverse specie relativi al marketing derivato dalle forme precedenti. Fra i maggiori punti di forza strutturali di questa pop culture vi sarebbe quella che Saya Shiraishi [1997] ha definito una image alliance o che Marsha Kinder [1991] ha denominato super-system of entertainment. Vedremo al Capitolo IV della Parte II che questo «supersistema» è ben teorizzabile all’interno di una tipologia di modelli di sviluppo e proposizione intermediale dei fenomeni commerciali polimerce. Si può tuttavia serenamente confermare quanto proposto da Clothilde Sabre, secondo cui la pop culture giapponese prende le sue mosse da un universo «mediaculturale» [Sabre 2007] sviluppato in quel paese a partire Per quanto riguarda i dati divulgati, il Marubeni Research Institute [cit. in Faiola 2003], che dichiara peraltro di presentare i propri dati con l’aiuto della Japan Foundation, sostiene invece che nel 2003 gli studenti di giapponese nel mondo sarebbero stati oltre 3 milioni.
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dal secondo dopoguerra, destinato soprattutto ai giovani ma che nei decenni ha visto allargare il proprio pubblico. In quest’ottica, e tenendo presente il modello di Arjun Appadurai sulla globalizzazione culturale (cfr. supra, Paragrafo I.1.1), la diffusione della pop culture nipponica a livello sempre più internazionale è da vedersi come un flusso mediatico non solo di prodotti ma anche di comunità di varie nazionalità la cui immaginazione lavora su un’idea di Giappone che magari non necessariamente corrisponde alla realtà, ma su cui le pratiche di relazione e di fruizione di tali prodotti si basano. Va infatti tenuto presente che altro è il Giappone vero, e altro è invece il Giappone immaginato dalle comunità di fan occidentali. I quali, come notato da Steffi Richter, costruiscono una loro idea di Giappone, stereotipizzato in senso positivo o negativo, e a volte perfino mistificato nei suoi aspetti più evidenti e pubblicizzati. Per Richter anzi una porzione della responsabilità nella costruzione di questa idea non del tutto veritiera di cool Japan si deve agli stessi studiosi dei media che si occupano a vario titolo di Giappone, tanto a livello divulgativo quanto a livello accademico; occorrerebbe quindi – è questo il suo auspicio – che gli studiosi prendessero maggiormente le distanze dai loro oggetti d’analisi.17 In un articolo citato da molti – pure qui – malgrado le varie lacune analitiche, il giornalista economico Douglas McGray [2002] sostiene che la pop culture giapponese non sarebbe in procinto di scalzare quella americana nel mondo perché questa si baserebbe a suo avviso su contenuti e strutture produttive e distributive più universali, mentre quella giapponese su contenuti e strutture tarati piuttosto sul contesto locale. Ciò in realtà non è del tutto corretto. Anche mettendo da parte il discorso della pretesa universalità della cultura americana – su cui si deve naturalmente dissentire – l’inesattezza delle affermazioni di McGray è dimostrata per un verso dalla diffusione capillare della cultura pop giapponese in Asia e da quella sempre più massiva in Occidente, ciò che investe una questione strutturale; per un altro verso dalla sempre più appassionata ricezione delle storie e dei personaggi nipponici un po’ dappertutto, per quanto riguarda una questione di contenuti; e ne sia infine testimonanza la fusione degli apparati distributivi occidentali con la veicolazione di contenuti nipponici, con bei risultati economici e di gradimento, in un’ibridazione di strutture e contenuti.18 La studiosa tedesca parla di indebita coolisation del Giappone e il riferimento è a un articolo di Douglas McGray (cfr. infra). Richter, studiosa del Giappone presso l’università di Lipsia, ha proferito i suoi commenti in qualità di moderatrice nel corso di una sessione del convegno La globalisation culturelle et le rôle de l’Asie svoltosi a Parigi, presso le sedi del CERI (Centre d’études et recherches internationales) e della Japan Foundation, il 15 marzo 2007. 18 Morley e Robins a questo proposito sono chiari e individuano i tre fattori primari da padroneggiare nei flussi commerciali globalizzati: l’ideazione dei prodotti culturali, la loro 17
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Figura 4 Namie Amuro, una delle cantanti giapponesi di musica leggera più note in Asia, praticamente una star, anche se molto meno nota in Occidente. Foto © Namie Amuro e ulteriori aventi diritto.
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Dell’articolo di McGray, che è più un pezzo di costume e d’opinione che non una vera e propria analisi, ci sono di certo alcuni punti da tenere in considerazione, ma tanti altri a cui guardare con un sorriso. McGray ad esempio sostiene implicitamente un nazionalismo filoamericano che a un osservatore europeo risulta in qualche modo divertente. Uno dei punti che testimoniano con maggior forza l’incoscienza sul tema di cui McGray sta parlando è la sua grande sorpresa nel constatare che la cantante pop Namie Amuro (Figura 4) negli anni Novanta ha costruito un’enorme popolarità in gran parte dell’Asia, cioè a Hong Kong, in Corea, Tailandia e altri paesi, «without ever going on tour in the United States» [ivi]; l’autore sembra altresì stupito – ma è difficile capire se la sua sia vera sorpresa o un artificio retorico per blandire i lettori suoi connazionali – che i giovani giapponesi possano abbigliarsi all’ultima moda anche se la maggior parte di loro non sono stati a New York; o che bellissime riviste giapponesi di moda siano distribuzione e il possesso delle infrastrutture per diffonderli in tutto il mondo, quest’ultima detenuta fino a poco tempo fa, per lo più, dai soli americani [Morley – Robins 1995: 13 sgg.]. Gli equilibri hanno cominciato a rimodellarsi da quando grandi soggetti giapponesi, come Sony e Matsushita, hanno fatto il loro ingresso nella grande distribuzione internazionale, acquistando quote maggioritarie di vari giganti mediatici americani.
