Euroedizioni S.r.l. - Anno VI - n. 4 Ott/Nov/Dic 2012 - Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 1, CN/BO
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In occasione delle manifestazioni del 14 novembre scorso, nello stesso momento ed in quattro diverse città italiane, è apparsa la stessa formazione militare “a testuggine”, realizzata in ogni città da centinaia di ragazzi, molti dei quali minorenni che, se Polizia di Stato e Carabinieri avessero potuto applicare la Legge, avrebbero dovuto quindi immediatamente trarre in arresto. Appare dunque evidente che le tecniche tradizionali per la gestione dell’ordine pubblico non sono più idonee a fronteggiare questo tipo di attacchi: risulta chiaro a tutti che è impossibile impedire a formazioni militarmente organizzate di avvicinarsi minacciose ad obiettivi sensibili senza dar luogo a scontri che poi risultano inevitabilmente cruenti. È arrivato il momento che chi ne ha la responsabilità faccia scelte chiare: se si vuole che i manifestanti non possano entrare in contatto con il loro obiettivo, che sia Montecitorio o il cantiere della Tav e si vuole anche salvaguardare l’incolumità di manifestanti e poliziotti, bisogna evitare che ci sia tra loro ogni contatto fisico. Vanno quindi adottate misure d’interdizione che impediscano fisicamente ai
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manifestanti di avvicinarsi alle Forze di polizia ed i principali e più versatili strumenti che abbiamo a disposizione sono gli idranti, che però sono ancora pochissimi e, soprattutto, devono essere in grado di emettere un getto che abbia una potenza adeguata. L’esperienza sul campo ha dimostrato l’efficacia di questi strumenti che, quando emettono un getto di potenza idonea, sono in grado di bloccare e far recedere qualsiasi azione violenta e, quando si mescola all’acqua una piccola percentuale di innocui coloranti, consentono anche la successiva identificazione degli autori delle violenze. Inoltre, se si vuole davvero gestire efficacemente questa nuova realtà, è necessario che nei servizi di ordine pubblico, potenzialmente critici, vengano impiegati solo operatori dotati di specifica professionalità ed idoneo addestramento - individuale e di reparto dotato di equipaggiamenti e protezioni adeguati: in altre parole è necessario che certi servizi siano riservati ai soli Reparti mobili. Ma il proliferare dei servizi di ordine pubblico potenzialmente critici, che tendono ormai a dover essere effettuati in contemporanea su tutto il territorio nazionale, impone di conseguenza
anche un’altra onerosa scelta: la necessità di investire non solo nell’acquisto di potenti idranti, ma anche su organici e dotazioni. In occasione degli ultimi disordini a Roma, ad esempio, c’erano meno della metà dei poliziotti e dei carabinieri necessari, eppure il sistema ha tenuto ed appena ottocento unità sono riuscite a salvaguardare le Istituzioni, nonostante le condizioni difficilissime, i molti colleghi privi delle protezioni ed in generale l’assenza degli strumenti necessari ad evitare il contatto fisico. Non possiamo esimerci dal soffermare la nostra attenzione sul fatto che, mentre è difficile affrontare questi problemi, che sono la principale causa degli eccessi, è molto più facile spostare l’attenzione sul loro effetto, sul poliziotto che ha sbagliato in un fotogramma, senza però guardare quello precedente. Chi è impegnato in ordine pubblico deve poter operare nel modo migliore, ne hanno diritto i cittadini che manifestano, ne hanno diritto i cittadini che non vogliono essere danneggiati dalle manifestazioni e ne hanno diritto i poliziotti, per cui continueremo a batterci perché si giunga finalmente ad evitare ogni contatto fisico, perché la Uil Polizia è il Sindacato dei Poliziotti.”
