ESPRIT
COLLANA DI STUDI SU MEDIA E IMMAGINARIO
diretta da Sergio Brancato e Gino Frezza
Giorgio Signori
Giorgio Signori (Napoli, 1979) ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale, specializzandosi in Sociologia della comunicazione, presso l’Università «Federico II» di Napoli. Collabora con la cattedra di Sociologia dell’industria culturale del CdL in Culture digitali e della comunicazione. Studia i rapporti fra le forme del linguaggio audiovisivo, i sistemi dei media e l’organizzazione sociale, concentrandosi su cinema, televisione e new media. Ha scritto saggi per pubblicazioni nazionali, internazionali e on-line, tra cui Il rovesciamento della fabula nel cinema di Tim Burton, Documentari del non-vero: la propaganda durante la Guerra Fredda, Loving the Bomb: Cold War audiovisual propaganda in the United States, Post-serialità: dal racconto seriale alle narrazioni distribuite.
Giorgio Signori
Nel mondo dell’animazione commerciale di ambito televisivo un molto speciale è occupato dalle sit-com. Ilaièloro ruolo specchio satiricoinecon di commento di Matt costume della società e dellama famiglia eentra dei loro rispettivi einteressanti virtù, veicolato e amplificato dal mezzo televisivo, agli Antenati Hanna-Barbera (anni Sessanta), ma dalla fine anniparlano Ottanta, I Simpson di Groening, che sit-com di diritto fra ivizi generi statunitensi quali Irisale Griffin eposto South Park –sit-com per citare solo le più famose oltre Simpson –didegli non solo modo spregiudicato della civiltàquello occidentale fanno utilizzando tutti ilepiù registri deldel comico, da quelli piùSerie semplici a quelli più raffinati, arrivando a di riscriverne alcuni meccanismi, con l’obiettivo – spesso ben riuscito – di sorprendere anche lo spettatore piùl’animated esperto. La fabbrica cartoon ètelevisivi. uno studio approfondito dei trequesto aspetti fondativi della animata: quello produttivo (perché eche come vengono realizzati questi telefilm d’animazione), narrativo e lo linguistico (ivi comprese necessarie traduzioni/localizzazioni dal contesto statunitense a quello italiano) e quello dei meccanismi del comico che agiscono visivamente sul corpo di questi cartoon e che solleticano la mente dei telespettatori. Giorgio Signori, esperto di linguaggi televisivi, fornisce con libro un solido strumento conoscitivo e di approfondimento sarà utile a studenti e studiosi, a curiosi e appassionati e che si configura come un nuovo punto di partenza per lo studio dei linguaggi e delle strategie – dentro e fuori lo schermo – della fiction animata.
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LA FABBRICA DEL CARTOON
La fabbrica del cartoon è uno studio approfondito dei tre aspetti fondativi della sit-com animata: quello produttivo (perché e come vengono realizzati questi telefilm d’animazione), quello narrativo e linguistico (ivi comprese le necessarie traduzioni/localizzazioni dal contesto statunitense a quello italiano) e quello dei meccanismi del comico che agiscono visivamente sul corpo di questi cartoon e che solleticano la mente dei telespettatori. Giorgio Signori, esperto di linguaggi televisivi, fornisce con questo libro un solido strumento conoscitivo e di approfondimento che sarà utile a studenti e studiosi, a curiosi e appassionati e che si configura come un nuovo punto di partenza per lo studio dei linguaggi e delle strategie – dentro e fuori lo schermo – della fiction animata.
INDUSTRIA, LINGUAGGI E COSTRUZIONE SOCIALE DEL COMICO NELLE SIT-COM ANIMATE AMERICANE PER ADULTI
Nel mondo dell’animazione commerciale di ambito televisivo un posto molto speciale è occupato dalle sit-com. Il loro ruolo di specchio satirico e di commento di costume della società e della famiglia e dei loro rispettivi vizi e virtù, veicolato e amplificato dal mezzo televisivo, risale agli Antenati di Hanna-Barbera (anni Sessanta), ma è dalla fine degli anni Ottanta, con I Simpson di Matt Groening, che l’animated sit-com entra di diritto fra i più interessanti generi televisivi. Serie statunitensi quali I Griffin e South Park – per citare solo le più famose oltre ai Simpson – non solo parlano in modo spregiudicato della civiltà occidentale ma lo fanno utilizzando tutti i registri del comico, da quelli più semplici a quelli più raffinati, arrivando a riscriverne alcuni meccanismi, con l’obiettivo – spesso ben riuscito – di sorprendere anche lo spettatore più esperto.
LA FABBRICA
DEL CARTOON
INDUSTRIA, LINGUAGGI E COSTRUZIONE SOCIALE DEL COMICO NELLE SIT-COM ANIMATE AMERICANE PER ADULTI Prefazione di Gino Frezza
ESPRIT
Collana di studi su media e immaginario diretta da Sergio Brancato e Gino Frezza
Giorgio Signori
La fabbrica del cartoon
Industria, linguaggi e costruzione sociale del comico nelle sit-com animate americane per adulti
Prefazione di Gino Frezza
Guida per la catalogazione bibliografica Giorgio Signori, 1979– La fabbrica del cartoon. Industria, linguaggi e costruzione sociale del comico nelle sit-com animate americane per adulti / Giorgio Signori; Prefazione di Gino Frezza Include Riferimenti bibliografici p.cm.–(Nuovi media–Arte contemporanea–Videoarte– Ventesimo secolo) ISBN-13 GS1 978-88-97165-12-5 1. Cinema d’animazione—Animazione—Cartoon—Disegni animati—Televisione. 2. Arti popolari—Mass media—Telefilm—Sit-com. 3. Intrattenimento—Comicità—Commedia. Collana «esprit» n. 2 I edizione: marzo 2011 Direzione scientifica: Sergio Brancato e Gino Frezza Editor di collana: Marco Pellitteri Copyright © Tunué s.r.l. Via dei Volsci 139 04100 Latina – Italy tunue.com | info@tunue.com Direttore editoriale: Massimiliano Clemente Grafica, impaginazione e copertina: Tunué S.r.l. Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi. ISBN-13 GS1 978-88-97165-12-5
INDICE
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Prefazione, di Gino Frezza La fabbrica del cartoon
3 Introduzione Per una mitologia del cartoon 12 Ringraziamenti 12 Avvertenza editoriale Parte I – Sistemi, tecnologie, conflitti 15 17 20 28
I Una tecnica per un modello, un modello per il mercato I.1 Animazione tra pre-cinema e cinema I.2 Stili e tecniche dall’artigianale all’industriale I.3 Nel regno dell’animazione digitale: i mondi del vero e del non-vero 33 I.4 Gli anni Novanta: i cartoon e le trasformazioni del sistema televisivo americano 39 I.5 Nuovi attori sugli scenari dell’animazione: Cartoon Network e Mtv 45 I.6 Fox: da attore emergente a protagonista I.6.1 La Fox e i Simpson 48
50 I.6.2 King of the Hill, Futurama, I Griffin,
American Dad!, The Cleveland Show
54 I.7 Davide contro Golia: Comedy Central 56 I.7.1 South Park e le altre serie 61 II Le serie animate «per adulti» Genesi, caratteristiche e sviluppo 64 II.1 I Simpson: da esperimento a istituzione 69 II.2 Una famiglia veramente nucleare 80 II.3 Dal domestic all’outsourcing: il modello industriale dei Simpson 85 II.4 South Park, ovvero del ribaltamento 92 II.5 South Park: industriale o artigianale? 99 III Conflitti culturali L’animazione come spia del cambiamento 100 III.1 L’animazione e il conflitto culturale negli Usa 105 III.2 La de-tabuizzazione dei media e la cosiddetta postmodernità 111 III.3 «You can’t say that on television»: cultura e tabù 117 III.4 Religione e cartoon 117 III.4.1 God, the Devil and Bob 119 III.4.2 Popetown 123 III.4.3 Il famigerato episodio Bloody Mary in South Park 125 III.5 Il corpo: risorsa e imbarazzo del cartoon 126 III.5.1 Risate e scorregge 128 III.5.2 La sessualità de-tabuizzata 133 III.5.2.1 Quando il troppo è troppo: Princess 137 137 143 148 153
IV I cartoon e il sistema televisivo italiano IV.1 Animazione in Italia: l’occasione mancata IV.2 Il contesto del sistema televisivo italiano IV.3 I Simpson in Italia: importazione e posizionamento IV.4 Traduzione, adattamento e contesto culturale: I Simpson e South Park
153 156 161
IV.4.1 Cacchio, I Simpson! IV.4.2 Hanno censurato South Park, brutti bastardi!
IV.5 Localizzazione, culturalizzazione: un problema aperto
Parte II – Forme, linguaggi, modelli 175 V La costruzione sociale del linguaggio del comico nelle serie animate per adulti
176 V.1 179 V.2 183 V.3 186 V.4 188
Per una teoria sociale del comico: Bachtin Il riso bergsoniano La dimensione psicologica e l’inconscio: le teorie della superiorità… …e della liberazione V4.1 Il motto di spirito e il gioco linguistico
191 VI L’intratestualità insufficiente: dentro, fuori e intorno al testo comico 191 VI.1 Approcci testuali al comico: codici, violazioni e isotopie 199 VI.2 Ambiguità diegetiche nel cartoon 202 VI.2.1 Suono e spazio: l’inganno del racconto audiovisivo 208 VI.3 Toilet humour: la componente scatologica del comico 212 VI.4 Parodia e citazione: riscoperta e rimediazione dell’immaginario condiviso 218 VI.4.1 La frammentazione del racconto nei Griffin 221 VI.5 Strutture temporali: le serie a episodi e la serialità latente 225 VI.5.1 Il canone ricomposto: finali a non-sorpresa 232 VI.5.2 Corteggiare la morte, ovvero Sisifo e Kenny 237 Conclusioni Per un’idea di non-morte 243 Riferimenti bibliografici
PREFAZIONE
di Gino Frezza
Il cinema d’animazione ha accompagnato la storia e la formazione delle culture dell’audiovisivo fin dalle origini. Ma è stato per lungo tempo, almeno per oltre mezzo secolo, come accantonato ed emarginato in un limbo nel quale parevano legittimati a entrare soltanto alcuni. Dal lato professionale, sembrava interessare solo gli autori e gli sperimentatori di forme dei linguaggi audiovisivi: dunque, da questo lato, il limbo del cinema d’animazione pareva abitato quasi esclusivamente dai tecnologi e dagli artigiani dell’immagine visiva dinamica, con l’unica eccezione di quell’autore, ossia Walt Disney, che era riuscito a fare di questo settore della comunicazione filmica un distretto portante dell’industria dei media. E dal lato del mondo dei pubblici, pareva che soltanto i bambini avessero diritto e pienezza di accesso in un universo che mostrava tutte le fantasmagorie della fiaba, e di saper dunque rilanciare i temi dell’apprendimento, in una chiave insieme meravigliosa, terrorifica, sincretica. Nella quale, però, potevano fondersi idee da condurre a maturazione nel futuro. Ne è passato di tempo, da questa inconsapevolezza o limitazione concettuale del ruolo dell’animazione nelle culture dell’audiovisivo, e molte cose sono cambiate, sia nella storia della comunicazione nel corso del Novecento e oltre, sia nell’insieme delle culture e degli usi odierni del cinema d’animazione. Basti pensare che, fino ai primissimi anni Sessanta, il film d’animazione (nella fattispecie particolare del cartoon comico e narrativo) aveva il suo luogo unico di esistenza nelle sale di cinema, dove,
Prefazione
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solo in casi ben definiti, costituiva una occasione di rappresentazione e costruzione del senso destinata al grande pubblico (segnatamente, di nuovo, con i film di Walt Disney o con quelli dei fratelli Fleischer). Nelle sale, infatti, esso aveva (con la sopradetta «eccezione» dei lungometraggi disneyani e di pochissime altre opere) quasi sempre il ruolo di accompagnamento minore – una sorta di intervallo piacevole e tuttavia destinato al consumo distratto – dello spettacolo filmico principale. Poi, dalla metà dei Sessanta e soprattutto dagli anni Settanta, lo scenario dei media muta decisamente, e l’animazione – prima, e senz’altro con maggiore acume intellettivo, di altre forme e generi espressivi – mostra complessivamente uno statuto intra-mediale e inter-mediale, fra cinema e televisione, che cambia le forme di spettacolo e palesa la sua capacità di venire considerato e vissuto come scena collettiva del presente. È l’animazione televisiva che massimamente conduce in porto questo processo: dagli anime giapponesi (che in Italia deflagrano nella coscienza del pubblico e nella formazione generazionale di bambini e adolescenti) alle serie animate statunitensi, all’animazione pubblicitaria (quest’ultima sempre sul punto di dar luogo a sperimentazioni incessanti della rappresentazione mediale del mondo sociale). Si può dire altrimenti: dalla lunga fase (dalle origini del cinema fino all’avvento della tv dopo la Seconda guerra mondiale) che collocava l’animazione del cinema e della prima televisione attorno alla ricerca di un rapporto fra forma di comunicazione e immaginario pubblico centrato principalmente sulla dimensione estetica (di qui l’interesse per il valore espressivo dei film animati di Walt Disney da parte di grandi autori e studiosi del livello di Walter Benjamin, Sergej M. Ejzenštejn, Giacomo Debenedetti), si giunge a quella che incide fortemente proprio sulla dimensione complessiva di una crescita sociale e di un immaginario pubblico, per il quale incessantemente si riformula il rapporto fra forme di rappresentazione e vissuti, fra dinamiche sociali e dinamiche interne ai media, fra idee e culture e i modi con cui la comunicazione (audiovisiva, multimediale, generazionale e intergenerazionale ecc.) interviene a definire proprio le forme di vita. Il libro di Giorgio Signori coglie benissimo questo cambiamento epocale, e non solo nella dimensione che riguarda la storia di un genere narrativo-audiovisivo appostato fra cinema e televisione, ma proprio sulla linea che conduce a considerare l’animazione, in alcune sue fondamentali serie (I Simpson, South Park, I Griffin, fra altre prodotte per la tv), universi in grado di costituire mondi possibili in cui riconoscersi, espressioni di mentalità collettive radicate in un presente storico e in vissuti dallo spessore socio-culturale che non può essere colto se non in tali forme mediali. Quasi intraducibili, addirittura, perché singolari nelle forme di produzione, nei progetti ideali che le sorreggono, nella capa-
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cità di dissacrare e, insieme, ricostruire – seppure da altre angolazioni cognitive – l’immagine e, insieme, il senso stesso del presente. Queste serie animate testimoniano del mutamento di paradigmi, idee e mentalità generali (talora non più solo nazionali ma sovranazionali nello spazio; e intergenerazionali in quanto coinvolgono, nel tempo, varie generazioni di spettatori), ossia di tensioni e sintomi della psicologia sociale e della relazione stessa fra i milioni di sé individuali e l’altro. Questa speciale forma della testimonianza (con il peculiare tratto di non essere mai noiosa, anzi è arguta, divertente, esilarante) ha soprattutto a che vedere con gli habitat delle metropoli connotate dalla presenza e dall’uso delle tecnologie della comunicazione e dalla dispersione dei valori comunitari. Ma altresì formula e rivendica nuove idee e atteggiamenti sul mondo, disincanti che hanno la forza di quelle percezioni traumatiche dell’epoca contemporanea che, eppure, risultano comunque significative di una volontà di più che vivere, anziché di sopravvivere. Soltanto grazie a questo suo carattere, la testimonianza resa da tali serie dell’animazione trova e rintraccia forme adeguate di nuova mitologia. Giorgio Signori coglie l’intera complessità del materiale mediale che indaga e che tratta, con linguaggio appropriato e convincente, mai semplicistico e banale nelle argomentazioni. Misura e rilancia, per intero, la sfida di ricostruire i fili che, da un lato, collegano queste espressioni dei media audiovisivi moderni alle ossessioni e alle forme culturali di un passato forse non del tutto redento (in primo luogo: il comico, preso in carico da Signori in tutta la valenza epistemologica di un punto di vista che riesamina e riprende il lavoro svolto da autori come Bergson, Bachtin, Freud) e, dall’altro, che vede prefigurate, nelle serie animate come i Simpson e South Park, varie forme (corte, sincopate, dissacratorie) dei linguaggi audiovisivi che oggi in buona parte occupano le reti multimediali e i new media. D’altronde, Signori puntualizza una serie di elementi costruttivi e l’impianto strutturale che fanno scaturire – si tratta di una derivazione non casuale – forme narrative animate come i Simpson da una stagione quasi irripetibile della sit-com statunitense degli anni Settanta-Ottanta, ossia da un genere che è la quintessenza dei transiti di vita mai a sufficienza esplorati fra età moderna e postmoderna. Figure produttive cruciali per la serie ideata dai personaggi di Matt Groening danno così una impronta di senso molteplice, rifratto in direzioni che vanno verso la critica politica o la decostruzione semantica del potere e delle ideologie, tanto efficace quanto, talvolta, «duro» da afferrare nella sua densità (in tal senso non deve sottovalutarsi il contributo fornito ai Simpson dalla supervisione produttiva ed esecutiva di uno straordinario autore della commedia americana contemporanea, James L. Brooks).
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Quindi, lo spaccato mediologico attraversato da Signori non è univoco e non è solo dentro i processi tecno-espressivi che caratterizzano vari, egregi, prodotti dell’animazione. Non si limita a descrivere le fasi già complesse dell’ideazione e della realizzazione dei loro formati espressivi, né a dipingere il ruolo e la caratura che essi occupano nelle strategie di una importante fase della comunicazione televisiva e posttelevisiva. Fa qualcosa (direi: molto) di più. Anzitutto, riconverte lo sguardo analitico, l’impostazione metodologica, delle indagini tradizionali dei prodotti televisivi visti dalla stereotipica angolazione dei cultural studies, per esempio. Dà quella che si potrebbe definire, senz’ombra di dubbio, una analisi qualitativa dell’animazione, ma non nei termini della corrispondenza fra rappresentazioni e contenuti narrativi socializzati, o in quelli dei comportamenti e delle affezioni misurabili secondo rilievi che restano esterni al carattere proprio degli oggetti mediali indagati, rilievi pertanto discutibili nella loro pertinenza. L’analisi qualitativa di Signori ha un tenore multidimensionale, per il crocevia attraversato e portato a un grado di soluzione soddisfacente. Tale crocevia riguarda: a) uno spaccato del cambiamento della società dei media, in relazione con l’interna capacità che esso rivela di poter mutare b) l’intero asse delle relazioni sociali in un momento storico determinato, assieme a c), la prefigurazione e sperimentazione di angolazioni mentali, di immaginazioni individuali e sociali, che restituiscano la formazione in itinere dello spirito del tempo. Quello televisivo, naturalmente, questa volta però considerato non nelle sue fenomenologie superficiali, ma in quelle di profondità, assunto nel punto di passaggio all’epoca post-televisiva, nella pervasiva competenza di decostruire e ricostruire, secondo proprie dinamiche, le relazioni sociali, oltre che di orientare alla formazione di nuove relazioni. Insomma, si tratta di uno «spirito del tempo» posto nel cardine della «crisi», e altresì nella rigenerazione, di un movimento di idee e di vissuti che, da quel momento, deve essere considerato un guado epocale permanente, al quale tutti siamo – ancora, e forse senza fine – consegnati. È questo, a mio avviso, il messaggio «vero» – posto che in un volume come questo, esemplarmente analitico, possa ravvisarsi un messaggio, piuttosto che, principalmente, una lezione o una impostazione di metodo – che può essere dedotto dal complessivo lavoro di uno studioso che, alla sua prima prova, mostra di essere lucido e spassionato interprete del tempo sociale dei media.
