$QGUHD =DQGRPHQHJKL Il giorno della nutria
tunuĂŠ
Indice
7
IL GIORNO DELLA NUTRIA
17
Parte prima
47
Interludio
57
Parte seconda
Andrea Zandomeneghi Il giorno della nutria
tunuĂŠ
#tuttaunaltrastoria
Il giorno della nutria
Prima che iniziasse ad agire, su di lui qualcuno ha agito, scorticandolo, perciò l’uomo all’inizio è una sola piaga – l’unzione ricopre quella ferita senza margini con una pellicola, morbida e umida, che rende possibile il movimento, la vita. L’immensità dell’opera rituale e la sua meticolosa ossessività, per essere capite, vanno commisurate a questa condizione di partenza, che è di totale inermità e puro dolore. E questo soltanto può giustificarle. Roberto Calasso
ࡷ
E comunque, quando la sciagurata vicenda principiò, quel martedì mattina di fine aprile, io non ero granché lucido, anzi sarebbe più corretto dire che versavo in un penoso stato di rincoglionimento stordito e dolorante. Correnti poderose di agonia cefalgica e umorale da postsbronza. Anche per questo, soprattutto per questo, credo, fui così turbato dal rinvenimento del cadavere di nutria scorticato che andava oscenamente scongelandosi, infatti era stato inequivocabilmente congelato in precedenza, buttato sulle scale esterne – che non danno direttamente sulla strada, danno sul giardino recintato con muretti bassi sovrastati da gelsomini rampicanti – di casa mia, a Borgo Carige, Capalbio; a metà strada tra le lagune di Orbetello e la foce dell’impianto di raffreddamento della centrale elettrica di Montalto, o, se si preferisce, a metà strada tra l’estuario del Fiora e quello dell’Albegna. Il fatto è che la sera prima – come ogni benedetto lunedì – c’eravamo ritrovati con Esteban e Emanuele per giocare a Risiko in canonica da Don Stefano, che oltre a essere un compulsivo divoratore di Philip Roth, un instancabile rilettore delle Cronache del ghiaccio e del fuoco e un eccentrico (diciamo fantasioso) interprete dell’opera di Jung, è anche un monomaniaco appunto del Risiko. E io m’ero ubriacato. Selvaggiamente. Mentre fuori infuriava la tempesta e gocce d’acqua grosse e sode come astragali d’avorio o molari di scimmia sbatacchiavano contro i vetri delle finestre.
Nella prima fase della partita avevo bevuto quasi da solo una bottiglia di Syrah giovane di due mesi (non ancora pronto per essere commercializzato, ma gradevolissimo) della vigna del padre di Emanuele sotto Capalbiaccio; quando però Esteban con il più stupido degli attacchi aveva regalato l’Oceania – mai regalare l’Oceania – a Don Stefano scoprendosi vergognosamente in Nuova Guinea, per poi arroccarsi offeso senza motivo in America meridionale, allora, a quel punto, per sopportare l’indecente faccenda da un lato ed evidenziare il mio disappunto sdegnato dall’altro, m’ero rivolto a un boccione da due litri di Bianco di Pitigliano. Con tappo metallico a vite. A temperatura ambiente. Il curato (a volte lo chiamo a scazzo anche archimandrita, episcopo, presule, prevosto, prelato o ierofante) ne tiene sempre uno (o più d’uno) nella dispensa, lo usa – a suo dire – “solo per cucinare; giusto per sfumare le linguine spernocchie e mazzancolle o, magari, per il coniglio in salmì, figuriamoci se lo trinco, hai idea di come si vendicherebbero, di che genere di truculenta rappresaglia ordirebbero, le mie viscere senescenti se gli propinassi quella brodaglia di metabisolfiti?”. In teoria non avrei alcuna ragione per dubitare dell’asserita esclusiva destinazione gastronomica di quel vino da parte sua, anche perché da quando lo conosco non gl’ho visto bere null’altro che Porto rosso, molto Porto rosso ma solo Porto rosso; però con lui non si sa mai, è uomo d’ingegno versatile e natura multiforme. Persino sulla sua continenza non c’è da scommettere: stando alle voci di paese copula con Dorota, la madre di Esteban. Del resto queste considerazioni sono ben poco importanti. Fatto sta che tra un turno e l’altro, tra una sigaretta e l’altra, mi steccai mezzo boccione e forse – ma solo forse – non l’avrei bevuto tutto, come poi invece accadde, se Don Stefano non avesse tirato fuori la sua fissazione del momento: «Ecco, vorrei aggiornarvi su una questione che come sapete mi sta 10