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Noi abbiamo fatto il primo passo verso una riforma organizzativa che segnerà, nei prossimi anni, anche quando molti di noi non faranno più i sindacalisti in servizio permanente effettivo, la storia della nostra Organizzazione e penso che, come spesso è accaduto nei decenni passati, farà riflettere e troverà anche qualche imitatore. Ci sono stati interventi molto importanti, che hanno sottolineato per esempio due aspetti: noi dobbiamo essere il Sindacato del futuro; noi vogliamo continuare ad essere il Sindacato al quale la gente si volge con una crescente fiducia, in un Paese dove la fiducia comincia a scarseggiare anche lì dove non dovrebbe scarseggiare. Ma vedete, questo obiettivo non è semplice. Questo è un Paese che logora le parole, le consuma e non nel senso che le fruisce, ma nel senso che le distrugge: ne distrugge il senso, il messaggio. Perché accade questo? Non vi faccio l’elenco delle parole perché sono praticamente tutte quelle più usate: dalla crescita al riformismo, alla solidarietà, 10
all’uguaglianza, all’equità e via dicendo. Per una ragione molto semplice: perché dietro le parole, soprattutto quando esse vengono pronunciate da rappresentanti delle istituzioni politiche o da quella che si definisce classe dirigente, non c’è più nulla! Questo logora tutte le parole che noi pronunciamo e che rappresentano come dire: il modo col quale comunichiamo tra noi in Italia, ci raccontiamo le cose che vorremmo fare, le nostre speranze, le nostre rabbie o i nostri timori. E noi vogliamo essere diversi dal nulla. E, siccome siamo delle persone serie e perbene, se vogliamo continuare ad essere un’Organizzazione che rappresenta sul serio un punto di riferimento per milioni di cittadini italiani e fornire sul serio una speranza per un domani che sia più rassicurante di quello che oggi è il presente, dobbiamo fare un grande sforzo di sincerità, ma soprattutto di lucidità e non confondere mai i nostri desideri con la realtà. Non abbiamo davanti noi un’età dell’oro: avremo tempi di ferro e abbiamo bisogno di un’Organizzazione che sappia vivere e vincere in tempi di ferro. Ecco perché abbiamo cominciato que-
sto percorso: non per darci un’aggiustatina. Perché siamo purtroppo consapevoli che il tempo che verrà, e che è già iniziato, sarà molto più duro di quello che abbiamo alle spalle. Non possiamo continuare a ripeterci che il mondo è cambiato, ma declinandolo come quello che invece è passato e che conosciamo molto bene, sperando che in forme diverse senza che la sostanza cambi - si replichi tutto ciò che abbiamo avuto alle spalle. Questa è una forma di stupidità quando non è autoinganno. Poche settimane fa abbiamo affermato che perdevamo mille posti di lavoro ogni giorno ed è sembrata quasi una boutade più o meno propagandistica, allarmistica sulle solite cose che non vanno, eccetera eccetera... Negli ultimi 365 giorni abbiamo perso 640mila posti di lavoro ufficiali e, davanti a noi, non abbiamo nessun segnale realistico - a parte le parole appunto logorate che diventano inutili - che possa realistica-
mente modificare questa prospettiva. Questa prospettiva può essere modificata ad una sola condizione: che ci siano delle scelte, ma soprattutto dei comportamenti, della nostra classe dirigente diversi da quelli che oggi hanno. Non di quelli che avevano, di quelli che hanno oggi! Noi abbiamo bisogno di imprenditori che investano nella propria impresa. Ne abbiamo molte decine di migliaia di questa statura, ma ne abbiamo moltissimi altri - e paradossalmente i più ricchi, che quando vanno alle assemblee della Confindustria si alzano in piedi mettono la mano sul cuore, cantano l’inno nazionale e dopo portano i soldi all’estero! Non sono questi i comportamenti che possono rassicurarci circa il fatto che, dopo tanti bei convegni e tante belle dichiarazioni, ci saranno investimenti, crescita, maggiore competitività, maggiori opportunità e posti di lavoro.
