Gianluca Aicardi
M for Moore
Nel corso della sua lunga storia il fumetto ha attraversato vari momenti di rinnovamento e maturazione, tappe di un’evoluzione che ha condotto l’intero medium alla forma e ai contenuti che oggi può considerare propri. Uno dei passaggi più significativi è stato senza dubbio quello che a metà degli anni Ottanta ha conferito nuova personalità al fumetto americano, creando i presupposti per quella rivoluzione filosofica e tecnica i cui frutti si sarebbero raccolti nei due successivi decenni. Ma l’autore simbolo del «Rinascimento Americano» sarà uno scrittore inglese di nome Alan Moore, colui che saprà ideare e realizzare, con grande creatività, lucidità e coerenza, quella trasformazione capace di rendere adulti e stimolanti i vecchi eroi ingenui delle pubblicazioni mainstream. Nel 1984, i primi numeri del suo Swamp Thing hanno mostrato una via inedita e sorprendente alla narrazione sequenziale, che proprio grazie alle sue sceneggiature inventive e toccanti di lì a poco avrebbe raggiunto uno dei suo massimi esiti di sempre, la miniserie-capolavoro Watchmen. Oggi l’imminente uscita della riduzione cinematografica di V for Vendetta, già ripudiata da un Moore sempre meno incline ai compromessi con la superficiale industria dell’intrattenimento, è l’occasione per ripercorrere la carriera di uno dei più stimati e celebrati creatori del fumetto mondiale, dagli esordi sulle storiche riviste britanniche, culminati nella citata serie appena trasposta sullo schermo, al revisionismo supereroico attuato per la DC Comics, fino alle più recenti opere personali intrise di misticismo e spirito visionario, come il complesso From Hell, viaggio nella psiche di Jack lo Squartatore che ha richiesto un decennio di lavoro, e l’affascinante Promethea, realizzato per la divisione editoriale che lo stesso Moore ha diretto negli ultimi sei anni, ultima impresa di un eccentrico sognatore che con le sue storie ha saputo parlarci di storia, politica, magia, amore, ma soprattutto degli orrori e delle meraviglie dell’animo umano. Gianluca Aicardi (Genova, 1973) lavora dal 1999 nel campo del cinema d’animazione e del fumetto, ricoprendo mansioni di direttore di produzione, dialoghista, direttore artistico e supervisore al doppiaggio. All’inizio del 2004 ha fondato AD LIBITUM, società che fornisce servizi di traduzione e adattamento per prodotti editoriali e audiovisivi. È stato ideatore e fondatore di eMotion (IHT Gruppo Editoriale), magazine dedicato al cinema d’animazione, di cui è tuttora co-direttore editoriale. È vicepresidente dell’Associazione Culturale Emile Reynaud e curatore della rubrica Animascopio (su Komix.it Fumetti @ 360°), e organizza rassegne e serate di cinema con la divisione Events di AD LIBITUM. Con Tunué ha pubblicato Sin Cinema. Il genio di Frank Miller da Daredevil e Batman a Sin City, e sta attualmente preparando un ampio studio sulle forme e gli stili del cinema d’animazione.
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Il genio di Alan Moore da V for Vendetta e Watchmen a Promethea
Le virgole. Autori e Personaggi 6
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I edizione: febbraio 2006 Copyright © Tunué Srl Via degli Ernici 30 04100 Latina – Italy info@tunue.com www.tunue.com
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.
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ISBN 88-89613-13-0
ISBN-13 EAN 978-88-98613-13-9
Progetto grafico e copertina: Daniele Inchingoli
Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy
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Indice
Premessa Introduzione
I. ALAN MOORE, LO STREGONE DEI COMICS Epifania di un rivoluzionario Esordi autarchici Futuro su commissione L’avvento del guerriero Lezione di fumetto Rinascimento Viaggio all’inferno Il ritorno degli eroi I migliori fumetti d’America II. VIGNETTE INCANTATE Alan Moore in dieci titoli V for Vendetta Marvelman Swamp Thing Watchmen Brought to Light From Hell Lost Girls Supreme
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The League of Extraordinary Gentlemen Promethea
III. SCHERMI MALEDETTI
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Appendice 1. The Moore Biblionomicon 96 Appendice 2. Moore Awards. Il palmarès di Alan Moore 116
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Premessa Perché un libro su Alan Moore?
Il nome di Alan Moore è uno di quelli da cui nessuno studioso di arte sequenziale può prescindere. Principale innovatore del fumetto americano degli ultimi venticinque anni, Moore, al pari dell’altro grande nome della sua epoca, Frank Miller, è stato capace di forgiare una nuova e più profonda visione del medium, di ampliarne gli orizzonti e la sua stessa concezione operativa, dando il via a quel movimento virtuale nato intorno alla metà degli anni Ottanta e che sarà in seguito definito «Rinascimento Americano»: un nuovo modo di pensare i limiti e gli scopi del fumetto, che avrebbe indicato la direzione a tutti gli autori successivi che volessero raccogliere l’eredità di un’arte che si era ormai fatta più matura nei contenuti e più varia e sofisticata nelle forme. Inglese di Northampton, uomo eccentrico dagli interessi multiformi e dalla curiosità mai appagata, Moore ha anche capitanato quell’invasione di autori britannici destinati a diventare le nuove star del fumetto a stelle e strisce, spianando la strada a scrittori o disegnatori come Grant Morrison, Pete Milligan, Bryan Talbot, Simon Bisley o Garth Ennis, artisti dotati di un’originalità inedita per la scena americana, tutti svezzati sulle pagine della storica rivista inglese 2000 A.D., su cui Moore stesso aveva mosso i primi passi professionali di scrittore, creando storie già dotate dei caratteri fondamentali delle sue ideazioni: ironia, impegno intellettuale,