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diffuse, in originale o piratate in ristampa, in tutta l’Asia, «though none has launched an American edition» [ivi].19 Queste ingenuità, o malizie, testimoniano la prosopopea con cui McGray dà per scontato in termini imperialisti che il centro del mondo sarebbero ovviamente gli Stati Uniti, dato che qualsiasi cosa non passi per gli USA e diventi popolare altrove lo colpisce come un atterraggio dei marziani narrato da Orson Welles. Le dimostrazioni di stupore di McGray sono tanto più curiose quanto più ci si avveda che il Giappone, tanto per fare un esempio, annovera il più grande mercato musicale dell’Asia e il secondo al mondo dopo quello statunitense; che l’immissione e la celebrità della cultura di massa giapponese sono in Asia molto più solide che non in Occidente, dove pure da vent’anni a questa parte essa è venuta mettendo robuste radici; infine, che da anni ormai i percorsi delle industrie culturali e delle pratiche di consumo non sono più soltanto gerarchiche dagli USA al resto del mondo ma reticolari, poiché insistono su più assi geografici, industriali, mediatici. Eppure nel 2002 Iwabuchi aveva pubblicato già da un anno il suo primo bel libro sul tema del decentramento e ricentramento dei flussi culturali transnazionali in Asia [2001].20 Tuttavia McGray annota anche che il Giappone, nonostante la crisi economica o magari proprio per questo motivo, si starebbe reinventando come «superpotenza culturale». Nonostante molti artisti giapponesi, secondo le dichiarazioni rilasciate a McGray, tendano a ispirarsi alla cultura occidentale per varie loro opere, la maggior parte dei loro connazionali ancora si stupisce e lusinga quando un occidentale dimostra interesse per la lingua o la cultura nipponiche. Ciò perché, come verrà segnalato anche altrove in questo libro, ancora oggi l’industria culturale giapponese è per lo più rivolta al proprio mercato interno, che in moltissimi campi è autosufficiente; basti pensare ai fumetti e ai disegni animati. Un altro fattore che per McGray ha fatto l’attrattiva della pop culture giapponese sarebbe la fusione di (pochi) elementi giapponesi e di (molti) elementi della cultura euroamericana. Nemmeno questo è esatto, in termini così semplicistici, poiché il Giappone ha fra le sue caratteristiche la rammentata capacità di sincretismo [Hall – Gauntlett 1949]. Il cool Japan, Un altro esempio: McGray ironizza sull’autenticità di vari prodotti che scimmiotterebbero oggetti statunitensi, e cita felpe made in Japan con la scritta Harbard University, ma sottintende anche che la pizza giapponese sarebbe un’imitazione di quella americana, senza rendersi conto che se si seguisse fino in fondo il suo modo di ragionare bisognerebbe indicare la pizza americana come una maldestra imitazione dell’originale, che è napoletana. Però le felpe con scritte maccheroniche sono più divertenti di quelle americane, e a volte la pizza americana è più gustosa di alcune fra quelle servite in Italia. 20 Si tenga presente che a introdurre il tema del decentramento delle forze capitalistiche dall’Occidente all’Asia nell’ambito della globalizzazione culturale era già stato fra gli altri John Tomlinson [1997], come anche Iwabuchi ricorda [2004b: 73]. 19
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il Giappone togo,21 non proviene da un superficiale accostamento di elementi giapponesi con tratti occidentali; ha invece preso le mosse da una caratteristica che il Giappone da secoli ha fra le sue prerogative, per la quale i prodotti culturali stranieri vengono recepiti, rielaborati, trasformati e reintegrati nella cultura nazionale, invece che assunti tali e quali. Ma vi sono altre ragioni e pescano da un avvicendamento culturale, da innovazioni negli apparati distributivi, dall’afflosciarsi di varie parabole di popolarità di forme e personaggi dell’immaginario popolare occidentale. Si tratta in tutti e tre i casi di meccanismi facenti parte dei processi di riorganizzazione e – per usare ancora il termine di Iwabuchi – ricentramento della modernità avanzata, che negli ultimi decenni ha investito i paesi più progrediti tanto dell’Occidente quanto dell’Asia orientale. Per questi motivi, se negli anni Trenta Kurt Singer [1931-1939; ried. 2005] si domandava come mai un paese così efficiente e dotato come il Giappone avesse esportato in altre nazioni – sottinteso, in Occidente – così pochi prodotti e tendenze culturali accettate all’estero, oggi la domanda la si potrebbe capovolgere, cioè come abbia fatto il Giappone negli ultimi vent’anni a esportare la sua cultura popolare – o almeno, sue ampie porzioni – così bene e in così tanti paesi. McGray non riesce a capacitarsene e arriva perfino a dichiarare che sia impossibile misurare l’impatto di una nazione in termini di coolness [McGray 2002]. Ciò è inesatto, e meraviglia che l’affermazione che il national cool sia solo «un’idea» [ivi] e non qualcosa di tangibile provenga da un osservatore che si occupa di economia; poiché, con gli strumenti dell’analisi socioeconomica, sarebbe possibile non solo misurarlo ma soprattutto, a monte, concettualizzarlo meglio e dunque operazionalizzarlo a fini di analisi sia in merito alla produzione industriale e culturale sia in merito alla sua percezione, rappresentazione e fruizione da parte delle platee nazionali e internazionali. Una caratteristica del cool Japan, comunque, è rilevata con acume ancora da Iwabuchi, il quale annota che se per un verso le marche di cool e cute (traduzione inglese di kawaii) applicate alla cultura giapponese costituiscono una sorta di correttivo alla sottovalutazione della propria capacità creativa sviluppata nella società nipponica, per l’altro oramai sembra che si sia passati perfino a una sopravvalutazione della J-pop [Iwabuchi 2007]. Iwabuchi in effetti è anch’egli piuttosto guardingo nei confronti dell’articolo di McGray e sottolinea come, se per un verso il concetto di cool Japan e la visione stessa del Giappone come paese cool siano valuta21
L’aggettivo non è scelto a caso: fu la vittoria dell’ammiraglio Togo nella battaglia di Tsushima, durante il conflitto russo-giapponese, a fare introdurre il termine in Italia [Castellazzi – Castelli 1999: 212], con il significato di ‘ammirevole’, ‘in gamba’. Sulla battaglia di Tsushima cfr. Thiess 1936. Per un punto di vista giapponese sul cool Japan cfr. Sugiyama 2006.