noi abbiamo un classe politica che, molto semplicemente, ha già dimostrato di non essere all’altezza. Noi sottovalutiamo… E certe volte lo facciamo per patriottismo - ed io stesso spesso mi sono fatto trascinare da sentimenti patriottici: mi riesce veramente difficile acquistare cose che non sono state fatte in Italia anche a costo di pagarle un po’ di più, e tanto meno riesco a parlar male del nostro Paese e dei nostri concittadini. Mi dà fastidio anche parlare degli avversari, che non abbiamo, figuriamoci delle persone normali. Però... vi siete fatti una domanda dandovi l’unica risposta credibile? In Europa il nostro non è l’unico Paese in crisi: c’è una lunga lista e noi non siamo neanche in fondo alla lista. Perché da noi la soluzione per gestire questa crisi non è stata quella normale? Il governo precedente, la maggioranza precedente si erano dimostrati incapaci di gestire la crisi?
Che cos’altro deve accadere? Ci vuole una dichiarazione dell’Onu che dica in Italia votare è inutile, se non dannoso? E vedete che la situazione non è molto cambiata nell’ultimo anno: ancora oggi quelli che allora dicevano di non votare, ma di trovare qualcuno che raddrizzasse la situazione, giustamente si fanno la domanda: bene, e dopo? Ricominciamo da capo? Questo finisce, e poi chi viene? Ed è bizzarra questa discussione tra 60 milioni di persone che si reputano pure tra le più intelligenti, più colte, più preparate, più abili del mondo intero, ma anche tra le più ricche, perché ricchi ancora lo siamo anche se certamente a questi ritmi scenderemo molto le classifiche - che sono incapaci di darsi un Governo che faccia delle scelte oculate e condivise, di buon senso. Perché è accaduto? Non è accaduto a caso. È che anche noi, molto spesso, veniamo ovviamente coinvolti
No, non può essere! Accadrà esattamente quello che sta già accadendo. Dobbiamo cambiare comportamenti è una delle questioni più importanti in un Paese democratico, anche se adesso questa definizione ha una leggera coloritura tecnocratica in Italia, dovremmo avere anche una classe dirigente politica - perché in un Paese democratico è la politica che deve indicare la strada che si manifestasse in qualche modo consapevole delle sfide che questo Paese, quei 60 milioni di residenti in Italia, devono affrontare. E che quindi fosse in grado di dirci, ma non in termini vaghi: “Bene, abbiamo tutta questa serie di cambiamenti, di problemi da risolvere, ne possiamo risolvere il dieci o venti per cento in questo modo”. No,
Si vota, si fa un altro Governo e si confida nel fatto che quelli che vengono messi in campo abbiano qualche chance, qualche possibilità in più di quelli che se ne sono andati o che hanno perso le elezioni. Noi siamo l’unico paese dove questo non è avvenuto: hanno votato persino in Grecia, che ha condizioni economiche disastrose; in Portogallo in Spagna. Dovunque! Anche lì c’era uno spread più elevato, anche quelli avevano bisogno di soldi, di convincere i mercati a finanziare il debito pubblico. No, a noi è stato spiegato che bisognava chiamare persone esterne alla politica! Che cosa dobbiamo aspettare per convincerci che se c’è stato un default in questo Paese è stato il default della nostra classe politica?