La fabbrica del cartoon
INTRODUZIONE
Per una mitologia del cartoon
Quando nel 1991 i Simpson arrivarono in Italia, i bambini della mia generazione avevano esattamente l’età di Bart, il piccolo diavolo, impertinente e trasgressivo, della famiglia gialla. Per me e i miei coetanei, in quegli anni Bart era senza dubbio un mito. Forse perché si rapportava agli adulti come loro pari e rappresentava quello stadio successivo della crescita al quale a circa dieci anni ci si sta solo timidamente avvicinando, o forse solo perché virtuoso dello skateboard, vero artefatto culturale tutto americano attraverso i cui precari equilibri i preadolescenti italiani degli anni Novanta cercavano di emancipare la propria mobilità urbana. Più probabilmente perché per molti aspetti l’irriverente Bart incarnava invece l’universo del proibito, che per quei ragazzini acerbi poteva essere anche solo un linguaggio un po’ più colorito, o il dialogare con il mondo degli adulti ponendosi alla pari con loro. In ogni caso, Bart era un mito. Qualche anno più tardi quella generazione avrebbe superato la fatidica soglia dell’adolescenza e avrebbe realizzato, non senza sorpresa, di essere anagraficamente e biograficamente più vicina ai trentotto anni di Homer che ai dieci del piccolo Bart, complice il congelamento temporale che avvolge le serie animate, i cui personaggi attraversano la storia e si immergono nelle trasformazioni sociali senza subire quelle del corpo. Bart è stato un bambino di dieci anni negli anni Novanta e nel xxi secolo. Homer e Marge sono stati adolescenti negli anni Settanta, negli Ottanta e nei Novanta, in episodi che di decade in decade hanno rielaborato il loro passato. E anche Homer, nonostante la sua
Introduzione
Figura 1 Homer adolescente sia negli anni Settanta che nei Novanta, in versione grunge. © Fox.
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inadeguatezza e la notoria inettitudine, ha attraversato oltre vent’anni istituendosi rapidamente come mito. Molti anni più tardi le opere di Alberto Abruzzese avrebbero insegnato a quella stessa generazione che i miti – che la scuola aveva insegnato solo debolmente a interpretare e molto meglio a memorizzare – sono una straordinaria fonte del discorso umano. Attraverso le sinuosità del cesello epico, poetico e narrativo, essi diventano il luogo dell’accesso all’ermeneutica della società e si configurano come una grande macchina in grado di mettere ordine nell’universo dell’uomo. Una delle espressioni emblematiche di Homer, che parla in italiano grazie alla peculiarissima voce del doppiatore Tonino Accolla, è la parola mi-ti-co!, scandita con il roco falsetto di una voce grave e una particolare enfasi sulla sillabazione. Nonostante il tormentone sia, oltre che ignoto alla versione inglese, frutto probabilmente di una fortuita scelta in sede di adattamento, in qualche modo esso può far riflettere, in via anche incidentale, sulla dimensione mitologica che i Simpson hanno raggiunto negli anni. In quanto mito, i Simpson assolvono dunque al bisogno di raccontare, in forma latente, e nonostante la manifesta infondatezza storica di superficie, la realtà sociale che li ha visti nascere, mettendo ordine in un turbinio di conflitti di cui gli anni Novanta sono il palcoscenico. Prima di questi anni, le moderne mitologie sono state affidate alla macchina del mito dell’industria culturale, attraversando la letteratura fantascientifica, il cinema, il fumetto, capaci di restituire il disincanto e al tempo stesso l’illusione, la malinconia e assieme l’entusiasmo, della complessità dell’uomo moderno del Novecento [Frezza 1995]. Ma dagli anni Novanta questi supporti vengono affiancati da una nuova fonte del discorso mitologico, una fonte un po’ bistrattata, guardata a volte
Per una mitologia del cartoon
con diffidenza dall’accademia. Questo libro vuole raccogliere la sfida e utilizzare alcune importanti serie animate per raccontare le radicali trasformazioni che hanno interessato il sistema televisivo americano e quello italiano e, sullo stesso versante, lo spostamento degli orizzonti culturali che hanno messo in moto queste trasformazioni. I cartoon si fanno mito nella misura in cui si caratterizzano per uno stato di esemplarità simbolica delle pulsioni collettive, e rappresentano uno dei veicoli del senso sociale più caratterizzanti nel panorama dei prodotti culturali televisivi. I Simpson quindi, così come Family Guy (in Italia I Griffin), South Park, American Dad! e le altre serie, fanno riferimento a una dimensione anti-epica che riconfigura la forma narrativa della serie come una riproposizione in chiave contemporanea del mito, riconoscibile come presenza tanto occulta quanto manifesta. Il nome Homer, per esempio, è la traduzione inglese di Omero, che rende il corpulento personaggio chiaramente riconducibile al cantore cieco che ha prodotto le più grandi epiche del mondo greco. Tale accostamento è reso ancora più evidente dal titolo di uno dei primissimi episodi, Homer’s Odyssey (1989), cioè L’Odissea di Omero. La scelta onomastica è del tutto fortuita: Homer e Marge (da Margaret) sono i nomi rispettivamente del padre e della madre di Matt Groening, creatore dei Simpson, dalla cui famiglia hanno origine anche il nome del nonno, Abe (Abraham Jebediah), il secondo nome della madre, Ruth, e il suo cognome, Wiggum (in italiano, Commissario Winchester). Tuttavia, come in una profezia che si autoavvera, Homer è diventato immediatamente uno strumento di focalizzazione mitologica del racconto, proprietario di uno sguardo sul mondo attraverso il quale il mondo stesso viene ordinato e raccontato. È anch’egli il cantore di un assedio e di un viaggio: l’assedio delle spinte innovatrici alle forme del classicismo, e il viaggio attraverso i costumi, i vizi, le paure, le idiosincrasie della società. Ma Homer è allo stesso tempo una figura di snodo versatile e a cavallo tra le funzioni del classicismo epico e la forma di un antieroe moderno, che arriva a sovrapporsi a uno dei più grandi miti moderni: King Kong, ovvero, come ricorda Alberto Abruzzese, quella «Grande Scimmia» (portata sullo schermo per la prima volta da Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack nel 1933) il cui corpo si fa segno del conflitto tra natura e cultura e portatore di una nuova estetica della modernità che rimandava, negli anni Trenta, al passaggio a nuove forme di sensorialità e alla configurazione moderna dell’esperienza urbana [Abruzzese 1979]. Sempre nella prima stagione (Bart the Genius, 1989), Homer è definito testualmente proprio come una «grande scimmia del Nord America», mentre in Treehouse of Horror III (1992) è sempre Homer a vestire i panni di King Kong in una parodia del film del 1933, panni nei quali ritornerà occasionalmente in futuro.
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Figura 2 King Kong in versione Simpson, ribattezzato per l’occasione King Homer. © Fox.
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Il corpo di Homer, come quello di King Kong, è un eccesso del visibile, un luogo di accumulazione: entrambi acquisiscono conoscenza del mondo attraverso una grande bocca che per entrambi è un permeabile strumento di senso. Per King Kong l’ingerimento è il modo attraverso il quale può entrare in contatto con la modernità: il suo sguardo non gli consente di distinguere la mostruosità ancestrale contro cui combatte sulla sua isola, regno dell’inconscio e dello stato di natura, dalla tecnologia urbana. Ciò che non conosce dunque ingerisce, acquisendone una consapevolezza. Kong, mentre divora i corpi degli uomini metropolitani, assaggia la modernità e cerca di spiegarsela. Il corpo di Kong sopperisce all’incapacità di relazionarsi attraverso lo sguardo, con un mondo che non è in grado di spiegarsi. Allo stesso modo Homer trova conforto nello stato di ingenua bonarietà che gli provoca l’ingerimento di grandi quantità di cibo, ciambelle e birra Duff, mentre il suo sguardo, stordito nonostante i grandi occhi, non gli consente di assorbire del tutto la sua visione del mondo. L’Homer sazio è un Homer sedato, concentrato sul cibo che gli garantisce la soddisfazione che non riesce a trovare in ciò che i suoi grandi occhi vedono, e cioè una serie infinita di conflitti che a volte lo portano sulla strada di una rabbia ferale e primordiale. Gli occhi, nei cartoon, sono abitualmente più grandi rispetto all’equilibrio naturale del volto umano. Da un lato si tratta di una necessità estetica che ha lo scopo di arricchire la capacità espressiva dei personaggi animati, dall’altro questi grandi occhi sono dei dispositivi
Per una mitologia del cartoon
di ipervisione che cercano di assimilare quanto più possibile la realtà incontenibile del mondo esterno. Sono dispositivi di senso che devono adattarsi all’enorme corpus simbolico che devono metabolizzare, sono occhi che devono dilatarsi per riuscire a vedere di più e a osservare l’oltre, per poter restituire uno sguardo onnicomprensivo del mondo, esattamente come l’occhio reciso dal rasoio che turba gli spettatori di Un Chien Andalou (1928, di Luis Buñuel). E come per Kong, lo sguardo di Homer è uno sguardo inquisitorio ma irrisolto, indagatore ma insoddisfatto, testimone di un momento di passaggio che cerca a tutti i costi di interiorizzare, ma che non comprende. Allo stesso tempo Homer è un oggetto di sguardo da parte del mondo che lo circonda, uno sguardo di sufficienza e di superiorità intellettuale, sociale, economica. Anche le avventure dei cartoon, come la moderna mitologia di Kong, non si esauriscono nella mera narrazione: descrivono una fase di transizione della società occidentale e un aggiornamento dei paradigmi culturali, tecnici, estetici e industriali. L’associazione tra i Simpson e King Kong è inoltre un simbolo della grande rete di interrelazioni che ha legato il cinema e l’animazione fin dalle origini, con il primo che arriva a confluire nella seconda, e viceversa. Il dialogo tra cinema e animazione torna con regolarità a testimoniare come la televisione, in particolar modo attraverso le forme della serialità, sia centrale in quel ruolo di sperimentazione dei linguaggi che per molti anni è stato un’esclusiva del cinema. Questo libro è attraversato da più direttrici. La prima guarda al sistema socioculturale e tende a recuperare e descrivere, attraverso le serie animate qui prese in considerazione, proprio le dinamiche conflittuali di cui queste si fanno spia: le serie nascono dalla contrapposizione di istanze culturali contrastanti che agiscono dialetticamente in direzione della società a una pluralità di livelli. Di queste dinamiche oppositive esiste una traccia, a volte latente, a volte manifesta, che attraversa la storia dell’animazione, le tecniche, i sistemi e i modelli televisivi, e che descrive questa profonda dialettica multiplanare. Le serie animate nascono dal conflitto e allo stesso tempo ne sono uno dei segni tangibili sul piano della produzione culturale. Tale conflitto verrà individuato principalmente nell’opposizione tra spinte e resistenze da parte delle istanze progressiste e conservatrici, ma anche nelle dimensioni psicologiche individuali e collettive nel rapportarsi a temi tradizionalmente rimossi, quali la religione, il corpo, la morte. È bene specificare in che termini viene qui intesa l’espressione «animazione per adulti», concetto ampio e dai contorni sfumati che va necessariamente ricondotto nei binari della trattazione qui proposta. Genericamente, infatti, la qualificazione «per adulti» indica la semplice
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Introduzione
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destinazione del prodotto a un pubblico adulto, e include una varietà pressoché infinita di generi e sottogeneri nati praticamente con l’animazione stessa. Per fare un esempio, la stessa Betty Boop, ammiccante e poco vestita protagonista dell’eponimo cartoon in bianco e nero, negli anni Trenta poteva essere inclusa nella macrocategoria «per adulti», al pari dell’enorme numero di cartoon violenti, glamour o anche pornografici che hanno popolato il Novecento con alterna fortuna. Tenendo conto della fluidità del termine «adulti», della difficoltà a ricondurre a esso i soli confini anagrafici, della varietà con cui tale aggettivo viene attribuito al variare delle condizioni sociali, economiche, o del consumo (basti pensare al riconoscimento da parte del marketing della fascia dei «giovani adulti», oggi definiti all’incirca nella coorte d’età fra i 25 e i 35 anni), è necessario, per parlare delle serie animate contemporanee, utilizzare questo termine nell’accezione commerciale che oggi ne viene fatta nell’industria televisiva occidentale. Si userà qui l’espressione «per adulti» per indicare quelle serie che, nate per la televisione, sono state concepite, nelle ultime due decadi, per essere consumate da un pubblico adulto. Come si vedrà più avanti, il pubblico previsto può non coincidere necessariamente con quello del consumo, soprattutto nel tempo, proprio a causa della grande fluttuazione degli elementi sociali che caratterizzano i consumi infantili, giovanili e per adulti, per cui può sovente capitare che questi tendano a sovrapporsi. Anche questa indicazione però è insufficiente a superare la problematicità del termine «per adulti», perché non tiene conto di un aspetto qui molto importante, e cioè le forme di consumo a più livelli che rendono idoneo un prodotto che soddisfa più fasce di pubblico restando adatto ai più giovani. È il caso di Futurama, serie molto complessa dal punto di vista narrativo, che pur essendo molto lontana dai dettami della televisione generalista, ha come target gli adulti senza rinunciare a essere idonea anche a fasce più giovani. Rispetto allo scopo di questo libro, dunque, visto l’enorme vaso di Pandora che la definizione «per adulti» può scoperchiare, si intenderanno le serie di adult animation come mirate a conquistare in via preferenziale o esclusiva il pubblico adulto, prodotte negli ultimi vent’anni, e concepite per il mercato televisivo o quello del web, pur non escludendo eventuali deviazioni verso altri orizzonti, come quello cinematografico. Un altro degli assi portanti del libro è il rapporto tra il linguaggio audiovisivo e la sfera del consumo, che affiora con gli strumenti dell’analisi osservando come le forme e gli stili del comico abbiano un’origine culturale e sociale di cui è impossibile non tener conto, pena il fallimento nel far emergere i significati latenti inscritti nel linguaggio stesso. Verranno quindi recuperate le teorie testuali e intratestuali dell’analisi del linguaggio audiovisivo, che saranno integrate degli elementi conte-
Per una mitologia del cartoon
stuali e rilette in funzione delle dinamiche extratestuali che accompagnano l’esperienza del consumo. Un peso molto importante sarà dato alle teorie sul comico, ripercorrendo la letteratura sull’umorismo per verificare dove le serie animate si conformano alle forme tradizionali del comico, e dove invece configurano soluzioni inedite e innovazioni sul piano del linguaggio. La tesi che si porterà avanti, inoltre, è che la costruzione del comico non può non essere sociale, ed è caratterizzante di un contesto culturale di riferimento. Il dicibile e il non dicibile, il risibile e il non risibile sono categorie del senso che mutano profondamente in relazione al contesto. Anche la letteratura sull’analisi testuale del comico sarà confrontata con l’inadeguatezza di un approccio esclusivamente intratestuale, che verrà dunque ricollocata e integrata con la profondità delle dinamiche del consumo. Quella che si racconterà non è una storia del cartoon, per la quale esiste una letteratura già approfondita e dettagliata, ma la prospettiva storica servirà ad appoggiare su dati oggettivi la dimostrazione di un elemento fondamentale dell’animazione: una struttura produttiva industriale necessaria al suo sviluppo tecnologico e commerciale. Verranno quindi descritte le modalità di lavorazione delle serie animate, dando prova di come, anche laddove possa sembrare che ci si trovi di fronte a prodotti dall’identità autoriale o artigianale, questa celi immancabilmente alle sue spalle una complessa infrastruttura produttiva tipicamente industriale. L’analisi dei contesti produttivi sarà funzionale anche alla lettura delle debolezze del sistema italiano sul campo della produzione di cartoon, di cui si ripercorrerà l’evoluzione, individuando proprio nell’endemica carenza di strutture per la scrittura e la lavorazione in parallelo la ragione per la quale identificare un’alternativa italiana alla produzione americana è quantomeno problematica, sia in termini di impatto sulla cultura, sia di presenza sui mercati televisivi. Pur non mancando degli esempi di serie (o progetti di serie) orientati agli adulti, a volte dotate anche di grande innovazione di linguaggio, va considerato che spesso questi non riescono a uscire dal circuito dei festival, degli episodi pilota, delle sperimentazioni artistiche, del submercato per «addetti ai lavori», restando in buona parte esclusi dalle dinamiche produttive di massa. Il discorso sull’importazione dei cartoon americani e il posizionamento sulle reti italiane servirà inoltre a descrivere i profondi mutamenti del sistema radiotelevisivo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, rileggendo i passaggi dalla paleotelevisione alla neotelevisione prima, e alla post-tv poi, attraverso la lente d’ingrandimento delle serie animate. La nascita e la proliferazione delle serie animate per i pubblici non infantili verrà qui collocata in un più ampio discorso sistemico: a
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Introduzione
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cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta il sistema televisivo americano muta profondamente, in uno dei momenti di maggior fermento e di rivoluzione dell’industria culturale televisiva. La proliferazione delle trasmissioni via cavo, l’indebolimento delle normative antitrust che consentono alle grandi major cinematografiche di penetrare senza vincoli il mercato televisivo, sono solo alcuni degli elementi che hanno creato terreno fertile per la nascita di forme prima sconosciute e l’esplorazione di temi precedentemente considerati tabù. Il cartoon «per adulti», incrocio semantico tra una forma tradizionalmente riservata ai prodotti culturali per bambini e un contenuto per definizione maturo, incontra l’esperienza formale della sit-com grazie a queste trasformazioni di sistema che hanno interessato l’industria americana. Lo stesso discorso sarà quindi riproposto per il sistema televisivo italiano, con un’analisi in chiave comparativa del posizionamento dei cartoon per adulti sulle reti nazionali, facendo emergere, per differenza, la chiave interpretativa delle metamorfosi del sistema televisivo italiano. Verrà inoltre analizzata la pratica della traduzione-adattamentoculturalizzazione-localizzazione delle serie in italiano (in particolare I Simpson e South Park), leggendo i diversi approcci in funzione del contesto. Anche per questi termini, apparentemente simili, è necessario un breve chiarimento. La pratica della traduzione, spesso utilizzata erroneamente in riferimento alle procedure del doppiaggio (che in realtà è solo uno delle ultime fasi di un corposo lavoro sia tecnico che intellettuale) nel caso dei prodotti audiovisivi viene inclusa all’interno del più ampio e complesso processo di adattamento. L’adattamento, oltre a tutti quelli ereditati dal processo di traduzione, deve tener conto di una serie di vincoli quali l’effettiva sonorità, la differenza di velocità tra la lingua d’origine e quella di destinazione, l’accoppiamento visivo e la sincronizzazione con gli elementi più visibili del movimento labiale. La culturalizzazione e la localizzazione implicano invece lo slittamento del senso di elementi (nel caso della localizzazione, visivi) propri della cultura o della società d’origine per farli coincidere con elementi simili, analoghi, omologhi o semplicemente compatibili, della cultura del paese di destinazione. Saranno quindi analizzate le strategie di doppiaggio, adattamento, localizzazione e culturalizzazione delle serie animate, che affondano il proprio linguaggio sui riferimenti alla cultura, alla società, alla storia, e che a volte proprio perché tarate per un pubblico a stelle e strisce, rivelano le differenze tra la società italiana e quella statunitense. L’analisi comparata tra le serie originali e le versioni italiane sarà una delle principali direttrici del lavoro di ricerca sia in chiave analitica, con il riferirsi alle forme del linguaggio, sia in forma comparativa, con l’esposizione da un lato dei limiti, dall’altro delle funzioni, della trasposizione in Italia di rappresentazioni di mo-
Per una mitologia del cartoon
delli diversi e la loro eventuale culturalizzazione per venire incontro al pubblico italiano. I prodotti seriali oggi si sono appropriati di quella funzione di detabuizzazione che tradizionalmente è appartenuta al grande schermo cinematografico, diventando dunque il luogo primario dove affrontare e far esplodere il rimosso. Le serie animate che attraversano le ultime due decadi si pongono come spartiacque tra le forme del consumo degli anni Ottanta e quelle che seguiranno negli anni a venire, e che esploderanno nella diversificazione dei prodotti nel xxi secolo con serie come South Park, Futurama, American Dad!, I Griffin. Nell’avvicinarsi a questo tema la domanda che tornerà con maggior frequenza in questo lavoro è «cosa racconta?». Tale domanda servirà a ricondurre alla prospettiva simbolica i contenuti delle serie animate. Si cercherà dunque di dare una risposta, attraverso l’analisi, ai fenomeni di mutamento che hanno visto la genesi del cartoon per adulti, testimone mediale delle metamorfosi sociali. Per ogni punto di vista sull’animazione ci si porrà dunque la fatidica domanda, perché l’ipotesi principale dalla quale ha origine questo lavoro è che le serie animate per adulti raccontano sempre più di ciò che raccontano. Si cercherà dunque di far emergere la significazione latente e profondamente sociale di tutto ciò che ruota attorno a questo fenomeno, dalla storia ai linguaggi, dalla forma alla struttura, dal mercato ai sistemi.