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estrema diversificazione dei mezzi espressivi, cura maniacale del dettaglio e la capacità di usare il fumetto per veicolare non tanto un messaggio o un tema, quanto la suprema realizzazione dell’idea creativa. Un’inclinazione rintracciabile già nei primi fumetti realizzati per l’americana DC Comics, come lo storico V for Vendetta (prosecuzione di una serie iniziata sulla rivista inglese Warrior) e Watchmen, il suo probabile più noto capolavoro; e che prosegue nel momento in cui l’indagine di Moore comincia ad aver bisogno di affrancarsi dai limiti del mercato di massa, producendo opere di straordinaria audacia e personalità all’interno del ribollente e vitalissimo microcosmo dei piccoli editori indipendenti, che Moore contribuisce a fertilizzare e sviluppare. Fino al più recente Promethea, opera magico-simbolica prodotta dalla divisione editoriale da lui stesso creata in seno alla Wildstorm, e che racchiude il suo pensiero filosofico, nutrito da intensi studi e affinato in coinvolgenti performance mistico-musicali, Moore continua a essere l’autore di riferimento del panorama americano, da poco scoperto anche da un mondo del cinema (è prossimo l’esordio nelle sale del film tratto da V for Vendetta), il quale nella sua dimensione hollywoodiana non è sembrato finora in grado di assimilare la minima parte delle suggestioni di un autore tanto complesso quanto affascinante. G.A. Genova, febbraio 2006
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Introduzione
Quando qualcuno, anche oziosamente, mi chiede quale penso sia il miglior libro che abbia mai letto, o il miglior film che abbia mai visto, la mia mente vaga incerta fra una moltitudine di titoli, volti, autori, registi, con la consapevolezza che una risposta convincente non riuscirei mai a darla neanche a me stesso. Per fortuna. Ma quando qualcuno, altrettanto oziosamente, mi chiede quale sia l’opera a fumetti che io consiglierei a chiunque, senza alcuna controindicazione (è una domanda diversa, mi rendo conto, ma in qualche modo contiene in sé lo spirito della precedente), ecco, in quel caso c’è un titolo che riaffiora per primo, un’immagine che si fa strada più rapidamente di tutte le (molte) altre. Ridotta alla sua essenza mnemonica, è l’immagine di uno «smile» macchiato da una goccia di sangue: la copertina del primo numero di Watchmen, uno dei capolavori partoriti dalla penna di Alan Moore. La maggior parte delle introduzioni a saggi e articoli dedicati allo scrittore inglese non nascondono una sconfinata ammirazione per l’oggetto del loro discorso, e prima o poi finiscono per abbandonare ogni pudore e affermare qualcosa del tipo «Alan Moore è il più grande fumettista del mondo». Non voglio fare lo snob, e non sarò certo io a farmi lo scrupolo di negarlo. Anche perché, se quella frase viene ripetuta
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così spesso, un motivo c’è: la maggior parte dei saggi e degli articoli che trattano di lui, per quanto ci provino, non riescono a non giungere a questa sconcertante conclusione. Alan Moore è il più grande fumettista del mondo. Ma dietro a questa specie di slogan, apparentemente sbandierato come atto di fede, si nasconde in realtà il risultato di un’analisi riproducibile e condivisibile. Moore, al di là del merito delle sue opere, che hanno comunque segnato e influenzato la storia recente del fumetto, rappresenta la più completa e inattaccabile espressione di quel complesso e delicato equilibrio che dovrebbe sempre venire a crearsi fra gli elementi fondanti dell’arte sequenziale, parole e immagini, se si vuole generare un esito efficace e memorabile. Non si tratta, dunque, soltanto di un elogio alle capacità di Moore come sceneggiatore (nella prima parte della sua carriera fu anche autore dei disegni, e non privo di un certo talento, benché nessuno si sognerebbe di dire che sia mai stato «il più grande disegnatore del mondo»); è il modo in cui la sua riflessione sul mezzo, testimoniata da un’attività critica altrettanto intensa e acuta, s’incentra su una ferma distinzione fra narrativa scritta ed elementi letterari di un fumetto, e fra cinema ed elementi cinematografici di un fumetto. Entrambi questi approcci si ritrovano nelle sceneggiature di Moore, che è sempre pienamente consapevole dei processi grazie ai quali il fumetto può apparentarsi con le altri arti; ma il suo presupposto tecnico, sorprendentemente semplice, così come è esposto nel suo fondamentale saggio Writing for Comics (scritto nel 1985 per una fanzine inglese non meglio identificata e riproposto dalla Avatar Press nel 2003), è cercare di realizzare col fumetto ciò che la letteratura scritta non è in grado di descrivere e ciò che il cinema non è in grado di mostrare: da qui la sostanziale impossibilità di trarre dai suoi fumetti riduzioni cinematografiche anche solo lontanamente adeguate, come dimostra l’esempio recente del film di V for Vendetta, scritto e prodotto dai fratelli Wachowski e che Moore ha violentemente ripu12
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INTRODUZIONE
diato. A ciò si sposa un complementare presupposto autoriale: l’effetto massimo ottenuto con la cura tecnica, la capacità stilistico-letteraria, la fascinazione visiva e la titanica meticolosità della ricostruzione, anche per ambientazioni che ci appaiono fantasiose o ironiche, dovranno essere rivestiti di temi legati al mondo circostante, alle problematiche sociali e, in ultima analisi, alle vicissitudini interiori ed esteriori dell’animo umano e delle sue radici collettive e ancestrali.