dalla falsa rappresentazione della lotta politica. È accaduto per un motivo molto semplice, cari amici e compagni: perché per vent’anni, durante tutta la seconda Repubblica, la selezione della classe dirigente è avvenuta secondo un solo criterio: chi era amico di Berlusconi - e portava voti, oppure chi era il più feroce avversario di Berlusconi - e portava voti. Se poi era incapace di gestire lo Stato, un comune, una provincia, una regione o un condominio era del tutto secondario. Così abbiamo allevato una classe dirigente e adesso ci meravigliamo che sono incapaci e non hanno un’idea nella testa per fare uscire questo Paese dalla crisi. Questi sono i tempi di ferro che ci aspettano e allora io mi chiedo, 11
come vi chiedo, cari amici e compagni: può una grande Organizzazione come la nostra, che rappresenta quella parte del Paese che ancora riesce a pensare con la propria testa e vive del proprio lavoro, aspettare qualcuno che ci prenda per mano e ci dica dove bisogna andare, perché se no soffriamo di solitudine? Ma siamo matti? Nessuno ci prenderà per mano e se lo faranno state tranquilli ce ne andremo a finire dentro a un burrone… Ecco perché abbiamo bisogno di ripensare come un’Organizzazione come la nostra, che fa sul serio e si attrezza per gestire i tempi che verranno. Di questo abbiamo bisogno ed allora si che saremo credibili! E noi dobbiamo pensare sempre alle persone che si devono ancora iscrivere alla Uil, perché sono la maggioranza: questo è il compito che ci dobbiamo affidare. Vi faccio degli esempi banali di cose che non si fanno pur sapendo tutti che è necessario farle: noi abbiamo una campagna elettorale orchestrata da qualche cretino che ripete - perché pensa che ripetere certi slogan è popolare e si va sui giornali, e che ha alle spalle altre persone molto più abili e ciniche che gli istillano il concetto - che
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abbiamo 3milioni e mezzo di fannulloni. A parte che ci sarebbe una bellissima battuta: ci sono delle leggi draconiane, per le quali questi fannulloni possono essere licenziati, ma di questi fannulloni non ne hanno licenziato nemmeno uno. Sapete perché? Non perché non ce n’è nemmeno uno: statisticamente uno ci sarà sicuramente; perché sono incapaci, non hanno idea di che cosa significa governare un Paese ed il lavoro più importante, cioè quello che fanno i lavoratori pubblici, che lo fanno non per produrre profitti per questa o quell’altra impresa, ma rivolgendosi ai cittadini ed alle imprese, a quello che è l’unico bene che abbiamo. E un Governo normale - io un Governo di tecnici me lo sarei aspettato come un must - cosa avrebbe dovuto fare? Avrebbe dovuto dire: “Nella nostra pubblica amministrazione ci sono settori, uffici, enti che devono essere migliorati; dove le prestazioni non sono all’altezza. Quindi bisognerà fare un piano di ristrutturazione per aumentarne la produttività e l’efficienza. Ci sono settori, uffici, enti che funzionano ed altri che devono funzionare meglio mettendo un po’ più di soldi, facendo un po’ più investimenti, perché le risorse che ci
mettiamo sono troppo poche”. Questo fa un Governo normale! Questi che hanno fatto? Una cosa semplice, come all’antica: hanno detto “tagliamo in modo lineare” e i tagli lineari sono l’esatto contrario di ciò di cui un Paese normale avrebbe bisogno, perché i tagli lineari significano solo una cosa: aumentare l’inefficienza, punto e basta! Perché si peggiora dove va bene e non si risolve dove va male: ma nessuno ha la forza politica, la capacità di farlo e ammetterete che uno poi ad un certo punto dice “Bene, sono tutti incapaci!” Ma, statisticamente, anche questa è una battuta difficilmente sostenibile, perché ci sarà pure qualcuno capace e probabilmente ci sono persone capaci che sanno cosa bisognerebbe fare. Perché non lo fanno? Io ho un solo dubbio che si sta tramutando in certezza … Non lo fanno perché questo governo dei tecnici risponde a degli input precisi: ci sono dei poteri ai quali non si
