Vita di Walt Disney

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lapilli giganti il meglio della saggistica mondiale


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Michael Barrier

Vita di Walt disney

uomo, sognatore e genio

Con una presentazione esclusiva dell’autore all’edizione italiana Prefazione di Giannalberto Bendazzi Edizione italiana e traduzione Marco Pellitteri


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GUIDA PEr LA CATALoGAzIoNE BIBLIoGrAfICA Barrier, J. Michael (1940—) Vita di Walt Disney. Uomo, sognatore e genio / Michael Barrier / Prefazione di Giannalberto Bendazzi / Edizione italiana e traduzione di Marco Pellitteri p. cm. Include riferimenti bibliografici e Indice dei nomi IsBN-13 Gs1 978-88-89613-84-9 1. Disney, Walt, 1901-1966. 2. Animatori—stati Uniti—Biografia. 3. Cinema— Cinema d’animazione—Cartoons—storia dell’arte contemporanea—Arte popolare.

Collana «Lapilli Giganti» n. 1 I edizione: ottobre 2009 Pubblicato in origine nel 2007 come The Animated Man: A Life of Walt Disney dalla University of California Press, Berkeley – Los Angeles (UsA). © 2007-2009 Michael Barrier Edizione italiana © Tunué s.r.l. Traduzione e cura: Marco Pellitteri Grafica e impaginazione: Tunué Copertina: Gianni sodano

Tunué Editori dell’immaginario Via Bramante 32 04100 Latina – Italy tunue.com | info@tunue.com Direttore editoriale Massimiliano Clemente Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi. IsBN-13 Gs1 978-88-89613-84-9


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indice

Nota sull’edizione italiana Prefazione, di Giannalberto Bendazzi

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Vita di Walt disney

Presentazione all’edizione italiana Premessa ringraziamenti Abbreviazioni

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Introduzione | «soNo TUTTo Io»

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1 | «Lo sCrICCIoLo DI fAMIGLIA» Alla fattoria e in città, 1901-1923

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2 | «UNA BELLA IDEA» Il cineasta autodidatta, 1923-1928

73

3 | «DEVI EssErE MINNIE NEL ProfoNDo» Ideare un topo migliore, 1928-1933

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4 | «QUEsTo PErsoNAGGIo ErA UNA PErsoNA VErA» Il grande passo verso i lungometraggi, 1934-1938

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5 | «UNA fABBrICA DEI DIsEGNI» Il prezzo dell’ambizione, 1938-1941

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6 | «UN’ECCENTrICA, VIVACE, DELIzIosA CANAGLIA» In trappola col Topo, 1941-1947

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7 | «VEzzI E GUIzzI D’INfANzIA» Via dall’animazione, 1947-1953

297

8 | «I sUoI INTErEssI ErANo ALTroVE» Via dal cinema, 1953-1959

345

9 | «È QUI ChE MI sENTo feLice» senza tregua nel reame Incantato, 1959-1965

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10 | «È sTATo AL TIMoNE DELLA sUA VITA sINo ALLA fINE» Il sogno di una città da incubo, 1965-1966

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Conclusioni | «ChE LA NosTrA sIA sEMPrE UN’ALLEGrA CoMPAGNIA»

465

Note riferimenti bibliografici

475 551

Indice dei nomi in download su: disney.tunue.com


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nota sull’edizione italiana

Nel curare l’edizione italiana del libro, è stato deciso di aggiungere una serie di notizie da parte del traduttore e supervisore editoriale: riguardano delle rapide spiegazioni, utili in ordine al prosieguo della lettura, su persone e su fatti della storia e del costume statunitensi, termini tecnici, sintesi biografiche sui più importanti autori menzionati, siti internet, che nell’edizione originale non erano inclusi ma venivano dati per conosciuti o ritenuti superflui. L’occasione di questo libro è invece, a vantaggio di un pubblico italiano che sia costituito non soltanto da specialisti ma anche da professionisti del settore, studenti, giornalisti, insegnanti, amatori e curiosi, quella di fornire una strumentazione di dati utili e contestualizzanti a corredo della trattazione. Per una scelta di discrezione grafica ed editoriale tali interventi non sono segnalati dalla tradizionale sigla «N.d.T.» ma sono più semplicemente preceduti dal simbolo ❚. Tutte le volte che è stato possibile, le note italiane sono state alloggiate all’interno di quelle già volute dall’autore, per non corredare eccessivamente il testo di note aggiuntive. rimane inteso che le notizie non desiderano avere valore di esaustività ma soltanto di telegrafico orientamento. Nel comporre le note integrative, com’è ovvio non si è voluto tener conto né dei personaggi storici universalmente noti (es. franklin Delano roosevelt, Thomas Alva Edison ecc.) né delle figure dello spettacolo di fama eccelsa anche se direttamente conosciute da Walt Disney (Charlie Chaplin, John Wayne ecc.). si è cercato invece di far luce su quelle figure citate nel libro, spesso note agli specialisti ma in genere oscure ai più, che con Disney hanno incrociato il loro cammino.

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Le Note dell’autore sono state integrate con dati bibliografici completi e con le edizioni italiane dei testi citati, dove esistenti. Le notizie sono state reperite dalle seguenti fonti: Giannalberto Bendazzi, cartoons. il cinema d’animazione 1888-1988, Venezia, Marsilio, 1988 (e nelle sue edizioni estere – cfr. i riferimenti bibliografici in calce al volume); r. Michael Murray, The Golden Age of Walt Disney Records 1933-1988, Dubuque, Antique Trader Books, 1997; Luca raffaelli, Le anime disegnate. il pensiero nei cartoon da Disney ai Giapponesi e oltre, roma, Minimum fax, 2005 (I ed. roma, Castelvecchi, 1994); Dave smith, The Disney A to Z: Updated Official encyclopedia Disney, New York, Disney Editions, 2006; Bob Thomas, Walt Disney – The Art of Animation: The Story of the Disney Studio contribution to a New Art, New York, Golden Press – simon and schuster, 1958 (trad. it. L’arte dei cartoni animati, Milano, Mondadori, 1960; rist. 1967); internet Movie Database (imdb.com); Askart – The Artists’ Bluebook (Askart.com); iNDUckS – L’archivio mondiale dei fumetti Disney (Http://coa.inducks.org); Papersera (Papersera.net); Disney Legends (Http://legends.disney.go.com); Nation Master (Nationmaster.com). Le citazioni delle opere (libri o film) menzionate dall’autore e prive dei dati biblio/filmografici sono state integrate in Nota; per sobrietà e per evitare ridondanze, il simbolo ❚ non v’è stato inserito. Alla loro prima citazione i film sono di norma indicati col titolo originale; fra parentesi, in corsivo il titolo italiano ufficiale se reperito o, fra ‘virgolette singole alte’, la traduzione del titolo originale nel caso un titolo italiano ufficiale non esista o non sia stato reperito. I siti web citati sono stati verificati come presenti on line alla stampa. rispetto all’edizione originale è qui presente una Bibliografia in calce al volume, peraltro contenente, dove rinvenuti, i dati delle eventuali traduzioni italiane dei testi citati. Il termine «cartoon», usato lungo tutto il libro, è la forma breve di «animated cartoon», che in inglese indica la tecnica del disegno animato. Nella presente edizione il calco «cartone animato» è stato ignorato in quanto ritenibile come impreciso, benché assai diffuso. Il curatore italiano desidera ringraziare: Michael Barrier, per avere fornito le date di nascita e morte di alcuni autori; Giannalberto Bendazzi, per la disponibilità ed esperienza; Nunziante Valoroso, per i titoli di molti cartoon in edizione italiana e per le informazioni bio-bibliografiche; roberto Branca, per i suoi pareri su alcune frasi della traduzione; Luca Boschi, per due preziose notizie e un’immagine; Gianluca Aicardi e francesco filippi, per i chiarimenti tecnici. M.P.

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Nota sull’EdIzIoNE ItalIaNa


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prefazione

di Giannalberto Bendazzi1

Presentare questo libro è facile e piacevole. È la migliore biografia del «Papà di Topolino». Il suo autore, Mike Barrier, è uno degli storici del cinema d’animazione più profondi, onesti e scrupolosi. Il suo traduttore e curatore italiano, Marco Pellitteri, è un nome di punta della nostra nuova cultura. Non si potrebbe chiedere di più e non si deve dire di più. Le pagine che seguono parlano da sole. Vanno però forse aggiunte alcune informazioni sul mondo Disney, argomento tanto sconfinato da sfuggire spesso, in alcuni punti, perfino agli specialisti.

Le biografie su Disney occorre innanzitutto farsi largo fra le altre biografie, i libri sull’azienda, i libri sui film, che tendono a mescolarsi fra loro e magari anche a copiarsi, perpetuando gli errori. The Story of Walt Disney appare nel 1957 a firma di Diane Disney (la figlia maggiore), maritata Miller, ma è in realtà la versione delle memorie del cineasta cinquantaseienne, acriticamente trascritte dal giornalista Pete Martin. Primo lavoro, superficiale e agiografico.2 Alcuni contano fra le biografie The Disney Version di richard schickel (1968), che è invece un saggio di storia del cinema scritto da un pensatore intelligente e anticonformista.3

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Nel 1976 arriva Walt Disney: An American Original di Bob Thomas, tuttora ristampato e in vendita. Testo di riferimento oggi invecchiato ma ancora adesso irrinunciabile, è dovuto a uno scrittore esplicitamente filo-disneyano che compie una ricerca approfondita e si permette comunque le sue libertà.4 Nel 1985 Leonard Mosley pubblica Disney’s World: A Biography. se ne può fare a meno. Pregiudizialmente anti-disneyano, dà credito alla leggenda metropolitana che il morente Walt avesse ottenuto di essere sottoposto a trattamento criogenico per essere resuscitato a decenni di distanza, quando i progressi della scienza fossero stati in grado di guarirlo dal cancro.5 Nel 1993 arriva il peggiore, Walt Disney: Hollywood’s Dark Prince di Marc Eliot. Un dilettante allo sbaraglio (Eliot) tenta il colpo di una biografia «scandalosa» accumulando vere e proprie fandonie, errori, diffamazioni e sentiti dire.6 L’unico libro italiano di un qual certo interesse è Walt Disney: prima stella a sinistra, di Mariuccia Ciotta. L’autrice non teme di schierarsi tra i filo-disneyani e suggerisce alcune chiavi di lettura originali, peraltro più sull’opera che sull’uomo.7 Come si capisce da quanto si è accennato (appena accennato: i libri sono varie decine), la distinzione basilare è tra filo-disneyani e anti-disneyani. Non è strano: tutti siamo cresciuti avendo lo zio Walt al fianco, e l’infanzia è cara a chiunque. Coloro che la tesaurizzano si schierano da una parte, coloro che le si ribellano si schierano dall’altra. Tra i filo-disneyani vanno poi contati i libri pubblicati direttamente o meno dall’azienda stessa, e su questi il giudizio scientifico diventa molto più arduo: sono essenzialmente strumenti di marketing e di propaganda. Per una qualche ragione societaria l’attuale dirigenza ha incondizionatamente appoggiato Walt Disney: The Triumph of the American imagination di Neal Gabler (2006), che per banalità e ricerca dello scandalo è secondo solo al libro di Marc Eliot.8

i nove ereDi Di Disney A proposito di filo-disneyani. I «Nine old Men» sorsero come gruppo informale nei primi anni Cinquanta. L’espressione esisteva da sempre: era il soprannome del collegio di giudici (nove, appunto) della Corte suprema degli

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PrEfazIoNE


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stati Uniti. «Ehi, anch’io ho i miei Nove Vecchi!», esclamò un giorno Walt Disney e stilò un elenco. Dal più giovane al più anziano correvano nove anni e comunque erano tutti sotto i cinquanta. Erano «vecchi» nel senso affettuoso che significa vecchio amico. Ecco i loro nomi, in ordine di nascita: Eric Larson (1905-1988), Les Clark (1907-1979), Milton Kahl (1909-1987), Wolfgang reitherman (1909-1985), John Lounsbery (1911-1976), frank Thomas (1912-2004), ollie Johnston (1912-2008), Marc Davis (19132000), Ward Kimball (1914-2002). Naturalmente, il lettore li incontrerà varie volte nel libro. Erano i più grandi? Non lo erano. David hand, Wilfred Jackson, Ben sharpsteen, Norman ferguson, fred Moore, Art Babbitt, Bill Tytla, Burt Gillett, Albert hurter, Joe Grant, Ken Anderson, Mary Blair, Tee hee, James «shamus» Culhane, richard huemer, Jack King, Jack Kinney, Jack hannah erano o erano stati superiori. I Nine old Men erano però i fedelissimi. Walt morì il 15 dicembre 1966, ma già da vent’anni si disinteressava quasi completamente dell’animazione. Pensava ai film per ragazzi dal vero, alla televisione, al grande parco a tema Disneyland inaugurato nel 1955, a quel «Prototipo sperimentale di città del futuro» (EPCoT) che non riuscì a portare a termine personalmente. I film d’animazione «di» Walt Disney erano fatti dai Nine old Men, tanto che Walt in persona permise che La spada nella roccia (1963) fosse accreditato per intero ed esplicitamente alla regia di Wolfgang reitherman. il libro della giungla, l’ultimo film d’animazione realizzato con Walt vivo, uscì nel 1967 e riscosse un ottimo successo. I dirigenti ne dedussero che il pubblico sarebbe andato a vedere i film con il loro marchio anche senza la presenza in vita del fondatore. Da lì cominciò l’avventura della pattuglia: senza la rete di protezione tenuta salda dal padre spirituale, con scarsi finanziamenti, poco personale a disposizione e nessun sostegno da parte di dirigenti sprezzanti. Michael Eisner, l’onnipotente boss dell’azienda negli anni ottanta-Novanta, nella sua autobiografia Work in Progress sbriga la faccenda in una riga: «Il credo ufficioso della Disney era diventato “magari vi annoieremo, ma di certo non vi turberemo mai”».9 Allo stesso tempo nacque però la leggenda tra gli aficionados: i Nove Vecchi erano gli eredi consacrati del grande scomparso. Dei Nove Vecchi, due in particolare erano amici per la pelle: frank Thomas e ollie Johnston. furono loro a sistematizzare e divulgare,

I NoVE ErEdI dI dIsNEy

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nel loro magnifico libro The illusion of Life (1981),10 i segreti di laboratorio ideati nel momento irripetibile che coincise con la creazione di Biancaneve e i sette nani.

Le DoDici regoLe DeLLa character animation Come sempre accade, i segreti, una volta enunciati, divennero delle regole. ferree per i mediocri che le seguirono pedissequamente, auree per i geniali che le seppero interpretare e spesso stravolgere. Le regole furono numerate da uno a dodici: 1 – Squash and stretch; 2 – Anticipation; 3 – Staging; 4 – Straight ahead action and pose-to-pose action; 5 – follow through and overlapping action; 6 – Slow in and slow out; 7 – Arcs; 8 – Secondary action; 9 – Timing; 10 – exaggeration; 11 – Solid drawing; 12 – Appeal.11 ora si tratta di spiegarle a una a una, aiutandoci con quanto scritto da Thomas e Johnston. 1 — Squash and stretch. «Di gran lunga la più importante fra le scoperte che facemmo», dicono Thomas e Johnston. L’esempio classico è la palla di gomma. Nella vita reale la sua deformazione, all’atto di rimbalzare, è quasi invisibile. L’animazione però risponde al nostro cervello anziché ai nostri occhi, e per rendersi credibile la palla deve allargarsi a terra come se si schiacciasse, per poi rilanciarsi verso l’alto con la forma oblunga di un proiettile. L’animazione disneyana, per far recitare non persone ma figurine, le disegna con tratti stilizzati-caricati e le fa muovere con movimenti stilizzati-caricati. Un nano di Biancaneve non ha niente in comune con un nano vivente: è l’idea sommaria di nano come il nostro cervello la pensa. Una camminata di Topolino non ha niente a che fare con il modo esteriore in cui noi camminiamo, ma riflette le nostre sensazioni muscolari. 2 — Anticipation. Nello spettacolo nessun bravo attore compie movimenti improvvisi, perché un gesto, per risultare ben percepibile e quindi significativo, deve essere «presentato». osservate un bacio: lui e lei accennano un avvicinamento delle teste, e solo in seguito uniscono le labbra. Questa è anticipation. Nell’animazione essa deve essere portata al massimo della visibilità. 3 — Staging. «Un’azione è staged [‘messa in scena’] in maniera che sia compresa appieno, il carattere di un personaggio è staged in maniera che sia riconoscibile, un’espressione in maniera che

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sia vista bene, uno stato d’animo in maniera che tocchi lo spettatore». In sostanza è un principio generalissimo dello spettacolo. su un palcoscenico teatrale, per esempio, personaggi e scenografie vanno disposti al posto giusto a seconda dell’azione che deve aver luogo. Di volta in volta si stabilisce una gerarchia fra persone/cose su cui la scena è imperniata e persone/cose che in quel momento sono di necessario contorno. 4 — Straight ahead action and pose-to-pose action. sono i due modi di animare i personaggi. L’animazione straight ahead è fatta da chi comincia con un disegno e va avanti senza fermarsi, improvvisando i movimenti a mano a mano. L’animazione poseto-pose è fatta da chi ha preventivamente progettato l’azione e sa con quale disegno inizia e con quale finisce. La prima (di rado usata) è consigliata agli artisti tutti genio e sregolatezza. 5 — follow through and overlapping action. Il personaggio si arresta dopo un movimento, ma per essere credibile ai nostri occhi deve avere le parti molli del corpo, o le appendici come orecchie e coda, o i capelli, o i vestiti ecc. ancora in movimento per un paio di secondi. In caso contrario ci apparirebbe rigido, fatto di pietra. 6 — Slow in and slow out. si cominci lentamente un movimento, lo si acceleri durante il suo svolgimento e lo si deceleri alla fine (salvo che la singola scena richieda altro). In questo modo lo si renderà credibile allo sguardo. 7 — Arcs. Quasi tutti i viventi – a parte gli insetti – compiendo un movimento disegnano un arco. Un personaggio deve dunque muoversi compiendo traiettorie tondeggianti (cioè ad arco, appunto), in modo da dare il senso della sua volumetria. 8 — Secondary action. Un esempio spiegherà meglio di una descrizione. Uno scoiattolo prende paura: lascia cadere la nocciola che ha fra le zampette, spalanca gli occhi, apre la bocca (azione principale). Al contempo la sua coda si rizza (azione secondaria). senza l’azione secondaria, l’insieme è molto meno incisivo. 9 — Timing. Questa parola vuol dire due cose simili ma distinte. Nell’accezione disneyana timing significa la costruzione del ritmo interno di un’azione, insomma gli intervalli tra la prima posa e l’ultima. Nell’accezione più corrente timing significa il «tempismo» dei movimenti o degli eventi in scena, cioè il tempo scenico. Noi ridiamo o ci spaventiamo o ci commuoviamo, ma solo se la battuta o l’urlo o il sospiro arrivano nel momento esatto in cui li aspettiamo. L’attore che sbaglia il timing rovina lo spettacolo.

lE dodICI rEgolE dElla character animation

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10 — exaggeration. Perfino molti autori disneyani degli anni Trenta fraintesero, credendo di dovere distorcere i disegni e creare azioni superviolente. Questa esagerazione significa semplicemente «enfatizzare la caricatura fino a renderla espressiva al massimo». 11 — Solid drawing. L’animatore vuole una forma che si muova bene, che abbia volume ma sia comunque flessibile, possieda forza senza peccare per rigidità; una forma «plastica». In altre parole, il personaggio disneyano deve avere una volumetria credibile. 12 — Appeal. spesso questo termine suscita l’immagine di morbidi micini o coniglietti. Di leziosaggini i film disneyani furono tutt’altro che privi, ma appeal significa qualcosa di più alto. «Per noi», scrivono sempre Thomas e Johnston, «significa tutto ciò che a una persona piace vedere: una caratteristica affascinante, un design accattivante, semplicità, comunicatività, magnetismo». Aggiungono che anche i cattivi o le cattive devono avere appeal. Non è un caso, si può aggiungere qui come esempio, che dello shakespeariano Mercante di Venezia solo il perfido shylock sia divenuto una figura indimenticabile. Lo scopo comune a queste regole – e a molti altri accorgimenti – fu quello di ottenere, come recita il titolo del libro di Thomas e Johnston, l’illusione della vita. L’illusione, non la rappresentazione: nei movimenti come nei lineamenti, tutta l’animazione «alla Disney» è caricatura e quando non lo è – si veda il Principe in Biancaneve – è debolissima. occorre ora evitare i fraintendimenti. Non si deve credere che le regole qui elencate siano valide per tutto l’universo (o piuttosto il multiverso) dell’animazione. Queste sono importanti unicamente per la character animation, detta altrimenti personality animation. Disney era partito negli anni Venti dalla character animation (la creazione di personaggi che abbiano una psicologia e una recitazione credibili) e l’aveva portata alla perfezione nel cortometraggio i tre porcellini del 1933. Nel 1934 aveva abbozzato il nuovo concetto di plausible impossible: la creazione di un mondo «altro» (quindi impossibile) regolato dalle leggi della nostra realtà (quindi plausibile). Era questa l’unica maniera per raccontare in modo accattivante la storia di Biancaneve, o più precisamente tutti i racconti, le favole e le fiabe da Pinocchio a Dumbo, a Bambi, a cenerentola, ad Alice nel Paese delle Meraviglie.

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fra il 1934 e il 21 dicembre 1937, giorno della «prima» di Biancaneve e i sette nani, lo staff dell’azienda fece il proprio grande balzo in avanti passando da uno stile caricaturale e facilone a quello classico che oggi tutti identifichiamo come «disneyano». Il merito ne va attribuito a Walt e al geniale docente di disegno e di composizione visiva Don Graham, da lui ingaggiato e di cui si parla nel corso del volume.

iL sogno, L’azzarDo, L’impero Molti si domanderanno che cosa spinse Walt Disney, a un certo punto, a disinteressarsi quasi completamente dell’animazione, l’arte nella quale era nato, in cui aveva trionfato e di cui addirittura era considerato il sinonimo. I fattori furono molti. Walt aveva la psicologia del giocatore d’azzardo. Aveva giocato il tutto per tutto a ventidue anni, con la sua prima società, e aveva perso; aveva giocato il tutto per tutto a ventisette, con Steamboat Willie, e aveva vinto; aveva giocato il tutto per tutto a trentasei, con Biancaneve, e aveva stravinto. Alla soglia dei quaranta, l’animazione non gli riservava più sfide titaniche; magari qualche ritocco, come il suono stereofonico di fantasia (1940). Il fiasco di quest’ultimo film lo amareggiò. Il pubblico statunitense non fu all’altezza di cogliere la qualità del suo progetto per adulti e disertò le sale. La seconda guerra mondiale, che non coinvolgeva ancora gli stati Uniti, aveva però chiuso i battenti del mercato europeo e mutilò gli incassi. Quest’ultimo elemento non avrebbe scorato un Disney trentenne; scoraggiò invece un Disney che a poco a poco diventava sempre più imprenditore e sempre meno esploratore e avventuroso. Più di tutto incise su di lui lo sciopero presso gli studi Disney del 1941, un evento che l’azienda tenne sempre sottaciuto e coperto, che fu oggetto di illazioni e che solo dopo vari decenni fu interamente documentato, ma mai divulgato al grande pubblico. occorrerebbero molte pagine per raccontare i fatti e per incorniciarli nel grande sviluppo sindacale dell’America di franklin D. roosevelt. In sintesi: il 29 maggio 1941 gli scioperanti, che chiedevano migliori condizioni economiche e una maggiore equità di retribuzione, sistemarono i loro picchetti davanti all’ingresso dello studio e impedirono a tutti di transitare.

Il sogNo, l’azzardo, l’ImPEro

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La pugnalata alle spalle, da parte di uomini e donne che Disney riteneva di avere coccolati e viziati oltre ogni limite, fu per il «Mago di Burbank» insopportabile. Durante due mesi qualsiasi tentativo di negoziazione fu mandato all’aria dalle sue esplosioni di rabbia e dalle sue ripicche. finalmente lo staff dirigenziale, alleandosi nientemeno che con il governo di Washington, fece leva sul suo patriottismo in tempo di quasi-guerra e lo convinse ad accettare una missione diplomatica in America Latina. L’amatissimo Papà di Topolino visitò Brasile, Argentina, Cile, rinforzando con enorme efficacia la politica di Buon Vicinato che roosevelt aveva appena inaugurata per evitare che il sud del continente scivolasse nell’influenza hitleriana. Il 21 settembre 1941, Walt ancora assente, lo studio riaprì dopo che le parti si furono messe d’accordo. L’incantesimo era spezzato. rancori incrociati a non finire, tensioni, licenziamenti, mobbing, dimissioni. Il 7 dicembre 1941 l’aviazione giapponese bombardò Pearl harbor. Molti lasciarono le matite per le armi, quando tornarono trovarono un clima molto cambiato e si dimisero a loro volta. Walt volle sempre più yes-men e sempre meno talenti. oltre vent’anni fa, scrivendo di questo maestro imponente nel mio libro cartoons, mi accadde di paragonarlo a florenz ziegfeld, P.T. Barnum, Irving Thalberg, David o. selznick. Uomini di spettacolo che segnarono un’epoca. Ma lo paragonai anche a grandi fondatori d’imperi economici come J.P. Morgan, henry ford, Thomas A. Edison, William r. hearst. oggi è evidente che il secondo paragone era quello più preciso. Disney e la sua idea sono un brano della storia del Novecento mondiale e, se quest’ultimo è stato denominato «il secolo breve», non è scorretto pensare che Walt e i frutti della sua visionarietà siano un brano anche del Duemila. Da tale considerazione discende l’importanza che riveste questo libro.

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PrEfazIoNE


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Vita di Walt disney

Ai miei genitori


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presentazione all’edizione italiana

Mia moglie e io abbiamo visitato l’Italia in varie occasioni e ogni volta con gioia crescente. Amiamo tutto dell’Italia: il grande patrimonio artistico, i maestosi monumenti e le vestigia del passato, i paesaggi meravigliosi, il cibo buonissimo, le magnifiche chiese. Durante la nostra visita del 2008 siamo stati particolarmente bene: abbiamo celebrato il nostro anniversario di matrimonio in un eccellente ristorante a Gubbio. Ma credo che ciò che ci è piaciuto di più sia stato semplicemente il passeggiare per le città, condividendo per alcuni giorni con gli italiani le loro strade, sempre così ricolme di vita. ricordo di avere fatto acquisti in alcune stupende librerie, durante il mio ultimo viaggio, e di aver pensato a quanto fossi deliziato all’idea che la mia biografia su Walt Disney avrebbe di lì a non molto figurato sui loro scaffali, in un’edizione italiana. Walt stesso visitò l’Italia varie volte e, a giudicare dal sorriso sul suo viso in una foto scattata nel 1951, mentre navigava in gondola a Venezia con la moglie e la figlia sharon, i suoi sentimenti per questo paese erano di sicuro analoghi ai miei. Per un importante aspetto, l’Italia è in notevole anticipo rispetto agli stati Uniti in merito al riconoscimento dell’eredità artistica di Walt Disney. Come scrivo al Capitolo 3, Mickey Mouse, cioè Topolino, apparve nelle strisce a fumetti a partire dal 1930, poco più di un anno dopo il suo debutto nel cortometraggio Steamboat Willie (1928). Benché Walt avesse rivestito un ruolo assai perife-

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Walt disney con la moglie lillian e la figlia minore sharon mae a Venezia, durante il loro giro in Italia nel 1951.

rico nelle operazioni di concessione delle licenze per prodotti basati sui suoi personaggi, alla striscia di Topolino teneva molto e forse per questa ragione essa in breve tempo raggiunse e mantenne un alto livello qualitativo. La comic strip fu scritta e disegnata all’interno dello studio Disney per molti anni da floyd Gottfredson, oggi ampiamente riconosciuto come uno dei grandi maestri del fumetto. ricordo l’invidia che provai quando, anni fa, vidi alcuni bellissimi volumi italiani che ristampavano le sue storie edite in Italia; negli stati Uniti non è stato ancora fatto nulla di paragonabile. Altri autori di fumetti Disney hanno riscosso in Italia (e in diversi altri paesi europei) gli entusiastici consensi di cui non hanno mai goduto nel paese natio. Carl Barks, che ho avuto il privilegio di conoscere di persona, è il primo nome che mi viene in mente. Già scrittore delle storie per i cortometraggi animati Disney degli anni Trenta, nel 1942 cominciò a scrivere e a disegnare quelle per gli albi a fumetti di Donald Duck (Paperino); e pochi anni dopo aveva creato uno dei più amati personaggi disneyani, Uncle scrooge McDuck, meglio noto in Italia come Paperon de’ Paperoni.

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PrEsENtazIoNE all’EdIzIoNE ItalIaNa


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una tavola da Zio Paperone e l’Uomo dei Paperi, di rudy salvagnini (storia) e giorgio Cavazzano (disegni), topolino n. 1919, 6 settembre 1992. ©Walt disney Company Italia

Per oltre vent’anni, frotte di bambini statunitensi conobbero Carl come the good artist. Le sue storie non erano firmate, ma erano immediatamente riconoscibili perché avevano lo stile inconfondibile di uno scrittore e disegnatore senza pari. oggi, tuttavia, sono più che sicuro che sia molto più facile trovare le storie di Barks in Italia che negli UsA. È ancora una volta in Europa che appare la maggior parte delle nuove storie a fumetti con i personaggi Disney. C’è una storia nella quale lo stesso Carl Barks e la sua signora, Garé, vi appaiono come personaggi; Carl condivide le vignette di quel racconto con la sua

PrEsENtazIoNE all’EdIzIoNE ItalIaNa

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creazione, lo zio Paperone, mentre disegna il vecchio taccagno. Mi piace pensare che Carl sarebbe lieto e contento di sapere di aver portato a termine con successo la transizione dall’essere creatore di personaggi a fumetti al diventare uno di essi: un aldilà divertente, non c’è che dire! L’Italia fornisce un enorme contributo nel mantenere viva la grande tradizione dei fumetti Disney, che in America è molto meno solida. sono davvero felice che la prima pubblicazione del mio libro in un’altra lingua dopo l’inglese sia in italiano. sono riconoscente alla Tunué, al suo direttore editoriale Massimiliano Clemente e al mio traduttore, Marco Pellitteri, per la grande cura con cui si sono dedicati al mio libro. sono grato anche al mio amico Giannalberto Bendazzi, per il suo caloroso interesse e supporto e per il suo inestimabile contributo agli studi sul cinema d’animazione. A tutti, grazie! Little Rock, Arkansas Gennaio 2009

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PrEsENtazIoNE all’EdIzIoNE ItalIaNa


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premessa

Chiunque pubblichi un volume sulla vita di Walt Disney si ritrova obbligato a spiegare il motivo per un’impresa del genere, dato che su Disney sono state già edite moltissime biografie. Affermare, severamente, che la maggior parte di questi libri magari non siano dei capolavori, non è un motivo che regga granché. Il punto è, semmai, se una nuova biografia sappia arrivare a riempire le lacune che hanno caratterizzato le precedenti. La maggior parte delle biografie su Disney hanno ritratto o un uomo con soltanto qualche piccola imperfezione, in tratti secondari della sua personalità e del suo talento (per esempio, che fumava troppo e che faceva largo uso di parole oscene), oppure un individuo assai odioso (per il suo presunto antisemitismo, secondo tali versioni), i frutti del cui lavoro sarebbero stati in fin dei conti una disgrazia per la cultura del Novecento. ho trovato pochi segni di entrambi questi Disney nella mia personale ricerca sulla sua vita, cominciata nel 1969 con il mio primo viaggio in California per intervistare Ward Kimball, uno dei suoi migliori animatori, e Carl stalling, il primo compositore per i suoi cortometraggi sonori. Disney fu, a mio giudizio, un artista di non eccelso talento ma capace di affascinare, e un imprenditore in generale ammirevole e però, sotto l’aspetto gestionale, assai meno dotato. sono convinto che per capire davvero Disney occorra considerare insieme questi due aspetti della sua vita, certo unitamente ad altri elementi del suo privato, in un modo che ricomponga il

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quadro generale della sua persona; ed è ciò che ho cercato di fare in questo volume. ho concentrato la mia attenzione sul suo lavoro, in particolare sui suoi film animati, perché è lì che ho trovato gli aspetti più affascinanti della sua vicenda. Egli fu, secondo quanto ho rilevato, un buon marito e un padre attento, ma, in questi e in altri aspetti, del tutto simile a moltissimi altri brav’uomini della sua generazione. Per esempio, il parco di Disneyland fu, e rimane, una meraviglia imprenditoriale, ma si tenga a mente che esso fu un prodotto dei suoi tempi molto di più di quanto non lo fossero stati i film disneyani: l’impatto di Disneyland sulla cultura statunitense, nel bene o nel male, è stato assai sovrastimato. Coloro che hanno davvero trasformato il loro paese sono persone come Thomas Edison e henry ford; Disney, più che altro, ha dato un contributo a porre in risalto cambiamenti economici e demografici che si sarebbero verificati ugualmente senza di lui. sono invece i suoi film animati degli anni Trenta e dell’inizio degli anni Quaranta a renderlo una figura di assoluta rilevanza. Una grande risorsa di cui ho potuto avvalermi per questo libro è una storia dell’animazione hollywoodiana che avevo già scritta (Hollywood cartoons: American Animation in its Golden Age)1 e che include una ricostruzione degli studi di Walt Disney in quegli anni. Nel realizzare questo volume ho avuto la grande fortuna di poter contare sulle interviste che Milton Gray e io registrammo come parte delle ricerche condotte per Hollywood cartoons. La maggior parte delle persone che interpellammo e che conoscevano Disney – alcuni di loro addirittura dai primi anni Venti – in seguito sarebbero state intervistate di rado o mai più; e da allora quasi tutti sono morti. Nessuno che oggi voglia intraprendere la stesura di una biografia su Disney può affidarsi a un cumulo di ricordi su di lui e sul suo studio altrettanto ricco rispetto alla serie di interviste presentate in Hollywood cartoons. Di certo non tutte le memorie ivi contenute sono dello stesso tenore, ma Disney era un capo assai lunatico ed esigente ed è anche per questo che i ricordi dei suoi collaboratori da me intervistati sono così vividi: Disney era uno che attirava sempre su di sé, nel bene e nel male, occhi e orecchie dei suoi sottoposti. Per questo libro ho intervistato inoltre alcune altre persone che conoscevano Walt Disney, per lo più in relazione ai suoi film con attori in carne e ossa. Malauguratamente, la maggior parte delle per-

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sone che avevano lavorato insieme a Disney sono ormai fra i più. Milt Gray e io avevamo inoltre raccolto parecchie memorie presso alcuni dei più importanti progettisti delle attrazioni di Disneyland: personalità come Marc Davis, Ken Anderson, Claude Coats e herb ryman. Costoro avevano già lavorato, in precedenza, per i disegni animati: pertanto le nostre interviste, che furono raccolte per il mio libro Hollywood cartoons, poterono essere incentrate quasi interamente sul loro lavoro nel settore dell’animazione. In ogni caso, e per fortuna, a questo proposito non v’è certo penuria di documentazione. Disneyland e vari temi a questa correlati, come la passione di Walt Disney per le ferrovie, sono stati oggetto di diversi e ottimi libri, il migliore dei quali è Walt Disney’s Railroad Story di Michael Broggie;2 e di una serie di contributi su di un tema specifico, come The “e” Ticket (P.o. Box 8597, Missions hills CA 91346-8597; The-e-ticket.com), una rivista incentrata sulla storia di Disneyland, fondata da Jack E. Janzen e dal suo oggi defunto fratello, Leon J. Janzen, in quasi ogni numero della quale è inserita una preziosa e spesso esclusiva intervista a un veterano di Disneyland. Walt Disney non scrisse mai un’autobiografia, ma vi ci si avvicinò molto nel 1956, quando concesse una serie di interviste a Pete Martin, che dialogava con le celebrità per il settimanale Saturday evening Post e aveva già composto, come autore non accreditato, le autobiografie di Arthur Godfrey e Bing Crosby. Come la figlia di Disney, Diane Miller, ha spiegato nel 2001, l’idea originale era che l’autobiografia (scritta in realtà da Martin) venisse proposta a puntate sul Saturday evening Post; ma Disney non fu d’accordo. Egli suggerì invece che «il giornale cambiasse impostazione e che la storia fosse raccontata da me, la figlia maggiore. Mia sorella e io saremmo state pagate e, sebbene la cifra fosse circa la metà di quanto il giornale avrebbe offerto a lui, era ugualmente una gran bella somma». fu questo il modo in cui Disney fornì un indiretto ausilio finanziario a sua figlia e a suo genero, con i loro due figli.3 Come ha scritto Diane Miller, «mi sono sempre sentita un po’ a disagio nell’essere ritenuta l’autrice del libro che ne venne fuori,4 perché avevo fatto davvero poco al riguardo, eccetto essere presente, con grande gioia, a tutte le interviste concesse da papà a Pete [Martin] […]. Il risultato furono ore di interviste registrate su nastro, che sono state una fantastica fonte per ricerche successive».5 Alcune informazioni – come i riferimenti alla morte di Jean hersholt e un allora imminente programma televisivo Disney6 – indi-

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cano che le interviste furono registrate nel maggio e nel giugno 1956 e non a luglio, come ricordava Diane Miller. Corposi estratti delle interviste sono stati pubblicati sul sito internet del Walt Disney family Museum7 e in molti libri approvati dalla Walt Disney Company, talora in forma modificata o parafrasata. Copie delle trascrizioni complete e la trascrizione di un’intervista di Martin a Disney del 1961 sono custodite presso i Walt Disney Archives di Burbank8 e, come parte della richard G. hubler Collection, presso lo howard Gotlieb Archival research Center alla Boston University.9 Le citazioni che riporto nel libro provengono direttamente dalle trascrizioni e non dalle loro versioni pubblicate; ho solo corretto qualche errore grammaticale e altre quisquilie. hubler era uno scrittore indipendente, autore di molti articoli per rivista, e fu coautore delle memorie di ronald reagan Where’s the Rest of Me?10 fu il primo autore che la Walt Disney Productions e la famiglia Disney chiamarono per scrivere una biografia di Walt Disney, meno di un anno dopo la morte di Disney stesso. Tra la fine del 1967 e l’inizio del 1968 hubler intervistò molti impiegati della Disney Company e vari membri della famiglia Disney, alcuni dei quali non erano mai stati intervistati – né mai lo sarebbero stati – in altre occasioni. Ma il suo libro non venne mai pubblicato. «ho sottoposto alla Disney il manoscritto finale per le correzioni e per eventuali imprecisioni nei fatti riportati […] poi più nulla», mi disse nel 1969. «Nessun commento, nessuna ragione, niente di niente. […] Mi hanno pagato l’ingente penale contrattuale e la cosa è finita lì».11 hubler rimase in possesso delle bozze del suo manoscritto, di trascrizioni complete e parziali di decine di interviste e di molti altri materiali, che donò tutti alla Boston University e non pochi dei quali ho anch’io consultati durante la stesura del mio libro. Le trascrizioni di molte interviste di hubler si trovano inoltre presso i Walt Disney Archives e sono stati usati e citati più volte in libri successivi autorizzati dalla Disney, come le biografie di Bob Thomas su Walt Disney e su suo fratello roy.12 In tutte queste interviste – le mie, quella di Martin, quella di hubler e altre con amici e impiegati di Disney – non ho riscontrato contraddizioni nei fatti riportati, eccetto pochissime e trascurabili incongruenze; nella mia ricerca, per esempio, ho incontrato versioni sensibilmente diverse dei fatti solamente con riguardo al film Swiss family Robinson13 sull’isola di Tobago. Disney in realtà non visitò mai l’isola durante le riprese, così quelle imprecisio-

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ni sono state per questo libro solo di importanza limitata. Disney stesso, dal tempo in cui, all’inizio degli anni Trenta, cominciò a ripercorrere la propria storia personale in occasione delle interviste che andava rilasciando ai giornalisti e ad approvare i comunicati stampa su di essa, fu sempre coerente in quello che diceva. Quando svicolava su qualche episodio della propria vita, ciò avveniva sempre per ragioni facilmente comprensibili, come il costante risentimento circa i comportamenti di qualche suo ex dipendente da lui ritenuti sleali. Il maggiore ostacolo nello scrivere un’accurata biografia su Disney non sono le deliberate calunnie, bensì gli errori o le dimenticanze dei biografi precedenti. Nessun autore desidera ripetere le ricerche sui temi già bene indagati da altri scrittori, ma moltissimo materiale già edito intorno alla vita di Walt Disney contiene piccole e superabili inesattezze. Come indicato nelle Note, ho cercato di evitare questo tipo di sviste, in specie affidandomi, dove possibile, a materiali di prima mano. Certo qualche errore, in assoluto, è inevitabile, e come affioreranno alla superficie ne segnalerò le relative correzioni sul mio sito internet, Michaelbarrier.com.14 Alcuni materiali di prima mano si sono rivelati più facilmente accessibili di altri. In quanto parte della mia ricerca per Hollywood cartoons, ho visto quasi tutti i disegni animati sonori per il cinema prodotti da Walt Disney, così come quasi tutti i suoi cartoon muti ancora oggi reperibili, e parecchi dei suoi filmati su commissione, come quelli per le forze armate. Grazie in particolar modo alla collezione della Biblioteca del Congresso a Washington D.C. ho avuto modo di visionare tutti i film con attori in carne e ossa realizzati quando Disney era ancora vivo, così come quasi tutti i cortometraggi dal vero, insieme a decine di episodi delle serie animate televisive. ho solo visto, comunque, appena qualche puntata del programma Mickey Mouse club; da qualche parte occorreva pur tracciare un confine sui materiali da consultare. sebbene abbia potuto godere per anni della possibilità di accesso ai Disney Archives per il mio lavoro su Hollywood cartoons, da allora le regole si sono fatte più strette e per questo libro non ho avuto modo di svolgere alcuna ricerca diretta presso tali archivi; un problema di poco conto, per fortuna, considerando le indagini da me già condotte e le altre fonti di cui ho potuto disporre. Alcuni materiali di prima mano, in effetti, non sono disponibili nemmeno ai ricercatori che godano dell’o.K. della Disney Company. I docu-

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menti di roy Disney, concessi in visione a Bob Thomas per la sua biografia, rimangono inaccessibili alla maggior parte degli autori, proprio come altre carte dal perenne valore legale/documentale (chiamate non a caso i «documenti primari»). se sarà mai possibile scrivere una eventuale «biografia definitiva» su Walt Disney, ci vorranno anni prima che essa venga ultimata. Quindi non è affatto così che definirei questo libro. Però so per certo che esso è di gran lunga più accurato della maggior parte degli altri testi su Walt Disney; e spero anche che restituisca fortemente il senso di ciò che era l’uomo Walt Disney e perché ancor oggi egli richiami con forza la nostra attenzione. se sono riuscito in questi intenti sarò felicissimo di lasciare il posto, fra tanti anni nel corso di questo secolo, a qualcun altro, perché ne scriva la biografia delle biografie. Little Rock, Arkansas – agosto 2006

ringraziamenti Questo libro è fondato in larga misura sulle ricerche da me condotte per il libro Hollywood cartoons: American Animation in its Golden Age, la mia ricostruzione storica sull’animazione hollywoodiana. Milton Gray, l’animatore che mi fornì preziosissima assistenza durante il mio lavoro per quel libro, merita altrettanti ringraziamenti per il contributo a questo, sebbene stavolta non lo abbia sottoposto alla stessa fatica sostenuta per l’opera precedente. ho potuto usare solo una piccola parte delle valide informazioni rilasciatemi per quel primo libro e con questo volume ho solo, come dire, inciso un’altra tacca nel processo di accumulazione di notizie. Per la stessa ragione sono grato a Mark Kausler, il più grande studioso dell’animazione di hollywood. se non mi avesse aiutato per la stesura del primo libro, certo non avrei mai potuto scrivere questo. Nello scrivere su Walt Disney ho anche ricevuto valido aiuto dai miei amici robin Allan e J.B. Kaufman, due delle persone più meritevoli di pregiarsi del titolo, spesso abusato, di «storico del cinema d’animazione». Kaye Malins, la più grande promotrice di Marceline, Missouri, la cittadina ferroviaria dove crebbe Walt, ha regalato a mia moglie Phyllis e a me una fantastica escursione in un mattino piovoso del marzo 2005, ed è stata di grande aiuto anche in altri modi. Michael Danley mi ha aiutato a localizzare molti documenti rari. Paul f. Anderson mi ha fornito numeri mancanti di The “e” Ticket e della sua

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eccellente rivista su Disney, Persistence of Vision. Keith scott, la maggiore autorità sui doppiatori dei cartoon statunitensi, mi ha mandato delle rare cassette sulle registrazioni radiofoniche di Walt Disney negli anni Trenta e Quaranta. Gail fines, May Couch e Craig Pfannkuche sono stati di grandioso aiuto nell’individuare alcune testimonianze della vita della famiglia Disney nei registri pubblici di Kansas City, di Marceline e di Chicago. ho potuto godere dell’assistenza di persone appassionate in molti archivi, librerie e altre organizzazioni, ma specialmente di quella delle seguenti: David r. smith e robert Tieman dei Walt Disney Archives; rosemary C. hanes della Motion Picture, Broadcasting and recorded sound Division presso la Biblioteca del Congresso; Ned Comstock degli Archives of Performing Arts e Dace Taube delle regional history Collections presso la University of southern California, a Los Angeles; howard Prouty, Barbara hall e faye Thompson della Margareth herrick Library presso la Academy of Motion Picture Arts and sciences, a Beverly hills; Maria Morelli dello howard Gotlieb Archival research Center presso la Boston University; Carol Neyer, Lynn rosenfeld e Coco halverson del California Institute of the Arts a Valencia (CA); stine Lolk e sven hansen dei Tivoli Gardens di Copenaghen; sally McManus e Jeri Vogelsang della Palm springs historical society; Joan Blocher del Chicago Theological seminary; Elizabeth Konzak, University of Central florida Libraries, a orlando; Carol Merrill-Mersky e Julio Gonzalez, hollywood Bowl Museum, Los Angeles; fred Deaton del Marshall space flight Center, a huntsville, Alabama; Janet Moat del British film Institute, Londra; Lillian hess del Danish Tourist Board, New York; Elaine Doak della Picker Memorial Library presso la Truman state University, Kirksville, Missouri; sara Nyman della Kansas City Public Library, nel Missouri; Eric Lupfer dello harry ransom humanities research Center, presso la University of Texas, ad Austin; Michelle Kopfer della Dwight D. Eisenhower Library, Abilene; Carol Martin della harry s. Truman Library, a Independence; Lisa L. Bell dello smoke Tree ranch, a Palm springs; Martha shahlari della Jannes Library, presso il Kansas City Art Institute; Por hysu della Burbank Public Library; e il personale del servizio di prestito interbibliotecario del sistema bibliotecario centrale dell’Arkansas. Phyllis Barrier, Milton Gray, J.B. Kaufman e Mark Kausler hanno letto il manoscritto e mi hanno dato molti validi suggerimenti. Durante il mio lavoro su Hollywood cartoons, circa 150 persone che avevano lavorato per Disney o che lo avevano conosciuto in altre occasioni si sono prestate a essere intervistate da me o da Milton Gray, o da tutt’e due insieme: nella maggior parte dei casi di persona, o alle volte per telefono. Altri hanno fornito esaurienti risposte, registrate e rispedite su audiocassetta, alle mie domande inviate per iscritto. Molte delle persone che mi hanno concesso un’intervista mi hanno poi risposto anche per lettera, aggiungendo alcuni particolari e allegando docu-

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menti di vario tipo. sono davvero dispiaciuto che così tante fra queste persone nella lista che segue non siano più fra noi per leggere questo libro. Mi dispiace anche che non proprio tutti i nomi di questa lista siano presenti nel testo, ma tutti hanno contribuito a farmi capire Walt Disney e il suo lavoro. sono riconoscente a Edwin Aardal, ray Abrams, Kenneth Anderson, Michael Arens, Arthur Babbitt, Carl Barks, Aurelius Battaglia, Ed Benedict, Lee Blair, Mary Blair, Preston Blair, Billy Bletcher, James Bodrero, stephen Bosustow, Jack Boyd, Jack Bradbury, Jameson Brewer (noto negli anni Trenta come Jerry Brewer), homer Brightman, Bob Broughton, Jack Bruner, robert Carlson, Jim Carmichael, Marge Champion, Donald Christensen, Ivy Carol Christensen, Bob Clampett, Les Clark, Claude Coats, William Cottrell, Chuck Couch, Jack Cutting, Arthur Davis, Marc Davis, robert De Grasse, Eldon Dedini, Nelson Demorest, Philip Dike, Eyvind Earle, Mary Eastman, Phil Eastman, Jules Engel, Al Eugster, Carl fallberg, Paul fennell, Marceil Clark ferguson, Eugene fleury, hugh fraser, John freeman, friz freleng, Gerry Geronimi, Merle Gilson, George Goepper, Morris Gollub, Campbell Grant, Joe Grant, richard hall (noto negli anni Trenta come Dick Marion), David hand, Jack hannah, hugh harman, Jerry hathcock, Gene hazelton, T. hee, John hench, David hilberman, Cal howard, John hubley, richard huemer, William hurtz, rudolph Ising, Willie Ito, Wilfred Jackson, ollie Johnston, Chuck Jones, Volus Jones, Milt Kahl, Lynn Karp, Van Kaufman, Lew Keller, hank Ketcham, Betty Kimball, Ward Kimball, Jack Kinney, Earl Klein, Phil Klein, fred Kopietz, Eric Larson, Gordon Legg, fini rudiger Littlejohn, hicks Lokey, Ed Love, richard Lundy, Eustace Lycett, James Macdonald, Daniel MacManus, C.G. «Max» Maxwell, helen Nerbovig McIntosh, robert McIntosh, robert McKimson, J.C. «Bill» Melendez, John P. Miller, Dodie Monahan, Kenneth Muse, Clarence Nash, Grim Natwick, Maurice Noble, Dan Noonan, Cliff Nordberg, Les Novros, Edwin Parks, Don Patterson, Bill Peet, hawley Pratt, Martin Provensen, Thor Putnam, Willis Pyle, John rose, George rowley, herb ryman, Leo salkin, Paul satterfield, Milt schaffer, zack schwartz, Ben sharpsteen, Mel shaw (noto negli anni Trenta come Mel schwartzman), Charlie shows, Larry silverman, Joe smith, Margaret smith, Carl stalling, McLaren stewart, robert stokes, John sutherland, howard swift, frank Tashlin, frank Thomas, richard Thomas, Clair Weeks, Don Williams, Bern Wolf, Tyrus Wong, Cornett Wood, Adrian Woolery, ralph Wright, rudy zamora e Jack zander. Inoltre, Marcellite Garner Lincoln, Tom McKimson e Claude smith mi hanno fornito preziose informazioni tramite lettere; e fred Niemann mi ha reso disponibile il suo carteggio con frank Tashlin. Nell’intraprendere il mio lavoro per questo libro ho intervistato altre quindici persone il cui cammino si è incrociato con quello di Walt Disney. sono grato a Ken Annakin, Kathryn Beaumont, frank Bogert, Jim fletcher, sven hansen, ri-

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chard Jenkins, James MacArthur, floyd Norman, fess Parker, harrison «Buzz» Price, Maurice rapf, Norman Tate, Dee Vaughan Taylor, richard Todd e Gus Walker. Come indicato nelle Note, negli anni mi è stato garantito l’accesso alle carte personali di molti autori che hanno lavorato ai film Disney. Per tale privilegio, sono in debito con le seguenti persone: Nick e Tee Bosustow, per alcune notizie riprese dalle ultime carte del loro papà, stephen Bosustow; alla signora hand, per le notizie tratte da alcuni documenti di suo marito, David hand; e alla signora Polly huemer, per le notizie rinvenute su alcune carte di suo marito richard, in aggiunta a quelle che lo stesso Dick huemer mi permise di copiare. Infine sono molto grato al mio agente Jake Elwell, che mi ha guidato attraverso varie revisioni del documento con il quale avrei poi proposto il progetto per questo libro. Penso che egli abbia creduto perfino più di me che potessi scrivere una biografia su Disney sostanzialmente diversa – e assai migliore – di quelle precedenti.

abbreViazioni Nelle Note a piè di pagina, nel corso del libro, le fonti sono abbreviate. Qui di seguito i riferimenti completi. Archivi di società private Rko — rKo radio Pictures Corporate Archives, Turner Entertainment Company, Culver City, California (in riferimento a ricerche svolte nel 1988). Wda — Walt Disney Archives, Burbank. cause legali documenti della bancarotta della Laugh-o-gram — Caso di bancarotta n. 4457, Laugh-o-gram films, Inc., archiviato il 4 ottobre 1923 presso la Corte distrettuale del Western District del Missouri, Kansas City, National Archives, Central Plains region, Kansas City. Archivi governativi NLRB/Babbitt — Nella controversia riguardante la Walt Disney Productions, Inc., e Arthur Babbitt; Ufficio della segreteria Esecutiva, Trascrizioni, sommari e Documenti probatori 4712, 8 ottobre 1942. registrazioni del National Labor relations Board, record Group 25, National Archives, Washington, D.C. fatta eccezione per il materiale qui indicato, le citazioni relative al caso NLrB/Babbitt si riferiscono a pagine della trascrizione audio. I riferimenti alle decisioni della NLrB pubblicate seguono la forma legale standard, es. 13 NLrB 873.