Per questo, affrontare la produzione artistica di Moore significa contemplare un ribollente caos composito, un maelström creativo senza confini, che tutto abbraccia e tutto invade ed esplora, debordando spesso dall’ambiente dei comics, che è solo uno dei suoi campi di battaglia: di lui potrebbe trovarsi a parlare tanto un saggista di fumetto quanto il redattore di una rivista musicale, tanto un critico letterario quanto il recensore di una pubblicazione dedicata al teatro sperimentale, o un estensore di commentari esoterici. È bene però rivendicare sempre l’origine primigenia di tutta la sua ispirazione multiforme, quel medium così popolare, che per primo attira l’attenzione dell’irrequieto giovane Moore, ancora indeciso sulla direzione da assegnare all’urgenza di espressione che premeva dall’interno contro le sue pareti cerebrali, come un demone in gabbia. Il medium dei supereroi in calzamaglia come Marvelman e degli avventurieri scientifici come Dan Dare, dei colpi di scena delle storielle macabre della EC e delle deformazioni satiriche di MAD; un medium che Moore sentiva e capiva poteva essere usato in molti altri modi, togliendo a quegli stessi personaggi dai meccanismi triti quell’alone di ingenua immutabilità, e conducendo Superman a spasso per le vere angosce della seconda metà del XX secolo. Alan Moore è quel tipo di autore che trascorre la vita a narrare e ricamare la stessa unica grande storia, o meglio lo stesso intricato coacervo di storie primigenie, partendo dalle sue 13
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stesse radici storico-culturali, quelle della sua amata Northampton; ma lo fa in un modo talmente esteso e sfaccettato da non darne alcun indizio superficiale, arrivando a comprendere nel suo corpus creativo un cosmo intero di rappresentazioni possibili della condizione umana da lui testimoniata in prima persona. Raramente una produzione è apparsa tanto variegata, spostandosi dalle storie dei classici supereroi seriali ai romanzi grafici di ambientazione vittoriana; dai miti americani alle antiche leggende britanniche; dai mostri sensibili dei tradizionali «fumettoni» horror alle inchieste del giornalismo d’impegno civile; dalla satira di costume alle vicende liriche in cui l’autobiografismo si stempera nella descrizione quasi entomologica della natura umana. L’attività di Moore è sempre vitale, sempre perfettamente ripartita tra il mondo irrazionale, emotivo, toccante dei suoi temi e della sua poetica, e la precisione intellettuale, chirurgica, infallibile del suo metodo, anglosassone tanto nell’uso creativo delle parole quanto nella loro combinazione con le immagini. Ed è dunque questo a renderlo un autore praticamente senza paragoni nel mondo del fumetto, un mondo sempre incline a tributare più onori e gloria a chi usa matite e pennelli anziché a chi batte sulla macchina da scrivere (e anche in questo è un’eccezione: Moore è acclamato da pubblico e critica, riceve premi prestigiosi, smuove grandi masse di lettori, e viene persino citato nei ritornelli delle canzoni pop), ignorando che, come Moore stesso rivendica, neanche il più valido artista grafico esistente può salvare un fumetto privo di idee. Il suo segreto è essere uno sceneggiatore di enorme e perfezionata tecnica, attento a ogni dettaglio, consapevole dei mezzi e capace di creare soluzioni originali e sorprendenti a ogni tavola che minuziosamente delinea nei suoi script, suscitando un misto di gioia, terrore e frustrazione nei disegnatori che di volta in volta si trovino a ricevere da lui plichi infiniti di materiale di documentazione; eppure, nello stesso tempo, riuscendo a non lasciare che questa abilità tecnica e questa 14
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INTRODUZIONE
costante preoccupazione per tutti gli aspetti dello storytelling sovrastino il senso di ciò che sta narrando: i suoi numerosi esperimenti non sono mai indirizzati a uno studio del medium fine a sé stesso, né i virtuosismi tecnici si trovano mai a oscurare il contenuto, le emozioni e i temi veicolati, il senso complessivo delle opere. Con un’alchimia difficile anche solo da analizzare nei suoi elementi, ma in realtà lapalissiana da esporre, Moore mette tutto il suo paraphernalia di espedienti al servizio della sua suprema divinità: l’Idea, quell’impalpabile fulcro assoluto, quel misto di verità e romanzo, di esperienza e conoscenza, che egli stesso è arrivato a celebrare nel suo più recente capolavoro, Promethea. Ma persino quando Moore diventa metanarrativo, talvolta con fare apertamente giocoso, la sensazione finale non è mai quella di un gioco che perda di significato nel momento stesso in cui si svela, bensì quella di un veicolo, a volte un minaccioso ed essenziale missile, a volte un divertente carro allegorico, sul cui più alto scranno siede sempre l’Idea. Attraverso l’Idea Moore ha potuto parlarci, senza cadere nella retorica didascalica, di quasi ogni stortura della società che lo circonda, dell’Uomo, della Storia e della Vita, da lui celebrata in modo anarchico e vitale. E la vita stessa di Moore, al contrario di quella di molti altri colleghi, le cui vicende biografiche sono unicamente e strettamente punteggiate dagli esiti artistici, potrebbe meritare essa stessa un romanzo dalle molte sfaccettature: giovane ribelle, giornalista militante, guru della contestazione, poeta, illustratore, teatrante, musicista rock, stregone del caos, creatore di eventi multimediali, teorico del fumetto, eccentrico compagno, gentile consigliere (non per nulla il suo miglior amico Rick Veitch lo ha soprannominato “Affable Al”), feroce censore dell’industria del fumetto con cui ha amoreggiato per un quarto di secolo, ora lasciandola «per sempre» e cercando rifugio nelle più sane pratiche occulte, ora tornando sui suoi passi come un amante in astinenza; Moore è stato tutto questo e altro ancora, un mistero nascosto sotto la sua carat15
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teristica e inalterabile capigliatura straripante che rievoca gli anni Sessanta di Woodstock e dell’Isola di Wight, e l’immensa barba da mangiafuoco, un po’ minacciosa e un po’ démodé; quella barba oggi punteggiata dal biancore dei cinquant’anni passati, che ne hanno addolcito il rabbioso animo giovanile senza però spegnere il fuoco interiore che continua a sorprendere a ogni nuova impresa e ad ogni nuova battaglia. Come un altro grande mago-affabulatore dei fumetto mondiale, l’antiteticamente cosmopolita Alexandro Jodorowsky, Moore racconta il mondo attraverso sé stesso, gioca con le parole e con i ricordi, denunciando tutto ciò che non si conforma alla purezza che si può facilmente scorgere in lui, dietro il suo manto di ironia, misticismo e fervore controculturale. Così, non posso avere dubbi di fronte al mio ozioso interlocutore e alle sue domande spinose sulle mie preferenze fumettistiche. Perché quando lessi Watchmen, con i suoi metapersonaggi disperati, le sue tremende simmetrie, i suoi molteplici piani narrativi e la potente critica ispirata a Giovenale sui rapporti fra i poteri della società, ero sicuro che quello non poteva essere un «fumetto di supereroi»; ma anche che non avevo mai letto niente del genere prima d’allora. Nessuno lo aveva fatto. Per questo non ci metto molto a rispondere a quella domanda: so qual è il miglior fumetto che abbia mai letto, o almeno so sullo scaffale di quale autore andare a cercarlo. Per fortuna.