particolarmente a cuore, la questione del non-cognitivismo euristico» (espressione da lui coniata sul modello della locuzione “non-cognitivismo assiologico”; espressione di cui va fiero, ma che io son ben lungi dall’apprezzare; espressione con la quale, come ribadì poco dopo anche quella stessa sera, intende: «Significare l’impossibilità di ricavare, di ottenere, da un qualcosa, da un prodotto culturale dell’intelletto per capirci, non guardarmi in quel modo Davide!, “prodotto culturale dell’intelletto” non è una ridondanza, è precisamente quello che voglio esprimere, precisamente; l’impossibilità di ottenere, dicevo, un arricchimento della conoscenza, un contributo, foss’anche una tenue sfumatura di contributo, una flebile ombra di contributo, alla scoperta progressiva e inesauribile della verità, un nuovo gioiello per il tesoro sapienziale umano») «e quindi del radicale estetismo virtuosistico della manipolazione dei simboli e delle narrazioni in Roberto Calasso». Voleva aggiornarci, ma naturalmente non c’era nessun aggiornamento. Calasso non aveva risposto nemmeno alla sua ultima lettera polemica. Questo scrivere e spedire lettere – pagine e pagine riempite frettolosamente con la sua disomogenea grafia tremolante e infarcite quasi sempre di concettose ampollosità violentemente critiche – agli autori che legge è una sua inveterata bizzarria; non penso che si prenda troppo sul serio, o totalmente sul serio, non so, dal mio punto di vista si tratta di una sorta di suo passatempo. Non peggiore di altri. «Ma come? Non lo capisci? Perché è importante!» mi rispose quando qualche anno fa gli chiesi perché lo facesse; stavamo cercando nella sua biblioteca la Vita di San Francesco d’Assisi di Sabatier, che mi consigliava “più che vivamente”, e lui svapava senza posa con la nuova pipa elettronica a cui s’era appena convertito. Lo ricordo bene perché poi qualche ora dopo mi telefonò terrorizzato in mezzo alla notte: stava male, 11
s’era procurato una sorta d’intossicazione acuta da nicotina con tachicardia, parestesia alle dita della mano sinistra, capogiri e fibrillazione febbrile – da quanto mi risulta, ma il mio campione è piuttosto ridotto, le uniche due persone capaci di siffatta ardita impresa sono state appunto Don Stefano e Filippo Facci (iniziato a questa peculiare viziosità dal Re dei tabagisti italiani: Guido Crosetto). Nel tempo, da parecchio prima che nascessi io, ha scritto, tra gli altri, che io ricordi, a Sebastiano Vassalli, Luigi Lombardi Vallauri, Aldo Cazzullo, Manlio Sgalambro, Pier Vittorio Tondelli, Sergio Givone, Andrea Scanzi, Massimo Cacciari, Alda Merini, Franca D’Agostini, Raimon Panikkar (in italiano), Luca Serianni, Pietrangelo Buttafuoco, Zygmunt Bauman (facendosi dare una mano per l’inglese da Emanuele, che oltre ad aiutare i suoi con la cantina biodinamica fa il bibliotecario part time comunale e arrotonda lo stipendio con ripetizioni da venti euro all’ora in nero per l’inglese e da sessanta per il greco), Giorgio Colli, Lidia Ravera, David Leavitt (in italiano – perché?), Igor Sibaldi (l’unico che gli abbia mai risposto), Alberto Asor Rosa, Aldo Grasso, Francesco Guccini, Ervino Pocar, Francesco Cossiga, Ennio Flaiano, Francesco Libetta, Gianluca Garelli, Walter Siti, Giacomo Marramao, Ingmar Bergman (nuovamente in inglese, coadiuvato da Emanuele), Aleksandr Solženicyn (idem), Michele Serra, Anacleto Verrecchia, Aldo Schiavone (inspiegabilmente gli scrisse in latino, «nel miglior latino, se vuoi saperlo, quello del quinto secolo; quando» mi disse una volta, facendomi notare che stava citando a memoria À rebours nella traduzione di Sbarbaro, «“completamente putrefatto, penzolava, perdendo membro a membro, colando marcio; allora da tanta corruzione restavano illese poche parti che gli scrittori cristiani staccavan via per marinarle nella salmoja della nuova lingua che andavano forgiando”»), Tommaso Padoa-Schioppa, Tommaso 12