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Ringraziamenti Ringraziamenti non di rito ma di assoluta riconoscenza vanno a Sergio Brancato, per gli insostituibili insegnamenti; a Gino Frezza per le splendide parole che ha usato nella Prefazione; a Marco Pellitteri, per i preziosissimi suggerimenti e la revisione del testo; alla facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Napoli «Federico II», dove ho incontrato persone straordinarie. Avvertenza editoriale Citazioni e riferimenti di articoli e testi stranieri non tradotti sono qui presentati in lingua italiana. Tranne dove diversamente specificato, la traduzione è dell’autore. Lo stesso discorso è valido per le citazioni dirette tratte dai cartoon: la traduzione è dell’autore e può discostarsi dalla quella ufficiale italiana. La ragione di questa scelta risiede nella necessità di recuperare un senso originario che sovente, come si vedrà, si perde in sede di adattamento, traduzione e doppiaggio. Le versioni italiane, quando disponibili, sono state utilizzate per tutta la parte comparativa che occupa il Capitolo IV. A proposito del sistema di datazione, considerando l’eterogeneità della numerazione e della codifica ufficiale degli episodi utilizzata dai diversi produttori, codifica che spesso varia di anno in anno anche all’interno di una stessa serie animata, si è scelto di utilizzare la semplice indicazione temporale. Il titolo di un episodio è sempre seguito dall’anno di uscita, riferito, tranne dove diversamente specificato, alla prima messa in onda negli Stati Uniti.
Parte I
Sistemi, tecnologie, conflitti
CAPITOLO I
Una tecnica per un modello, un modello per il mercato
Pensare all’animazione televisiva americana degli anni Novanta significa ragionare non solo sui prodotti, ma anche sul contesto della cultura e del tempo che li ha generati, includendo in questo ambito sia le tecniche sia le dinamiche produttive che, al momento della nascita di una nuova forma di intrattenimento animato, muovevano e motivavano il mercato. Studiare il sistema televisivo può permettere sia di capire quali sono state le propulsioni che ne hanno accompagnato la genesi, sia di ampliare e migliorare le conoscenze del sistema stesso. La domanda che dà origine a questo discorso è dunque «cosa raccontano i cartoon per adulti nel sistema televisivo statunitense al momento della loro nascita, e nel corso delle successive trasformazioni?». È necessario elaborare una prospettiva dialogica tra prodotto e sistema, ricordando che la televisione è insieme una tecnologia e una forma culturale [Williams 1974], soffermandosi sulla dialettica tra la sfera delle tecniche e quella del consumo, luoghi in cui si collocano le serie animate. Gli equilibri del mercato del cartoon vedevano alla fine degli anni Ottanta il il rinnovamento di un modello televisivo rimasto stabile per diversi anni e che sulla spinta di mutate condizioni legislative, tecnologiche, sociali, si evolveva verso forme all’interno delle quali si collocano le serie per adulti. Questo modello privilegiava innanzitutto lo scenario della produzione americana di cartoon, lasciando volutamente a margine quella europea e quella giapponese, come una ripartizione di fatto tra pochi grandi attori operanti sullo scenario cartoon, quali ad esempio Disney, Hanna-Barbera (studio fondato da William Hanna e
Una tecnica per un modello, un modello per il mercato
Joseph Barbera,1 entrambi ex dipendenti della Metro-Goldwyn-Mayer), e Time Warner/Warner Bros. Va però evidenziata una tendenza, culturalmente tradizionale dei media americani, a una certa settorializzazione dei canali di influenza: gli attori del mercato raramente operano su scenari paralleli. Dal punto di vista legislativo la situazione presentava, negli anni Ottanta, delle rigide regolamentazioni vicine ai principi dell’antitrust, che impedivano alle aziende di operare indistintamente nei settori della produzione, della distribuzione e del broadcasting.2 Ognuno di questi attori quindi è caratterizzato da una propria firma, impressa in modo più o meno latente sui propri prodotti, in base ai media di destinazione, ai contenuti, alle forme, allo stile. Va notato che le case di produzione citate, fino alla fine degli anni Ottanta, sono principalmente, poste le dovute considerazioni, delle società che producono film, e che hanno dunque nelle sale cinematografiche il luogo di destinazione ideale del consumo. È necessario anticipare alcune di queste considerazioni: la Disney è comunque, anche prima delle trasformazioni di fine secolo, un impero dell’industria culturale che è impossibile ricondurre al solo aspetto della produzione cinematografica, così come la Hanna-Barbera è stata un produttore16.
William Hanna e Joseph Barbera nascono come coppia creativa nel 1939 alle dipendenze della Mgm, lavorando a molti cortometraggi animati, in particolare quelli di Tom and Jerry, fino al 1957, anno in cui la Mgm chiude la divisione d’animazione di cui facevano parte. In seguito al licenziamento fondano la Hanna-Barbera Productions, dedicandosi alla produzione indipendente. Hanna-Barbera sarà la prima casa di produzione di disegni animati a conquistare l’ambìto segmento temporale del prime-time, la prima serata americana, con The Flintstones, prima serie con ambientazione fissa creata appositamente per la tv, in questo caso il canale Abc [Booker 2006]. I Flintstones, pur essendo un prodotto tarato per un pubblico generalista con una curvatura del target verso le generazioni più giovani, rappresentano uno snodo sia per il trasferimento in cartoon delle modalità tipiche della sit-com, sia nel modo in cui si rapportano con la cultura popolare attraverso il gioco dei riferimenti e delle citazioni, elemento che sarà fondante delle serie animate per adulti. 2 Va detto che, oltre ai vincoli legislativi, gli Usa avevano sviluppato una certa resistenza culturale, oggi del tutto dissolta, a operare contemporaneamente in contesti mediali differenti. Ad esempio un attore cinematografico molto raramente avrebbe prestato il proprio volto per la televisione, e viceversa. Il motivo è da rintracciare nell’assunzione condivisa che il pubblico, per esempio, non avrebbe pagato per vedere al cinema le performance di attori che avrebbero potuto seguire gratuitamente in televisione. I Simpson, ironizzando su questa tendenza, dedicano l’incipit del film basato sulla serie (atteso per quasi diciotto anni) proprio a questo modo di pensare, ormai sorpassato dalle prospettive crossmediali. L’incipit del film vede infatti la famiglia Simpson al buio di un cinema, intenta a guardare il meta-film di Grattachecca e Fichetto. Homer, visibilmente contrariato, esclama: «Ma guarda se dobbiamo pagare una cosa che possiamo gustare gratis in tv! Se volete saperlo, tutti quelli che stanno in questo cinema sono dei giganteschi rosposecchi, soprattutto [rivolgendosi, guardando in macchina, allo spettatore] tu!». La versione originale utilizza la parola suckers, più offensiva del simpsonismo utilizzato in sede di doppiaggio. 1
Animazione tra pre-cinema e cinema
ponte tra la tecnologia cinematografica e la destinazione televisiva, utilizzando le tecniche cinematografiche per la produzione di cortometraggi animati per la televisione. Tuttavia la coesistenza, debolmente competitiva, era adeguatamente ripartita attraverso il rispetto di una concorrenza debole grazie alla distribuzione attraverso più media. Per arrivare alla rottura di questi equilibri delle settorializzazioni, sulle quali si tornerà più avanti, è necessario effettuare comunque un passo indietro e ripercorrere alcuni degli aspetti generativi del cartoon e del mercato dell’animazione, al fine sia di chiarire il rapporto stretto e generativo con il cinema, sia di rendere più chiari gli elementi storicosociali sui quali l’animazione prime-time televisiva degli anni Novanta si appoggia, per capire infine come si è arrivati alla forma del cartoon per adulti, sia dal punto di vista dello stile che dei processi produttivi. I.1 Animazione tra pre-cinema e cinema L’animazione reca in sé una forte identità cinematografica, se non altro per ragioni storiche: l’animazione e il cinema condividevano agli inizi del xx secolo la natura del supporto, la pellicola, che se in un caso conteneva ventiquattro fotogrammi «fotografici» al secondo,3 nell’altro conteneva ventiquattro disegni bidimensionali, ognuno caratterizzato da una minima differenza rispetto al precedente, sufficiente a produrre l’effetto del movimento. Cinema e animazione hanno sempre camminato lungo strade vicine, caratterizzate da frequenti e determinanti intersezioni, sulle quali si sono fondati i pilastri dell’animazione nella seconda metà del Novecento. Ma l’animazione nasce in realtà ancor prima del cinema e, anzi, ne ha in qualche modo agevolato la nascita. Una grande quantità di dispositivi di pre-cinema, cioè antecedenti all’invenzione della pellicola e della tecnologia necessaria per la ripresa e la proiezione, era infatti basato su disegni. Le prime macchine che sfruttano l’illusione del movimento sono precedenti all’invenzione stessa della fotografia – la maggior parte di esse risalgono infatti all’Ottocento – e dunque si avvalevano di elementi disegnati, creando di fatto i primi disegni animati [Bendazzi 1988]. La nota lanterna magica, primigenio dispositivo di proiezione nato intorno alla metà del Seicento, permetteva di mostrare, ingrandite su quello che oggi chiameremmo schermo, immagini disegnate su supporti di vetro. Moltiplicando le lastre, o spostandole da3
Per il cinema sonoro. Prima dell’introduzione, i fotogrammi al secondo erano generalmente 16 o 18, una frequenza d’aggiornamento dello schermo troppo bassa per garantire, successivamente, una corretta sincronizzazione con il sonoro.
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Una tecnica per un modello, un modello per il mercato
Figura 3 Antico zootropio con alcune «pellicole», collezione privata.
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vanti all’obiettivo, i disegni proiettati sullo schermo venivano arricchiti della dimensione del movimento. È tuttavia nel xix secolo che il concetto di animazione sposa quello del movimento ottico. La necessità di utilizzare immagini disegnate e non fotografiche è chiara. L’invenzione della pellicola flessibile sarebbe arrivata nel 1885 per opera di George Eastman, fondatore della Kodak, e l’animazione è spia di un’attenzione per il mondo del movimento ottico e delle stimolazioni visive che caratterizza l’Ottocento e, più in generale, la modernità da una pluralità di punti di vista: l’estetizzazione delle merci, le grandi esposizioni universali, il viaggio in treno, l’illuminazione delle città, le esperienze artistiche impressioniste. È curioso ricordare come nel 2008 la Pixar, la nota casa statunitense d’animazione digitale, abbia costruito per i festeggiamenti del proprio ventennale proprio uno zootropio4 di generose dimensioni, all’interno del 4
Lo zootropio, sviluppato nel 1834 da William George Horner, è una delle più note macchine di proiezione luminosa di immagini disegnate «in movimento» e si basa, come molti altri dispositivi analoghi ideati nell’Ottocento in Europa, su una lunga tradizione (benché non solo europea) di simili «lanterne magiche».
Stili e tecniche dall’artigianale all’industriale
quale sono animati i personaggi principali di Toy Story, primo lungometraggio d’animazione interamente digitale, in un’attrazione visibile presso il parco Disney’s California Adventure. In questo allestimento gli estremi della storia del movimento ottico si uniscono: una delle più antiche forme di animazione sposa la più moderna in assoluto, quella digitale sviluppata interamente al computer, evocando simbolicamente il forte gioco di prestiti e scambi, in termini sia di tecnologia che di intuizioni, tra cinema e animazione. Tra gli innumerevoli fattori sociali, culturali, tecnologici, scientifici, che hanno accompagnato la nascita del cinema alla fine dell’Ottocento, c’è dunque anche l’animazione, che ha permesso di sperimentare la dimensione del movimento prima ancora che venissero alla luce la fotografia e la pellicola, e prima della nascita, per mano dei Lumière, del cinematografo. Questa dinamica di continui scambi ovviamente non si è mai arrestata lungo la storia del cinema e dell’animazione, e per certi versi quest’ultima ha rappresentato, con una sostanziale continuità, una forma di cinematografia sperimentale anche in forma astratta (come i lavori di Oskar Fischinger, Norman McLaren, Robert Breer). L’animazione è infatti un enorme contenitore al cui interno è possibile trovare forme e specificità anche molto diverse. La fisionomia più familiare è certamente quella a disegni, in cui gli animatori, esattamente come i disegnatori dei dispositivi pre-cinema, disegnano lunghe serie di immagini progettate per susseguirsi nel tempo, fotogramma dopo fotogramma. Come immaginabile questo processo, inizialmente basato su disegni su carta, è estremamente dispendioso in termini di tempo e di razionalizzazione del lavoro: agli esordi della tecnica del disegno animato, ai primi del Novecento, per ogni fase del movimento l’intera immagine, sfondo compreso, viene ricopiata (disegnandone nuovamente quindi una buona parte) e modificata. Successivamente le singole immagini vengono fotografate e montate in sequenza sulla pellicola, così da restituire l’idea del movimento durante la fase di proiezione del film. È evidente come un processo di questo tipo, definito in seguito full animation (‘animazione totale’), sia estremamente poco ottimizzato, e si configura come una serie di lunghissime sessioni di disegno. L’animazione totale pone inoltre i realizzatori del cartoon di fronte a un sacrificio espressivo: velocizzare i tempi di produzione vuol dire anche ridurre la «densità» delle immagini in termini sia di dettaglio, sia di verosimiglianza. Il risultato può essere dunque un disegno più elementare, primitivo nelle forme e nel colore, molto poco realistico, quasi privo di movimenti di macchina, ma allo stesso tempo comprensibile e legato a una rappresentazione quasi onirica e fantasiosa, della realtà. Uno dei motivi per i quali l’animazione per molti anni è stata le-
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Una tecnica per un modello, un modello per il mercato
gata a prodotti indirizzati ai bambini è legato anche al fatto che questo tipo di immagine animata, più semplice, necessita anche di un’attività di decodifica cognitiva semplificata: il riconoscimento visivo di forme e scenari è agevolato dalla minore quantità di elementi dettaglianti e potenzialmente fuorvianti, come evidenziato per esempio dalla psicologia della Gestalt all’inizio del Novecento attraverso i principi dell’organizzazione percettiva [Katz 1944] . L’animazione totale, d’altra parte, è anche però quella che può consentire la più alta qualità possibile in presenza di risorse sufficienti: molti dei grandi classici Disney sono stati prodotti almeno in parte con questa tecnica estremamente dispendiosa, per esempio il classico Biancaneve e i sette nani (Snow White and the seven Dwarfs, di David Hand e Walt Disney, 1937). I.2 Stili e tecniche dall’artigianale all’industriale
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Per ottimizzare i processi di creazione, negli anni Dieci viene quindi inventata la tecnica del rodovetro, più comunemente definita cel. I cel sono dei fogli trasparenti di celluloide o acetato sui quali disegnare i singoli componenti dell’immagine da sovrapporre l’uno sull’altro, ponendo infine i vari strati su un fondale opaco. L’insieme delle pose o fasi viene poi fotografato fotogramma per fotogramma. L’economia di questo sistema è chiara: è possibile riutilizzare tutti gli elementi, sfondi compresi, sostituendo con altrettanti cel solo le parti in movimento della scena. Inoltre l’animazione può essere scomposta in un numero relativamente alto di cel, e ogni cel può essere riutilizzato infinite volte. È evidente che nuovi cel con personaggi od oggetti spostati o leggermente diversi rispetto agli altri, fotografati in sequenza, restituiscono l’illusione del movimento. Il cel è tra l’altro fondamentale per capire un passaggio importante che ritornerà più avanti quando si parlerà delle tecniche di produzione dell’animazione contemporanea americana: il passaggio dal disegno pieno al cel sancisce con grande rapidità la svolta da una dimensione autoriale e artigianale della produzione di cartoon a una prettamente industriale. L’utilizzo del cel infatti permette non solo di risparmiare tempo, ma di scomporre il processo produttivo in una vera e propria catena di montaggio in cui ogni singolo individuo ha uno specifico compito, e non ha il controllo o la visione d’insieme dell’opera completa. Questo passaggio si avvicina alla definizione marxiana di lavoro astratto e di lavoro concreto: il primo attiene a una dinamica autoriale o artigianale nella quale chi opera sull’oggetto ha un controllo d’insieme sui passi produttivi, il secondo è proprio dell’organizzazione industriale, nella quale il lavoratore controlla solo quella parte di elaborazione che gli compete. Pur essendo lontani i tempi di
Stili e tecniche dall’artigianale all’industriale
Figura 4 Il cel di un cartoon di Pippo, collezione privata. © Disney.
Chaplin fagocitato dalle macchine nell’alienazione della catena di montaggio di Tempi moderni (1936), nell’animazione il lavoro delle squadre è fortemente specializzato, anche se frutto di una dinamica collaborativa sinergica e ricca di quella comunicazione interna la cui assenza caratterizza le rappresentazioni dell’industria del primo Novecento (si pensi al già citato Chaplin, o a Metropolis, 1927, di Fritz Lang). Tale specializzazione si realizza inoltre nel momento della divisione del lavoro e del flusso produttivo, e non necessariamente sul piano delle competenze, tant’è che nella carriera di un animatore non è rara una certa interscambiabilità, nel tempo, dei ruoli. Più di un riferimento marcatamente autoreferenziale alla tecnica del cel è presente nei Simpson: nell’episodio The Day the Violence Died (Il giorno che morì la violenza, 1996), Bart e Lisa riescono a dimostrare la paternità del meta-cartoon Itchy & Scratchy (Grattachecca e Fichetto nella versione italiana) acquistando nel locale negozio di fumetti una cornice contenente un raro cel d’epoca, datato e firmato dall’autore originale (Chester Lampwick, personaggio creato per l’occasione, omaggio ironico a Ub Iwerks – storico collaboratore di Walt Disney agli esordi – ed eccezionalmente doppiato, nella versione originale, da Kirk Douglas). In un altro episodio (Lady Bouvier’s Lover, in Italia L’amante di Lady Bouvier, 1994), Bart acquista da una televendita un cel di Itchy & Scratchy. Ma mentre nella televisione viene mostrato un fotogramma particolarmente attraente (una scena del gatto che insegue il topo con un martello, immagine che incarna lo spirito del cartoon), Bart si ritrova con una semplicissima quanto anonima lastra con una parte del braccio di Scratchy. La delusione ovviamente risiede nel fatto che si tratta sì di un
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Figura 5 Lisa, perplessa dal minimalismo del cel acquistato da Bart. © Fox, Electronic Arts.