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I. Alan Moore, lo stregone dei comics
Epifania di un rivoluzionario
Alan Moore nasce il 18 novembre 1953 a Northampton, nel pieno della depressa zona industriale post-bellica compresa fra gli agglomerati urbani di Londra e Birmingham. Scorrere anche brevemente le vicende storiche di cui Northampton è stata testimone nel corso dei secoli aiuta a capire più intimamente la storia personale di Moore e del suo universo creativo, di cui Northampton costituisce l’essenziale e meno evidente chiave di volta. Con i suoi attuali 200mila abitanti, la più ampia delle town inglesi (ovvero centri urbani che non hanno mai ottenuto lo status di «city») vanta una storia densa e insospettabile, da spettatrice distaccata e provinciale degli eventi del mondo. Già esistente in età romana, Northampton assiste insieme alla sua futura contea alla costruzione del Vallo di Adriano, poi all’avvento dei Normanni; oltrepassa un Medio Evo percorso da magia e inquisizione; osserva da vicino gli intrighi dei Tudor e degli Stuart e le Guerri Civili Inglesi, supportando il Movimento Parlamentare, per arrivare a un’età moderna in cui diviene involontariamente campione del pensiero radicale e iconoclasta (l’attivista ateo ottocentesco Charles Bradlaugh fu eletto proprio in questo collegio); infine, quale beffardo contrappasso, giunge a profittare amoralmente del sangue versato nelle due guerre mondiali grazie al suo
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ruolo di leader nell’industria manifatturiera del cuoio per calzature, impiegato per fabbricare gli stivali dei soldati: un’attività, che, come molte altre, è oggi totalmente scomparsa, lasciando spesso tracce grottesche, veri e propri scheletri di dinosauri congelati in pose surreali, come l’immensa torre per i test degli ascensori, che si erge inutilizzata, meritando l’appellativo ironico di «Faro di Northampton» (non servirà notare che Northampton è uno dei luoghi più lontani dalla costa di tutta l’Inghilterra). Con le radici fermamente affondate in questo proteiforme calderone di storia e leggende1 che in seguito avrebbe ispirato il suo romanzo Voice of the Fire (1996), il giovane Alan cresce nella povertà e nelle disillusioni del secondo dopoguerra, figlio di Ernest Moore, operaio di una distilleria, e di Sylvia Doreen, dipendente di un tipografo. E birra e carta stampata è tutto quello che la Northampton degli anni Sessanta sembra avere da offrirgli: bambino sensibile, fortemente influenzato dai deliri religiosi di una nonna fanatica, Moore diviene un adolescente irrequieto, che arriva a farsi espellere da scuola perché scoperto a spacciare acidi. Ma ai viaggi psichedelici, che fanno anch’essi parte del retaggio di un’epoca segnata dalla ribellione e dalla voglia di sovvertire le regole passate, Voice of the Fire, il romanzo con cui Moore affianca già da Moore ha raccontato la storia magica del tempo altri tipi di esplorasuo luogo natale, Northampton. zioni oniriche, quelle provo© Victor Gollancz Ltd. / Top Shelf 18
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cate dalla lettura dei fumetti nuovi e vecchi, provenienti tanto dalle stamperie britanniche quanto dai magazzini delle major d’oltreoceano che inviavano i resi nel Regno Unito. Cresciuto con i fumetti conservatori della D.C. Thomson,2 il piccolo Moore scopre in seguito i supereroi classici dell’americana DC Comics, e ha 8 anni quando Stan Lee rivoluziona la Atlas, appena trasformatasi in Marvel Comics, lanciando una nuova era di eroi con superpoteri e superproblemi (il Il Captain Atom di Steve Ditko, uno dei Moore adulto definirà que- supereroi della Charlton che hanno rieml’infanzia di Moore e che torneranno sto cambiamento come «un pito in varie forme nella sua carriera. passaggio dai personaggi © DC Comics monodimensionali ai personaggi bidimensionali»). Moore è peraltro un lettore onnivoro e divora di tutto, dai classici eroi inglesi di fantascienza come Dan Dare ai supereroi della Charlton,3 e dalle testate orrorifiche trasgressive della EC Comics ai prodotti underground come la celebre rivista satirica MAD, il suo corrispettivo inglese Oz, o la fanzine Graphic Story Magazine che ripubblicava in Gran Bretagna il vecchio Spirit di Will Eisner. Un patrimonio storico che da un lato il Moore autore celebrerà con affetto, dall’altro sentirà il bisogno di svecchiare, di ridefinire, sovvertire, anche mediante una vivace riflessione critica sul medium che non tarda ad esprimersi. 19
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Esordi autarchici
Formatosi un’istruzione da autodidatta a base di musica rock, romanzi beat (William Burroughs su tutti) e controcultura, lontano dalle istituzioni scolastiche che mal tolleravano le sue giovanili trasgressioni e il suo evidente anarchismo, Moore comincia giovanissimo a pubblicare contributi di vario genere, dalla poesia al racconto all’illustrazione.4 Tra il luglio 1970 e il novembre 1971 produce, sotto l’egida del «Northampton Arts Lab» fondato con alcuni amici, i cinque numeri di Embryo, una fanzine ciclostilata distribuita a mano e contenente, fra gli altri, alcuni poemetti scritti da Moore su temi lovecraftiani e orwelliani, due sue grandi passioni che torneranno a riproporsi nella sua carriera. Negli editoriali che scrive si ritrovano già molte delle caratteristiche che metterà in luce negli anni a venire: la lucidità creativa basata su un manifesto teorico coerente, la ferma volontà di opporsi al perbenismo e alle consuetudini sterili, l’ironia sottile e sorniona. Già interessato alla produzione di fumetti, ma privo di qualunque base teorica nel disegno, Moore si cimenta anche in illustrazioni e vignette per Embryo (e per la sua gemella, Fitz Rovel) e sul n. 5 dà vita al suo esordio nell’arte sequenziale, con la storia fantascientifica Once There Were Daemons. Per tutti gli anni Settanta si diletterà nella produzione di fumetti per le locali riviste di letteratura alternativa,5 usando lo pseudonimo di «Curt Vile». Ma tutto questo sforzo artistico non porta alcun soldo in cassa, e Moore, che nel 1974 si è sposato con la sua conterranea Phyllis (la loro prima figlia, Leah, nascerà il 4 febbraio 1978), per sbarcare il lunario è costretto a impegnarsi in una lunga serie di lavori ben poco culturali: inserviente in un macello, uomo delle pulizie in un albergo, quindi impiegato in un piccolo ufficio. Solo a partire dal 1979 Curt Vile comincerà a essere pagato per le sue produzioni, collaborando con il magazine musicale Sounds, dove ritrova il suo quasi omonimo sceneggiatore Steve 20
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Once There Were Daemons, prima storia a fumetti di Moore (pubblicata sulla fanzine Embryo), ci offre un saggio della sua tralasciata abilità di disegnatore.
Moore,6 incontrato sulla fanzine Dark Star e con cui tornerà a collaborare venticinque anni dopo per le serie dell’etichetta America’s Best Comics. Nello stesso anno arriva anche la commissione di una striscia da parte del quotidiano Northants Post, per cui Moore, con lo pseudonimo «Jill de Ray», crea il «Garfield politico» Maxwell the Magic Cat,7 che continuerà a produrre settimanalmente fino al 1986, e rimarrà così la serializzazione più lunga della sua intera carriera, nonché la sua ultima attività come autore completo di testi e disegni. 21
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Una delle raccolte di Maxwell the Magic Cat, la striscia realizzata interamente da Moore per il quotidiano Northants Post. © Acme Press
Futuro su commissione
Ma già nel 1980 la maggior visibilità fornita da queste pubblicazioni gli conquista le pagine di editori nazionali ancora più importanti, trovando spazio simultaneamente su due delle riviste a fumetti fondamentali nel panorama britannico dell’epoca: 2000 A.D. della Fleetway8 e Doctor Who Weekly della Marvel UK, che ormai non si accontentava più di importare materiale dalla casamadre americana, ma produceva storie e personaggi propri. Con l’inizio del nuovo e decisivo decennio, la via del professionismo per Moore era ormai fermamente intrapresa.