Cerno, Michel Houellebecq (con il francese non ha problemi), Giovanni Sartori, Emanuele Severino (infinite lettere a Severino), Paolo Sorrentino, Paul Veyne, Carlo Maria Martini (in «latino ciceroniano, perché con il Cardinale non voglio che ci siano fraintendimenti») e Venedikt Erofeev (sia in francese che in inglese, non sapendo come regolarsi). Ultimamente scriveva solo a Calasso e, come dicevo, quella sera, nonostante le nostre prima garbate poi meno garbate resistenze, riaprì il discorso del loro rapporto epistolare volendo metterci a parte delle sue ultime intuizioni. Le logiche conseguenze furono che lui si distrasse dal Risiko, io mi scolai il litro di bianco rimasto, Esteban fece una canna di nero e si dimenticò di passarla, mentre Emanuele, centellinando un bicchierino di grappa di Merlot della sua Cantina dei gatti rampanti, vinse la partita: doveva conquistare 24 territori, non potendo eliminare il giocatore giallo, che non c’era. Era quasi mezzanotte e io ero considerevolmente ubriaco. Anche per sfuggire all’implacabile per quanto rutilante soliloquio di Don Stefano, interessante ma già ascoltato un numero astronomico di volte, decidemmo di andare a farci una bevuta al bar ristorantino Le Burle, che sta a pochi passi dal “centro” di Borgo Carige nella “zona industriale e commerciale”. «Andate voi, non sta bene che il prete vada per locali dopo la mezzanotte, andate voi che siete giovani, Davide domani ricordati di portarmi le bozze di stampa, già, bene… mettimele anche sulla pennetta, bene… anzi! domattina passo da te per vedere com’è venuto il mio libercolo, intesi? Statemi bene colombelli, con voi due magari ci si sente nei prossimi giorni, buona serata colombelli» disse Don Stefano salutandoci e accarezzando la testa di Esteban. Lui sorrise. Mi arrivava alla spalla, era completamente vestito di bianco, aveva vent’anni, lineamenti dolci come miele e la pelle più liscia 13
che sia dato immaginare, di una tonalità peculiare, non caucasica anche se tendente al bianco. Un olivastro spento, un olivastro lieve e pallido. Così facemmo una passeggiata di cinque minuti in quella notte fresca e senza vento – aveva smesso di piovere – che sembrava di fine autunno, ma era di primavera, recriminando ognuno sulle strategie adottate e le vaccate perpetrate dagli altri due nella partita a Risiko, e andammo a bere. Esteban, a cui il Risiko aveva fatto montare un’inconsueta vena patriottica, ringalluzzendolo, tanto che ammise ridendo e facendomi l’occhiolino perfino di essere mulatto («e va bene, sono un po’ negretto, ma solo un po’, meno di un quarto!») per quanto molto chiaro («ma se non lo sai non lo capisci!»), si prese in giro per la mania di non prendere per nessun motivo il sole («mi marronisce!») e confessò che a Cuba era stato sempre attento a non andare mai a letto con gente più scura di lui. Lui ordinò rum e cola, Emanuele continuò con la grappa di Merlot – l’azienda enologica steineriana di famiglia si stava espandendo e quasi tutti i locali e i supermercati della zona ne tenevano i prodotti – e io presi una Tennent’s. Ci incappucciammo, insciarpammo e sistemammo fuori, per fumare, anche se le sedie e i tavolini erano madidi di guazza: Le Burle ha sul retro un bellissimo esterno tettoiato e perimetrato da aiuole con melograni, ulivi, rosmarino e alloro. Mentre stavamo parlando letteralmente del sesso degli angeli – secondo Esteban (che credeva nella loro esistenza) potevano essere sia maschili che femminili; secondo me (che trattavo l’argomento come mi sarei approcciato a un’indagine erudita sull’ircocervo) invece risultava dalle fonti che fossero tutti maschi, partendo dai loro nomi, passando dalla distruzione di Sodoma e Gomorra, per arrivare a quando, prima del diluvio, gli angeli s’arrapano per le figlie degli uomini e ci trombano e ficcano loro bimbi («Nephilim» mi corresse Emanuele svogliatamente) in pancia – s’aggiunse 14