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cel originale, ma l’oggetto ricevuto è in effetti solamente uno delle centinaia di dettagli che normalmente compongono il fotogramma intero. Un ultimo riferimento è presente nell’episodio The Itchy & Scratchy & Poochie Show (Lo show di Grattachecca e Fichetto e Pucci, 1997). Il personaggio di Poochie, doppiato da Homer e inserito nel meta-cartoon allo scopo di innovare la serie, deve essere fatto sparire con rapidità, essendo risultato sgradito al pubblico. Negli ultimi secondi dell’episodio, dopo l’annuncio della prematura partenza di Poochie («Il mio pianeta ha bisogno di me», spiega), viene mostrato il cel del cane che in maniera grossolana viene spostato verso l’alto, seguito da una frettolosa scritta che ne annuncia la morte. La rozzezza dell’animazione rimanda agli evidenti segni di riconoscimento di processi frettolosi che rompono l’armonia del prodotto, rendendo lo spettatore in qualche modo consapevole di ciò che sta osservando e interrompendone l’inclusione e il coinvolgimento nel mondo narrativo. Ritornando alla tecnica, nel caso dell’animazione tramite cel una squadra di artisti si occupa del disegno dei fondali, una delle serie di disegni dei volti dei personaggi, una del colore, una della fotografia, una del cosiddetto pencil test, cioè l’animazione preliminare priva dei dettagli, che saranno poi realizzati da un’altra squadra ancora, e questo solo per citare il nocciolo del processo di animazione e senza considerare gli altri aspetti (regia, montaggio, sceneggiatura ecc.) tipici della produzione industriale audiovisiva. Il lavoro di produzione, in questo modo, sembra passare quindi, per lo meno dal punto di vista puramente
Stili e tecniche dall’artigianale all’industriale
Figura 6 La tecnica del cel-shading ben si presta a essere utilizzata nei videogiochi, come nel caso del gioco dei Simpson per console di nuova generazione. ������������ © Fox, Electronic Arts.
tecnico e procedurale, da una classica dimensione artigianale di lavoro concreto alla più tipica delle forme industriali di lavoro astratto, in cui ogni elemento della catena di montaggio ha un compito specializzato. Tutti i più celebri disegni animati, per lo più cortometraggi, degli anni Trenta e Cinquanta, utilizzavano la tecnica del cel: vale la pena ricordare Bugs Bunny e Daffy Duck (Warner Bros), Popeye e Betty Boop (Paramount) e tutta la serie di cortometraggi basati sui personaggi di Topolino, Paperino, Pippo, della Disney, nonché un gran numero di film d’animazione (o di sequenze) a partire dalla seconda metà del Novecento. La tecnica del cel è ancora largamente utilizzata nelle produzioni non digitali, ma non solo: la filosofia del disegno su più livelli è stata trasportata anche sull’animazione e sul disegno al computer. Anziché avere un cel fisico si ha un layer digitale che si comporta in tutto e per tutto come un usuale foglio trasparente. Questa tecnica permette di ottenere risultati visivi di grande impatto, e unisce la versatilità del cel alla qualità e alla rapidità delle immagini di sintesi tridimensionali. Una delle modalità di rendering, cioè di trasformazione dei modelli matematici vettoriali in immagini fotorealistiche, che prende il nome di cel-shading, nasce proprio per unire il mondo delle tre dimensioni digitali con l’estetica del tratto bidimensionale. Il cel-shading, a partire da oggetti 3d, anziché puntare a una resa fotografica rinuncia volontariamente alle finalità realistiche inseguendo nello stile il disegno a mano applicando una riduzione delle sfumature e dei gradienti del colore che normalmente arricchiscono le immagini renderizzate. Il rendering in
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cel-shading viene utilizzato nelle serie animate per adulti principalmente per velocizzare la creazione di fondali animati e oggetti in movimento, sui quali vengono ancora sovrapposti i personaggi disegnati tradizionalmente. Il primo cartoon seriale a fare un uso estensivo del cel-shading è stato Futurama (nato nel 1999), ma la sua diffusione è stata rapida anche nelle altre serie (I Simpson, I Griffin) e soprattutto nei videogiochi. La tecnica e la filosofia del cel permette di risparmiare e ottimizzare lavoro, anche se, come spiegato, le produzioni di film animati che possono contare su grossi budget fanno ancora un uso anche solo parziale di tecniche di animazione piena fotogramma per fotogramma, che in alcuni casi, e con le dovute risorse a disposizione, può permettere una maggiore qualità estetica del lavoro finale. È chiaro che un tipo di animazione in cui il processo produttivo è razionalizzato e ottimizzato ben sposa le esigenze di una produzione seriale come quella oggetto della presente analisi, mentre è radicalmente impraticabile ogni forma che aumenta i tempi di sviluppo. Nella produzione di serie a episodi come I Simpson, I Griffin, American Dad! o South Park, in cui gli obblighi contrattuali e le esigenze di palinsesto consentono pochi margini di elasticità temporale, il modello produttivo è inequivocabilmente quello dell’industria. Il paradigma estetico del cel, frutto di un compromesso tra ottimizzazione dei processi e qualità del risultato, può non valere quando lo stesso prodotto viene trasportato al cinema: è il caso per esempio di The Simpsons Movie (2007), il feature film dei Simpson, in cui la qualità dall’animazione è largamente superiore (e gratificante per il pubblico) rispetto a quella media della serie, proprio perché in televisione vengono rispettati degli standard minimi e massimi tarati sul rapporto tra aspetto finale e razionalizzazione del lavoro. Non a caso la lavorazione ha richiesto oltre quattro anni per arrivare agli 87 minuti del film, la durata di soli quattro episodi della serie. Considerando che in un anno solare vengono mandati in onda oltre venti nuove puntate, la differenza di risorse necessarie a portare I Simpson al cinema è tutt’altro che irrilevante. Un’altra forma di animazione è quella in cut-out, realizzata attraverso delle sagome di cartone (colorato o di un solo colore, come silhouettes) posizionate su un fondale e successivamente fotografate. Il cut-out è stato inizialmente il metodo di animazione del cartoon South Park: le sagome piatte e le forme sono estremamente più rudimentali rispetto alla precisione del tratto disegnato, e l’animazione è quasi ostentatamente grezza, sia nella serie televisiva che nel relativo film (South Park: Bigger, Longer & Uncut, in Italia South Park: Più grosso, più lungo e tutto intero, di Matt Stone e Trey Parker, 1999). Anche in questo caso non mancano dei riferimenti autoreferenziali che riguardano la tecnica utilizzata: nell’episodio A Very Crappy Christmas (Un Natale davvero di merda, 2000), per
Stili e tecniche dall’artigianale all’industriale
Figura 7 Wallace e Gromit, popolare cartoon in clay-mation. © Aardman Animations.
riportare in voga lo spirito del Natale i protagonisti decidono di produrre un cortometraggio animato con un tema natalizio (che poi altro non è che Jesus vs. Santa, un cortometraggio realizzato nel 1995 degli stessi autori, precursore del successivo South Park). Dopo aver realizzato le sagome di cartone, i protagonisti si redono conto che il processo, pur essendo semplice nella logica, richiede ore e ore di lavoro, scattando fotogramma dopo fotogramma, e non sono in grado di realizzarlo. La soluzione, nel cartoon, sarà quella di spedire tutti i disegni chiave in Corea, alludendo satiricamente alla comune pratica (a cui però South Park fa eccezione) di avvalersi dell’outsourcing in paesi orientali per la realizzazione di tutti i compiti prettamente tecnico-esecutivi. Ma animazione non vuol dire solo disegno: per creare l’apparente movimento, gli artisti possono utilizzare bambole snodate e piccoli manichini anche molto dettagliati (è il caso di film come Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, 1993, di Henry Slick, e di La sposa cadavere, 2005, di Tim Burton e Mike Johnson), modellare argilla o plastilina (clay-motion), interagendo con oggetti tridimensionali, come ad esempio in Chicken Run (Galline in fuga, 2000, di Peter Lord e Nick Park). Anche in questo caso la ripresa viene effettuata a passo uno (stop-motion), cioè riprendendo la scena fotogramma dopo fotogramma, agendo su personaggi e/o movimenti di macchina con microscopici interventi di modellamento e spostamento. La clay-motion (o clay-mation), seppur conosciuta e utilizzata già dalla prima metà del Novecento (basti pensare al King Kong di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, del 1933, con le
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animazioni di Willis O’Brien), ha avuto un periodo di grande gloria a partire dagli anni Settanta, principalmente grazie allo studio di animazione Aardman Animations, da cui ha avuto origine lo stesso Galline in fuga, e che ha fatto della clay-mation il proprio marchio di fabbrica. La Aardman Animations ha prodotto negli anni sia film d’animazione che serie televisive per l’emittente Comedy Central, molte delle quali dedicate alle avventure dei loro personaggi-simbolo, Wallace e Gromit, vincendo anche due Oscar per il miglior cortometraggio animato, con The Wrong Trousers (1993) e A Close Shave (1995). Anche se le serie animate che qui si analizzano sono prodotte principalmente con tecniche bidimensionali, non è raro trovare all’interno dei cartoon per adulti dei segmenti prodotti con tecniche diverse, ad esempio proprio la clay-mation, a volte per puro divertissement stilistico, altre per riferimento culturale. Per esempio la sempre diversa gag finale della sigla di apertura dei Simpson, nota come couch gag (‘scenetta del divano’), nell’episodio The Girl Who Slept Too Little (La bambina che dormiva troppo poco, 2005) mostra un salotto di plastilina: sei palle di pongo rotolano sul divano e si trasformano nei personaggi della famiglia Simpson. Nella couch gag dell’episodio Midnight Towboy (Un uomo da carroattrezzi, 2007) l’intera sequenza è invece ricostruita in Lego-motion, con i personaggi che prendono forma dai classici mattoncini colorati. Altre volte delle forme di animazione alternativa sono utilizzate per sviluppare citazioni e riferimenti. L’episodio di South Park Good Times with Weapons (Divertirsi con le armi, 2004) abbandona per oltre metà della durata il classico cut-out per passare a una versione in stile anime, presentando musica e sfondi orientaleggianti e scene di lotta che ricordano i classici combattimenti dei disegni animati giapponesi (per esempio attraverso l’uso di primi piani con sfondi astratti in rapidissimo movimento). Similmente, nell’episodio Homrr (Homrr, 2001) la famiglia Simpson si reca a un festival dell’animazione, dove viene mostrato prima un segmento di un ipotetico anime giapponese, realizzato nello stile, nella forma e nei contenuti della tradizione nipponica, e successivamente un lungo sketch religioso in stop-motion intitolato Gravey & Jobriath, parodia di Davey and Goliath (Davide e Golia), una serie tv animata degli anni Sessanta prodotta dalla chiesa luterana americana, che finanziava la produzione di programmi «religiosamente corretti» per bambini. In maniera analoga, l’episodio ‘Tis the Fifteenth Season (Tutti più buoni a Natale, 2003) contiene il «classico del 1986: Natale con le Prugne della California», in cui delle prugne animate in clay-mation cantano O Holy Night (con Lisa che commenta: «è offensivo sia per i cristiani che per le prugne»), parodiando la pubblicità di una nota marca americana di uva passa. Un approccio simile lo si trova nei Griffin, nell’episodio Deep Throats (Nuovi talenti, 2006, da notare la rimozione del doppio senso in
Stili e tecniche dall’artigianale all’industriale
Figura 8 Chris entra nel video di Take On Me degli A-Ha. © Fox.
direzione sessuale dal titolo originale, traducibile con ‘Gole profonde’, argomento chiave su cui si tornerà più avanti), in cui un’automobile antropomorfa blu tenta un approccio sessuale con una macchina rosa, per poi scoprire che si tratta del suo amico Morty, appena riverniciato. La gag, interamente in clay-mation, allude alle pubblicità della Chevron Gas, che dagli anni Novanta utilizza la stop-motion per il proprio advertising. La tecnica dello stop-motion è stata per lunghi decenni utilizzata per gli effetti speciali, ottenendo un picco qualitativo attorno alla fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta (le serie di Guerre Stellari e Robocop, per esempio) per essere poi gradualmente sostituita da effetti elettronici e digitali. Tra le altre tecniche di animazione vale la pena ricordare il rotoscopio, cioè il procedimento attraverso il quale si ricalcano su pellicola o celluloide i fotogrammi di immagini reali, in modo da ottenerne sagome e forme dotate di eccezionale fluidità, anche se a volte di scarso dettaglio. Il rotoscopio è stato per molti anni utilizzato nel campo del videogame, per esempio in giochi ancora oggi considerati cult come il primissimo episodio della serie di Prince of Persia (1989), o l’acclamato Another World (1991). Un famoso videoclip degli anni Ottanta, della popolarissima canzone Take On Me, degli A-Ha, presentava uno stile marcatamente fumettistico-rotoscopico: le immagini del video erano state a tratti ridisegnate in stile cartoon, per raccontare la storia di una ragazza che si trovava improvvisamente proiettata all’interno di un fumetto. Anche in questo caso, attraverso il gioco delle citazioni è possi-
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bile rintracciare un esempio di utilizzo di rotoscopio in un prodotto di animazione seriale, e precisamente nell’episodio Breaking Out is Hard to Do (Evadere sembra facile ma…, nei Griffin, 2005): il personaggio di Chris viene risucchiato all’interno del banco frigo di un supermercato, trovandosi proprio all’interno del video di Take On Me, prendendo il posto della protagonista e interagendo con il cantante degli A-Ha, per poi ritornare, dopo alcuni secondi, nel mondo della «realtà». Per un approfondimento delle tecniche e della storia dell’animazione, oltre agli elementi qui riportati nei limiti della sola funzionalità al ragionamento sui cartoon per adulti, si rimanda a trattazioni più complete ed esaurienti che verranno riprese più avanti nel testo. Si vedano in particolare le opere di Marco Pellitteri Mazinga Nostalgia [Pellitteri 1999, ma in particolare la terza edizione, 2008] e Il Drago e la Saetta [Id. 2008], particolarmente efficaci nel ricomporre la diversità e l’evoluzione delle tecniche dell’animazione sia occidentale che orientale, anche in relazione alla storia dell’animazione televisiva e dei relativi mercati. Sul piano storico, non limitato esclusivamente all’orizzonte cinematografico, si vedano Cartoons. Il cinema d’animazione (1888-1988) [Bendazzi 1988], riproposto in edizione successiva con il titolo Cartoons. Cento anni di cinema d’animazione [Bendazzi 1992], e Storia del cinema d’animazione [Rondolino 2003]. Una completa trattazione storica, tecnica, aneddotica, è Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoon da Disney ai Giapponesi e oltre [Raffaelli 2005 (1994)], che descrive con grande efficacia gli aspetti produttivi e gli scenari economici del mondo dell’animazione e del fumetto. Ancora, sul versante produttivo, Makin’ Toons: Inside The Most Popular Animated Tv Shows and Movies [Neuwirth 2003] descrive la genesi «dietro le quinte» di alcune delle più popolari serie animate americane. I.3 Nel regno dell’animazione digitale: i mondi del vero e del non-vero Le frontiere più recenti sul piano della produzione si basano sulla computer-based animation, cioè su tutte quelle tecnologie, prima elettroniche, poi digitali, che hanno introdotto il computer progressivamente, a partire dagli anni Ottanta, in tutte le fasi della produzione di animazione. Va sottolineato che nel corso della storia dell’industria dell’intrattenimento l’animazione si è definita come un oggetto multiforme, dai confini sfumati e per molti versi irriconducibile a una categorizzazione, in virtù della grande varietà di linguaggi e stilemi (alcuni presi in prestito al cinema, altri restituiti al grande schermo in quel dialogo a cui si accennava poco fa) attraverso le quali essa ha raccontato le proprie storie. Questa difficoltà tassonomica si traduce nel ricondurre alla spe-
Nel regno dell’animazione digitale: i mondi del vero e del non-vero
cifità tecnica la natura di una forma assolutamente speciale, non assimilabile a un genere, a uno stile, a una scuola, a specifiche finalità. La possibilità di creare dal nulla immagini in movimento, con il totale e assoluto controllo da parte dell’artista (o degli artisti), le qualità magicopoietiche della creazione, hanno sempre contribuito a rafforzare la concezione dell’animazione come metodo per certi aspetti sperimentale e senza dubbio misterioso di produrre e raccontare storie, per quanto riguarda la destinazione sia del lungometraggio che del cortometraggio (la forma che più avvicinerà l’animazione alla televisione).Tuttavia gli anni Ottanta hanno aperto una nuova e problematica dimensione di incontro tra l’animazione e la ripresa dal vero. È lecito domandarsi quale sia la natura di questo oggetto dalle forme così diverse, in virtù proprio del fatto che figure di sintesi animate al computer possono facilmente ingannare anche l’occhio più educato all’immagine, arrivando a confondersi con le apparenze, grossolanamente ritenute «reali», del cinema tradizionale. L’immagine di sintesi, matematica, elettronica, digitale, mostra una serie di implicazioni linguistiche ed espressive, arrivando in alcuni casi a congiungersi visivamente con il classico cinema «dal vero». L’animazione digitale ha stravolto la concezione della categoria del reale almeno quanto la fotografia ha rivoluzionato il modo di produrre immagini, nell’Ottocento, e la soglia che separa l’animazione dalla realtà è probabilmente meno sottile di quanto possa sembrare. Forse in tempi recenti il prodotto più esemplare dell’incontro tra questi due mondi, che allude con grande forza simbolica a questa unione anticipando generazioni successive di interazioni tra realtà e computer grafica, è Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who Framed Roger Rabbit, 1988), di Robert Zemeckis. Personaggi in carne e ossa interagiscono nel film con i protagonisti di generazioni di disegni animati senza limiti di «paternità»: da Betty Boop a Topolino, da Woody Woodpecker a Bugs Bunny. In questo film non viene violata solo la barriera che separa realtà e fantasia, ma anche quella che infrange i limiti dell’interazione tra personaggi Disney, Fox, Warner Bros e Metro-Goldwyn-Mayer. Esempi dell’interazione tra animazione e attori in carne e ossa abbondano sin dai primi del Novecento, e si rifanno allo sguardo sperimentale che ha connotato l’animazione su pellicola sin dagli albori. A fianco al film di Zemeckis vale la pena ricordare, anche perché citato direttamente o indirettamente nelle serie contemporane, Due marinai e una ragazza (Anchors Aweight, del 1945), di George Sidney, con Frank Sinatra, Kathryn Grayson e Gene Kelly, un musical in cui una celebre scena mostra Gene Kelly danzare con il topo Jerry. Un’analoga condivisione degli spazi la si può ritrovare nella trilogia di Imaginationland (Terra dell’Immaginazione, in South Park, 2007): nei tre episodi che compongono la miniserie i protagonisti si trovano proiettati nel mondo dell’immaginazione, dove vivono
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Figura 9 Due marinai e una ragazza, con Stewie, in sostituzione del topo Jerry, a fianco a Gene Kelly, in un episodio dei Griffin. © Fox, Mgm.