Il contenitore settimanale 2000 A.D., nato nel 1977 sulla scia del nuovo boom fantascientifico fomentato dall’uscita nelle sale del Guerre stellari di George Lucas, era divenuto in brevissimo tempo la più importante fucina di autori inglesi da esportazione, e il più innovativo prodotto della vecchia Inghilterra a fumetti. Avviato da due talenti come Pat Mills e John Wagner, avrebbe tenuto a battesimo uno dei personaggi britannici più riusciti e duraturi, l’inflessibile Judge Dredd di Wagner e Carlos Ezquerra, poliziotto-giudice-boia di un futuro fascistoide. L’ambiente della rivista, ironico, creativo e rispettoso delle identità degli artisti, era perfetto per un autore satirico raffinato e politicizzato come Moore, la cui passione per 22
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la fantascienza anticonvenzionale aveva finora segnato la maggior parte della produzione. Qui lo scrittore di Northampton potrà mettere le sue idee al servizio della crema dei disegnatori britannici contemporanei, nomi del calibro di Dave Gibbons, Steve Dillon, Ian Gibson, Brendan McCarthy, John Higgins, Garry Leach, Paul Neary, Bryan Talbot, Jesus Redondo, Alan Davis, con molti dei quali si creeranno rapporti deputati a future grandezze. La cinquantina di storie brevi autoconclusive scritte per 2000 A.D. fra il 1980 e il 19839 sono piccoli gioielli di humour nero, in cui Moore ha modo di parodiare vari stili e tematiche, dall’hard boiled alla fantascienza hardcore, dai viaggi nel tempo alle storie fantastiche e macabre in stile Wally Wood: una totale libertà di spaziare e divertirsi di cui si riapproprierà in tempi recenti con l’antologico Tomorrow Stories creato per la sua recente e già citata etichetta America’s Best Comics. Il personaggio più ricorrente è il mutante Abelard Snazz, l’uomo con due cervelli, sedicente genio che in realtà complica all’infinito i problemi che è chiamato a risolvere, dando modo a Moore di cimentarsi in vari paradossi logico-scientifici. Per il settimanale a fumetti dedicato al Doctor Who, popolarissimo serial televisivo di fantascienza prodotto ininterrottamente dalla BBC fra il 1963 e il 1989, Moore realizza invece soltanto un paio di storie, che però sono le prime che lo vedono lavorare in coppia con un disegnatore;10 e si tratta di un certo David Lloyd, nome che ricomparirà un paio d’anni dopo per un progetto di Moore destinato a segnare la storia del fumetto. Ma intanto il Doctor Who Weekly e la sua versione mensile (per la quale tra il 1980 e il 1981 sceneggia altre tre storie, di cui due ancora su disegni di Lloyd) sono la chiave d’ingresso alla divisione inglese della Marvel Comics, cioè l’editore di fumetti più redditizio di tutto il Regno Unito, da poco riorganizzato e rilanciato dall’editor inglese Dez Skinn (che lascerà il suo ruolo alla fine del 1981), con l’aiuto di uno dei disegnatori di 2000 A.D., Paul Neary. 23
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Dopo alcune storie per Star Wars: The Empire Strikes Back Monthly, una delle quali disegnata da Alan Davis, Moore approda a una delle principali testate antologiche inglesi di supereroi, Marvel Super-Heroes Magazine, con il n. 386 del giugno 1982. Qui gli vengono affidati due serial, dapprima Captain Britain, che apparirà fino al n. 388 e continuerà sui primi undici numeri di The Darevevils,11 poi su The Mighty World of Marvel; quindi Night Raven.12 Il primo in particolare è alquanto significativo, essendo il personaggio simbolo della Marvel UK, creato appositamente da Chris Claremont ed Herb Trimpe nel 1976 per farne il Capitan America britannico. Il personaggio tuttavia non brillò mai ed ebbe alterne fortune editoriali (la testata Captain Britain chiuse i battenti dopo 39 numeri, costringendo l’eroe a varie migrazioni da un mensile all’altro per evitare l’oblio definitivo), fino all’arrivo su Marvel Super-Heroes n. 377, dove fu preso in consegna da Dave Thorpe e Alan Davis. Thorpe aveva cercato un po’ maldestramente di inserire connotazioni politiche nella serie, una cosa che Moore tenterà di piegare a suo vantaggio nel corso della sua gestione biennale (dal giugno 1982 al giugno 1984), che produrrà lo story-arc denominato Jasper’s Warp.13 Moore si è prefisso di azzerare il personaggio per riplasmarlo a suo piacimento, ma Captain Britain, disegnato da Alan il risultato non è del tutto Davis, primo grosso impegno di Moore soddisfacente, l’universo di per la Marvel. Capitan Bretagna è fin troppo © Marvel Comics 24
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variopinto e camp per riuscire a renderlo efficace riconnotandolo in senso realistico, così Moore si concentra su personaggi pittoreschi e situazioni paradossali, inserendo diversi elementi che sarebbero poi rimasti legati al personaggio; benché questo rimanga l’esito massimo raggiunto dall’eroe britannico in una serie in cui sia stato protagonista,14 si segnala soprattutto per i disegni morbidi e il design accattivante di Davis, che inventa anche varie soluzioni visive per riuscire a contenere le complesse sceneggiature di Moore nelle 8 tavole a disposizione in ogni numero. L’impegno con il serial per la Marvel UK continua fino a metà del 1984, ma nel frattempo Moore non ha smesso di collaborare con 2000 A.D., per la quale ha creato due nuove serie strutturate in brevi capitoli: l’unitaria Skizz, con Jim Baikie (2000 A.D. nn. 308330, marzo-agosto 1983), e l’episodica D.R. & Quinch, ancora con Alan Davis, che comparirà saltuariamente dal maggio 1983 fino al giugno 1985.15 La prima segna il primo riuscito tentativo di Moore alle prese con un’opera drammatica di sua ideazione, narrando la storia di Zhcchz, un bizzarro e metallico interprete alieno naufragato sulla Terra, e di Roxy, una studentessa squattrinata di Birmingham che tenta di proteggerlo dalle minacce Ancora disegni di Alan Davis per D.R. ambientali e governative & Quinch, il miglior esempio del Moore umorista apparso sulla gloriosa rivista offerte dal nostro pianeta; britannica 2000 A.D. sorta di E.T. politicizzato, © Fleetway / Titan Books 25