al nostro tavolo Torru. Era un anziano sardo, basso, tarchiato, con la pelle scura, praticamente senza collo, il naso bitorzoluto e due enormi narici pelose. Un pastore con forti interessi politico-patrimoniali in loco. Barbaricino. Proprietario di un albergo, con annessi ristorante e night club, di innumerevoli poderi e decine di centinaia di pecore; in passato, in qualche modo, collegato a una propaggine toscana dell’Anonima sequestri, almeno secondo le più lebedeviane voci correnti nei bar di paese. Si mise a sedere e iniziò a chiacchierare con Emanuele di politica. Non poteva esserci un contrasto più netto tra i due: Emanuele era bello; sciupato dal suo vissuto ma bello, lineamenti eleganti, mascolini e volitivi, occhi grigi intensi incastonati nelle occhiaie, volto pulito (quasi esageratamente pulito e contraddetto dall’epidermide stressata), uno e settantasette, sessantacinque chili, non palestrato né sportivo né muscoloso. E non solo Emanuele era davvero bello – molti ragazzi son belli e il narcisismo è così diffuso che chiunque non si disprezzi, tra i postmoderni, pensa di essere bello –, ma ne era anche consapevole nel modo il più pragmaticamente malizioso. Soprattutto Emanuele era un intellettualoide inveterato, un tipo decisamente nervoso e irritabile, uno di quei timidi esplosivi, uno di quegli pseudocasti iperlibidici, uno di quelli che considera la Calzecchi Onesti l’unica traduttrice di Omero accettabile, uno di quelli che è capace di non parlarti per due settimane se ti sente dire per caso Ippolito Pindemonte o Vincenzo Monti, uno di quelli che si commuove fino alle lacrime leggendo da solo ad alta voce chiuso in bagno: «No, cane, non mi pregare, né pei ginocchi né pei genitori; ah! Che la rabbia e il furore dovrebbero spingere me a tagliuzzare le tue carni e a divorarle così, per quel che m’hai fatto: nessuno potrà dal tuo corpo tener lontane le cagne». Emanuele era uno di quelli che stima Oliviero Diliberto l’unico politico italiano votabile senza turarsi il naso, 15
uno di quelli che predicano la povertà relativa e la decrescita felice, uno di quegli enormi progressisti autocritici che divengono passatisti per salvare l’umano dal consumismo totalizzante, uno di quelli che aspettava con ansia l’editoriale ecologico di Sartori di Ferragosto sul Corriere della Sera, uno di quelli che ormai riesce a leggere quasi solo Petronio, Kerényi e Marcel Schwob, uno di quelli che indossa solo abiti usati, uno di quelli che considera la politica la naturale estrinsecazione sociale dell’etica (più precisamente che considera l’etica ortoprassia e la politica testimonianza sociale dell’ortoprassia), uno di quelli che ormai si interessa solo della forma, delle cose ultime e dell’autotrascendenza. E certo quindi Emanuele era anche un po’ pieno di sé e la vita l’aveva reso a volte arrogante per misantropia e pessimismo antropologico, ma non era presuntuoso: si approssimava agli altri ogni volta con rinnovato ottimismo. E però poi un conto è approssimarsi con la mente aperta, un altro – ben diverso – è sospendere il giudizio, un altro ancora essere accondiscendenti. Mentre Torru ed Emanuele iniziavano ad accalorarsi sulla necessità o meno di eliminare uno dei due rami del parlamento, andai a prendermi un’altra birra. Quella Tennent’s fu la seconda di una serie di Tennent’s. Di cui ricordo l’inizio, ma non la fine.
16
• Collana «Romanzi» #17 • Andrea Zandomeneghi Il giorno della nutria Progetto grafico Tomomot, Venezia Redazione Alessandro Aureli | a.aureli@tunue.com Redazione Diego Fiocco | d.fiocco@tunue.com Ufficio stampa Silvia Bellucci | ufficiostampa@tunue.com Comunicazione Elena Dardano | accountcomunicazione@tunue.com Commerciale Marco Ruffo Bernardini | m.bernardini@tunue.com Amministratore Emanuele Di Giorgi | e.digiorgi@tunue.com Direzione editoriale Massimiliano Clemente | maxcle@tunue.com Prima edizione: febbraio 2019 © 2019 Tunué/Zandomeneghi isbn: 978-88-6790-315-3 In collaborazione con Literaria, Consulenza editoriale & Agenzia Letteraria Tunué #tuttaunaltrastoria Via degli Ernici 30 – 04100 Latina – Italia T 0773.66.17.60 | F 0773.18.75.156 info@tunue.com | www.tunue.com Stampato in Slovenia
Quest’opera, come tutte le altre della collana «Romanzi», è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione–Non commerciale–Non opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0 IT) http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode