Il tempo materiale

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Postfazione di Giorgio Vasta*

Quando leggiamo qualcosa che qualcun altro ha scritto si generano in noi reazioni che, per come funziona la fisica della lettura, permangono in gran parte silenziose e invisibili. Perché se la scrittura, nelle forme esteriori in cui si manifesta, è qualcosa di riconoscibile – dal tragitto sinistra-destra che compie la mano sul foglio al molteplice movimento a pistone delle dita sulla tastiera di un computer –, la lettura è invece un comportamento perlopiù muto, un silenzio del corpo focalizzato su un parallelepipedo di carta. Di una scrittura, dunque, si è pressoché sempre attori e autori, mentre la lettura tende a essere intesa come una ricezione più o meno neutra del testo; un fenomeno che con l’autorialità non ha nulla a che vedere. Seguendo, a partire dal nostro primo incontro a dicembre del 2010, il lavoro di Luigi Ricca – un tempo, i due anni trascorsi da allora, durante il quale, periodicamente e sempre con una discrezione trasparentissima, Luigi mi aggiornava su quanto stava facendo – mi sono reso conto che ci sono volte in cui la lettura guadagna tridimensionalità, sfugge al silenzio, smette di essere un fantasma e accade. Ho capito che diversamente da quanto immaginavo, leggere quello che qualcun altro ha scritto ha a che fare con l’autorialità. La storia raccontata in questo libro è a tutti gli effetti Il tempo materiale di Luigi Ricca. Vale a dire la storia che Luigi ha immaginato leggendo un testo omonimo di qualche anno fa. Leggendo quel romanzo Luigi ha reinventato la scrittura imponendole uno slittamento che solo all’apparenza potrebbe essere considerato un adattamento, la trascrizione da un codice alfabetico a un altro iconico. Il processo che la lettura di Luigi ha innescato è coinciso solo in minima parte con una trasformazione di ciò che era frase in segno grafico; il senso profondo del suo lavoro è stato quello di alterare, smarcarsi, guadagnarsi – rispetto al testo originario – un’autonomia tale da rendere il testo di partenza mero spunto, pre-testo, zona d’innesco di un lavoro immaginativo del tutto personale. Un lavoro immaginativo confrontandomi col quale ho avuto modo di leggere e conoscere una storia che non conoscevo. Quando Luigi mi ha inviato l’ultima stesura del suo libro io ho di fatto letto per la prima volta la sua versione di Il tempo materiale. Ho letto la sua lettura attiva, il disegno della sua immaginazione. Tutto ciò mi ha fatto venire in mente che sarebbe bello se adesso che esiste Il tempo materiale di Luigi Ricca qualcuno leggendo questo graphic novel, ne ricavasse un sonetto. A quel punto qualcun altro, confrontandosi col sonetto Il tempo materiale (ma andrebbe chiaramente benissimo che in questo percorso metamorfico si modificasse anche il titolo), potrebbe mettersi allo spartito e comporre un pezzo per archi e oboe solista, un pezzo ascoltato il quale venisse poi progettato un edificio che fosse l’estroflessione tridimensionale di quella musica; mi piacerebbe, allora, se qual(Palermo, 1970) editor e consulente editoriale, insegnante di scrittura narrativa presso la Scuola Holden e lo IED di Torino, dal 1999 è stato curatore e poi direttore della collana di saggistica Holden Maps di Rizzoli. Editorialista nella trasmissione Atlantis (Radio2 RAI), fa parte della redazione di Nazione indiana. È ideatore e coautore di NIC. Narrazioni In Corso. Laboratorio a fumetti sul raccontare storie (Holden Maps/Rizzoli, 2005). Ha curato l’antologia Deandreide. Storie e personaggi di Fabrizio De André in quattordici racconti di scrittori italiani (BUR, 2006) e il libro fotografico di Alberto Negrin Niente resterà pulito. Il racconto della nostra storia in quarant’anni di scritte e manifesti politici (BUR, 2007). Il suo primo romanzo è Il tempo materiale (minimum fax, 2008), candidato al Premio Strega 2009, e sempre per minimum fax ha curato l’antologia Anteprima Nazionale, edita nel 2009. *


cuno percorrendo l’interno di questo edificio pensasse una storia per un film, la scrivesse e la girasse; durante la proiezione al cinema uno spettatore del film si accorge che quella narrazione può venire sintetizzata in un quadro e lo dipinge, un altro osservando il quadro visualizza in quelle geometrie una sua trasformazione in un transistor che si rivela modello perfetto e involontario di un progetto urbanistico, dunque un pezzetto di città in planimetria che dopo qualche tempo diventa il soggetto di una serie di fotografie, le foto vengono esposte in una galleria e servono da occasione per dare forma a uno spettacolo di danza che poi si trasforma in una scultura di fil di ferro aggrovigliato che diventa una pièce per teatro d’ombre che si prosegue in un arazzo realizzato a mezzo punto raffigurante una battaglia, l’arazzo trasfigura in un’incisione a puntasecca (per la cronaca il ritorno di dodici contadini dai campi, al tramonto, mentre il sole si perde all’orizzonte), l’incisione in un origami (la corolla di un fiore di carta che ogni volta in cui viene schiacciato nel pugno dopo qualche secondo si decontrae sbocciando in una forma nuova: un fiore che si nutre di distruzioni), l’origami in un videogioco intenzionalmente arcaico – la grafica preistorica, barrette luminescenti che immerse in un buio siderale non ribattono dall’altro lato del campo un quadratino ugualmente biancastro ma una serie di lettere dell’alfabeto che lentamente, un rintocco dopo l’altro, compongono una parola, le parole una frase, le frasi un’intera narrazione –, diramando nello spazio e nel tempo e nei materiali e tra le persone in morfologie sempre diverse così che ciò che era il graphic novel di Luigi Ricca attraverso questo processo inevitabile e clandestino arriva a trasformarsi in un mestolo di legno, in una fioriera, in un davanzale di pietra, in un’antenna, in un sottopassaggio metropolitano, in un viottolo tracciato per collegare tra loro due strade principali, nel graticcio metallico di un carrello della spesa, nella meccanica di un deltaplano, nella configurazione della facciata di una palazzina, nelle proporzioni tra altezza larghezza e profondità di un mobile seriale, in un posacenere di vetro e ancora in un movimento minimo del braccio, della mano, nell’insieme di traiettorie minute che cinque dita imprimono a una matita che su un foglio di carta disegna una magnolia, un ippogrifo, il profilo del cranio di un ragazzino di undici anni. In sostanza quello che desidero è una proliferazione proteiforme, un germogliare scorrere ramificare di codici e di morfologie. Un processo a matrjoska tramite cui rendere chiaro che le letture sono altre scritture; che le letture, cioè, sono un patrimonio perché sono rischi, assunzioni di responsabilità, passaggi nodali nella trasduzione di un segnale. Quello che mi piacerebbe, poi, è trovare a casa di qualcuno una copia del graphic novel di Luigi Ricca, leggere il suo sguardo, il disegno della sua immaginazione, e il giorno dopo, ignorandone la ragione, cominciare a scrivere un romanzo.



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