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Biblioteche aMpas — Margaret herrick Library, Academy of Motion Picture Arts and sciences, Beverly hills. Articoli di riviste e quotidiani identificati in questo modo sono stati copiati dai documenti su microfilm della herrick Library, i quali non includono quasi mai i numeri di pagina. Baker — Baker Library, harvard Business school, Cambridge (Massachusetts, UsA). Bu/Rh — raccolta richard G. hubler, howard Gotlieb Archival research Center, Boston University. CsuN/sCg — raccolta della screen Cartoonists Guild, Local 839, AfL-CIo, 1937-1951, Urban Archives Center, California state University, Northridge. Nyu/JC — raccolta sull’animazione di John Canemaker, fales Library/special Collections della Elmer holmes Bobst Library, New York University. RaC — rockefeller Archive Center, sleepy hollow. Tutti i riferimenti sono a Nelson A. rockefeller, Personal, record Group 111, series 4. Wisconsin/ua — United Artists Collection, Wisconsin Center for film and Theater research, state historical society of Wisconsin, Madison. Storie narrate a voce adamson/Freleng, adamson/huemer — Tali interviste audio furono condotte da Joe Adamson rispettivamente con friz freleng e richard huemer per la University of California, Los Angeles, Department of Theater Arts nel 1968’69, come parte di «An oral history of the Motion Picture in America».1 Documenti personali aC raccolta dell’autore Bs Ben sharpsteen CgM Carman G. Maxwell dh David hand FN fred Niemann hh hugh harman Rh richard huemer Ri rudolph Ising sB stephen Bosustow Le cifre sui costi di produzione e sugli incassi al botteghino dei film della Disney sono state fornite, per i film terminati dopo il 1947, dai WDA. Le cifre indicate come incassi globali comprendono sia i profitti nazionali e mondiali sia la somma di quelli incassati dallo studio Disney e dai suoi distributori. Le cifre relative agli anni precedenti il 1947 sono espunte, come verrà notato nel corso del volume, da un

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foglio di bilancio preparato dallo studio per le negoziazioni con la rKo e costituiscono i ricavi effettivi incassati dalla Disney stessa. Le date di assunzione provengono anch’esse dai WDA. Le meeting notes (‘note di riunione’) alla Disney erano generalmente – ma non sempre – trascrizioni sotto dettatura; l’espressione meeting notes era usata precisamente all’interno dello studio Disney. Le meeting notes erano di solito distribuite per conoscenza come dattiloscritti riprodotti in copia carbone o a volte in eliotipo, ma all’apice della prosperità dello studio, durante la preparazione di Pinocchio e fantasia, tali note erano sovente mimeografate.2 raccolte complete dei notiziari interni dello studio e del sindacato menzionati in quelle note sono rare o inesistenti. I WDA non possiedono una raccolta esaustiva del Bulletin dello studio, per esempio. Benché sarebbe d’uopo menzionare la città in cui ciascuna intervista ha avuto luogo, ciò non è stato fatto in questa sede, sia per risparmiare spazio che altrimenti avrebbe dovuto esser dedicato a informazioni ripetitive – la maggior parte degli incontri si sono svolti all’interno dell’area metropolitana di Los Angeles – sia, in alcuni casi, per garantire la riservatezza degli intervistati. Quando non diversamente specificato, tutte le interviste sono state condotte dall’autore; e, in molti casi, con Milton Gray in qualità di assistente. La mia procedura abituale per le interviste è stata di stendere una trascrizione – o in alcuni casi delle note riassuntive – di ogni colloquio e di dare all’intervistato la possibilità di rivedere tale trascrizione; di solito, ma non sempre, l’intervistato si è avvalso di tale facoltà (alcune persone sono morte prima che potessi trascriverne l’intervista, o prima di reinviarmi la loro copia della trascrizione). Le volte che nel corso del volume ho riportato una citazione da una di queste trascrizioni rivedute dagli intervistati, l’ho segnalato.

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introduzione «sono tutto io»

Walt Disney era arrabbiato. Molto arrabbiato. Non molti mesi dopo quel giorno fatidico, parlando di questo momento della sua vita, delle lacrime gli sarebbero affiorate in volto. Il 10 febbraio 1941 invece aveva gli occhi più che mai asciutti, la voce salda e stentorea. Mentre teneva il suo discorso era il tardo pomeriggio di lunedì nella sala proiezioni del nuovo, scintillante stabilimento della Walt Disney Productions a Burbank, nella san fernando Valley, poco a nord di Los Angeles. Quella sede era costata più di tre milioni di dollari e un navigato giornalista di hollywood aveva scritto, dopo una visita, che rispetto a qualsiasi altro studio cinematografico quello di Walt Disney sembrava «un’ultramoderna centrale del latte a confronto con una vecchia stalla polverosa».1 Disney era in piedi di fronte a svariate centinaia dei suoi impiegati, molti fra i quali artisti di varia estrazione. Alcuni avevano diretto i suoi film d’animazione, altri li avevano scritti. E altri ancora – i veri aristocratici degli studios Disney – erano animatori, gli autori che avevano portato alla vita sullo schermo i personaggi disneyani. Walt Disney aveva coltivato i suoi giovani animatori durante tutto il decennio precedente, e con risultati spettacolari. Nel 1941, Disney poteva ancora dichiarare a cuor leggero di essere un uomo giovane: aveva meno di quarant’anni, era snello e i suoi capelli eran tutti neri, aveva dei bei baffetti e un naso prominente che lo facevano un po’ somigliare, specialmente quando il suo volto era rilassato, alla stella del cinema William Powell. Eppure era un ci-

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neasta già da quasi vent’anni. I suoi primi cartoon erano stati ninnoli animati allegri e lievi, proprio come quasi tutti i cortometraggi d’animazione dell’epoca del muto; tuttavia Disney si era staccato dal gruppo quando aveva iniziato a produrre, nel 1928, i primi corti sonori. Per i cinque anni seguenti aveva condotto per mano vaste platee su nuovi territori espressivi, finché non aveva realizzato, trionfalmente, un lungometraggio d’animazione, Biancaneve e i sette nani, il quale aveva incontrato un enorme favore sia fra i critici sia presso il pubblico.2 Nella primavera del 1939, a poco più di un anno dalla sua uscita, il film aveva già procurato a lui e alla rKo, il suo distributore, quasi sette milioni di dollari: molto più di qualsiasi altro film sonoro e, con tutta probabilità, molto più di qualsiasi altro film mai prodotto fino ad allora.3 Quel record in realtà non durò molto – Via col vento4 lo superò nel 1939 – ma il pubblico di Biancaneve forse era stato più numeroso, considerato che parecchi biglietti erano stati venduti a bambini, quindi a un prezzo d’ingresso ridotto. Disney aveva adoperato una gran parte dei suoi profitti di Biancaneve non per arricchirsi ma per far costruire il nuovo studio. La sua progettazione era stata un’impresa accuratamente pianificata, in netto contrasto rispetto alla crescita caotica dei vecchi locali della Disney in hyperion Avenue, a Los Angeles. Tutto, a Burbank, era stato concepito per il benessere degli artisti: luce naturale senza esposizione diretta al sole, sala ricreativa, aria condizionata. Alcuni fra gli artisti trovavano la nuova sede di una perfezione quasi disumana e le preferivano il caro vecchio accrocchio di edifici dei vecchi studios, ma nessuno dubitava che Disney avesse cercato di creare per il suo staff un ambiente praticamente idilliaco. La nuova, splendida sede era l’emblema della fiducia di Disney nei propri mezzi e del suo ruolo di dominio nel campo dell’animazione, un medium nel cui ambito non era certo facile eccellere; ciò nonostante, all’inizio del 1941 – meno di un anno dopo che i suoi dipendenti si erano trasferiti presso i nuovi edifici – tutto gli si stava, per così dire, rivoltando contro. In quel periodo risultò chiaro che Pinocchio e fantasia, i due costosi film che avevano seguito Biancaneve nei cinema nel 1940, non sarebbero riusciti a recuperare al botteghino i costi di produzione.5 Essi, con lo studio, avevano prosciugato il denaro guadagnato con Biancaneve. La guerra in Europa aveva messo fuori gioco la maggior parte dei possibili profitti all’estero, e ora Disney era stato messo alle stret-

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te da un pubblico lunatico e imprevedibile, da banchieri ansiosi e, soprattutto, dalle contraddizioni che erano emerse fra le sue tante ambizioni. Gli obiettivi di Disney, quando aveva cominciato a produrre film d’animazione, erano stati quasi tutti concentrati sul piano affaristico: egli voleva condurre uno studio d’animazione di sua proprietà che macinasse un cartoon alla settimana. E aveva raggiunto uno straordinario successo finanziario non mortificando le proprie ambizioni artistiche, ma anzi espandendole. Gli anni Trenta erano stati uno di quei rari periodi storici durante i quali il livello artistico e il gradimento di un vasto pubblico vanno molto più a braccetto di quanto non accada di solito. Musicisti di jazz come Duke Ellington potevano eseguire concerti in serate danzerecce per un pubblico di avventori normalmente indifferenti a qualsiasi tipo di espressione artistica e, pur nondimeno, la loro musica era apprezzata da non pochi sofisticati intenditori. film pregni delle immagini uniche di cineasti visionari quali John ford e howard hawks portavano al cinema folle di spettatori. E nessuno spiccava, in quell’ambiente, più di Walt Disney. Biancaneve e i sette nani è, al di là del suo successo, uno dei film più intensamente personali mai realizzati. Disney, fino a quel momento, aveva trascurato molte decisioni dirigenziali, lasciandole al suo sempre paziente fratello roy. I due, con le rispettive consorti, erano i soli proprietari di tutta l’azienda, però Walt e sua moglie ne possedevano il 60%. Il compito di roy era trovare i soldi che Walt avrebbe utilizzato a livello creativo. Ma con circa 1200 persone sotto contratto e svariati cortometraggi e lungometraggi in produzione contemporaneamente, Walt Disney a un certo punto si trovò obbligato a dedicare meno tempo al reparto che prima aveva ricevuto tutte le sue spasmodiche attenzioni. si vide costretto a bilanciare le esigenze dell’arte e quelle degli affari con molto più giudizio di quanto gli fosse stato richiesto in precedenza. E nei primi mesi del 1941, quando le difficoltà finanziarie peggiorarono, Disney si ritrovò a pensare sempre di più come un uomo d’affari. rapportarsi ai suoi impiegati in quel ruolo era per lui assai problematico, tuttavia, perché praticamente tutti erano abituati a vederlo nella sua veste di artista. Non poteva licenziare o mettere in aspettativa una larga parte del suo staff – al fine di risparmiare o trovare del denaro, di cui aveva fortemente bisogno – senza con ciò compromettere senza via di scampo molti degli obiettivi artistici che ancora sperava di poter raggiungere. se

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avesse ridimensionato il personale, avrebbe smantellato una struttura che era stata splendidamente progettata e messa in piedi per creare i film che voleva. In quello stesso periodo, le condizioni economiche derivate dallo stato di guerra avevano scatenato in tutta la nazione un’ondata di malcontento e di scioperi da parte delle associazioni di lavoratori. Presso la Disney i coordinatori sindacali – fino a pochi anni prima snobbati un po’ da tutti, negli studios – avevano ora trovato orecchie più sensibili all’ascolto. Nel gennaio 1941, poche settimane prima del famoso discorso, il sindacato screen Cartonists Guild chiese al National Labor relations Board (il Consiglio nazionale sui rapporti di lavoro) di essere nominato quale ente responsabile per la negoziazione sui diritti degli artisti della Disney.6 I molti membri dello staff di Disney che erano ancora emotivamente vicini al loro capo si trovarono turbati dalla voragine che videro cominciare ad aprirsi fra lui e loro. Il 4 febbraio uno di essi, George Goepper, scrisse un memorandum a Disney circa le difficoltà dello studio. Goepper era un assistente animatore di comprovata esperienza – uno di quelli che venivano subito dopo gli animatori, ultimando i loro disegni e aggiungendone di nuovi per completare i movimenti di un personaggio – ma era anche un supervisore assai rispettato. All’inizio del ’41 stava coordinando il lavoro di vari altri assistenti all’opera su un nuovo film, Bambi.7 Goepper scrisse a Disney che il morale era molto basso, soprattutto fra gli animatori e i loro sottoposti: risultato, la produzione ne stava risentendo. scrisse inoltre che se Disney stesso avesse parlato «faccia a faccia con il gruppo più direttamente coinvolto in questi malumori», la situazione non avrebbe potuto che migliorare. Un discorso di quel genere, suggeriva Goepper, avrebbe «mostrato sotto una luce differente questa “faccenda del sindacato”».8 Giovedì 6 febbraio, prima che Goepper inviasse il suo memo, Disney stesso fece circolare una nota. In essa si sottolineava che la produzione era calata del 50%: «È ovvio che una gran parte del tempo lavorativo qui in studio sia stata spesa nello svolgere discussioni su faccende sindacali che avrebbero dovuto essere condotte nel tempo libero». La sua lettera era brusca e autoritaria: «A causa dell’attuale situazione internazionale, lo studio si trova di fronte a una crisi di cui, evidentemente, parecchi fra voi non sono al corrente. Essa può essere risolta con un’esclusiva attenzione, da parte vostra, alle questioni produttive».9

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Il giorno seguente Goepper inviò a Disney il suo messaggio originario, ma vi aggiunse una nuova nota nella quale segnalava che il vistoso calo nella produzione era «il risultato di uno stato di basso morale, causa di discussioni circa l’auspicata attivazione, presso alcuni gruppi, di un sindacato». Come Goepper avrebbe affermato molti anni più tardi, non si aspettava che Disney gli rispondesse, «ma mi chiamò ed era turbato. Erano circa le quattro del pomeriggio e non uscii [dall’ufficio di Disney] prima delle sei: non facemmo che parlare, lui e io da soli. Mi disse “non so proprio come prenderli, questi qua. Non fanno che rivoltare le carte in tavola […]”; e io gli risposi […] “se tu, che sei il proprietario, spieghi i tuoi effettivi problemi, forse questo potrebbe rimettere in riga alcuni di loro”». Come Goepper ricordava correttamente, «il lunedì successivo venimmo tutti convocati in sala proiezioni e Walt si presentò per pronunciare il suo discorso. fu una sorta di lezioncina d’incitazione, più o meno, ma pensai che fosse comunque giunta un po’ troppo tardi».10 I crescenti contrasti fra Disney e gli artisti all’inizio del 1941 presagivano problemi con i quali Walt avrebbe dovuto confrontarsi per oltre dieci anni. Il discorso ai suoi animatori in quel pomeriggio di febbraio si sarebbe rivelato il grande fulcro intorno alla sua vita. Proprio all’inizio del discorso sottolineò che la sua attenzione era rivolta soltanto alla crisi finanziaria dello studio, ma tutti erano ben consci che ciò che egli aveva davvero in mente era il sindacato. sottolineava di avere scritto le note di proprio pugno e che in quelle righe era concentrata tutta la sua persona: «sono tutto io», nelle sue parole. Come per voler provarlo, le aveva farcite con le sue caratteristiche parolacce (qualche segretaria rimosse però le volgarità dalla versione mimeografata del discorso che dopo sarebbe stata distribuita al personale). Il discorso venne inciso su dischi di vinile, per prevenire qualsiasi controversia legale.11 Disney dipinse un quadro melodrammatico del proprio passato: Nei vent’anni in cui ho lavorato in questo settore, ho affrontato molte tempeste. La navigazione è sempre stata tutt’altro che facile. ha richiesto molto duro lavoro, fatica, determinazione, fiducia, fede e, soprattutto, altruismo. forse l’unico, vero, grande fattore che è mai contato è stato proprio l’atteggiamento altruista verso il nostro lavoro. ho sempre avuto un’ostinata e cieca fiducia nel medium animazione, una determinazione nel mostrare agli scettici che il disegno ani-

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mato meritava un migliore destino; che era qualcosa di più che un mero «riempitivo» al cinema; che era più di un passatempo superficiale; che avrebbe potuto divenire uno dei più grandi veicoli di fantasia e divertimento mai sviluppati. Quella fede, quella fiducia e risolutezza e quell’atteggiamento altruista hanno portato il cartoon a occupare la posizione che esso ora detiene nel mondo dell’intrattenimento.

Come se fosse stato un uomo assai più vecchio – e non di trentanove anni, cioè a malapena più anziano di molti dei suoi dipendenti, la cui età media era sui ventisette – Disney rievocò i giorni in cui aveva dovuto lottare con i denti e con le unghie per strappare poche centinaia di dollari in più ai distributori dei suoi cartoon brevi. Per quanto inattuali tali battaglie dovessero suonare a buona parte dell’uditorio, erano un buon indicatore di quanto Disney fosse riuscito a fare nel mondo dell’animazione. solo alcuni anni prima, un successo come Biancaneve – o anche un prestigioso fallimento commerciale come fantasia – sarebbero stati inimmaginabili. Disney, tuttavia, non aveva tanto intenzione di porre l’enfasi sulle vicissitudini che aveva dovute affrontare per poter realizzare film di maggiore qualità. Piuttosto, stava rievocando un certo tipo di difficoltà per come queste erano state vissute e superate da molti altri piccoli uomini d’affari, specialmente durante la Depressione. Parlava non delle battaglie che aveva sostenute fianco a fianco con gli artisti che con lui condividevano l’amore per il «medium animazione», ma di conflitti che, egli riteneva fermamente, aveva combattuti e vinti da solo (con qualche aiuto da parte di roy). Mentre parlava, la sua voce si induriva ancora di più. E minacciava di esplodere in un vero e proprio sfogo verbale incontrollato. Mi sono trovato al verde due volte in questi vent’anni. La prima volta, nel 1923, prima di venire a hollywood, mi ritrovai così a terra che per tre giorni non ebbi nemmeno i soldi per mangiare, e dormii su dei vecchi cuscini di tela per poltrone in una sottospecie di studio – praticamente una topaia – del quale da mesi non riuscivo a pagare l’affitto. La seconda volta, nel 1928, mio fratello roy e io avevamo dovuto ipotecare tutto. Non che fosse molto, ma era tutto quello che avevamo. Avevamo venduto le nostre automobili per pagare gli stipendi. Tutti i nostri risparmi erano stati usati al massimo, per tenere in piedi l’attività. […]

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sarebbe passato oltre un anno, dopo il successo di Mickey Mouse [Topolino],12 prima che ci potessimo permettere un’altra automobile, e si trattava comunque di un camioncino che i giorni feriali usavamo per il lavoro e la domenica per la nostra vita privata.

A proposito di ciò che era venuto fuori da quelle difficoltà degli esordi, quel giorno Disney dipinse l’idilliaco affresco di uno studio in cui impiegati devoti, grati per i sacrifici del loro capo, ottenevano regolarmente degli incentivi economici. Era certo un quadro idealizzato, ma in larga misura accurato. Quello che aveva mantenuto soddisfatti i suoi collaboratori, tuttavia, non era stato tanto il denaro quanto la sensazione che si fossero tutti imbarcati in una grande avventura, ovvero la creazione di una nuova forma d’arte: la character animation, un tipo di cartoon basato sul carisma dei personaggi. Artisti che avevano lavorato regolarmente per altre società d’animazione erano disposti ad accettare dei considerevoli tagli ai loro compensi e a rinunciare a vari incarichi, pur di lavorare per Disney. Venivano per imparare. Disney tuttavia, al di là dell’aver voluto autolodarsi per la propria generosità, non voleva aggiungere altro sui propri sacrifici proprio in quel momento, durante il quale lo studio stava attraversando quella crisi finanziaria: «A una cosa più di ogni altra pensavo, mentre cercavo di risolvere questo problema. Non volevo spargere il panico fra il personale. Non divulgai le vere condizioni dello studio, perché ero convinto che se i ragazzi avessero capito qual era la reale situazione, ciò avrebbe potuto remarci contro, invece che a favore». Contestualmente alle ambizioni di Disney di espandersi dopo il successo di Biancaneve, negli anni le preoccupazioni per i propri collaboratori si erano gradualmente trasformate in un soffocante paternalismo. Adesso stava negando di avere avuto qualsivoglia responsabilità per le difficoltà dello studio, attribuendosi però il merito dei suoi successi. si congratulava con sé stesso per avere rifiutato delle «ovvie e facili soluzioni» nel contrastare la crisi finanziaria. Drastici tagli ai salari «avrebbero potuto provocare il panico e l’abbassamento del morale». Limitare la produzione per «fare rientrare gli azionisti del denaro perduto […] avrebbe voluto dire il probabile licenziamento della metà dei dipendenti dello studio» e il rigettarli in un mercato dell’animazione che non sarebbe stato in grado di riassorbirli.

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La cosa peggiore di tutte, disse Disney, sarebbe stata vendere la maggioranza delle azioni a un’altra società o a un qualche ricco investitore, che ne avrebbero poi detenuto il controllo. ritenni che se era destino che questa mia attività avesse un futuro, se era destino che essa avesse una qualche possibilità di crescere, ciò non sarebbe mai avvenuto se avesse dovuto rispondere […] a qualcuno con un solo pensiero fisso o interesse, cioè il profitto. […] Perché ho avuto una fede cieca che la politica della qualità, se bilanciata da una buona capacità di valutazione e gestione, l’avrebbe avuta vinta contro tutte le difficoltà.

Quest’indifferenza per il guadagno e il rigetto per i finanziamenti dall’esterno furono saldi, tuttavia, solo fin quando i soldi affluirono copiosi. Già nel 1940 i Disney erano stati obbligati a vendere quote della loro società a esterni; e avevano preso a pagare in azioni anche i bonus per gli artisti. Nel suo discorso, la scelta terminologica di Disney – «fede cieca», «bilanciata da una buona capacità di valutazione» – era rivelatrice. Il successo che aveva raggiunto con Biancaneve aveva, di fatto, compromesso la sua capacità di giudizio. E non era certo il primo imprenditore a equivocare il significato di un singolo grande successo. fu comunque in occasione del suo tentativo di «mettere a tacere» varie lamentele e voci di corridoio che Disney rivelò con maggiore chiarezza il proprio allontanamento dallo staff. Non mostrò alcuna comprensione, per esempio, circa il malcontento causato da una nuova politica interna basata su dotazioni diverse in base al grado e allo status professionale. Alcuni pensano che qui siano in vigore distinzioni di classe. si chiedono perché certuni abbiano, in sala proiezioni, posti migliori di altri. si domandano perché qualcuno disponga di posti macchina nel parcheggio privato e qualcun altro no. Ebbene sono da sempre convinto, e sempre lo sarò, che coloro i quali hanno contribuito di più all’azienda dovrebbero, per questo e solo per questo motivo, godere di un qualche piccolo privilegio. […] Non esiste alcun «circolo esclusivo». Gli uomini che hanno lavorato a stretto contatto con me, cercando di organizzare e mantenere questo studio in movimento e finanziariamente in piedi, non dovrebbero essere guardati con invidia. Detto francamente, questi ra-

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gazzi si spaccano in quattro di lavoro e molti di voi devono ritenersi fortunati a non avere grossi contatti con me.

Disney proseguì abbordando direttamente il tema della sua crescente distanza dal reparto produttivo, distanza che Goepper sperava che quel discorso ricolmasse una volta per tutte. Ed eccoci a una domanda che mi è stata rivolta molte volte e in merito alla quale penso viga un totale fraintendimento. […] La domanda è «Perché Walt non può stare un po’ di più con i ragazzi? Perché non ci possono essere meno supervisori e più Walt?».

Il vero problema riguardava il controllo artistico e se Disney fosse intenzionato o magari in procinto di cederlo almeno in parte, adesso che la società era cresciuta troppo perché egli supervisionasse tutto in prima persona. se Disney avesse insistito a mantenere tale controllo – se le sue decisioni dovessero cioè continuare a essere, come nel passato, le sole a contare – i suoi autori avrebbero naturalmente voluto provare a coinvolgerlo nel loro lavoro quanto più possibile. Cioè, avrebbero voluto «più Walt». Anche in questo caso, Disney rifiutò di cedere terreno. razionalizzò il proprio rifiuto sia a dare ai suoi impiegati più potere, sia all’essere più presente in produzione. Aveva capito «fin dai primi giorni d’attività», affermò, che sarebbe stato per lui «molto pericoloso e ingiusto» entrare troppo in confidenza con chiunque fra i suoi animatori: Questo è stato vero in particolar modo per i nuovi arrivati. sapete tutti che ci sono sempre quelli che provano ad approfittarsene. […] E ciò è assolutamente ingiusto nei confronti degli individui coscienziosi e volonterosi, incapaci di ruffianerie. Io […] sono ben consapevole del duro lavoro di tutti coloro i quali in questa azienda abbiano raggiunto un certo livello. Alcuni di loro magari non li riconosco in viso se li incontro di persona, ma li conosco di nome e per reputazione. Credetemi, se un animatore dà prova del suo valore, io vengo sempre a saperlo; e non da dirigenti spioni bensì grazie a un contatto costante con tutti gli uomini chiave dello studio.

sicuro di non essere lui l’uomo da reputare come responsabile delle difficoltà dell’azienda, Disney riteneva di sapere chi fosse. Il

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suo poderoso ego, così cruciale per il successo artistico ed economico dello studio nei primi anni, lo stava ora conducendo a una guerra aperta contro molte delle persone che avrebbero dovuto essere i suoi maggiori alleati. Il continuo andare a tentoni da parte di vari animatori inesperti è costato a questo studio milioni di dollari. […] La mia raccomandazione primaria per molti di voi è questa: fate chiarezza nel vostro operato; mettete la testa a posto. […] Non riuscirete a fare un dannato niente standovene seduti ad aspettare che vi si dica tutto. […] Troppi ce ne stanno, qui, che vogliono scaricare la propria stupidità sugli altri.

Poiché non riusciva a venire a patti con le contraddizioni che aveva generate nel costruire la sua azienda, Disney si ritrovava a sostenere una gara di forza con i suoi impiegati e così con la stessa animazione, il medium che amava e che aveva servito così bene. In effetti aveva messo in stop la crescita artistica all’interno dei film animati firmati a suo nome, ancorandoli a una concezione limitata, e limitante, rispetto a ciò di cui la character animation era capace. Le inesauribili energie di Disney, per vent’anni devote all’animazione, in quelli a seguire avrebbero cercato dei nuovi sbocchi. Avrebbe prodotto un crescente numero di film dal vero, alcuni con inserti in animazione e altri senza. Avrebbe attuato delle incursioni esplorative nel mondo della televisione. si sarebbe trastullato con le repliche in miniatura, ivi inclusa quella di una ferrovia, e giocattoli assortiti, con l’idea di costruire un qualche parco di divertimenti per bambini lungo la strada che portava al suo studio. E poi, quasi all’improvviso, avrebbe assemblato diversi elementi della sua vita professionale e dei suoi passatempi privati in un «parco a tema» che chiamò Disneyland, il quale avrebbe ricevuto sostanziosi incentivi grazie all’associazione con un nuovo programma televisivo anch’esso targato Disney. Il suo parco a tema sarebbe stato fondamentalmente a destinazione giovanile, ancora di più di quanto non lo fossero stati i migliori film da lui prodotti; quell’apparente limite si sarebbe però tramutato nel suo maggiore punto di forza. Disneyland sarebbe stata progettata e portata a termine in perfetta sincronia rispetto al rinnovato fascino di una nazione ancora una volta inondata allo stesso tempo da un fresco entusiasmo e da un’enorme ricchezza

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economica; e il suo essere associata ai film disneyani la avrebbe rifornita di un’attrattiva e di una capacità di coinvolgimento emotivo di cui i parchi di divertimento tradizionali erano sprovvisti. Nei decenni seguenti alla sua apertura, avvenuta nel 1955, Disneyland sarebbe diventata il perno dell’espansione della Disney, stimolando peraltro la nascita di molte imitazioni (alcune delle quali anch’esse proprietà della Disney stessa) che insieme avrebbero cambiato presso il pubblico statunitense il modo di concepire il tempo libero e il divertimento. Un effetto non voluto del successo di Disneyland, tuttavia, sarebbe stato lo spostamento dell’identità della character animation quale forma espressiva ritenuta come destinabile ai soli bambini, ciò che avrebbe poi reso difficile produrre film come quelli che avevano dato la fama a Disney stesso. L’eco del discorso di Walt Disney di quel giorno si sarebbe insomma fatta sentire al di fuori della Disney Company, e in gran parte della cultura popolare statunitense, per decenni.

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«lo scricciolo di famiglia»

alla fattoria e in città 1901-1923

Marceline, nel Missouri, era stata costituita dalla Atchison, Topeka and santa fe railroad Company. Nel 1886, quando la società ferroviaria progettò una linea diretta fra Chicago e Kansas City, ebbe bisogno che a circa 150 chilometri a nord-est di quest’ultima sorgesse una cittadina con funzione di snodo e punto di sosta in cui i treni potessero rifornirsi di legna e acqua, e per un avvicendamento del personale a bordo. Lì non esisteva alcuna città – in quella parte del Missouri non c’erano allora che praterie – così la santa fe ne creò una. Il primo lotto cittadino fu venduto il 28 gennaio 1888 e Marceline fu fondata ufficialmente il 6 marzo. Nei suoi primi anni era una specie di città di frontiera, ma all’alba del xx secolo era divenuta un più elegante e rispettabile piccolo centro di provincia.1 Quando la città fu progettata, il suo viale principale – chiamato, prevedibilmente, santa fe Avenue – incrociava i binari della linea ferroviaria in prossimità del deposito vagoni. ogni giorno decine di treni passavano per Marceline e i cittadini, consapevoli che tutti quei transiti avrebbero reso impossibile lo sviluppo commerciale di quel viale, stabilirono i loro negozi e le loro abitazioni non lungo la santa fe ma in Kansas Avenue. Questa procedeva in parallelo rispetto alla ferrovia, sempre a uno-due isolati di distanza; poi, seguendo idealmente lo stesso percorso dei binari, si dirigeva verso nord/nord-est, fino a terminare nella Missouri street. Da quell’incrocio la Missouri street volgeva verso nord, trasformandosi ben presto in una viuzza di campagna.

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Meno di 400 metri a nord di quella trazzera, a un chilometro e mezzo dal deposito treni di Marceline e appena al di là del territorio cittadino, una casa di legno a due piani di qualche anno più vecchia della città stessa si ergeva sull’angolo a sud-est di una proprietà di 45 acri (un acro misura circa 4 km2). All’inizio del secolo scorso, quella fattoria fu per qualche anno dimora di una certa famiglia Disney, formata da Elias, il marito, e flora, sua moglie; da quattro figlioli, herbert, raymond, roy e Walter, e una figlioletta, ruth. I Disney si trasferirono a Marceline nell’aprile 1906: avevano abbandonato Chicago, dove erano vissuti fino a quel momento, temendo che il crimine e la corruzione che vi albergavano potessero portare i loro ragazzi sulla cattiva strada. Elias aveva scelto Marceline, facilmente raggiungibile da Chicago, grazie al suo ambiente rurale e a un aggancio familiare. robert, fratello minore di Elias (i fratelli Disney erano in totale undici), era comproprietario di una fattoria di 440 acri, a poco più di un chilometro a ovest di Marceline.2 Elias vi effettuò un piccolo sopralluogo all’inizio di febbraio 1906, appena prima di vendere la casa di Chicago.3 Il mese successivo, il 5 marzo del 1906, comprò una fattoria da 40 acri che era appartenuta a William E. Crane, un veterano della Guerra di secessione morto il novembre precedente.4 Il prezzo fu di 3000 dollari, 75 dollari all’acro. Un mese dopo, il 3 aprile, Elias ne pagò altri 450 per un ulteriore appezzamento di poco più di cinque acri, che la vedova Crane possedeva a proprio nome.5 I Disney avevano abitato nel West side di Chicago, al 1249 di Tripp Avenue.6 Elias e flora e il loro primogenito, herbert, si erano stabiliti a Chicago nel 1890. Allora vivevano al 3515 di south Vernon Avenue, nella Quarta Circoscrizione, a due passi dal centro e a poco più di un chilometro dal lago Michigan. Il secondogenito, raymond Arnold, nacque il 30 dicembre 1890. Chicago stava crescendo rapidamente – nel 1889 un’aggiunta catastale aveva annesso al Comune un territorio di 200 km2 e ben 225 mila persone – e il lavoro per i carpentieri era più che abbondante; proprio come tale, nel 1891, Elias Disney si registrò presso il Municipio.7 Il 31 ottobre del 1891 Elias acquistò un lotto al 1249 della Tripp Avenue. Per il 1892 aveva terminato di costruirvi una casa.8 roy oliver Disney, il terzo figlio, nacque là il 24 giugno 1893, seguito da Walter Elias il 5 dicembre 1901 e, il 6 dicembre 1903, dalla più giovane e unica femmina, ruth flora. Il quartiere, chiamato hermosa (per ragioni ignote),9 negli anni Novanta del xIx secolo era nuovo e

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ancora scarno, poiché messo su solo pochi anni prima da immigrati scozzesi, tedeschi e scandinavi. Era stata una delle annessioni catastali del 1889.10 «Abitavamo molto vicino a un’altra famiglia, lì nel nostro quartiere», confidò roy Disney a richard hubler nel 1967. «Una mattina ci svegliammo prestissimo e di soprassalto: due dei loro figli erano stati coinvolti in una rapina in un deposito d’auto. […] C’era stato uno scontro a fuoco con la polizia e un agente era stato ucciso. Uno dei ragazzi finì a Joliet [una prigione in Illinois], condannato all’ergastolo, e all’altro rifilarono vent’anni. Questi ragazzi avevano esattamente la stessa età dei miei due fratelli maggiori [cioè, fra i 15 e i 16 anni]. Era un buon quartiere. C’erano tanti bravi irlandesi, polacchi e svedesi; però era anche, in un certo qual modo, un quartiere brutale». All’incrocio in cui stava l’edicolante dove i Disney si recavano ad acquistare il giornale, in tre dei quattro angoli di strada si trovavano altrettanti saloon.11 Elias e i figli maggiori, herbert e raymond, viaggiarono verso Marceline con in custodia «un carretto carico dei mobili di famiglia e due cavalli che papà aveva comprati a Chicago», rammentò roy.12 flora viaggiò separatamente con i bambini più piccoli e con ruth, arrivando in anticipo rispetto al marito. Walt Disney aveva allora solo quattro anni, ma oltre trent’anni dopo avrebbe scritto: «ricordo chiaramente il giorno in cui arrivammo in treno. Ci si presentò un certo signor Coffman e insieme ci dirigemmo fino a casa nostra, in campagna, giusto fuori città. Credo che si chiamasse Crane farm [‘fattoria Crane’]. La mia prima impressione fu che aveva un giardino bellissimo, pieno di salici piangenti».13 roy rievocò la loro nuova casa come «una carinissima, dolce, piccola fattoria; sempre che sia possibile descrivere così una fattoria». I 45 acri di terreno comprendevano frutteti di meli, peschi e alberi di prugne e campi di grano; la tenuta inoltre, quando i Disney l’acquistarono, ospitava già molti animali: maiali, polli, cavalli e mucche. «Naturalmente», rammentò roy, «era, per dei bambini di città, semplicemente il paradiso».14 Quasi cinquant’anni dopo avere abbandonato quella casa, Walt Disney ricordava la fattoria ancora con grande tenerezza. «Aveva due frutteti, che chiamavamo “quello vecchio” e “quello nuovo”. Vi crescevano parecchi tipi di mele. C’erano anche le Wolf river [varietà di mele di grandi dimensioni]. Quant’erano grosse… La gente si faceva i chilometri per venire a vedere il nostro frutteto. Per ammirare questi cosi enormi».15

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Gli affettuosi ricordi di Walt Disney sulla propria giovinezza alla fattoria, un po’ come le memorie dell’infanzia di ciascuno di noi, possono essere non completamente affidabili. In una visita a Marceline nel luglio 1956, Disney parlò dinnanzi a una calorosa folla dei suoi successi come fantino di maiali.16 Come del resto aveva e avrebbe fatto in altre occasioni, dichiarò che da ragazzino cavalcava i porcelli per poi buttarsi con loro in quelle che lui chiamava «pozze da porci», delle pozzanghere di fango. roy Disney ridimensionò quell’aneddoto come «frutto della sua esuberante fantasia. […] Alla fattoria non c’erano affatto pozzanghere fangose».17 La popolazione di Marceline era giunta, nel 1900, fino a oltre 2500 abitanti, e durante la permanenza dei Disney era arrivata a toccare circa 4000 unità. Il centro era grande abbastanza – in un’epoca in cui la maggioranza degli statunitensi abitava in borghi anche più piccoli18 – e sufficientemente vicino alla fattoria Disney da emanare un qual certo fascino urbano, almeno per un ragazzino troppo giovane per ricordare di avere vissuto anche a Chicago, a differenza dei due fratelli maggiori. La più intensa nostalgia di Walt Disney durante i suoi ultimi anni di vita, cioè, non fu così tanto per la campagna quanto per i pimpanti ritmi di quella piccola e rigogliosa cittadina di provincia. Nel primo decennio del xx secolo Marceline non era più un isolato e polveroso avamposto. Kansas Avenue, ora, era costellata di negozi e, durante la loro pressoché intera permanenza in quella città, i Disney avevano posseduto un telefono: il loro nome risulta in un elenco del 1907.19 Erano però i treni a mantenere Marceline in continuo contatto col mondo esterno. In quei giorni – con l’automobile ancora poco o punto diffusa e con ben poche strade, peraltro pensate e tracciate per veicoli trainati da cavalli – i viaggi e i trasporti si effettuavano per lo più in treno e in modo assolutamente capillare, in un modo inconcepibile un secolo più tardi. Walt Disney ricordò la rarità delle automobili nella sua Marceline. In un incontro di lavoro del 15 maggio 1952, durante la produzione di Lilli e il vagabondo, disse: «In questo periodo – sapete, me li ricordo ancora quei giorni – vivevo in una piccola cittadina del Missouri, e lì c’erano solo due automobili. Era il 1908. Esse cominciarono ad aumentare solo in seguito».20 fra l’altro i treni stessi erano l’evidente segno che a solo poche ore di distanza esistevano città di dimensioni assai maggiori. In una combinazione di velocità, potenza, fascino di luoghi lontani, le

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ferrovie avevano ben pochi concorrenti nei sogni di milioni di persone, in particolar modo i ragazzi. Nei decenni seguenti, benché i treni cedessero inesorabilmente il loro primato nel sistema economico americano, i relativi modellini in miniatura prosperarono, con i loro elaborati scenari costruiti da uomini di mezz’età caduti nell’incantesimo dei treni da bambini. Grande amante di trenini nella maturità, Disney in tal senso non fu che uno fra i tanti. Per i piccoli Disney, un contatto di famiglia accrebbe l’attrazione per i treni: la sorella maggiore della madre, Alice (che era morta nel 1905), era stata sposata con Mike Martin, un ingegnere di santa fe. I Martin vivevano a poco più di 150 chilometri lungo la ferrovia, a fort Madison – nello Iowa, vicino al fiume Mississippi – e il lavoro di Martin lo portava spesso a Marceline. Come ricorda roy Disney, «ogni tanto ci faceva salire con sé sulla locomotiva».21 Elias Disney a Chicago aveva ottenuto dei passabili risultati a livello professionale, tuttavia non era affatto uno di quegli uomini abbonati al successo. Prima di muovere a Chicago non era riuscito a tenere in piedi la sua attività agricola nel campo delle arance, in florida. Per lui, tornare a fare l’agricoltore non era insomma la migliore delle idee percorribili, per quanto altruistiche fossero di fatto le sue ragioni. Elias era canadese. Nato nell’ontario rurale nel 1859, era il maggiore degli undici figli di Kepple Disney e della moglie Mary richardson, entrambi immigrati dall’Irlanda da bambini con i rispettivi genitori. Kepple e Mary, dopo il matrimonio, si stabilirono in una fattoria a circa un miglio dal villaggio di Bluevale.22 Le biografie ufficiali su Walt Disney indicano che il suo cognome sia la storpiatura di una versione francese antecedente e che i primi Disney fossero arrivati in Inghilterra nel secolo xI con gli invasori Normanni; ma, come rinvenuto nelle registrazioni dei censimenti, le radici dell’albero genealogico di famiglia si perdono in realtà nell’Irlanda del secolo xVIII. Kepple Disney e la sua famiglia si trasferirono in una fattoria a Ellis, nel Kansas, nel 1878, e fu da lì che Elias mosse in florida per intraprendere la sua impresa poi fallita di coltivatore di arance. In florida, il 1° gennaio 1888, Elias prese in moglie flora Call, sesta di otto figlie (ma aveva anche due fratelli maschi) in una famiglia che i Disney avevano già conosciuta in Kansas. flora, nata nel 1868, era nove anni più giovane di Elias. Il loro primogenito, herbert Arthur, nacque, sempre in florida, l’8 dicembre 1888.