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tutti i personaggi di finzione mai concepiti (da Babbo Natale a Luke Skywalker, da Superman a, con il consueto atteggiamento provocatorio di South Park, Gesù, oltre allo stesso Dio). Scavalcamenti di campo simili sono frequenti in tutte le serie animate per adulti, in un gioco di intertestualità che il più delle volte risponde alle esigenze della satira. Si può ricordare, nei Simpson, il segmento Homer3 (Homer al cubo), contenuto all’interno dell’episodio andato in onda per Halloween Treehouse of Horror VI (La paura fa novanta VI, 1995): per sfuggire alle sorelle della moglie, Homer si ritrova catapultato in un mondo interamente costruito in computer grafica 3d (va ricordato che nei Simpson, pur non mancando i concetti di tridimensionalità dello spazio e della prospettiva, i personaggi sono essenzialmente bidimensionali). La versione cgi di Homer (che curiosamente, e forse anche un po’ profeticamente, crede che tutto ciò che è 3d sia di gran valore, anticipando di pochi mesi l’ucita e il grande successo del primo film interamente generato al computer, Toy Story) si trova, dopo il collasso spazio-temporale di quello strano mondo, in una strada del mondo reale. Un’esperienza simile capita a Peter Griffin, nell’episodio di Let’s Go to the Hop (Lando il mito!, nei Griffin, 2000). Peter spiega al figlio Chris i pericoli della droga: dopo averla provata, «things get too real» (in italiano «vedi le cose in modo troppo reale»). L’inquadratura successiva mostra una scena di realtà: su una panchina, un uomo in pantaloni verdi e polo bianca (l’abbigliamento di Peter), con una maschera di Peter dall’espressione spaventata, si guarda le mani, convinto di avere le allucinazioni per quella dimensione in più concessagli. Un altro caso di combinazioni di immagini
Nel regno dell’animazione digitale: i mondi del vero e del non-vero
Figura 10 Peter Griffin si vede «troppo reale» in un’illusione allucinogena. © Fox.
reali e disegni lo si trova, nei Griffin, nell’episodio The Father, the Son, and the Holy Fonz (Padre, figlio e spirito Fonzie, 2005): Peter si trova all’interno del video (marcatamente anni Ottanta nello stile e nelle sonorità) della canzone Opposites Attract, di Paula Abdul, cantando con lei travestito da gatto, così come nel video originale la cantante danzava con un gatto-cartoon. Questo è a sua volta a un ulteriore riferimento alla già citata sequenza del ballo di Gene Kelly con il topo Jerry in Due marinai e una ragazza, all’interno del continuo gioco di rimandi e citazioni intertestuali a cui tipicamente si appoggiano I Griffin. Un ulteriore esempio di salti stilistici arriva ancora dai Griffin in Road to the Multiverse (ancora inedito in Italia, 2009), in cui Stewie e Brian riescono, grazie a uno speciale telecomando, a visitare una varietà di universi paralleli. Ovviamente questa possibilità si trasforma in una lunga serie di riferimenti, ognuno caratterizzato da un proprio peculiare stile estetico. I due protagonisti vengono proiettati nell’universo in clay-mation della serie tv Robot Chicken, in uno in bassa definizione in cui i personaggi ereditano l’aspetto blocchettoso tipico delle animazioni in Flash utilizzate in rete, e nell’universo dei Flintstones, in cui Peter e Lois assumono le sembianze e lo stile di Fred e Wilma. Un aspetto marcatamente extratestuale viene dalle parole di Stewie, che domanda, nel mondo di Robot Chicken, a Chris «come ci si sente ad andare in onda su un network importante per trenta secondi?» (ottenendo come risposta un laconico quanto beepato «Fuck you!»). La battuta può essere compresa solo ricordando che il doppiatore americano di Chris è il creatore di Robot Chicken, che va in onda su Cartoon Network, una rete popolare ma che di certo non
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Figura 11 I Griffin come appaiono nell’Universo Disney in Road To Multiverse. © Fox.
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può reggere paragoni in termini di diffusione e popolarità rispetto a Fox, che produce I Griffin. La sequenza più straordinaria di questo episodio è però rappresentata da un luogo un po’ speciale: «Siamo in un universo dove tutto è disegnato da Disney». Ogni personaggio richiama nelle sembianze lo stile del lungometraggio disneyano classico predigitale. La qualità dei fondali e del tratteggio è incredibilmente più elevata rispetto allo standard dei Griffin, e il numero musicale che accompagna questa sequenza vanta un’elaborazione che rasenta l’indistinguibilità, almeno sul piano tecnico, rispetto all’animazione, ricchissima, di una pellicola Disney. Ovviamente non manca l’aspetto satirico, dal momento che la sequenza si chiude con l’ingresso di Neil Goldman, che identificato subito come ebreo viene catturato e fatto a pezzi dagli altri personaggi. Stewie, laconicamente, commenta: «ah, già, dimenticavo, è un universo Disney», riferendosi alla diceria, basata sulla resistenza della Disney ad affrontare temi vicini alla cultura ebraica, secondo la quale Walt Disney sarebbe stato un antisemita. Esempi di questo tipo sono anche in un certo senso dei termometri della vitalità economica del prodotto cartoon: imitare l’aspetto di un altro prodotto vuol dire mettere in atto delle deviazioni dalla catena di produzione standard, che è normalmente tarata per l’elaborazione industriale di un determinato stile. Permettersi di realizzare sequenze con tecniche più costose, la cui creazione è resa ancora più ardua proprio dal fatto che tali tecniche non sono normalmente utilizzate nel regime standard di produzione, racconta ben più di una semplice citazione estetica o satirica: è un segnale di investimento, una dichiara-
Gli anni Novanta: i cartoon e le trasformazioni del sistema televisivo americano
zione di potere, un simbolo di stabilità culturale ed economica della serie e della rete che lo produce. L’esempio dello spoof Disney dei Griffin, in cui appare lampante come l’identità di un network e di un prodotto sia fortemente legata ai propri parametri espressivi, torna utile per ritornare al discorso iniziale sugli attori del mercato, case di produzione e network, che si dividono il segmento dell’animazione per adulti. Anche in questo caso occorre fare un passo indietro verso gli anni della nascita e della diffusione della televisione, che ha il merito di riscoprire il disegno animato come prodotto ideale per riempire brevi segmenti temporali riproponendo, negli anni Cinquanta, i cortometraggi animati prodotti negli anni precedenti e posizianandoli nella programmazione dedicata all’infanzia. Ciò provoca una certa stabilizzazione nel posizionamento del cartoon come prodotto per bambini, che perdurerà, almeno dal punto di vista della produzione statunitense, molto a lungo. Tra gli anni Sessanta e gli Ottanta le serie tv prodotte per la televisione rappresentano una risorsa estremamente spendibile ed esportabile: basti pensare alle popolarissime di Hanna & Barbera o ai supereroi Marvel. La rivoluzione che permette la nascita delle serie animate per adulti avviene però su più fronti: dal punto di vista dei contenuti si attesta la stabilizzazione del format della sit-com (sul quale si tornerà più avanti), mentre dal punto di vista delle trasformazioni del sistema radiotelevisivo si aprono nuovi scenari normativi e tecnologici. I.4 Gli anni Novanta: i cartoon e le trasformazioni del sistema televisivo americano Tra la fine degli anni Ottanta e fino alla metà degli anni Novanta si assiste a livello sistemico a un progressivo ma radicale cambiamento, caratterizzato principalmente dall’abolizione della separazione fra attività di produzione, distribuzione e diffusione, che culmina nel Telecommunications Act5 del 1996. È stato evidenziato che una ripartizione dei segmenti di mercato aveva reso il regime di concorrenza piuttosto debole, sia per ragioni di tradizione culturale, sia legislative. L’indebo5
Il Telecommunications Act è una legge (al momento ancora in vigore, in attesa della legge di riforma attualmente in discussione al Senato americano) che ha come principale obiettivo l’abbattimento delle barriere di ingresso ai mercati delle telecomunicazioni, in direzione della liberalizzazione del mercato in regime di concorrenza. Sulla base di questa premessa ha permesso l’ingresso nel mercato televisivo (e, parallelamente, in quello telefonico) ad attori a cui precedentemente tale mercato era precluso per le rigide normative antitrust che impedivano, ad esempio, a una casa di produzione cinematografica di operare sul mercato televisivo. Il testo completo è disponibile sul sito della Federal Communications Commission: Fcc.gov/telecom.html.
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limento della normativa antitrust favorisce invece, in quegli anni, la costruzione di network onnicomprensivi, tra i quali vale la pena ricordare quello che poi si affermerà come il vero trionfatore economico di quella che sarà poi chiamata «battaglia dei network»: Fox. Il rinnovato quadro normativo porta dunque le major cinematografiche a interessarsi e ad avvicinarsi alla produzione televisiva, e con essa, alla realizzazione di serie animate. Questo passaggio, ripensando al discorso precedentemente condotto in merito agli albori dell’animazione e del rapporto con il cinema, evoca la chiusura di un cerchio e idealmente un certo ritorno alle origini, con due mondi che dopo quasi un secolo di evoluzione parallela arrivano a confluire definitivamente anche dal punto di vista del mercato e dell’industria. Le major cinematografiche si trovano nella condizione di non essere più confinate all’interno di rigide normative anticoncentrazionistiche, presupposto che le induce ad aggredire prepotentemente il mercato televisivo dal quale erano precedentemente escluse: la Disney del 1995 arriva a prendere il controllo della Abc, probabilmente il più importante broadcaster americano, nonché di Espn, imponente network multinazionale leader nei programmi sportivi. Questo processo ovviamente non è a senso unico, basti bensare al colosso televisivo Nbc, all’interno del quale confluiscono la Universal Studios, e a Warner, che dopo aver resistito a un tentativo di scalata da parte della Paramount nel 1985 riesce a diventare il più esteso media network inglobando al suo interno New Line Cinema, Aol (America On Line), Time Inc., Cnn e in particolare Warner Bros, Hanna-Barbera e Dc Comics. Discorso analogo per Viacom, in cui tra gli altri confluiscono la rete Cbs, Paramount e DreamWorks, per poi scindersi in Cbs Corporation e in una «nuova» Viacom, che rinasce come società separata dal gruppo Cbs, in cui confluisce il network musicale Mtv. Completa lo scenario il colosso News Corporation di Rupert Murdoch, in cui sono concentrate, tra le altre, Fox, Fox News, 20th Century Fox, Sky e tutte le società ad essi collegate [Rondolino 2003, Hilmes 2007, Castleman — Podrazik 2010]. Lo scenario economico e di sistema dunque in questa fase arriva a configurare una situazione in cui vengono progressivamente abbattute le barriere che precedentemente imponevano una ben definita settorialità sia dal punto di vista del mercato di riferimento (stampa, cinema, tv, radio), sia dal punto di vista del ruolo all’interno dei singoli mercati (produzione, distribuzione fisica, diffusione on air e successivamente anche o solo on-line). Gli effetti di questa trasformazione portano prima di tutto a un trasferimento di regimi di influenza dei grandi colossi, che incorporando aziende che agiscono in settori diversificati distribuiscono le proprie accresciute risorse per invadere, o in alcuni casi creare ex novo, spazi di mercato televisivo. Uno di questi spazi è pro-
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Figura 12 The Real Ghostbusters, la versione animata ufficiale dei popolari Acchiappafantasmi. © Sony Pictures Television, Dic Entertainment.
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prio quello delle serie animate destinate a un pubblico non più infantile o adolescenziale, ma che per caratteristiche, temi trattati, linguaggio, si rivolgono a uno spettatore più maturo, informato, consapevole. Si tratta di un tipo di prodotto che dunque viene creato approfittando di una situazione contestuale che punta alla massimizzazione dei profitti attraverso l’inserimento di nicchia e l’allargamento del pubblico potenziale. Non si deve però considerare in questi anni l’animazione per bambini come un campo sofferente: è invece uno spazio commercialmente molto stabile, che viene ulteriormente potenziato attraverso l’arrivo sugli scenari di attori dotati di grandi possibilità di investimento. Si pensi a Disney, che può portare sul piccolo schermo i protagonisti dei suoi lungometraggi, creando delle serie televisive che cavalcano l’onda della popolarità di personaggi già conosciuti. È il caso di Aladdin (1994’95), serie animata che ripropone i personaggi dell’omonimo lungometraggio, o di Timon e Pumbaa (1995-’98), una serie spin-off6 basata sulla 6
Il termine spin-off, nello slang televisivo (ma anche fumettistico), viene utilizzato per indicare quei prodotti, in genere delle serie o miniserie a episodi, in cui il protagonista è un personaggio normalmente secondario, di sfondo o appartenente a un gruppo di
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coppia comica che nel lungometraggio disneyano Il Re Leone (The Lion King, di Roger Allers e Rob Minkoff, 1994) affiancava il protagonista Simba. L’abbattimento delle barriere e la possibilità di sfruttare commercialmente eroi di altri media nel campo dell’animazione si traduce inoltre nella trasposizione animata di celebri eroi del grande schermo: è il caso di Back to the Future: The Animated Series (1991-’92), basata sulla popolare trilogia di Zemeckis Ritorno al futuro (Back to the Future, 19851990), e delle serie trainate dal successo dei Ghostbusters (Ghostbusters – gli Acchiappafantasmi, 1984) di Ivan Reitman.7 Nel campo dell’animazione le serie per adulti si distinguono per una maggiore rigidità e compattezza sia narrativa che produttiva: seppure non manchino parecchi cross-over, gli spin-off che hanno origine da serie animate o film per un pubblico adulto sono tendenzialmente rari. Ha avuto una breve vita la miniserie Clerks (2000), basata sull’omonimo film di Kevin Smith del 1994, incentrata sui personaggi Dante e Randal, condita da fugaci apparizioni di Jay e Silent Bob (che a loro volta sono stati protagonisti di altri spin-off, animati e non), che è probabilmente l’unica serie animata destinata a un pubblico maturo legata a un brand cinematografico. Lo sguardo a tratti sperimentale dei Simpson ha invece prodotto l’episodio The Simpsons Spin-Off Showcase (1997), che è infatti una una sorta di «simulazione» in chiave comica di tre ipotetici spin-off della serie. Il primo è Chief Wiggum P.I., un cop-drama in cui protagonisti, di una serie o un film di successo. Lo scopo può essere sia garantire la possibilità di trasferire su un nuovo prodotto larghe fette di pubblico per assicurargli il successo contando sulla fidelizzazione degli spettatori, sia creare una continuità, dal punto di vista produttivo e narrativo, a serie in via di chiusura o di cancellazione. Un esempio particolarmente noto è quello di Joey, serie in cui il pubblico ha la possibilità di continuare a seguire le avventure di Joey Triviani, uno dei protagonisti della popolarissima serie Friends, oppure Angel, spin-off di Buffy l’ammazzavampiri. Non sempre legare il proprio nome a un prodotto di successo ha fortuna: è il caso ad esempio di Models, Inc., un telefilm in cui si racconta di un’agenzia di modelle di proprietà della madre di Amanda, protagonista di Melrose Place, serie che a sua volta era nata come spin-off del popolarissimo Beverly Hills 90210. In quest’ultimo caso il legame era servito proprio per trasferire su Melrose Place parte del pubblico di Beverly Hills, in particolare la fascia dei giovani adulti: il collegamento con la serie madre si esaurisce dopo appena tre episodi, per lasciare successivamente sviluppare un’identità indipendente a Melrose Place, in cui affrontare temi più maturi rispetto a quelli adolescenziali e postadolescenziali di Beverly Hills. 7 Sono state prodotte due serie sui Ghostbusters. La prima, Ghostbusters, non aveva nulla a che fare con gli Acchiappafantasmi del film del 1984. La Filmation, casa di produzione storica (suoi i cartoon Star Trek: The Animated Series, 1973-’74, The New Adventures of Flash Gordon, 1979-’80, He-Man and the Masters of the Universe, 1983-’85) e dententrice dei diritti televisivi del nome «Ghostbusters» grazie a una miniserie omonima prodotta nel 1975, sfruttò l’onda del successo del film per lanciare la propria serie animata. La seconda, della Sony Pictures Television, sottolineava invece la propria ufficialità rispetto al film intitolandosi The Real Ghostbusters (1986-’91), cioè «quelli veri».
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Figura 13 The Cleveland show: afroamericani in prima linea, ma i wasp possono guardare. © Fox.
il commissario Wiggum (Winchester nell’edizione italiana) si trasferisce a New Orleans per «ripulire la città», accompagnato dal preside Skinner che gli fa da spalla. Il secondo è The Love-matic Granpa, una sitcom in cui il barista Moe (in italiano Boe) riceve consigli sulla propria vita sentimentale da una love testing machine, in cui è rimasto intrappolato il fantasma del padre di Homer Simpson. Il terzo è The Simpson Family Smile-Time Variety Hour, un finto varietà incentrato sulla famiglia gialla, arricchito da canzoni e sketch. L’aspetto più interessante di questa puntata è che si ispira anche nel linguaggio alle formule di cui si costituisce parodia. Per esempio il secondo segmento, oltre alla sigla in animazione cut-out, riprende anche la gerarchia delle inquadrature tipica della sit-com e simula la presenza di tre macchine da presa, stilema che ne facilita la collocazione culturale. Va detto che in realtà un progetto di spin-off basato sui Simpson era stato programmato: Matt Groening nel 1994 aveva immaginato e scritto una sceneggiatura per un uno spin-off (Send in the Clown) con attori reali e con Krusty il clown come protagonista [Snierson 1999]. L’unico spin-off originato da una serie per adulti è invece una costola dei Griffin, ed è The Cleveland Show (2009), che vede il personaggio Cleveland abbandonare la cittadina di Qahog per iniziare una nuova vita in Virginia con una nuova famiglia. La scelta del personaggio di Cleveland come protagonista dello spin off racconta però qualcosa di più di una semplice strategia commerciale. Analizzando infatti l’offerta della Fox si può notare che tutte le famiglie (i Simpson, gli Smith di American Dad!, i Griffin) sono middle-class-white-American, con l’eccezione dei Simpson che hanno sì la pelle di colore giallo, ma la cui condizione sociale
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è quella di una famiglia tipicamente wasp. Alcuni personaggi afroamericani sono regolarmente presenti anche come protagonisti (Cleveland è uno di essi), tuttavia lo spin-off rappresenta la prima serie animata in assoluto in cui la famiglia protagonista è interamente nera, una mossa strategicamente orientata a generare un’offerta che fosse alternativa per le comunità afroamericane, la cui cultura è al centro dei riferimenti per la nuova serie. The Cleveland Show ha debuttato negli Usa il 27 settembre 2009, ricevendo un’accoglienza piuttosto calorosa, con oltre 9 milioni di spettatori che hanno assistito alla premiere [Entertainment 1999]. La caratterizzazione afroamericana è testimone anche dell’innovazione sociale apportata alla cultura statunitense dall’elezione del Presidente Barack Obama, tanto da essere definita come «un prodotto della Obama-generation». Ma se l’elezione di un presidente afroamericano ha portato alla nascita del primo cartoon con protagonisti neri, la dimensione dialettica tra società e prodotti culturali spiega come le serie tv abbiano in realtà anche agevolato la svolta culturale che Obama incarna, della quale The Cleveland Show rappresenta un punto d’arrivo: Un ruolo da protagonista per un individuo appartenente a una minoranza etnica in un nuovo programma su uno dei canali maggiori è «Cleveland Brown», un personaggio animato afroamericano, doppiato però da un doppiatore dalla pelle chiara […]. L’influenza di spettacoli con personaggi appartenenti a minoranze è innegabile, basti pensare a «The Cosby Show» [in italiano I Robinson] e alla sua rappresentazione di una famiglia borghese afroamericana, o il ruolo da presidente di Dennis Haysbert in «24», una parte che secondo lui ha forse aiutato a preparare il terreno per l’elezione di Obama». [Johnson 2008]8
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Oltre al versante legislativo, il panorama del mercato americano a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta vede anche una serie di sviluppi in direzione della moltiplicazione e della specializzazione dell’offerta per il consumo televisivo. Va sottolineato che rispetto al modello pubblico adottato dalla televisione europea (la Bbc in Inghilterra e la Rai in Italia), focalizzato su principi educativi, di accesso, di pluralismo [Abruzzese 2007], la filosofia alla base del sistema di emittenza americano è quella di un apparato fortemente decentralizzato, liberalizzato, orientato al mercato, composto da attori locali affiliati ai grandi network che inseguono il profitto secondo una logica industriale. Tale logica, moderna, laica, che sconfessa fra l’altro, in 8
L’articolo sottolinea inoltre che a fronte di una ritrovata sensibilità nei confronti delle minoranze afroamericane grazie al fenomeno Obama, i network hanno trascurato di dedicare altrettanto spazio alle altre minoranze etniche nella programmazione di fiction.