può dare fastidio e questi poteri, oltre a quelli delle banche, sono anche i partiti, la politica. A quelli non si deve dare fastidio, quindi non hanno fatto nulla di quello che sarebbe stato normale fare: non solo una vera riforma della pubblica amministrazione o una vera riforma fiscale, ma eliminare lo scandalo più grave che abbiamo: un apparato politico che in rapporto alla popolazione non ha paragoni in tutto il mondo, non solo quello
democratico o occidentale... in tutto il mondo! E questo apparato politico non attraverso i loro stipendi, perché francamente non è quello il nostro problema - ha drenato risorse importanti in questo Paese: la metà del Pil è gestito direttamente o indirettamente dalla politica. La metà! E ovviamente abbiamo un milione - il nostro Guglielmo (Loy, Segretario confederale - ndr) ed i suoi hanno fatto dei conti precisissimi - più di un milione di persone che vive di politica, direttamente e indirettamente; quei 144mila eletti che nominano poi tutti gli altri, e sapete che cosa è successo? È successa una cosa scandalosa: che in tutti questi anni - abbiamo preso in considerazione gli ultimi dieci - i loro redditi sono aumentati dell’ottanta per cento! Non c’è stato nessun
lavoratore dipendente, non parliamo dei pensionati e neanche delle imprese, che ha visto aumentare il suo reddito dell’ottanta per cento. Questo ha drenato risorse e uno poi dice “Ok forse si devono dare una calmata, un po’ più di moderazione”. No, il sistema è organizzato in modo tale da essere criminogeno. Perché abbiamo un così elevato livello di corruzione, patologicamente elevato? Il motivo è molto semplice: perché il rapporto tra la pubblica amministrazione, cioè tra il potere pubblico politico e i cittadini o le imprese, funziona attraverso un’infinità di concessioni, permessi, autorizzazioni, licenze la cui concessione è appunto una concessione, non è un diritto, e viene modulata a seconda delle convenienze. Io ti rilascio una licenza perché voti per me o mi fai portare i voti ed io ti autorizzo a fare un’operetta pubblica da qualche parte che ci costa due o tre volte quello che ci dovrebbe costare. Poi magari ad un certo punto non ci saranno più i soldi, quindi l’opera rimane incompiuta, però nel frattempo le imprese hanno preso i soldi … Questo è il sistema che come vedete induce al crimine, a violare il codice. La questione dei costi della politica - noi lo dobbiamo dire chiaramente - non è un problema morale: i ladri devono stare in galera. E, per l’amministratore pubblico, l’onestà è un pre-requisito, non è il requisito. È un pre-requisito che tu non debba rubare i soldi pubblici. Il requisito è che tu sia capace di gestirli in maniera corretta e di far si che questi soldi, nostri - perché poi qualcuno se li è guadagnati ed ha dovuto pure pagare le tasse e, quindi, non sono una categoria dello spirito devono rendere al Paese in termini di servizi, di benessere, di aumento di
opportunità di servizi che vengono prestati alla persona, per mettere le persone in condizione di imparare, di apprendere, di trovarsi un lavoro... Devono creare occasioni di lavoro. Questo non è un problema morale, ma politico! C’è un’unica soluzione fra le tante che sono state pensate, ce n’è una sola che non è stata mai praticata, che non è nelle campagne moralistiche che si fanno ogni vent’anni per cui cancelliamo le classi dirigenti. Poi potremmo farlo anche ogni cinque o sei anni, ma non funzionerebbe lo stesso. Ce n’è una sola: bisogna ridurre il numero delle persone che possono decidere come spendere i soldi pubblici e bisogna ridurlo in maniera drastica, perché questo indurrà non un risparmio generico sugli stipendi, questo indurrà una modifica profonda nei sistemi di autocontrollo e di minore connivenza tra amministratori. Questo consentirà che la spesa pubblica segua un criterio un po’ più europeo e finalmente anche qua si potranno fare opere