Francesco D’Isa La stanza di Therese
tunué
tunuĂŠ
tutta un'altra storia
§1 Per vent’anni siamo state sorelle, per cinque amiche e per tre sconosciute. Sei tra le poche persone che, oltre allo stupore, ha dimostrato entusiasmo per la mia decisione di dedicare un anno a un viaggio solitario, motivo per cui mi dispiace deluderti. In verità non mi sono mai mossa dall’hotel Astor di Lisbona né intendo uscire finché non avrò trovato una spiegazione soddisfacente. Ho simulato questa partenza perché era un modo socialmente accettabile – seppur stravagante – di utilizzare il denaro del risarcimento, ma, a differenza di quel che ho detto, non ho avvertito né il richiamo di un paese esotico, né la prurigine per nuovi stimoli, quanto piuttosto un’intensa pulsione a cercare l’avanzo di una sottrazione assoluta. Lisbona, invece, è il frutto di una ricerca approfondita, volta a ottenere un soggiorno sobrio, confortevole e al miglior prezzo. L’alloggio che ho scelto non ha deluso le mie aspettative e dispone di tutto il necessario, come ho appuntato all’arrivo: un letto matrimoniale, un tavolo, una poltroncina, un armadio, due cuscini, un telefono, un comodino dotato di lampada, un televisore, due portapenne e un bagno. Il bagno è dotato di un lavabo, una doccia, wc, un phon, due bicchieri, tre saponette, tre asciugamani, due confezioni di shampoo, due di bagnoschiuma, tre rotoli di carta igienica e un cestino della spazzatura.
7
Allego una piccola planimetria, ritagliata dall’opuscolo di benvenuto.
I miei effetti personali, per lo piÚ ancora in valigia, ammontano a: dieci spazzolini, tre spugne, due spazzole, cinque paia di calze, sette di gambaletti, venti mutandine, dieci reggiseni, otto canottiere, un pigiama con gli orsetti, uno senza, due tute da ginnastica, una vestaglia, tre abiti primaverili, alcuni trucchi (rossetto, gloss, struccante, tonico, smalto, dischetti di cotone, fondotinta, correttore, fard, matita occhi e eyeliner), due pacchetti di lamette, pinzette, crema depilatoria viso e inguine, sei confezioni di Aspirina, dodici pacchetti di DVVRUEHQWL TXDWWUR ÀDFRQL GL GHRGRUDQWH TXDWWUR di crema idratante, tre varietà di forbici (unghie, capelli e carta), lima per le unghie, un tappetino di gommapiuma, un cuscino rigido in kapok, sei lapis, otto penne, una piccola stampante con 8
dieci cartucce, otto risme di carta, moltissimi libri e il computer.
Adesso siedo sul letto, il computer è sulla scrivania, e ho un asciugamano avvolto in testa. Indosso so un vestito giallo, con dei fiori rossi e azzurri che lo rendono simile a una tovaglia estiva. Mi faccio portare i pasti in camera, e, a parte te brevi comunicazioni con lo staff, non parlo con nesessuno – persino durante le pulizie non mi allontaano, ma girovago nel corridoio antistante. Desidero ro mantenere l’isolamento, dunque ti prego di non avvvertire nessuno, neanche i nostri genitori. Non ho altro da aggiungere, a parte la domanda, che non vorrai che ti ripeta ancora una volta.
9
§2 Uno dei privilegi di esser sorelle è la capacità di prevedere le reciproche reazioni. Ancor prima di leggere la tua risposta ero certa che avresti interpretato il mio gesto come un amalgama di misantropia, emotività e desiderio di mettermi in mostra, ma sapevo anche che non mi avresti etichettato come pazza; accetto dunque il tuo tenero ricatto, e, se mantieni il segreto, continuerò a scriverti. La gratitudine però non seda la stizza nel vederti applicare ancora una volta le categorie della nostra adolescenza: ‘asociale’, ‘emotiva’, ‘egocentrica’… deponi un istante le tue interpretazioni psicanalitiche – o peggio, neurologiche – e prova a cogliermi al di là della rete di cause con cui sei abituata a spiegare il mondo. Quale che sia la ragione del mio isolamento, mi ha dato una spinta mentre già precipitavo (o salivo) nell’infinito, la cui contraddittoria gravità governa da tempo ogni mia decisione. Sai che ne ero ossessionata sin da piccola, tanto che rammento persino il giorno in cui iniziò la mania: avevo quattro anni e nostro padre mi convocò in cucina come vittima di un suo eccesso istrionico. Era quasi l’ora di pranzo, tu eri a scuola e la mamma nella stanza adiacente, intenta a ignorare la scena. Lui posò solennemente una mela sul tavolo. Era unica e perfetta, scolpita nella luce. «Una mela!» dissi.