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Dopo che la famiglia si fu trasferita a Chicago, Elias trovò impiego come carpentiere per la World’s Columbian Exposition del 1893.23 Lo scarso ammontare delle licenze di costruzione rilasciate tra la fine del xIx e l’inizio del xx secolo pare suggerire che Elias fosse divenuto un piccolo imprenditore edile e che si fosse dedicato alla costruzione di case a proprio nome, edificate per una successiva rivendita.24 Quando era un impresario lì a Chicago, ricordò roy Disney, suo padre Elias «costruì la chiesa congregazionale nel nostro quartiere».25 si trattava della chiesa congregazionale di saint Paul, all’incrocio fra la Keeler e la Belden Avenue, a due isolati da casa dei Disney. Le attività della congregazione erano state avviate nel 1898 e la chiesa in quanto edificio era stata inaugurata il 14 ottobre 1900.26 «Lì eravamo di casa», raccontò roy. «Papà di solito sostituiva il prete quando questi non c’era. Tutti noi da bambini andavamo lì per la scuola e chiesa domenicale».27 Elias era uno dei fiduciari della chiesa, flora la tesoriera. Walter Elias Disney fu chiamato come suo padre e come Walter robinson Parr, il ministro – di origine inglese – della chiesa di saint Paul in carica dal 1900 al 1905. Venne battezzato in quella chiesa l’8 giugno 1902. Il ministro Parr, a sua volta, chiamò Walter Elias uno dei suoi figli nato nel 1904.28 Elias Disney era un uomo molto religioso, «una persona retta e rigorosa, con un gran senso dell’onestà e della decenza», nelle parole di roy Disney. «Non beveva mai. E lo vidi fumare assai di rado».29 Elias non era solamente un cristiano tutto d’un pezzo, ma anche un socialista, seguace delle idee di Eugene V. Debs. Walt si ricordava che da piccolo copiava le vignette di ryan Walker pubblicate sull’Appeal to the Reason, un giornale socialista edito in Kansas che ogni settimana veniva recapitato in casa Disney: «C’era sempre una vignetta in prima pagina, sui temi del capitale e del lavoro e, dato che […] stavo cercando di imparare a disegnare, […] le avevo imparate tutte a memoria».30 Nel 1894, quando i Disney abitavano a Chicago e gli stati Uniti soffrivano di un’acuta crisi economica, capitale e lavoro erano un binomio di grande fascino. Lo sciopero Pullman,31 che ebbe inizio in un’azienda nella parte sud di Chicago, si diffuse in altre zone del paese quando l’American railway Union, il sindacato dei ferrovieri, il cui presidente era Debs, annunciò un boicottaggio dei treni che comprendeva le tratte notturne. Lo sciopero ebbe fine solo a luglio, in seguito all’invio – da parte del Presidente degli stati Uni-

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ti Grover Cleveland – di truppe federali a Chicago e in altre città; Debs fu messo in prigione per aver ignorato un’ingiunzione contro il boicottaggio. Gli ideali socialisti di Elias Disney senza dubbio dovevano qualcosa agli eventi accaduti durante lo sciopero Pullman e a come questo era infine terminato. sono molti coloro che hanno trovato ben compatibili le idee socialiste e quelle cristiane, e ciò era particolarmente vero all’inizio del secolo scorso; tuttavia il loro abbinamento fu, nel caso di Elias, assai infelice. La fedele osservanza dei precetti socialisti lo incoraggiò a vedere i suoi insuccessi come la testimonianza che fosse preda di forze oscure e implacabili; Elias attribuì perfino le sue inadeguatezze personali a un sistema economico sempre più pervasivo, spersonalizzante e alienante. La sua era una mentalità imprenditoriale, come risulta chiaro dai ripetuti tentativi di mettersi in affari in proprio, ma è anche vero che le sue idee lo spinsero a perseguire con stoica ostinazione gli obiettivi in cui credeva allontanandolo dalla scioltezza e dal fiuto per le opportunità che hanno sempre contrassegnato gli imprenditori di successo. I figli di Elias ottemperarono in modi diversi alle richieste del padre. I maggiori, herbert e raymond, condividevano una camera al primo piano della casa di Marceline. «A loro due la fattoria non piaceva», raccontò roy, «e dopo circa due anni [probabilmente nella primavera del 1908] una notte scapparono dalla finestra e tornarono a Chicago».32 Ben presto, tuttavia, finirono a lavorare come commessi nella più vicina Kansas City. Non risulta che i due figli più grandi abbiano mai parlato del litigio con il padre, ma lo fece roy Disney, richiamando un episodio che non getta una buona luce su Elias, quali che fossero i motivi che ne provocavano le reazioni. «Mi ricordo che a Chicago, nel giardino dietro casa, avevamo un melo. Papà a volte mi spediva nella mia stanzetta, da dove potevo guardare di sotto, in giardino. Lui aspettava una mezz’ora; poi, fingendo indifferenza, usciva in giardino, gettava un occhio all’albero e lo esaminava […] che impressione che mi faceva […] sceglieva un ramoscello, lo tagliava, lo provava, lo blandiva per aria. E io, tutto il tempo lassù a pensare al dolore che avrei provato. Quando veniva su, aveva con sé quel frustino, le cui frange erano sottilissime. Dovevi abbassarti i calzoni e beccarti una frustata. Papà era fatto così».33 sia Walt sia roy rievocarono in modo simile il carattere del padre, che si rifletteva nella loro insofferenza nei suoi confronti. «Quando

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voleva fare una cosa», disse Walt, «si aspettava che tu sapessi esattamente cos’aveva in mente. […] Io gli dicevo: “ma come faccio a leggerti il pensiero?”, tenendomi a debita distanza. […] Diventava matto […] e prendeva a inseguirmi. E mio padre era il tipo che nella foga poteva afferrare qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano», perfino un martello oppure una sega; benché Elias fosse dotato di sufficiente autocontrollo da colpire i figli solo col manico del martello o con la sega di traverso, e non di taglio. La tattica di difesa di Walt era di correre via finché sua madre non fosse riuscita a ristabilire la calma. Elias «aveva un modo di parlare tutto suo», ricordò Walt. «Personalmente non sarei mai riuscito a inventarmi alcune delle espressioni che tirava fuori. Quando era infuriato mi dava dello sputacchio. Diceva “sputacchio che non sei altro, come ti piglio ti prendo a flagellate”; anni dopo, durante delle ricerche su usi e costumi irlandesi, scoprii che con sputacchio voleva dirmi che non ero che uno schizzo di niente, un essere insignificante […] e che le flagellate di cui voleva riempirmi avevano a che fare in effetti con un particolare attrezzo da contadino, che in Irlanda si usava per battere le spighe di grano».34 I due fratelli Disney più giovani ricordavano tuttavia il padre non come l’uomo severo che questi aneddoti suggeriscono, ma con comprensibile affetto e genuina tenerezza. Elias, per loro, era un uomo retto, ma inchiodato su idee rigide. «Un bravo papà», dichiarò roy. «Perciò non mi piace che venga dipinto come un papà violento o cattivo. Non lo era».35 Elias non era capace di comunicare, nemmeno con i suoi figli. Dopotutto, quando nacquero i suoi due ragazzi più giovani aveva già oltre quarant’anni. «Eppure era una persona di grande ricchezza interiore», disse Walt, «e non pensava ad altro che alla sua famiglia». Walt parlava di suo padre «in continuazione», avrebbe dichiarato la figlia Diane nel 1956. «Penso che papà avesse un senso della famiglia molto spiccato. Amava suo padre. Pensava avesse un carattere duro, ma gli voleva veramente bene. Era proprio attaccato, al suo vecchio».36 Messi da parte i monolitici dogmi osservati da Elias, a emergere era una figura assai più gradevole, un uomo vigoroso e temerario che non aveva paura di accollarsi dei rischi anche se era già nella mezza età; una persona, insomma, non poco somigliante al suo figlio maschio più giovane. Elias «amava parlare con la gente», raccontò Walt Disney. «Aveva fiducia nelle persone. Pensava che tutti quanti fossero onesti come

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lui. rimase fregato un sacco di volte, per questo motivo». Elias era pieno di lati eccentrici, come ricorda Walt: «papà si ritrovava sempre con dei tipi bizzarri per parlare di socialismo. […] E li portava a casa, per giunta! […] E chiunque sapesse suonare un qualche strumento musicale. […] Erano praticamente barboni, e pure lerci. Papà li invitava a restare a cena, e invece la mamma non ne voleva sapere. Portava loro da mangiare fuori di casa, sulle scale dell’ingresso». In aperto contrasto con i suoi rigorosi principi, Elias era anche «un pittoresco violinista [di musica folk]», come oltre 65 anni dopo avrebbe ricordato Don Taylor, un vicino di casa dei Disney quando era ragazzo; «Molte domeniche legava la loro vecchia giumenta al calesse di famiglia e, mentre ruth e Walt si mettevano sul sedile di dietro con i piedi che sporgevano in fuori, i coniugi Disney caricavano il violino e poi andavano tutti a casa dei miei genitori. Qui a Elias si univa un altro violinista [e] mia sorella […] suonava il pianoforte. […] Posso ancora vedere chiaramente Walt e ruth piazzati su seggioline di legno mentre ascoltavano la musica, che di solito durava per circa un’ora. Ai miei occhi Walt era un ragazzino umile e tranquillo; e quando si rivolgeva a me, mi diceva sempre “Ciao, Dawn [sic]”».37 flora Disney inoltre tendeva ad ammorbidire il rigore della disciplina di Elias. «Avevamo una mamma meravigliosa, capace di smorzare alla grande l’aggressività di papà quand’era in collera», rammentò roy.38 Quando la famiglia si trovò in ristrettezze, ridotta a dover vendere il burro e le uova, lei metteva nel pane della colazione dei figli più piccoli un po’ di burro in più, però girando sottosopra le fette in modo che Elias non vedesse che flora stava dando ai bambini del burro che invece si sarebbe potuto vendere. «Così», raccontò Walt, «dicevamo a papà “guarda, sul pane di burro non ce n’è”. Ma stava tutto sotto, in realtà!». Walt riusciva a sfuggire ai peggiori accessi d’ira del padre. «Era come un animaletto che ti girava casa casa», ricordò roy. «Noi figli più grandi dicevamo che lui riusciva a scamparla con facilità perché prima che papà arrivasse ad afferrarlo si era già stancato con noialtri, e quindi Walt aveva vita più facile. Walt alla fine metteva una sedia fra [sé] e papà e riusciva a farlo sbollire. Alla fine papà ne aveva abbastanza e lasciava perdere».39 Walt Disney usò una frase simile a quella di roy per descrivere il suo ruolo alla fattoria. «Mi divertivo, ecco tutto», disse una volta. «Ero, diciamo così, lo scricciolo di famiglia».

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roy era un bravo fratello maggiore, con Walt e ruth. «roy era quello che faceva in modo che ruth e io avessimo sempre un giocattolo», disse Walt nel 1956. «Non aveva molti soldi per le mani, ma santo cielo, riusciva sempre a procurarci un qualche giochino». La scuola elementare di Marceline aprì nel 1908, però i genitori di Walt non lo iscrissero prima della primavera 1909, quando il bambino aveva già quasi otto anni; lui e ruth, di due anni più piccola, cominciarono insieme. fino ad allora «me l’ero spassata», raccontò Walt. Trascorreva molto del suo tempo con i suoi «compari», che vivevano nei terreni circostanti, degli anziani da lui identificati come «Doc sherwood» (Leighton I. sherwood, che allora era sulla settantina) e «Nonno [Grandpa] Taylor»; in quest’ultimo caso si tratta probabilmente di E.h. Taylor, pure lui intorno ai settant’anni, all’epoca. Alle volte si intratteneva anche con la nonna paterna, la vedova Mary richardson Disney che, d’indole assai diversa rispetto a quella puritana del figlio, stava «sempre a raccontare pettegolezzi». E faceva infuriare Elias, riferì Walt Disney, quando mandava il nipote nelle proprietà dei vicini a rubare rape.40 Disney nel 1956 rievocò che fu qualcuno fra i suoi amiconi adulti a esortarlo a disegnare. sherwood gli diede «un nichelino, mi pare» per eseguire il ritratto del suo cavallo, e sua zia Margaret – la moglie di robert Disney – gli comprava dei blocchi di fogli e matite e lodava sperticatamente i suoi disegni («degli sgorbi», li definiva Disney).41 In un aneddoto familiare sovente rievocato, il giovane Walt disegnava quelli che roy ebbe a definire «i suoi concetti di animale» sulla parete laterale di casa Disney, con del catrame residuo che Elias aveva usato come isolante per guarnire una cisterna di raccolta dell’acqua piovana. I Disney avrebbero avuto bisogno di quell’acqua nel caso che la siccità avesse prosciugato i loro pozzi e, nei racconti di Walt e di roy, si sottolinea spesso quanto la loro vita in fattoria fosse dura e costellata di lavori manuali. Per il raccolto i Disney immagazzinavano le mele, riferì roy, e poi le vendevano «a marzo e aprile, quando per un secchio di mele potevi fare un bel gruzzolo. Lo facemmo per due anni e alla fine papà, io e Walt – all’epoca era abbastanza cresciuto da aggregarsi a noi, ma non era poi di grande aiuto – andavamo in città e giravamo porta a porta a vendere le nostre mele. facevamo cifre davvero notevoli. In quei giorni potevi vendere un cestino di mele per un quarto di dollaro».42

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Elias convinse almeno alcuni fra i suoi colleghi agricoltori ad associarsi a una specie di sindacato, l’American society of Equity, fondato alcuni anni prima per consolidare il potere d’acquisto dei contadini. Nella ricostruzione di Don Taylor, Elias fu l’anfitrione di una cena a base di ostriche tenuta nella sala dei Cavalieri di Pizia, la Knights of Pythias hall, al secondo piano sopra la gioielleria zurcher, in Kansas Avenue. «I fattori arrivarono da ogni dove, con le loro famiglie», per mangiare quella zuppa, preparata con cinque galloni di ostriche fresche. Taylor, che scrisse di questo aneddoto negli anni settanta, riporta di non aver «mai mangiato una zuppa di ostriche così deliziosa come quella servita alla cena di Elias Disney, nel 1907».43 I Disney vissero alla fattoria per circa quattro anni e mezzo, fino a quando Elias la vendette il 28 novembre 1910. «Mio padre era malato», riferì Walt Disney; roy segnalò che la malattia fosse difterite, ma si trattava invece di febbre tifoidea, seguita poi da polmonite.44 «E allora i miei decisero di vendere la proprietà. Papà […] dovette mettere all’asta tutto. C’era freddo, era inverno; mi ricordo che roy e io […] ci mettemmo a girare per tutti i paesini e nei loro dintorni, ad attaccare le locandine della vendita. Vedo ancora mia madre che riscalda al forno dei mattoni, che noi mettemmo poi sulla pedana del calesse e, imbacuccati sotto una coperta, procedemmo nel nostro giro, ad attaccare qua e là i manifestini». Quanto idilliaca era stata per i ragazzi la vita alla fattoria, e per Walt specialmente, tanto dolorosa si rivelò la partenza. roy Disney ricordò «distintamente» che, quando la fattoria fu data via, «avevamo un puledro di soli sei mesi [che] fu venduto, legato a un calesse e portato via, e io e Walt piangemmo. sempre quel giorno, più tardi […] eravamo in città e vedemmo il contadino di prima con la sua carrozza attaccata alla rastrelliera, e il nostro puledrino legato dietro […] quel cavolo di cavallino ci vide mentre attraversavamo la strada e si mise a nitrire a tutto spiano e a tirar la briglia; allora gli andammo incontro, lo abbracciammo e prendemmo a piangere di nuovo. […] Quella fu l’ultima volta che lo vedemmo».45 I Disney traslocarono a Marceline centro per passarvi ciò che restava dell’anno scolastico 1910-’11 e, per la maggior parte di quel periodo, stettero in una casa in affitto, probabilmente al 508 della North Kansas Avenue.46 Poi, il 17 maggio 1911, partirono per Kansas City, nel Missouri, a poco meno di 200 chilometri.47 robert Disney a quel tempo viveva a Kansas City e potrebbe avere incorag-

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giato il fratello a raggiungerlo lì. All’inizio vissero in affitto al 2706 della Trentunesima strada Est.48 Walt cominciò a frequentare la Benton school, al 3004 dal Benton Boulevard – ad appena due isolati dalla sua nuova casa – nel settembre 1911. Benché avesse ultimato la seconda elementare a Marceline, le scuole di Kansas City richiesero che tornasse in seconda. Nel settembre 1914 i Disney comprarono un’umile casa in legno al 3028 di Bellefontaine Avenue, a pochi passi a nord dalla Trentunesima e a circa quattro isolati a est rispetto alla loro prima dimora lì a Kansas City.49 Kansas City era enorme, rispetto a Marceline.50 solo la parte del Missouri era una città di oltre 250 mila abitanti. Con l’aggiunta della parte del Kansas e degli altri centri circostanti, il totale superava il mezzo milione. Da dopo la Guerra di secessione Kansas City era cresciuta costantemente, poiché fungeva da punto di snodo cruciale per gli insediamenti dell’ovest, per la transumanza e per i trasporti dei prodotti agricoli e dell’industria manifatturiera – per via fluviale e su ferrovia – in tutto il Midwest. fin dall’inizio del xx secolo ciò che restava ancora del suo ruvido aspetto di frontiera si stava rapidamente trasformando, con l’apertura di ampi ed eleganti vialoni commerciali. Nel 1911 Kansas City, insomma, non solo era più estesa di Marceline: era profondamente diversa. Era una città nel vero senso della parola. Marceline e Kansas City erano comunque simili per alcuni aspetti fondamentali. Disney, nel discorso del luglio 1956 svolto dinnanzi agli abitanti di Marceline, associò allegramente le latrine all’aperto solo a Marceline, ma appena qualche settimana prima, intervistato da Pete Martin per il Saturday evening Post, aveva raccontato una versione diversa. E aveva detto, correttamente, che la famiglia Disney, all’inizio del suo soggiorno in Bellefontaine Avenue, fece uso di una latrina prima che Walt e suo padre, in una delle estati successive, ampliassero la casa aggiungendo una cucina, una camera da letto e una stanza da bagno. Per i coniugi Disney, che avevano vissuto a Chicago pochi anni prima, il trasloco a Kansas City era stato probabilmente frustrante, un altro duro colpo da incassare, ma la città non poté essere per loro un cambiamento radicale come lo fu di certo per il loro figlioletto di nove anni. Eppure, diversamente da come avviene in genere per i bambini in queste situazioni, Walt non parve né eccitato né intimidito dalla folla e dalla frenesia della città. Egli non parlò se non in occasioni rarissime di Kansas City con il trasporto nostalgi-

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co che sentiva per Marceline. Ciò era di certo dovuto al fatto che – contrariamente a come era stata la sua vita alla fattoria – lì ebbe molto poco tempo libero. Non appena i Disney giunsero a Kansas City, Walt fu messo immediatamente al lavoro. Elias acquistò, per 2100 dollari e con decorrenza dal 1° luglio 1911, la licenza esclusiva di percorrenza di un itinerario di consegna del quotidiano kansas city Star che si estendeva dalla Ventisettesima alla Trentunesima strada e dalla Prospect all’Indiana Avenue, nella zona sud-est della città. Curiosamente, la licenza era a nome di roy, invece che dello stesso Elias, di sicuro perché Elias, a cinquantun anni, era assai più anziano del tipico consegnagiornali a domicilio. Elias, roy e Walt recapitavano il Times, di mattina, a quasi settecento abbonati, e il pomeriggio e la domenica lo Star a oltre seicento famiglie, cifre che col tempo crebbero.51 «Il carico era pesante», ricordò roy. «E la domenica, una giornata di grande lavoro. […] Perdemmo l’abitudine della chiesa per questo motivo. Capisci bene che è una di quelle cose che proprio non ti permettono di andare a messa».52 L’«abitudine della chiesa» probabilmente aveva cominciato a sfumare già a Marceline, dove non c’era alcuna chiesa congregazionale. Come suo fratello, Walt annotò la perdita in famiglia dell’osservanza religiosa. I Disney a cena rendevano grazie, racconta, «ma in seguito, a un certo punto, smettemmo di pregare». Disney parlò del lavoro di consegna dei giornali nel 1955: «Quando avevo nove anni mio fratello roy e io eravamo già degli uomini d’affari. Avevamo un servizio di consegna. […] Portavamo i giornali in un’area residenziale ogni mattina e ogni sera dell’anno, che ci fosse pioggia, sole o neve. Ci alzavamo alle 4,30, lavoravamo fino al suono della campana a scuola e riprendevamo a fare le consegne dalle 4 del pomeriggio fino all’ora di cena. spesso in classe mi appisolavo sul banco, e del resto le mie pagelle stanno lì a dimostrarlo».53 Quarant’anni dopo, Walt ancora sognava di essersi dimenticato dei clienti lungo l’itinerario di consegna dei giornali. «Mi ricordo quei giorni freddissimi, in cui salivamo carponi i gradini ghiacciati dell’ingresso delle case» per lasciare il quotidiano dentro la veranda, disse nel 1956. Elias era irremovibile: i giornali non dovevano essere lanciati sotto i portici o in giardino, ma portati fino alla porta d’ingresso. «Ero così intirizzito dal freddo che mi veniva da piangere. E infatti piangevo». L’itinerario dei Disney comprende-

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va case ben più grandi della loro; Walt riferì che «i ragazzi ricchi» sulla sua rotta di consegne spesso lasciavano fuori di casa «dei giocattoli fantastici». Qualche volta Walt faceva una breve pausa fra una consegna e l’altra e si concedeva di giocare per qualche istante «con questi trenini elettrici o a molla». roy Disney consegnò quotidiani per il padre solo fino al diploma di scuola professionale, conseguito nel 1912 alla Manual Training high school.54 In seguito lavorò per un’estate nella fattoria di uno zio, prima di trovare lavoro come commesso alla first National Bank di Kansas City. Walt continuò a consegnare i giornali, per oltre sei anni complessivi. D’inverno, quando il suolo era tutto innevato – riferì il vicino di allora dei Disney, Meyer Minda – Elias e Walt caricavano i giornali su degli slittini. Nelle mattine d’estate, i Minda si svegliavano al cigolio delle ruote metalliche del carretto per le consegne dei giovani fratelli Disney.55 Nelle occasioni in cui Elias assumeva qualche altro ragazzo come aiuto per le consegne, lo pagava tre o quattro dollari alla settimana, come rammentò Walt Disney, ma non retribuiva il figlio. «Diceva che svolgere le consegne faceva parte del mio lavoro in quanto membro della famiglia. Diceva “Io ti vesto e ti nutro”. […] E perciò non mi pagava». Walt cominciò così a trovare modi per fare – e per tenersi – soldi alle spalle di Elias, prima consegnando medicine per conto di una farmacia mentre portava i giornali e in seguito ordinando e vendendo altri giornali senza che Elias ne sapesse alcunché. Meyer Minda, di due anni più grande di Walt, ricordò che lui e Walt avevano «messo su un chioschetto all’angolo fra la Trentunesima e Montgall», vicino alla prima casa dei Disney a Kansas City, quando Walt aveva dieci anni, cioè nell’estate del 1912. «Lo tenemmo per circa tre settimane e ci bevemmo letteralmente tutti i profitti».56 Walt in seguito disegnò dei cartelli per un barbiere di nome Bert hudson, titolare del Benton Barber shop sulla Trentunesima, nei pressi della Benton school. Eseguì le caricature di «tutti i tizi che passavano di qui», raccontò, e per compenso si faceva tagliare i capelli.57 «Morale della favola», disse nel 1956, «non facevo che lavorare, in continuazione». Proprio come suo padre. oltre ad aver comprato l’itinerario di consegna dello Star, Elias si mise a comprare burro e uova da un produttore caseario di Marceline – «credo ogni settimana o due»,

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ricorda Walt – per venderli agli stessi abbonati ai giornali. Alle volte Elias era malato nei giorni in cui si dovevano vendere il burro e le uova e, in quei casi, i genitori di Walt lo prelevavano da scuola durante le lezioni, in modo che potesse aiutare sua madre a effettuare le consegne. Disney rievocò quanto fosse imbarazzato nel trovarsi costretto a spingere il carretto delle consegne nel quartiere in cui abitavano i suoi stessi compagni di scuola. Come Walt cresceva ed Elias invecchiava, il loro rapporto cominciava a cambiare. Disney rammentò un incidente, allorché suo padre, arrabbiato perché Walt gli aveva risposto, gli intimò di andare nello scantinato per prepararsi a venire frustato. Walt stava per cominciare a scendere in cantina, quando roy gli disse: «non fartele dare». In cantina, quando Walt ancora una volta rispose per le rime a qualcosa che suo padre gli aveva detto, Elias prese un martello «e stava per colpirmi, ma io gli tolsi il martello di mano. Alzò allora l’altro braccio e io gli afferrai entrambe le mani. E le tenni tutt’e due così, a debita distanza. Ero più forte di lui. Gli tenevo le mani ferme. E lui si mise a piangere. Dopo quell’episodio, non mi toccò mai più». Walt e ruth conseguirono il diploma di scuola media alla Benton school l’8 giugno del 1917.58 Elias aveva venduto la licenza di consegna dei giornali il 17 marzo 1917 e fu con tutta probabilità subito dopo la fine della scuola che lui, flora e ruth tornarono a Chicago. Elias aveva investito in un’azienda di Chicago che produceva gelatine, la o-zell Company, per lo meno dal 1912; le scarse notizie disponibili suggeriscono che decise di trasferirsi per avere un ruolo più attivo nella gestione della società.59 Walt rimase a Kansas City e continuò nel suo lavoro come garzone dei giornali per il nuovo proprietario della licenza subentrato a Elias, e stette con roy a casa del fratello maggiore herbert e sua moglie, con la loro figlioletta. roy aveva lavorato per due estati per la fred harvey Company in qualità di news butcher, cioè venditore di caramelle e dolciumi, frutta e bibite, un’attività svolta nel suo caso lungo i vagoni dei treni della linea santa fe che passavano per Kansas City.60 Dopo la licenza media Walt, prendendo roy a esempio, cominciò a svolgere questo stesso impiego per la Van Noy Interstate Company, che aveva sede a Kansas City. La società era titolare delle concessioni inerenti ai venditori di bordo relative a una gran parte della rete ferroviaria nazionale (ma non della linea santa fe). Per ottenere

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l’impiego Walt mentì sulla sua età; e di certo non sarebbe stata l’ultima volta, dato che avrebbe compiuto sedici anni solo a dicembre. sebbene avesse lavorato quasi in continuazione da quando la sua famiglia si era trasferita a Kansas City, Walt si era sempre trovato ad agire sotto l’occhio vigile di Elias; ora invece suo padre era a Chicago. In qualità di news butcher Walt Disney era adesso per la prima volta da solo, imberbe imprenditore di sé stesso. E si trovava però in totale balìa dei suoi stessi clienti. rimaneva costantemente vittima di scherzi crudeli che lo privavano dei vuoti delle bottiglie di gazzosa vendute, e quindi di parte dei profitti. I suoi colleghi non lo trattavano certo meglio, fingendo di aiutarlo mentre riempivano le ceste del suo carrello con della frutta avariata. Ed egli stesso, tentato dai prodotti che vendeva, «non potevo resistere e mangiavo la mia stessa merce», ripetendo quanto era già avvenuto ai tempi del chioschetto, nel 1912. E soffrì anche in un altro senso: quasi quarant’anni dopo, ricordava ancora con grande vividezza di essere stato guardato con la puzza sotto al naso da una graziosa compagna di classe, quando se la ritrovò dinnanzi come passeggera. «Avevo sempre avuto un debole per lei, a scuola». Alla fine dell’estate, quando partì per unirsi ai genitori a Chicago, Disney era in debito col suo datore di lavoro. roy molti anni dopo avrebbe detto che suo fratello «era semplicemente incapace di fare affari. Volle fare questo lavoretto, ma non era in grado di far mente locale su tutta la merce che aveva all’inizio e alla fine della giornata, quindi andava in netta perdita, e alla fine chi è secondo te quello che gli pagava i debiti? […] Era fatto così. Non aveva alcun polso per gli affari»; cioè, gli affari intesi in termini di accurata contabilità, congeniali invece a roy. «Il fatto è che era qualcosa che proprio gli dava i nervi».61 Nonostante tutta la frustrazione associata a quell’impiego, Disney ricordò «questo lavoro di routine della vendita sui treni» come «molto eccitante». fin dalla più tenera infanzia la sua vita si era svolta solo fra Marceline e Kansas City; come news butcher percorse in treno varie linee fino agli stati confinanti. Per lui, come per molti dei suoi contemporanei, il treno poteva aprire al mondo come nessun altro mezzo. «Li adoravo», disse dei treni su cui viaggiava. A Chicago i Disney affittarono un appartamento in un piccolo edificio bifamiliare al 1523 di ogden Avenue, sul Near West side della città, più vicino alla circoscrizione di centro città di circa otto chilometri rispetto al loro vecchio indirizzo sulla Tripp Avenue.62

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Walt fu iscritto alla McKinley high school, al 2040 della West Adams street; e, come sempre, lavorava pure, stavolta nella fabbrica di gelatine della quale Elias era comproprietario, nello stabilimento al 1300 della Quindicesima strada ovest.63 Lavava le bottiglie, spremeva le mele e una volta, in cui dovette fare da guardiano notturno, portò perfino una pistola alla cintola. seguì anche, per tre volte alla settimana, lezioni di disegno in una scuola d’arte, la Chicago Academy of fine Arts.64 Quella finì per essere l’unica istruzione artistica formale che ricevette, se si escludono alcune lezioni seguite da bambino «per due inverni, tre sere alla settimana» a Kansas City e finanziate dalla scuola che in seguito avrebbe preso il nome di fine Arts Institute.65 Alla McKinley, Walt era un tipico disegnatore liceale: i suoi schizzi erano così maldestri e sgraziati che molti altri non avrebbero mai riversato alcuna ambizione per una carriera di quel tipo, ripiegando su di una professione più sicura. I personaggi delle vignette di Disney per la rivista mensile della scuola, The Voice – dai nasi all’insù e dall’aria vagamente irlandese – dovevano molto a quelli della striscia a fumetti Bringing Up father di George McManus.66 Durante la scuola a Kansas City e a Chicago, ricordò Walt, «ero proprio un imbranato. […] Disegnare mi piaceva, ma era più che altro un mezzo per arrivare a uno scopo preciso. Per esempio, mettevo su degli spettacolini teatrali per portarmi al centro dell’attenzione. […] A scuola organizzavo delle scenette ed ero io a scriverle, dirigerle, recitarvi. […] Mi inventavo sempre qualcosa per sentirmi accettato dagli altri ragazzi, perché in genere gli adolescenti non fanno che prendersi in giro e parlar male gli uni degli altri». A Kansas City lui e il suo vicino di casa Walt Pfeiffer presentavano dei numeri nelle serate per dilettanti nei teatrini locali, con la madre di Pfeiffer che li accompagnava al pianoforte. Disney si esibiva anche in casa – «avrei fatto qualsiasi cosa per attirare l’attenzione» – con l’aiuto di triti trucchetti di prestigio, come per esempio quello della «levitazione del piatto», che egli realizzava mediante una camera d’aria messa sotto a un piatto o un pentolino; poi la riempiva d’aria strizzando una pompetta di gomma che vi era collegata attraverso un tubicino. sua madre «si divertiva un mondo» quando il ragazzo nascondeva la camera d’aria sotto varie pentole, racconta Walt, o quando una volta, su richiesta di flora, pose il cuscinetto gonfiabile sotto al piatto da zuppa del

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una delle vignette che Walt disney disegnò per il mensile the Voice, alla mcKinley High school di Chicago, durante l’anno scolastico 1917-1918.

padre. «Tutte le volte che papà tentava di prendere una cucchiaiata di zuppa, mia madre faceva traballare il piatto. […] Mia mamma si scompisciò dalle risate». Elias infatti vide e sentì le risate della moglie, ma non si accorse che il piatto andava qua e là. Disney era un lavoratore instancabile. Da luglio a settembre 1918 fu impiegato alle poste di Chicago come smistatore di pacchi e buste e portalettere in casi di bisogno. Il suo orario cominciava alle sette del mattino.67 L’ufficio postale, ricordò Disney stesso, lo assunse solo perché aveva indossato i vestiti di suo padre e mentito sulla propria età, poiché in precedenza era stato scartato precisamente in base all’età troppo bassa. Appena finiva quel lavoro, a metà pomeriggio, cercava sempre lì all’ufficio postale delle altre mansioni da sbrigare per un’ora circa, come il recapitare lettere raccomandate o il ritirare la posta dalle cassette per strada. Poi, si dirigeva sulla linea soprelevata del south side per lavorare come addetto all’ingresso dei treni, smistando l’entrata in carrozza dei passeggeri durante l’ora di punta. roy Disney intanto era entrato in Marina il 2 giugno 1917, poco dopo l’ingresso in guerra degli stati Uniti. Venne chiamato alle ar-

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mi nella primavera di quell’anno e, dopo aver lasciato Kansas City, era passato per Chicago con altre matricole dirette alla base di addestramento navale della regione dei Grandi Laghi.68 Walt si incontrò con roy alla stazione, dove per un attimo fu scambiato per una delle reclute. «Questo episodio mi mise una pulce nell’orecchio», rammentò Walt. Quando roy tornò dai Grandi Laghi per far visita ai suoi, «era uno splendore in quella divisa da marinaio», avrebbe detto Walt. «Perciò volli unirmi a lui». Walt era, tecnicamente, troppo piccolo, ma nell’estate del 1918, mentre lavorava alle poste di Chicago, firmò per «un modulo di adesione alla Croce rossa» come autista nell’American Ambulance Corps. «Ero ancora un anno troppo giovane», disse: suo padre si rifiutò di firmare l’affidavit e fu allora la madre che lo fece per entrambi. Disney quindi cambiò la sua data di nascita da 1901 a 1900, in modo da risultare come diciassettenne invece che sedicenne, cioè abbastanza grande da poter ottenere il passaporto. Disney si ammalò nella grande epidemia d’influenza del 1918 (nota storicamente come la «spagnola») e restò a letto per settimane, quindi la sua partenza per l’Europa fu ritardata. La guerra era già finita quando il 4 dicembre la sua unità della Croce rossa raggiunse la francia, ma passò lì quasi un anno in una squadra prima di rientrare a Chicago, all’inizio dell’autunno del 1919. Il periodo in francia fu, nel ricordo di Disney, una sorta di versione allungata della sua estate come news butcher. In una dinamica molto simile a quella vissuta nell’esperienza precedente, i suoi commilitoni, proprio dopo il suo arrivo in francia, lo portarono in un bar locale per festeggiare a sorpresa il suo diciassettesimo compleanno, bevendo cognac – Walt ripiegò su una bibita analcolica – e lasciandolo infine lì a dover pagare il conto per tutti. Molti anni dopo Disney avrebbe detto che per lui fu allora una fortuna essere ancora così giovane, «perché feci delle cose che se avessi avuto qualche anno in più non avrei mai potuto fare con la stessa predisposizione di spirito. Dormivo sulla pedana del mio autocarro e non mi fermavo mai a pensare alla cosa presa in sé. Non mi servivano cuscini, o un materasso vero e proprio. […] E non m’importava dove mangiassi. […] Per me, allora, tutto era una nuova ed eccitante esperienza». Niente nella vicenda di Disney, o nelle sue personali memorie, suggerisce che ebbe mai a lamentarsi di aver sempre lavorato così duramente e di avere cominciato così giovane. Disney stesso ebbe

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a dichiarare che a suo parere c’era una continuità fra i suoi lavori per il padre e quelli di news butcher e di autista in francia, quando Elias era lontano migliaia di chilometri. «Non mi pento minimamente di avere lavorato come e quanto ho lavorato», dichiarò. «Non penso di ricordare nemmeno che lavorare possa avermi mai disturbato. Con questo voglio dire che non ho alcun ricordo cosciente, nella mia vita, di essere mai stato infelice. Mi guardo indietro e vedo quanto lavorassi sodo, ed ero sempre felice. Eccitato. facevo cose concrete». si tratta di un’affermazione degna di nota, considerando ciò che Disney disse circa le dure mattine d’inverno in cui consegnava giornali, ma senza dubbio è così che preferiva ricordare quella parte della sua vita. Peraltro non si dichiarò mai deluso che la sua istruzione scolastica fosse terminata così precocemente. «Non riesco proprio a capacitarmi come facciano i ragazzi a stare ben quattro anni all’università», avrebbe detto molti anni dopo. «Mi viene da pensare che finiscano per diventare dannatamente nevrotici ed esausti, e non capisco come facciano a studiare lì per tutto questo tempo senza mai cercare di mettere in pratica almeno qualcosa di ciò che hanno imparato». Malgrado il suo amore per il lavoro, Disney voleva però un impiego che non comportasse la dura fatica fisica che era stata una costante nella sua vita fin da quando la sua famiglia si era trasferita a Kansas City. In francia, mentre i suoi compari nel tempo libero si limitavano a giocare d’azzardo, Disney in genere disegnava vignette che proponeva a riviste umoristiche come Life e Judge. «Mi ricordo quelle maledette lettere di rifiuto», disse. fece però qualche soldo disegnando «cose speciali per i commilitoni», come caricature e decorazioni. Al ritorno a Chicago, Disney aveva deciso che avrebbe intrapreso, in un modo o nell’altro, una carriera artistica. Non solo declinò un’offerta di lavoro da 25 dollari alla settimana per lavorare alla fabbrica di gelatine, ma respinse qualsiasi ulteriore richiesta da parte del padre di svolgere lavori che comportassero fatica fisica: «volevo tirarmene fuori»; decise di muovere nuovamente a Kansas City. «Era una città più piccola», disse, «mi ci sentivo, come dire, più a casa». fra l’altro roy era stato congedato dalla Marina il febbraio 1919 e adesso si trovava proprio a Kansas City, impiegato come sportellista in banca. Walt si trasferì dunque nella casa di Bellefontaine, dividendola con roy e con herbert, moglie e figlia.69

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Appena arrivato a Kansas City, Disney si propose allo Star, il quotidiano per il quale aveva per anni effettuato le consegne. Quando recapitava i giornali si era sovente intrattenuto con i vignettisti del quotidiano – «mi regalavano dei vecchi disegni che potevo portare a casa» – ma al momento nel reparto grafico non c’era alcun posto vacante. Dopo un anno di duro lavoro manuale in francia, Walt aveva incupito la voce, ora più roca, e quando fece domanda per un lavoro da fattorino lo Star la rigettò di nuovo perché per converso adesso Walt sembrava più anziano dei ragazzini che in genere venivano assunti per le mansioni di bassa manovalanza. Nell’ottobre del 1919, secondo la ricostruzione di Walt Disney stesso, uno dei colleghi di roy in banca gli segnalò che c’era un possibile spiraglio per un posto da apprendista presso una piccola agenzia di grafica pubblicitaria, il Pesmen-rubin Commercial Art studio.70 Walt mostrò a Louis A. Pesmen e a Bill rubin alcuni dei suoi disegni – «avevo portato tutti questi schizzi scemi che avevo disegnati in francia, che ritraevano i miei commilitoni alle prese con la loro idiozia» – e ottenne il posto. Quanto avesse dovuto essere pagato, fu un particolare di cui si sarebbe discusso in seguito. «Lavoravo a un tavolo da disegno e durante il giorno non lo abbandonavo nemmeno per un istante», ricordò Walt nel 1956. «se dovevo andare al bagno, me la tenevo su fino all’ora di pranzo». Quando rubin, al termine della prima settimana, lo convocò, Disney era sicuro che sarebbe stato licenziato. E invece rubin, dopo un qualche momento di titubanza, gli offrì di continuare a lavorare lì per 50 dollari al mese. «Avrei potuto baciarlo», disse Disney. Non era del tutto una novità che Walt venisse pagato per disegnare, ma adesso, per la prima volta, carta, matita e pennelli erano per lui divenuti un lavoro nel vero senso della parola. Il nuovo impiego di Disney non durò a lungo, probabilmente non più di un mese. Ebbe fine quando Pesmen e rubin, dopo una tirata per preparare delle illustrazioni per alcuni cataloghi, finirono a corto di commesse. Ma, ricordò Disney, il suo breve periodo allo studio fu di utilità enorme perché vi imparò moltissimi «trucchi nel campo [del disegno] pubblicitario». Nella grafica pubblicitaria la ricerca della perfezione formale era, si rese conto, un lusso che non ci si poteva permettere: «Quando lavori nel campo del disegno pubblicitario non fai che taglia & incolla, e un grattar via con la lametta. […] Cioè tagli e smussi gli angoli. E sposti i vari pezzi. […] Ecco ciò che imparai in quelle sei settimane».

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Dopo aver lasciato lo studio, alla fine di novembre o all’inizio di dicembre 1919, trovò ben presto lavoro all’ufficio postale, come portalettere durante l’intenso periodo natalizio. A casa, a Bellefontaine, facendo uso delle sue nuove competenze nel disegno pubblicitario, cominciò a lavorare su alcuni disegni con l’idea di avviare una attività in proprio. fu allora che Ubbe Iwwerks (che più tardi sarebbe stato noto come Ub Iwerks; il nome è olandese)71 lo contattò, probabilmente all’inizio di gennaio 1920. Già suo collega allo studio Pesmen-rubin, era stato licenziato anche lui. Iwerks, che nella ricostruzione di Disney lavorava allo studio Pesmen-rubin «soprattutto come calligrafo», andò a trovare Walt. Era in gravi difficoltà perché aveva perso il già modesto salario con cui manteneva sé e la madre: suo padre li aveva abbandonati entrambi. Disney gli disse: «mettiamoci in affari». Lo propose senza nemmeno riflettere sulle possibili conseguenze di quella decisione. Ma Iwerks lo assecondò, probabilmente perché il capitale della nuova attività sarebbe provenuto interamente dai risparmi di Disney, denaro che questi aveva lasciato in consegna ai propri genitori, a Chicago. I genitori di Disney gli inviarono, riluttanti, solo metà dei 500 dollari che egli aveva dati loro, ma furono abbastanza per l’acquisto di due scrivanie, un aerografo e una bombola d’aria compressa, assi da disegno e strumenti vari.72 La nuova società – denominata Iwerks-Disney perché, a detta di Disney, «suonava come un’azienda di ottica o qualcosa così» – guadagnò, secondo il ricordo di Disney stesso, 135 dollari nel primo mese, una cifra rispettabile rispetto a quanto i due giovani avevano preso allo studio Pesmen-rubin. Disney aveva chiaramente ereditato il temperamento imprenditoriale di suo padre e, nel momento in cui entrò per la prima volta in affari da solo, poté finalmente approfittare di un grosso vantaggio: era libero dalle idee rigide e limitanti di Elias. Non era né religioso in modo particolare né attaccato a qualsivoglia ideologia politica. Quanto al campo da lui scelto per la propria attività, era divenuto un disegnatore pubblicitario prima di tutto perché era il settore di applicazione nel quale aveva una discreta sebbene modesta predisposizione. La sua istruzione era inadeguata per qualsiasi altro possibile campo. Allorché decise di mettersi in proprio, la grafica pubblicitaria era l’ambito di più immediata applicabilità rispetto alle sue conoscenze. Il senso d’indipendenza di Disney, tuttavia, non si era ancora del tutto imposto. Quando la Kansas City slide Company fece pubbli-

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care, il 29-30-31 gennaio 1920, sul Times e sullo Star, l’offerta di lavoro per un posto da illustratore,73 Disney cercò di accaparrarsi la società come committente. Il titolare, A. Verne Cauger, per tutta risposta gli offrì invece un posto per 40 dollari alla settimana. Dopo una consultazione con Iwerks, Disney accettò il lavoro. La Kansas City slide produceva diapositive pubblicitarie per i commercianti locali: queste venivano proiettate nei cinema di larga parte del Midwest. Poco dopo che Disney entrò a far parte del personale, la ditta si trasferì dal 1015 di Central street nella nuova sede al 2449-51 di Charlotte street e venne rinominata Kansas City film Ad Company, a dimostrazione che le brevi pubblicità cinematografiche – l’equivalente degli spot televisivi odierni – avevano ora sostituito le diapositive come prodotto principale. Disney datò l’inizio della sua carriera nel cinema al febbraio 1920, il mese in cui divenne un impiegato della film Ad.74 Iwerks rimase alla Iwerks-Disney; del resto egli era di indole molto più quieta rispetto a Walt e assai meno versato nell’accaparrarsi e mantenere la clientela. A marzo anche lui venne comunque assunto dalla Kansas City film Ad.75 In qualità di animatore per la film Ad, Disney lavorava con figurine da animare mediante la tecnica del cut-out e i cui punti snodabili venivano uniti fra loro con uno strumento che il fratello di un altro animatore aveva battezzato «pistoletta».76 Tali personaggi potevano essere manipolati sotto alla cinepresa, cambiandone la posizione tutte le volte che un fotogramma di pellicola veniva impressionato – per esempio, un braccio poteva essere mosso un fotogramma dopo l’altro – cosicché quando il film fosse stato proiettato il personaggio avrebbe dato agli spettatori la sensazione che si muovesse. I film erano ripresi in negativo e proiettati come se fossero stampati in positivo: questo voleva dire che tutto quello che alla fine, sullo schermo, avrebbe dovuto essere nero, durante le riprese doveva in realtà essere bianco, e viceversa. Con questo metodo si risparmiava il denaro necessario a stampare dal negativo in positivo film che sarebbero stati proiettati solo per poco tempo e poi messi per sempre nel dimenticatoio. L’animazione in sé, come linguaggio, è probabile che non fosse nuova a Disney. I cartoon o disegni animati – animazioni realizzate con disegni, invece che con oggetti da muovere posa dopo posa – erano una consuetudine nei cinema americani già dal 1915 circa. Quei cartoon, prodotti da società che avevano sede a New York,

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toccarono l’apice della popolarità o almeno della visibilità verso il 1920, tanto che la Paramount, il maggiore distributore cinematografico dell’epoca, fu obbligato a fare avviare la produzione di un ciclo settimanale di cortometraggi animati da proiettare nei propri teatri dopo che perdette quelli realizzati dallo studio di John r. Bray, passato a una società concorrente.77 Ma fu soltanto quando cominciò a lavorare per la Kansas City film Ad che Disney vide come questi cartoon fossero realizzati concretamente. Disney era avvinto dalle possibilità dell’animazione e da quella che definì «la meccanica dell’intera faccenda». Come animatore egli era essenzialmente autodidatta; molti anni dopo avrebbe scritto a un’ammiratrice: «acquisii le prime informazioni sull’animazione in un libro […] che mi procurai presso la biblioteca pubblica di Kansas City».78 Quel libro era Animated cartoons: How They Are Made, Their Origin and Development di Edwin G. Lutz.79 secondo il colophon del volume, l’opera era stata edita a New York il febbraio 1920, lo stesso mese in cui Walt era entrato alla Kansas City film Ad, quindi Disney dovette averlo letto poco dopo che il libro fu acquisito dalla biblioteca. Nel 1956 avrebbe detto di quel volume: «ora, non è che fosse particolarmente approfondito; era più che altro un insieme di notizie messe insieme dal tizio, lì, per tirar su qualche soldo. Eppure, quel libro conteneva delle buone idee». Per quanto il volume di Lutz fosse elementare, offriva comunque una visione d’insieme del cinema d’animazione del tempo ben più completa e avanzata rispetto a quella messa in campo nei corti in cut-out della film Ad. Lutz scriveva in un’epoca in cui gli animatori nel campo del disegno animato lavoravano, in genere, solo su carta. realizzavano una serie di disegni, ciascuno diverso da quello precedente, eseguiti a inchiostro di china e fotografati in sequenza per produrre la stessa illusione del movimento che la film Ad conseguiva spostando le figure, fotogramma per fotogramma, sotto alla macchina da presa. Lutz auspicava l’uso dei fogli di celluloide trasparenti per ridurre il lavoro degli animatori: le parti del corpo di un personaggio che in una scena non erano in movimento avrebbero potuto essere disegnate in un singolo foglio da posizionare sopra a quelli con le parti che invece dovevano essere animate.80 Questo espediente (e Lutz ne raccomandava anche degli altri) colpì molto Disney, lui che era rimasto così favorevolmente impressionato dalle tante scorciatoie tecniche di cui ci si avvaleva presso lo studio Pesmen-rubin, dove aveva lavorato in precedenza.

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Disney trasse degli insegnamenti anche da un volume che presentava immagini, relative a esperimenti effettuati nel 1877-’78 dal fotografo inglese Eadweard Muybridge (1830-1904): si trattava di fotografie scattate in rapida successione e che mostravano persone e animali in movimento. Possedeva delle copie fotostatiche di varie pagine del libro. La carta su cui queste foto erano riprodotte era molto leggera, ricorda Disney, così da permettere la sovrapposizione di più fogli «per poter vedere le varie fasi dell’azione». forte di queste nuove conoscenze, Disney si mise a «elaborare trucchetti mai adottati» alla film Ad, come egli stesso ricordò. Non è facile individuare l’esatta natura di tali «trucchetti» – le descrizioni di Disney sono sempre state criptiche e da allora i film sono scomparsi – ma pare abbastanza chiaro che egli volesse spingere la film Ad a utilizzare il disegno animato e a un tipo di animazione dai movimenti più fluidi e naturalistici. Disney trovava anche i testi pubblicitari fino allora elaborati alla film Ad «un po’ rigidi». Quando venne a sapere di nuove commissioni per pubblicità da realizzare, si recò a conferire con gli autori dei testi portando con sé degli esempi di slogan che sarebbe stato più semplice illustrare e animare. Per esempio, se il monito di una banca fosse stato quello di non andare alla deriva nella propria vita, lo si sarebbe potuto graficizzare con «un tizio su una barchetta, trascinato da qualche parte dalla corrente di un fiume». Disney era «un tuttofare», perché oltre al suo lavoro di animatore posava come modello quando c’era da scattare delle fotografie per qualche pubblicità e, come se non bastasse, recitava dal vero quando un comunicato filmato richiedeva un attore. Insisté, e alla fine la spuntò, per avere il permesso di girare in autonomia dei filmati suoi, «perché avrei organizzato il lavoro sulla base dei miei disegni; infatti non era possibile che certe cose le facessero quelli là [ovvero i consueti operatori alla macchina]. […] I tecnici di ripresa non avrebbero saputo fare la metà delle cose che c’erano da preparare». A. Verne Cauger, il titolare della film Ad, reagì positivamente alle sue innovazioni, ricordò Disney, e non v’è ragione per dubitarne. Dalle testimonianze disponibili risulta che Disney apportò crescenti e lampanti miglioramenti – significativi, anche se non sensazionali – tali che sarebbero stati accettati di buon grado da chiunque. Ciò nonostante, rammentò Disney, il suo diretto superiore, il responsabile del dipartimento artistico, lo trovava «un po’ troppo curioso e forse eccessivamente invadente. […] Non gli stavo

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granché simpatico: credo che pensasse che il capo mi pagava troppo», cioè cinque dollari alla settimana in più che a Ub Iwerks e dieci in più che ad alcuni degli altri disegnatori. I supervisori di grado intermedio, in luoghi di lavoro decisamente convenzionali com’era la film Ad Company, protettivi verso le proprie posizioni, in genere guardano con sospetto a qualsiasi idea brillante, specie se metodiche già acquisite sono messe in questione. Disney non descrisse la propria esperienza alla film Ad in termini negativi – ciò sarebbe stato in contrasto con il suo temperamento ottimista – ma sembra comunque, dalla sua ricostruzione, che quello fosse per lui uno spazio troppo angusto. Per quanto Cauger potesse essere contento dell’operato di Disney, il suo apprezzamento a parole era, all’atto pratico, piuttosto limitato; era assai restio ad andare oltre l’uso dei consueti cut-out. All’inizio del 1921, dopo circa un anno nello staff della film Ad, Disney conferì con Cauger chiedendogli che gli lasciasse in prestito una vecchia macchina da presa della ditta, rimasta inutilizzata: in tal modo avrebbe potuto tentare qualche esperimento a casa, a Bellefontaine, nell’autorimessa di famiglia. Ma anche a questo proposito Cauger, benché prestando a Disney l’apparecchio, rimase scettico: «continuava a ripetere “ma insomma, che ci dovrai mai fare?”». Elias aveva costruito quell’autorimessa dopo che lui e flora erano tornati a Kansas City, con buona probabilità alla metà del 1920. La storia effettiva è che Elias aveva fallito di nuovo, stavolta per via dell’avvenuta bancarotta della fabbrica di gelatine; tuttavia non esiste alcuna documentazione ufficiale, nei registri di Chicago, del fallimento della o-zell, ed Elias, allora poco più che sessantenne, potrebbe semplicemente avere venduto la propria quota ed essersi ritirato. La sua occupazione, stando al censimento federale del 1920, era di nuovo «carpentiere». roy ricorda che sebbene i Disney non avessero un’auto, Elias costruì l’autorimessa nella casa di Bellefontaine «per soldi. Era un falegname e a quel tempo non lavorava più, era più o meno a riposo. […] Così, appena la rimessa fu pronta, non si fece in tempo a metterla in affitto che Walt disse “sono il tuo cliente. La prendo io”. […] Non penso che abbia mai pagato l’affitto, ma vi installò un laboratorio d’animazione. Tornava a casa tardi, quando eravamo già tutti a letto, e rimaneva lì ancora ad armeggiare, lavorare, sperimentare, provare questo e quello. Era riuscito a farsi prestare le macchine di Cauger ed eccolo lì a sfruttarle, a usarle di notte».81

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Nelle interviste del 1956 Disney ricordò di avere voluto «sperimentare quest’altro metodo, cioè quello che all’epoca era impiegato dagli animatori per il cinema», ma ciò che rimane dei suoi esperimenti differisce nettamente dai cortometraggi animati d’intrattenimento del 1921. si tratta, negli intenti, di un editorial cartoon, un disegno animato di argomento giornalistico: un tipo di filmato familiare al pubblico dell’epoca, simile ai cinegiornali all’interno dei quali erano incorporati disegni di caricaturisti come hy Mayer.82 Proprio all’inizio del filmato appare sullo schermo anche un giovanissimo Walt Disney, in veste di disegnatore di quelli che allora erano chiamati lightning sketch. Aveva cioè realizzato un disegno a matita blu – un colore che non impressionava la pellicola – e inchiostrato poi una parte dello stesso prima di fotografarlo un fotogramma per volta, in modo che l’animazione sembrasse materializzarsi sullo schermo, emergendo dal pennino che aveva in mano. o, più precisamente, da una foto della sua mano che reggeva un pennino, mossa a passo uno, così che seguisse di pari passo l’andamento del disegno che a mano a mano andava prendendo forma sotto l’apparecchio di ripresa. In un altro filmato, il cui tema era un’agitazione avvenuta presso il dipartimento di polizia di Kansas City nel febbraio 1921,83 Disney mostra degli agenti mentre vengono buttati fuori da una stazione di polizia, con la stessa tecnica a passo uno usata alla Kansas City film Ad. Proprio prima di questa scena, mostra i poliziotti passeggiare all’interno degli uffici, mediante alcuni disegni a ciclo che rappresentano una camminata. Questo fu forse il suo reale ingresso nel mondo dell’animazione vera e propria.84 Quest’unico esempio superstite dei cartoon giornalistici di Walt Disney è stato identificato in modo attendibile da russell Merritt e J.B. Kaufman, autori di un libro sui film animati muti di Disney, in qualità di «filmato dimostrativo» che egli usò per venderne una serie.85 Tuttavia potrebbe anche essersi trattato di un filmato di prova d’altro tipo, che Disney portò con sé in California, oltre due anni dopo, come esempio del proprio lavoro; potrebbe essere, questa, la sola ragione per la quale il frammento è giunto ai giorni nostri. È impossibile esserne sicuri; decenni orsono molti nuovi titoli sono stati aggiunti negli archivi della Disney e quella stessa bobina potrebbe essere stata irrimediabilmente alterata.86 Disney realizzò quel suo primo film, quale che ne fosse il contenuto, non solo come una animazione sperimentale ma come il col-

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laudo di una possibile avventura imprenditoriale. Alla pellicola diede il titolo Newman Laugh-O-grams, usando il nome del Newman Theatre, una delle più grosse sale cinematografiche di Kansas City, nella speranza di poter vendere la sua bobina come film da proiettarsi regolarmente. «In effetti lo visionarono», ricordò nel ’56. «La persona che gestiva il teatro, Milton feld, […] era molto interessata, tanto da dire “mandatemi in ufficio quel ragazzo, voglio parlargli”. Avevo una fifa pazzesca». Così tanta, ricorda Walt, che quando feld gli domandò il costo del rullo – cioè a dire, quanto sarebbe costato al cinema Newman acquistarlo da Disney – questi balbettò, confuso, solo l’ammontare delle spese da lui sostenute per fare il film. Allorché feld si dichiarò soddisfatto di quella cifra, Disney rimase imbambolato all’idea di avere realizzato il suo lavoro senza averne tratto alcun profitto. «Ma non m’importava», avrebbe aggiunto Walt sempre nella sua rimembranza del 1956, parlando ancora da quell’uomo che, come ricordò roy, non aveva alcun senso degli affari. Il denaro che avrebbe ricevuto «sarebbe stato il rimborso spese per il mio esperimento». Per questa sua indifferenza al denaro Walt Disney si mostrava in evidente contrasto rispetto non solo a suo fratello ma anche al padre, la cui parsimonia faceva un tutt’uno con la sua quadrata rigidità. «Era un gran tirchio», disse Walt di Elias. «Non avrebbe mai speso alcunché, fosse stato per lui. […] Non ho ereditato un briciolo, di quella taccagneria». Il primo filmato Newman Laugh-o-gram debuttò probabilmente in quel cinematografo (in compagnia di diversi altri spezzoni di cinegiornale) il 20 marzo 1921, abbinato a un film con Constance Talmadge, Mama’s Affair.87 Disney ricordò di avere realizzato un Laugh-o-gram alla settimana – assai improbabile ma non impossibile, considerando i suoi ritmi di lavoro – lavorandovi di notte, nel periodo in cui era ancora impiegato alla film Ad Company. Acquisì una qualche fama locale in quanto cineasta e Cauger decise allora di presentare il giovane animatore ai suoi clienti od ospiti che gli rendevano visita. Ma perfino a questo punto, Cauger restava cauto circa la possibilità di procedere nella direzione che Disney indicava. Approvò l’acquisto di solo pochi fogli di acetato, che peraltro si rivelarono scarti graffiati. «facemmo per lui diverse prove», ricorda Disney, «ma non ne rimase mai convinto. […] Era che proprio non ne voleva sapere».

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Disney alla fine riuscì a racimolare abbastanza denaro (dal suo lavoro alla film Ad, dove il suo stipendio era salito a 60 dollari alla settimana) per comprare una cinepresa Universal e affittare «un piccolo laboratorio» dove si mise nottetempo al lavoro sui propri film. «Poi misi un annuncio sul giornale, per ragazzi che volessero imparare a fare animazione e tutto il resto, e così alcuni risposero e si misero a lavorare con me di notte». A questo punto, nella primavera 1921, ricostruire la carriera di Disney diventa più difficile e i suoi ricordi meno affidabili. Chi fossero quei «ragazzi» – Disney parlò di «due o tre» – e quanto essi avessero contribuito al film di Disney, una versione di Little Red Riding Hood (cappuccetto Rosso), è un mistero. sembra probabile che nessuno di essi avesse lavorato per Disney su uno dei suoi filmati successivi. Walt fece il nome di rudolph Ising88 come uno dei «ragazzi», ma Ising di certo non era fra loro. Era un periodo incerto per Walt. Il fratello herbert, di mestiere portalettere, si trasferì con la famiglia in oregon nel luglio 1921 ed Elias e flora lo seguirono a Portland, probabilmente in autunno, sebbene ancora una volta una nube d’incertezza copra le informazioni circa gli eventi.89 Non è rimasta nemmeno una testimonianza che Elias abbia mai venduto la casa di Bellefontaine, benché gli archivi cittadini suggeriscano che Walt si fosse trasferito nel tardo 1921 nella prima di una serie di camere a pagamento. Con buona probabilità prese in affitto «quel piccolo laboratorio» nello stesso periodo, dal momento che l’autorimessa di famiglia, presumibilmente, non era più disponibile. Nel 1956 Disney ricordò che a suo tempo si ritrovò ad addestrare fred harman90 come suo rimpiazzo prima di lasciare la film Ad Company. «Assunsero questo ragazzo per sostituirmi […]. Mi diede un bel po’ di lavoro. Non conosceva né le proporzioni né un mucchio di altre cose». Invece nel ricordo di harman i due giovani si misero in affari insieme, come Disney aveva fatto in precedenza con Iwerks, quando ancora lavoravano entrambi per Verne Cauger. Il fratello minore di harman, hugh, ricordò la loro collaborazione negli stessi termini. «Erano determinati a licenziarsi per divenire i Paul Terry di sé stessi», disse.91 Terry fu un pioniere del cinema d’animazione: era relativamente giovane, trentaquattrenne, quando nel giugno del 1921 i suoi corti della serie Aesop’s fables92 cominciarono a essere proiettati nei cinema, appena qualche mese prima che la possibile collaborazione Disney-harman vedesse la luce.

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hugh harman, allora uno studente liceale, passava i pomeriggi e le sere nella nuova sede, che fu battezzata Kaycee studios. secondo i suoi ricordi, fred harman e Walt Disney misero su quel loro primo studio – potrebbe essersi trattato della bottega che Disney aveva detto di volere prendere in affitto – nella zona ufficio del deposito dei tram di Kansas City. Presto si spostarono in almeno altre due sedi, l’ultima delle quali al 3200 della Troost Avenue. hugh ricordò fred e Walt lavorare insieme a un cortometraggio, probabilmente rimasto incompiuto, nel quale un dipinto prende vita sul cavalletto di un artista.93 fred harman scrisse molti anni dopo che egli e Disney affittarono «uno studiolo in gran segreto, acquistando una cinepresa Universal usata e munita di treppiede, e una ford T coupé di seconda mano» e provarono a girare dei filmati per il notiziario Pathé sul terzo congresso della Legione Americana, che ebbe poi luogo a Kansas City nell’ottobre del 1921.94 Nel 1932 harman avrebbe scritto a Disney stesso, a proposito di quella lontana collaborazione: «Puoi immaginare quanto io gongoli nel vedere i tuoi film e le tue strisce sui giornali [quelle con Topolino]: non perdo mai occasione di far schioccare le bretelle nel parlare di te ai miei amici. In effetti, ho detto loro di tutte le nostre imprese, senza mai dimenticare di menzionare il buco nell’acqua con la cinepresa di Cauger».95 Disney ebbe anch’egli a ricordare il «buco nell’acqua», nei suoi racconti del 1956. si era recato con fred harman al congresso della Legione Americana; harman reggeva il treppiede e Disney operava alla cinepresa. Il cerimoniere «passò un brutto quarto d’ora a causa nostra, che armeggiavamo dietro di lui» e Disney era sicuro di aver eseguito delle riprese bellissime. Ma aveva pensato male: la cinepresa era stata regolata in modo maldestro, tanto che nulla del metraggio girato poté essere utilizzato. harman, che in seguito sarebbe divenuto popolare come disegnatore della striscia a fumetti Red Ryder, nel 1968 scrisse che lui e Disney lasciarono l’«impiego alla film Ad Company. […] Avevamo lavorato duramente, girando per le città circostanti del Missouri e del Kansas e prendendo commesse da varie sale cinematografiche per filmati pubblicitari che speravamo di realizzare; ma in realtà non potevamo farcela. Dovevamo pagare l’affitto e alla fine fummo pure costretti a restituire la ford». Il racconto di harman presenta incongruenze in vari punti – per esempio, Disney non lasciò il suo posto alla film Ad fino alla primavera del 1922 – ma in

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effetti roy Disney ricordò gli sforzi di Walt nel vendere i suoi filmati pubblicitari: «Il vecchio [Cauger] distribuiva le sue pubblicità in diapositive fisse in molte sale, e allora [Walt] pensò, “be’, non è che a questo teatro stiano vendendo dei film veri e propri, quindi posso farlo io”: così comprò un’automobile e girò per tutte queste cittadine, nei cinemini, provando a vendere le cose che realizzava». fu a quel punto, ricordò roy, che «Cauger capì che Walt era un suo concorrente» oltre che un impiegato.96 Quale che fosse la sua esatta natura, si trattava di un’altra fra le tante collaborazioni di Disney, come quella del 1920 con Ub Iwerks, la quale era durata molto poco, forse non più di alcuni mesi, fino al termine del 1921. Nelle sue memorie del ’56 Disney raccontò di come già da molti anni ormai considerasse con sospetto qualsiasi tipo di collaborazione professionale, fatta eccezione per quella con il fratello roy; questo può far comprendere il modo in cui a suo tempo interruppe bruscamente la collaborazione con harman. L’ultima sede dei Kaycee studios, secondo il ricordo di hugh harman e rudolph Ising, si trovava al piano superiore di un edificio di due piani al 3239 della Trost Avenue, sopra a un ristorante di nome Peiser’s.97 «Per lo più», ebbe a ricordare hugh harman, «non era che uno spazio libero: nulla più che un paio di cubicoli con i rispettivi tavoli da lavoro». All’epoca in cui il diciottenne Ising rispose a un annuncio sul giornale per un impiego lì come disegnatore, probabilmente all’inizio del 1922, fred harman non era più in società. Come Ising riferì a J.B. Kaufman nel 1988, «Walt aveva uno studiolo d’arte. […] stava realizzando una specie di filmato d’intermezzo per i cinema Newman. […] I soli membri dello studio eravamo Walt e io. forse a quel tempo lavorava lì anche red Lyon. Era operatore di macchina alla film Ad. Anche Walt lavorava alla film Ad, durante il giorno. […] Io lavoravo allo studio durante le ore diurne, mettevo in sesto parte della strumentazione o aiutavo red, ma il lavoro avveniva soprattutto di notte. Andò avanti così per tre o quattro mesi».98 Dopo che Lyon abbandonò l’incarico, fu Ising a ripassare i disegni di Disney e a operare alla cinepresa. Walt realizzava ancora film cosiddetti on spec, cioè senza alcuna garanzia di essere pagato, per Pathé News. Il 18 maggio 1922 Disney registrò la Laugh-o-gram films come azienda. Probabilmente lasciò la Kansas City films Ad nello stesso periodo. La Laugh-o-gram fu capitalizzata con il valore di 15 mila dollari, suddivisi in trecento azioni di 50 dollari ciascuna. All’epo-

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Promozione della laugh-o-gram durante una parata in automobile organizzata dalla south Central business association di Kansas City, 1922 circa. Walt disney è seduto in automobile sul sedile posteriore, rudolph Ising è dietro la fiancata destra (con il cappello e il farfallino), leslie b. mace (1898-1977) poggia la gamba sulla pedana della fiancata dell’auto. Per gentile concessione di rudolph Ising.

ca della costituzione societaria, il 51% del capitale fu messo in partecipazione, dando alla società una liquidità di 7700 dollari. soltanto 2700 dollari erano in contanti, tuttavia, e i restanti 5000 in risorse materiali: l’equipaggiamento che Disney aveva acquistato – una cinepresa con la sua strumentazione e il suo basamento, tre postazioni per animatori, sette sedie e così via – più un cortometraggio animato completato e alcuni brevissimi Lafflets, piccole situazioni comiche in animazione. Curiosamente, il cartoon completo – che con i Lafflets fu valutato 3000 dollari – fu nominato nei documenti di registrazione societaria non come Little Red Riding Hood ma come The four Musicians. Disney era l’azionista di maggioranza, con settanta azioni.99 La Laugh-o-gram films si trasferì presso la nuova sede, il McConahy Building, al 1127 della Trentunesima strada Est, solo un isolato a est di Troost Avenue e nel cuore di un centro commerciale periferico, a circa tre chilometri a sud/sud-est dal centro di Kansas City. La Laugh-o-gram occupava un locale al piano superiore di quel palazzo in mattoni di due piani.

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Walt stava diventando un cineasta e imprenditore sul modello di Elias Disney. Cioè a dire, aveva messo in piedi un’attività benché la sua esperienza e il proprio capitale fossero limitati, fiducioso che il suo desiderio d’indipendenza sopperisse a quelle carenze. Che un qualunque investitore potesse interessarsi alla nuova impresa può apparire sorprendente, ma va detto che come animatore Disney aveva già raggiunto un discreto successo, grazie ai Newman Laugho-grams, e nel girare Little Red Riding Hood aveva mostrato di essere in grado di produrre un film più lungo, tanto apprezzabile quanto i corti realizzati sulla Costa Est. si aggiunga inoltre l’entusiasmo e la fiducia dei propri mezzi da parte del giovane Disney e si capirà per quali motivi i suoi finanziatori si ritrovarono a concludere, ragionevolmente, che i rischi compresi nell’attuare un contenuto investimento sulla Laugh-o-gram films fossero in fondo accettabili. Il nuovo produttore di cartoon annunciò la sua nascita nelle pagine economiche nel giugno 1922. In teoria, sei suoi film avrebbero dovuto essere già ultimati, ma ciò non era vero. «Essi verranno proiettati uno ogni due settimane», diceva un articolo. «A breve verrà pubblicato un annuncio col programma di distribuzione». Quel programma ancora ad agosto non era stato diramato, quando Leslie B. Mace, il direttore delle vendite, e J.V. Cowles – un fisico di Kansas City e «figura nota nel settore del petrolio» che ora era il tesoriere della Laugh-o-gram e che si presume fosse divenuto uno degli azionisti della società – si trovavano a New York, come un altro articolo dichiarava, «per organizzare la distribuzione di una serie di dodici Laugh-o-grams». L’idea era ancora quella di mandar fuori un cartoon ogni due settimane.100 Disney, egli stesso animatore alle prime armi, divenne guida di un proprio striminzito staff, giovanissimo e, se possibile, professionalmente ancor più imberbe, nella produzione dei suoi primi cartoon, consumando rapidamente tutto il suo capitale. Walt era ancora e costantemente affamato di nuove competenze. C.G. «Max» Maxwell101 ebbe a ricordare che quando si recò a Kansas City per frequentare il liceo e si ritrovò a lavorare alla Laugh-o-gram, aveva con sé «un piccolo portfolio della [W.] L. Evans school of Cartooning inerente a prove d’animazione che mi era stato inviato insieme ai vari materiali, relativi a un corso per corrispondenza che avevo seguito; quando Disney vide il piccolo portfolio, realizzato per la Evans school da Bill Nolan [a quel tempo un noto animatore di New York], se lo prese lui e quella fu l’ultima volta che lo vidi in vita mia».102

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un modello di riferimento della laugh-o-gram. gli animatori potevano ricalcare i disegni per animare un movimento e usare il foglio come guida per la fisionomia del personaggio. Per gentile concessione di Carman g. maxwell.

hugh harman, appena diplomatosi alla scuola superiore, divenne animatore nello staff di Disney. «La nostra sola fonte era il libro di Lutz», disse. «Quello, e i film di Paul Terry».103 Terry fu indiscutibilmente, per Disney, un modello per quanto riguardava un fondamentale aspetto, dal momento che i film di Disney erano fiabe modernizzate, proprio come quelle di Terry erano versioni moderne delle favole classiche. Ma Disney e i suoi artisti ripresero un qualcosa dai disegni animati di Terry anche a un livello più profondo e concreto. Disney fece la conoscenza di Nadine simpson, che lavorava presso il deposito locale di un distributore cinematografico, in possesso di varie bobine di film; simpson permise a Disney, Ising e altri della Laugh-o-gram di prendere in prestito delle pizze di Aesop’s fables di Terry per studiare i film «alla lente d’ingrandimento», disse Ising. «Un leone o qualcosa del genere era sempre a caccia [si trattava di farmer Al falfa, personaggio ricorrente delle fables]. Non riuscivamo a capire come facessero a realizzare tutte quelle

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animazioni e in così poco tempo. Poi scoprimmo che erano dei cicli» – brevi brani d’animazione che potevano essere ripetuti all’infinito, dando allo spettatore l’idea che formassero un’azione continuata – «e potemmo tagliare [dalla bobina] un ciclo; non ne sentirono mai la mancanza».104 harman ricordò di aver sottratto «forse 15 o 20 metri» dai cartoon di Terry. «Comunque quei tagli, al film, non fecero che bene». Nadine simpson entrò alla Laugh-o-gram nell’autunno del 1922, come contabile. Benché harman e Ising ricordassero i film Laugh-o-grams come realizzati con disegni al tratto inchiostrati su carta, con quello che hugh harman definì un «soltanto occasionale» uso di rodovetri,105 solo il primo, Little Red Riding Hood, è inconfondibilmente di quel tipo. Gli altri esempi giunti fino a noi sembrano realizzati primariamente su dei trasparenti: i disegni furono tracciati a inchiostro su fogli di celluloide, colorati e fotografati sopra a fondali dipinti. L’uso dei cel dava all’animatore molta più libertà rispetto al lavoro su carta, ma non era un passo da prendere alla leggera, a Kansas City. La celluloide doveva essere acquistata in fogli molto grandi; questi andavano tagliati nel giusto formato; poi vi dovevano essere praticati dei fori ai lati perché li si potesse fissare alle reggette dei tavoli da lavoro, in modo da assicurare il corretto allineamento dei disegni.106 L’uso dei cel da parte di Disney era probabilmente un altro segnale tanto dell’influenza di Terry – le fables erano state realizzate fin dall’inizio con i rodovetri – quanto dell’ambizione di Disney stesso a fare animazione in un certo modo. Quattro delle fiabe Laugh-o-gram completate sono arrivate fino a noi: questi cartoon sono interessanti principalmente per il loro proposito di configurarsi come «moderni». Cenerentola, una ragazzina coi capelli neri acconciati alla moda, va al ballo in una grossa automobile, col suo gatto come autista, e il «lupo» di Cappuccetto rosso è un predatore famelico assai umano. I corti fanno un largo uso di espedienti per risparmiare sull’animazione, specie mediante cicli. E anche il tratto è perennemente scarno, persino misurato rispetto al disegno fortemente manieristico che imperversava nella maggior parte dei cartoon dei primi anni Venti. Gli autori in grado di disegnare davvero bene e allo stesso tempo così veloci da poter realizzare tutti i disegni necessari per un cartoon di un’intera bobina non abbondavano certo nel 1922; e, come si può chiaramente vedere nelle fiabe Laugh-o-gram, nessuno bazzicava a Kansas City.

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Per quanto quei disegni animati non fossero di gran qualità, lo staff della Laugh-o-gram si divertiva a realizzarli. «Walt era praticamente uno di noi», avrebbe scritto Max Maxwell nel 1973. Disney e il suo gruppetto si ritrovavano «spesso insieme la domenica, facendo finta di girare dei film tipo quelli di hollywood». Esistono ancora alcune foto di queste riprese simulate sul tetto del McConahy Building. «hugh harman e un suo amico, ray friedman, avevano costruito una piccola capanna di legno in swope Park», nella parte sud di Kansas City, scrisse ancora Maxwell, «e quello era il nostro punto d’incontro preferito. […] La cinepresa adoperata per “girare” quegli esterni era fasulla, era stata costruita da Ub usando una scatola, una manovella e due latte rotonde in cima a mo’ di bobine».107 fu solo il 16 settembre 1922 che finalmente la Laugh-o-gram firmò un contratto con un distributore per i propri cartoon. La società, la Pictorial Clubs, distribuiva film nelle scuole e nelle chiese, invece che nei cinematografi. La Pictorial Clubs poneva come condizione quella di pagare inizialmente un acconto di soli 100 dollari per sei cartoon, con un saldo di 11 mila dollari da pagarsi solo il 1° gennaio 1924:108 condizione assurda, del tutto insensata a meno che Disney non avesse altri introiti, ciò che invece Disney proprio non aveva. Nell’accettare un tale contratto, Walt stava, né più né meno, amplificando l’errore già commesso nel vendere i suoi originari cortometraggi Newman Laugh-o-grams a prezzo di costo. A ottobre Disney stava terminando Puss in Boots (il gatto con gli stivali), il quinto dei sei cartoon compresi nel contratto, ma la Laugh-o-gram aveva finito i soldi e stava rapidamente accumulando debiti. red Lyon, l’operatore di ripresa della compagnia (o technical engineer, secondo il suo biglietto da visita), a metà ottobre scrisse a sua madre che la società era «a pezzi» e sempre più piena di debiti «per circa 400 dollari ogni settimana che passa».109 La ricerca di ulteriori risorse economiche cominciò in ottobre inoltrato. La Laugh-o-gram annunciò allora che la compagnia, secondo un articolo sul kansas city Star, aveva «reso disponibile, in aggiunta alle consuete attività di realizzazione di disegni animati, il servizio di ripresa filmata per i bambini. A un genitore ammirato che voglia immortalare la grazia dei movimenti della propria progenie» bastava contattare Disney e Lyon. «E a seguire si potrà ammirare il bambino in azione». In effetti, compresa nel servizio v’era anche una proiezione privata a casa dei genitori. Pochi, o forse nessuno, abboccarono all’amo.110

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Per ragioni mai chiarite, Ub Iwerks lasciò il suo impiego alla Kansas City film Ad e saltò a bordo della nave Laugh-o-grams, in fase avanzata di affondamento, all’inizio del novembre 1922. Max Maxwell ricordò che, due settimane dopo che Iwerks entrò alla Laugh-o-gram, questi inventò quello che in seguito sarebbe stato chiamato il biff-sniff, uno strumento con il quale si potevano ridurre o ingrandire i disegni dell’animazione: «si metteva la pellicola nel proiettore, dietro a questa macchina; si proiettava il film sul vetro antistante, dove stavano le reggette, e in questo modo potevamo fare i disegni più piccoli o più grandi» a seconda della distanza del proiettore dal biff-sniff, in sostanza un pantografo.111 Alla fine dell’anno, dopo aver consegnato cinderella (cenerentola), l’ultimo dei cartoon per la Pictorial Clubs, la Laugh-o-gram aveva interrotto i pagamenti al personale. L’azienda realizzò qualche altro film, alcuni per soldi e altri come materiale dimostrativo non retribuito. Verso la fine del ’22 Disney fece un film educativo sulla cura dentale, Tommy Tucker’s Tooth (‘Il dente di Tommy Tucker’), che un dentista locale pagò 500 dollari. Nel marzo del 1923 la Laugh-o-gram provò senza successo a interessare la Universal con una bobina dimostrativa di Lafflets, le brevi situazioni comiche animate; nessuna di esse è sopravvissuta. In quel periodo la Laugh-o-gram realizzò inoltre una «song-o-reel» intitolata Martha, un film canterino nel quale Ub Iwerks appariva dal vero. Disney non aveva pudori nel tentare nuove vie per tenere a galla la Laugh-o-gram. A un certo punto provò a lanciare un corso d’animazione per corrispondenza, usando l’intestazione «Animated Cartooning studios», qualificandosi come direttore generale e indicando Ising quale direttore didattico. Un articolo di lancio preannunciava sordidamente «grandi entrate», recitando: «I guadagni che vi deriveranno da questo corso vi sbalordiranno». L’informazione finale senza dubbio, a modo suo, era veritiera.112 Tra la fine dell’autunno del 1922 e l’inverno del 1922-’23, e poi nella primavera 1923, la Laugh-o-gram sopravvisse, a malapena, grazie a piccoli prestiti. Il primo – 2500 dollari, il 30 novembre 1922 – dal suo tesoriere, J.V. Cowles, che probabilmente non voleva che il suo investimento iniziale svanisse nel nulla. L’estensore del secondo prestito, fred schmeltz, proprietario di un negozio di ferramenta, fece dei versamenti a favore della Laugh-o-gram fra il febbraio e il giugno 1923, per un valore complessivo di oltre 2000 dollari. schmeltz, come membro del consiglio della Laugh-o-gram,

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aveva piena coscienza delle condizioni disperate dell’azienda e cercò dunque di cautelarsi: i suoi prestiti furono assicurati per il valore totale dell’attrezzatura della società. Nel giugno 1923 Disney girò il contratto con la Pictorial Clubs a schmeltz come assicurazione non solo per i suoi prestiti ma anche per quello di Cowles, così come per gli stipendi non pagati che egli doveva ai suoi due impiegati.113 La personale ancora di salvezza di Disney fu costituita da provvidenziali assegni firmatigli da suo fratello. A roy alla fine del 1920 era stata diagnosticata la tubercolosi: non faceva che passare da un sanatorio statale all’altro. Dal primo nel New Mexico a un altro in Arizona e infine a un altro ancora a sawtelle, California, oggigiorno parte di Los Angeles e confinante con santa Monica. Disney ricordò che roy gli mandò degli assegni in bianco a condizione di compilarli per qualsiasi cifra mai superiore ai 30 dollari, «quindi alla fine mettevo sempre 30 dollari». rimase a galla grazie a quegli assegni e alla generosità dei proprietari, di origine greca, del forest Inn Café al primo piano del McConahy Building. Arrivò anche a disturbare Edna francis, la ragazza di roy, la quale ebbe a ricordare che Walt «era solito venire a casa mia e parlare a volontà fino a quasi mezzanotte. stava attraversando dei problemi e quando aveva fame veniva a casa nostra, lo nutrivamo con un buon pasto e lui parlava, parlava e parlava».114 Disney raccontò, nel 1956: «stavo cercando disperatamente qualcosa che funzionasse, che ingranasse. Così pensai a un cambiamento radicale. fino allora c’erano stati solo i personaggi disegnati che interagivano con gli esseri umani, nati inizialmente da Max fleischer. Io allora mi dissi, be’, forse potrei invertire la cosa, potrei mettere gli umani nel mondo animato. […] Nei cartoon [fleischer] il personaggio animato saltava sempre fuori dal disegno, girava in una stanza reale e interagiva con una persona vera. Io al contrario presi una persona reale e la misi dentro al disegno».115 Il 13 aprile 1923 Disney firmò per conto della Laugh-o-gram un contratto con i genitori di Virginia Davis, una bambina di quattro anni dai bei boccoli biondi, molto somigliante a Mary Pickford e che era già apparsa in almeno una pubblicità della Kansas City film Ad. Virginia fu scritturata perché apparisse in un nuovo film intitolato Alice’s Wonderland, ‘Il Paese delle Meraviglie di Alice’; il compenso per la bambina sarebbe stato il 5% dei profitti del film.116 Dopo aver girato le parti dal vero, Disney e alcuni membri del suo staff originario lavorarono sulle animazioni dalla tarda primavera

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all’inizio dell’estate 1923. hugh harman, che risulta nella busta paga della Laugh-o-gram per i mesi di maggio e giugno di quell’anno, dichiarò di averne animato la maggior parte.117 Nel bel mezzo della produzione, probabilmente a metà giugno, la Laugh-o-gram si spostò dal McConahy Building in un quartiere meno costoso, lo stesso locale sopra al ristorante Peiser’s che aveva ospitato i Kaycee studios. «Lo studio era in quel periodo un vero problema finanziario», scrisse rudolph Ising nel 1979, «e Walt, hugh, Maxwell e io spostammo in gran segreto le nostre attrezzature, una notte, nell’edificio dove stavamo prima, […] abbandonando il McConahy con ancora varie mensilità da saldare».118 Cominciando da luglio, fred schmeltz pagò l’affitto mensile (75 dollari) per il locale sovrastante Peiser’s. Maxwell ebbe a ricordare che, subito dopo il trasloco, «ci alternammo con Walt alla macchina, per riprendere una lunga scena con una parata circense», una processione di personaggi in animazione che auguravano il benvenuto nel mondo del cartoon ad Alice, che era per l’appunto in carne e ossa.119 Nel maggio 1923, mentre Alice’s Wonderland era ancora in fase di realizzazione, Disney scrisse ai suoi potenziali distributori, offrendo di mandare loro una stampa del cartoon non appena fosse stato terminato. Ma, come rammentò nel 1956, «non avrei mai potuto farcela». Però la sua lettera del 14 maggio a Margaret J. Winkler, titolare di una società di distribuzione di New York, ne produsse una risposta immediata. «sarò davvero molto lieta di ricevere una copia del nuovo disegno animato di cui mi ha parlato», scrisse a Disney il 16 maggio. «se è come me l’ha descritto, sarò interessata a mettermi d’accordo con lei per una serie in tema».120 Disney scrisse nuovamente a Margaret Winkler oltre un mese dopo. «A causa di numerosi ritardi e intoppi incontrati nel trasferirci nel nostro nuovo studio», scrisse il 18 giugno, «non saremo in grado di completare il primo film della nostra nuova serie nei tempi preventivati». Egli progettava di recarsi a New York intorno al 1° luglio con una stampa del film e «un prospetto del nostro programma futuro».121 Winkler gli rispose che sarebbe stata contenta di incontrarlo.122 Quando Disney parlò di «intoppi», potrebbe avere avuto in mente ciò che era avvenuto dopo che erano state fotografate le animazioni di Alice’s Wonderland; quando la pellicola era stata sviluppata, l’emulsione sul negativo si era sciolta a causa della calura estiva e almeno una parte dell’animazione aveva dovuto essere fotografata nuovamente.123

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Nel film, Alice fa visita allo studio Laugh-o-gram per vedere come si producono i disegni animati, osserva un gatto animato e una cuccia per cani su una tavola da disegno e quella notte sogna di essere lei stessa in un cartoon. L’innovazione era tutta nel lavoro di unione fra l’animazione e la ripresa dal vero; che, come spiegò Ising, «erano unite doppiamente: cioè la stampa della ripresa dal vero veniva proiettata insieme al film animato in negativo non ancora stampato in positivo, e così l’uno veniva sovrimpresso all’altro nello stesso momento in cui veniva fotografata l’animazione».124 Alice’s Wonderland, d’altro canto, risente di alcuni dei medesimi difetti delle fiabe Laugh-o-gram, specie la ripetitività, in questo caso aggravata da ben quattro scaramucce fuori campo – di cui si vedono solo gli effetti sonori – tre delle quali coinvolgono Alice e alcuni leoni scappati dalle loro gabbie. A ogni modo, in piena estate 1923 Disney aveva in mano il film terminato, nonché un distributore newyorkese disposto a visionarlo. Probabilmente non avrebbe potuto sostenere un viaggio a New York, ma di certo avrebbe potuto risolvere la questione in altra maniera; cosa che però non gli riuscì di fare con successo. Il destino di quelle sei fiabe in chiave moderna fu probabilmente in stretta connessione con quelle che erano state le sue scelte strategiche. Nella sua prima lettera alla Winkler, Disney la invitò a contattare W.r. Kelley dell’ufficio newyorkese della Pictorial Clubs, «e questi sarà lieto di proiettarle molti dei nostri filmati», vale a dire le fiabe animate.125 Però intorno a quel periodo la Pictorial Clubs, che in realtà era una società del Tennessee, improvvisamente dichiarò fallimento. I film – ma non l’obbligo di pagarli a Disney – finirono di soppiatto nelle mani di un’altra società, stavolta newyorkese per davvero e anch’essa chiamata, guardacaso, proprio Pictorial Clubs. Disney era stato gabbato alla grande e la Laugho-gram non avrebbe visto un centesimo di quegli 11 mila dollari che si supponeva avrebbe dovuto riscuotere il 1° gennaio.126 Potrebbe essere stata quell’esperienza sgradevole con un distributore a condurre Disney ad assumere atteggiamenti meno disponibili a stipulare contratti con altri operatori del settore. rudolph Ising ricordò che nell’estate del 1923, successivamente al trasloco al vecchio studio sopra al ristorante Peiser’s, «Walt stava seriamente considerando la possibilità di ritornarsene a New York» per cercare lavoro come animatore presso gli studi che producevano i disegni animati di felix the cat.127

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«lo sCrICCIolo dI famIglIa»


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Negli anni successivi Disney non avrebbe rimembrato con piacere quell’episodio, forse la sola occasione in cui, dopo aver lasciato la Kansas City film Ad, si trovò quasi in procinto di andare a lavorare per qualcun altro e abbandonare l’idea di dirigere un proprio studio. Come il solo pensiero delle sue iniziative imprenditoriali fallite lo irritava, così la semplice idea che avrebbe potuto passare tutta la sua vita a lavorare per qualcun altro dovette risultargli troppo fastidiosa. Era per natura un uomo che voleva decidere, avere l’indiscusso controllo, e così non poteva tollerare né l’idea di dividere tale potere con qualcun altro (eccetto roy) né quella di sottostare a qualcuno al di sopra di lui. Con Alice’s Wonderland finito e ancora pieno di speranze per una possibile serie, Disney tornò al tipo di disegni animati che gli avevano già portato una modesta fama. «Lavorai per molte settimane a un progetto per realizzare un cinegiornale settimanale per il kansas city Post», dichiarò nel 1935, «ma anche quell’idea cadde nel vuoto. Quello sembrò escludere una qualsiasi prospettiva a Kansas City, quindi decisi di andarmene a hollywood».128 Come Disney ricordò nel discorso ai suoi impiegati del 1941, egli a Kansas City aveva a suo tempo attraversato un’autentica fase da artista ridotto letteralmente alla fame, all’incirca quando il suo studio si trovava nel McConahy Building (sebbene il riferimento a una «topaia» non sembri del tutto appropriato, dato il posto). Con gli affari che andavano a rotoli, viveva nello studio e faceva un bagno completo solo una volta alla settimana, presso la nuova Union station di Kansas City. Non aveva niente da mangiare eccetto fagioli in scatola e tozzi di pane. Disney tuttavia, e questo era tipico della sua persona, nel rievocare quel periodo ancora nel 1956 si rifiutò di parlarne con quel tono nostalgico e al contempo lamentoso usato nel suo discorso del 1941. Tutte le volte che in seguito parlò delle sue difficoltà e di come le avesse superate, la sua voce fu in genere quella di un imprenditore ottimista. E inoltre, disse, i fagioli gli piacevano: «vi dirò la verità, mangiare a quel modo era stato una vera pacchia».

alla fattorIa E IN CIttà. 1901-1923

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«una bella idea»

il cineasta autodidatta 1923-1928

Esattamente come aveva già fatto suo padre in molte occasioni, Walt Disney rispondeva alla sconfitta cambiando aria. Quando la Laugh-o-gram films dovette dichiarare bancarotta, nell’ottobre del 1923, Walt aveva già mosso in California, probabilmente alla fine di luglio. Come per Elias nel 1906, a spingere Walt a trasferirsi aveva contribuito robert Disney – che si era spostato nella California del sud nel 1922 ed era entrato nel campo della compravendita di terreni1 – ma è anche vero che si trovava lì pure roy, poiché era stato ricoverato a sawtelle. La stessa Los Angeles era una destinazione naturale per un originario del Midwest come Disney, molto più di New York. Nella Los Angeles dell’inizio degli anni Venti i primi grandi studi cinematografici cominciavano ad attirare un crescente numero di persone provenienti da altri paesi, all’incirca come già da diverso tempo accadeva nel Nord-Est; ma la maggior parte dei residenti losangelini non erano tuttavia abituati ai nuovi arrivati. La città era ancora, per la maggior parte, popolata da originari del Midwest trasferitisi lì. «Avevo fallito», avrebbe detto Disney del capitolo Laugh-ograms, sebbene aggiungendo che non tutti i mali vengono per nuocere. «Penso che sia importante subire una forte batosta, quando si è giovani. […] Da quell’esperienza imparai molto». Elaborò insomma il fallimento sostenuto dalla convinzione, tipica delle mentalità imprenditoriali, che sarebbe sempre caduto in piedi; e fu per questo che poté dichiarare: «non mi sono mai compianto».

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Nel 1961 Disney affermò che nel momento in cui arrivò a Los Angeles «di animazione ne avevo abbastanza. Ero scoraggiato e tutto il resto. La mia ambizione a quel tempo era divenire un regista».2 Disse che sarebbe stato disposto ad accettare qualunque tipo di lavoro presso uno studio cinematografico. «Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa, per entrare. […] Per divenire parte di quel mondo e poi crescere». roy Disney, parlandone nel 1967, nutriva dei dubbi: «seguitavo a dirgli, “ma perché non ti cerchi un lavoro? Perché non ti cerchi un lavoro?”. Avrebbe potuto trovare un impiego, ne sono sicuro; ma lui non lo voleva, un impiego. Avrebbe potuto entrare alla Universal, per esempio, a forza di proporsi lì per un posto, e dopo […] avrebbe dovuto semplicemente stare lì in giro per lo studio tutta la giornata […] osservando i set e le attività in corso. […] E la MGM era un altro luogo ideale dove avrebbe potuto fare in questo modo».3 Quarant’anni dopo, Walt avrebbe dichiarato: «non riuscivo a trovare un impiego, così mi misi in affari per i fatti miei», ritornando ai disegni animati e costruendo una postazione di ripresa nell’autorimessa di suo zio.4 Ancora una volta, però, i documenti e le testimonianze indicano che il suo stato d’animo all’epoca era diverso da quello che avrebbe poi scelto di ricordare, e che in realtà aveva sempre voluto mettersi in affari autonomamente: per fare disegni animati. Poco dopo essere arrivato a Los Angeles, aveva già fatto stampare una sua carta intestata – «Walt Disney, Cartoonist» – con l’indirizzo di suo zio robert, al 4406 di Kingswell Avenue, a hollywood. Il 25 agosto scrisse a Margaret J. Winkler, a New York, comunicandole che non era più alla Laugh-o-gram e che stava mettendo in sesto un nuovo studio. «Prenderò con me alcuni membri del mio vecchio staff», scrisse, «e fra brevissimo sarò in grado di produrre a ritmo regolare. È mia intenzione inserirmi in uno degli studi [di Los Angeles], dove sarei in grado di studiare i dettagli tecnici e le situazioni comiche, per combinarle con i miei disegni animati».5 In altre parole, roy aveva ragione: Walt voleva mettere un piede dentro ai grossi studi non in cerca di un impiego ma per «studiare i dettagli tecnici e le situazioni comiche». Quando la Winkler rispose, il 7 settembre, mostrava chiaramente segni d’impazienza. «se le sue comiche sono ciò che lei dice siano e ciò che io penso dovrebbero essere, possiamo fare affari», scrisse. «se riesce a rinunciare a due di esse abbastanza a lungo da potermele spedire, cosicché io possa visionarle giusto per capire di cosa si tratta, la prego di inviarmele subito».6

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Margaret Winkler aveva ottime ragioni per essere interessata ai film di Disney. Distribuiva da tempo i cartoon di Max fleischer della serie Out of the inkwell,7 ma questi era in procinto di mollarla per distribuire i suoi disegni animati con la propria società, la red seal. Un altro cliente produttore d’animazione, Pat sullivan,8 voleva offrire i suoi popolari cartoon del Gatto felix a un migliore offerente. La Winkler era un distributore generale che proponeva i film a distributori sublicenziatari, i quali pagavano per il diritto di venderli per un periodo limitato in uno o più stati; era insomma ai margini del settore, in confronto alle grandi compagnie come la Paramount e la Universal, le quali erano proprietarie delle enormi reti distributive con cui propagavano le loro grosse produzioni cinematografiche. Winkler aveva bisogno di una nuova serie animata, e in fretta; e Alice’s Wonderland – a quanto pare Disney le mandò una stampa che aveva portata con sé in California – la convinse che il giovane animatore potesse venire incontro a quella necessità. Walt era nel bel mezzo della realizzazione di un esempio di joke reel per la catena dei cinema Pantages – una nuova versione dei filmati Newman – quando la Winkler, il 15 ottobre 1923, gli mandò un telegramma offrendogli un contratto per una serie di sei film di Alice, con un’opzione per altre due da sei.9 Disney le reinviò il contratto firmato il 24 dello stesso mese.10 Winkler voleva acquistare Alice’s Wonderland come filmato da usare in casi d’emergenza, ma Disney non poteva venderglielo perché il film non era suo: esso era proprietà della Laugh-o-gram e infine passò in altre mani, durante le esecuzioni fallimentari della società. La Winkler comunque offrì per il film solo 300 dollari, un prezzo che Disney fu in grado di rifiutare, senza dubbio con notevole sollievo, come semplicemente troppo basso.11 Alla richiesta di soccorso del fratello, roy lasciò il sanatorio per unirsi a Walt in un Disney Brothers studio nuovo di zecca. «Una notte», ricordò roy, «venne a trovarmi quando già mi trovavo a letto, alle undici o a mezzanotte, e mi mostrò il telegramma d’accettazione della sua offerta; e mi disse “che cosa faccio ora? […] Puoi tirarti fuori di qui e aiutarmi ad avviare la cosa?”. Il giorno successivo lasciai l’ospedale e da allora non ci tornai più».12 Col suo caratteristico ottimismo, l’8 ottobre Walt aveva già preso in affitto un locale (per 10 dollari al mese) nel retro di uno stabile adibito a uffici al 4651 della Kingswell,13 a un paio di isolati a ovest della casa di robert Disney e proprio girato l’angolo dalla

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Vermont Avenue, un grande arteria che collegava il sud e il nord di hollywood e che era sede di moltissime case di distribuzione cinematografica. Non appena roy lo raggiunse, Walt cominciò a lavorare con la grinta e la convinta regolarità che gli erano mancate a Kansas City. Wilfred Jackson,14 che avrebbe lavorato a fianco di entrambi i Disney per oltre trent’anni, avrebbe dichiarato: «tutti pensano a Walt Disney come se fosse stato una sola persona. Ma in realtà era due persone: era Walt Disney ed era roy Disney».15 Nel 1961 Walt riassunse così il grande contributo di roy: «roy era, fondamentalmente, un banchiere. Col denaro ci sapeva fare proprio alla grande». roy era anche il fratello maggiore di Walt, e i legami familiari che univano i due non solo fra di loro ma anche a Elias erano a hollywood molto più evidenti che a Marceline. «stavamo lì lì per avviare il tutto», raccontò roy a richard hubler nel 1968, «quando i nostri genitori ipotecarono la propria casa di Portland e ci prestarono 2500 dollari. Nella nostra famiglia ci davamo sempre una mano gli uni gli altri. risarcii quel debito prima che potei». A quanto pare, la proverbiale taccagneria di Elias era stata del tutto messa da parte nel momento in cui aveva capito che i suoi figli stavano imboccando una via imprenditoriale simile a quella che egli stesso aveva più volte percorsa. Perfino roy sostenne con «qualche centinaio di dollari» la nuova attività e robert Disney prestò loro 500 dollari.16 «A Natale consegnammo il nostro primo film», disse roy nel 1967. «Guadagnammo 1200 dollari. Pensavamo di essere diventati ricchi».17 In realtà le notizie fornite da roy erano lievemente imprecise, in entrambi i casi. Margaret J. Winkler offrì 1500 dollari per ogni cartoon. Il primo, Alice’s Day at Sea (‘La giornata al mare di Alice’), doveva essere consegnato il 1° gennaio 1924, ma la Winkler lo ricevette già il 26 dicembre. roy ricorda che il fratello era, allora, «sempre teso, ma anche tanto entusiasta. ogni nuovo giorno era per lui, puntualmente, foriero della risoluzione di tutti i suoi problemi». Walt portava ancora i segni dei suoi ultimi mesi a Kansas City, quando aveva dovuto accamparsi nel suo studio e mangiare pochissimo. Era «pelle e ossa», disse roy, «e bruttissimo a vedersi. […] Mi ricordo che aveva una tosse insistente e gli dicevo sempre “prego Gesù che non ti sia preso la tisi!”».18 Walt era già allora un avido fumatore di sigarette; è probabile che avesse preso il vizio durante il suo soggiorno di un anno in francia.