Nuovi attori sugli scenari dell’animazione: Cartoon Network e Mtv
teoria, ogni velleità autoriale proprio perché basata sul lavoro astratto, è alla base della prolificità, della capacità di innovare e innovarsi. La nascita e lo sviluppo di nuovi prodotti nell’industria culturale americana appaiono come ben lontani dai criteri di presunta autorialità dai quali, almeno in Italia, è difficile allontanarsi [Brancato 2007]. Produrre per la serialità significa investire su squadre di addetti ai lavori che siano in grado di garantire al flusso di lavoro una continuità indipendentemente da qualsiasi errore di percorso. Quest’organizzazione si traduce in una squadra di scrittura completamente rinnovabile, in cui ogni elemento è importante, ma senza che nessuno sia determinante o vitale affinché il lavoro possa continuare, perché l’interruzione non è concepibile in una catena di montaggio (per lo meno in una catena di montaggio di tipo fordista-taylorista). Generazioni di sociologi si sono interrogate, a partire da Ferdinand Tönnies, quando parlava di comunità e società in Comunità e società [Tönnies 1887], e da Durkheim, a proposito di solidarietà organica e meccanica [Durkheim 1893], su tale forma di organizzazione del lavoro. Questa ha un pregio fondamentale per un attore del mercato: it gets the job done. Il sistema-televisione, dunque, alla fine degli anni Ottanta ha ormai abbondantemente interiorizzato e sviluppato quella capacità industriale che già prima quella cinematografica aveva fatta propria, e che aveva rappresentato quella marcia in più per conquistare e definire il mercato. Collegando questa capacità di specializzazione alla politica di decentramento tecnologico e all’accentramento corporativo, gli anni Novanta portano definitivamente a un nuovo assestamento dei paradigmi produttivi, che si appoggia alla moltiplicazione dei canali: il miglioramento tecnologico della televisione via cavo (precedentemente utilizzata come mero ripetitore dei canali via etere per le zone non ben coperte dal segnale), la diffusione su larga scala della televisione satellitare e la possibilità di acquistare pacchetti di canali a pagamento permettono la completa e definitiva liberalizzazione del mercato. Non esistendo più alcun limite imposto da risorse fisicamente limitate (come le frequenze terrestri della tv via etere, o la larghezza di banda della trasmissione via cavo), l’unico fattore discriminante per il successo di un canale, di un prodotto, di un’azienda, diventa il contenuto. I.5 Nuovi attori sugli scenari dell’animazione: Cartoon Network e Mtv Non sussistendo barriere economiche d’ingresso, difficoltà di accesso, vincoli territoriali, la liberalizzazione è anche un grosso peso per i network: non solo devono riempire degli spazi, ma hanno bisogno di
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popolarli con prodotti in grado di posizionarsi e di penetrare segmenti di mercato di alta specificità, e di non confliggere con prodotti dello stesso network. Le televisioni tematiche giocano un ruolo fondamentale per il rilancio dell’animazione televisiva: un primo esempio è Cartoon Network, nato nel 1992 e appartenente al colosso Time Warner, che ha iniziato trasmettendo i popolari cartoni Hanna-Barbera. Pur essendo un canale dedicato principalmente all’intrattenimento per i giovani, nel 2001 ha dedicato la fascia oraria notturna ad Adult Swim, una programmazione orientata all’animazione per adulti (non prodotta ma per lo più importata: è composta principalmente da anime giapponesi). A fianco a Cartoon Network compaiono Nickelodeon, canale per bambini (che prende il nome dai piccoli cinema dell’inizio del xx secolo in cui il biglietto costava soli cinque centesimi, evocando in qualche modo quello stretto collegamento tra cinema e animazione di cui si è già parlato), e Mtv, il canale tematico dedicato alla musica: entrambi, mirando a un pubblico specifico e comunque giovanile, puntano sull’animazione come riscoperta. In quest’ottica i cartoon diventano una realtà reinventata, rinnovata, attualizzata e, per quanto riguarda Mtv, dissacrante. La disponibilità di un alto numero di canali altamente specializzati, tematici e/o a pagamento, e la possibilità di rivolgersi a un target mirato e circoscritto di pubblico, garantiscono l’opportunità di sperimentare e di allargare le fasce d’età di riferimento. Immaginare che un pubblico maturo o adulto potesse appassionarsi ai disegni animati, seguirli, garantir loro il successo, poteva probabilmente sembrare un azzardo alla fine di un secolo in cui l’animazione aveva trovato una collocazione d’elezione molto stabile nell’immaginario dei prodotti culturali destinati all’infanzia. Tuttavia, dopo circa vent’anni, è possibile senza dubbio riconoscere la lungimiranza di chi ha avuto il coraggio di osare, di ampliare il target, di provare a dimostrare che i cartoon Tv-14 o Tv-Ma9 9
Derivata da quella cinematografica, la classificazione americana delle fasce di destinazione di un prodotto televisivo si può distinguere in: Tv-y (Directed at young children, cioè diretto a bambini fra i 3 e i 7 anni), Tv-y7 (dai sette anni in su), Tv-y7-fv (Fantasyviolence, per bambini dai 7 anni in su, con contenuti potenzialmente violenti ma in ogni caso di fantasia, come un combattimento tra Pokémon), Tg-g (General audiences, appropriato per tutti, anche se si tratta di un programma non specificatamente indirizzato alle fasce più giovani, per esempio i giochi a premi e i quiz), Tv-pg (Parental guidance suggested, ovvero con presenza di un genitore consigliata), Tv-14 (da quattordici anni in su), Tv-ma (mature audience, pubblico adulto). Nel corso di vent’anni di animazione per adulti, per linguaggio, violenza, situazioni ambigue o riferimenti sessuali, gli episodi (ognuno categorizzato autonomamente) oscillano generalmente tra il Tv-pg e il Tv-ma. Gli episodi di Futurama e dei Simpson si posizionano normalmente sul Tv-pg, anche se dei Tv-14 sono frequenti e, a partire dalla ventesima stagione, predominanti per i Simpson. Per I Griffin e American Dad! il rating minimo è Tv-14, con occasionali Tv-
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Figura 14 Ren & Stimpy Adult Party Cartoon ha sollevato numerose polemiche per la presenza di nudità. © Nickelodeon Animation Studios.
potevano non solo far ridere, ma reinventare uno sguardo nei confronti della società. Ovviamente gli obiettivi sono anche indirizzati alla potenziale redditività di una simile strategia, legata all’eventualità di ottenere un successo tale da poter conquistare spazi anche nelle tv generaliste (soprattutto all’estero) e di ottenere il posizionamento nelle fasce orarie più remunerative. Va quindi sottolineato che nella logica di una produttività industriale l’innovazione è sempre legata anche alla dimensione economica: si produce una rivoluzione nei linguaggi, nelle tecniche, nei modelli e nei contenuti non per mere velleità di sperimentazione artistica o autoriale, ma perché l’innovazione, quando socialmente accettata, garantisce l’identità del prodotto e il relativo successo. Si può ragionevolmente affermare dunque che la dimensione artistica, svincolata da un’obsoleta posizione antitetica rispetto ai prodotti culturali di massa [Brancato 2007], è una conseguenza, e non un motore, dell’innovazione. Ciò ha consentito al cartoon di migliorare, di accrescere le proprie qualità, di attrarre nuovi soggetti, di diversificare l’offerta, sull’onda dell’euforia che caratterizzerà gli anni Novanta. Vale la pena, a testimonianza della grande ma.
South Park invece è decisamente Tv-ma; e non senza autoironia, i titoli di testa di South Park sono anticipati da questo disclaimer: «The following program contains coarse language and due to its content it should be not be viewed by anyone» (‘Il seguente programma contiene un linguaggio scurrile e a causa dei suoi contenuti non dovrebbe essere visto da nessuno’).
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Figura 15 Beavis e Butthead, nati per essere scorretti, ripugnanti, e semplicemente brutti. © Mtv Animation.
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fertilità del mercato di quegli anni, annoverare alcuni dei cartoon meno noti rivolti a fasce di pubblico mature. Il 1991 vede la nascita di The Ren and Stimpy Show, mai tradotto o trasmesso in Italia, che racconta le avventure nonsense del cane Ren, chihuahua psicotico, e Stimpy, gatto dall’intelligenza piuttosto inquieta. La latente relazione omosessuale tra i due, la dichiarata rinuncia a qualsiasi velleità educativa, le nudità femminili e il ricorso a immagini crude e disorientanti, hanno immediatamente acceso il fuoco delle polemiche, che rappresentano un accompagnamento tutt’altro che insolito ai disegni animati per adulti. Mtv, il canale musicale che ha contribuito a costruire un supporto visivo all’immaginario musicale diffondendo i videoclip delle canzoni, lancia invece nel 1990 Liquid Television, un programma contenitore all’interno del quale trovano posto serie animate che hanno come unica caratteristica in comune una forma di comicità sintetica, distratta, nichilista e alternativa. All’interno di Liquid Television prosperano Beavis & Butthead (1993-’97), detestabile coppia di adolescenti metallari, pigri, volgari, misogini, che approderà al cinema dopo tre anni di tv con il lungometraggio Beavis & Butt-Head alla conquista dell’America (Beavis and Butt-Head Do America, di Mike Judge, 1996). Sempre su Mtv, nel 1995, approda dal mondo del fumetto la fantascientifica Aeon Flux, eroina fetish vagamente dominatrix: dark, stivaloni in pelle scura, generalmente vestita il meno possibile, con l’abitudine, almeno per la prima serie, di morire in ogni episodio, rompendo quella consolidata tradizione di continuità narrativa sul tema della morte la cui definitiva
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Figura 16 Dark e poco vestita, Aeon Flux è nata fumetto ed è diventata cartoon prima, e film poi. © Mtv Animation.
violazione sarà uno dei principali cavalli di battaglia di South Park due anni più tardi. Nel 1997, in sostituzione di Beavis & Butthead, compare sugli schermi la sarcastica Daria, caratterizzata da un costante understatement e da un atteggiamento di sufficienza nei confronti del mondo: una vera adolescente degli anni Novanta. Un capitolo a parte lo merita il «celebre» Celebrity Deathmatch: uno show completamente in clay-mation in cui di volta in volta una coppia di personaggi famosi si affronta sul ring in un combattimento all’ultimo sangue, dove vince chi sopravvive. Privi di qualsivoglia regola (che si tratti di quelle dell’incontro o della coerenza interna del linguaggio audiovisivo), gli episodi utilizzano il wrestling come macguffin10 per ironizzare sui personaggi, o a volte sulla storia, creando situazioni grottesche e surreali. Celebrity Deathmatch, pur proponendo il format e il linguaggio degli incontri di wrestling (memorabile la coppia di presentatori del match) e imitando movimenti di macchina e il punto di vista televisivo tipico delle inquadrature delle relative trasmissioni, è a tutti gli effetti una serie animata,
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Hitchock, intervistato da Truffaut, lo definiva «il nulla più assoluto», ma il macguffin è quell’elemento, del tutto irrilevante ai fini dello svolgimento narrativo, che è tuttavia in grado di attivare e mettere in moto i nessi causali della storia. Il film Notorious (di Alfred Hitchcock, 1946) è una spy-love-story basata sulla ricerca delle tracce di un traffico di uranio contenuto in alcune bottiglie di vino. Ma l’uranio è solo un «motore immobile» che muove gli eventi e che, secondo Hitchcock, rappresenta un pretesto motivazionale per il racconto [Truffaut 1966].
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Figura 17 Celebrity Deathmatch: le ferite dell’animo sono l’ultima delle loro preoccupazioni. © Mtv Animation.
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e l’estrema violenza, seppur mitigata dall’irrealtà della clay-mation, la posiziona verso un target di young adults. Naturalmente la scelta delle star da far combattere è prettamente culturale: la fantasia dà corpo a improbabili scontri che affondano le proprie radici nell’immaginario condiviso e nell’attualità. Il gioco viene innescato dalla scelta di personaggi in base al loro posizionamento agli estremi di assi oppositivi, posizionamento che deve essere riconoscibile dal pubblico, che riesce così a recuperarne il senso. Un esempio è l’incontro tra Hillary Clinton, moglie dell’ex Presidente americano Bill Clinton e attuale Segretario di Stato, e Monica Lewinsky, nota per la relazione extraconiugale avuta con l’allora Presidente. In questo caso il criterio di selezione è molto semplice: a partire da un evento dotato di elevata riconoscibilità (in virtù della grande copertura mediatica a esso dedicata), gli autori hanno selezionato i due personaggi che meglio potevano incarnare agli occhi del pubblico l’idea del conflitto, colmando così attraverso l’esperienza e la conoscenza dell’evento i buchi «narrativi» che si potrebbero creare posizionando due personaggi su un ring. La motivazione viene dunque lasciata in sospeso al livello del racconto, e colmata dal senso comune grazie alla percezione condivisa che il pubblico ha dei personaggi. Far combattere Arnold Schwarzenegger con Sylvester Stallone risponde, per esempio, quasi a un desiderio «storico» del pubblico: sapere chi avrebbe la meglio tra i due simboli del cinema d’azione. Un discorso analogo può essere fatto per i campioni dello sport (Michael Jordan contro Dennis Rodman, praticamente lo scontro tra due generazioni di cestisti). Altre volte la scelta viene in-
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vece effettuata per criteri onomastici (l’incontro tra Mariah Carey, cantante, e Jim Carrey, attore, o quello tra Charles Manson, criminale, e Marilyn Manson, cantante che deve il suo pseudonimo proprio a Charles Manson) o per posizioni conflittuali o reciprocamente ingombranti nel grande universo dell’immaginario (i due 007 Sean Connery e Roger Moore, anche in questo caso quasi uno scontro dei padri contro le nuove generazioni) o della storia (Mosè contro il Faraone). Vale la pena ricordare anche l’unico match interamente italiano, cioè «l’uomo più felice d’Italia contro l’uomo più arrabbiato d’Italia», cioè Roberto Benigni contro Benito Mussolini. L’aggancio per un incontro di questo tipo arriva ancora una volta dal mondo della comunicazione: l’episodio è infatti andato in onda dopo il successo negli Usa del film La vita è bella (Roberto Benigni, 1997), attestato dai tre Oscar conquistati nel 1999. I.6 Fox: da attore emergente a protagonista Come descritto nel corso di questo Capitolo, gli anni Novanta si caratterizzano come periodo di mutamento di condizioni sistemiche che nella loro evoluzione consentono all’animazione per adulti di nascere e svilupparsi. In particolare, vanno ricordati i fattori seguenti. — L’abbattimento legislativo dei vincoli e delle barriere in ingresso permette alle aziende di operare legalmente su più fronti sia a livello verticale (produzione, distribuzione, diffusione) sia a livello orizzontale (operare trasversalmente su più media). — L’accorpamento in grandi network di operatori dei media, in ottica corporativa e concentrazionistica, favorisce lo sviluppo di media-corporations, che tendono a massimizzare la diversificazione dei propri settori di influenza e a razionalizzare i processi produttivi in direzione industriale. — Il miglioramento tecnologico e l’innovazione delle piattaforme di broadcasting attraverso cavo e satellite creano uno spazio commerciale tutto da riempire con prodotti differenziati. — La grande disponibilità di capitali permette ai network di investire in questo nuovo spazio, ancora tutto da «colonizzare». — L’alta disponibilità di canali favorisce la specializzazione e la nascita di tv tematiche, caratterizzate da una certa rigidità nei generi della programmazione, inapplicabile in un regime di tradizionale televisione generalista. In merito al secondo punto va ricordato come l’indebolimento dell’impianto della normativa antitrust in favore della liberalizzazione del mercato favorisca la concentrazione dei fattori primari che permettono il controllo dei canali commerciali su scala globale. Tali fattori,
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ricorda Marco Pellitteri chiamando in causa le tesi di Morley e Robins [Morley – Robins 1995, Pellitteri 2008], possono essere identificati nella capacità di ideazione e produzione e nel controllo delle infrastrutture logistiche necessarie alla distribuzione e alla diffusione su scala mondiale dei prodotti culturali. Nel momento in cui si realizza questa condizione, pur soggiacendo alle comuni regole del circuito della produzione e del consumo, il processo di penetrazione di mercati globali è in larga misura più agevole. Tenendo presente ciò, va approfondito il ruolo di due emittenti per molti versi antitetiche, legate dall’eguale importanza data all’animazione per adulti ma caratterizzate da storia e meccanismi profondamente diversi: Fox, gigante dell’industria dell’entertainment, e Comedy Central, un canale tematico relativamente piccolo, inizialmente concepito da Hbo-Time Warner e oggi di proprietà di Viacom (già proprietaria del citato canale per bambini Nickelodeon e rafforzata nella produzione con target giovane dall’acquisizione di Mtv). Anche se Viacom è una media-corporation di enormi proporzioni (la terza dopo Disney e News Corporation), va sottolineato che l’identità di Comedy Central è tutto sommato indipendente dalla proprietà azionaria, ed è culturalmente considerato un canale minore, o comunque non mainstream. Il canale Fox, di proprietà dall’omonimo gruppo (Fox Entertainment Group), a sua volta parte della News Corporation, nasce invece nel 1986 grazie alla liberalizzazione del mercato come ramificazione televisiva della storica 20th Century Fox, precedentemente vincolata alla sola produzione, e impossibilitata ad agire sul mercato come broadcaster. Acquisite le infrastrutture locali per la trasmissione di programmi su scala nazionale negli Usa e diventando di fatto un network (il quarto americano assieme ad Abc, Cbs, Nbc), la nuova Fox si concentra sulla produzione di programmi di intrattenimento per le fasce orarie di punta. Va sottolineato che la liberalizzazione per chi opera come produttore, distributore e broadcaster, è stata comunque per anni soggetta a limitazioni, in particolare rispetto ai giorni e alle ore quotidiane di trasmissione. Tale regola, ormai abolita, prendeva il nome di Prime Time Access Rule, e fu istituita per la prima volta dalla Federal Communications Commission (Fcc) nel 1970, sia come norma antitrust per i grossi network, sia per stimolare la produzione locale di programmi di qualità. La legge è stata formalmente abrogata nel 1996 perché ritenuta non più necessaria, in virtù dell’aumento dei canali, con lo scopo dichiarato di promuovere l’indipendenza o l’autonomia. Allo stato attuale, però, i grossi network, che hanno tarato i propri meccanismi produttivi ottimali su un consolidato rapporto tra il lavoro on-air e quello off-air, tra cui Fox, continuano a trasmettere in periodi limitati della giornata (ovviamente quelli che garantiscono un maggiore pubblico), per circa
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venti ore settimanali. Questo avviene perché le risorse vengono destinate solo in direzione delle possibili entrate, a differenza delle televisione generalista classica del servizio pubblico. Durante le ore di trasmissione ogni affiliato, che è a sua volta un’azienda locale, trasmette i programmi del network, mentre nelle restanti ore manda in onda altri contenuti, come notizie locali o programmi (in genere repliche) di cui si acquisiscono i diritti di trasmissione. È chiaro quindi che i grossi network occupano le fasce orarie più remunerative, come appunto il prime-time e in generale la programmazione serale, creando di fatto un doppia stratificazione del mercato: uno di primo livello, fatto di programmazione originale, e un secondo composto da repliche e programmazione locale.11 Comedy Central, al contrario, mantiene l’identità di un canale tematico e indipendente: trasmette senza sosta come fanno alcuni piccoli network, anche se i programmi-chiave occupano le fasce prime-time, mentre nel resto delle ore il palinsesto prevede repliche di programmi umoristici in linea con il tema del canale. Va ricordato che, a differenza dei network, un canale dispone in pianta stabile della frequenza su cui trasmette, o dello «spazio» a esso 11
È una logica quasi sconosciuta nei paesi, come l’Italia, in cui la programmazione è stata per molti anni monolitica e legata solo al concetto di palinsesto, ma per spiegare come funziona tecnicamente questo approccio si può pensare al tg regionale italiano. Il terzo canale Rai trasmette infatti a livello nazionale, ma in determinati segmenti orari il segnale di zona viene riempito con le edizioni locali del telegiornale. La linea, dopo il tg, viene rilasciata all’emittente centralizzata, che riprende la programmazione nazionale. Negli Usa avviene l’inverso: le reti locali trasmettono i programmi autonomamente per la maggior parte del tempo, mentre nelle fasce acquisite dai network si impegnano a mandare in onda il segnale centralizzato. In Italia ci sono pochi casi di network «all’americana», ma in realtà il fenomeno è poco paragonabile con l’impatto che questo sistema ha rispetto a quanto è accaduto e quanto accade tuttora negli Usa. Uno di questi è Odeon Tv, che trasmette per sei ore al giorno su tredici emittenti locali (la trasmissione è caratterizzata dal classico doppio logo in sovrimpressione: quello di Odeon Tv e quello della stazione locale), oltre che su un canale satellitare dedicato. Simile è il caso di Mtv, le cui trasmissioni, in inglese, vennero inizialmente riprodotte da una serie di stazioni locali che facevano da ponte tra la trasmissione via satellite e l’etere. Successivamente, con la creazione di una versione italiana, la messa in onda si spostò su Rete A (dalle cui ceneri e dalla cui esperienza acquisita dalla cooperazione con Mtv nel campo della programmazione musicale sarebbe nato poi il canale tematico All Music), che a sua volta trasmetteva tramite una rete di emittenti locali affiliate, delle quali però occupava l’intera giornata, a differenza dei limiti orari del modello-network. L’esperienza italiana racconta però che questa forma è riconducibile solo a pochi e singoli casi di medio successo (come appunto Odeon Tv), caratterizzati comunque da un impatto sul mercato minimo rispetto alle televisioni nazionali derivate dal modello del servizio pubblico. Il motivo va ricercato sia nella dimensione egemonica dei duopolisti del mercato televisivo (Rai, ma soprattutto Fininvest-Mediaset), sia in una sorta di resistenza culturale, che portava gli spettatori a ritenere «di serie b» le trasmissioni locali. Anche una rete di portata nazionale come Odeon Tv, legata indissolubilmente alla reatà delle emittenti locali, eredita dunque un certo pregiudizio indipendentemente dalla qualità della programmazione.