11
Ne posò accanto un’altra. «Due mele» disse, poi ne accostò una terza, «tre mele», e un’altra, «quattro mele», «cinque mele…».
Arrivò a posarne sette, poi mi chiese di rifarlo da sola. Dopo avermi imposto di ricontarle, le nascose e disse: «Ora lo facciamo senza mele»; così ho imparato a dire una mela, due mele, tre mele, quattro mele anche senza vederle o toccarle. Poi ho imparato 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7… senza nemmeno pensare alle mele. Una volta capito come si compongono i numeri, chiesi fin dove potevo arrivare. «All’infinito» disse, e così è cominciata. Quando mi nascosi dentro la madia della cucina e mi ritrovaste dopo un’ora, completamente rivestita di farina, era perché avevo deciso di ‘contare tutti i numeri’ – sebbene mi fossi già annoiata prima di arrivare a cento. Provai a passare dal centodue al duecento e dal duecento al mille, ma saltare i numeri era inutile quanto inseguirli, e mi faceva sentire in colpa, come se a eliminare il duecentododici in favore del duecentotredici facessi un torto all’infinito. Nostro padre diceva: «Abbiamo 1, 2, 3, 4 mele. Bene, se levo la mela numero 4 mi restano 12
altre tre, la 1, la 2, e la 3. Anche se elimino la numero 2 ne ho tre, ma non la 1, la 2 o 3, bensì la 1, la 3 e la 4». I numeri non sono tutti uguali, pensavo, esattamente come le cose a cui si applicano: senza uno di essi la totalità di cui sono parte diviene incompleta, perché tutto è necessario nell’infinito. Da bambine, ricordi, riempivamo intere risme di carta con simboli senza senso, nel tentativo di creare un ‘alfabeto segreto’ composto da una lista illimitata di pittogrammi, come: ♤°~¤䧥#ς¿♢… Se fossimo riuscite nella nostra opera, e ora eliminassi uno dei segni, diciamo ♤, la lista, sebbene numericamente infinita, sarebbe incompleta, perché il pittogramma, non coincidendo con la sua posizione ma solo con se stesso, non può essere sostituito. Allo stesso modo, se alla medesima serie aggiungo un pittogramma rosso, ottengo un infinito più grande. Potrà essere matematicamente errato o banale, eppure palesa la natura procedurale dell’infinito, che esploro e definisco mediante delle istruzioni precise. Se cambio o aggiungo una regola, come quando coloro un pittogramma, si generano gerarchie di infinità, al cui cospetto l’eleganza della sezione aurea, le simmetrie delle conchiglie, dei fiori e delle foglie mi sembrano delle isolette accerchiate da copiose alternative, inafferrabili ma altrettanto reali. L’avvenente esplosione dei frattali, ad esempio, è prevedibile perché procede secondo delle norme tali che nella loro monotonia si ha l’impressione di aver ‘colto’ l’infinito. Ma se di tanto in tanto questa perfezione fosse turbata da un elemento estraneo? Anche l’immagine sottostante potrebbe far parte di una lista infinita, impossibile 13
da cogliere senza una regola aggiuntiva, del tipo: ogni x iterazioni il frattale diventa un maialino. Una legge che, come le altre, più che esaurire l’infinito mi aiuta a individuarne una parte, perché ogni infinito è l’unità di un altro infinito.
Se il tempo fosse eterno si potrebbe incontrare un immortale che ha contato tutti i numeri naturali, perché proviene da un passato sconfinato; una stranezza legata al fatto che l’infinito vive ‘in tutte le direzioni’. Ma se non cedo all’ansia di coglierlo, scopro che qualunque numero è sia primo che ultimo, in quanto incastrato tra serie illimitate di altri. L’infinito, insomma, somiglia più ad una coordinata per trovare il finito che a un traguardo.