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zioni occidentali, per l’altro molti giapponesi si sentano accarezzati da questo riconoscimento. Questa gratificazione proviene da una lunga storia politica in cui il Giappone ha sempre ambìto – ed è stato spesso ignorato – al riconoscimento delle proprie qualità da parte delle nazioni occidentali. Questa storia di richiesta d’attenzione e riconoscimento non soddisfatta è evidente nel fatto che da decenni la cultura giapponese è penetrata e circola nei paesi asiatici in modo ben più organizzato che non in Occidente, ma fino a che essa non è divenuta un fenomeno visibile nei paesi europei e negli Stati Uniti, la massiccia diffusione della J-pop altrove non è stata minimamente rilevata dagli osservatori non asiatici [ivi]. Un altro elemento di grande importanza nella diffusione all’estero della cultura di massa di una nazione, legato alla transnazionalità trattata al Paragrafo I.1.2, è il modo in cui questa cultura non solo giunge ed è recepita in un paese straniero, ma anche come viene distribuita, commercializzata, adattata, rielaborata localmente. Scrive Iwabuchi che il potere simbolico, nell’era della globalizzazione, non è per forza concentrato nel paese d’origine, ma
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it is exercised through the processes of active cultural negotiation that take place in each locality. In fact, it is now almost impossible to imagine local cultural creativity outside the context of globalization and the profits cannot be sufficiently produced without «respecting» local specificity […]. These moves are first and foremost organized and promoted by transnational corporations based on the developed countries, while cultural formats that are shared in many parts of the world originate almost exclusively from a handful of such countries. [Iwabuchi 2007]
In altre parole, questo meccanismo si espleta, a livello generale, nella globalizzazione della diffusione della cultura di massa di un paese e dei beni di consumo da essa derivati, cioè nella complessità con la quale prodotti o linee di prodotti inventati in un luogo (ad esempio il cosmo Pokémon) sono distribuiti a livello internazionale non solo dalla compagnia madre ma anche da molte aziende licenziatarie locali. E si consuma poi, a un livello più specifico, nei modi con cui gli immaginari veicolati dai prodotti sono ripensati dai fruitori locali: basti pensare a come bambini, ragazzi e anche professionisti del fumetto, nel rielaborare gli stili dei manga e degli anime, abbiano prodotto in Italia e altrove disegni e opere di successo ispirati in un modo o nell’altro ai personaggi giapponesi (cfr. infra, Parte II, Capitolo V). La costruzione di un nuovo capitale culturale [Bourdieu 1979] basato sulla pop culture giapponese – su determinati suoi aspetti, non per forza tutti compresenti in un individuo, in un gruppo di amici, in una sottocultura – assume il ruolo di strumentazione particolare di cui una genera-
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zione si dota rispetto alle precedenti per accedere a, e godere di, un tipo specifico di cultura e dei prodotti da tale cultura derivati. Fra gli esempi dell’importanza del capitale culturale con riguardo alla J-pop, non si può non menzionare il cosplay, la pratica da parte di una specifica sottocultura di cucire, confezionare e indossare costumi che riproducono i vestiti o le uniformi dei personaggi di manga, anime e videogiochi [Vanzella 2005]. Ciò che ho ipotizzato sull’arrivo degli anime in Italia e sul senso di appartenenza culturale a un immaginario da parte di una generazione [Pellitteri 1999] sembra allora confermato da autori nei cui paesi esperienze simili hanno portato alla nascita di un divario in termini di bagaglio culturale fra i giovani e i meno giovani: a una generazione di consumatori con «differenti bisogni e sensibilità» [Kim 2007] e che coltivano, fra i loro punti d’incontro culturale, personale, legato alle pratiche di condivisione, vari aspetti della J-pop. I.3 Nazionalismo e «odori» nella cultura globalizzata giapponese
Le ultime due questioni affrontate in questo Capitolo sono un certo tipo di nazionalismo recentemente riemerso in Giappone, legato anche – in certa misura – al crescente successo della J-pop, e il cosiddetto odore culturale, concetto cavalcato dal sociologo Koichi Iwabuchi. I flussi transnazionali di merci, persone, culture e capitali dall’Asia all’Occidente e ritorno stanno producendo, tanto nella società politica quanto in quella civile di vari paesi, molteplici effetti sociali fra i quali una serie di rigurgiti nazionalisti che non possono essere sottovalutati, perché prendono le mosse da una perdita di certezze circa le identità locali, la solidità delle quali era in precedenza assicurata da un maggiore isolamento. Il Giappone non fa eccezione, e di questo argomento si parla anche nelle Conclusioni del volume. A questo nazionalismo da postmodernità si aggiunge il tema dell’odore culturale, cioè la capacità di un prodotto della cultura di un paese di indicare uno stile di vita e un carattere nazionale specifici, e in tal modo la possibilità di permeare quel prodotto di un’aura [Benjamin 1936-1937] riferita al paese d’origine della merce in questione. Se il Giappone, prima di anni recenti, per Iwabuchi aveva teso a proporre nei mercati occidentali merci che lo studioso definisce mukokuseki,22 negli ultimi anni invece la strategia è gradualmente cambiata fino quasi a invertirsi. Ciò non è stato ancora compreso in tutte le sue implicazioni da vari studiosi che trattano il tema. 22
Mukokuseki in giapponese significa ‘qualcosa o qualcuno privo di una qualche nazionalità’, e implica la cancellazione di caratteristiche etniche e l’assenza di una contestualizzazione [Iwabuchi 2002a: 28].