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Skizz avvia la messa a fuoco di Moore sulle storture del sistema britannico di Margaret Thatcher e sulla generica follia delle «scimmie terrestri». Di segno opposto, ma in qualche modo complementare, D.R. & Quinch è invece il capolavoro del Moore umorista, e mette in scena due scombinati goliardi alieni dediti al divertimento sfrenato e a un’ultraviolenza degna di un Burgess incrociato con Tex Avery. Il linguaggio dalla grammatica disintegrata dei due psicotici protagonisti sarà anch’esso un Leitmotiv di Moore, ritrovandosi in varie forme nelle opere successive, da The Ballad of Halo Jones a Watchmen a Voice of the Fire. L’avvento del guerriero
Moore ha cominciato a pubblicare professionalmente da pochi anni, ma l’attività creativa che lo vede protagonista in tutta la prima metà degli anni Ottanta è frenetica e accavallata, cosa che rende alquanto difficile tracciare un percorso lineare tra un lavoro e l’altro. E il fermento non si limita al mondo del fumetto: Moore continua a pubblicare poesie e articoli per riviste letterarie e fanzine, e con lo pseudonimo di Translucia Baboon ha fondato una band, The Sinister Ducks, con cui nel 1983 inciderà un singolo, March of the Sinister Ducks (il retro, Old Gangsters Never Die, è anche il titolo dell’allegato fumetto di 8 pagine, scritto da Moore e disegnato da Lloyd Thatcher). Ma soprattutto, Moore ha iniziato già da alcuni mesi a collaborare a un nuovo progetto editoriale indipendente, la rivista in bianco e nero Warrior, creata dall’ex editor-in-chief della Marvel UK, Dez Skinn, per la sua neonata casa editrice Quality Communications. L’intento alla base di Warrior è tanto semplice quanto deflagrante per il mercato dei primi anni Ottanta: fornire ad autori inglesi piena libertà creativa e la completa proprietà intellettuale delle opere prodotte (un nobi26
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le intento che curiosamente genererà parecchi problemi quando si tratterà di accordarsi per ristampe del materiale pubblicato). Il primo numero di Warrior esce nel marzo del 1982, e Moore, che è fra gli autori contattati da Skinn, presenta due serie nuove di zecca che si riveleranno fondamentali tanto per la sua carriera quanto per la fama postuma della rivista. La prima, V for Vendetta, per i disegni del ritrovato David Lloyd, deriva da un progetto embrionale che Moore aveva già provato a proporre negli anni Settanta alla D.C. Thomson (il personaggio di «V» si chiamava allora «The Doll»): la tragica saga di un anarchico destabilizzatore in un’Inghilterra totalitaria distopicamente orwelliana, sopravvissuta a quella guerra termonucleare globale che negli anni della tesa contrapposizione USA-URSS sembrava ormai prossima ventura. La scansione della storia, dal ritmo battente e cadenzato, la gabbia asimmetrica ma costante delle tavole di Lloyd realizzate in un chiaroscuro espressionista, l’attenzione al dettaglio e la profondità della caratterizzazione dei personaggi contribuiscono a creare un clima opprimente e un’incessante tensione hitchcockiana nello storytelling, in perfetta corrispondenza con quanto Moore avrebbe apertamente teorizzato alcuni anni dopo in un saggio poi ristampato dall’americana Avatar Press nel 2003 con il titolo Alan Moore’s Writing for Comics: l’intento di Moore è quello di sfruttare le sue idee visive e gli accorgimenti narrativi per ipnotizzare il lettore, facendolo restare costantemente all’interno della storia, così da ottenere il maggior effetto comunicativo possibile; e ciò che a Moore preme comunicare è in questo caso l’angoscia del degrado civile e politico, cioè in ultima analisi la realtà della società che lo circonda, il suo tempo e il luogo da cui lo vive, punti di partenza per la sua esplorazione dell’universo reale attraverso la ricostruzione letteraria. E all’altro capo del suo primo capolavoro storico-politico (ambientato in un futuro che è semplicemente un presente estremizzato e riletto con sguardo critico), Warrior ospita 27
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L’orwelliano V for Vendetta, esordio di Moore sulle pagine di Warrior. © DC-Vertigo
anche Marvelman, il primo compiuto discorso metanarrativo sull’archetipo del supereroe primigenio, cioè sul personaggio che ha condizionato tanto l’infanzia di Moore quanto la cultura popolare di gran parte del Novecento. Il personaggio omonimo era nato negli anni Cinquanta per volontà di Leonard Miller, l’editore che a quel tempo importava con successo in Gran Bretagna il vecchio Captain Marvel della Fawcett,16 spudorato clone di Superman comparso già nel 1939 (cioè a un 28
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solo anno di distanza dal prototipo), e che nel 1954 venne mandato in pensione per evitare ulteriori guerre legali con la DC.17 Miller incaricò dunque Mick Anglo di creargli un nuovo superuomo in tutto e per tutto simile a quello perduto: nacque così Micky Moran, che poteva trasformarsi nell’intrepido Marvelman pronunciando la parola chiave del cosmo, «Kimota» (l’inverso di «atomic»), pronto a combattere il male aiutato dal classico stuolo di super-aiutanti e super-familiari. Le avventure di Marvelman proseguirono fino al fallimento della società di Miller, avvenuto nel 1963, e dopo il quale il personaggio finì nel limbo. Caso volle, però, che Dez Skinn avesse pensato proprio al vecchio Marvelman per effettuare un allora inedito recupero d’annata per la sua nuova rivista, e che contemporaneamente Moore dichiarasse di avere un’idea proprio per un aggiornamento di quel personaggio che annoverava fra le sue letture di bambino. Le due cose si misero dunque insieme da sole, e il primo Marvelman in bianco e nero apparso su Warrior, per i disegni di Garry Leach e del fido Alan Davis,18 rappresenta di fatto l’alfa del supereroe moderno, il punto di partenza del revisionismo che di lì a poco accenderà anche oltreoceano la miccia della rivoluzione copernicana di cui Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller sarà la prima bandiera. L’ingenuo eroe incarnato da Micky Moran viene spogliato di ogni alone dorato e mitizzante e calato in un contesto reale, sottoposto alle leggi della fisica e della psicologia, e rivelato come maschera, finzione, inganno, sfruttamento. Rimane in Moore quel misto di desiderio di rinnovare e aggiornare quegli eroi congelati in un tempo senza tempo, eterni anni Trenta lontani dalle contestazioni e dalle tensioni sociali e politiche del presente, e insieme la fascinazione per quelle antiche figure innocenti, volgarizzazione dell’oltreuomo nietszchiano a uso e consumo di adolescenti che hanno bisogno di «sognare di volare» (come titola il primo ciclo di storie di Marvelman). L’operazione di Moore non si limita però a un confronto e un contrasto di situazioni e ideologie. In 29