14
1155
§3
Ok
È per controbattere all’esordio della scorsa lettera che hai voluto spiazzarmi? Non me lo sarei aspettato nemmeno da te: rispedire la lettera al mittente con delle note a margine! Un gesto incredibilmente spocchioso – ma, devo ammettere, anche efficace, e, per mutuare una tua espressione, terribilmente chic. D’altra parte non voglio tediarti con i miei ‘insulsi monologhi’, quindi d’ora in poi ti suggerirei di applicare sempre questa prassi. Parli di ‘ossessioni prive di fondamento matematico’ e non posso darti torto: la studiosa sei tu e anche a scuola eri molto più brava di me in aritmetica; rammento persino che una delle rare volte in cui non avevi studiato riuscisti a risolvere un compito senza nemmeno usare i numeri, scrivendo una specie di tema che proponeva la soluzione in un linguaggio il più formale possibile – la professoressa ti mise un’ammirata sufficienza, ma a mio parere meritavi il massimo dei voti. So che da ragazzine non ti manifestavo abbastanza la mia stima, ma appena riuscivo bene in qualcosa, anche solo un disegno sul diario o sul banco, ti impegnavi subito nell’acquisire la medesima abilità. Quante ore hai perso a stipare i tuoi quaderni di sgorbi! Forgiavi un ritrattino dopo l’altro, con una pennetta mossa da una fantasia callosa. La tua carriera da neuroscienziata non mi avrebbe stupito – nessuna lo avrebbe fatto – ma ti vedevo più adatta alla matematica o alla logica; peccato che queste ‘discipline da disadattati’, come le chiamavi allora, avrebbero intaccato ciò cui più tenevi, l’esser carina e alla moda. Io ero 17
meno brava nei calcoli e quando facevo strane domande la professoressa lasciava che i compagni mi prendessero in giro finché non stavo zitta – perlomeno i primi due anni, quando ero troppo grassa per reagire. In seguito, non appena il mio corpo ha smesso di trasudare adolescenza e mi sono fatta meno bruttina, ho trasformato i punti interrogativi in uncini con cui dilaniare gli altri, alla ricerca della mia stessa inquietudine. Non ne abbiamo mai parlato, ma so che hai vissuto con stupore il mio abbandono delle bambole per i coltelli, come so che ti ho ferita più di una volta, prendendomi gioco di te al solo scopo di esercitare il mio inaspettato talento con le parole. Quando da ragazze hai iniziato a uscire con David, ad esempio, e sei entrata in classe col sorriso tronfio di chi ha conquistato il più bello della scuola, scherzai sul fatto che ‘somigliavi a un muffin’. L’analogia aveva la forza epifanica delle metafore riuscite, tanto che ‘muffin’ divenne il tuo soprannome. Gli epiteti che mi scagliavi addosso per ripicca, invece, erano così triti da scivolare dalle orecchie di chiunque. Non ti ho mai chiesto scusa e non riesco a farlo nemmeno ora, perché so che se non ti fossi trasferita all’estero i nostri attriti adolescenziali si sarebbero trasformati nello scontro di due donne adulte. Invece di godere delle mie nascenti capacità hai sempre cercato la sfida, pur conscia che i miei doni erano appena un contentino rispetto alle difficoltà che vivevo. Mi irritava come invidiavi i beni altrui, senza mai spingere le tue capacità oltre un recinto di sicurezza; la diversità ti spaventava e l’hai soffocata con una maschera di banalità. Ti devo riconoscere che non hai mai 18
deriso la mia inettitudine nei giochi condivisi, eppure lo sguardo buono con cui accoglievi (e liquidavi) i miei dubbi, per sciocchi che fossero, era a tal punto nauseante da estendere il ribrezzo a tutto quel che ti apparteneva: parole, sentimenti, espressioni‌ quando mi rispondevi dal bagno, durante una delle tue estenuanti sedute di trucco, mi disgustava persino la tua pelle, lucida di crema e tesaa per la bonarietà , come un rospo albino sul punto dii esplodere. Era un piacere goffo e crudele dedicarti i miei fiori malsani, e, sebbene ora che siamo adultee non mi concederei una tale libertà , allora, quando o eravamo incerte sulle donne che saremmo diventate, ricordarti che potevi essere un’altra era un doveroso errore. Comunque, come puoi immaginare, alcune delle questioni matematiche che scansavi con un sorriso ancora non mi tornano, come il fatto che non si possa dividere per zero. Ho interrogato tantissime calcolatrici:
19
Alcune – e sono d’accordo con loro – sostengono che il risultato è ∞. Se divido un numero per uno sempre più piccolo, infatti, ottengo un risultato sempre più grande: 1/0,1=10, 1/0,01=100, 1/0,001=1000… se uso lo zero dovrei dunque ottenere l’∞. Alcuni matematici preferiscono sostenere che il risultato non è ∞, perché l’∞ non è un numero ma ‘un concetto’, o tutt’al più ‘un limite’ – ma questa definizione puzza di escamotage.