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riservato nel broadcasting digitale (satellite, cavo, digitale terrestre). L’idea di canale è quella più familiare al pubblico italiano, essendo stato abituato per decenni al consumo attraverso questo modello. Vale la pena ricordare anche la differenza con i termini «emittente» e «stazione», spesso utilizzati come sinonimi di canale, laddove il primo indica l’infrastruttura tecnica, tecnologica e produttiva necessaria a mandare in onda il segnale radiotelevisivo, mentre il secondo può riferirsi anche ai ripetitori che diffondono il segnale sul territorio di competenza. I.6.1 La Fox e i Simpson
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Fox è un network della «seconda ondata», quella che si è sviluppata tra gli anni Ottanta e Novanta. È un nuovo attore dello scenario televisivo, e già dai primi anni di programmazione mostra una tendenza all’innovazione e alla sperimentazione. In particolare, nel 1987, lancia il Tracey Ullman Show, un varietà settimanale condotto dalla conduttrice britannica, che oggi viene prevalentemente ricordato per essere stato il programma contenitore che ha dato vita alla più longeva sit-com della storia della televisione americana: I Simpson. Non si trattava del format che ha poi dato la fortuna alla serie, tuttavia: erano invece dei brevissimi sketch della durata di 1-2 minuti utilizzati prima delle interruzioni pubblicitarie o come intermezzi. I personaggi erano disegnati in uno stile più grezzo, ma la famiglia Simpson di lì a poco sarebbe diventata la più conosciuta famiglia televisiva nella storia della televisione. L’esperienza dei cortometraggi portò nel 1989 al lancio della serie ufficiale in episodi di 20-25 minuti l’uno, in prima serata, sul canale Fox. L’idea di base era tutto sommato semplice: trasferire sullo schermo in forma animata la tipica struttura narrativa della sit-com, sviluppando personaggi riconoscibili, altamente caratterizzati, e affrontando attraverso ironia, satira e parodia dei temi sensibili per la società americana a partire dall’idea stessa di famiglia e di comunità. Alle spalle della genesi dei Simpson c’è il suo creatore, Matt Groening, un disegnatore di esperienza relativamente scarsa. Groening iniziò infatti la sua carriera con Life in Hell, un fumetto che originariamente veniva disegnato, fotocopiato e venduto da lui stesso nel negozio di dischi nel quale lavorava, a Los Angeles. Gli esordi della carriera di Groening sono a volte l’oggetto di riferimenti più o meno nascosti in alcuni episodi dei Simpson. Nella puntata Bart’s Friend Falls in Love (L’amico di Bart s’innamora, 1992), per esempio, si racconta della cotta che Milhouse, il miglior amico di Bart, ha per la nuova compagna di classe. Nel corso degli eventi viene mostrato ai ragazzi, a scuola, un video di educazione sessuale, Fuzzy Bunny’s Guide to You Know What (La guida di Coniglietto Batuffoletto a tusai-cosa), in cui dei conigli dalle vaghe sembianze antropomorfe ven-
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Figura 18 Life in Hell: la prima creatura di Matt Groening mostra già il suo caratteristico stile. © Matt Groening.
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gono utilizzati per spiegare i misteri dell’amore e del sesso. I conigli sono proprio i protagonisti, per stile grafico e sembianze, di Life in Hell, caratterizzato da commenti graffianti sulla sessualità. Un altro riferimento alla carriera di Matt Groening, stavolta più esplicito, lo si può trovare nella puntata I Am Furious Yellow (Papà incacchiato, 2002), in cui Bart diventa un disegnatore di successo con il fumetto Angry Dad (Padre Furioso, modellato ovviamente sul padre, Homer), che diventa una hit fra gli internet-cartoons. Prima di raggiungere il successo, tuttavia, Bart disegna, copia e distribuisce degli albi artigianali di Angry Dad vendendoli in un piccolo espositore in un negozio, esattamente come Matt Groening agli inizi. Life in Hell è quindi una palestra creativa per Matt Groening, ma è solo grazie all’incontro con l’industria che i Simpson riescono a diventare un’icona della cultura popolare, americana prima, mondiale poi. Si può ragionevolmente affermare infatti che i produttori James L. Brooks e Sam Simon abbiano aiutato a costruire il format e il posizionamento del cartoon, garantendo a Groening un reparto industriale non solo per l’animazione, ma soprattutto di scrittura: basti
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Figura 19 I protagonisti di King of the Hill, serie che in Italia ha avuto scarsa fortuna. © Fox.
pensare che il conto degli autori degli episodi, tra quelli fissi e quelli a rotazione, supera le cento unità. I.6.2 King of the Hill, Futurama, I Griffin, American Dad!, The Cleveland Show
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Limitare l’impatto della Fox al solo fenomeno Simpson è, tuttavia, riduttivo. Una volta attivato, rodato, sperimentato un modello di produzione in grado di sviluppare per oltre venti episodi a stagione storie, musica, doppiaggio, animazione, questa struttura industriale è stata applicata più volte negli anni, rendendo Fox il principale produttore di serie animate per adulti. Gli anni Novanta vedono la nascita di King of the Hill (1997-2009), dello stesso creatore di Beavis & Butthead, i cui protagonisti sono texani, classici uomini del Sud degli Stati Uniti. Dopo un iniziale successo di critica e di pubblico, la serie ha avuto un certo appiattimento nei consensi soprattutto all’estero,12 e anche se è stata particolarmente longeva non ha mai raggiunto quello stato di cult-series che ha permesso ad altri prodotti di raggiungere il successo, questo probabilmente anche a causa di uno stile d’animazione meno moderno. King of the Hill è stato cancellato nel 2009 e sostituito dal citato The Cleveland Show, con un ribaltamento completo del target di pubblico (dall’americano del Sud alla minoranza afroamericana, cioè due opposti culturali). Sempre negli anni Novanta nasce Futurama (1999), nuova creatura di 12
In Italia, per esempio, è stata importata solo nel 2003 e, a differenza di altri cartoon Fox, non è passata sulle reti nazionali, ma solo sul satellite, sul canale Fox.
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Figura 20 Futurama, serie dalla straordinaria ricchezza visiva. © Fox.
Matt Groening, che racconta l’America del futuro vista dagli occhi di un americano del presente. Futurama narra le avventure di Phillip J. Fry, un modesto fattorino newyorkese che si trova casualmente intrappolato in una cella criogenica, nella quale resta congelato per mille anni esatti. Caratterizzata da una maestosità grafica che fa un uso intensivo dell’animazione al computer in cel-shading, Futurama, nonostante un grande successo, è stato sospeso nel 2003,13 per essere poi ripreso nel 2007, viste le elevate vendite degli episodi su dvd sotto forma di quattro film per la tv, il cui successo ha poi decretato il ritorno della serie nel 2010 con una nuova stagione trasmessa da Comedy Central, che ha acquistato da 20th Century Fox Television i diritti di trasmissione (ma non di produzione). Anche per Futurama vale il discorso del rapporto con la società che l’ha prodotto: il modo in cui una cultura immagina il proprio futuro è una spia dello sguardo autoriflessivo su sé stessa, ed è una prospettiva che la fantascienza ha stabilmente interiorizzato. Proseguendo nelle continue innovazioni della Fox non si può evitare di citare un 13
La cancellazione di Futurama viene fatta oggetto di satira (per certi versi anche un po’ amara, visto che ne condivide il creatore) nei Simpson. Nell’episodio Fraudcast News (Impero mediatico Burns, 2004), una sequenza vede un ragazzo un po’ nerd lanciarsi da una rupe urlando «Why did they cancel Futurama?!» (‘Perché hanno cancellato Futurama?!’) prima di gettarsi nel vuoto. In un altro episodio ambientato nel futuro, il cui titolo inglese gioca su un’evidente assonanza, Future-Drama (Future-Drama, 2005), Bart e Homer, dopo aver attraversato in automobile un tunnel olografico, si ritrovano il robot Bender come passeggero. Bender esclama «You guys are my news best friends!» (‘Ragazzi, siete i miei nuovi migliori amici!’), ma Homer risponde «You wish, loser!» (‘Ti piacerebbe, perdente!’) prima di defenestrarlo.
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Figura 21 Stan Smith, tradizionalista e patriottico, con la sua famiglia. © Fox.
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altro nome fondamentale nell’animazione americana: Seth MacFarlane, creatore dei Griffin, di American Dad! e di The Cleveland Show, cioè ben tre delle quattro famiglie animate che compongono l’«animation domination», cioè l’attuale offerta della Fox in termini di animazione, che è oggi una componente fondamentale della programmazione del canale di Murdoch. Non a caso MacFarlane è noto anche per essere l’autore-produttore più pagato della storia della televisione, e la serie I Griffin può essere considerata la più grande innovazione in termini di linguaggio e struttura narrativa dai tempi della nascita dei Simpson. Quest’affermazione, sulla quale si tornerà più avanti, è valida nonostante quanto affermato nell’episodio dei Simpson The Italian Bob (Il Bob italiano, 2005), l’unico ambientato in Italia. La famiglia, in trasferta per acquistare una fuoriserie italiana per il signor Burns, il datore di lavoro di Homer, incontra in un paese della Toscana il fuggitivo Sideshow Bob (Telespalla Bob). Quando la polizia lo cerca in un elenco di criminali, la sua immagine è associata al reato per il quale è ricercato, tentato omicidio. La foto successiva però è quella di Peter Griffin, colpevole del reato di plagio, e quella ancora successiva è di Stan, di American Dad!, colpevole del reato di «plagio di plagio». La gag però va letta, oltre alla satira, rispondendo alla consueta domanda su cosa racconta al di là della gag extratestuale. Da un lato indica che probabilmente Peter Griffin ha qualcosa di troppo in comune con Homer Simpson, e che Stan Smith ne è a sua volta un discendente illegittimo. Ma allargando lo sguardo essa allude a quanto l’esplosione dell’animazione per adulti sia debitrice della famiglia gialla a partire dagli anni Novanta.
Fox: da attore emergente a protagonista
American Dad! è invece il risultato dell’influenza culturale che l’Undici Settembre ha avuto sugli Usa, segnando un punto di svolta nella percezione da parte degli statunitensi della loro stessa nazione. Il «padre di famiglia» Stan Smith è infatti un agente della Cia, convinto repubblicano e devoto alle cause della protezione e della sicurezza nazionale. Ossessionato dalla moralità e dai valori tradizionali della società americana, Stan vive con la sua famiglia a Langley Falls, in Virginia, nei pressi di Washington, centro del potere e della politica americana. Questa connotazione è una spia delle ossessioni verso i temi della sicurezza sviluppatisi all’indomani dell’Undici Settembre, e ne racconta le ansie e le paure, ma anche le distorsioni e le esagerazioni, descrivendo un’America la cui identità è turbata da un profondo conflitto originato tra l’attaccamento agli ideali tradizionali di libertà e la necessità di sacrificarne una parte per la protezione nazionale e la prevenzione di eventuali futuri attacchi, sia concreti che culturali. Emerge da questo contesto sociale anche la già citata trilogia di Imaginationland, in cui dei terroristi attacano gli Usa nell’omonima dimensione dell’immaginario. Il messaggio del Pentagono: «Ladies and gentlemen, I have dire news. ���� Yesterday, at approximately 18:00 hours, terrorists successfully attacked… our imagination. […] The Muslim terrorists hijacked our imagination. […] By attacking our imagination the terrorists have found our most vulnerable spot» (‘Signore e signori, ho delle tristi notizie. Ieri, approssimativamente alle ore 18, dei terroristi sono riusciti ad attaccare… la nostra immaginazione. […] I terroristi musulmani hanno dirottato la nostra immaginazione. […] Attaccando la nostra immaginazione i terroristi hanno trovato il nostro punto più vulnerabile’) descrive attraverso il nonsense e la fantasia un’America turbata da un conflitto che è profondamente culturale in quanto non minaccia soltanto delle infrastrutture fisiche, ma si completa nell’immaginario, esattamente come negli anni precedenti la Guerra Fredda aveva rappresentato un’opposizione ideologica più che bellica. Il riferimento all’immaginario come vulnerabilità descrive esattamente il fulcro di un conflitto fra culture, in cui il bene più prezioso, per l’America, è la propria identità culturale e la propria libertà. Ritornando al line-up14 dell’«animation domination» appare chiara la strategia di posizionamento culturale del cartoon: l’animazione rappresenta per Fox un segmento dominante della programmazione, sulla 14
Traducibile letteralmente con ‘scaletta’, il line-up è un concetto che nel marketing televisivo connota la direzione, e in qualche modo l’identità, di un canale in base all’affollamento, in fasce orarie affiancate, di programmi che afferiscono a un medesimo tema. In questo caso il line-up «Animation Domination» prevede la messa in onda in sequenza, a coprire un’intera fascia oraria (o più, per esempio la domenica), con episodi di I Simpson, American Dad!, King of the Hill, I Griffin. Nella primavera del 2009 ha trovato posto, per soli quattro episodi, Sit Down, Shut Up, una sit-com animata ad ambientazione
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quale l’intervento del network è andato in direzione di una industrializzazione dei processi allo scopo di ottenere un ventaglio di prodotti che hanno tutti in comune la focalizzazione attorno a un nucleo familiare, ma che si distinguono per una propria identità sociale, diegetica, narrativa, formale. I.7 Davide contro Golia: Comedy Central
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Se Fox rappresenta la più avanzata industria per l’animazione televisiva a fianco dei grandi nomi venuti dal passato come Disney, Comedy Central sembra appartenere a una dimensione ancora autoriale e artigianale: è tuttavia un’impressione solo minimamente fondata che non trova riscontro. Comedy Central, a differenza di Fox, non è un network ma un canale, e rappresenta nel campo dell’animazione uno di quegli attori nati in seguito alla proliferazione dei canali tematici e/o a pagamento, specializzati, settoriali, che mirano a offrire una varietà di prodotti legati a un genere. Come si può intuire dal nome, è un canale dedicato alla messa in onda di comedy, cioè di tutti quei prodotti legati alla comicità, all’umorismo, all’ironia, prodotti dal canale stesso o semplicemente trasmessi acquistandone i diritti di riproduzione. Nel gioco delle scatole cinesi del sitema televisivo americano, Comedy Central è attualmente inglobato all’interno di Viacom, ma non appartiene ad alcun marchio della multinazionale ed è di fatto a sua volta una proprietà di Mtv, anche se l’indipendenza culturale del canale rende difficile un’identificazione immediata con la società madre. I loghi di Mtv e/o di Viacom sono infatti assenti sia dai programmi che dai promo. Come di consueto per i canali tematici, la nascita di Comedy Central coincide con il periodo già descritto in cui il sistema televisivo subisce le radicali trasformazioni che accompagnano la modernizzazione delle infrastrutture tecniche e i nuovi scenari produttivi, cioè gli anni Novanta. Comedy Central nasce infatti nel 1991 come fusione di The Comedy Channel, lanciato da Hbo/Time Warner nel 1989, e Ha!, canale concorrente di Viacom (entrambi, nati quasi contemporaneamente, si erano contesi il primato del primo canale statunitense interamente dedicato al genere comedy). Viacom finirà poi di acquistare la restante metà delle azioni da Time Warner nel 2003, incorporandolo interamente. Il canale si caratterizza immediatamente come punto di riferimento orizzontale nella programmazione: come per la maggior parte dei canali tematici, l’obiettivo è quello di costruire un’offerta in base alla quale lo scolastica ideata da Mitchell Hurwitz (creatore anche della serie Arrested Development, in Italia Ti presento i miei, 2003-2006) e rapidamente cancellata a causa dei bassi ascolti.