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I.3.1 Nazionalismo e cultura di massa nel Giappone contemporaneo
La dialettica culturale ed economica intessuta fra l’Occidente e il Giappone, vista dal punto di vista di quest’ultimo, è, in profondità, di natura identitaria. Che il Giappone sia percepito, a Ovest, come il più occidentalizzato dei paesi orientali, è cognizione acquisita. Meno però si discute, in Europa e in America, di come invece il Giappone si sia a lungo sentito come il più orientale dei paesi occidentali. Ian Buruma ha saputo descrivere chiaramente la questione. Nel 1905, quando il Giappone sconfisse la Russia riportando la prima vittoria militare dell’oriente contro l’occidente dopo secoli, Tolstoj la presentò come una disfatta dell’Asia da parte dell’occidente, dell’«anima asiatica» della Russia da parte del razionalismo occidentale che il Giappone voleva emulare. I tentativi di educare i coreani, i taiwanesi, i filippini, gli indonesiani, i birmani e gli altri popoli asiatici insegnando loro il giapponese, da un lato, la costruzione di strade, ferrovie e università, dall’altro, erano tutte imitazioni dello spirito civilizzatore europeo. Disperatamente desiderosi di essere accettati come pari dalle potenze imperiali occidentali, i giapponesi si infuriavano scontrandosi con il loro rifiuto e disprezzo. [Buruma 2007: 37]
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Il Giappone, dal termine del XIX secolo, visse sì, una fase di poderosa modernizzazione proprio grazie alla spinta delle potenze occidentali; il dibattito interno sullo statuto del paese nello scacchiere internazionale era comunque molto animato. In quegli anni si sviluppò un discorso orientalista autoctono, di segno molto diverso rispetto a quello portato avanti dagli studiosi e dai politologi occidentali (cfr. supra, Paragrafo I.1.2). Dagli orientalisti nipponici il dibattito fu condotto secondo due assi ideologici, in base ai quali il Giappone veniva visto o come civiltà/razza superiore a tutte le altre genti asiatiche, o come luogo e stato-nazione unico rispetto sia alle altre nazioni continentali sia alle potenze economico-militari occidentali [Robertson 1998: 99]. Entrambe le impostazioni, di fatto, erano mistificanti ed essenzialiste. Quando i problemi si acuirono alla fine degli anni Venti – l’economia ristagnava, in una condizione di dipendenza costante dall’Occidente e dalle sue risorse industriali – i giapponesi cominciarono a pensare che il paese fosse frenato da forze ostili che volevano farlo rimanere una nazione di seconda classe, in un periodo in cui le tendenze nazionaliste rivendicavano con foga la superiorità ontologica della nazione rispetto agli altri paesi asiatici e un’equiparabilità economica, culturale e politica alle grandi potenze europee e a quella statunitense; un motto di quegli anni era Datsua nyûô, ‘via dall’Asia, verso Ovest’ [Tanaka 1993]. A molti sembrò che il Giappone stesse attraversando una crisi di sovrappopolazione, da risol-
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vere con l’espansione militare. Il governo decise di dover affrontare il problema conquistando un impero adeguato, paragonabile a quello delle potenze occidentali. Frattanto il fervore nazionalista dei militari nipponici di stanza in Cina si stava diffondendo e si insinuò nel distretto della Manciuria, già giapponese, provocando a bella posta rivolte popolari che giustificassero l’invasione militare, esortata dalle pressioni di forti gruppi di latifondisti e industriali. Il Giappone valutò fosse giunto il momento di un’azione drastica e nel 1931 il distretto venne occupato e sottomesso completamente. L’evento creò in Giappone una psicosi di guerra e suscitò un’ondata di euforia nazionalista, che si tradusse in una politica espansionistica sul continente: la Marina era interessata a una strategia rivolta verso sud, al petrolio dell’Indonesia (allora conosciuta con il nome di Indie Orientali Olandesi) e alle basi della potenza navale angloamericana; l’Esercito puntava verso nord, per espandersi sul continente vicino e contrastare la potenza sovietica. Nel giro di pochi anni il Giappone avrebbe invaso Mongolia e Cina settentrionale, primo passo verso lo scoppio di un conflitto con il governo cinese che avrebbe costituito la premessa al coinvolgimento del paese nella Seconda guerra mondiale.23 Ciò che si può agevolmente aggiungere è una semplice nozione spesso data per scontata in molta sociologia classica a proposito dell’espansione dell’Occidente dall’Europa ai territori nei quali si consumò il colonialismo, ivi compresa l’Asia. A essere protagonista delle fasi di espansione e incontro con le popolazioni e le culture delle terre visitate e/o conquistate non è solo il culture clash ma qualcosa di più profondo, legato al fatto che l’Occidente si è sempre percepito come portatore di modernità, laddove ha sempre indicato i paesi non occidentali come basati su forme di civiltà premoderne. Tuttavia, come sottolinea Arnason, occidentalità e modernità non sono proprio sinonimi [Arnason 2006: 50]. Esaurita la spinta modernizzante dell’Occidente nei confronti delle civiltà non occidentali, con l’assunzione da parte di queste ultime – sebbene in modo ineguale da paese a paese – di sistemi e apparati moderni (politici, sociali, tecnologici), e dopo che si è dileguata l’impressione che si sia giunti a una sorta di civiltà mondializzata, l’antico schema del pluralismo rico23
Come noto, il capitolo imperialista-coloniale del Giappone in epoca moderna si era aperto con l’occupazione di Taiwan nel 1895 e il conflitto russo-giapponese nel 1904-1905, in seguito a cui i giapponesi avrebbero assunto il controllo strategico della Manciuria. Era poi proseguito con l’occupazione della Corea nel 1907-’10 e con un’insinuazione in Cina dal ’14; con l’occupazione effettiva della Manciuria nel 1931 e la creazione dello stato fantoccio del Manciukuo l’anno successivo; con l’avanzamento in Siam, Birmania, Filippine, Indie Olandesi e Indocina francese (il Manciukuo fu poi soppresso nel 1945). Nel 1940 il Primo Ministro Fumimaro Konoe ufficializzò il progetto già da anni noto come «grande area di co-prosperità panasiatica», nell’ambito del quale il Giappone avrebbe dovuto/voluto svolgere il ruolo di leader continentale rivolto al raggiungimento da parte dell’Asia della totale autonomia e autosufficienza nei confronti dell’Occidente.
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mincia a riaffermarsi [ibid.]. Per alcuni studiosi, fra cui il citato Huntington [1993], la situazione che si viene a creare durante i conflitti fra civiltà sarebbe perfino un ritorno ad atteggiamenti e comportamenti propri della premodernità dopo un interludio moderno. Questa linea argomentativa minimizza l’impatto attuale e continuato della modernità, per come intesa da Anthony Giddens [1990] nella sua fase avanzata e radicalizzata (cfr. supra, Paragrafo I.1.1), e al contrario enfatizza le fasi e gli aspetti dello scontro senza adeguatamente considerare la solidità delle strutture moderne al fine di salvaguardare gli assetti geopolitici ed economici del mondo. Ma si deve riconoscere che negli ultimi decenni si sono fatte avanti in modo sempre più frequente e distinto le voci localistiche in cerca dell’affermazione delle varie specificità nazionali, culturali, etniche.24 Ciò è accaduto con drammatica intensità nell’impatto fra certo Occidente e certo Islam, uno scontro che chiaramente non è solo fra interessi economico-territoriali ma fra concezioni del mondo; però esiste anche a livelli meno esasperati, meno rumorosi e finora non violenti. Se il primo tipo di conflitto è il risultato di divergenze che – se si usa la già ricordata tipologia di strutture di coscienza nelsoniane [Nelson 1981] – investono soprattutto il nomos e la polis, il secondo permea per lo più la struttura del logos e quella dell’eros; con effetti secondari, magari non vistosi ma presenti, sulle altre due. Credo sia il caso del Giappone del dopoguerra avanzato e di quello attuale e, con più enfasi, credo che sarà il caso del Giappone dei prossimi anni, se si vuol dare credito alle tendenze in corso. Come scrive Arnason, oggi non si dà più lo schema del clash of civilizations – dato che non esistono più civiltà completamente separate e ignote le une alle altre – bensì un «labirinto mobile di civiltà» [Arnason 2006: 52], tutte coinvolte in processi di trasmutazione verso la modernità o verso la postmodernità. In riferimento a quanto si diceva al Paragrafo I.1.2, un discorso simile può essere condotto in merito al contrasto fra l’opinione che certa vecchia 24
Non è un caso che negli anni Novanta il motto Datsua nyûô (‘via dall’Asia, verso Ovest’), che come s’è visto era in voga in Giappone negli anni Trenta, sia stato sostituito, in alcuni ambienti, dal suo opposto, Datsuô nyûâ, ‘via dall’Ovest, verso l’Asia’, e da altri che in vari modi enfatizzano un moto a ritroso rispetto all’espansione economica e culturale del Giappone verso Occidente, quali Nyûô nyûâ, ‘Verso Ovest e verso l’Asia’, per non escludere gli USA; Datsua nyûyô, ‘via dall’Asia, verso il Pacifico’; e infine Han’ô nyûâ, ‘Verso l’Asia, insieme all’Occidente’ [Iwabuchi 2002a: 14]. Il motto Datsua nyûô proviene da «Datsua-ron», noto saggio di uno dei maggiori fautori dell’ingresso in Giappone delle istituzioni e del pensiero occidentale durante il periodo Meiji, Yukichi Fukuzawa [1885; cfr. Nishikawa 1993]. Il problema delle mutevoli tattiche di dialogo fra il Giappone e le altre potenze continentali – Cina e Corea del Sud – oltre che con altri paesi quali l’India e l’Australia, è dato dalla consapevolezza del governo di Tokyo che lo scenario regionale è in complessa evoluzione, fra la sfida militare nordcoreana e la crescita economica e il riarmo cinesi, ragioni per le quali il rapporto esclusivo con gli USA forse non basta più ad assicurare una completa protezione militare, economica e politica [Dolphin 2007: 1].
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intellighenzia nipponica di destra ha dei giovani – ritenuti ignoranti circa il passato e dimentichi dei valori patrii, distratti dalle mode straniere – e l’autorappresentazione che gli stessi giovani giapponesi disegnano della propria generazione, la quale invece sarebbe allo stesso tempo ben consapevole della propria identità nazionale, ma non per questo chiusa alle influenze provenienti dall’esterno del paese. Il fatto che oggi i nazionalisti, da Shinzô Abe (Primo Ministro fino al 12 luglio 2007, giorno delle sue dimissioni)25 ai revisionisti, lamentino che il Giappone sarebbe in crisi d’identità, è in parte provocato dallo scontento circa le evoluzioni sociali della gioventù giapponese negli ultimi trent’anni. Cambiamento che potrà avere aspetti negativi, come l’iperconsumismo o l’emergere di sottoculture viste come devianti – gli otaku e gli hikikomori di cui si parla infra, Capitolo IV – ma che in buona sostanza è riuscita ad armonizzare la perpetuazione dei principali valori legati alla vita collettiva giapponese, come il senso d’identità nazionale, con l’accoglimento di tendenze, mode e stili di vita ripresi da culture straniere [Condry 2007]. Fa quindi un certo effetto che vari fumettisti di recente abbiano cavalcato l’entusiasmo per un ritrovato nazionalismo e ipernazionalismo da parte di certa classe politica di destra del paese, infervorata dalle annuali visite al tempio di Yasukuni26 da parte di Jun’ichirô Koizumi, capo del governo prima di Abe, e poi di Abe stesso. Visite che, unitamente al rinnovamento dei patti militari fra Giappone e USA con lo stanziamento di molti missili Patriot americani a Okinawa, hanno riacuito le tensioni con la Cina e la Corea del Sud [Buruma 2007: 34-35].27 Ciò è frutto di un populismo aizzato dai leader liberal-democratici giapponesi e dovuto anche al crescente risentimento, in buona parte della popolazione, per il preteso obbligo morale a manifestare ancor oggi, dopo sessant’anni dall’armistizio, un senso di colpa collettivo per le efferatezze perpetrate dalle forze imperiali durante la Guerra del Pacifico;28 un senso di colpa che secondo Abe era entrato in carica, dopo le volontarie dimissioni di Jun’ichirô Koizumi, nel settembre 2006. Dopo Abe, dimessosi a causa di vari scandali e in seguito alle elezioni della Camera alta che hanno assegnato la vittoria all’opposizione, il 25 settembre 2007 si è insediato a capo del governo Yasuo Fukuda, anch’egli liberal-democratico. 26 Quello di Yasukuni è un mausoleo scintoista di Tokyo dedicato ai caduti per la causa imperiale, nel quale sono onorati comprovati criminali di guerra, come il generale Hideki Tôjô e i membri del Kempeitai (una sorta di SS giapponesi). 27 «Nessuno in Giappone dubita dell’importanza di mantenere stretti legami con gli Stati Uniti: se c’è una lezione che Tôkyô ha imparato nel secolo scorso è che l’alleanza con la superpotenza del momento – Gran Bretagna nei primi decenni e Usa dopo il 1945 – offre le migliori garanzie di stabilità e prosperità» [Dolphin 2007: 1]. 28 Tema su cui cfr. Dower 1986, Tanaka 1996, Tarling 2001. Secondo Allison la rimozione di questo senso di colpa parte, nell’immaginario collettivo nipponico, dal film Gojira (1954), in cui il Giappone è attaccato da un fantasioso dinosauro investito dalle radiazioni atomiche [Allison 2006: 45]; da aggressore reale contro Cina e Corea, a vittima nella finzione. 25
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molti è ora tempo di mettere da parte per ricostruire un Giappone meno pacifista e che rivendichi il posto d’onore nello scacchiere asiatico. Dunque il ritorno all’Asia da molti professato in questo modo si tradurrebbe in una rentrée militarista, aggressiva e secondo la quale il Giappone sarebbe – di nuovo – un ente superiore agli altri paesi del continente. Questo punto di vista è implicitamente promulgato dai fumetti di Yoshinori Kobayashi (n. 1953), citato al Paragrafo I.1.2, il quale sostiene che molti dei massacri a opera dei giapponesi – come quello di Nanchino del 1937 – non siano mai avvenuti. Un altro fumettista, promotore di pensieri anticoreani, è Sharin Yamano, autore di Kenkanryû (‘Abbasso la moda coreana’), edito dalla piccola casa editrice Shinyûsha dopo i rifiuti di molti editori, che hanno definito il suo fumetto «storicamente non corretto» e «di destra» [Comics Corner 2006]. Pubblicato fra il 2005 e il 2006, tratta d’uno studente liceale che, alla vigilia del Mondiale di calcio del 2002, cerca di approfondire le sue conoscenze sui rapporti storici fra i due paesi ospiti, appunto la Corea del Sud e il Giappone. Il fumetto è stato ribattezzato, in inglese, Hate Korean Wave ed è al centro di un fragoroso dibattito anche al di fuori dei due paesi, fra le comunità di coreani e giapponesi sparse per il mondo; un dibattito agevolato e inasprito da internet (Figura 5). Vari commentatori giapponesi hanno suggerito che fra le ragioni dell’esistenza di tale manga vi siano un sostrato di insoddisfazione politica e un problema emergente d’identità nazionale in Giappone, un paese che per decenni ha rincorso i modelli occidentali perdendo parte della propria «asiaticità» [Onishi 2005, Rampini 2005b]. Il risultato è che sono già stati realizzati da coreani vari fumetti in risposta a Kenkanryû.29 Ciò è un regresso rispetto al fatto che in anni recenti la pop culture giapponese aveva ricevuto in Corea del Sud crescenti consensi, dopo decenni di isolamento – mi riferisco al bando, rimosso nel 2004 in via definitiva, per i prodotti culturali nipponici. Queste tensioni stanno incentivando le idee nazionaliste da ambo le parti; invece negli anni della Guerra fredda il problema ideologico riferito ai flussi culturali era scarso o nullo, perché scarse o nulle erano le transazioni culturali fra le nazioni le cui relazioni politiche erano fredde o conflittuali [Kim 2007].30 I più popolari sono Hyeomillyu (‘Abbasso la moda giapponese’, 2006), autoprodotto da Yang Byieong-seol, e un altro fumetto con lo stesso titolo di Kim Sung-mo, uscito nello stesso anno e di più efficace fattura tecnica e argomentativa; è interessante annotare che l’opera di Kim Sung-mo è apparsa in Giappone presso lo stesso editore di Kenkanryû. Yamano, sempre nel 2006, ha poi replicato con Kenkanryû 2. Sulla ricezione dei fumetti giapponesi in Corea cfr. Yamanaka 2007. Sia nel titolo giapponese sia in quello coreano il riferimento letterale è a un’«ondata» di influenza culturale che starebbe invadendo rispettivamente l’un paese con i prodotti culturali dell’altro, e viceversa. Cfr. infra in questo stesso Paragrafo. 30 La questione della circolazione di prodotti e idee culturali dal Giappone verso l’esterno si può collegare a un fatto a suo modo a essa simmetrico, quello dello scarso afflusso di 29
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Figura 5 Copertine di Kenkanryû e del suo sèguito Kenkanryû 2, i fumetti anticoreani di Sharin Yamano. Kenkanryû © Sharin Yamano / Shinyûsha.
Il nazionalismo di rinnovata costituzione che ha cominciato a farsi strada in Giappone non pesca comunque solo dalle cause illustrate finora. Emerge in giovani e meno giovani anche da motivi ben più prosaici e concreti, riguardanti la vita di tutti i giorni e le piccole finanze. La recessione economica in atto in Giappone fin dallo scoppio della bolla finanziaria nel 1990 ha in effetti prodotto conseguenze di rilievo sul piano della fiducia e del sistema sociale. Cioè a dire, un notevole calo della solidità del sistema lavorativo a tempo pieno; il dilagare dei lavori part-time con scarse possibilità di sbocco o carriera; l’incremento della piccola impresa anche a conduzione familiare o individuale, promossa da persone che si reinventano con lavori più fantasiosi. Anche perché, come nota Chris Anderson [2003], quando si è più piccoli si è anche più agili, ed è più semplice accollarsi rischi in imprese lavorative più audaci di quanto non siano invece le consuete iniziative nella grande impresa. Ciò sta producendo non solo esiti negativi ma anche positivi, come un uso più frequente di creatività e una maggiore autonomia d’azione, in microimprese nate per persone verso il paese. In Giappone non c’è una vera politica dell’immigrazione, il che potrebbe apparire un controsenso, data la capacità ricettiva del Giappone nei confronti delle influenze provenienti dall’esterno. In convergenza con questo dato va ricordato che eccetto gli studiosi, i turisti molto motivati o le sottoculture che nel mondo si sono appassionate al Giappone a partire dalla sua pop culture, non sono poi molti gli occidentali che desiderano muovere nel Sol Levante per visitarlo e ancor meno quelli che auspicherebbero di andare a risiedere laggiù. Sul tema delle identità nazionali in zone di convivenza fra giapponesi, cinesi e coreani rispetto al consumo di prodotti culturali di tutte e tre le nazionalità, cfr. l’illuminante Sasaki 2005.
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sopperire alle falle del sistema lavorativo tradizionale. Ma, va ribadito, sta provocando anche un forte calo di fiducia nelle istituzioni e un aumento, in vari settori della società, di sentimenti nazionalisti/localisti. E che alcuni osservatori tendano a enfatizzare gli aspetti positivi del reinventarsi del Giappone come «la nazione più cool della Terra» [Faiola 2003] non cambia la sostanza dei fatti: un’economia ricca, sì, ma in crisi. A detta di alcuni osservatori, come lo stesso Iwabuchi [2007], questo nazionalismo soft diffuso fra i giovani e fra molti operatori culturali anche di alto livello è stato generato dalla diffusione della popolarità in Asia e in Occidente, dai primi anni Novanta, dell’immaginario nipponico e in generale della sua cultura di massa. Questo processo di espansione e consenso della pop culture nipponica sembra avere ispirato cioè un innalzamento dell’autostima e di conseguenza, negli ambienti politici e diplomatici, l’idea di utilizzare la J-pop come bandiera per la promozione degli interessi nazionali [ivi].31 Tale promozione ha avuto luogo a Taiwan, Hong Kong, in Cina e specialmente in Corea del Sud. L’espansione ha intensificato in certi ambienti un orgoglio patrio che, come s’è già visto, pesca dall’antica idea che il Giappone sia un corpo separato dal resto dell’Asia, superiore agli altri paesi del continente. Si deve rilevare una controtendenza positiva. I flussi culturali non sono unidirezionali; sono anche altre le industrie culturali emergenti in Asia che si muovono verso il Giappone. Tale è il caso della Corea del Sud, che negli ultimi vent’anni è emersa con forza, tanto che si parla di Hallyu o ‘onda (moda) coreana’ per definire l’influenza della sua cultura. Influenza esercitata pure sul Giappone: non solo sulle massaie e i giovani tramite le coinvolgenti soap-opera (Korean drama) [Clements – Tamamuro 2003] e i cantanti di musica leggera, ma anche su molti fan che, desiderando approfondire la conoscenza del paese da cui arrivano i prodotti e i personaggi da loro amati, studiano il coreano, approfondiscono la storia delle relazioni fra la Corea e il Giappone, e vengono a sapere del controverso passato bellico e coloniale di quest’ultimo, arrivando a comprendere con empatia le rivalità e i rancori fra le due nazioni ancor oggi.32 In questo modo, sebbene il fenomeno non possa dirsi ancora universalmente diffuso fra i giapponesi, è come se il sentimento nazionalistico venisse attenuato dal contatto con altre culture e con le persone che a esse appartengono.33 Questo tema, in particolare, è ripreso nelle Conclusioni. I forum giapponesi abbondano di discussioni fra appassionate di soap come Winter Sonata e altri sceneggiati coreani. 33 Questa dinamica sembra in tal senso avvalorare l’ipotesi del contatto, classica nell’ambito degli studi sul pregiudizio e gli stereotipi e proposta per la prima volta in modo sistematico da Gordon W. Allport [1954]. 31 32
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I.3.2 Culture inodore, culture odorose e culture profumate
Si è già definito il concetto di odore culturale secondo l’accezione fornitane da Iwabuchi nel suo saggio Recentering Globalization [2002a], il quale parte dalla definizione giapponese di mukokuseki. Iwabuchi sostiene che i prodotti tecnologici e culturali che il Giappone esporta in tutto il mondo sarebbero in vario modo «inodore». Questo perché, a differenza dei prodotti culturali e delle più diverse merci di altri paesi – Iwabuchi si riferisce agli Stati Uniti, ma qui si può estendere il campo, per esempio, alla moda e ai vini italiani o francesi, o alla Vespa – per il sociologo giapponese quelli del suo paese in molti casi non emanano segni che indichino uno stile di vita nipponico, o anche soltanto un riferimento a un’intrinseca giapponesità; diversamente accade per un qualsiasi fast food, o le scarpe da pallacanestro Nike, o i pantaloni street style, tutti oggetti merceologici e culturali che proclamano a gran voce la loro americanità e promettono vari tipi di sogni ai fruitori. Iwabuchi opera inoltre una distinzione interessante fra odore e fragranza, concetti legati al prestigio di cui gode il paese da cui proviene una data merce culturale. Per lui il Giappone non gode di una forte considerazione in Occidente in quanto paese esportatore di beni che siano ammirati in quanto tali e non solo per un valore strumentale; merci giapponesi diffuse come il Walkman (e simili) sono usate in Europa e negli USA per ascoltare musica non nipponica ma locale, e se ne ignora perfino l’origine nazionale, nonostante che il concetto di musica portatile, inventato nel 1979 da tre progettisti giapponesi, abbia rivoluzionato in tutto il mondo sia le modalità d’ascolto della musica sia quelle di relazione fra le persone e il loro spazio urbano [Hosokawa 1981]. Se merci di questo tipo sono dunque del tutto inodore, altre, come le motociclette Kawasaki o Honda – che fin dal nome tradiscono la loro nipponicità – al massimo diffondono un odore che le fa riconoscere in quanto giapponesi, ma senza marche di particolare pregio culturale: i giapponesi come bravi tecnici, ma con poco stile. Si esclude così la possibilità che il Giappone possa emanare anche una vera e propria fragranza culturale, un aroma che desti ammirazione negli osservatori/consumatori occidentali. Iwabuchi però, da un punto di vista chiaramente «troppo» giapponese, non si accorge che l’universo di segni che emana da non poche merci nipponiche ne tradisce l’origine geografica e culturale. Iwabuchi segue cioè il ragionamento di Hoskins e Mirus [1988], che attribuiscono il successo di oggetti giapponesi come il citato Walkman a un’effettiva originalità, ma senza che vi siano abbinati in modo esplicito stili di vita culturalmente incorporati. Ora, finché nella categoria del mukokuseki sono annoverati il Walkman della Sony o le motociclette Suzuki e Yamaha, il discorso di Iwabuchi funziona alla perfezione. Ma poiché lo studioso
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Figura 6 Una delle innumerevoli applicazioni commerciali basate su Hello Kitty, la celeberrima gattina bianca e rosa creata nel 1974 da Ikuko Shimizu e nota in tutto il mondo come uno dei maggiori emblemi della pop culture giapponese dai tratti kawaii, ‘carini’. Hello Kitty © Sanrio. Figura 7 Licca-chan (a volte trascritta come Ricca-chan), l’equivalente giapponese della statunitense Barbie, amata in Giappone al punto che nella copertina riportata essa è utilizzata come testimonial di prodotti non specificamente destinati alle bambine. Licca-chan © Takara Toys e ulteriori aventi diritto.
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giapponese include in questa lista di prodotti anche i fumetti e soprattutto l’animazione, una parte del suo discorso credo vada rivista. Infatti la scarsa riferibilità all’universo giapponese di un Walkman o di una motocicletta non ha molto a che spartire con l’odore culturale giapponese che invece effonde da prodotti come gli anime e i manga, per le ragioni che saranno esposte. Iwabuchi non è il solo studioso giapponese a vedere del mukokuseki dove non ve n’è: anche Eiji Ôtsuka e Toshiya Ueno ritengono che gli anime e i videogiochi giapponesi siano amati nel mondo per una loro pretesa neutralità [cit. in Iwabuchi 2004b: 61], laddove invece l’effluvio culturale sussiste eccome, come ha mostrato Chris Kohler nel suo intrigante saggio sui videogiochi giapponesi, che persistono nel comunicare la loro nipponicità anche qualora gli sviluppatori americani intervengano pesantemente sui testi e sul segno dei personaggi [Kohler 2005]. È certo vero che nell’universo del merchandise giapponese convivono strategie di plateale mimetizzazione a-culturale, rientranti a pieno titolo nel mukokuseki, e strategie sincretiche, di comunione/fusione di più piani di suggestione culturale. Quest’ultimo è il caso di due prodotti emblematici della pop culure giapponese indirizzata ai piccoli consumatori, i personaggi Hello Kitty – la gattina kawaii – e Licca-chan – la bambola più famosa dell’Arcipelago.
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Hello Kitty (Figura 6) è progettata come apolide: il suo design appare giapponese solo a chi conosca bene le grammatiche visuali dei manga e degli anime, e dunque anche dello stile kawaii, di cui si parla al Capitolo IV. Yûko Yamaguchi, una delle principali progettiste degli ambienti e dei gadget della gattina bianca e rosa, intervistata da McGray [2002] ha affermato che Hello Kitty avrebbe, rispetto al tema della nazionalità, una sorta di esistenza parallela: nel suo universo fittizio, Hello Kitty è londinese, eppure è amata nel mondo reale proprio per la sua giapponesità. Sembra cioè che il personaggio della Sanrio ripercorra il sentiero di Licca-chan, la celebre bambola della ditta Takara che dal 1967 è amata dalle bambine giapponesi quanto la Barbie della Mattel lo è dal 1959 da quelle americane (Figura 7): Licca-chan, nel suo retroterra narrativo, è una «meticcia», nata da mamma giapponese e papà francese, eppure le bambine dell’Arcipelago l’hanno sempre individuata come del tutto nipponica e si sono identificate, in lei, come bambine in toto giapponesi [Allison 2006: 143-48].34 La fusione di elementi occidentali e orientali in Hello Kitty e Liccachan serve a rendere esotici i prodotti in Giappone e così a farli vendere, a renderli appetibili rispetto alla percepita «monotonia», per il pubblico giovanile – molto ricettivo di tutto quanto faccia profumo di occidentalità – di un prodotto che sia soltanto giapponese. Nello stesso tempo, la parte più nipponica dei due prodotti – così come di molti altri, qui non richiamati solo per semplicità – si rifà a uno standard a cui i consumatori giapponesi sono giocoforza accostumati. Si delinea così un doppio piano di percezione: un aroma culturale che sa di straniero, di occidentale, di cool, e un basamento standard, familiare, rassicurante. Quest’ultimo, nel caso di Hello Kitty, è il suo disegno kawaii; per Liccachan è la morfologia discreta, casta, con la bocca chiusa (segno di sobrietà e purezza) rispetto all’anatomia e ai tratti del volto di Barbie, ritenuti in Giappone dalle bambine, e soprattutto dalle mamme, l’una troppo procace e gli altri troppo sensuali, a partire dalla bocca semiaperta invece che chiusa [ivi: 146]. Una frase per enucleare la parziale confutazione delle opinioni di Iwabuchi è che l’odore trasuda sempre, almeno un po’; specie se ad annusarlo siano soggetti esterni al contesto d’origine del prodotto che si presume asettico. Un dialogo rivelatore di queste divergenze nella percezione fra gli osservatori occidentali e giapponesi circa la categoria del mukokuseki è il seguente, fra lo scrittore Peter Carey e l’autore di anime Yoshiyuki Tomino, creatore della citata serie Kidô senshi Gundam, nella 34
In questi due percorsi, peraltro, si fa viva una strategia, pianificata dal marketing delle due aziende, che ha a che fare con la storia del Giappone nel suo rapporto con l’Occidente, visto sin dalla fine dell’Ottocento come luogo fascinoso e a cui guardare con ammirazione. L’argomento è già stato toccato nei Paragrafi precedenti.
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quale lo scenario è il Sistema solare e i personaggi non sono collocati culturalmente con la stessa precisione spesso accordata alle ambientazioni degli anime. Nel dialogo Tomino spiega il proprio tentativo – a suo avviso riuscito – di rendere universali i personaggi della saga interplanetaria, ma Carey appare genuinamente scettico.
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«[…] Mr Tomino […] tried to avoid ethnicity, and so replaced common sense, which is based on culture, with general sense, which is a kind of universal sense that all human beings have.» […] «Mr Tomino tried to remove all cultural elements.» «Perhaps,» I [Carey] suggested, «he is being universal in a Japanese way.» Mr Tomino was nice enough to laugh. «But when a character speaks,» I insisted, «and they speak the Japanese language, surely the way they speak must communicate some social value? If so, we foreigners can’t hear that. Might a character’s voice not suggest a place of birth or a level of education?» «Ahhhhh,» said Mr Tomino as if I had understood nothing. «Mr Tomino thinks,» said [the translator], «that there is maybe something in your own character which is interested in national identity. As for Mr Tomino, he has avoided it completely. He has always tried to make his characters as standard and as universal as possible by not giving them local colour or national colour or ethnic colour.» [Carey 2003: 74]
Credo si possa concludere, per il momento – il discorso viene ripreso in altri punti del libro – che v’è una visuale profondamente diversa fra occidentali e giapponesi a proposito di questo tema. Ciò è particolarmente evidente nel caso di nazioni che, come l’Italia, si sono abituate agli stili di anime e manga fin dal termine degli anni Settanta e, anche in presenza di prodotti audiovisivi giapponesi i cui produttori abbiano cercato di ridurre o mimetizzare i tratti di nipponicità – in ordine, per esempio, a una presuntamente più facile esportabilità all’estero – i fattori estetici, registici, dinamici di giapponesità sono intuitivamente riconoscibili. La grande attenzione al concetto di mukokuseki è dovuta, è molto facile capirlo, al fatto che la ricezione dell’immaginario giapponese in Italia non sarebbe stata la stessa se il pubblico italiano non avesse recepito gli anime prima, e i manga poi, quali prodotti chiaramente riconosciuti come nipponici, e riferiti quindi a un universo culturale, estetico e di senso del tutto nuovi e diversi.
Anime e manga che quindi, nel prossimo Capitolo, vengono delineati nelle loro principali caratteristiche, rispetto alla tradizione grafica occidentale e nel loro arrivo in Italia.