Non sono soltanto i numeri ad avere dei limiti, comunque, ma tutte le identità: una montagna è ‘da qua a qua’, io sono dentro la mia pelle e non fuori, qua c’è la finestra e attorno il muro, lì finisce il bicchiere e inizia il tavolo, questo è ora e questo dopo, questa sono io e quella sei tu… l’infinito è una sorta di ‘limite dei limiti’ che mi sfugge di mano non 20
appena lo definisco, perché per essere colto richiede necessariamente un nuovo limite (il ‘limite dei limiti dei limiti’). È un confine inafferrabile, eppure mi sembra necessario per l’esistenza di una qualunque cosa finita. Credimi se ti dico che non riuscivo a pensare ad altro, tutto quel che appariva nel mio orizzonte non era più una mela, un giocattolo o un sorriso, ma un frammento di infinito. I nostri genitori pensarono persino che fossi autistica e mi portarono da quella dottoressa di cui rammento le labbra in controluce, coronate da un rado manto di peletti neri. Non sono malata, almeno a sentir lei, eppure quel che per molti è un enigma matematico, per me è un’intossicazione – i veleni però sono medicine, se presi nelle giuste dosi.
21
Tunué – collana Romanzi
A giugno in libreria
Sergio Peter Dettato € 9,90 isbn 978-88-6790-103-6 Iacopo Barison Stalin + Bianca € 9,90 isbn 978-88-6790-104-3 Orazio Labbate Lo Scuru € 9,90 isbn 978-88-6790-125-8 Francesca Matteoni Tutti gli altri € 9,90 isbn 978-88-6790-126-5 Mario Capello L’appartamento € 9,90 isbn 978-88-6790-138-8 Luciano Funetta Dalle rovine € 9,90 isbn 978-88-6790-157-9 Mauro Tetti A pietre rovesciate € 9,90 isbn 978-88-6790-151-7 Yasmin Incretolli Mescolo tutto € 9,90 isbn 978-88-6790-165-4 Luca Bernardi Medusa € 12,00 isbn 978-88-6790-205-7 Francesco D’Isa La stanza di Therese € 12,00 isbn 978-88-6790-101-2
Giordano Tedoldi Tabù € 12,00 isbn 978-88-6790-231-6 Quando Piero Origo seduce Emilia, la moglie del suo migliore amico Domenico, saggista di successo, si sente un antropologo dell’adulterio che studia il tradimento come un rito di passaggio universale. In ogni esperienza, Piero cerca il limite oltre il quale la tavola della legge va in frantumi. Così i triangoli e la vita in una comune, l’amicizia con un sacerdote che tenta di imbrigliare il suo edonismo finendone invece influenzato, l’incontro perturbante con una giovane purissima, fino al ritorno in scena di una Emilia misteriosamente velata, saranno tappe di un viaggio nella volontà umana di violare il comandamento che, ancora oggi, in una società che non rispetta nulla, incute soggezione e attrazione: non desiderare la donna d’altri. Da uno dei talenti più originali della narrativa italiana contemporanea (I segnalati, Fazi 2013; Io odio John Updike, minimum fax 2016), un libro feroce e senza compromessi.
tunuĂŠ
tutta un'altra storia