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Marvelman, in seguito ribattezzato Miracleman, prototipo delle meta-riscritture di personaggi del passato. © Marvels and Miracles
Marvelman c’è molto di più della semplice aderenza al filone degli eroi crudi e realisti alla Green Arrow o Black Panther:19 quella che Moore mette in scena è la disamina dei meccanismi che regolano le serie classiche di supereroi, uno studio autologico che verrà ripreso più volte nel corso della sua carriera. Warrior dura solo 26 numeri, fino al febbraio 1985, ma fa in tempo a ospitare una terza serie di Moore, The Bojeffries Saga,20 che completa lo spettro delle proposte dello scrittore inglese con una singolare soap-opera suburbana in chiave hor30
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ror: storie umoristiche di vita quotidiana di una famiglia di mostri in stile Addams, disegnate da Steve Parkhouse e proseguite negli anni successivi su varie pubblicazioni della Fantagraphics Books di Gary Groth e della Atomeka Press di Garry Leach, per poi essere interamente raccolte nel 1992 in un volume a colori della Tundra. Anche V for Vendetta e Marvelman saranno ripresi e conclusi per altri editori:21 il primo sarà completato dalla DC Comics con una serie di dieci uscite tra il settembre 1988 e il maggio 1989,22 raccolta successivamente in volume23 sotto l’etichetta Vertigo, la divisione per adulti diretta da Karen Berger. Marvelman verrà invece acquisito dalla piccola casa editrice americana Eclipse, che sarà però costretta a ribattezzare il personaggio, per evitare dissidi con la Marvel Comics: sotto il nuovo nome di Miracleman24 la serie si comporrà di sedici numeri a colori,25 comparsi tra l’agosto 1985 e il dicembre 1989, e i nuovi disegni saranno a carico di John Ridgway, Chuck Austen (ancora noto come Chuck Beckum), Rick Veitch e John Totleben. Per la ripresa della serie26 i toni di Moore si faranno più oscuri, allineandosi con il coevo lavoro su Watchmen e facendo del nuovo Miracleman una violenta riflessione sul potere e sulla distopia basata sul controllo, apparentemente benevolo, di entità superiori (ovvero i membri della famiglia Miracleman, che arriveranno a governare il mondo). Lezione di fumetto
Torniamo però di nuovo alla fine del 1983: la serializzazione di Captain Britain: Jasper’s Warp non è ancora terminata, e anche la collaborazione con 2000 A.D. continua, con gli episodi di D.R. & Quinch e varie storie brevi per i numeri speciali estivi della rivista.27 Nel luglio del 1984 esordirà anche l’ultima serie realizzata per il contenitore della Fleetway, The Ballad of 31
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Halo Jones,28 che recupera i temi di fantascienza sociale di Skizz, declinandoli in una forma grottesca e pungente attraverso l’uso di un eroe al femminile (il primo mai apparso sulle pagine della rivista inglese in una serie propria),29 che anticipa per molti versi la Martha Washington di Frank Miller.30 La protagonista è una diciottenne del cinquantesimo secolo che vive in un agglomerato inumano e si trova alle prese con le minacce quotidiane della violenza urbana e dei culti religiosi invasivi, iniquità sociali che la spingeranno a imbarcarsi per lo spazio, per diventare prima combattente in una guerriglia interstellare, poi comandante di un’astronave, e infine disertrice. Ma la vera svolta del quarto anno di attività professionale ad alto livello di Moore sarà l’inizio della collaborazione con la DC Comics, primo editore d’oltreoceano a commissionargli un lavoro e a cui negli anni lo legherà un rapporto di amore-odio ancor oggi in gran parte irrisolto. L’esordio di Moore alla DC è sostanzialmente casuale: il suo nome non è ancora molto noto negli Stati Uniti, ha finora pubblicato soltanto storie brevi per riviste inglesi, per lo più in bianco e nero, e nessuna delle sue serie è stata ancora completata o raccolta in volume. La DC è però nel pieno di un profondo e faticoso processo di rinnovamento iniziato nel 1976, con l’acquisizione da parte della Warner, i cui vertici avevano cercato di contrastare la pesante concorrenza della Marvel moltiplicando le testate, una strategia fallimentare che avrebbe lasciato molti cadaveri lungo la strada.31 Con gli anni Ottanta e l’inizio della gestione di Jenette Kahn e Dick Giordano si cominciò per contro ad attuare una più sana politica degli autori, arrivando a concedere royalty ai team creativi e puntando tutto sulle idee personali dei talenti reclutati. In questo ambito viene contattato anche un giovane scrittore inglese di belle speranze come Moore, a cui viene affidato il posto vacante di sceneggiatore per una serie minore intitolata The Saga of the Swamp Thing, disegnata da Stephen Bissette e John Totleben (in seguito, ai due si aggiungerà Rick Veitch). 32
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Il personaggio dello scienziato gettato da alcuni gangster in una palude della Louisiana insieme ai componenti chimici a cui stava lavorando, venendo così trasformato in una sorta di mostruoso «fantasma della palude» di buon cuore, un gigante vegetale testimone di moraleggianti storie orrorifiche, era stato creato dallo sceneggiatore Len Wein e dal talentuoso illustratore Berni Wrightson su House of Secrets n. 92 del giugnoluglio 1971, ed era passato attraverso una travagliata vita editoriale. Alla chiusura di una sua prima testata32 durata 24 numeri fra il 1972 e il 1976 erano seguiti anni di piccole comparsate.33 L’uscita del film Swamp Thing di Wes Craven nel 1982, che aveva trasposto il personaggio con un discreto successo di pubblico, spinse la DC a tentare l’avventura di una nuova serie, scritta inizialmente da Martin Pasko, che la lascerà però con il n. 19 a causa di altri impegni. Moore arriva così in un momento di emergenza: serve ad ogni costo qualcuno che mandi avanti la baracca. Per lui è una fortuna insperata, perché questo significa che nessuno metterà in discussione le sue scelte. E le sue scelte Genesi di una nuova concezione del fumetto: la prima tavola del n. 21 di Saga of the Swamp sono le più radicali che Thing. mai si erano viste da © DC Comics 33