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Walt Disney si era imbarcato nella sua avventura con la Laugho-gram con un adeguato conto in banca e con uno staff ridotto ma qualificato, però non aveva avuto roy al suo fianco. Quando il Disney Brothers studio aprì i battenti il 16 ottobre del 1923 – appena il giorno seguente rispetto all’offerta di Margaret J. Winkler ricevuta da Walt – lui e roy con Kathreen Dollard, assunta per inchiostrare e colorare i celluloidi, costituivano l’intero staff. Margaret J. Winkler, si rammenterà, premeva che l’attrice della nuova serie delle Alice comedies fosse Virginia Davis, e allora Disney scrisse alla madre della bambina, Margaret Davis, lo stesso giorno, offrendole la parte.19 A testimonianza del potere fascinatorio esercitato da hollywood, poche settimane dopo l’intera famiglia Davis si era già trasferita in blocco a Los Angeles. Le prime Alice comedies non erano proprio dei disegni animati ma piuttosto cortometraggi dal vero – molto somiglianti alla serie Our Gang di hal roach20 – con inserti in animazione. E difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti, dato che Walt era l’unico animatore e roy il suo operatore alla macchina. Le animazioni di Disney erano vistosamente maldestre perfino rispetto a quelle dei film Laugh-o-gram, appesantite dal suo tratto grezzo e dall’esasperato uso di ogni possibile tipo di scorciatoie tecniche. «Nei primissimi giorni d’attività nella produzione di questi film», disse Disney nel 1956, «era una lotta per la sopravvivenza. Lo era innanzitutto per entrare nel circuito, per rompere il ghiaccio. Così ci si metteva a usare stratagemmi pazzeschi. Infilavo dentro ai miei film battute a raffica e tanto altro, perché ero smanioso di far colpo». In un discorso del 1957 ai suoi produttori ricordò di quando soleva eseguire riprese dal vero a Griffith Park e di essere a malapena scampato in diverse occasioni all’arresto «perché non avevamo la licenza. Non potevamo permettercela. Quindi in genere buttavamo un occhio all’agente di ronda lì al parco, e se per caso ci vedeva prendevamo a correre a rotta di collo, sperando che non ci raggiungesse. E poi ci mettevamo a filmare in un altro punto del parco, e poi in un altro ancora, e così via».21 Allorché i Disney iniziarono ad avere un’attività produttiva regolare, assunsero altro staff. Cominciarono, il 14 gennaio 1924, con una coloritrice di cel, Lillian Bounds: «Provarono a usarmi come segretaria, ma non ero molto brava», avrebbe ricordato oltre sessant’anni dopo.22 L’11 febbraio fu la volta di un disegnatore, rollin hamilton, di venticinque anni, cioè tre più vecchio di Walt. Lo stesso

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Da sinistra a destra: rudolph Ising, roy disney, george Winkler, margie gray (una delle tre bambine che, con Virginia davis e dawn o’day, rivestirono negli anni la parte di alice) e Walt disney sulle scene in esterna dove furono girate le riprese dal vero per gli episodi della serie alice in Wonderland, 1925 circa. Per gentile concessione di Carman g. maxwell.

mese si trasferirono in un locale più ampio, il pianterreno al civico appena accanto, al 4649 della Kingswell. Adesso avevano a disposizione un’ampia vetrina sulla quale esporre la scritta «Disney Bros. studio». I Disney dividevano con i loro impiegati un’unica, ampia stanza; e una camera più piccola ospitava la postazione di ripresa.23 Nel maggio 1924 Ub Iwerks scrisse a Walt comunicandogli di essere pronto a lasciare il suo impiego alla film Ad ancora una volta, per unirsi allo staff dei Disney come animatore. Walt ne fu contentissimo e incoraggiò Iwerks a trasferirsi a Los Angeles quanto prima: «Non vivrei più a Kansas City nemmeno se mi pagassero a peso d’oro».24 Con Iwerks nello staff, Disney poté finalmente ridurre l’uso delle riprese dal vero, prima usandole come semplici scene di raccordo – brevi segmenti precedenti e seguenti il cartoon – e infine eliminandole del tutto, fatta eccezione per apparizioni di Alice via via

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più brevi. ora Iwerks era un animatore più rifinito dello stesso Walt e anche le sue competenze tecniche si rivelarono immediatamente utili. La macchina di Disney, per effettuare le riprese fotogramma per fotogramma, doveva essere azionata a manovella, ma Iwerks la fornì di un meccanismo automatico, così che si potesse fotografare ogni posa semplicemente premendo un bottone. Inoltre disegnò le locandine e curò per le Alice comedies la calligrafia dei titoli e dei cosiddetti «intertitoli» (i cartelli e i testi che apparivano all’interno dei film).25 Nel periodo in cui l’attività iniziava a ingranare, i fratelli Disney vissero insieme per più di un anno. «All’inizio», ricordò roy nel 1968, «dividevamo una stanza in una casa» dall’altra parte della strada rispetto allo zio robert, al 4409 della Kingswell; era l’abitazione di Charles e Nettie schneider, dove i due fratelli si erano trasferiti probabilmente in primavera nel 1923, in contemporanea all’avviamento della società. Anni dopo roy avrebbe detto: «avevamo un appartamento» – ma l’indirizzo è rimasto ignoto – «dove tornavo nel primo pomeriggio, per fare un pisolino, dato che ero ancora convalescente». roy poi si recava ancora in studio per un altro paio d’ore, prima di ritornare definitivamente a casa per preparare la cena. Una sera Walt «si rifiutò bellamente di mangiare la cena che avevo preparata», disse roy, «e io gli feci: “ok, al diavolo. se non ti piace come cucino, do le dimissioni”. Così scrissi alla mia ragazza a Kansas City”» – si trattava di Edna francis, con cui roy era stato più o meno fidanzato da prima ancora del suo ingresso in Marina – «e le proposi di venire e di diventare mia moglie, e lei acconsentì: celebrammo le nozze l’11 aprile 1925. Questo fece sì che Walt rimanesse da solo. Evidentemente stare solo proprio non gli piaceva, benché non sopportasse il mio modo di cucinare».26 Non molto tempo dopo, in effetti, Walt Disney chiese la mano di Lillian Bounds e questa gliela concesse. Lillian Marie Bounds era dell’Idaho, dove suo padre aveva lavorato come fabbro. Aveva seguito la sorella maggiore hazel (maritata sewell) a Los Angeles e trovato un impiego presso lo studio Disney poco dopo il suo arrivo. Lo studio si trovava vicino a casa della sorella e poteva arrivarci a piedi. Lillian era una ragazza snella, i capelli scuri, di una spanna più bassa del suo capo e futuro marito. Il quale era alto un metro e 78 circa, con i capelli lucidi pettinati all’indietro e di colore castano chiaro. Disney allora era egli stesso

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magro e affusolato, così tanto che nelle fotografie di quel periodo i suoi lineamenti sembrano più spigolosi e il naso più prominente che nelle immagini riprese negli anni seguenti. Il guardaroba di Disney era molto povero all’epoca del loro primo incontro, ricorda Lillian. «Non aveva nemmeno un completo».27 Indossava un impermeabile rossiccio di gabardine, un cardigan grigio tendente al marrone e un paio di pantaloni a quadrettoni bianchi e neri. Non aveva nemmeno un’automobile, fino a qualche tempo dopo l’assunzione di Lillian. «Lavoravamo fino a tarda sera», disse Lillian a richard hubler nel 1968. «All’epoca aveva una ford decappottabile. Dopo il lavoro in genere ci accompagnava a casa.28 Prima portava a casa l’altra ragazza. Quando arrivava di fronte a casa di mia sorella si vergognava di fermarsi davanti all’ingresso. Una sera mi chiese: “se mi procuro un abito, posso venire a trovarti?”». I fratelli Disney comprarono insieme dei completi, ma quello di Walt era abbinato a due paia di pantaloni, contro l’unico pantalone di quello di roy. «Walt sceglieva sempre per il meglio», dichiarò ancora Lillian.29 «È che proprio non aveva alcuna inibizione», ricordò Lillian di Walt. «Era completamente al naturale. […] Era divertente. Anche se non aveva un soldo bucato. […] Andavamo a vedere un programma al cinematografo o ci facevamo un giro in macchina»; all’epoca Disney era passato di grado, con una decappottabile Moon. «A volte andavamo su, fino a santa Barbara». Durante i loro appuntamenti, ricorda Lillian, «non faceva che discutere di cosa avrebbe fatto in futuro. Voleva sempre parlare di questo argomento».30 sebbene Disney stesse producendo film visti in tutto il paese, era ancora lungi dall’avere acquisito una qualche fama.31 Quasi trent’anni dopo sarebbe stato pubblicato, sulla nota rivista Mccall’s, un pezzo sul suo matrimonio scritto artificiosamente dal punto di vista immaginario della moglie. sebbene il titolo – «Vivo con un genio» – inviti a un qual certo scetticismo, esso è in realtà convincente in molti dettagli, come nell’esempio che segue: La prima volta che Walt vide uno dei suoi cortometraggi animati al cinema fu [nel 1925,] proprio prima che ci sposassimo. Quella sera mia sorella e io eravamo andate a rendere visita a un’amica, quindi Walt decise di andare al cinema. All’ingresso si annunciava un cortometraggio concorrente ma, come si sedette in sala e le luci si spensero, a essere proiettato fu proprio il suo film. Walt era così emozionato che

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si catapultò nell’ufficio del gestore. Questi, equivocando, cominciò a scusarsi per non avere fatto proiettare il film previsto. Walt subito dopo si precipitò a casa di mia sorella per darmi la sua eccitante notizia, ma non eravamo ancora tornate. Allora provò a rintracciare roy, ma anche lui era fuori. Alla fine, se ne tornò a casa tutto solo.32

Disney, nel 1924 e nel 1925, era una figura priva di attrattive sia a livello finanziario sia in generale, e in più era ancora molto giovane. Quando sposò Lillian aveva ventitré anni, cioè era di quasi tre anni più piccolo della moglie. I baffetti che si fece crescere nella primavera del ’25 (si possono notare nei filmini familiari girati al matrimonio di roy) potrebbero essere stati in parte un tentativo di colmare quella differenza, sebbene Lillian avrebbe detto, molti anni dopo, che Walt se li fece crescere quando lui e i membri del suo staff «fecero una scommessa. si fecero tutti crescere i baffi. Walt poi avrebbe voluto raderseli, ma glielo impedimmo».33 L’ottimismo e il fascino di Disney furono comunque sufficienti a superare qualsiasi riserva che Lillian potesse avere avuta. «Disse che mi sposava perché era tanto in debito con me», avrebbe detto Lillian nel 1956. «Veniva da me e mi diceva “devo chiederti ancora una volta di non versare il tuo assegno”. […] Era roy che gli diceva “fa’ in modo che Lilly non versi i suoi assegni”».34 Come evidente nel registro contabile di roy Disney, in quel periodo per i membri del personale del reparto animazione era frequente prendere anticipi sul salario. Walt e roy, d’altro canto, spesso si attribuivano dagli introiti della compagnia meno denaro di quanto la loro posizione li avrebbe autorizzati a ricevere e, a volte, si erogavano lo stipendio con una settimana o più di ritardo – nel maggio 1926, tre settimane – a causa di problemi di liquidità, come quelli che li avevano portati a presentare le loro preghiere a Lillian.35 Walt e Lillian si sposarono nella casa del fratello di lei a Lewiston, Idaho, il 13 luglio del 1925. Nel corso del loro viaggio di ritorno in treno a Los Angeles, gli sposini fecero tappa a Portland, nell’oregon, dove Lillian incontrò per la prima volta i genitori di Walt. «Erano, né più né meno, persone a posto», disse Lillian nel 1986. «Calorosi e affettuosi; e amavano Walt davvero tanto».36 Disney, in qualità di novello sposo la cui moglie era stata eliminata dal libro paga il 1° giugno, si concesse un aumento di 25 dollari a partire dal 3 luglio, per un totale di 75 dollari alla settimana. Lo stipendio di roy rimase invece a 50 dollari.37

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Walt e lillian disney davanti all’ingresso del disney brothers studio in Kingswell avenue nel periodo intorno al loro matrimonio, nel 1925. Per gentile concessione di rudolph Ising.

Anche se Lillian aveva conosciuto il marito in veste di suo datore di lavoro, e sapeva bene quali fossero i suoi orari, non riusciva comunque a non risultarne infastidita. «All’inizio del nostro matrimonio», disse nel 1956, «santo cielo, non sapeva che volesse dire andar a dormire prima delle due o le tre del mattino. Mi ci arrabbiavo da matti perché non faceva che lavorare fino a tarda notte». Immancabilmente, ricordò Lillian, la sera finivano per tornare in studio. «[Gli proponevo di andare] a fare un giro un po’ dove ci pareva, e lui diceva “be’, avrei giusto una cosina da fare”». E andava a finire che si ritrovavano in studio. Lillian dormiva spesso su di un divano fino a che Disney non era pronto ad andar via, a volte ben oltre la mezzanotte.38

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Prima di sposarsi Walt e Lillian cercarono una casa da comprare. Walt ricordò, nel 1956, che ne avevano trovata una di loro gradimento e della quale avevano provato a calcolare le spese di manutenzione. Lillian propose che Walt badasse al praticello, tagliando così i costi per un giardiniere; ma Walt scartò l’idea. A parlare, è chiaro, era il figlio di Elias, il ragazzo che aveva consegnato i giornali sotto la neve e che ormai ne aveva decisamente abbastanza di lavoro fisico: «dissi, “ho fatto davvero troppo nel passato: ho spazzato camini, falciato prati, eccetera. […] Non curerò mai più alcun giardino”. E così fu». Invece di acquistare una casa, gli sposini si trasferirono in un’abitazione in affitto: prima al 4637 della North Melbourne Avenue, una parallela della Kingswell a un solo isolato dallo studio; e poi al 1307 della North Commonwealth Avenue.39 si insediarono in una casa di loro proprietà solo nel 1927. La tosse acuta di Walt era di nuovo causa d’allarme, questa volta per la nuova regina della casa: gli accessi erano così intensi che Lillian credette fosse tisi.40 Due dei vecchi colleghi di Disney alla Laugh-o-gram si unirono al suo staff a hollywood il 22 giugno 1925, poco prima che Walt partisse in Idaho per il suo matrimonio; adesso tutto il personale ammontava a una dozzina. hugh harman e rudolph Ising, dopo il fallimento della Laugh-o-gram, avevano trovato un altro lavoro; Ising era nel campo dello sviluppo e stampa fotografici e harman era animatore alla Kansas City film Ad. Di sera, come detto, lavoravano insieme a un film tutto loro con Max Maxwell, che ancora andava a scuola lì a Kansas City.41 Adoperavano la postazione di ripresa della Laugh-o-gram e dell’altra strumentazione di cui fred schmeltz si era appropriato come parziale risarcimento per i suoi prestiti. Il loro disegno animato, Sinbad the Sailor, fu proiettato solo una volta al cinema, nell’ottobre 1924, all’Isis Theatre fra la Trentunesima e la Troost, a un isolato dalla vecchia sede della Laugh-o-gram, nel McConahy Building. Disney sapeva bene in cosa erano impegnati e incoraggiò Margaret J. Winkler a considerare con favore i loro sforzi. «sono tre ragazzi molto in gamba, perbene e giovani», le scrisse, «e mi piacerebbe davvero tanto che il loro film fosse distribuito insieme ai miei». Tuttavia nessun distributore si rivelò interessato.42 Le loro speranze essendo state disattese, harman e Ising accettarono l’offerta di Disney di unirsi al suo staff come animatori e, nel caso di Ising, anche come operatore alla macchina. Il fratello

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minore di hugh, Walker, si unì a loro per lavorare in qualità di inchiostratore. I ricordi di hugh harman e di Ising, e i carteggi dello stesso Ising risalenti agli anni Venti, sono fra le più affidabili testimonianze su come doveva essere lo studio Disney in quel periodo aurorale. «Quando arrivammo, nei primissimi tempi», ricordò hugh harman, «quasi ogni sera ci si ritrovava a casa di roy, con Walt e sua moglie, e noi tre, cioè Walker, rudy e io. oppure eran loro che venivano nel nostro appartamento; o invece ci vedevamo tutti a casa di Walt. […] In quei giorni lontani avevamo l’abitudine di giocare a tennis tutte le mattine, inclusi il sabato e la domenica. ogni mattina eravamo in piedi alle sei e giocavamo a tennis». Quando erano tutti insieme la sera, ricorda ancora harman, «dopo cena non facevamo che pensare a delle storie e a recitarle. Pensavamo fra di noi, be’, questi sono in pratica dei disegni animati che nessuno ha mai realizzati. E concludevamo che a farli saremmo stati noi».43 Ising ricordò da par suo di essere stato con i Disney «praticamente ogni sera della settimana. o si stava a casa nostra o si stava a casa loro. Questo fu quando si era appena sposato, e durò per un paio d’anni».44 In realtà l’idillio non dovette prolungarsi così tanto: Disney licenziò Ising nel marzo 1927, dato che tendeva ad addormentarsi durante le operazioni alla postazione di ripresa, e lo studio, da allora, era già cambiato in molti sensi. Ma nel 1925 c’era ancora un’atmosfera familiare che ricordava da vicino i giorni di Kansas City. Lo staff era così ristretto – e le mansioni di ciascuno dei suoi componenti così intercambiabili – che roy Disney lavò egli stesso i cel per il riuso finché, nel novembre 1925, non fu assunto qualcuno per le pulizie.45 Comunque roy non riprese più nemmeno le scene dal vivo degli episodi della serie Alice, dato che per quel lavoro fu chiamato un operatore di ripresa professionista per i soli giorni necessari a girarle. fu in quel periodo che harman e Ising si trasferirono a Los Angeles. Walt Disney adesso non lavorava più alle animazioni46 e, del resto, l’assenza dei suoi disegni non sarebbe stata poi un dramma. Come capo degli animatori sulle Alice comedies, Disney proiettava il girato dal vero della ragazzina attraverso la cinepresa per le animazioni e disegnava degli schizzi delle sue posizioni chiave nelle scene che avrebbero combinato azioni dal vero e disegno animato.47 «È probabile che realizzasse un disegno che mostrava le sue

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[della bambina] posizioni mentre si modificavano ogni 90 cm circa [di pellicola]: solo i momenti davvero significativi», ricordò harman.48 Disney probabilmente, alla Laugh-o-gram di Kansas City, aveva avuto esperienza nel disegno dei model sheet – i modelli di riferimento – per i personaggi dei film pubblicitari lì realizzati, ma a hollywood questi disegni furono per lo più terreno di Iwerks. Come detto da Ising, quei disegni mostravano «la camminata, la corsa e testa e corpo [del personaggio] in un’azione completa».49 I disegni venivano riprodotti in tre diverse grandezze, in modo che gli animatori potessero ricalcarli nelle varie dimensioni; ma in effetti, benché nel primo periodo fossero in molti a ricalcare i disegni, a poco a poco quest’usanza tese a farsi meno frequente. Dopo che smise di dedicarsi direttamente alle animazioni, Disney assunse un maggiore controllo sull’animazione eseguita dagli altri. A Kansas City gli animatori scrivevano in calce ai loro disegni ciò che il cameraman avrebbe dovuto fare. Per esempio, un animatore poteva specificare quante volte un ciclo avrebbe dovuto essere ripetuto. Ising, in qualità di operatore di ripresa, soleva accettare o meno tali decisioni: «se pensavo che una scelta fosse buona, e [l’animatore] diceva “ripetere due volte”, io potevo magari ripeterla per quattro volte. oppure, se diceva “ripetere otto volte” e io pensavo che non fosse una buona cosa, la ripetevo per un numero minore di volte».50 A hollywood Disney cominciò a occuparsi di quelli che in seguito sarebbero stati denominati exposure sheet, che costituivano istruzioni più precise al tecnico di ripresa. «Prendeva i disegni dell’animatore e li temporizzava», disse Ising, «cioè decideva per quanto tempo essi dovessero essere filmati, o quante volte un ciclo si dovesse ripetere».51 Disney modificava quegli stessi disegni «solo poco, pochissimo», disse harman, eccetto delle aggiunte più sostanziali, «dei segni di sentimento», gruppetti di sei-otto tratti intorno alla testa di un personaggio che comunicavano sorpresa, delusione o ispirazione.52 «Avevamo capito di cosa si trattava, così prendemmo a metterli noi stessi, per evitargli il disturbo», disse Ising.53 Disney inoltre dedicava la maggior parte del proprio tempo lavorativo alle trame – «era lui quello che, come dire, metteva insieme la storia» e assegnava le sequenze agli animatori, ricordò Ising54 – ma girare per le Alice comedies prima le parti dal vivo non voleva dire che le storie dovessero essere pianificate in tutti i dettagli. Come portavano avanti la serie, Alice (tre altre bambine si avvicenda-

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rono a Virginia Davis per il ruolo) fu sempre più superflua, le sue scene in numero sempre inferiore e le sue azioni di volta in volta più generiche, cosicché le scene dal vero poterono essere combinate con delle animazioni di pressoché qualunque tipo. Disney continuava a ricalcare le pose chiave delle sequenze in live action, fornendo schizzi delle posizioni della bambina; ma quel compito richiese sempre meno del suo tempo, dato che, come detto, le scene dal vero con Alice incominciarono progressivamente a diradarsi.55 Gradualmente, a mano a mano che Disney assumeva più animatori e che questi acquisivano maggiore esperienza, le Alice comedies migliorarono, mostrando meno scorciatoie tecniche; ma erano ancora di livello inferiore a quelle di alcuni concorrenti. L’inventiva nei cartoon di felix the cat e di Out of the inkwell era senza alcun dubbio maggiore: vi accadevano cose più interessanti che in quelli Disney. Eppure in quei disegni animati i personaggi mostravano solo sparute tracce di personalità; erano soprattutto veicoli per scenette fondate sulla loro stessa natura irreale. Il corpo di felix, come qualsiasi altro oggetto del suo universo, era malleabile all’infinito e KoKo, il pagliaccio protagonista della serie Out of the inkwell, si materializzava sistematicamente sullo schermo come un disegno eseguito su carta, cosicché potesse sempre essere modificato o cancellato. Nella maggior parte dei casi gli animatori si affidavano con insistenza a personaggi i cui corpi, tracciati in uno schematico bianco e nero (il gatto felix ne era il prototipo), si stagliassero nitidamente sullo schermo. Le situazioni comiche di solito si accumulavano l’una dopo l’altra, invece di raccontare una storia coerente. Le Alice comedies proponevano poche di quelle surreali scene di trasformazione viste nei cartoon di felix e nella serie Out of the inkwell. Quello che vi avveniva in maggior misura era che il corpo di un personaggio si scomponesse in più parti per poi riassemblarsi senza alcuna difficoltà. In Alice Picks the champ (‘Alice sistema il campione’, 1925), la mano di un orso pugile si sbriciola in mille pezzi sul carapace della tartaruga sua compagna di allenamenti; l’orso allora raccoglie i pezzi e li raggruppa sul moncherino, formando di nuovo un pugno. Tuttavia, a volte, le idee di Disney si concretizzavano in scene di maggiore espressività. In Alice’s Balloon Race (‘La gara in mongolfiera di Alice’), del gennaio 1926, un ippopotamo si siede e inizia a fumare la pipa: a un certo punto prende e sputa, ma manca la spu-

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tacchiera; a quest’ultima allora spuntano delle gambe con cui si dirige nel punto in cui lo sputo è caduto. L’ippopotamo sputa di nuovo, e ancora una volta sbaglia mira. stavolta alla sputacchiera oltre alle gambe spuntano anche le braccia e indica la sua apertura – e al terzo tentativo finalmente l’ippopotamo fa centro. Una situazione del genere era esattamente come in quelle viste nei cartoon di felix, però in essa c’era qualcosa di realistico, qualcosa che scaturiva non tanto dai personaggi stessi o dalle azioni che compivano bensì dal modo in cui reagivano gli uni agli altri. Questi non si rivolgevano al pubblico né si giocavano delle sue aspettative, come felix faceva spesso; al contrario, l’ippopotamo sembrava sinceramente infastidito dal fatto che la sputacchiera lo biasimasse per la scarsa mira, per poi illuminarsi nel momento esatto in cui assicurava alla sua interlocutrice che stavolta l’avrebbe centrata. si trattava di una filosofia che Disney aveva appena cominciato ad adottare: se i personaggi avessero dato l’impressione di credere di essere reali, anche il pubblico sarebbe stato incoraggiato a pensarli come tali. Nell’estate del 1925 Disney si sentì abbastanza solido nella sua attuale posizione non solo da assumere altri animatori e sposarsi, ma anche da far costruire un nuovo studio. Il 6 luglio, poco prima di partire per l’Idaho, depositò con roy 400 dollari destinati all’acquisto di un lotto sulla hyperion Avenue, nel distretto di Los feliz a est di hollywood, a circa un miglio dallo studio sulla Kingswell.56 All’inizio del 1926 il nuovo edificio dello studio Disney, al 2719 della hyperion, era pronto per l’insediamento. «Affittarono un vecchio camion ford», ricorda hugh harman, «e trasferimmo tutta la roba lì».57 Il personale si spostò nella nuova sede durante una pioggia torrenziale di metà febbraio: l’acqua era così fitta che i mobili dello studio finirono inzuppati e per un bel po’ di tempo rifiutarono ostinatamente di asciugarsi.58 Quando erano ancora nel vecchio studio, i Disney avevano preso in affitto un locale a circa tre isolati di distanza per girare le scene dal vero per le Alice comedies, usando come fondali dei teloni bianchi legati sopra a dei pannelli. Nello studio della hyperion, le maggiori risorse permisero di costruire una vera e propria saletta di posa. «Dovevamo reimbiancare tutto ogni volta che si giravano nuove scene», ebbe a ricordare rudolph Ising.59 Il nuovo ufficio di Walt Disney destò impressione in Ising, il quale scrisse alla sua famiglia che «sembra lo studio di rappresentanza di un presidente di banca. scrivania e sedie di noce, un divano e

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una poltrona enormi, una piantana eccetera».60 La prosperità crescente dei Disney permise loro anche di fare costruire delle nuove case: due abitazioni gemelle poste a fianco sulla Lyric Avenue, nel punto in cui la strada sfociava sulla saint George street, nel citato distretto di Los feliz. I lavori iniziarono nell’agosto del 1926 e si conclusero a dicembre.61 All’inizio del 1927, Walt e Lillian si trasferirono nella casa al numero 2495, sul più propizio lotto all’angolo della strada, mentre roy ed Edna si insediarono al 2491. roy Disney aveva acquistato il terreno e le due casette dalla Pacific readyCut homes per 16 mila dollari.62 La Lyric è un stradina sinuosa che punta a sud-est in discesa da una collinetta verso la hyperion Avenue, a solo pochi isolati dall’indirizzo di quello che ora era il nuovo studio. Tuttavia una strada più breve (meno di un chilometro) e più diretta, nonché quella che i Disney percorsero probabilmente più spesso, li portava in direzione nord-est sulla saint George fino al Griffith Park Boulevard; da lì, per raggiungere lo studio, bisognava semplicemente svoltare a destra e percorrere un solo isolato. se c’era un punto d’incertezza nel successo dei Disney, questo proveniva dai rapporti con il loro distributore. fin dall’inizio era stato chiaro, dalle prime lettere a Disney di Margaret J. Winkler, che la decisione finale sui filmati delle Alice comedies avrebbe dovuto essere sua: aveva detto a Disney di inviarle «tutto il girato realizzato, sia i positivi sia i negativi».63 Nel 1924, il di lei fratello George si recò allo studio Disney per montare i film lì stesso. A partire dal mese di agosto di quell’anno, gli accordi di Disney con la Winkler Pictures furono stretti per lo più attraverso il neo-marito di Margaret Winkler, Charles Mintz,64 che nelle sue lettere adottava un tono brusco e saccente. si mostrava spesso offeso e indignato quando si parlava di soldi, in un modo che ovviamente non poteva che sollevare sospetti nei suoi corrispondenti. All’inizio, tuttavia, Disney preferì sottostare. Quando scrisse a Mintz il 3 novembre 1924, espresse apprezzamento per il lavoro di George Winkler in qualità di montatore, dicendo che aveva tagliato uno dei suoi film «fino alla sua lunghezza più appropriata». Accreditò perfino George nei titoli, come aiuto per l’invenzione delle gag. Il tono di Disney in questa lettera è di una condiscendenza quasi sorprendente, in particolare le sue perenni invocazioni al nome di George Winkler come protezione dalle aggressive richieste di Mintz: per esempio che Disney inserisse nei film più scene dal vero all’inizio e alla fine usando una banda di ragazzini invece della sola

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Alice. Disney ribatté invece che avrebbe voluto assumere un altro disegnatore.65 In una lettera del 6 ottobre 1925 Mintz arrivò ad affermare che era solo perché egli aveva inviato suo cognato negli studi Disney, che Walt aveva la possibilità di continuare a fare film.66 La Winkler Pictures, dopo i primi sei episodi, aveva aumentato il pagamento per ogni altro episodio delle Alice comedies – la nuova cifra fu di 1800 dollari, anziché i 1500 dei primi sei – e nel 1925, secondo i registri di roy Disney, ciascun film risultò in media avere generato un profitto di oltre 600 dollari. Mintz proponeva di passare, per la terza stagione della serie, a un accordo di condivisione dei profitti, a partire dal 1926. Nel loro carteggio dell’autunno del 1925 e dell’inverno del 1926, si arrovellarono su quando e sulla base di quali criteri avrebbero eventualmente spartito i guadagni dei loro film, poiché Disney aveva ricevuto un contenuto anticipo da Mintz (ancora 1500 dollari, in due soluzioni) e quest’ultimo aveva coperto sia quell’anticipo sia il costo della stampa delle pellicole. Questo era il genere di questioni sulle quali il disaccordo e il compromesso sono di solito inevitabili ma, ad aggravare la situazione, la retorica di Mintz era esasperata, al limite del grottesco. Nella lettera del 17 novembre 1925 scrisse una predica a Disney sul fatto che i film di una sola bobina stessero perdendo presa sul pubblico.67 La settimana seguente affermò l’esatto contrario, cercando di convincere Disney ad aspettare la sua quota di profitti per le Alice comedies – che sarebbero stati notevoli, egli insisteva – finché Mintz stesso non avesse ricevuto in rientro i 1500 dollari di copertura per le spese.68 fu solo mediante una strenua resistenza che Disney riuscì a non fare alcuna concessione. In questa «battaglia» con Mintz, fu sempre Walt Disney stesso a combattere lancia in resta con il suo arcigno distributore. Nel suo carteggio non v’è alcun riferimento a roy Disney, sebbene di certo questi e Walt si consultassero su come rispondere di volta in volta. Quando il Disney Brothers studio divenne, nel 1926, la Walt Disney Productions, quel cambiamento nel nome fu la lampante attestazione che nelle decisioni strategiche, così come nella realizzazione dei disegni animati, la sola voce che contasse era quella di Walt Disney. La posizione di Disney nelle contrattazioni con Mintz e lo stile adottato nelle sue lettere a poco a poco si rafforzarono, a mano a mano che i suoi film miglioravano. Alla fine del 1926 Disney aveva realizzato quaranta Alice comedies e tutto, nei pochi cartoon che

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restano di quel periodo – animazione, disegni, stile dei personaggi – è spiccatamente più rifinito di ciò che Disney e il suo staff potessero essere riusciti a realizzare uno o due anni prima. Le scorciatoie, sebbene ancora abbondanti, non erano più così spudorate. In Alice’s Brown Derby (1926) il compare di Alice, il gatto Julius, conduce il suo cavallo alla vittoria in una gara, in una scena a ciclo tipica del suo genere; però durante la sequenza, in un’inquadratura ripresa di fianco, avviene il sorpasso con altri cavalli, con la creazione di un effetto tridimensionale. Vi sono cioè tre livelli di cel, con Julius nel mezzo fra i due rodovetri con gli altri concorrenti. La qualità sempre maggiore dei film di Disney permise a Mintz di abbandonare, per la stagione 1926-’27, il tipo di distribuzione in base alla quale concedeva i diritti dei cartoon stato per stato, per firmare un accordo con un distributore minore, la film Booking offices (fBo). Inoltre era in serbo un passo in avanti ancora più impegnativo per la stagione 1927-’28. Nel gennaio 1927 Mintz chiese a Disney di inventarsi un coniglio. «sto contrattando con una organizzazione nazionale: sembra che pensino che sul mercato ci siano fin troppi gatti».69 Il 4 marzo 1927 Mintz firmò un contratto con la Universal, uno dei maggiori studi di hollywood, per una serie di ventisei cartoon70 con protagonista, come la Universal aveva specificato, un nuovo personaggio di nome oswald the Lucky rabbit [‘oswald il coniglio fortunato’]. Disney avrebbe ricevuto un anticipo di 2250 dollari per ciascun cortometraggio.71 Alla Disney, ricordò hugh harman, il salto da Alice a Oswald arrivò senza preavviso. «Ci fu annunciato una mattina, al nostro arrivo, che avremmo cominciato gli Oswald lì per lì», disse. «Così dovevamo inventarci una storia di oswald seduta stante. Andammo tutti insieme nell’ufficio di Walt […] e tirammo fuori questa prima storia [Poor Papa, ‘Povero papà’]. […] Iniziammo a lavorarci sopra e, più o meno alle 11, Walt mi disse: “perché non cominciamo ad animarla?”; e poi: “hugh, la prima parte è già ben definita; hai capito di cosa parlo, vero?”; e io gli risposi “ma sì, è abbastanza, per cominciare”. Così presi e iniziai a disegnare la scena in cui si vede oswald che saltella su e giù sull’orlo del tetto».72 sebbene la Universal e Mintz non fossero soddisfatti di quel primo cartoon di oswald (fu proiettato solo nel 1928), i cortometraggi successivi della serie ottennero discrete recensioni sulle riviste commerciali destinate agli operatori del settore, come Motion Picture News. Tali recensioni non erano affatto segnalazioni di secon-

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d’ordine o di rito; i giornalisti furono assai critici con i disegni animati di oswald realizzati quando a occuparsene non fu più la Disney. Anche gli animatori di New York apprezzavano i lavori di Disney; Dick huemer, animatore per i fleischer studios, su di essi affermò: «Cercavamo sempre di visionarli, per studiarli».73 Il lavoro di scrittura delle storie per i disegni animati di Oswald che seguirono a Poor Papa non fu altrettanto improvvisato. Disney aveva preparato, durante l’ultimo anno circa di lavoro sulle Alice comedies, brevi sceneggiature battute a macchina; ma quelle che ci sono rimaste relative ai cartoon di oswald sono anche più dettagliate. Degli schizzi, sei per pagina, spesso si accompagnano alle sceneggiature, e visualizzano in generale come l’animatore dovrebbe comporre l’animazione in ogni scena. Malgrado la preparazione più particolareggiata, però, i disegni animati Disney continuavano ad avere qualcosa di grezzo e irrisolto; ed era lo stesso Walt, più di chiunque altro, che li stava ancora tenendo a quel livello, attraverso il sempre più pervasivo controllo da lui detenuto su tutto ciò che doveva essere trasposto in animazione. La maggior parte dei ventisei cortometraggi con oswald realizzati dalla Disney non è sopravvissuta fino a noi, dunque le generalizzazioni sono rischiose; ma ciò che si può ricavare dai nove Oswald rimastici è che Disney fu poco capace di sfruttare le possibilità comiche del personaggio, possibilità alle quali si era invece più volentieri aperto in alcune Alice comedies. Il problema di certo non dovette essere una perdita d’interesse da parte sua. «Walt Disney non faceva che respirare animazione, era tutta la sua vita», dichiarò Paul smith, che entrò nello staff nel dicembre 1926 come coloritore dei cel (allora era il primo gradino nell’apprendistato che avrebbe portato a lavorare come animatore). «Parlava solo e solamente di quello».74 Ma il fatto è che era molto, molto più semplice provocare le risate del pubblico facendo scomporre i personaggi dei cartoon in mille pezzi – sfruttando la loro impossibilità, invece di incoraggiare la platea a pensare che fossero reali – e dunque in Oh Teacher (‘Ah, maestro!’, 1927) oswald si stacca un piede, se lo bacia come per buon auspicio e lo sfrega sul mattone che progetta di tirare addosso a un gatto rivale durante la ricreazione scolastica. Questo, riferisce Max Maxwell, era inoltre «il periodo in cui Walt era fissato con scene un po’ sboccate, per esempio mucche con mammelle ballonzolanti e personaggini che a un certo punto prendono e scappano al cesso».75 Disney, dopotutto, era cresciuto in

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una fattoria e, alla fine degli anni Venti, il suo ruspante senso dell’umorismo era per molti aspetti un’eredità dei suoi anni a Marceline, così come durante la maturità sarebbe stato in buona parte alimentato dalla nostalgia per la vita nelle cittadine di provincia. Paul smith ricordò gli incontri focalizzati sulle storie durante il periodo di realizzazione dei cartoon di oswald: «Walt ci chiamava tutti a raccolta nel suo ufficio a discutere sugli appunti che aveva scritti circa una possibile scena comica. Quanto a ciò che pensavamo noi di queste situazioni, era che osavano un po’ troppo […] [Walt] si inventava sempre scene del tipo in cui a un certo punto una mucca finiva per impigliarsi le mammelle da qualche parte».76 In quel periodo, anche se solo per breve tempo, hugh harman potrebbe essersi trovato in una posizione superiore a quella di Disney per quanto riguarda la sensibilità e la speranza per le possibilità dell’animazione. harman riferì che in un’occasione, nel 1926, Disney affermò che gli sarebbe piaciuto possedere abbastanza denaro per chiamarsi fuori dal mondo dell’animazione e dedicarsi alla «vera imprenditoria». harman allora gli rispose dicendo che egli avrebbe invece voluto restare nell’animazione e, alla fine, animare shakespeare. «Mi guardò», disse harman, «come se mi fossi bevuto il cervello».77 harman parlava sempre delle proprie aspirazioni per questo medium in modo altisonante. Benché in seguito avrebbe prodotto molti amati cartoon per la Warner Brothers e la Metro-GoldwynMayer, specie in collaborazione con rudolph Ising, fu sempre un po’ amareggiato del ben maggiore successo di Disney: per ogni affermazione o azione di Disney, egli propose sempre l’interpretazione meno lusinghiera possibile. Ad ogni modo è pure vero che negli anni Venti Disney concepiva il proprio futuro nell’animazione principalmente in termini affaristici, perciò non è per niente peregrino affermare che gli obiettivi artistici di harman fossero allora più ambiziosi. Bright Lights (‘Luci radiose’), animato da harman nel 1927 insieme a rollin hamilton, presenta un oswald con una sua qualche interiorità, un personaggio le cui emozioni si rispecchiano nelle azioni compiute. È molto più difficile trovare alcunché di simile nei disegni animati oswaldiani coordinati da Ub Iwerks, la cui bravura tecnica si rifletteva nella precisissima e fluida qualità dinamica. Nei tardi anni Venti era più il tipo di animazione alla Iwerks, che non quello alla harman, a essere in sintonia con le ambizioni di Disney.

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harman lamentava che Walt pretendesse dai suoi animatori di produrre sempre più girato – cioè sempre più animazione – e di semplificare lo stile dei disegni. Iwerks stesso contribuì a incalzare i suoi colleghi, indubbiamente senza volerlo, grazie alla sua rapidità esecutiva. Paul smith ricordò che Iwerks «non eseguì mai, in vita sua, alcuno schizzo preparatorio. Disegnava per come gli veniva, senza bozzetti preliminari. […] È per questo che non voleva lavorare con un assistente. Voleva fare lui tutti i disegni. Lavorava pulito e animando a mano a mano» – cioè straight ahead invece che pose-to-pose, secondo la definizione di quelle che in seguito sarebbero divenute le regole dell’animazione disneyana.78 Per quanto diversi fossero fra loro, gli animatori di Disney sentivano tutti l’esigenza di evadere. Nel settembre 1926, allorché lo studio chiuse per due settimane di riposo, harman e Ising, coadiuvati da Iwerks e da rollin hamilton, realizzarono in autonomia un loro cartoon, questa volta senza che Disney ne fosse al corrente. Anche stavolta non riuscirono a trovare un distributore, ma non si diedero per vinti. Il 29 gennaio 1927 Ising scrisse a sua sorella Adele, a Kansas City: «Abbiamo uno studiolo segreto perfettamente attrezzato e possiamo cominciare la produzione immediata dei nostri film non appena avremo firmato un contratto. spero che ciò avvenga presto, dato che, se continueremo a lavorare per Walt, non riusciremo né a farci un nome né a diventare ricchi».79 Lo studio Disney nel 1927 non era un luogo allegro. Gli animatori che avevano conosciuto Walt a Kansas City «praticamente come uno di noi», erano arrivati a storcere il naso per il fatto che ora aveva assunto un nuovo ruolo, ai loro occhi: quello di un capo dispotico. Ma c’è da dire che la crescita dello studio non aveva dato a Disney alcuna scelta: doveva per forza diventare un vero e proprio capo. ogni contratto con Mintz aveva portato a un notevole aumento del numero di Alice comedies da produrre: da dodici nel 1924 a diciotto nel 1925 e ventisei nel 1926. Il contratto riguardante Oswald copriva anch’esso ventisei cartoon, ma per un distributore più importante ed esigente. I membri dello staff della Disney erano cresciuti di numero seguendo la stessa tendenza della produzione e dei profitti, fino a quando, nel 1927, Walt e roy non ne ebbero sotto contratto, in totale, oltre venti, la maggior parte dei quali non avevano conosciuto Walt a Kansas City. Le scadenze di consegna potevano generare crisi di liquidità; questo avvenne nel 1926, quando Disney fu costretto a fare produrre un’imprevista

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scorta di girato relativo alle Alice comedies per soddisfare le pressanti richieste della fBo. Non faceva che duellare con Charles Mintz il quale, nonostante occasionali concessioni, non riusciva assolutamente ad accettare la perseveranza di Disney nel comportarsi come un uomo d’affari indipendente qual era, piuttosto che come un impiegato sottomesso. Disney era un cineasta di successo – i suoi profitti per ogni disegno animato erano saliti a circa 1000 dollari – ma la sua ascesa portava con sé un prezzo, parte del quale si traduceva nel suo progressivo allontanamento dalle persone che erano state suoi amici, o che tali avrebbero potuto essere. In un’occasione, nel 1927, Disney reagì perfino arrabbiandosi per le caricature che gli animatori avevano disegnate gli uni degli altri e che avevano appese alle pareti per divertimento, niente di più che un passatempo consueto in tutti gli studi d’animazione. «Una delle poche volte in cui vidi Walt arrabbiato fu un giorno in cui fu stufo di vederci perdere del tempo su quei disegnini», scrisse Max Maxwell nel 1973. «si mise a setacciare lo studio in lungo e in largo e li staccò tutti dai muri».80 Maxwell, un altro veterano della Laugh-o-gram, era entrato nello staff Disney nel maggio 1927 ma se ne andò dopo soli nove mesi, trovando questo nuovo ambiente troppo competitivo e psicologicamente logorante. Isadore «friz» freleng, che si unì allo staff il 15 gennaio 1927, durò meno di otto mesi: se ne andò il 1° settembre. Alla Kansas City film Ad, riferisce Maxwell, freleng era «un tipetto ebreo dai capelli rossi che tutti prendevano di mira».81 freleng era di un anno più giovane di harman e di Ising, che erano nati entrambi nell’agosto 1903, e di tre più piccolo di Disney; non era fra coloro che avevano conosciuto Walt a Kansas City. Lo stesso freleng disse a Joe Adamson: «da bambino ero divenuto piuttosto sensibile, perché ero molto più bassino degli altri ragazzini e dovevo sempre stare sulla difensiva, perché ne divenivo il bersaglio. Walt se ne accorse e prese l’abitudine di sfottermi un po’, ma, che fosse per l’altezza o per altro, non penso che avesse per davvero l’intenzione di offendere. [Però] quando mi diceva qualcosa di scortese non mi andava giù e gli rispondevo per le rime».82 Una sera freleng chiamò Disney a casa, «dicendogli che mi ronzava per la testa qualcosa che mi dava fastidio. […] Gli ci vollero solo pochi minuti per venire a prendermi in auto dove abitavo in quel periodo, in un pensionato. Non avrebbe lasciato che gli dicessi una

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sola parola finché non fossimo arrivati allo studio. si mise dietro alla sua scrivania e prese un sigaro. Mi chiese di sedere di fronte a lui e disse: “ora comincia a parlare”. Gli dissi quanto mi mandasse su di giri a livello emotivo e gli ricordai le sue lettere a me dirette nelle quali sottolineava la sua grande pazienza nel seguire il mio processo di apprendimento nell’animazione [per come Disney voleva che fosse eseguita]. si scusò e si complimentò con me per avere avuto la forza di dirgli ciò che pensavo. Disse che per me aveva un grande rispetto, ma non penso che mi rispettasse davvero, sinceramente, perché dopo le cose divennero praticamente insostenibili». Alla fine, un’ulteriore discussione portò freleng a lasciare lo staff.83 Lo scarso ammontare di prove sull’episodio lascia pensare che Disney considerasse il tipo di animazioni di friz freleng alla stessa stregua di quelle di hugh harman. freleng in seguito avrebbe lavorato nell’animazione per molti anni, per lo più come regista presso lo studio di animazione della Warner Brothers.84 Non v’è alcuna ragione per ritenere che Disney si fosse rivolto contro di lui per un’eventuale sua maldestrezza tecnica (o perché freleng era ebreo, ciò che risulterebbe una pura illazione). La crescita dello studio e le battaglie contro Mintz avevano messo Disney sotto un’incredibile pressione ed egli stava reagendo alle difficoltà come aveva e come avrebbe fatto in altre circostanze: sfogandosi con i suoi sottoposti. Il crescente disappunto per queste situazioni fece tendere le orecchie a diversi artisti della Disney nel momento in cui Charles Mintz li contattò nell’estate del 1927, proponendo loro l’apertura di un nuovo studio per la realizzazione dei disegni animati di oswald. Ad agosto, Ising scrisse a ray friedman, un amico suo e di harman che stava a Kansas City: «I Winkler ci hanno fatto un’offerta concreta per un film per un prossimo anni [sic]. I Winkler sono ai ferri corti coi Disney e, con la scadenza dell’attuale contratto, non vorranno più fare affari con loro. E il contratto scade nell’aprile 1928». Anche Iwerks stava progettando di lasciare, disse Ising, «per cimentarsi in un’impresa privata».85 Mentre discutevano con Mintz e George Winkler, harman e Ising continuavano a lavorare sul loro film, senza che Disney ne sapesse nulla. Nel novembre 1927 ray friedman si trovava a Los Angeles. Ising scrisse a freleng, che se ne era tornato a Kansas City, che friedman era «attualmente in una fase di trattativa con il direttore generale dei Cecil DeMille studios.86 […] ray si sta ado-

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perando con tutte le sue energie per assicurarci un contratto e predisporre tutto per dare inizio alla produzione. Non dovrebbe volerci molto, ormai».87 Mintz, che negli anni Venti si recava a volte a Los Angeles, si incontrò e parlò di persona con i membri dello staff della Disney che stava cercando di sottrarre a Walt. «Ci vedemmo con lui in vari posti», disse Paul smith. «Per incontrarci faceva delle telefonate e organizzava tutto lui».88 Mintz e gli impiegati insoddisfatti dello studio Disney, in realtà, stavano più che altro cercando di tirar la corda, ciascuna delle parti sperando che saltasse fuori un accordo più conveniente; nel caso di Mintz, con lo stesso Walt Disney in persona. Dopo mesi di appuntamenti e telefonate Mintz non aveva firmato contratti con alcuno degli animatori Disney, ma nel febbraio del 1928 tutti erano pronti a muoversi. Il 10 febbraio Ising scrisse a freleng: «I nostri progetti per ottenere un contratto per realizzare dei film tutti nostri per quest’anno sono falliti, così stiamo per accettare un’altra ottima offerta. hugh, Max, ham [rollin hamilton] e io stiamo per firmare un contratto d’assunzione di un anno con George Winkler per la realizzazione di “oswald the Lucky rabbit”».89 Iwerks non avrebbe lasciato lo studio Disney per andare con loro; la sua «impresa privata», qualsiasi cosa fosse, era sfumata. Dieci giorni dopo Disney era a New York, per quella che probabilmente dovette essere la sua prima visita in città dopo le due volte che era passato di lì per la sua trasferta in francia e al suo ritorno, dieci anni prima. si trovava là per negoziare un rinnovo del suo contratto con la Winkler Pictures, ma Mintz esigeva che il rinnovo avvenisse in termini tali che equivalessero a una completa rinuncia di Disney alla propria indipendenza. Così Disney riassunse, in una lettera a roy, le trattative: «Charlie è fortemente determinato ad assumere il controllo totale e farà tutto quanto in suo potere per raggiungere il suo obiettivo».90 Disney, da parte sua, era convinto «che se facciamo un qualsiasi tipo di affari, essi devono fondarsi su basi più eque».91 Mentre cercava un altro distributore, Disney, nel parlare con Mintz, prese tempo; si videro varie volte, o da soli o con le mogli, sia nell’ufficio di Mintz sulla Quarantaduesima strada ovest sia a pranzo e a cena (una volta pure a casa dei Mintz); e sempre in termini amichevoli. Ma nessun altro era interessato. Il mercato per i cortometraggi era debole, gli avevano detto, e fred Quimby della MGM92 lo avvertì che i cartoon, in particolar modo, erano in declino.93

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Non è chiaro quanto fossero state esplicite le minacce di Mintz a Disney circa la perdita di vari membri chiave dello staff, ma Walt era abbastanza preoccupato da inviare un telegramma a roy il 1° marzo, indicandogli di far firmare ai «ragazzi» dei contratti «di ferro». I «ragazzi» rifiutarono di firmare e, come Walt scrisse a roy il 2 marzo, ciò significava «una sola cosa: sono stati turlupinati da Charlie, perché io so com’è il mercato là fuori e invece loro non ne hanno la minima idea».94 Disney, per un po’, fu indeciso sul da farsi; dopo avere parlato con alcuni produttori esecutivi della Universal considerò l’idea di firmare con Mintz per un anno ancora, nella speranza che la Universal stessa, nel 1929, si accordasse direttamente con lui, senza passare per Mintz. Ma quando si incontrò nuovamente con Mintz, trovò «impossibile» fare affari con lui perché le sue richieste erano eccessivamente rigide.95 Dopo tre settimane a New York interruppe tutte le trattative e tornò a Los Angeles, il 13 marzo 1928. La Universal era proprietaria del personaggio oswald, perciò Disney non aveva altra scelta che inventarsene uno nuovo. Tornando a casa in treno da New York, disse Lillian nel 1956, «parlava di un sacco di cose, gattini e gattoni e via così. Be’, i topolini sono animaletti molto carini e [a un certo punto Walt] cominciò a parlare solo e solamente di questo topino. Quindi è da qui che Walt tirò fuori Mickey Mouse: sul treno che ci riportava a casa, tutto da solo e senza chiedere nulla a nessuno. stabilì che si trattava proprio di una bella idea».96 In seguito Disney parlò dell’affetto per i topini sviluppato a Kansas City: «me li ritrovavo di mattina nel mio cestino vuoto. Ne tenevo diversi in una gabbietta sul mio tavolo da disegno e mi divertivo a osservare quanto erano buffi».97 Non c’era, comunque, niente di insolito nella scelta di un personaggio dei cartoon che fosse un topo. Nei disegni animati degli anni Venti c’era una pletora di topi. I disegni per la verità semplici e sintetici nella maggior parte di quei cartoon potevano rendere assai difficile distinguere un animale dall’altro, perciò le orecchie più grandi di un topo, se tradotte in cerchi o in ellissi neri, erano una benedizione. Paul Terry animava una coppia di topi – entrambi di dimensioni quasi umane, come i Topolino e Minni di Disney – in molti cartoon proiettati alla fine del 1927 e all’inizio del 1928. Un più dettagliato resoconto di quel viaggio di ritorno dal punto di vista di Lillian Disney si trova nel citato articolo sulla rivista

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Mccall’s, e quel che dice sul nome che venne dato al nuovo personaggio di Disney – e, specialmente, sull’umore generale di Lillian nel 1928 – è pienamente attendibile: Mi ricordo i primi giorni a hollywood, quando Walt e roy erano così al verde che andavano al ristorante e ordinavano la cena per uno solo, dividendosi le portate. Ma di questo non m’importava un fico secco. Piuttosto, non potevo credere che mio marito volesse produrre e distribuire film per i fatti suoi, come le grandi compagnie. Lui e roy possedevano, fra tutt’e due, solo poche migliaia di dollari. I film richiedevano grossi finanziamenti, perfino nel 1927 [sic]. E se Walt avesse fallito? Aveva insultato il suo distributore e non aveva nemmeno trovato un nuovo aggancio. All’epoca in cui Walt terminò la sceneggiatura [per Plane crazy, il primo cortometraggio con Topolino] io ero praticamente in stato di choc. Me la lesse, e improvvisamente tutte le mie angosce scoppiarono in una singola, violenta critica alla sceneggiatura. «“Mortimer” è un nome orribile per un topo!», esclamai. Walt obiettò – sa essere assai convincente – ma io non vacillai. Alla fine, per rasserenare la sua testarda moglie, Walt se ne venne fuori con un altro nome, «Mickey Mouse». Ancora oggi, dopo tutto questo tempo, non ho proprio idea se questo sia un nome migliore di «Mortimer». Nessuno lo saprà mai. Però sento una speciale affinità con Mickey perché lo aiutai a trovare questo nome. E poi Mickey mi ha insegnato molto su cosa sarebbe stato essere sposata con Walt Disney. Da quel momento non siamo mai più stati così poveri come allora, almeno non in modo così evidente. Ma a volte ho temuto per il peggio. E tornare con la memoria a quei giorni è stato spesso d’aiuto.98

Gli animatori vogliosi di andarsene rimasero in studio per alcune settimane dopo il ritorno di Disney, completando gli ultimi cinque Oswald che da contratto con Mintz dovevano essere terminati. A partire dalla fine di aprile, Iwerks animò il primo Mickey Mouse in una stanza sul retro dello studio, con Ben Clopton che lo assisteva in alcune operazioni. harman ricordò che quel lavoro procedeva come sotto copertura, ma ciò può essere durato solo per poco tempo.99 Lillian Disney, la sorella hazel sewell e la moglie di roy, Edna, inchiostrarono e colorarono i cel dentro l’autorimessa, nelle case dei Disney sulla Lyric Avenue (Lillian tornò nell’elenco paga della Disney dal 28 aprile al 16 giugno 1928). Gli animatori che sta-

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vano lasciando lo studio per andare a lavorare con i Winkler non erano autorizzati a sapere ciò che Iwerks stava facendo, ma harman disse a Paul smith che «Ub stava animando un film con un personaggio di nome Mickey Mouse».100 Probabilmente la fonte di harman sull’informazione fu Clopton; questi lasciò la Disney il 12 maggio 1928, una settimana dopo harman, smith e hamilton. Quel primo cortometraggio di Topolino, Plane crazy (‘L’aeroplano matto’), venne portato a termine e visionato in anteprima il 15 maggio 1928.101 Disney cercò di sfruttare l’interesse dell’opinione pubblica per Charles Lindbergh, che appena l’anno prima aveva compiuto la prima trasvolata in solitaria dell’oceano Atlantico. Un secondo cortometraggio, The Gallopin’ Gaucho (Topolino Gaucho), che Iwerks animò fra giugno e l’inizio di luglio, omaggiava i film d’avventura con Douglas fairbanks, specialmente The Gaucho.102 L’animazione per i nuovi disegni animati, nello stile meccanico di Iwerks, era un evidente passo indietro rispetto a quella più raffinata di harman e hamilton per i cartoon con oswald, come il citato Bright Lights, ma probabilmente non era questo il motivo per il quale Disney non ricevette alcuna offerta dai distributori che videro la copia di Plane crazy da lui inviata ad una compagnia di New York alla metà di maggio. Come harman e Ising avevano già imparato – e Disney stesso doveva essersene fatto un’idea, dopo i suoi sforzi vani a New York nei mesi precedenti di quel 1928 – per la maggior parte dei distributori non c’erano richieste per nuove serie di corti animati. La breve esplosione di popolarità all’inizio degli anni Venti era ormai acqua passata; dei distributori maggiori, solo la Paramount e la Universal davano ancora cartoon nei cinema. Nella primavera del 1928 l’industria cinematografica stava ancora assorbendo l’impatto dei primi film sonori. Il primo completamente parlato, Lights of New York,103 non sarebbe stato proiettato a New York prima di luglio. Disney si rese allora conto che se avesse aggiunto il suono ai suoi disegni animati quello sarebbe stato il modo per farli risaltare. Il fatto è che in quel periodo ancora non era affatto chiaro che i film sonori avrebbero del tutto soppiantato il muto, se si mette da parte la Warner Bros. la quale, per alcuni film muti come Don Juan,104 aveva pre-registrato l’esecuzione di un’orchestra facendola poi diffondere in sala al posto dei brani musicali eseguiti di solito, all’epoca, sul momento. E, rispetto al nostro discorso, non era ancora chiaro se e quanto il sonoro avrebbe costituito un’evoluzione per i disegni animati.

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Le colonne sonore musicali erano state registrate per alcuni cartoon di Max fleischer dei primi anni Venti, mediante il processo De forest.105 Il suono inoltre era stato occasionalmente usato come accompagnamento di cartoon muti in modi più ingegnosi. frank Goldman dello studio Bray riferì di come l’orchestra di un cinema di New York avesse vocalizzato degli «ah-ah-ah» durante la proiezione di un disegno animato educativo sempre dello studio Bray sulla voce umana, dando un’«imprevista marcia in più» al film.106 Ma c’era una bella differenza fra questi usi limitati del suono in un cartoon e una colonna sonora pienamente integrata, nella quale l’animazione fosse sincronizzata con musica e rumori. L’intuizione chiave di Disney fu che sarebbe stata questa integrazione, invece che il solo suono in sé, a fare il successo di un cartoon sonoro. Alla fine di giugno scrisse a diverse società newyorkesi circa i costi necessari all’aggiunta del suono sincronizzato nei suoi disegni animati. Il 14 luglio roy Disney inserì nel suo registro contabile una voce di spesa di tre dollari e cinque centesimi per «sheet Music for Pic», cioè spartiti per musiche di film. Wilfred Jackson entrò nello staff di Disney il 16 aprile 1928, appena in tempo per essere testimone della realizzazione, da parte dello stesso Disney e di Iwerks, dei primi due corti di Topolino. Grazie alle sue conoscenze in fatto di musica – limitate, ma maggiori di quelle della maggior parte del resto dello staff Disney – venne coinvolto, durante l’estate del 1928, nella produzione del terzo cartoon con Topolino, Steamboat Willie (Willie del vaporetto), il primo sonoro. Ci ha lasciato in proposito questa testimonianza: Il diario di lavoro cominciò con un «incontro sulle situazioni comiche» che si svolse a casa o di Walt o forse di roy. L’intero staff animazione, Ub Iwerks, Les Clark, Johnny Cannon, perfino io, benché stessi appena iniziando a imparare [ad animare], eravamo lì con Walt e roy. Il canovaccio della storia – una situazione, o forse solo un’ambientazione, o anche solo l’imitazione parodica di una persona conosciuta – di solito era tutto ciò che Walt aveva in testa [e che ci serviva] per dare inizio all’incontro su questi primi Mickey. su Steamboat Willie ci fu soltanto l’idea della canzone, «steamboat Bill»,107 e lo scenario di un battello sul Mississippi. Tutti tirarono fuori qualche idea che Walt potesse prendere in considerazione per il soggetto, specie delle scene buffe che potessero suscitare una risata. Non mi pare che

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da queste idee alla fine fossero venute fuori molte scene. Più che altro penso che avessimo parlato molto, e basta. E non credo nemmeno che da quegli incontri preliminari stabilimmo una qualche trama o una sequenza di scene. Ub lasciò il suo tavolo da disegno e passò i giorni seguenti all’incontro al lavoro con Walt, nel suo ufficio. La cosa successiva che vidi sul film furono alcuni schizzi di Ub su carta per animare. […] Quando Walt fu pronto per temporizzare l’azione e preparò i fogli macchina,108 aveva ancora questi schizzi sul tavolo, ma non li teneva granché in considerazione. sembrava custodire in mente tutta la storia del film, così come i particolari di ogni singolo elemento tecnico, e padroneggiare con esattezza ciò su cui stava lavorando, senza bisogno di alcun promemoria. Aiutai Walt nel lavoro di temporizzazione delle animazioni al meglio delle mie capacità, con l’armonica e il metronomo – svolgendo la funzione che per i film successivi sarebbe stata espletata da un musicista al pianoforte – e potei osservare il modo in cui toglieva parti dell’azione in vari modi, eliminando un qualcosa qui, provando qualcosa di nuovo là, ricalibrando l’ordine di altri elementi del film, finché il tutto non gli diede l’impressione di incastrarsi adeguatamente con le musiche che aveva scelte e finché finalmente non fu soddisfatto per la compattezza narrativa del risultato. A lavoro concluso ogni singolo, minimale evento che doveva avere luogo nell’intero cartoon era stato visualizzato in tutti i particolari; e l’arco di tempo che ciascuna azione doveva durare sullo schermo era stato determinato con precisione. Così, mentre Walt calcolava i tempi del film, stava anche ideando la parte finale della storia; e il modo in cui essa finiva era bella che cambiata rispetto a com’era quando il lavoro di temporizzazione era iniziato; ma dopo, quando il cartoon fu completato, venne fuori precisamente come Walt lo concepiva adesso.109

Jackson elaborò il modo per incastonare musica e animazione, cosicché la sincronizzazione fosse perfetta. Usando un metronomo, preparò «un piccolo, rudimentale spartito», una sorta di primitivo componimento. «Nei punti per i quali avevamo in mente dei precisi brani musicali, scrivevamo il titolo del pezzo e la melodia v’era segnalata in soldoni, non con il pentagramma ma solo con delle note che salivano o scendevano […] in modo da potere seguirle a mente».110 Jackson preparò lo spartito «quasi in simultanea» con il lavoro di Disney sui fogli macchina per gli animatori.

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Per gli Alice e gli Oswald muti, Disney aveva scritto i fogli macchina dopo il lavoro degli animatori sulle sequenze, ma adesso doveva essere fatto il contrario, perché il timing degli animatori avrebbe dovuto essere più preciso. Jackson produsse uno spartito per ciascun motivo che Disney voleva adoperare; e Disney usò gli spartiti per indicare i tempi e le battute sui fogli macchina.111 Egli non indicò le azioni in dettaglio, nei fogli macchina. Invece v’ è presente un’accurata sinossi di ogni singola scena battuta a macchina – quasi di sicuro da Disney stesso – a fianco degli schizzi di Iwerks; ogni sinossi descrive il modo in cui la musica e l’azione dovevano essere collegate.112 Iwerks avrebbe animato la maggior parte del film e quelle sinossi, insieme ai fogli macchina, gli dicevano ciò che aveva bisogno di sapere. «Quando il film fu quasi terminato», avrebbe scritto Disney anni dopo, «lo proiettammo col sonoro.113 Un paio dei miei ragazzi sapevano leggere la musica e uno di loro [Jackson] era in grado di suonare un’armonica. Li piazzammo in una stanza dove non potevano vedere lo schermo e facemmo in modo che la musica venisse convogliata fino alla camera nella quale le nostre mogli e vari amici avrebbero assistito alla proiezione. I ragazzi eseguirono uno spartito contenente musica ed effetti sonori. Dopo qualche falsa partenza, suoni e azioni procedettero all’unisono. L’armonicista eseguì il motivetto e il resto di noialtri nel reparto rumori stavamo a percuotere pentole di latta e a soffiare dei fischietti, a tempo. La sincronia fu proprio buona. L’effetto sul nostro ristretto pubblico fu a dir poco elettrizzante. risposero in modo pressoché automatico, naturale, a questa fusione di suono e movimenti. Pensavo mi stessero prendendo in giro. Allora mi trattennero lì per farmi assistere e proiettarono nuovamente il film. fu uno spettacolo inquietante, ma anche meraviglioso! Ed era una cosa nuova!».114 si può trovare, anche in questa testimonianza di Disney, un poco della sua «esuberanza». Wilfred Jackson ricordò che le mogli di Walt e di roy, la moglie di Ub Iwerks e la propria fidanzata «non furono particolarmente colpite; non facevano che parlare di taglio e cucito e di quelle cose di cui in genere discutono le ragazze». sembra pure plausibile che Disney si fosse sbagliato nel ricordare che i «musicisti» non potessero vedere il cartoon mentre suonavano. Jackson ricorda che roy Disney proiettò il film su di un lenzuolo disteso di fronte al pannello di vetro della porta dell’ufficio di Walt, cosicché i suoi colleghi potessero guardare il film al contrario, at-

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Steamboat Willie (Willie del vaporetto, di Walt disney e ub Iwerks, 7’, usa 1928) fu il primo cartoon di topolino a essere proiettato nelle sale e a presentare un suono in tutto e per tutto sincronizzato alle immagini. © disney

traverso il vetro, mentre suonavano nell’ufficio.115 Ma Jackson ricorda pure che Iwerks «aveva predisposto un piccolo microfono e una cassa audio»; non v’è dunque ragione di dubitare che Disney e la sua squadra fossero estasiati da ciò che videro e ascoltarono. Steamboat Willie fu chiuso, senza l’audio, a fine agosto, allorché Disney prese il treno per New York nel tentativo di fare registrare la sua colonna sonora. Lillian non era con lui. fece tappa a Kansas City per incontrarsi con Carl stalling, l’organista dell’Isis Theatre, che Disney conosceva fin da quando lavorava alla Kansas City film Ad all’inizio degli anni Venti. «Walt, all’epoca, realizzava brevi filmati pubblicitari», disse stalling nel 1969, «ed eravamo noi a proiettarglieli. facemmo conoscenza e composi per lui diverse musiche per i suoi film»;116 ovvero, film cantati, come il successivo Martha, che mostravano i versi sullo schermo mentre il musicista del cinema eseguiva la canzone. Dopo che Disney si fu trasferito a Los Angeles, stalling gli prestò 250 dollari (che poi Disney gli restituì).

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Disney lasciò a stalling i due corti di Topolino muti, in modo che questi potesse iniziare a comporne i commenti musicali. Disney giunse a New York il 4 settembre 1928, il giorno dopo il Labor Day;117 ricordò la massa di gente che tornava da gite ed escursioni varie. Mentre si faceva il giro degli studi di registrazione, gli capitò di vedere un disegno animato, una Aesop’s fable intitolata Dinner Time (‘L’ora di cena’),118 con una colonna sonora che gli ingegneri della radio Corporation of America (rCA) avevano aggiunta in via sperimentale. Le fables erano altrimenti mute. Così come, del resto, lo erano i cartoon di Mintz, e non solo la serie con oswald ma anche i corti di krazy kat che Mintz stava producendo lì a New York.119 Disney ebbe notizia di un tentativo di realizzare un cartoon di krazy kat in sonoro, con risultati così scarsi che quel cartoon non sarebbe mai stato proiettato, per lo meno non con l’audio. Disney non si scoraggiò per quello che vide di queste maldestre sperimentazioni. Quando scrisse a roy e ad Ub Iwerks tre giorni dopo il suo arrivo a New York, ritenne che il suono fosse uno stimolo al miglioramento: «per noi non è affatto impossibile svilupparci, in questo campo del sonoro, tanto quanto [i produttori di commedie hal roach e Mack sennett] e altri hanno fatto nel muto».120 Una settimana dopo, scrisse loro ancora a proposito della sua forte convinzione nel futuro dei cartoon sonori e dell’importanza della qualità: certezza che stava per assecondare pagando un’orchestra di diciassette elementi (più tre per gli effetti sonori) per la registrazione della colonna sonora di Steamboat Willie.121 In quella settimana passata dal suo arrivo a New York, Disney aveva deciso di registrare la colonna sonora di Steamboat Willie con il Powers Cinephone, un sistema di dubbia legalità che in qualche modo era riuscito ad aggirare le leggi sui brevetti registrati dalle compagnie maggiori; Disney annotò, in una lettera scritta poco dopo il suo arrivo, che «il metodo Powers è completamente intercambiabile» con i sistemi rivali, il Movietone e quello della rCA.122 Il Powers Cinephone prendeva il nome da Patrick A. Powers, un pittoresco manigoldo irlandese che ai primi del secolo era stato una figura influente dell’industria cinematografica, allorché lui e Carl Laemmle si contendevano il controllo della Universal. Disney rimase impressionato dalla ricchezza di Powers e dalla sua palese rilevanza in quel mondo, e affascinato dal suo carisma – «è un dandy. […] È un tipo raffinato»123 – ma è pur vero che aveva ben poca scelta. Aveva capito quasi all’istante che solo Powers e la rCA

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erano buoni candidati per il tipo di registrazioni che aveva in mente, ma la rCA avrebbe anche finito per farlo indebitare molto, molto di più di quanto egli potesse sostenere. Nel 1928 i Disney non erano affatto poveri, ma le loro risorse erano principalmente costituite dall’edificio che ospitava il loro studio e tutta la loro attrezzatura, piuttosto che denaro. Non disponevano di sufficiente liquidità per spendere migliaia di dollari in sessioni di registrazione. La prima seduta di registrazione ebbe luogo dalle 23,30 di sabato 15 settembre alle 4 del mattino successivo.124 A fare la voce di un pappagallo fu lo stesso Disney. Nel 1956 ricordò: «dovevo urlare “uomo in mare! uomo in mare!”, ma mi emozionai così tanto, ed ero proprio di fronte al microfono, che in una delle registrazioni tossii proprio addosso all’apparecchio. Questo rovinò la scena e tutti si girarono verso di me e dissero “ma chi è stato?”». Il risultato di quella prima sessione di registrazione fu insoddisfacente, ma per altre ragioni che non per la prestazione di Disney nella parte del pappagallo. Aveva portato con sé in quella seduta un filmato che una compagnia che realizzava trailer cinematografici aveva fatto su sua richiesta; consisteva in una palla che rimbalzava a tempo con la musica che sarebbe dovuta servire per Steamboat Willie. Walt sapeva che durante l’effettiva registrazione un espediente del genere avrebbe avuto una sua utilità, affinché la sincronizzazione fosse ben coerente con il sistema da lui adottato con la musica su pentagramma associata al timing delle animazioni. Il direttore, Carl Edouarde, era però vistosamente riluttante a prestare una concreta attenzione alla pallina, e il risultato fu che la sincronia ne soffrì. Ci furono dei problemi anche con alcuni effetti sonori. Quindi fu programmata, per il 30 settembre, una seconda seduta. Disney fu sorprendentemente noncurante dei costi, in una lettera del 23 settembre a roy e Iwerks: «Perché dovremmo lasciare che una manciata di dollari [mandino all’aria] le nostre possibilità [?] […] Possiamo battere tutti, con la Qualità».125 Due giorni dopo, scrisse a roy circa il fatto di destinare più denaro ai cartoon per realizzarli il meglio possibile: «Dio ci aiuti a uscirne bene: siamo persone oneste e ce lo meritiamo».126 Nella missiva del 28 settembre liquidò le preoccupazioni di roy sulle spese legate alla seconda seduta di registrazione per Steamboat Willie: «Dimentica questi piccoli dettagli e concentrati su qualche bella GAG. […] saranno le GAG a farci avere successo, molto più che tutti i pensieri e preoccupazioni sui quali stai sempre a rimuginare».127 Per allora

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aveva già dato a Pat Powers due assegni, per un totale di 1500 dollari. Le sue lettere al fratello e all’amico erano lunghe e tergiversavano: erano intense, sì, ma divagavano, tradendo la frustrazione per il fatto che lì non c’era «assolutamente nessuno con cui parlare. […] Mi ritrovo un sacco di volte a pensare che vorrei perfino chiamare un fattorino [qui in albergo] e dargli una mancia per poterci scambiare due chiacchiere».128 La seconda seduta, che ebbe inizio alle 10 di domenica mattina, fu un successo, con una sincronizzazione di suoni e immagini molto più precisa. La palla che rimbalzava era stata sovrimpressionata su una copia di Steamboat Willie, nello spazio destinato alla banda sonora di fianco ai fotogrammi del film, e stavolta Edouarde la prese sul serio. I musicisti suonarono con le spalle al cartoon: solo Edouarde poteva vedere la pallina saltellante, ma la sincronia fu così perfetta che per esempio non ci fu bisogno, per il suonatore del piccolo che eseguiva il fischiettìo di Topolino, di guardare il personaggio o la palla sullo schermo.129 «L’unica cosa che ci mancava», scrisse Disney, «era lo spartito completo per l’orchestra con tutti gli effetti descritti accuratamente», cioè i rumori integrati nell’esecuzione musicale. Walt non era del tutto soddisfatto di alcuni effetti, disse, ma Steamboat Willie era un lavoro riuscito nell’elemento più importante: «mi ha dimostrato una cosa, che “si può fare alla perfezione”, e questa è la cosa su cui invece tutti loro [allo studio di registrazione] sono proprio rimasti con un palmo di naso».130 L’orchestra inoltre era più piccola di quanto previsto e, come Disney aveva scritto alcuni giorni prima, lo spartito stesso era stato «tutto riscritto per accordarsi all’azione» dalla figura dell’«arrangiatore», un elemento di certo importante per Steamboat Willie ma mai realmente identificato con precisione, in quell’occasione.131 Le indicazioni musicali di Wilfred Jackson non dovettero essere sufficienti come spartito da seguire per l’esecuzione da registrare, così qualcuno fu costretto a tradurre in vera musica ciò che lui e Disney avevano scritto. Non fu Carl stalling a riversare il tutto in accordi – era a Kansas City, al lavoro sulle musiche per i due cartoon muti di cui s’è già detto – e non c’è nulla nelle lettere di Disney che suggerisca chi fosse stato. Disney onorò il ruolo dell’arrangiatore con l’apparizione nei titoli di testa in qualità di compositore di una «completely original score» che non si basava su alcuna musica «tassabile», cioè a dire musica protetta da diritti d’autore: «Le

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musiche per steamboat bill [sic] sono state tutte scritte dall’arrangiatore». Nel 1928 in realtà la canzone Steamboat Bill era ancora protetta da diritti d’autore e si tratta di un motivo primario della colonna sonora. L’uso della canzone da parte di Disney non fu regolarmente autorizzato dal titolare dei diritti fino al 1931.132 Dopo diverse settimane inebrianti passate in compagnia di Powers, Disney stava pensando, in termini piuttosto megalomani, di produrre cinquantadue Mickey Mouse cartoons all’anno: uno alla settimana, la stessa periodicità che Paul Terry stava raggiungendo con le sue Aesop’s fables. «Credo che avremo una buona [organizzazione] di base se solo aggiungiamo qualche bravo animatore e [riusciamo a rendere sistematico] il tutto», scrisse a roy e a Iwerks; era il periodo in cui Walt aveva perso la maggior parte dello staff e gli restava un solo animatore esperto.133 Nelle settimane seguenti Disney mostrò Steamboat Willie ai potenziali distributori di New York. «santo cielo, se faceva ridere […] ma non ricevevo che rifiuti», disse nel 1956. Durante quell’autunno, nelle lettere al fratello e a Iwerks, Disney rimaneva perennemente ottimista, scrivendo in termini entusiastici sulle loro opportunità di essere distribuiti da una major anche se tutte queste possibilità sfumavano una dopo l’altra. Martellava Iwerks, in tutti i modi e in termini quasi maniacali, perché terminasse al più presto l’animazione di un nuovo corto con Topolino, The Barn Dance (‘La danza del granaio’). «Ascolta, Ub, fa’ vedere a tutti un po’ della tua cara vecchia Velocità. […] AMICo, mettiti a lavorare di brutto. […] È la nostra unica GrANDE oPPorTUNITà per fare soldi a palate»; in questo modo Walt stesso e Carl stalling avrebbero potuto registrarne la musica insieme a quelle per gli altri due cortometraggi già pronti, Plane crazy e The Gallopin’ Gaucho.134 Disney stava provando a supplire in questo modo alla sua assenza poiché di certo, se fosse stato a Los Angeles, sarebbe stato tutto il tempo addosso a Iwerks. Adesso le sue lettere erano battute a macchina – invece nelle prime visite a New York le aveva composte a penna – e la maggiore velocità di composizione che la macchina da scrivere gli consentiva lo incoraggiava a dilungarsi. E quando ricevette copia della prima parte di The Barn Dance, il 22 ottobre, fu, come facilmente prevedibile, per così dire deluso: si trattava in fondo del primo dei suoi corti che avevano raggiunto questo stadio avanzato della produzione con una supervisione da parte sua davvero minima.135

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In altre occasioni, quando scrisse a roy e Iwerks a proposito di Powers e di altri produttori esecutivi, era così entusiasta da sembrare perfino ingenuo; c’era giusto una piccola traccia di cinismo, anche se a volte farcita da maggiori manifestazioni di preoccupazione, a causa delle sue esperienze con Mintz. Nelle sue lettere a Lillian fu più esplicito, ma anche nel comunicare con lei, come fece in una missiva del 20 ottobre, Powers era considerato un caso a parte: Quel che è certo, ho ggià [sic] imparato un bel po’ di cosette su questo gioco. […] È la partita più schifosamente incasinata che mi sia mai capitata per le mani. […] Una cosa è sicura: richiede, per essere gestita efficacemente, una mente astuta e perfettamente concentrata. […] Ci sono così tanti maledetti elementi che saltano fuori in continuazione che se uno non ha l’esperienza ecc. ci rimane completamente fregato. Quelli lì sono una massa di doppiogiochisti, che tirano fuori un trucchetto dopo l’altro per fare fesso chiunque in questo ambiente sia di primo pelo. sono davvero felice che ci sia qualcuno a cui riferirmi per avere qualche consiglio. […] sennò sarei né più né meno come una pecorella in mezzo a un branco di lupi. […] ho estrema fiducia e fede in Powers e credo che, se non cerchiamo di forzare troppo la mano, la cosa si risolverà in un successo.136

stalling raggiunse Disney a New York il 26 ottobre 1928. «È bello avere vicino qualcuno che conosco», scrisse Disney alla moglie la sera stessa.137 Walt e stalling dividevano una suite di due stanze al Knickerbocker hotel – «ci lavavamo i calzini nello stesso lavandino», ricordò stalling – e lavorarono insieme sugli spartiti per Plane crazy, The Gallopin’ Gaucho e The Barn Dance.138 Visionarono i corti su una Moviola, una macchina inventata nel 1924 e usata per montare i film, che proiettava al contrario le immagini su uno schermo minuscolo. Disney era stupefatto da questo apparecchio: «Dovremo procurarcene uno da usare in studio».139 Disney non aveva ancora pagato a stalling alcuno stipendio, se non il pernottamento e le spese di vitto, ma anche solamente l’albergo gli stava costando 100 dollari alla settimana. «Assicùrati che roy si occupi delle pratiche di vendita della mia auto e di quelle relative a un ulteriore Prestito [sic] con le nostre proprietà a garanzia», scrisse Walt a Lillian il 27 ottobre. La macchina di Disney era, avrebbe detto nel 1956, «una bellissima Moon roadster di cui ero

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tanto orgoglioso»; presumibilmente l’auto che ricordò anche Lillian nelle sue testimonianze. «Una cabriolet, con il tettuccio che andava giù». Disney l’aveva comprata di seconda mano: «fino a un bel po’ di tempo dopo avere ideato Mickey non fui mai in possesso di un’auto nuova. Ne acquistavo sempre una di seconda mano […] e poi davo in permuta la vecchia per un’altra vettura usata». Ma la Moon invece fu del tutto sacrificata: «scrissi loro di inviarmi il libretto dell’auto. […] Vendettero la mia macchina per pagare le fatture già prima che fossi ripartito [da New York]». harry reichenbach, meglio noto come un pittoresco agente stampa, nella ricostruzione di Disney era direttore del Colony Theatre, a Broadway.140 fu tra le molte persone dell’industria del cinema che videro e alle quali piacque Steamboat Willie. «Venne da me», ricordò Disney nel 1956, «e disse: “voglio metterlo in programma”. […] [E io gli] dissi: “be’, temo che se lo farò proiettare da qualche parte a Broadway, sarò tagliato fuori circa la possibilità di venderlo e ambire a una qualche distribuzione”. E lui mi rispose: “questi qui [distributori ed esercenti] non hanno idea [se il film possa o meno piacere] finché non è il pubblico stesso a scoprirlo. […] Lasciamelo per due settimane”. […] Quindi mi disse: “per due settimane te ne do 500”. E cavolo se avevamo bisogno di soldi; e gli faccio “500 alla settimana”. E alla fine lui mi fa: “e sia, 500 alla settimana”. Mi diedero mille bigliettoni, per proiettarlo. E fu il prezzo più alto mai pagato da chiunque, fino a quel momento, per un disegno animato a Broadway». Per la verità, la cifra pagata da reichenbach per proiettare Steamboat Willie probabilmente non fu di mille dollari.141 In seguito Disney avrebbe detto di averne ricevuti la metà: «ancora non avevamo un contratto di proiezione per Mickey Mouse, ma harry [reichenbach] voleva lo stesso accaparrarselo per il Colony», rammentò nel 1966. «All’epoca avevamo un disperato bisogno di quei 500 dollari. Per farla breve, ogni singola proprietà mia e di roy era del tutto ipotecata. Quindi, per la proiezione del primo Mickey Mouse per una settimana, chiesi a harry 500 dollari. sapevo che il prezzo era di fatto eccessivo. E anche harry. Ma, per nostra fortuna, mi disse: “troviamo un compromesso. Ti do 250 dollari alla settimana e proietto il cartoon per due settimane».142 Può anche darsi, tuttavia, che Disney avesse lasciato che il Colony proiettasse il cartoon perfino gratis. È ciò che la Universal – che fu concessionaria del Colony per circa due anni143 – gli propo-

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se quell’ottobre.144 Dal momento che gli Oswald di Disney erano sotto contratto con la Universal ed erano proiettati al Colony, i produttori della società e i gestori del Colony avevano buone ragioni per ritenere che un nuovo cartoon Disney potesse esservi ben accolto. L’argomentazione della Universal nei confronti di Disney fu che egli avrebbe tratto così tanti vantaggi da una proiezione in quel di Broadway che avrebbe dovuto lasciare che il Colony proiettasse il cortometraggio senza pagarlo. La stessa Universal, probabilmente, non aveva facoltà di stringere alcun accordo con Disney per una serie di cartoon, stante il contratto già in vigore con Mintz.145 In ogni caso, Disney all’inizio di novembre acconsentì che il Colony proiettasse Steamboat Willie.146 Dopo il lungo, lento mese di ottobre, le cose adesso si stavano muovendo molto più rapidamente. Il 13 e 14 novembre, durante la settimana precedente la prima, Disney e stalling supervisionarono la registrazione delle colonne sonore di Plane crazy, The Gallopin’ Gaucho e The Barn Dance. In California, intanto, Iwerks aveva già svolto il lavoro preliminare sulla storia del quinto Mickey Mouse cartoon, intitolato The Opry House,147 e Disney era ansioso di tornare prima che i lavori su di esso avanzassero ulteriormente. Steamboat Willie fu proiettato per la prima volta al Colony domenica 18 novembre 1928 e rimase in programma per tredici giorni, dividendo il costo del biglietto con un pionieristico film sonoro, Gang War,148 e con alcuni atti recitati dal vivo sul palco del teatro. Un annuncio sul New York Times pubblicato il giorno della prima proclamava il cortometraggio di Disney quale «prima e unica commedia a disegni animati dal sonoro sincronizzato».149 Carl stalling ricordò di averlo visto la prima giornata di proiezioni, seduto «quasi all’ultima fila e [udivo] risate e starnazzate per tutto il cinema».150 Steamboat Willie ricevette eccellenti recensioni (il film Daily lo definì «un autentico gioiellino del divertimento»)151 e un’entusiastica risposta del pubblico. Nei giorni in cui il suo cartoon era in programmazione al Colony, disse Disney nel 1956, «io ero lì ogni giorno». Steamboat Willie, per certi aspetti, fu un’innovazione tutta particolare. La sua comicità era sempliciotta come quasi tutte le scenette delle Alice comedies e dei cartoon con oswald e l’animazione, quasi del tutto realizzata da Iwerks, era altrettanto antiquata. Poco dopo l’inizio del film, il gattone alla guida del vaporetto co-

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mincia a darle di santa ragione al povero Willie. Poi il capitano sputa del tabacco da un dente che si alza rispetto agli altri come se fosse la serranda di una finestra, ma il vento contrario gli dirige la bolla melmosa in piena faccia. La storia è ai minimi termini, una mera scusa per situazioni che poggiano platealmente su delle azioni violente comminate sul corpo dei personaggi animali. Willie (cioè Topolino) prende a girare la coda di un caprone come se fosse la manovella di un organetto dopo che l’ovino s’è mangiato dei fogli di spartito musicale; poi afferra una scrofa che sta allattando e le suona le mammelle come se si trattasse di una fisarmonica. Ma tutte queste soluzioni sceniche di bassa lega erano ben sincronizzate con la musica e i rumori, con una precisione del tutto inattesa nel 1928, non solo nell’ambito dell’animazione ma in generale per tutti i tipi di film. Il cartoon combinava suono e immagini senz’alcuna apparente difficoltà, tratto nient’affatto riscontrabile in qualsiasi altra produzione. Perciò non c’è da meravigliarsi per l’incondizionato apprezzamento che sia i critici sia il pubblico gli manifestarono. Pat Powers aveva abbordato l’idea di divenire il distributore di Disney già subito dopo la sessione di registrazione del 30 settembre e Disney aveva firmato con lui un accordo scritto il 15 ottobre: l’idea era che Powers aiutasse Disney a trovare un modo per commercializzare i suoi cartoon.152 Quando parlò con i distributori dopo il trionfale debutto di Steamboat Willie al Colony, rammentò Disney nel 1956, quelli proposero un certo tipo di accordo: assumerlo e non firmare un contratto, per mantenerne l’indipendenza. La faccenda è per certi aspetti buffa, perché l’affidarsi di Disney al Cinephone – un sistema tecnico di dubbia legalità, come detto – rese a loro volta assai riluttanti a firmare un contratto con lui anche altri distributori. Dopo tre mesi passati a New York, Disney e stalling finalmente tornarono a Los Angeles. A quel punto, Disney sperava ancora che Powers potesse concludere per lui un accordo con un distributore nazionale. Invece, Powers firmò un contratto con la catena di cinema attrezzati per il sonoro di stanley fabian Warner.153 Charles J. Giegerich, che trattava con i Disney per conto di Powers, scrisse a Walt, il 31 dicembre: «Le prospettive di pervenire a un accordo per una distribuzione su scala nazionale con una qualsiasi delle grosse società erano, attualmente, così scarse, che abbiamo pensato che la cosa migliore fosse concludere degli accordi

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per la distribuzione stato per stato».154 I nuovi cartoon sonori di Disney sarebbero stati distribuiti né più né meno che come le Alice comedies; non solo era un metodo meno prestigioso di quello nazionale, ma presentava anche vari problemi. Con la distribuzione stato per stato, una data di rilascio sull’intero territorio nazionale avrebbe potuto non arrivare mai. se Disney alla fine fosse riuscito a trovare un distributore nazionale, si sarebbe rischiato che le date di proiezione previste per i nuovi cartoon si sovrapponessero a quelle di altri suoi corti prodotti uno o due anni prima, in tabellone, nel frattempo, in diversi stati secondo i criteri di distribuzione stato per stato. I cartoon più datati avrebbero rovinato la piazza a quelli nuovi, insomma. La sfida che Disney doveva vincere in brevissimo tempo era quella per fare in modo che la sua potente innovazione, il suono sincronizzato, venisse messa nelle condizioni di sfruttare in pieno la sua forza commerciale. Perfino Wilfred Jackson, allora novizio dell’animazione, era conscio di quanto l’operazione potesse rivelarsi difficile. «Per quasi tutti noi […] nei primi tempi, quando entrai in studio», disse, «se ci sembrava che [un oggetto o un personaggio] si muovesse, allora lo consideravamo animazione; e se ci sembrava buffo quando si muoveva, andava già bene». E Disney, continuò, «non […] era poi così avanti rispetto a tutti noi circa la consapevolezza su come arrivare, mediante l’animazione, a realizzare scene convincenti e ad una [autentica] caratterizzazione [dei personaggi]». La «biblioteca» dello studio testimoniava quanto Disney avesse fino a quel momento proceduto a rilento. Consisteva in un raccoglitore di ritagli di disegni umoristici presi da riviste e giornali e due libri – quello di Lutz e quello su Muybridge già incontrati, o comunque pubblicazioni in tema – i quali quasi dieci anni prima erano stati i suoi effettivi «insegnanti» e punti di riferimento.155 Quanto gli orizzonti di Disney fossero a quel tempo limitati fu rivelato in un’annotazione da lui fatta «in qualche momento imprecisato del 1928 […] dopo aver visto uno degli ultimi cartoon con oswald o uno dei primi con Mickey», riferì ancora Jackson. Disney gli disse: «“un giorno farò un disegno animato bello come una fable”».156 Non che fosse proprio una grande ambizione. Le Aesop’s fables di Paul Terry erano disegni animati frenetici, ma era tutto lì. In qualità di corrispettivi animati delle più becere comiche dal vero con inseguimenti, cadute e torte in faccia, esse erano affollate

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da personaggi distinguibili gli uni dagli altri non da come si muovevano o dalle azioni che compivano, ma principalmente grazie alle loro marchiane conformazioni grafiche. Ad ogni modo non v’è ragione di dubitare della memoria di Jackson su questo punto o di credere che Disney stesse scherzando. oltre dieci anni dopo Walt Disney in persona avrebbe scritto: «Anche se eravamo quasi nel 1930, le mie pretese erano quelle di riuscire a fare cartoon buoni come quelli della serie Aesop’s fables».157

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«deVi essere minnie nel profondo»

ideare un topo migliore 1928-1933

Walt Disney e Carl stalling furono di idee diverse sulla musica dei cartoon disneyani quasi fin dal giorno in cui iniziarono a lavorare insieme a Los Angeles, nel dicembre 1928. «Walt era una persona priva di qualsiasi competenza musicale», ricordò Wilfred Jackson. «Era anche una persona incapace di capire se una cosa si potesse fare o meno. Quando pensava che una scena dovesse essere allungata o accorciata al punto tale che non avrebbe più avuto la stessa durata della partitura musicale a cui andava abbinata, si aspettava che il suo musicista trovasse semplicemente, in un modo o nell’altro, la soluzione per espandere o ridurre la lunghezza di quella parte musicale».1 Jackson rievocò «una tremenda sequela di accesissime discussioni» fra stalling e Disney «se una certa musica dovesse essere cambiata o meno; e mi ricordo che alla fine si arrivò a un qualche compromesso: cioè, se Carl fosse riuscito a infilare la dannata musica nelle scene per come Walt la voleva per quel cartoon di Mickey, Walt ne avrebbe prodotto una serie intera […] dove la musica sarebbe stata importante».2 Il Mickey Mouse cartoon in questione era di certo The Opry House, il primo che stalling musicò a Los Angeles. The Skeleton Dance (La danza macabra o La danza degli scheletri), il primo della nuova serie retta dalla musica – intitolata Silly Symphonies (Sinfonie allegre) – entrò in produzione subito, ancor prima che The Opry House fosse portato a termine.

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Disney in seguito avrebbe parlato delle Silly Symphonies come se quei cartoon fossero stati solo una sua idea – «Volevamo una serie che ci permettesse di usare più in profondità i temi del fantastico, del favolistico e del lirico»3 – ma stalling mesi prima aveva già suggerito una serie di questo tipo, probabilmente quando Disney si era fermato a Kansas City intorno al 1° settembre durante il suo viaggio a New York. Disney disse a roy e Iwerks, circa tre settimane dopo, che c’era «un’opportunità fantastica di mettere su una serie di divertimenti [animati] a tempo di musica come quelli che [stalling] aveva in testa. […] Dovremo realizzarne uno e mostrarlo in giro, prima di poter parlare di affari. […] Abbiamo in mente qualcosa dai costi contenuti. […] Andrà bene solo nei cinema col sonoro, e il campo è limitato. […] Quindi deve volerci poco denaro per farlo. Quello che ha in mente, almeno, mi suona come economico».4 Le parole di Disney potrebbero sembrare associabili anche a Steamboat Willie, ma egli ne preparò una versione muta che differiva leggermente da quella sonora. Predispose versioni mute anche di diversi altri Mickey Mouse cartoons successivi. Walt scrisse a roy, il 28 settembre: «ho rimuginato molto sull’idea di Carl della “skeleton Dance” per farne uno spasso Musicarello… Penso che abbia eccellenti possibilità… Con tutti i vari effetti possibili, sarebbe una bellezza». La curiosa punteggiatura, qui, è di Disney. Egli usava i puntini di sospensione molto liberamente, però non a casaccio: come per aiutarsi a suggerire delle libere associazioni d’idee. soleva vagare con la mente mentre pensava a cosa potesse essere inserito in un cartoon su una «danza degli scheletri»: «Penso che potremmo Animare gli scheletri – e sovrimprimerli su un fondale dal vero… E usare anche GUffI [sic] assortiti… PIPIsTrELLI… e altre cose paurose… Una musica sinistra… Gli scheletri che si battono un motivetto sulle costole… Una musichetta suonata su Lapidi tombali di diverse dimensioni… Una danza e un tamburellio di ossa… Alcune usate come strumenti, e tutti i tipi possibili di scenette buffe. Non dovrebbe essere proprio impossibile realizzarle se faremo uso di ripetizioni… e la musica è una cosa piena, di ripetizioni».5 Parlava e scriveva sulle proprie idee per delle storie esattamente nello stesso modo. Ve n’è abbondante prova nelle trascrizioni dagli incontri creativi svoltisi in seguito. Disney e stalling tornarono a New York alla fine di gennaio 1929 per registrare il sonoro di The

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Opry House e La danza degli scheletri. Mentre erano via, Iwerks animò la quasi totalità del secondo. Grazie al sistema che Disney e Jackson avevano messo a punto per Steamboat Willie, non c’era alcun bisogno di completare le animazioni prima che la musica venisse registrata. Tutto quello che serviva era che lo spartito del musicista e il foglio macchina dell’animatore fossero messi in sincronia, così che nel prodotto finale la musica e i disegni andassero di pari passo. Disney lasciò a Iwerks, per La danza degli scheletri, una fitta sceneggiatura di sette pagine, scritta a spaziatura singola e molto dettagliata.6 Mentre Disney si trovava a New York non aveva la minima possibilità di supervisionare da vicino il lavoro di Iwerks, ma un contrasto già in corso fra loro si acuì malgrado si trovassero agli antipodi del paese. Il loro persistente contendere riguardava se Iwerks dovesse animare tutto lui e a mano a mano lasciando a un assistente solamente i dettagli come le costole degli scheletri, oppure, come voleva Disney, che Iwerks si occupasse soltanto di quelli che furono chiamati gli estremi (le pose chiave, specie iniziale e finale, dei movimenti), assegnando le intercalazioni (o in-between, fasi dell’azione comprese tra le pose chiave) all’assistente, la cui qualifica era denominata, per l’appunto, in-betweener, cioè intercalatore. Quando gli animatori iniziarono a usare gli intercalatori, all’inizio degli anni Venti, l’idea era di potere aumentare il proprio rendimento delegando i disegni meno importanti ad artisti meno esperti. Gli animatori avrebbero disegnato gli estremi, le pose chiave che definivano un dato movimento, mentre gli intercalatori avrebbero realizzato i disegni necessari a riempire le animazioni, cosicché sullo schermo non risultassero a scatti. Quel potenziale miglioramento nella produttività era un punto importante in uno studio che faceva affidamento su un singolo animatore, Iwerks appunto, anche se rapidissimo. Per Iwerks, però, i costi del cambiamento si rivelarono inaccettabilmente alti. Le sue obiezioni sono riassunte nelle note di Bob Thomas a un’intervista svoltasi probabilmente nel 1956: «Ub diceva che avrebbe perduto il controllo dell’azione: ne aveva maggiore padronanza [se] animava a mano a mano, lasciando ad altri solo i dettagli da ultimare. Walt non accettò mai questo modo di procedere».7 fu solo quando i disegni di Iwerks arrivarono a essere sincronizzati con precisione con la musica che le caratteristiche centrali del suo stile d’animazione – fluido, regolare, anonimo – diventarono

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tratti vincenti. Ciò che sarebbe potuto sembrare meccanico si rivelò invece come preciso e puntuale. La danza degli scheletri era privo di trama e con poche scene comiche degne di questo nome: si trattava solamente di balletti semplici e ripetitivi da parte di scheletri dalle gambe molleggiate, ma i movimenti rispecchiavano con tale precisione la musica da seguire non solo il ritmo, bensì le singole note, una per una. Nel 1956 Disney disse di aver incontrato considerevoli difficoltà nel far raggiungere a La danza degli scheletri le sale, citando la lamentela di un esercente: «è troppo truculento». Disse di avere allora scovato un «agente cinematografico» in una sala da biliardo e, attraverso di lui, essere riuscito a far vedere il cartoon al direttore del prestigioso Carthay Circle Theatre di Los Angeles. All’inizio di maggio Disney accettò che il Carthay Circle opzionasse La danza degli scheletri per quella che egli definì «una programmazione prolungata provvisoria». scrisse a Charles Giegerich, che come si ricorderà lavorava per Powers, circa «l’insolita abbondanza di attenzioni» che il cortometraggio stava riscuotendo durante quelle proiezioni, e gli sottolineò l’importanza di raggiungere un accordo per «chiudere un contratto su scala nazionale» per le Silly Symphonies «sulla base di questo unico episodio, più la reputazione che ci siamo fatti con la qualità della serie “Mickey Mouse”».8 Un secondo programma di proiezioni, presso il roxy, a Broadway (New York), raccolse il medesimo successo. Ad agosto Giegerich firmò un contratto con la Columbia Pictures Corporation per tredici Silly Symphonies.9 Nonostante i cartoon con Topolino e le Silly Symphonies fossero stati immaginati in due modi distinti per quanto riguardava il tipo di enfasi data al loro rapporto con la musica, le due serie in breve tempo tesero ad assomigliarsi sempre di più nel loro affidarsi a una precisa sincronia. Nell’estate del 1929 Disney dichiarò di aver «deciso per una politica secondo cui da ora in poi tutta l’azione [nei Mickey Mouse cartoons] sarà associata a un [ritmo] ben definito e non ci sarà più spazio per movimenti con musiche che siano solo mero sottofondo»; ovvero, i cartoon di Topolino sarebbero stati tanto sincronizzati quanto lo erano le Silly Symphonies.10 Nessuno dei primi cartoon sonori Disney si può ritenere marcatamente superiore a quelli della concorrenza, se non, appunto, nell’uso del suono; l’unico scarto era questo. Quando altri autori di disegni animati, all’oscuro del metodo di lavoro di sincronizzazione

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di Disney, provarono ad aggiungere le colonne sonore, i risultati furono immancabilmente sgraziati. La fluida sincronia di Disney pertanto spiccava in modo ancora più evidente. Disney capì fin dall’inizio di trovarsi in una posizione di forza e fu abile a sfruttarla. Nelle lettere a roy e a Iwerks da New York del febbraio 1929, mostrò di trovarsi sollevato dal buon gradimento ricevuto da The Opry House e da ciò che aveva sentito circa i problemi di Charles Mintz: la Universal non avrebbe rinnovato il contratto con quest’ultimo ma avrebbe invece realizzato in proprio nuovi cortometraggi con il coniglietto oswald. «ora abbiamo la nostra occasione di farci una posizione nel settore», scrisse. stava acquistando dell’attrezzatura per il sonoro da Powers, in modo da poter mettere in piedi un proprio studio di registrazione a Los Angeles, e stava seriamente considerando la possibilità di produrre, oltre ai cartoon, dei brevi film dal vero, che definì «commedie dialogate».11 Quelle commedie dal vero non vennero mai prodotte, benché i Disney avessero fondato, dopo il rientro di Walt a Los Angeles, la Disney film recording Company, una società sita al numero 5360 della Melrose Avenue e che però ebbe vita assai breve. Disney capì anche di avere bisogno di aiuti più consistenti, dal momento che Iwerks era il solo animatore navigato del suo staff, attorniato da molti novizi – Wilfred Jackson, Les Clark, John Cannon.12 Come aveva fatto nel 1928, Disney a New York parlò con vari animatori sulla possibilità di andare a lavorare per lui a Los Angeles. Non c’era alcun altro luogo in cui Walt potesse trovare animatori esperti, a parte i pochi che lo avevano già abbandonato per andare a lavorare per Mintz. A marzo, dopo che Disney e stalling furono tornati a Los Angeles, lo staff di Disney «ebbe notizia che stavano per arrivare dei veri animatori che erano stati scritturati a New York», ricordò Jackson. Il primo nuovo assunto fu Ben sharpsteen,13 un veterano di vari studi newyorkesi, fra cui spiccava quello di Max fleischer. «Quando arrivò in studio», riferisce ancora Jackson, «gli furono assegnate una postazione di lavoro e una scena da realizzare; passò l’intera mattinata a lavorarvi. Eravamo curiosissimi di vedere quel che aveva combinato; quando si arrivò all’ora di pranzo nessuno voleva andare a mangiare: volevamo vedere cos’aveva fatto. Ben lì era un nuovo arrivato, non voleva essere lui il primo a uscire per il pranzo. Quindi ce ne rimaniamo tutti a lavorare, ancora per venti minuti dopo l’inizio della pausa pranzo, quando a un certo punto

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Ben dice: “ehi, ma voialtri non andate nemmeno a mangiare?”. E noi tutti a far la scena, “oh, santo cielo, è vero, è ora di pranzo”. Quindi Ben se ne esce e allora ci catapultiamo tutti al suo tavolo per vedere cos’è che ha fatto. Ub prende i disegni e li sfoglia, e stiamo tutti rispettosamente ad aspettare quale sarà la sua opinione. Dopo averli esaminati, Ub sentenzia: “eh! somigliano proprio un sacco al pagliaccio”, cioè ricalcavano un pochino i cartoon di fleischer [il riferimento è al personaggio KoKo the Clown]. Ben, quel primo giorno, aveva disegnato Mickey con dei buffi occhietti identici a quelli del pagliaccio e con una specie di nasino smunto».14 Durante il suo soggiorno a New York, Disney aveva fatto visita allo studio di Pat sullivan, dove si producevano i cartoon della serie felix the cat la quale era, in base alla testardaggine di sullivan, tanto chiusa entro i limiti del cinema muto quanto Disney era per converso aperto al sonoro; si trattava dunque di un tipo di studio dal quale un artista con la mente proiettata al futuro avrebbe cercato di andare via. «Penso che [Walt] volesse assumere otto [Messmer]», ricorda Al Eugster, un giovane animatore dello staff di sullivan; Messmer era l’autore che realizzava di fatto i disegni animati firmati a nome di Pat sullivan; «[ma] prese Burt Gillett». Gillett, che allora era attivo come animatore già da più di dieci anni, cominciò a lavorare per Disney nell’aprile del 1929 e fu il secondo animatore di New York a unirsi al gruppo.15 In seguito al successo dei cartoon Disney, i ruoli iniziarono a cambiare. Dopo i primi corti sonori con Topolino, Iwerks cominciò ad animare di meno, lavorando invece con Disney e stalling nell’ufficio battezzato music room, ‘stanza della musica’, dato che il pianoforte di stalling era stato sistemato lì. Quell’epiteto poi sarebbe stato dato a tutte le stanze dei registi Disney, indipendentemente dal fatto che essa venisse condivisa da un musicista. La mansione principale di Iwerks adesso era di disegnare schizzi che mostrassero al sempre più numeroso personale del reparto animazione come mettere in scena le loro sequenze. «Era ancora Walt a distribuire la maggior parte delle scene agli animatori», ricorda Jackson, «ma credo che in quel periodo fu occasionalmente Ub a farlo in sua vece».16 Disney era sempre stato l’effettivo regista dei suoi cartoon – allora non si usava il titolo in termini espliciti – ma il suono ne aveva rafforzato il ruolo, dandogli ancora maggior controllo sul timing dell’animazione. I suoi animatori dovevano aderire alla sua temporizzazione scritta sui fogli macchina, che Disney e stalling

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costruivano mentre pianificavano la musica. Adesso però Disney stava compiendo dei passi indietro. Burt Gillett «si trasferì nella music room di Walt per aiutarlo a preparare i cortometraggi per l’animazione già molto poco tempo dopo il suo arrivo da New York», ricordò Jackson.17 La suddivisione di responsabilità fra Gillett e Disney era indistinta, disse Ben sharpsteen: «non c’era alcuna gerarchia formale e Walt non esitava a criticare Gillett di fronte a uno di noi. […] Allora nessuno era intoccabile».18 Nei tardi anni Venti i ruoli lavorativi erano tutti molto fluidi, come spiegò Wilfred Jackson: «ogni animatore, tutte le volte che cominciava ad animare una scena, disegnava un layout [disegno che mostra una scena nelle sue generalità], lavorando a partire dai piccoli schizzi di Ub; e il primo animatore oppure l’intercalatore che per primi iniziavano ad avere poco da fare perché il cartoon in lavorazione era quasi finito, avrebbero ricevuto l’incarico di dipingere i fondali».19 A mano a mano che lo staff si rinfoltiva con animatori esperti provenienti da New York, le mansioni e le responsabilità, in particolare quelle degli animatori stessi, si definirono con sempre maggiore puntiglio. Carlos Manriquez, che aveva cominciato come inchiostratore e colorista, divenne il primo coloritore dei fondali a tempo pieno, con buona probabilità nel corso del 1929.20 La stesura delle trame proseguì negli stessi ritmi e modalità di prima. sharpsteen rammentò incontri a tarda sera «per ogni nuovo canovaccio. Era così che Walt approcciava ogni nuovo cartoon. Ci faceva sapere quello che aveva in mente e le possibilità che vi scorgeva. Per noi era un privilegio poter sedere lì e disegnare i bozzetti delle idee che ci venivano. Altrimenti il processo creativo sarebbe stato più lento».21 Dick Lundy, che nel luglio 1929 si unì allo staff come assistente, ricordò che Disney chiamava queste riunioni «una “tavola rotonda”. Quando eravamo ancora pochi avevano luogo nella stanza del regista, ma poi […] presero a svolgersi in sala di registrazione, e tutto il gruppo alla fine doveva produrre il canovaccio di […] una trama. [Walt all’inizio ci domandava sempre:] “allora, quali gag avete da proporre?”».22 Così come nel periodo di oswald, anche allora alcune gag erano un po’ troppo facilone. «In quei primi giorni», disse Wilfred Jackson, «pensavamo sempre che almeno tre risate fossero facili e che per le altre dovessimo invece lavorarci su. La prima di quelle tre era la gag del cesso, la seconda era quella del pitale da notte sotto al letto, la terza era quella della latrina».23

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The Plowboy (‘Il contadinello’), siamo nel giugno 1929, è pieno zeppo di trovate di questo tipo: gioiose e sboccatamente ruspanti. Le mammelle di una mucca sono animate come molto elastiche, mentre Topolino le munge; due denti del bovino si alzano e abbassano come tende e lasciano uscire degli schizzi di tabacco masticato, che colpiscono Topolino in pieno volto, per due volte. Prima il Topo reagisce strizzando le mammelle della mucca fino a schizzarle il suo stesso latte in faccia; poi le tira la lingua a tal punto da avvolgergliela intorno al muso. Non manca nemmeno un sottotesto lascivo. Quando Minni si rivolge a Topolino e al suo cavallo, si voltano entrambi; il cavallo allora si tira su il torace e comincia a pavoneggiarsi, fino a che Topolino non lo richiama a comando. Quando Minni canta, senza parole, arriccia le labbra con gli occhi chiusi e Topolino, sbavando dal desiderio, approfitta per baciarla (ma Minni lo colpisce con un secchio). La mucca si fa beffe di Topolino – la sua risata è prodotta da un trombone – e quando il Topo gli fa una pernacchia il bovino si volta e se ne va sprezzante, facendo roteare le mammelle a guisa di sberleffo sdegnato. The Plowboy andò incontro alle obiezioni di alcuni critici, come fu per altri due corti dello stesso anno. Disney ritenne una deliberata mistificazione il fatto che «qualcuno possa ritenersi offeso per qualsiasi esempio della “roba” contenuta nei nostri film; specialmente che si possa trovare offensiva qualsiasi cosa attinente alla mungitura di una mucca».24 La comicità di quel tipo, grossolana ed esuberante, era semplicemente quello che c’era da aspettarsi da uno studio il cui personale era formato per lo più da giovani, la maggior parte dei quali, come lo stesso Disney, non avevano quasi alcuna formazione artistica e scarsa educazione scolastica. Come fossero stati dei liceali nel loro campus, gli animatori di Disney consumavano i loro pranzi a sacco nel retro della saletta di posa su cui Disney aveva girato le scene dal vero per le Alice comedies. E vi giocavano anche a ferri di cavallo: «Ub era il più bravo», rammentò Jackson.25 Alcuni artisti di Disney si erano innamorati del cinema d’animazione da bambini, vedendo quelle che dovevano essere state alcune delle prime serie animate, come quelle di J.r. Bray. Jackson raccontò di essere cresciuto a Glendale, in California: Vivevamo vicino ai binari [del tram]. […] I conducenti staccavano i biglietti dai mazzetti e infine buttavano via le matrici, che erano gros-

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se, più o meno, uh, sei centimetri, e lunghe poco più di un centimetro, con un chiodino o un punto metallico nel mezzo. si poteva però sfogliare rapidamente le due estremità e quindi ci potevi fare tutti i tipi di disegnini e poi farli muovere. Perciò spesso mi facevo delle grandi camminate lungo i binari, alla ricerca delle matrici per terra, dove erano state gettate, per farci le mie animazioni.26

Nell’atmosfera ottimistica prodotta dal successo dei cartoon di Disney e dalla crescita dello staff, alcuni dei giovani animatori dello studio si ingegnarono per trovare modi di migliorare il proprio lavoro: per esempio nel realizzare delle riprese di alcune loro animazioni ancora a matita, per vedere se stessero venendo fuori come speravano. Gli animatori eseguivano questi pencil test con «azioni isolate di una scena in cui l’animatore incontrava un qualche nuovo problema e voleva vedere quanto efficacemente – o meno – lo stava affrontando, prima di andare avanti», rievocò Jackson.27 Inoltre, ricordò Dick Lundy, gli animatori mettevano alla prova i cicli; accorgersi degli errori nelle animazioni a ciclo era particolarmente importante, perché altrimenti il medesimo errore sarebbe stato visto sullo schermo più e più volte.28 Walt Disney non sosteneva né scoraggiava in modo particolare questi test. «Avevamo il permesso di usare piccole quantità di pellicola, più corte di quelle che sarebbero state necessarie per una scena intera […] se volevamo tornare in studio di sera e usarle da soli», rammentò Jackson.29 Nella tarda estate del 1929 sia Iwerks che Gillett svolgevano tutte le funzioni dei registi, il primo per le Silly Symphonies e il secondo per i Mickey Mouse cartoons. Disney li chiamava story men perché erano responsabili delle storie dei loro cartoon, sebbene quella fosse l’area in cui Disney stesso continuava a essere coinvolto in modo più avvolgente. I due registi ora eseguivano i layout che mostravano agli animatori come mettere in scena le loro sequenze e lavoravano con stalling alla preparazione dei fogli musicali e dei fogli macchina.30 A mano a mano che il coinvolgimento di Disney nei dettagli produttivi diminuiva, questi iniziò a prestare maggiore attenzione a come migliorare i suoi cartoon e conseguire più di quella «qualità» su cui aveva premuto quale risorsa cruciale nella conquista del pubblico. fin dai giorni della Laugh-o-gram, ciò che lo aveva preoccupato era stato lo scarso livello dei disegni, così lampante nei suoi cortometraggi e in molti altri; e nel 1929 inoltrato conclu-

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se un accordo con il Chouinard Art Institute, una scuola d’arte nel centro di Los Angeles, perché ammettesse i suoi dipendenti ai corsi serali del venerdì. Quell’accordo proseguì per diversi anni. La convinzione di Walt Disney su quei corsi era autentica – alcuni autori, addirittura, li lasciava e li andava a prendere a scuola – ma ancora una volta, proprio come quando era stato un animatore imberbe alla Kansas City film Ad, il più temibile nemico dell’efficienza da lui agognata divenne la pigrizia degli altri. Jack zander, che seguì le lezioni al Chouinard tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, ricordò che durante il periodo in cui frequentò la scuola gli era stato dato il compito – probabilmente nel 1930, uno-due anni dopo che i dipendenti di Disney ebbero cominciato a seguire le lezioni del venerdì sera – di «girare per le classi, sorvegliarle e accertarmi che tutti gli studenti fossero in aula. Il mio lavoro era stare lì durante la serata e buttare un occhio ai ragazzi di Disney. Erano iscritti in venti circa e nessuno di loro aveva voglia di seguire quelle noiosissime lezioni. […] Entravo in un’aula e c’erano otto-dieci ragazzi che gironzolavano in classe. facevo l’appello dei venti nominativi e per ognuno qualcuno rispondeva “presente”. Poi inviavamo un rapporto a Walt, in cui si attestava che tutti e venti i ragazzi si erano presentati per seguire la lezione».31 All’inizio del 1930 Walt e roy Disney avevano comunque un problema ben più urgente che non la riluttanza dei loro animatori a frequentare lezioni di disegno artistico. Iniziavano ad avere sempre più problemi con Pat Powers, il quale voleva che Walt producesse cartoon più economici: un negativo dal costo inferiore avrebbe voluto dire che Powers si sarebbe potuto permettere di pagare Walt di meno e tenere per sé una cifra maggiore dagli anticipi forniti dal distributore. Il tono offeso di Powers in una delle sue rare lettere – in genere era Giegerich a scrivere ai Disney – alla fine del 1929 ricordava da vicino quello di Charles Mintz in molte delle sue missive a Walt. Powers scrisse a proposito del «rischio finanziario e del peso della capitalizzazione» che si era assunto «dopo che ogni distributore del settore si era rifiutato di trattare il [vostro] prodotto secondo una qualsiasi formula che ci permettesse anche solo di recuperare i costi. Non ho notizia di alcun esempio (e anche lei stesso è ben a conoscenza di tutte le trattative) in cui ci fosse una qualche ricettività per il prodotto, o si sia concretamente considerato di trattarlo».32

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I Disney volevano che Powers desse loro il denaro che credevano di dover ricevere rispetto ai noleggi dei loro cartoon. Powers non voleva aprire i suoi libri contabili fino a che i Disney non avessero sottoscritto con lui un contratto più solido delle due lettere d’accordo per la distribuzione delle due serie Mickey Mouse e Silly Symphonies. Alla fine, il 17 gennaio 1930, Walt e Lillian Disney e l’allora avvocato dello studio, Gunther Lessing, presero il treno per New York per confrontarsi con Powers faccia a faccia. Arrivarono in città la mattina del 21 gennaio, proprio nello stesso frangente in cui Ub Iwerks stava entrando nell’ufficio di roy Disney per comunicargli che si licenziava. «La [sua] principale preoccupazione era andarsene il prima possibile», scrisse roy a Walt tre giorni dopo.33 La defezione di Iwerks fu particolarmente sorprendente e dolorosa, non solo perché veniva dopo una collaborazione decennale con Disney, ma anche perché era un socio dello studio.34 Aveva cominciato col comprare una partecipazione del 20% il 24 marzo 1928 – cioè subito dopo il litigio con Mintz, allorché i Disney gli furono molto grati per la sua lealtà – attraverso la detrazione dal suo stipendio di 20 dollari alla settimana. Dal 19 maggio 1928 la detrazione fu di 35 dollari alla settimana: un aumento che con buona probabilità rifletteva le condizioni dei Disney, in fase di peggioramento, e che fu un’ulteriore prova dell’amicizia di Iwerks. Al tempo in cui entrò nell’ufficio di roy, Iwerks aveva destinato alla sua partecipazione del 20% ben 2920 dollari. Quando Iwerks disse a roy che si stava licenziando, roy gli chiese se Powers o Giegerich – o magari hugh harman – avessero qualcosa a che fare con la sua decisione. «Ub mi guardò dritto in faccia», scrisse roy, dicendogli che nessuno di loro era «la causa della sua scelta». roy gli domandò allora: «parola d’onore?» e Iwerks rispose: «sì, nel modo più assoluto». La mattina successiva, roy ricevette un telegramma da Walt in cui questi gli diceva che in realtà dietro alla mossa di Iwerks c’era lo zampino di Powers. Quando roy ne riferì a Iwerks, questi ne rimase «terribilmente mortificato», dicendo a roy: «è che non mi andava di dirvelo».35 secondo l’accordo già in vigore con i fratelli Disney, Iwerks non poteva restare socio dopo aver lasciato lo studio. In un documento del 22 gennaio 1930, i Disney convennero di pagare a Iwerks esattamente la cifra che questi aveva fatta detrarre dal proprio stipendio, in cambio di un suo completo allontanamento dallo studio Disney. In un documento separato con la stessa data, roy (firmando

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per sé e come facente le veci del fratello) sottoscrisse il pagamento dei 2920 dollari da versarsi nel corso di un anno, più gli interessi accumulati nel frattempo, a un tasso annuale del 7%.36 Iwerks rimase nel libro paga fino a sabato 25 gennaio (disse a roy Disney che la settimana seguente sarebbe tornato in studio per terminare una Silly Symphony intitolata Autumn, ma non si fece più vedere).37 Quel sabato mattina, Iwerks e roy ebbero quella che quest’ultimo definì, in una lettera a Walt scritta più tardi nel corso della stessa giornata, una chiacchierata «molto calma e tranquilla». «Gli ho detto con franchezza che la cosa peggiore di tutta questa faccenda è stata il fatto che una persona così vicina a noi, come lui è sempre stato, ci abbia voltato le spalle in un momento come questo». Iwerks, scrisse roy, aveva iniziato a negoziare dal settembre precedente sulla possibilità di avviare una propria attività produttiva; e «fino a due giorni prima di ricevere il contratto non sapeva nemmeno che che dietro a tutto questo ci fosse [Powers]. […] sappiamo quanto Ub sia ingenuo e manipolabile e adesso abbiamo anche ampia dimostrazione di quanto voltagabbana siano Charlie Giegerich e P.A. [Powers]. Non sto cercando di giustificare Ub, ma soltanto di valutare equilibratamente la cosa: credo che Ub all’inizio abbia dato il suo o.K. ma sono certo che adesso, anche se non vorrà mai ammetterlo, si penta moltissimo di come sono andate le cose».38 Powers aveva commesso un enorme errore di valutazione, dal momento che Iwerks era una personalità semplicemente troppo riservata – specialmente se a confronto con Walt Disney – per avere un successo continuativo come capo di uno studio d’animazione.39 Ub non faceva che evitare le reponsabilità», ricordò Ben sharpsteen. «Era un generoso, in generale, se veniva sollecitato, e ti dava sempre tutti i consigli che poteva, ma non prendeva mai l’iniziativa».40 Come nel caso delle boriose sollecitazioni di Mintz a Disney nel 1928, Iwerks segnalò le discussioni con Walt come la forza motrice della sua decisione. roy scrisse: «Quando ne ho parlato con Ub, la prima cosa che mi ha detta è che tu e lui avevate avuto dei contrasti non da poco e si era perciò convinto che la cosa migliore fosse andarsene».41 Da parte sua, nel 1956 Disney disse che secondo lui Iwerks aveva covato un persistente senso d’ingiustizia. Disney pensava che Iwerks fosse infastidito da anni perché, malgrado fosse da sempre un disegnatore pubblicitario di maggiore esperienza – e di sicuro di maggiori capacità tecniche – rispetto a Disney, era pagato meno di lui, quando lavoravano alla Kansas City film Ad Company.

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Anche Carl stalling si dimise dallo staff di Disney, il giorno dopo Iwerks. «Pensavo che ci fosse qualcosa che non andava per il verso giusto», avrebbe detto stalling parecchi anni dopo. «Quando roy Disney mi disse che Ub se ne stava andando, gli dissi “be’, allora mi sa che me ne vado pure io”».42 Anche nel caso di stalling, come in quello di Iwerks, a dargli motivo di licenziarsi erano stati i battibecchi con Walt. stalling aveva accettato l’offerta di Walt di una partecipazione del 33% nelle Silly Symphonies – dal 31 dicembre 1928 gli erano stati detratti dal salario 25 dollari alla settimana – ma, ancora come nel caso di Iwerks, con l’abbandono dello studio si pose fine all’accordo.43 stalling aveva anche investito, all’inizio del 1929, 2000 dollari nella Disney film recording Company, quando Walt stava cercando di raccogliere abbastanza liquidi per pagare gli strumenti Cinephone che gli servivano sulla Costa ovest. Il denaro gli fu tutto rimborsato. La partenza di stalling fu costellata di delusione e disappunto perfino maggiori rispetto a quelli causati dalla defezione di Ub Iwerks. Quando stalling ripassò in studio per portarsi via i suoi spartiti, lo stesso giorno in cui Iwerks diede il suo addio, roy gli vietò di riprenderseli. «ha dato mostra di un atteggiamento veramente arrogante nel voler portarseli via, alla faccia mia», scrisse roy a Walt, «e allora ho pensato quasi quasi che avrei dovuto ricorrere alle maniere forti per buttarlo fuori!».44 Allo stato attuale Walt Disney aveva intrattenuto due collaborazioni con Ub Iwerks; una, piuttosto fumiginosa, con fred harman; e una quasi-collaborazione con Carl stalling. Due di queste collaborazioni, la prima di quelle con Iwerks e quella con harman, erano sfumate rapidamente, e le altre due erano terminate con la rottura di lunghissime amicizie. Non ci sarebbe più stata alcuna collaborazione. Benché nel 1932 i Disney avessero seriamente pensato di condividere la proprietà della società con imprenditori esterni, si rendevano conto che essa avrebbe potuto essere gestita liberamente solo finché a esserne i soli titolari fossero stati loro e le rispettive mogli.45 Disney, negli anni seguenti, parlò in termini sfiduciati o conflittuali di tutti i suoi soci avuti in precedenza (nel 1956 si riferì a stalling come «l’organista») e come David hand, un nuovo assunto, imparò nel 1930, fu assai puntuto nei confronti del più importante, Ub Iwerks. David hand, un animatore di New York, accettò un posto nello staff dello studio Disney il giorno del suo trentesimo compleanno,

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il 23 gennaio 1930. Diversamente dagli animatori di New York che lo avevano preceduto, hand non era stato attratto a ovest da un’offerta di Walt Disney. si era invece trasferito a hollywood nella speranza di far carriera nel cinema dal vero. «Ma non si trovava lavoro», disse molti anni dopo, «perciò me ne andai alla Disney». hand fu assunto un giovedì – probabilmente da Burt Gillett, che lo aveva conosciuto a New York, dal momento che Walt Disney non era fisicamente lì per decidere alcunché sulle assunzioni.46 Quando finalmente si incontrò con Disney, ricordò hand, «Walt era furioso con Ub, perché con me non parlò di nient’altro». Disney si sfogò con hand – in un’eco della sua petulanza degli anni Venti – circa il fatto che Iwerks non fosse capace di restare al suo tavolo da disegno. Invece parcheggiava l’auto sul vialetto di fronte all’edificio dello studio e passava la giornata lì, a lavorare sulla macchina e ignorando le richieste di Disney di animare e che si occupasse un vero meccanico di riparargli l’auto.47 Nessuno degli altri impiegati di Disney seguì Iwerks. Gli animatori newyorkesi erano stati assunti da Disney stesso e si erano trasferiti per lui. Come Ben sharpsteen, il quale rifiutò una proposta di lavoro da parte dello stesso Iwerks, essi potrebbero avere avvertito un giustificato scetticismo circa le capacità del loro ex collega di guidare uno studio di successo. sharpsteen riassunse il loro atteggiamento un paio di giorni dopo che Iwerks ebbe annunciato forfait. Egli disse, come citato in una lettera di roy Disney a Walt: «“sappiamo che la differenza di questi cartoon rispetto alla media non è dovuta ad altro se non alla personalità di Walt, sommata alla collaborazione dei suoi ragazzi”».48 L’effetto finale delle partenze di Iwerks e di stalling fu di lasciare i fratelli Disney in una posizione di forza, personale e finanziaria, maggiore che mai. Ciò che Walt aveva sentito dire a New York sul proprio conto dovette rafforzare in lui la convinzione di essere divenuto un pesce troppo grosso per un distributore tirchio e di piccole dimensioni come Pat Powers. «Da quel che Dick [huemer] e Jack Carr [altro esperto animatore di New York] ci hanno detto», scrisse Lillian Disney a roy il 30 gennaio, «[gli studios dei fleischer e di Mintz] si procurano ogni uno [sic] dei nostri film e li proiettano a ripetizione ai loro animatori».49 La rottura con Powers generò confusione, al punto che Disney cambiò hotel registrandosi sotto un altro nome, il modo migliore per evitare le autorità legali, dopo aver scritto a roy il 7 febbraio:

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«ho del tutto roto [sic] con Powers. Non gli faremo più film».50 Il 19 febbraio firmò un nuovo contratto con la Columbia, che in precedenza aveva distribuito le Silly Symphonies in base a una carta fra la stessa azienda e Powers, e se ne tornò a Los Angeles, ponendo fine a quell’ulteriore soggiorno prolungato a New York. Anche se fino a quel momento era stato Walt a tenere le fila delle decisioni strategiche, fu roy che nell’aprile 1930 dovette recarsi a New York per lavorare sulla liquidazione relativa al precedente contratto con Powers. Dal loro carteggio risulta chiaro che era ancora Walt a dare le direttive, ma la formazione di roy come money man era adesso usata produttivamente. Le negoziazioni fra i tre soggetti, cioè la Columbia, i Disney e Powers, erano iniziate in effetti già all’inizio di marzo, ma roy vi prese parte solo durante le ultime due settimane. Da quel che constatò, rimase scettico circa la Columbia, che descrisse a Walt come una società «non certo ricolma di intenzioni limpide».51 L’accordo di accomodamento, firmato il 22 aprile, fu costoso: i Disney non solo dovettero rinunciare alle loro richieste nei confronti di Powers, ma furono costretti a dargli 50 mila dollari, denaro che la Columbia prestò loro come anticipo sui profitti, che la Disney non avrebbe percepiti finché il debito non fosse stato del tutto saldato. Tuttavia la Columbia avrebbe anticipato ai Disney 7000 dollari alla consegna di ciascun film; cioè essi avrebbero avuto modo di usare per la produzione di ogni cartoon più soldi di quanti ne avessero mai avuti a disposizione quando prendevano da Powers anticipi ben più contenuti, senza peraltro vedere un soldo dei profitti. «onestamente, mi sento esultante su tutti i fronti», scrisse roy a Walt il 6 maggio. «Accordo funzionerà bene e futuro molto luminoso».52 A quel punto, Walt forse non era pronto per approfittare pienamente della situazione. Nei primi anni Trenta era ancora sorprendentemente conservatore quando parlava di cartoon con la stampa. In una dichiarazione per il film Daily dell’aprile 1930, fu molto cauto sia sul colore che sul panoramico: «Dopo tutto, in un cartoon comico quello che conta sono le risate e la caratterizzazione dei personaggi. Il colore, da solo, non attirerà l’interesse del pubblico».53 Un anno dopo, più o meno, l’American Magazine riportò una sua affermazione secondo la quale sarebbe stato uno «sbaglio» pensare «che le platee statunitensi vogliano sempre gag nuove di zecca, sorprese e simpatici imprevisti. Abbiamo trovato che desiderano soprattutto ridere. Essi si dimenticano facil-

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mente delle battute originali; ma se un film li ha fatti ridere di cuore, che ciò sia avvenuto tramite scenette vecchie o nuove, se lo ricorderanno comunque».54 Disney si ricordava di tutte le battute dei suoi cartoon muti, o così sembra, perché le gag delle Alice comedies, come Alice’s fishy Story (‘Alice e la storia pesciosa’), Alice’s Orphan (‘Alice e l’orfanello’) e Alice’s Brown Derby (‘Alice e il Brown Derby’) possono essere rinvenute in cartoon di diversi anni dopo: ripensate e migliorate, a dire il vero, ma sempre le stesse. «I migliori gag men sono quelli con la memoria più lunga», disse David hand nel 1946, due anni dopo avere lasciato lo studio Disney. «Disney era dotato della memoria più strabiliante: come un elefante, lui non si dimentica mai di nulla e si ricorda di tutte le schifezze che hai animate male».55 Il modello di Disney a proposito del concetto di «risate e caratterizzazione dei personaggi» che cercava non risiedeva in un qualsiasi, nuovo pupazzo chiacchierone, ma nella più grande fra le stelle del cinema muto, Charlie Chaplin. Nel 1931 Disney lo citò come la sua fonte più importante per l’invenzione di Topolino: «Pensavamo a un topino che avesse qualcosa della malinconia di Chaplin […] un tipetto che cercasse di fare del suo meglio».56 Nei primi mesi del 1930, dopo la partenza di Iwerks, lo staff di Disney proseguì nelle sue riunioni serali più o meno una volta alla settimana: nell’ufficio di Walt o nell’adiacente music room, per parlare di idee per le gag. Nessuno dello staff dedicava tutto il proprio tempo allo scrivere. Non lo aveva fatto nessuno nemmeno per i cartoon muti di Disney, ma negli ultimi due anni circa – sempre che gli esempi sopravvissuti siano una testimonianza affidabile – egli era ugualmente riuscito a riempire almeno alcuni di quei corti di quelle scenette comiche così affollate e articolate. Quando Disney si mise a realizzare i suoi primi cartoon sonori, tuttavia, la più grande sfida che essi presentarono era essenzialmente tecnica: il suono e le immagini dovevano integrarsi con esiti piacevoli e soddisfacenti. Iwerks aveva affrontato quella sfida con la sua arguzia tecnica, dopo la sua ottima prova su La danza degli scheletri, ed è per questo che molti dei primi cartoon sonori Disney sembrano più creazioni di Ub che di Walt. L’animazione iwerksiana, dalla precisione quasi meccanica, non avrebbe potuto essere più adatta alle esigenze del cartoon sonoro dei primordi. Nel 1930, comunque, Disney e altri membri del suo staff avevano imparato le basi della realizza-

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zione dei cartoon sonori e la perdita delle competenze di Iwerks fu con tutta probabilità vista come una benedizione. finalmente i cartoon disneyani potevano recuperare un po’ della loro vitalità precedente a Steamboat Willie, ma col suono come marcia in più. Il problema era come fare. Nei primi anni Trenta Disney non era un capo visionario che provasse a trasmettere ai suoi seguaci ciò di cui egli aveva già fatto esperienza, ma piuttosto cercava di tendere in prima persona verso un modo migliore di fare cartoon, spalla a spalla con i suoi animatori. Walt era, notoriamente, incapace di spiegarsi bene a parole. «Agli esordi dello studio», ricorda Ben sharpsteen, «Walt sembrava non essere in possesso dei mezzi per esprimersi per dare indicazioni agli animatori, e direi che la maggior parte dei progressi gli animatori li facevano da soli, aggirando i loro stessi errori».57 Les Clark ricordò un Disney che «parlava un sacco e a volte non capivi che cos’è che aveva in testa. […] forse non lo sapeva nemmeno lui, finché non vedeva qualcosa che gli andasse a genio».58 Disney però era sempre molto chiaro su ciò che gli piaceva o, più spesso, su ciò che non gli piaceva: «Walt finiva per essere sempre molto meno soddisfatto di noi su ciò che facevamo», ricordò Wilfred Jackson; tuttavia per lui era sovente difficile tradurre le sue idee in indicazioni per gli animatori. solo dopo un po’ che lavorava con delle persone, una semplice espressione d’approvazione o diniego comunicava loro quello che avevano bisogno di sapere. Perfino nei primi anni Trenta, ricordò Jackson, «Walt era già dotato del suo occhio rapido e di una immediata comprensione generale di qualsiasi cosa esaminasse, perciò in genere era lui il primo ad accorgersi di quello che rendeva [l’animazione in un cartoon di un concorrente] migliore della nostra». Jackson citò, come esempi delle «piccole cose che fanno una grande differenza»: «il variare la spaziatura delle intercalazioni in modo da rallentare la velocità con cui l’azione procedeva verso la successiva posa d’arresto, prima di accelerare repentinamente l’azione verso quella seguente e dopo rallentare ancora fino a fermarsi, per evitare […] dei movimenti improvvisi, innaturali. oppure ampliare gli spazi e poi condensarli per accentuare la dinamica del movimento».59 La «grande differenza» prodotta da queste «piccole cose» era il dare l’impressione che i personaggi animati sullo schermo fossero un po’ più reali. Era questo il tema che affiorava in continuazione nei film Disney degli anni Venti – nell’ippopotamo dispiaciuto nel

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cartoon con Alice, in vari momenti dei cartoon con oswald – ma che aveva latitato in quel primo anno e mezzo di cartoon sonori, dominati da gag licenziose e dal suono sincronizzato. Adesso stava lentamente risalendo in superficie, ma all’inizio in un modo diverso, attraverso movimenti che sembravano molto naturali anche se i personaggi che li compivano erano del tutto irreali. In una Silly Symphony intitolata frolicking fish (i pesci allegri), proiettata nel maggio del 1930, un animatore di nome Norman ferguson introdusse quelle che i colleghi chiamarono moving hold, ‘arresti dinamici’: in questo modo si abbandonavano le pause fisse, statiche, così tipiche di molta altra animazione, come quella di Ub Iwerks.60 ferguson, uno degli animatori di New York assunti l’anno precedente (aveva lavorato con Paul Terry sulle Aesop’s fables), animò un trio di pesci che si muovevano con nuova libertà e naturalezza. Wilfred Jackson la mise in questi termini: «[Norman] operava dei rallentamenti in entrata e dei movimenti diversi in contemporanea. Mentre una parte [del corpo del pesce] si muoveva, anche qualcos’altro era in movimento. Prima di allora, quello che facevamo era animare soltanto una cosa alla volta; poi si passava al movimento successivo, e basta; e così via».61 ferguson diede ai suoi colleghi degli strumenti che era possibile usare con molti diversi tipi di personaggio. Quando ferguson animò il suo pesce, Disney stava ancora estendendo il suo impiego degli assistenti e degli intercalatori al fine di migliorare i risultati degli animatori più esperti. «Cioè credo che la cosa migliore che io abbia mai fatto per questo settore sia stato quando mi sono reso conto che non si trattava più di un qualcosa tipo dipingere e compagnia bella, ma di una nuova arte», disse Disney nel 1956. «Che per sopravvivere [in questo campo] dovevi produrre in modo organizzato. […] Di certo, l’intero settore era stato costruito con questo criterio […] ben prima che io entrassi a farne parte. Ma penso che fui io quello che riuscì a organizzare le cose a livello di produzione massificata» – cioè a dire, con una più raffinata divisione del lavoro – «rispetto a quanto fosse mai stato fatto prima in questo campo». I progressi non arrivarono tutti a un tratto. A volte l’animatore poteva chiedere aiuto a un assistente nella realizzazione delle intercalazioni, scrisse David hand, ma «in altre occasioni, quando erano un po’ più complicate, le intercalazioni ce le facevamo da soli».62 L’assistente dell’animatore poteva anche essere nulla più che

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«un apprendista intercalatore» – il termine che Ed Benedict si autoattribuì quando ricordò il proprio lavoro come assistente di Wilfred Jackson, nel 1930 – la cui inesperienza non lasciava all’animatore altra scelta che eseguire da solo la maggior parte del lavoro.63 Le osservazioni di Disney del 1956 richiamavano in qualche modo il lavoro di frederick W. Taylor, il cui libro Principles of Scientific Management (1911) è un classico sui benefici apportati dalla divisione del lavoro.64 Nel secolo xVIII l’economista e filosofo Adam smith aveva sottolineato i vantaggi della divisione della produzione in compiti distinti, ciascuno dei quali assegnato a uno specialista. Taylor sviluppò l’idea, scomponendo i compiti in porzioni semplici che richiedevano o piccole conoscenze e competenze specializzate, o anche nessuna. Ma quello che accadeva alla Disney non somigliava minimamente a ciò che Taylor aveva in mente o, probabilmente, a ciò che Disney aveva in testa all’inizio. Al contrario, la divisione del lavoro in studio era in fase d’adozione crescente – almeno ai livelli superiori a quelli degli intercalatori, degli inchiostratori e dei coloristi – come veicolo di collaborazione artistica. Intorno al 1930 alcuni assistenti cominciarono a migliorare i disegni dei loro animatori e a realizzare le intercalazioni. Così alcuni animatori, grazie a quel cambiamento, furono in grado di produrre più pose chiave di prima; non furono più costretti a spendere la maggior parte del loro tempo in semplici operazioni esecutive. Ad ogni modo i miglioramenti non consistettero tanto nell’aumentato numero di disegni prodotti, quanto nel fatto che i nuovi cortometraggi apparivano adesso, in generale, disegnati in modo più rifinito. Questa, nello studio Disney, era una vera e propria controtendenza nell’uso degli assistenti e degli intercalatori, che andava in direzione opposta rispetto all’incremento nella produzione a cui una tale divisione del lavoro ci si sarebbe aspettati dovesse condurre. Il modello lavorativo allo studio Disney nei primi anni Trenta prese a non essere più tanto quello secondo cui fosse Disney stesso a introdurre considerevoli avanzamenti ma, sempre di più, quello per il quale egli riconosceva, accettava e spesso incoraggiava i miglioramenti che i suoi artisti andavano conseguendo in autonomia. Quando gli animatori iniziarono a riprendere i pencil test, per esempio, «ci mettemmo a fare sempre più prove», ricordò Wilfred Jackson, «e Walt ci incoraggiava, perché spesso saltavano fuori dei progressi».65 Disney si distingueva da tutti gli altri proprietari di studi d’animazione grazie alla sua ricettività a tali

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cambiamenti; la maggior parte degli altri studi cercavano invece di operare miglioramenti solo perché i loro cartoon erano visibilmente inferiori a quelli disneyani. Probabilmente non fu prima del 1931 che gli animatori cominciarono a girare scene finite soltanto come prove a matita: questa fu ancora una volta un’idea che Disney approvò ma che non era sua. Mettere alla prova scene complete presentava grossi vantaggi per tutti i diretti interessati – Disney stesso, il regista e l’animatore – rispetto a quella che Jackson definì la «primitiva, laboriosa, raffazzonata» alternativa di riprendere solo parti delle scene e giudicare il resto dell’animazione soltanto da un generico esame sulla carta, «sfogliando rapidamente i disegni per vedere delle parti dell’azione un poco alla volta».66 C’è ben poco da meravigliarsi se Disney decise che mettere alla prova scene complete fosse una buona idea. Lungo il 1930 e il 1931, anche se i pencil test divennero di uso comune e resero più facile accorgersi degli errori di percorso, i cartoon che venivano fuori dallo studio Disney soffrivano di difetti – come quando un personaggio, in una o due scene, assumeva nitidamente un aspetto diverso dalla sua conformazione standard – che di certo dovettero saltare all’occhio ma che non vennero corretti, probabilmente perché intervenirvi avrebbe comportato costi troppo alti. In Midnight in a Toy Shop (‘Mezzanotte dentro al negozio di giocattoli’, 1930), per esempio, un ragno è troppo grande subito dopo il suo ingresso nel negozio di giochi del titolo; in teoria dovrebbe esservi entrato attraverso il buco della serratura, ma è appunto troppo grosso. In quegli anni Disney stava lavorando all’interno dei limiti di 7000 dollari di costo per ogni cartoon imposti dalla Columbia: una cifra che all’inizio fu una salvezza, ma che ben presto si trasformò in una forte restrizione. Disney, tra febbraio e luglio 1931, ampliò di molto la pianta dello studio, al costo di 250 mila dollari;67 ma parecchio di ciò che fece edificare – uno studio di registrazione, in particolare – e non poche assunzioni furono subordinati alle complicazioni create dal sonoro e alla necessità di avere a disposizione un numero maggiore di esperti in grado di lavorarvi con competenza. La liquidità disponibile per ogni cartoon rimaneva quella. Disney era molto interessato, già dall’inizio del 1929, a concedere licenze per prodotti ispirati a Topolino. Aveva scritto a Charles J. Giegerich: «Penso che per la prossima stagione ci possa essere un grosso mercato per pupazzi, giocattoli e prodotti vari ispirati a

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e forse non sarebbe una cattiva idea parlarne per capire quali possibilità ci siano, visto che si può dire che queste cose facciano anche una buona pubblicità».68 Nel 1956 dichiarò di avere iniziato ad autorizzare prodotti già quand’era a New York: «avevamo bisogno di soldi; c’era ’sto tizio che continuava a venire in albergo con 300 dollari in contanti sventolandomeli tutto il tempo in faccia, e alla fine firmai un contratto» per far apparire Topolino su dei quaderni. Questo deve essere avvenuto nel 1929 – e potrebbe essere stato un accordo stipulato con una semplice stretta di mano – poiché i Disney il primo contratto di cui v’è testimonianza scritta lo firmarono all’inizio del 1930. Questo primo contratto, datato 24 gennaio 1930, fu siglato con il King features syndicate per una striscia a fumetti con Topolino che in realtà aveva iniziato a essere edita già undici giorni prima. Walt Disney e Gunther Lessing sottoscrissero l’accordo mentre si trovavano a New York per concludere il compromesso con Pat Powers.69 Una volta che il licensing relativo ai giocattoli, ai balocchi e ai libri era ormai avviato – cominciò con un contratto del 3 febbraio 1930 con l’allora nota ditta Geo. Borgfeldt & Co. – Walt Disney non vi giocò più alcun ruolo. Lasciò quel lato dell’attività a roy, tuttavia negli anni successivi avrebbe mostrato un costante interesse per i fumetti; i quali all’inizio erano disegnati nello studio di Ub Iwerks e, in seguito, passarono a floyd Gottfredson.70 Tuttavia i profitti di questo tipo di licensing all’inizio degli anni Trenta erano ancora bassi e anche il numero limitato di componenti lo staff era un costante handicap. Un avanzamento come quello di ferguson su frolicking fish ebbe luogo in un contesto di lavoro per la verità grezzo e ferguson stesso era notoriamente poco dotato come disegnatore puro. Alla Disney in quei primi anni Trenta, come rammentò l’animatore Ed Love, «eravamo tutti artisti di mezza tacca. Mi ricordo una volta che si lavorava a una scena di una Silly Symphony dove un tizio suonava uno xilofono [ma con un osso] e nessuno aveva idea di come disegnare una mano che tenesse un osso. Dave hand, che a quel tempo stava per iniziare a fare il regista, disse: “va be’, fate solo un cerchio nero e disegnategli sopra un rigonfiamento [come pollice]”».71 Nei primi anni della Grande Depressione questi disegnatori autodidatti (Love, per esempio, non aveva ricevuto la benché minima istruzione artistica formale) eran di fatto il meglio sulla piazza di cui Disney potesse disporre. Quando Love si propose per un

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impiego presso lo studio Disney nel 1931, fu assunto da Walt in persona. «Gli mostrai, credo, un mazzetto di disegni alto due centimetri, che lui sfogliò rapidamente. Mickey Mouse entrava in scena, suonava il violino, ne veniva fuori una nota stonata, si imbarazzava, indietreggiava, inciampava e cadeva. […] [Disney mi] disse: “vieni a lavorare [qui]”».72 Gli animatori di Disney, nel cercare di migliorare il livello del loro lavoro, si ritrovarono a provare diversi espedienti. L’animazione rubber-hose (‘a tubo di gomma’), per esempio, era essenzialmente un tipo di azione che curvava in modo esagerato in direzione del movimento. Tale mezzo avrebbe dovuto eliminare il persistente rischio di rigidità in precedenza implicato quando un oggetto filiforme era animato lungo lo schermo; ma, come disse Wilfred Jackson, questo espediente, all’inizio degli anni Trenta, era usato in modo «tremendamente» eccessivo, finché Disney non si oppose a questa misura con ferma decisione.73 Gli animatori poterono certo aver conseguito qualche successo ed esserne stati fieri, ma tali circostanze furono rare e disorganiche. Ed Benedict, che assisteva rudy zamora, parlò della soddisfazione di quest’ultimo per una scena di The china Plate,74 una Silly Symphony con dei personaggi cinesi da lui animati nel marzo del 1931: «rudy aveva fatto questa scena ed era tutto gongolante di avere avuto quest’idea da solo; mi ricordo che mi si avvicinò, sfogliando i disegni della sequenza [e] mi disse “ehi, che te ne pare di questo?”. […] C’era una ragazzina che si girava da sinistra a destra, ma quando si muoveva i capelli le finivano in faccia. Era una cosa mai fatta prima. fu un primo assaggio di come le cose sarebbero poi migliorate».75 Ad ogni modo zamora al lavoro era notoriamente scostante e durò allo studio Disney solo un anno circa, dal gennaio 1931 fino agli inizi del 1932. A un certo punto divenne vittima del costume di Disney – un’abitudine nota ai suoi impiegati che stavano con lui dagli anni Venti – di tornare in studio ore e ore dopo la fine della giornata lavorativa. Dave hand, che descrisse le visite notturne di Disney «un pochino inquietanti», ricordò quando Walt – avendo visto che zamora non aveva lavorato affatto su una scena assegnatagli – lo mise alle strette portandogli il giorno dopo un malloppo di fogli bianchi con solo i primi disegnati in cima (da zamora). Disney tolse poi quei primi disegni, rivelando quanta carta ancora intonsa vi fosse sotto.76

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In breve: allo studio Disney non si procedeva verso una vera e propria evoluzione tecnica e artistica in modo organico e strategico, ma più che altro attraverso salti improvvisi. In un momento imprecisato del 1931, avrebbe detto Disney venticinque anni dopo, «ebbi un forte esaurimento nervoso. Ero a pezzi. […] A mano a mano che andavamo avanti con il lavoro, tendevo ad aspettarmi sempre di più dagli animatori e, quando loro mi deludevano e compagnia bella, mi buttavo proprio giù. Nient’altro che soldi, soldi, soldi. I costi salivano e le mie attenzioni erano sempre rivolte su quanto i film avrebbero fruttato. […] Diciamo che divenni molto irascibile. Arrivai al punto che non riuscivo nemmeno a parlare al telefono. Mi mettevo subito a strillare». Disney parlò ancora di questo suo stato d’animo in una intervista del 1963: «Le cose andavano male. Avevo problemi con un film. Non facevo che dannarmi. Ebbi un esaurimento nervoso. Piangevo spessissimo».77 Nell’ottobre 1931 Disney partì con Lillian per un viaggio attraverso il paese, dopo avere «finito un film di cui non ne potevo più. oh cielo, che nausea. Mi diede tanti di quei problemi. E allora me ne andai, finché quel film non fosse stato archiviato», cioè, probabilmente, finché non fosse stato portato a termine il suo programma di proiezioni in sala. Durante quel viaggio, disse Disney, «mi rigenerai. […] fu un periodo meraviglioso. Era in effetti la prima volta che ci concedevamo una vacanza, o qualcosa del genere, da quando eravamo sposati». Al suo ritorno, «mi iscrissi in palestra. Ci andavo, cascasse il mondo, due o tre volte alla settimana. Cominciai con della semplice ginnastica generale a corpo libero. Poi provai con la lotta, ma non mi piaceva perché consisteva nell’avvinghiarsi a qualche altro tizio sudato e in canottiera e afferrarlo per le chiappe». Passò poi al pugilato e infine al golf e all’equitazione. si presentava al campo da golf alle cinque e mezza di mattina, si faceva le prime cinque buche e poi tagliava tutto il campo dirigendosi direttamente alla diciottesima. «Nùtriti con una buona attività sportiva e poi va’ al lavoro più pimpante che mai», dichiarò. A partire dal 1932, Disney giocò quel che Les Clark chiamò «polo amatoriale» con Clark stesso, Norm ferguson, Dick Lundy, Gunther Lessing e Jack Cutting del reparto animazione; prendevano a noleggio dei cavalli da un maneggio.78 Non c’è modo di risalire a quale fosse il cartoon che Disney trovò così esasperante e non è chiaro nemmeno per quanto tempo durò il

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suo periodo di riposo e vacanza rigeneranti; forse dalle cinque alle sei settimane, ma in ogni caso non così a lungo perché la sua assenza fosse preoccupante per le persone che lavoravano per lui. Nessuno dei suoi impiegati, all’epoca, si riferì mai al suo «esaurimento» come a un fatto importante per la vita dello studio. Per quanto alcuni dei suoi animatori potessero tener d’occhio da vicino il loro capo per cercare di andare incontro alle sue aspettative, questo «esaurimento» sembra non avesse destato in loro alcuna vera sensazione. L’enfasi di Disney sulle sue lacrime lascia piuttosto pensare alla tendenza al dramma – l’altra faccia della medaglia rispetto alla sua «esuberanza» – nella quale a volte egli versava, tuttavia non v’è ragione per dubitare che Walt fosse davvero in stato alterato. roy aveva capito che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Il 30 dicembre 1931 scrisse ai genitori che «Walt si sente molto meglio rispetto a prima della sua vacanza, ma non è tornato del tutto com’era prima». roy parlò comunque, quale causa del «problema» di Walt, di un malessere fisico, «una specie di parassita vegetale intestinale», anche se aggiunse: «Le cose in studio stanno andando molto meglio, perciò il lavoro per lui adesso è parecchio meno snervante di prima».79 Quale che fosse la natura di quel «parassita», sembra che non produsse alcun impatto duraturo sulla salute di Walt. rimangono scarse testimonianze dei pensieri di Disney nei primi anni Trenta – ben poco quanto ad annotazioni, trascrizioni o lettere che descrivano i suoi stati d’animo – ma quello fu il periodo in cui il suo ruolo in studio cambiò in modo decisivo. La sua frustrazione sorse con tutta probabilità da quella situazione e potrebbe aver covato per anni, contribuendo alle sue continue dispute con i collaboratori più stretti. Nel 1931 il coinvolgimento di Disney perfino nell’ideazione delle storie, l’area in cui egli concentrò le sue energie allorché le mansioni di regia vennero passate interamente a Iwerks e Gillett, era anch’esso diminuito dopo l’assunzione, all’inizio dell’anno, di due gag men veri e propri, Ted sears e Webb smith.80 Dopo tutti quegli anni di mestiere come animatore e poi alla regia – e, in precedenza, anni spesi a svolgere altri tipi di lavoro che richiedevano un impegno manuale e, ancora prima, altri anni caratterizzati da impieghi di fatica, come le consegne in bici dei giornali – Disney adesso doveva sforzarsi di entrare nell’ordine di idee che era ormai più che legittimo il suo concentrarsi su mansioni lavorative puramente mentali.

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stava ancora cercando di abituarsi all’idea, venticinque anni dopo. «La gente non […] dà alcuna importanza alla coordinazione di tutti i talenti coinvolti in queste cose», lamentò nel 1956. «Il ruolo fondamentale che rivestivo era coordinare questi talenti. E incoraggiare, questi talenti. […] sono a capo di un’organizzazione di persone che sono degli autentici specialisti. Al mondo non se ne trovano di migliori, in quello che fanno. Ma tutti loro hanno bisogno di lavorare insieme e sotto a una guida». Per Disney, nel 1931, fare da coordinatore era particolarmente difficile perché non è che stesse conducendo i suoi uomini verso una meta che egli fosse il solo ad avere ben chiara in testa. Li stava portando verso qualcosa di cui perfino egli stesso aveva una vaga immagine. Il suo nuovo ruolo – e le difficoltà connesse a definirlo – stavano rendendo più complessa quella che alla base era una personalità semplice. Come suo padre, per natura aveva sempre avuto un carattere imprenditoriale e, come tutte le mentalità di questo tipo, aveva da sempre la tendenza al dominio e al controllo. ora si trovava sul punto di divenire anche un artista. In base a tale cambiamento, ciò che ne sarebbe venuto fuori sarebbe stato l’impulso al controllo finalizzato al raggiungimento di risultati artistici sempre più personali e ambiziosi. Disney elaborò quella sua crisi come se lo studio fosse in procinto di divenire un luogo in qualche modo diverso, dove ora le persone che prendevano seriamente il loro lavoro erano più di prima: non si trattava più di una momentanea soddisfazione per l’occasionale scena venuta bene, ma di un costante impegno per una coerenza tecnico-artistica di maggiore livello. Certo i cartoon Disney erano ancora pieni zeppi di problemi. Per quanto Disney avesse potuto voler bandire la già ricordata animazione «a tubo di gomma», essa rispuntò, e assai abbondante, nel cartoon di Topolino Barnyard Olympics (‘Le olimpiadi dell’aia’), proiettato nell’aprile del 1932. In diversi disegni animati disneyani di quella prima porzione del 1932 si persisteva nei cicli, scontati ed economici. Ma il vento stava per cambiare. «In quei giorni eravamo tutti molto motivati», disse Ed Love. «facevamo delle riunioni e Walt parlava e tutti noi non facevamo che blaterare alla grande. Mi ricordo per esempio che si parlava di cosucce tipo come si fa a passare dall’animare dall’uno al due. Era una faccenda di grande importanza e nessuno sapeva come fare».81 Dick Marion (in seguito noto come Dick hall), che lavorava come

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intercalatore sotto l’animatore Jack King, fu licenziato da Disney intorno alla fine del 1931, quando si scoprì che cercava un altro lavoro. «Dovevi essere leale in tutto e per tutto», disse, «e quello non era certo un segno di devozione. [Dal punto di vista di Walt] Non avrei nemmeno dovuto pensarci, ad andarmene».82 Intorno all’inizio del 1932, in una direttiva che dice molto della nuova consapevolezza di Disney per il suo ruolo di coordinatore, egli ordinò agli animatori di cominciare a realizzare le loro tavole come bozzetti spartani, invece che come disegni rifiniti, e di eseguire i pencil test con le bozze. fino ad allora, le prove a matita erano state fatte solo dopo che i disegni erano stati rifiniti, pronti a essere inchiostrati su acetato. Nel ricordo di Wilfred Jackson, quel che spinse Disney a disporre l’innovazione fu il visionare il pencil test di alcuni disegni schizzati di Norm ferguson: un’animazione chiaramente «leggibile» nonostante la sintesi del tratto.83 Kendall o’Connor, un layout artist per Disney che conobbe ferguson qualche anno dopo, descrisse quest’ultimo a Mark Langer come «un tipico newyorkese, frenetico e rapidissimo. Credo che lì ci ritenesse tutti troppo lenti. […] Mentre ti parlava si tormentava di continuo con le dita un ciuffetto di capelli. Era un tipino nervosetto».84 Quell’energia, probabilmente, trovava uno sfogo più immediato nei suoi rapidi bozzetti che non in disegni rifiniti. «Incoraggiando fergy a concentrarsi sulle azioni con schizzi abbozzati e assegnandogli un eccellente assistente che ripulisse i suoi disegni», ricordò Jackson, «Walt intuiva che fergy era capace di fare un salto di qualità ma anche di quantità, nella sua produzione d’animazione. E inoltre Walt sentiva che la cosa avrebbe potuto funzionare allo stesso modo per gli altri suoi animatori, e fece capire loro che si aspettava che essi lavorassero alle loro animazioni secondo lo stesso metodo».85 ferguson quasi certamente non era il primo animatore Disney il cui lavoro veniva ripulito da altri, ricordò ancora Jackson. Ma «mi ricordo che l’uso da parte di fergy di un assistente al cleanup [‘ripulitura’], e il come questi fu da lui istruito sul da farsi, divenne il modo con cui Walt volle che gli altri animatori lavorassero, qualora ci fosse stato ancora qualcuno riluttante ad adottare quel metodo».86 Prima di questa direttiva di Disney, le sue osservazioni in merito ai pencil test dovettero riguardare, di frequente, le scelte da adottare sull’inchiostrazione e sul colore e il successivo compito dell’animatore, piuttosto che la scena direttamente in esame. ora

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però Walt poteva usare le prove a matita con i disegni abbozzati per capire cosa stessero facendo i suoi animatori prima che fosse troppo tardi per operare dei cambiamenti sostanziali. «Walt pensava che se una sequenza la si fosse schizzata e basta», riferì Les Clark, «si sarebbe potuto vedere più velocemente se stava venendo per come la voleva lui. In caso contrario, si sarebbe potuto scartarla e modificarla. Non saremmo stati costretti a buttare al vento un sacco di lavoro rifinito».87 Con l’insistenza sul realizzare le animazioni come schizzi, Disney stava incoraggiando i suoi animatori a pensare in termini dinamici piuttosto che in termini di disegni separati. «Il lavoro più duro», disse nel 1956, «era fare in modo che i ragazzi la smettessero di incaponirsi sui singoli disegni e che cominciassero a pensare a essi come a un gruppo compatto in azione. Quando si ritrovavano un disegno davanti non riuscivano a resistere alla tentazione di star lì a rifinirlo ancora e ancora». Alcuni animatori provenienti da New York, soprattutto, evidenziarono un certo gusto per soluzioni fondamentalmente meccaniche ai problemi d’animazione. Dave hand, nell’animare una cosa come uno stormo d’uccelli in flowers and Trees (il bosco incantato, di Burt Gillett, 1932), «lo trattò come un oggetto unico», disse Dick Lundy, «cosicché gli uccelli si sarebbero mossi non secondo quelle traiettorie fluttuanti e irregolari che suggeriscono la vita reale, ma secondo dei percorsi rigidi».88 fu forse nel lavoro di Jack King che quel vecchio modo di fare animazione si scontrò più platealmente con le nuove modalità caldeggiate da Disney. Chuck Couch, uno dei giovani californiani che iniziarono a popolare le qualifiche inferiori dello studio Disney all’inizio degli anni Trenta, era l’assistente di King e ricordò quest’ultimo come «un meticoloso artigiano: non eseguiva quasi mai dei bozzetti. faceva sempre disegni molto puliti».89 Quando King si unì allo staff, nel 1929, ebbe a ricordare che una ragione per la quale aveva accettato il lavoro era che «gli era piaciuto il mio stile. Avevo un tratto preciso, cosa che era ottima per l’inchiostrazione».90 Però i disegni di King non erano solo puliti, ma anche rigidi. King si serviva di una moneta per tracciare la testa di Topolino e di un’altra per il corpo: monetine per inquadrature da lontano, monete più grandi per inquadrature da vicino. E, come ricorda Wilfred Jackson, «questo dava vita a un personaggino davvero statico».91 Les Clark vide anche Ben sharpsteen usare monete per disegnare

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la testa di Topolino.92 Espedienti di questo tipo marciavano contro la direzione verso la quale Disney voleva che procedesse la sua animazione, e gli artisti che indulgevano nel loro utilizzo erano preda della sua ira tutte le volte che egli veniva a sapere che essi stavano usando metodi di quel genere. A partire dall’edificazione dei locali aggiuntivi allo studio, nel 1931, Disney aveva iniziato a esaminare i test a matita in una stanzetta priva di finestre che ben presto venne battezzata la sweatbox, la ‘saletta della strizza’.93 Prima d’allora Disney aveva sempre visionato i pencil test su una Moviola. secondo Wilfred Jackson, Disney passò dalle Moviola alla sweatbox in parte per scelta – così non avrebbe dovuto «rispondere per tutta la giornata alle richieste» da parte di ciascun animatore di visionare le rispettive prove a matita sulla Moviola – ma in larga parte anche per fare in modo che gli animatori potessero far mente locale su ciò che i loro colleghi stavano facendo, in uno studio che stava rapidamente crescendo per personale e produttività. Una volta che la sweatbox venne allestita, disse sharpsteen, «Walt passava moltissimo del suo tempo là dentro» sulle prove a matita, «mentre la maggior parte degli animatori rimanevano a lavorare al film». Qui era ancora una volta all’opera l’artista, o se vogliamo il coordinatore, con una rinnovata fiducia in sé, che guidava e istruiva i suoi animatori al costante scrutinio del lavoro dei loro colleghi nonché all’esame del proprio stesso operato. Le negoziazioni con Powers avevano lasciato i Disney abbastanza freddi nei confronti del loro nuovo distributore, la Columbia, dunque non persero tempo a firmare un nuovo accordo con la United Artists (UA) meno di otto mesi dopo, nel dicembre 1930. Quel contratto fu un avanzamento notevolissimo rispetto all’accordo con la Columbia, dal momento che prevedeva un anticipo di 15 mila dollari per ogni cartoon. Ma i Disney dovettero rispettare il contratto con la Columbia ancora per un anno e mezzo e i primi disegni animati distribuiti dalla UA furono proiettati solo a partire dalla metà del 1932. All’inizio di quell’anno i Disney e la UA cominciarono con molta cautela a valutare l’idea di realizzare una o più Silly Symphonies col sistema Technicolor. L’idea partì da Walt Disney, ma fu roy Disney a condurre il carteggio con Al Lichtman, vice presidente della UA e direttore generale per la distribuzione presso la sede di New York. Il passaggio al Technicolor non era da prendere sottogamba; i film a colori fino a quel momento non avevano prodotto buoni risultati né a livello tecnico né a livello di gradimento

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da parte del pubblico, e i costi aggiuntivi per la stampa (12 mila dollari per 200 copie, disse Lichtman) sarebbero stati onerosi. Il successo, inoltre, avrebbe potuto tradursi in un problema anche peggiore del fallimento, come suggerì ancora Lichtman: se gli esercenti avessero voluto il colore in tutte le Silly Symphonies successive, «saremo in grado di ottenere [dai gestori] del denaro in più per sostenere i costi extra delle pellicole a colori?».94 Perfino la stessa ditta Technicolor stava dietro a Disney, come disse Walt nel 1956, perché «non erano ancora così avanti con le sperimentazioni della pellicola a colori da impegnarsi in una produzione sostanziale per un grosso lungometraggio dal vero. Un disegno animato, per loro, sarebbe stato ideale come campo di prova». Il cartoon che Disney aveva in mente per il nuovo procedimento Technicolor si intitolava flowers and Trees. Esso era stato completato in bianco e nero all’inizio di giugno 1932, e Lichtman disse a roy che era «una delle più belle symphonies che abbia mai visto», così deliziosa che la UA l’avrebbe fatta proiettare quale sua prima Silly Symphony.95 roy gli chiese allora di avere un po’ di pazienza finché il processo di colorazione non fosse stato portato a termine: una versione, quella colorata, realizzata come ovvio con gli stessi acetati inchiostrati, ma con i colori bianco e nero da essi lavati via. La versione policromatica di flowers and Trees – una fantasia in cui due giovani alberi si amano, minacciati da un tronco geloso – fu proiettata in prima assoluta il 18 luglio 1932 al Grauman’s Chinese Theatre di hollywood, in accompagnamento a un pretenzioso film della MGM, Strange interlude.96 fu un enorme successo e, quando Lichtman scrisse a roy alcuni giorni più tardi, si unì all’approvazione generale ma mostrò preoccupazione per l’eventualità che i Disney si mangiassero tutti i soldi in film così costosi nel bel mezzo della Depressione. roy fu chiaramente sollevato per l’accoglienza benevola ricevuta dal cartoon e gli scrisse, in risposta: «Mi rendo conto che Walt e io non conduciamo la nostra attività in base a precisi “piani economici”, ma onestamente abbiamo maggiore interesse a ricunsolidarci [sic] durante questi tempi difficili rendendo il nostro prodotto più allettante che possiamo per gli esercenti, poiché sentiamo che solo se cavalchiamo il momento riusciremo a fare davvero bene, alla fin fine. Poi, quando torneranno tempi migliori, continueremo a restare in prima linea e saremo ancora in grado di tenere alto il nostro nome».97 roy, come Walt, voleva buttarsi nel colore e stava lavorando duro per giustificare una

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mossa del genere, non solo a Lichtman ma anche a sé stesso. Nel novembre 1932 non c’era più alcun dubbio: sarebbe stato un errore, scrisse roy a Lichtman, non realizzare ogni singola Silly Symphony in Technicolor.98 All’inizio, quando lo studio Disney iniziò a produrre i cartoon a colori, la colorazione era ancora un settore decisionale appannaggio degli scrittori, e non dei registi e dei disegnatori di layout; ma anche in questo campo, come nella maggior parte degli altri, le vere decisioni eran tutte prese da Walt. Wilfred Jackson, a quel tempo, era divenuto regista. «Quando parlavo con [Emil] flohri [il principale pittore dei fondali] sulle ambientazioni, Walt era con noi», ricordò Jackson. «Era flohri a dire a me in che modo avrebbe usato i colori, non io a lui».99 In quegli anni Disney era ancora molto vicino alle persone che lavoravano per lui, in certi casi nel senso fisico del termine. Viveva a pochi isolati dallo studio della hyperion Avenue e dall’altra parte della strada rispetto a Don Patterson, un assistente animatore dello studio (e che prima era stato animatore per Charles Mintz).100 Tuttavia, stanti i maggiori guadagni dello studio grazie all’accordo con la UA, Disney era pronto a traslocare nuovamente. Nella primavera-estate del 1932 Walt e Lillian fecero costruire la loro seconda casa, questa volta una residenza di dodici stanze in stile franco-normanno, al 4053 della Woking Way, nel quartiere di Los feliz hills.101 Come la casa della Lyric Avenue, si trovava lungo una sinuosa strada in pendio non lontana dallo studio, ma il nuovo quartiere, a nord di Los feliz Boulevard, era – come la casa stessa – notevolmente più elegante del predecessore. roy Disney nel 1968 si meravigliava ancora per l’audacia della costruzione: «fece piazzare la piscina all’angolo di ’sta cosa pazzesca. È una collina di granito: pertanto ci mettemmo a scommettere per vedere se sarebbe rimasta tutta d’un pezzo. sono passati trentacinque anni ed è ancora lì».102 Ancora nel 1964, Disney era un po’ imbarazzato circa la grandiosità della villa. «Tutti se la prendono con i ricchi perché hanno ’ste case enormi», dichiarò alla opinionista di hollywood hedda hopper, «ma non hanno presente quanto lavoro creano. Ci vuole un sacco di gente per tenere in piedi una grossa attività edile. Durante la Depressione ho fatto edificare una casa a Los feliz. Gli operai si mettevano in fila la mattina, sperando di riuscire a lavorare. C’era un diplomato alla Vienna Academy of fine Arts e gli ho fatto pitturare tutto il tetto di casa».103

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A metà del 1932 l’entusiastica e contagiosa carica ottimista di Disney, percepibile già nelle lettere da New York del ’28, echeggiava nei soggetti delle storie per i nuovi cortometraggi in distribuzione fra tutti i membri dello studio, con richieste d’aiuto per nuove gag. I canovacci in genere cominciavano con un sommario della storia – lungo circa quattro pagine – che era probabilmente dettato da un componente della squadra di sceneggiatori, seguito da note che visto il tipo di linguaggio sembravano proprio farina del sacco di Disney stesso, per esempio nel soggetto per Mickey’s Mechanical Man, ‘Mickey e il robot’ di Wilfred Jackson, del 1933 («Diamine, questo potrebbe portare a una svagonata di gag e a un Mickey nuovo di zecca»).104 In una sinossi distribuita nel luglio 1932, Disney si arrabbiò con chi dubitava non fosse possibile realizzare il corto Building a Building (Topolino al cantiere, di David hand, 1933): «Già due volte il lavoro è cominciato e tutt’e due le volte lo si è dovuto interrompere perché s’è pensato contenesse troppi dettagli. Non mi va giù. Credo che si possa affrontare in una versione semplificata e infine risultare molto efficace. […] Quindi vediamo di rimetterci al lavoro alla grande, per tirarne fuori un bel prodotto».105 C’era un che di insincero nel calore di Disney – chi altri se non lo stesso Walt avrebbe potuto «interrompere» un cartoon perché s’era «pensato contenesse troppi dettagli»? Eppure il suo entusiasmo era autentico. Nelle sue note aggiuntive, Disney adottava sempre un tono positivo, da «si può fare». Era l’agosto 1932 quando passò in rassegna i punti di forza di Mickey’s Good Deed (‘Mickey e la buona azione’, di Burt Gillett), un corto natalizio che sarebbe stato distribuito alla fine dell’anno: «Ecco una storia che ha tutto quello che serve per farne un successo. Una buona trama – buona atmosfera – personalità – pathos – e un bel mucchio di situazioni da gag. In questa storia ci sono sette sequenze principali e ciascuna presenta meravigliose opportunità per belle scene comiche e sprazzi di azioni umane. Mi aspetto che ciascuno di voi si inventi almeno una situazione comica per ogni sequenza».106 Disney aveva ragione a dire che la storia ha una trama. L’ha dal punto di vista strettamente aristotelico, con un inizio, uno svolgimento e una fine: si trattava di uno dei primi cartoon Disney di questo tipo. Nel novembre 1932, alla fine della progettazione narrativa di un cartoon di Topolino – una parodia dei drammoni in costume, ambientato nell’Inghilterra medievale – dal titolo Ye Olden Days

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(c’era una volta, di Burt Gillett, 1933), Disney parlò a lungo circa il potenziale comico della storia e su come i vari personaggi potessero esservi ritratti: «Vedo la storia come una meravigliosa possibilità per parodiare un’opera comica. […] Una volta tanto, mi piacerebbe che facessimo un Mickey costruito sulla base di buone idee musicali. […] Questo è il nostro primo Mickey in costume – pensate alle possibilità sceniche con il re e le sue vesti regali – i suoi sottoposti dall’aria buffa – il giullare e i musici di corte con i loro costumi d’epoca e le pance gonfie ecc. C’è spazio per una cortigiana impersonata da Clarabelle Cow, tratteggiata come zasu Pitts – potrebbe essere il tipo nervosetto che non ha la più pallida idea di cosa fare per dare una mano ma è comunque un carattere molto empatico – quando Minnie piange, piange pure lei e se Minnie s’innamora, s’innamora pure lei. […] Il re potrebbe essere il tipo burbero e che se la prende per un nonnulla. ho in mente quella storia con Mary Pickford, Dorothy Vernon of Haddon Hall. […] si può mettere qualche carattere buffo nell’esercito del re. I soldati potrebbero avere delle armi tipo degli archibugi con un supporto che li tenga su quando si spara – e che facciano un rumoraccio da clacson, misto a fragori indistinti».107 Queste annotazioni personali scompaiono dai soggetti a partire dall’inizio del 1933; le note di Disney, da allora in poi, sono di tipo più funzionale, più dritte al punto, meno intese di prima a sottolineare i sentimenti dietro alle scene comiche. Disney, un coordinatore ora anche più sicuro di sé rispetto a prima, stava procedendo nella sua graduale ritirata da quello che prima era un ruolo di supervisione giornaliera sull’operato dello studio. Quel lavoro, finalmente, stava strutturandosi in modo ben organizzato. Disney disse a Bob Thomas che Webb smith mise a punto, quasi per puro caso, quello che sarebbe stato chiamato in seguito storyboard: «Una mattina eravamo seduti nel suo ufficio a pensare a delle gag. […] Dopo pranzo entrai nello studio di Webb e vidi che s’era schizzato la sequenza su dei fogli di carta. Erano tutti sparpagliati per la stanza, sui tavoli, sul pavimento, dappertutto. Era troppo difficile trovar loro un senso compiuto, in quel modo; allora decidemmo di appenderli tutti al muro, in sequenza. Quello fu il primo storyboard».108 Ciò, probabilmente, non avvenne in modo così rapido e netto. se, come par lecito pensare, il primo vero storyboard fu concepito per il cartoon in Technicolor Babes in the Wood (citato alla Nota 108),

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altri cortometraggi furono approntati senza l’aiuto di storyboard veri e propri. Wilfred Jackson ricordò per esempio che lo storyboard di father Noah’s Ark (L’Arca di Noè, Silly Simphony del 1933 diretta da Jackson) «non era che un gruppo di schizzi sparsi qua e là sul muro in cui ogni gruppetto di disegni illustrava una gag o una breve sequenza di eventi che portavano a una qualche conclusione».109 forse ci volle un anno o due prima che l’idea di raccontare un’intera storia attraverso bozzetti appesi a un grande pannello di sughero prendesse piede. Tuttavia, anche se in forma embrionale, l’efficacia dello storyboard dovette fare breccia presso lo stesso Disney, in un periodo in cui i suoi impegni erano incalzanti, per non parlare dello stress procuratogli dai costi dei suoi cartoon e dalla crescita dello staff. Art Babbitt, un animatore che aveva lavorato per il nuovo studio Terrytoons di Paul Terry a New York, era uno dei molti acquisti recenti dello staff Disney, assunto nel luglio del 1932. Le lezioni del venerdì sera al Chouinard, in quel periodo, erano terminate. Come si capisce dall’aneddoto di Jack zander già riportato, molti animatori Disney erano stati restii a frequentare quel corso, ma nell’estate del ’32, con la veloce evoluzione del disegno animato e una crescente richiesta di competenze tecnico-artistiche, l’interesse per l’istruzione formale al disegno emerse con una certa evidenza. Quando Babbitt organizzò delle lezioni per conto suo e assunse una modella, in tre settimane sempre più suoi colleghi si aggregarono a lui.110 Disney vide che Babbitt aveva avuto riscontri in ciò che a lui non era riuscito. su invito di Disney, Babbitt trasferì le lezioni allo studio, dove Walt se ne fece garante. Nel 1973 Babbitt disse che Disney «era piuttosto turbato. Per come la mise lui, non sarebbe stato molto carino se i giornali se ne fossero usciti con la storia che un gruppo di artisti della Disney passavano il tempo a ritrarre donne svestite in una casa privata. […] Pensò cioè che l’effetto sarebbe stato assai migliore se queste lezioni artistiche si fossero tenute in sala proiezioni».111 Disney non dovette essere granché convinto dell’effettivo valore di queste lezioni, poco ma sicuro. Nel novembre del 1932 assunse un docente del Chouinard, Donald Wilkinson Graham, perché tenesse delle lezioni di disegno dal vero in studio, due sere alla settimana.112 Phil Dike, che al Chouinard insegnò pittura per quattro anni prima di raggiungere Graham allo studio Disney, disse del collega che «aveva un senso pratico con cui capiva cos’è che fa funzionare le

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cose, grazie al suo retroterra come ingegnere» – Graham aveva in precedenza studiato da ingegnere – «ma anche un discreto intuito».113 William hurtz, che studiò alla metà degli anni Trenta al Chouinard con Graham, annotò che questi «teneva molto allo spazio, ai volumi, al movimento – il suo era una sorta di approccio strutturale al disegno».114 Approccio altamente appropriato per personaggi animati come quelli che emergevano nei film Disney. Mentre gli animatori Disney imparavano come realizzare movimenti più naturalistici da innovazioni come ad esempio le pose dinamiche di ferguson, le lezioni di disegno dal vero imponevano loro di ampliare i propri orizzonti, a prendere in considerazione la vita reale a cui ora alcune loro animazioni cominciavano ad assomigliare. fin dagli esordi, i personaggi dei cartoon disneyani erano stati piatti e basati su formule semplici, per lo più animali i cui volti erano, come quello di Topolino, delle maschere bianche su fondi neri. Nel 1932, tuttavia, gli animatori di Disney stavano disegnando personaggi dall’aspetto più naturalistico (in termini molto generali) e che si muovevano in modo convincente in quello che aveva tutti i tratti di uno spazio tridimensionale. Una volta che una formula è stata stabilita, esercita una forte attrazione gravitazionale sugli artisti che se ne sono avvalsi. resisterle, e osservare la vita a occhio nudo col proposito di riprodurla più accuratamente, è un lavoro difficile, come gli artisti di Disney scoprirono. Gli effetti di questa dinamica sui loro disegni all’inizio furono, a volte, deludenti. «seguivo ’sto corso d’arte», disse Dick Lundy, «e poi riprendevo a lavorare e volevo provarmi a disegnare Mickey come se avesse le ossa; ma lui non era fatto così».115 Topolino era, senza alcun dubbio, un personaggio basato su una formula, ma si rivelarono problematici anche i personaggi umani. Nel valutare l’attendibilità delle figure sullo schermo, gli spettatori formulavano giudizi tanto più severi quanto più quei personaggi tendessero ad assomigliare alle persone reali. Lavorando con gli animali, gli animatori potevano migliorare il livello dei loro risultati senza prestare il fianco a giudizi mortificanti. Anzi, fu proprio nelle loro animazioni degli animali in Silly Symphonies come L’arca di Noè e Birds in the Spring (Uccelli in primavera, di David hand, 1933), che gli artisti Disney mostrarono con maggiore evidenza quanto velocemente le loro capacità stessero migliorando. Dall’inizio di quello stesso 1933 i cartoon Disney erano cambiati così in fretta, e per così tanti aspetti, che era giunto il momento

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ideale per un cortometraggio che nei suoi sette minuti mostrasse in tutto e per tutto quanto la Disney si fosse portata avanti e quanto ancora lontano potesse spingersi. Disney questo cartoon lo produsse: fu Three Little Pigs (i tre porcellini, di Burt Gillett), proiettato nel maggio di quell’anno. «Mi hanno detto», avrebbe scritto Disney, «che alcuni esercenti e perfino la United Artists consideravano i Pigs una “bufala” perché c’erano solo quattro personaggi».116 L’arca di Noè, al contrario, era un florilegio di animali di tutti i generi, nonché di personaggi umani. Ma il contenuto cast di Three Little Pigs era proprio quello di cui Disney in quel momento aveva bisogno. Aveva realizzato dei cartoon, come Santa’s Workshop (tradotto in Italia sia come La fabbrica di Babbo Natale, sia come La bottega di Babbo Natale, sia come Papà Natale, di Wilfred Jackson, 1932), complessi e dettagliati come giocattoli meccanici o come le vetrine dei grandi magazzini sotto le feste. I loro personaggi erano disegnati in stile più realistico di quelli delle produzioni precedenti, ma ancora non erano molto più che oggetti in movimento. In i tre porcellini, Disney realizzò invece un disegno animato nella cui visione l’attenzione del pubblico si sarebbe concentrata esclusivamente sui personaggi. Nella sua nota aggiuntiva al soggetto per i tre porcellini che circolava in studio durante il settembre 1932, Disney si dilungò su come rendere carismatici quei personaggi: Questi porcellini avranno l’aspetto di creature molto carine e dolci e dobbiamo fare in modo di sviluppare in essi un po’ di personalità. Usate delle vocine zuccherose che funzionino bene come coro e in sincronia, quando parlano all’unisono; e tutto quello che diranno e faranno nella prima parte della storia, mentre si stanno costruendo le casette, potrebbe essere fatto in maniera ritmata. Tutto ciò che dicono potrebbe essere sviluppato o come canto o in rima. Il vecchio lupo potrebbe essere il quarto elemento di un quartetto, con la voce di basso, sul tipo ruggiti e digrignare di denti. Quando gabba i porcellini, alzerà la voce in un falsetto acuto. Anche l’intero dialogo del lupo dovrebbe essere o in rima o cantato. […] Potreste provare a sottolineare il punto di vista del porcellino che ha lavorato più duro degli altri e ricevuto il suo riconoscimento, o qualche morale della favola. Qualcuno potrebbe dedicarsi a come si possa sottolineare questa morale in modo chiaro, ma senza dilungar-

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disney mostra il premio attribuitogli da una rivista di cinema per il miglior cortometraggio del 1933, vinto da three Little Pigs (i tre porcellini, di burt gillett, 8’, usa 1933). Quigley Photographic Collection, Walt disney file, georgetown university library, special Collection division, Washington, d.C.

si in troppi dettagli. A questo fattore si potrebbe dedicare particolare attenzione, dato che le cose di questo tipo, messe dentro a una storia, le danno profondità e sentimento. […] Questi porcellini saranno vestiti. Avranno anche attrazzi [sic] da muratori, travi ecc., con cui si metteranno a lavorare, e non devono essere raffigurati come allo stato brado. saranno più che altro come dei personaggi umani.117

solo pochi animatori lavorarono al film, assegnati in modo scrupoloso ai vari personaggi, in modo che Norm ferguson – il pioniere dello studio nel dare ai personaggi un soffio di vita – poté animare quasi per intero il Lupo Cattivo, laddove Dick Lundy e fred Moore, giovane animatore da poco arrivato, si dedicarono a quasi tutte le scene dei porcellini.118 Moore era un uomo basso e tarchiatello, sopravvissuto nei ricordi dei colleghi più o meno come se fosse stato lui stesso un cartoon.

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I disney, grandi appassionati di sci, posano nella neve, 1933. university of southern California, usC specialized libraries and archival Collections.

sebbene fosse un ottimo atleta, «le sue proporzioni erano minute […] ed era magnetico nello spingerti a osservarlo muoversi mentre imitava fred Astaire o Chaplin, o mentre si produceva in qualche divertente manovra da giocoliere», hanno scritto di lui gli animatori frank Thomas e ollie Johnston. «Anche se gli oggetti cadevano per terra, fred finiva sempre il numero in posa plastica: proprio come i suoi disegni».119 Nella prima fase del lavoro sulla storia, Albert hurter disegnò i porcellini come versioni stilizzate di veri cuccioli di maiale: lisci, rotondetti e rosa. Moore animò quei personaggi con la gradevole plasticità che gli animatori chiamano squash and stretch, ‘schiaccia e allunga’ – come noto, una delle dodici regole auree dell’animazione classica disneyana. Non c’era nulla di sfilacciato o maldestro in questo schiacciare e allungare: al contrario, Moore animava i suoi personaggi da una posa armoniosa all’altra. Non v’era la minima sensazione che la loro forma di base fosse compromessa solo perché nell’animazione erano stati iniettati un po’ di vita e

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di dinamismo. Invece, quale che fosse la forma che essi assumevano, la loro piacevole rotondità e coerenza formale era costantemente preservata. Norm ferguson aveva mostrato agli animatori come suggerire la vita in un personaggio. E ora Moore mostrò loro come accrescere quella sensazione, quasi al punto da far pensare che il personaggio fosse dotato di una personalità propria. La sua animazione in i tre porcellini – è lui l’autore delle scene iniziali, quando i porcellini si presentano – era pura magia. La profonda genialità del cortometraggio, tuttavia, stava nel fatto che tutta l’azione aveva luogo all’interno del tema musicale descritto da Disney. In Three Little Pigs l’espressione dei porcellini, e anche i loro movimenti, ancora rispondevano a delle formule – quel che era in mostra erano i loro atteggiamenti, più che le loro vere emozioni. Non c’era alcun rischio di scambiarli per delle creature in carne e ossa. Era la musica, che colmava lo iato. Three Little Pigs fu il primo cartoon a sfruttare appieno e platealmente quella sorta di stile da operetta che era venuto sviluppandosi nelle Silly Symphonies quasi dagli esordi dell’accordo con la United Artists. king Neptune (‘re Nettuno’, di Burt Gillett, 1932), musicato da Bert Lewis, si apriva con il protagonista del titolo che cantava una canzone su di sé, e il gusto da operetta era anche più intenso che in L’arca di Noè, i cui personaggi si presentavano cantando all’interno di una colonna sonora di Leigh harline dal sapore piuttosto classicheggiante.120 frank Churchill, autore delle musiche di i tre porcellini, non godeva della stessa cultura musicale di harline – quest’ultimo si era laureato in musica all’Università dello Utah – ma era un musicista molto duttile, competente come lo erano i compositori che avevano lavorato nel periodo del cinema muto: aveva l’abilità di improvvisare all’istante, per adattare la sua musica a qualsiasi cosa stesse avendo luogo sullo schermo.121 Churchill fu perfetto come compositore per i tre porcellini perché gli eventi gli richiedevano continui cambi di marcia. Quando il lupo fa finta di abbandonare la caccia ai due porcellini imprudenti, va a nascondersi accompagnato da quello che ross Care ha definito «un ipnotico e pacato “wolftrot”». Più in là durante il cortometraggio il Porcellino Pragmatico esegue, nelle parole di Care, «una perentoria cadenza al pianoforte alla rachmaninoff»,122 suonata sulla base della colonna sonora di Carl stalling – il compositore originario di Disney – tornato per breve tempo allo studio come collaboratore saltuario, «quando al

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lupo, e soffia che ti soffia, la faccia diventa letteralmente blu nel cercare invano di buttare giù la porta della casetta di mattoni».123 Tutto ciò ha luogo in una partitura dominata da Who’s Afraid of the Big Bad Wolf?, canzone che Churchill scrisse appositamente per il cartoon; eppure i tre porcellini è talmente frammentato in diverse situazioni e ripieno di musica che la canzone non vi viene mai riprodotta nella sua interezza. Da quando i registi e i musicisti cominciarono a lavorare insieme come équipe all’inizio degli anni Trenta, assegnare Churchill a i tre porcellini significava anche assegnarvi Burt Gillett. Gillett aveva diretto i Mickey Mouse cartoons, che dal 1933 erano divenuti una serie consacrata soprattutto ad avventure comiche descritte con semplicità. Anche se Topolino e gli altri personaggi di quei cartoon erano poco più rispetto a come Disney li avrebbe definiti in seguito, «bastoncini animati», a Walt probabilmente costò un po’ affidare a Gillett un corto come i tre porcellini, nel quale erano proprio i personaggi a stare al centro dell’attenzione. Gillett «era molto comunicativo, uno di quelli proprio bravi a convincerti delle sue idee», disse Ben sharpsteen. «Ti recitava le scene. In questo faceva proprio schifo, ma era quello che voleva Walt: era di stimolo».124 Gillett, ricordò pure Wilfred Jackson, si distingueva per il suo entusiasmo e la sua energia e per la tendenza all’euforia tipica dei ragazzini: era uno che si metteva a rincorrere le autopompe dei vigili del fuoco per strada, tanto per dirne una. Egli «mimava ogni cosa con tutto il corpo», disse ancora Jackson, e questo lo rendeva un «vicino casinista», poiché occupava la music room al piano superiore rispetto a quella di Jackson.125 Gillett non portò nella sua regia la cura e la precisione che Jackson dedicava alle sue Silly Symphonies. Dick huemer ricordò, quarant’anni dopo, che egli era «proprio atterrito dal tema del perfezionismo» quando accettò il primo incarico da Jackson, per una Silly Symphony del 1933 intitolata Lullaby Land (il paese della ninna nanna, di Jackson). «Il fatto che [Jackson] mi avesse dato una scena, e che tutte le inquadrature fossero segnalate, e che fossero disposti i trucking [movimenti di macchina di avvicinamento e allontanamento dai disegni] (non avevo mai sentito parlare prima di cartoon trucking), con un quadratino rosso a indicare dov’è che la scena dovesse essere inquadrata da vicino, […] tutto questo era stato affidato a me; per non parlare delle molte pose sulle quali lavorare».126 Come disse huemer, «tutto ciò che dovevo fare era

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solo fare muovere [i personaggi]»; e Jackson conferiva sempre con grande dedizione con i suoi animatori anche su come i personaggi dovessero muoversi. Gillett lavorò, in qualità di regista, con molta meno precisione, ciò che era esattamente l’approccio adottato dai capi animatori al lavoro su i tre porcellini (Moore e ferguson animarono raramente per Jackson). La cosa più importante, con Gillett come regista, fu che gli animatori che desideravano dare qualcosa in più ai personaggi di Three Little Pigs poterono facilmente trovare spazio per farlo, come in particolare nel caso di Moore. fu in questa accurata scelta degli abbinamenti fra registi e animatori, e nella comprensione di come la musica fosse in grado di supplire a una character animation sviluppata ancora solo a metà, che Walt Disney sviluppò il suo tocco da coordinatore, prima dentro lo studio e poi al di fuori dell’azienda. «La cosa principale» su i tre porcellini, disse Disney nel 1956, «fu una certa considerazione, riscossa presso l’industria e il pubblico, che queste cose potessero essere qualcosa di più che un topo che bighellona di qua e di là». i tre porcellini fu infatti un salto di qualità, specie con riguardo alle reazioni del pubblico. fu proiettato per una sola settimana (dal 25 al 31 maggio 1933) al radio City Music hall di New York, ma come si diffuse nei cinema della città raccolse sempre più entusiasmo. Nessun altro cortometraggio animato era mai stato così popolare; Three Little Pigs rimase in alcuni teatri per molte settimane, accompagnando di volta in volta diversi lungometraggi dal vero che nel frattempo si avvicendarono. Who’s Afraid of the Big Bad Wolf? fu la prima canzone di successo commerciale a provenire da un disegno animato. I tempi narrativi del cartoon, e in specie la canzone, fecero la differenza: i tre porcellini fu proiettato nel momento più buio della Depressione e la sua canzone poté essere interpretata come un’eco del primo discorso ufficiale del Presidente, franklin Delano roosevelt: il Lupo Cattivo poteva essere letto come un semplice babau che non era da temere in alcun modo, non più «della paura stessa», per citare appunto roosevelt.127 Invece altri cartoon non erano altro che gioiosi, nel prendersi gioco della Depressione in termini più espliciti ma senza produrre affatto lo stesso tipo di reazione pubblica. Il pervasivo successo di i tre porcellini si dovette, disse Disney nel 1941, al fatto che Walt e i suoi animatori stavano iniziando «a mettere nelle nostre caratterizzazioni dei sentimenti e una magia autentici».

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La parola chiave era «sentimento». Non che fossero distinguibili sentimenti reali, in i tre porcellini, ma era il primo corto animato Disney che impiegava appieno molti degli elementi – movimenti naturalistici, forme rotondeggianti che sembravano muoversi in uno spazio a tre dimensioni, personaggi dalle sembianze abbastanza realistiche da invitare a una sospensione dell’incredulità – in assoluto più cruciali nel caso in cui un cartoon fosse stato in effetti mirato a stringere un legame emotivo con il pubblico. E questo, come appariva sempre più chiaro, era ciò a cui Disney stava puntando con crescente intensità con i suoi disegni animati. Negli anni Venti hugh harman aveva posto grande attenzione alla recitazione dei cartoon; adesso Disney stava sfruttando sempre più le potenzialità insite nel fare recitare i personaggi. Lillian Disney ricordò come suo marito recitasse le scene «in continuazione: al cielo, agli uccelli, a tutto e tutti. Gesticolava a più non posso e parlava. […] rideva e recitava sulle cose su cui stava lavorando in quel momento. Non faceva che questo».128 Era difficile tradurre questo interesse per il «sentimento» in un tipo di animazione che lo contenesse per davvero, specialmente laddove fossero presenti personaggi umani. Quando gli autori di The Pied Piper (il pifferaio magico) cominciarono sotto la regia di Wilfred Jackson, nel maggio 1933, proprio mentre i tre porcellini faceva il suo ingresso al cinema, le scene chiave del sindaco di hamelin e del pifferaio stesso vennero date a due giovani animatori, hamilton Luske e Art Babbitt. Più di ogni altro animatore dello staff della Disney, in teoria erano loro quelli in grado non solo di dare all’animazione delle figure umane un buon livello di professionalità tecnica, ma anche di tradurre in modo efficace il loro intenso e analitico interesse su come il corpo umano in effetti si muovesse.129 Le loro scene avrebbero dovuto essere un grosso passo avanti rispetto a quelle di Norman ferguson sul Lupo Cattivo o a quelle di fred Moore con i Porcellini. Né ferguson né Moore avevano studiato i movimenti della realtà, come avevano fatto invece Luske e Babbitt. Eppure non c’è nulla di più ferale nella recitazione di un attore della percezione da parte del pubblico che stia avendo luogo una calcolata esecuzione di azioni che invece le persone, nella vita di tutti i giorni, compiono senza pensarci: è questo l’alone che pervade l’animazione di Babbitt e Luske. Per quanto naturalistici possano essere i movimenti specifici di un personaggio, questi movimenti non riescono, presi in sé, a rendere vitale il personaggio

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stesso. Invece è piuttosto vero il contrario: se isolati e sezionati da un’animazione scientifica, anche i movimenti di più accurata vicinanza a quelli umani sembrano manieristici e contraffatti. L’animazione di Norm ferguson e fred Moore era molto più vigorosa, ma è pur vero che le mancavano le idiosincrasie delle persone reali. Perciò la sfida dinnanzi a loro e a tutti gli altri animatori Disney era la stessa che anche artisti alle prese con forme espressive più legittimate avevano incontrata e cercato di vincere molte volte nel passato: tornare ai classici greci. Ciò che gli artisti classici ritenevano centrale, ha scritto Ernst h. Gombrich, era che la libertà da poco conquistata nel rappresentare il corpo umano in qualsiasi posizione o azione potesse essere esercitata per riflettere la vita interiore dei soggetti raffigurati. […] Questo è ciò che il grande filosofo socrate, egli stesso educato come scultore, invitava gli artisti a fare. Costoro dovevano rappresentare i «meccanismi dell’anima» osservando con cura il modo in base al quale «i sentimenti condizionano il corpo in azione».130

Disney e i suoi migliori animatori, nel lavorare sul loro umile medium, erano impegnati nel portare nell’animazione questo preciso tipo di dimensione emotiva, che rappresentasse le meccaniche del movimento con una accuratezza sempre crescente. Il loro non era un compito facile, visto che la storia del cartoon era stata fino allora piena di superficialità e formule trite. Nell’aprile del 1933, poco prima dell’uscita di Three Little Pigs, Paul fennell animò una scena per Mickey’s Mechanical Man, un corto in cui il robot del titolo fa del pugilato contro un gorilla. «Dovevo fare una prova con Minnie, mentre batteva la mano sul tappeto del ring», ricordò fennell: mostrò la prova a Disney nella sweatbox, che era a fianco alla music room di Wilfred Jackson. «Walt se la guardò, la sfogliò una seconda volta e poi disse: “sai cosa c’è che non va in questa scena? Tu non ne sai niente di psicologia. Devi proprio andartene a casa e leggerti un libro di psicologia. È questione di sentimenti. Devi essere Minnie nel profondo, devi tifare affinché Mickey sconfigga quel grosso testone. Devi colpire il tappeto con tutta la forza, devi sporgerti più che puoi”. Mi beccai una bella sgridata, ma non ci capii un’acca. Più tardi, però, afferrai quello che aveva cercato di dirmi. E ci entrò in testa: sentimento».131

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Nel 1933 Disney aveva fatto presa sui suoi migliori animatori e le sue ambizioni circa il medium stavano crescendo ben oltre quelle dei suoi impiegati. Adesso erano sempre di meno le occasioni in cui emergeva il Disney sgarbato degli anni Venti, il Disney che aveva fatto allontanare hugh harman, Ub Iwerks e Carl stalling. Il Disney a capo dell’azienda era ancora una volta il Disney euforico e ambizioso che aveva messo su il suo studio di cartoon a soli vent’anni, ma ora con un’esperienza decennale nel campo dell’animazione e, elemento anche più importante, con un un nuovo entusiasmo artistico sulle possibilità che vi scorgeva. fu questa combinazione – la sua vigorosa intraprendenza gestionale combinata con questa rinnovata sensibilità artistica – che rese Disney una figura tanto carismatica per molte delle persone che lavoravano per lui alla metà degli anni Trenta. «In qualche modo», disse Wilfred Jackson, «Walt mi diede sempre l’idea che la cosa più importante del mondo fosse aiutarlo a fare un film nel modo in cui lui voleva che fosse. Era molto gratificante sentire che, giorno dopo giorno, portavo avanti la cosa più importante al mondo».132

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