Davide contro Golia: Comedy Central
spettatore sa che se vuole vedere qualcosa che faccia ridere, in qualsiasi momento del giorno può dirigersi su Comedy Central. La caratterizzazione orizzontale, marcatamente tematica, si contrappone a quella verticale, che è più simile a quella generalista italiana, ma che negli Stati Uniti si basa sul concetto di time-slot (cioè un segmento temporale della durata di circa venti minuti) piuttosto che su quello di palinsesto. Buona parte delle trasmissioni giornaliere è infatti composta da brevi sketch, della durata inferiore ai dieci minuti, da esibizioni di comici stand-up (con il classico e iconico muro di mattoni rossi alle spalle e un microfono posto davanti all’artista, che spesso recita da solo), monologhi, clip shows.15 Quest’approccio favorisce il consumo da parte dello spettatore casual e occasionale, che durante lo zapping può scegliere di soffermarsi su canali così organizzati perché non vincolato a seguire narrazioni 15
Un clip show è una forma un po’ controversa di confezionare una puntata o un episodio di una serie a partire da materiale video proveniente da un certo numero di altri episodi già andati in onda, posti all’interno di cornici narrative ad hoc. Tra i dispositivi narrativi di framing è possibile per esempio annoverare il flashback, in genere evocato dai personaggi, che ricordano eventi passati. Come per tutti gli stereotipi narrativi, le serie animate non mancano di produrre ironici riferimenti, e infatti una definizione molto puntuale di clip show arriva proprio dai Simpson, e più precisamente dall’episodio Another Simpsons Clip Show (Un altro show di spezzoni dei Simpson, 1994). All’inizio dell’episodio Bart e Lisa guardano un episodio di Itchy & Scratchy, e Marge si domanda quante volte può mai far ridere vedere il gatto schiacciato dalla Luna (che, nel classico stile gore del meta-cartoon, cade sulla Terra esattamente in corrispondenza del gatto Scrathy). Bart risponde che si tratta di un episodio nuovo, ma Lisa lo smentisce spiegando con precisione: «not exactly… they pieced it together from old shows, but it seems new to the trusting eyes of impressionable youth» (‘Non esattamente, hanno messo assieme pezzi di vecchi episodi, così che sembri nuovo agli occhi fiduciosi dei giovani’). Nei Simpson gli episodi clip show ruotano attorno a temi specifici: in questo episodio vengono ricordate tutte le storie d’amore (o più o meno tali) raccontante in precedenti episodi. In So It’s Come to This: A Simpsons Clip Show (Siamo arrivati a questo: un clip show dei Simpson, 1993) e in Gump Roast (Homer alla berlina, 2002) si ripercorrono cronologicamente gli episodi rilevanti della vita di Homer, mentre in All Singing, All Dancing (Tutti cantano tutti ballano, 1998) si ripropongono tutte le clip musicali in cui i personaggi cantano e ballano. I clip show sono normalmente mal accettati dai fan e dagli spettatori abituali, e infatti la sigla finale cantata di Gump Roast recita proprio «Have no fear, we’ve got stories for years… sorry for the clip show!»(‘Non abbiate paura, abbiamo storie per anni… scusate per il clip show!’). I clip show sono tuttavia ovviamente molto economici da realizzare in quanto riciclano spezzoni già pronti, i cui costi di animazione e doppiaggio sono già stati sostenuti. Un caso a parte è l’episodio The Simpsons 138th Episode Spectacular (Il 138º episodio spettacolare, 1995), in quanto utilizza la forma narrativa del clip show (con il personaggio di Troy McLure che conduce una finta trasmissione televisiva sui Simpson), ma la maggior parte delle clip presentate è composta in verità o da inediti o da scene tagliate, e tutto l’episodio è una parodia della pratica stessa dei clip show. Un altro caso di parodia di questa particolare forma narrativa è l’episodio di South Park City on the Edge of Forever (Ai confini della realtà, 1998), titolo mutuato da un episodio della serie originale di Star Trek, in cui i bambini ricordano momenti clou di precedenti episodi (nonché dell’episodio stesso e della sit-com Happy Days), in cui però ogni situazione si risolve in maniera differente.
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di cui ha magari già perso segmenti necessari alla comprensione della storia. Se lo zapper incontra un film che non ha visto e che magari è già iniziato da diverse decine di minuti, difficilmente si soffermerà a vederne il resto. Diversamente, su canali che trasmettono clip (comici, musicali, pillole d’informazione etc.), spesso i contenuti sono godibili anche in medias res, e laddove non lo fossero, lo spettatore è consapevole del fatto che da lì a pochissimi minuti inizierà un nuovo segmento che potrà vedere integralmente. È una formula che avvantaggia il consumo frammentario, e che è profondamente diversa da quella del palinsesto tipico della tv generalista e di servizio pubblico, in cui il fattore tempo è un elemento vitale del consumo televisivo, ed è relativo al programma, e non al flusso e alla successione dei programmi [Abruzzese – Miconi 1999]. Questo è in contrasto con quanto indicato da alcuni studi sul palinsesto, secondo i quali il consumo della televisione generalista equivale al vedere la televisione sotto forma di flusso, in una modalità tutto sommato passiva e libera dai vincoli temporali [Williams 1974]. Solo alcuni programmi sono inizialmente legati a specifici orari, anche se è abitudine dei canali tematici ritrasmettere più volte, e in orari diversi, i propri programmi di maggior successo. Fra questi va ricordato The Daily Show (dal 1996), un talk show satirico quotidiano, parodia di un generico programma di approfondimento di informazione, o la sit-com britannica Absolutely Faboulous (1996-2001). Le tendenze attuali confermano un indebolimento dell’idea del palinsesto anche nella televisione generalista. In Italia Fox ha trainato questo processo attraverso la creazione dei canali «+1», resi possibili dalla disponibilità di frequenze satellitari che trasmettono con un ritardo di un’ora, permettendo un «fuso orario televisivo» e rendendo la propria programmazione meno legata ai vincoli temporali. Questo approccio è stato immediatamente imitato su tutte le piattaforme che permettono una moltiplicazione dell’offerta, per esempio sul digitale terrestre, territorio che unisce la maggiore disponibilità di canali tipica del satellite all’enorme base di utenza potenziale. I.7.1 South Park e le altre serie Per Comedy Central l’ingresso nel campo dell’animazione avviene con il cartoon South Park, nel 1997, che rappresenta la svolta commerciale e identitaria del canale, in quanto primo programma in assoluto su un canale di una certa rilevanza a «fregiarsi» del bollino Tv-ma. Successivamente alla nascita di South Park Comedy Central acquista una notevole visibilità, che spinge la metà degli americani ad aggiungere il canale satirico al bouquet dei canali acquistati nel proprio abbonamento. South Park diventa il programma di riferimento della program-
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Figura 22 Kyle, Kenny, Eric, Stan: i quattro ragazzini protagonisti di South Park. © Comedy Central.
mazione di Comedy Central, e rappresenterà un traino per il network in direzione di una maggiore offerta di programmi caratterizzato dall’oltrepassare i consueti limiti televisivi in termini di linguaggio e nudità. Dal 2003 Comedy Central propone inoltre The Secret Stash, un programma-contenitore in cui, in orari notturni, viene proposto un film, programma d’animazione o sketch comico di lunga durata, destinato a un pubblico adulto. South Park fa anche da apripista: nel 2004, e fino al 2007, trova posto sugli schermi di Comedy Central Drawn Together, un finto reality show animato in cui i partecipanti sono gli stereotipi della storia dell’animazione immersi in un contesto adulto fatto di litigi, violenza, pratiche sessuali estreme e argomenti normalmente considerati difficili. Drawn Together, trasmesso immediatamente dopo South Park, si rivolge essenzialmente allo stesso pubblico e rappresenta una sorta di continuità nel consumo che punta al tentativo di mantenere gli spettatori sintonizzati sul canale dopo aver visto uno show cui sono già abbondantemente fidelizzati da lungo tempo. Nel reality show fittizio, otto personaggi animati provenienti da diversi «universi» sono disegnati assieme in una casa dove, nonostante le loro differenti origini, personalità e stile d’animazione, devono convivere. La rosa dei personaggi-stereotipo di Drawn Together include Princess Clara, una tipica principessa proveniente da un universo simil-Disney: bellissima, dotata di una voce soave e incantevole, ma dalla mentalità molto chiusa e innocente. La sua controparte è Foxxy Love, descritta nella sigla inziale come «una musicista che risolve misteri, e con un gran bel culo». Lo stile grafico con cui questa volpe afroamericana è disegnata
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riporta a quello dei cartoni Hanna-Barbera degli anni Settanta, e la sua personalità sveglia e consapevole confligge naturalmente con quella di Clara. Il terzo personaggio femminile è Toot Braunstein, una ballerina con problemi d’alimentazione molto abbondante nelle forme, la cui sagoma in bianco e nero ammicca alla ben più nota Betty Boop. I personaggi maschili vedono in prima fila Captain Hero, un supereroe dalla vaga somiglianza con Superman, dall’aspetto mascolino, ma la cui ambiguità sessuale serve a far vacillare l’immagine del classico supereroe americano.16 La spalla di Captain Hero è Xandir Wifflebottom: l’amicizia che lo lega al supereroe è per molti versi ambigua, essendo dichiaratamente gay. Xandir è un avventuriero in puro stile videogame, ma incarna lo stereotipo dell’omosessualità attraverso una grande attenzione al vestire e una certa riluttanza a rispettare il proprio ruolo di salvatore di principesse in pericolo. Il terzo personaggio maschile è Spanky Ham, un maiale disegnato nello stile dei cartoon internettiani basati su tecnologia Flash. Intelligente e scaltro, ha ben pochi freni in quanto a urgenze corporali e a masturbazione, e la sua sagacia gli permette di approfittare dell’ingenuità degli altri. Gli ultimi due personaggi, la cui sessualità è incerta, sono Ling Ling e Wooldoor Sockbat. Il primo è qualcosa di molto vicino a un Pokémon, cioè una sorta di mostriciattolo orientale esteticamente molto simile al noto Pikachû. È sociopatico, ha spiccate tendenze omicide e incarna lo stereotipo della persona asiatica trasferitasi negli Usa. Il secondo, probabilmente il più ambiguo in assoluto, è riconducibile grazie al nome al noto Spongebob Squarepants, personaggio dell’eponima serie per bambini trasmessa da Nickelodeon e importata con discreto successo anche in Italia. Sockbat è un personaggio sempre fuori posto, lamentoso e sotto il costante effetto di stupefacenti. Ogni episodio di Drawn Together segue abbastanza rigorosamente il canovaccio di un qualsiasi reality: i personaggi si confidano nel «confessionale» in lunghe interviste introspettive, raccontano il proprio punto di vista su ciò che accade nella casa, e passano il resto del tempo a interagire. Da questo punto di vista Drawn Together ironizza sulla grande categoria dei reality show, mettendone in luce gli aspetti più grotteschi e improbabili. Oltre all’effetto comico generato dagli effetti dell’interazione di personaggi appartenenti a generi ed epoche diverse, la serie si focalizza su 16
Il tema di un eroe «debole» e inadeguato è un elemento costante dell’animazione per adulti e arriva a configurare a tutti gli effetti una nuova idea di superomismo, in cui l’eroe irrisolto assume un modello di riferimento molto più accettabile, meno esemplare, più vicino alla quotidianità, e che permette allo spettatore di porsi in posizione critica e intellettualmente dominante. Questo eroe, a cui nel nostro caso possono essere associate le figure di Homer Simpson, Peter Griffin e Stan Smith, viene ricondotto da Bachtin all’esperienza del romanzo moderno, in cui il protagonista è ambiguo, amletico, laico e adogmatico [Bachtin 1975].
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Figura 23 Il bacio tra Clara e Foxxy chiarisce già dall’episodio pilota la direzione di Drawn Together. © Comedy Central.
di uno humour quasi interamente dedicato al sesso e a tutto ciò che ha a che fare con le deiezioni. Riguardo al sesso vale la pena ricordare la pubblicità della serie, che recita: «The boys hook up with the girls, the girls hook up with the girls… but who’s gonna screw the pig?!», che tradotto in italiano reciterebbe ‘I ragazzi se la fanno con le ragazze, le ragazze se la fanno con le ragazze, ma chi si scoperà il maiale?’. Ovviamente la serie è costellata di situazioni ambigue e di occasionale nudità parziale, e l’episodio pilota, Hot Tub (2004), vede Clara e Foxxy scambiarsi un appassionato bacio saffico in costume, in una vasca idromassaggio. In un altro episodio, gli spettatori vengono a conoscenza del fatto che la vagina di Clara ospita un orrendo mostro tentacolare (elemento molto frequente nell’iconografia dei fumetti hentai giapponesi). Gli elementi scatologici sono altresì frequenti: un intero episodio, ad esempio, Dirty Pranking Number 2 (2004) (going number 2 in inglese indica l’atto di defecare), ruota intorno allo scherzo preferito di Spanky: ordinare una pizza, cospargerla di escrementi e lamentarsi con il ragazzo delle consegne perché non ha ordinato «una pizza con salsiccia». Parte della comicità di Drawn Together, infine, ruota attorno ai riferimenti alla cultura pop, a personaggi secondari generalmente stereotipati come il produttore ebreo, la Super Nanny (ispirato all’immagine della tata, rigorosamente inglese, protagonista di reality show come l’omonimo Super Nanny e Nanny 911, i cui format in Italia sono riconoscibili in SOS Tata, in onda su La7 e FoxLife) e una serie di supereroi modellati su omologhi del mondo Marvel e Dc Comics.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
In considerazione dell’eterogeneità delle fonti e delle relative categorie, i riferimenti bibliografici sono qui presentati in una suddivisione per categorie che ne facilita la consultazione e l’identificazione. Per alcuni autori l’inclusione in talune categorie è immediato, altri sono sicuramente più problematici, in quanto afferenti a terre di confine in cui sono frequenti (e per certi versi, se non obbligati, quantomeno opportuni) gli scavalcamenti di campo. La classificazione (non sempre facile) è stata effettuata in base a criteri che non possono sfuggire a una valutazione personale, per quanto abbia tentato di seguire, dove possibile, i criteri della razionalità e del posizionamento dei testi nell’ambito dei relativi dibattiti culturali. Cinema d’animazione e cinema dal vero Alberti, John (2004), Leaving Springfield: The Simpsons and the Possibility of Oppositional Culture, Detroit, Wayne State University Press. Anderson, Brian C. (2005), South Park Conservatives: The Revolt Against Liberal Media Bias, Lyndhurst, Barnes & Noble. Arp, Robert (2006) (a cura di), South Park and Philosophy: You know, I learned something today, Oxford, Blackwell Publishing (trad. it. [2009], South Park e la filosofia, Milano, Isbn). Baisley, Sarah (1997), «South Park. Where it’s cool to break a rule», Animation Magazine, vol. 11, n. 10.
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Articoli e altre opere
Snierson, Dan (1999), «Send in the Clown», Entertainment Weekly, 15 aprile. Takahashi, Corey (2000), «Monitor», Entertainment Weekly, 17 marzo. Varsori, Antonio (1998), L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Roma-Bari, Laterza. Von Riedermann, Dominic (2006), «Popetown injunction fails – Roman Catholics Can’t Get Cartoon Pulled from Mtv Germany», Big Cartoon Database, 8 maggio.
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Finito di stampare nel mese di marzo 2011 dalla Stampa Sud S.p.A. – Via P. Borsellino 7 – 74017 Mottola (Ta) per conto della Tunué. Editori dell’immaginario Stampato in Italia – Printed in Italy
ESPRIT
COLLANA DI STUDI SU MEDIA E IMMAGINARIO
diretta da Sergio Brancato e Gino Frezza
Giorgio Signori
Giorgio Signori (Napoli, 1979) ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale, specializzandosi in Sociologia della comunicazione, presso l’Università «Federico II» di Napoli. Collabora con la cattedra di Sociologia dell’industria culturale del CdL in Culture digitali e della comunicazione. Studia i rapporti fra le forme del linguaggio audiovisivo, i sistemi dei media e l’organizzazione sociale, concentrandosi su cinema, televisione e new media. Ha scritto saggi per pubblicazioni nazionali, internazionali e on-line, tra cui Il rovesciamento della fabula nel cinema di Tim Burton, Documentari del non-vero: la propaganda durante la Guerra Fredda, Loving the Bomb: Cold War audiovisual propaganda in the United States, Post-serialità: dal racconto seriale alle narrazioni distribuite.
Giorgio Signori
Nel mondo dell’animazione commerciale di ambito televisivo un molto speciale è occupato dalle sit-com. Ilaièloro ruolo specchio satiricoinecon di commento di Matt costume della società e dellama famiglia eentra dei loro rispettivi einteressanti virtù, veicolato e amplificato dal mezzo televisivo, agli Antenati Hanna-Barbera (anni Sessanta), ma dalla fine anniparlano Ottanta, I Simpson di Groening, che sit-com di diritto fra ivizi generi statunitensi quali Irisale Griffin eposto South Park –sit-com per citare solo le più famose oltre Simpson –didegli non solo modo spregiudicato della civiltàquello occidentale fanno utilizzando tutti ilepiù registri deldel comico, da quelli piùSerie semplici a quelli più raffinati, arrivando a di riscriverne alcuni meccanismi, con l’obiettivo – spesso ben riuscito – di sorprendere anche lo spettatore piùl’animated esperto. La fabbrica cartoon ètelevisivi. uno studio approfondito dei trequesto aspetti fondativi della animata: quello produttivo (perché eche come vengono realizzati questi telefilm d’animazione), narrativo e lo linguistico (ivi comprese necessarie traduzioni/localizzazioni dal contesto statunitense a quello italiano) e quello dei meccanismi del comico che agiscono visivamente sul corpo di questi cartoon e che solleticano la mente dei telespettatori. Giorgio Signori, esperto di linguaggi televisivi, fornisce con libro un solido strumento conoscitivo e di approfondimento sarà utile a studenti e studiosi, a curiosi e appassionati e che si configura come un nuovo punto di partenza per lo studio dei linguaggi e delle strategie – dentro e fuori lo schermo – della fiction animata.
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LA FABBRICA DEL CARTOON
La fabbrica del cartoon è uno studio approfondito dei tre aspetti fondativi della sit-com animata: quello produttivo (perché e come vengono realizzati questi telefilm d’animazione), quello narrativo e linguistico (ivi comprese le necessarie traduzioni/localizzazioni dal contesto statunitense a quello italiano) e quello dei meccanismi del comico che agiscono visivamente sul corpo di questi cartoon e che solleticano la mente dei telespettatori. Giorgio Signori, esperto di linguaggi televisivi, fornisce con questo libro un solido strumento conoscitivo e di approfondimento che sarà utile a studenti e studiosi, a curiosi e appassionati e che si configura come un nuovo punto di partenza per lo studio dei linguaggi e delle strategie – dentro e fuori lo schermo – della fiction animata.
INDUSTRIA, LINGUAGGI E COSTRUZIONE SOCIALE DEL COMICO NELLE SIT-COM ANIMATE AMERICANE PER ADULTI
Nel mondo dell’animazione commerciale di ambito televisivo un posto molto speciale è occupato dalle sit-com. Il loro ruolo di specchio satirico e di commento di costume della società e della famiglia e dei loro rispettivi vizi e virtù, veicolato e amplificato dal mezzo televisivo, risale agli Antenati di Hanna-Barbera (anni Sessanta), ma è dalla fine degli anni Ottanta, con I Simpson di Matt Groening, che l’animated sit-com entra di diritto fra i più interessanti generi televisivi. Serie statunitensi quali I Griffin e South Park – per citare solo le più famose oltre ai Simpson – non solo parlano in modo spregiudicato della civiltà occidentale ma lo fanno utilizzando tutti i registri del comico, da quelli più semplici a quelli più raffinati, arrivando a riscriverne alcuni meccanismi, con l’obiettivo – spesso ben riuscito – di sorprendere anche lo spettatore più esperto.
LA FABBRICA
DEL CARTOON
INDUSTRIA, LINGUAGGI E COSTRUZIONE SOCIALE DEL COMICO NELLE SIT-COM ANIMATE AMERICANE PER ADULTI Prefazione di Gino Frezza