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parte di un autore che eredita la gestione di una serie: dopo un primo numero interlocutorio in cui riannoda i fili delle vicende, con lo storico n. 21 del gennaio 1984, The Anatomy Lesson, Moore ribalta completamente la concezione del personaggio, scrivendo una delle pagine più importanti della storia del fumetto americano, che avrebbe cambiato tutto quello che sarebbe venuto dopo. La sua narrazione dell’autopsia subita dal corpo di Swamp Thing, in cui si scoprirà la sua vera e sconvolgente natura, è orchestrata da Moore con una precisione matematica e, insieme, un andamento teso e vibrante, degno di un rituale iniziatico, scandito da didascalie dal tono letterario sofisticato, lontane dalle roboanti e stucchevoli narrazioni di tanto fumetto americano mainstream. La serie prosegue sullo stesso binario, inanellando una serie di storie che segnano il massimo livello di libertà e creatività raggiunto da un autore all’interno di una collana per ragazzi di un grande editore a stelle e strisce: Moore continua a basare i suoi script su idee centrali una più innovativa dell’altra, compone poemi visivi erotici, parla di discriminazioLa storia d’amore tra la creatura e Abby è uno ne sessuale, di disturbi dei fulcri dello Swamp Thing di Moore. mentali, di ecologia, di © DC Comics 34
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politica, struttura le sue storie nei modi più disparati, restando sempre fedele al personaggio e ai suoi scopi. Una delle diramazioni che esplora è il rapporto fra Swamp Thing e quella che è diventata la protagonista femminile delle sue storie, la splendida albina Abigail, con cui il mostro della palude intesserà una relazione sentimentale fra le più toccanti e intense mai mostrate in un comic book. Rinascimento
Il successo di Swamp Thing è tanto inaspettato quanto vasto, e da solo sarà capace di aprire la strada alla creazione di un’etichetta DC dedicata espressamente al materiale di tono più adulto: la Vertigo. Grazie a quell’incredibile lezione di anatomia, la DC sarà spinta a prendere decisioni che la trasformeranno nell’editore più frequentato dagli autori in cerca di quelle opportunità espressive che la Marvel non riuscirà mai ad eguagliare. Una delle conseguenze della rivoluzione apportata dalla Cosa della Palude sarà la pubblicazione quasi contemporanea, nel 1986, delle due opere simbolo del cosiddetto «Rinascimento Americano»,34 Batman: The Dark Knight Returns di Frank Miller (quattro numeri, marzo-giugno 1986) e Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons (12 numeri, dal settembre 1986 all’ottobre 1987).35 Entrambe miniserie, quindi svincolate dal giogo della continuity dei personaggi ufficiali, hanno permesso a Miller e Moore di costruire il proprio universo supereroico, in controtendenza con quello vigente, di stampo adolescenziale. E se Miller immaginerà il futuro di un vigilante ormai anziano in un mondo per nulla pacificato e dominato da mezzi di comunicazione superficiali e invasivi, Moore potrà organizzare una complessa saga crepuscolare, mettendo in scena eroi inediti, costruiti citando i modelli classici del passato.36 Lo scrittore inglese ha in questo modo occasione di riprendere e ampliare la discussione critica e l’analisi 35
Gianluca Aicardi
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Nel corso della sua lunga storia il fumetto ha attraversato vari momenti di rinnovamento e maturazione, tappe di un’evoluzione che ha condotto l’intero medium alla forma e ai contenuti che oggi può considerare propri. Uno dei passaggi più significativi è stato senza dubbio quello che a metà degli anni Ottanta ha conferito nuova personalità al fumetto americano, creando i presupposti per quella rivoluzione filosofica e tecnica i cui frutti si sarebbero raccolti nei due successivi decenni. Ma l’autore simbolo del «Rinascimento Americano» sarà uno scrittore inglese di nome Alan Moore, colui che saprà ideare e realizzare, con grande creatività, lucidità e coerenza, quella trasformazione capace di rendere adulti e stimolanti i vecchi eroi ingenui delle pubblicazioni mainstream. Nel 1984, i primi numeri del suo Swamp Thing hanno mostrato una via inedita e sorprendente alla narrazione sequenziale, che proprio grazie alle sue sceneggiature inventive e toccanti di lì a poco avrebbe raggiunto uno dei suo massimi esiti di sempre, la miniserie-capolavoro Watchmen. Oggi l’imminente uscita della riduzione cinematografica di V for Vendetta, già ripudiata da un Moore sempre meno incline ai compromessi con la superficiale industria dell’intrattenimento, è l’occasione per ripercorrere la carriera di uno dei più stimati e celebrati creatori del fumetto mondiale, dagli esordi sulle storiche riviste britanniche, culminati nella citata serie appena trasposta sullo schermo, al revisionismo supereroico attuato per la DC Comics, fino alle più recenti opere personali intrise di misticismo e spirito visionario, come il complesso From Hell, viaggio nella psiche di Jack lo Squartatore che ha richiesto un decennio di lavoro, e l’affascinante Promethea, realizzato per la divisione editoriale che lo stesso Moore ha diretto negli ultimi sei anni, ultima impresa di un eccentrico sognatore che con le sue storie ha saputo parlarci di storia, politica, magia, amore, ma soprattutto degli orrori e delle meraviglie dell’animo umano. Gianluca Aicardi (Genova, 1973) lavora dal 1999 nel campo del cinema d’animazione e del fumetto, ricoprendo mansioni di direttore di produzione, dialoghista, direttore artistico e supervisore al doppiaggio. All’inizio del 2004 ha fondato AD LIBITUM, società che fornisce servizi di traduzione e adattamento per prodotti editoriali e audiovisivi. È stato ideatore e fondatore di eMotion (IHT Gruppo Editoriale), magazine dedicato al cinema d’animazione, di cui è tuttora co-direttore editoriale. È vicepresidente dell’Associazione Culturale Emile Reynaud e curatore della rubrica Animascopio (su Komix.it Fumetti @ 360°), e organizza rassegne e serate di cinema con la divisione Events di AD LIBITUM. Con Tunué ha pubblicato Sin Cinema. Il genio di Frank Miller da Daredevil e Batman a Sin City, e sta attualmente preparando un ampio studio sulle forme e gli stili del cinema d’animazione.
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