pubbliche pagandole come in Francia o in Germania ed ottenere che vengano fatte anche negli stessi tempi con cui vengono fatte in questi paesi, perché qui adesso è tutto moltiplicato per due, ci costano il doppio e ci mettiamo il doppio del tempo! Se non succede questo, quale speranza volete che abbiamo quando si parla di crescita e di sviluppo? Ma di che cosa parliamo se non degli investimenti, cioè della possibilità di investire, di produrre beni e servizi, di dare quell’effetto positivo all’economia. Noi non possiamo investire soldi pubblici a iosa perché ne abbiamo pochi e dobbiamo pure ripagare dei debiti. Dovremmo investire in maniera un po’ più efficiente di quanto fanno gli altri per accorciare le distanze. Ma questo chi lo fa? Certo non una classe politica che in testa ha solo l’idea di sopravvivere fino alle prossime elezioni, ponendosi sempre la domanda : “Io che faccio? Mi ricandidano? Cosa devo fare per farmi ricandidare o per farmi rieleggere? Quale posto mi spetta dopo la prossima campagna elettorale? Mi danno un posto da direttore? Mi danno un ente o qualcosa di questo genere?” È questo il bottino per cui si fanno le grandi battaglie in politica. Infatti non ne parlano: non si scontrano su “cosa fare” ma sulla geometria: quanto stai lontano da me e quanto stai vicino a me. Questa è la politica in Italia, un fatto di geometria piana! Non sono 13
nemmeno sofisticati! E questo Governo, che avrebbe dovuto presentare una rottura con tutto ciò, ovviamente questo non lo ha fatto. Ovviamente si è occupato di una cosa che apparentemente era importante, ed era importante anche sostanzialmente, ma nel breve periodo, cioè di andare in giro per il mondo e mandare questo messaggio “Io sono diverso dagli uomini politici, non voglio fare carriera politica, farò cambiare questo Paese (ovviamente non ci è riuscito) però
stanno da un’altra parte, però mettete i soldi voi”. Questo avrebbe dato sul serio una spinta verso la crescita. Ma fare questo per quelli che mettono i soldi è molto più rischioso. Infatti uno dice: va bene compro i Bot e questi mi danno il cinque-sei per cento, tanto per due o tre anni non falliranno, quindi me li posso pure comprare tanto poi se le cose vanno male me li rivendo e non c’è problema. Però se uno vuole venire qui per mettere su un’impresa, lo fa solo se
fidatevi che, a forza di far fare sacrifici agli italiani, vi garantisco che, se ci prestate i soldi, ve li restituiremo con congrui interessi, quindi fate un affare a comprare il debito pubblico italiano”. Operazione che è stata più vincente sui giornali che nei mercati. Infatti non abbiamo avuto chissà quale flusso di investitori a comprare i nostri Bot. Infatti lo spread è aumentato o diminuito a seconda di quello che diceva un altro Mario. Quindi non è stato un grande successo. Però, diciamo così, finalmente c’era una persona perbene con la faccia giusta, con le scuole giuste, che frequenta i club giusti; una persona che i grandi del mondo riconoscevano come un loro pari, che ascoltavano e di cui si sono fidati. Io vi confesso che avrei preferito che il Presidente del consiglio avesse fatto un altro tour, non solo quello: quello più un altro tour, tra tutti gli investitori, imprese, multinazionali e avesse detto loro: “Guardate: adesso potete venire in Italia ad investire. Fate fabbriche, centri commerciali, alberghi, tutto ciò che pensate si possa fare, perché noi abbiamo bisogno di investimenti, abbiamo bisogno di lavoro. I nostri soldi, come al solito,
ha delle garanzie. Vuole la garanzia che le regole le conosce e che verranno rispettate, che potrà investire che potrà lavorare senza avere tanti lacci e lacciuoli, come usano dire loro. Questa è un’operazione molto ma molto più difficile e, infatti, non ci hanno neanche pensato a farla. Hanno fatto la stessa cosa che fanno nei confronti delle cosiddette parti sociali: infatti sono dieci anni che siamo noi a spiegare che il problema più grande dell’Italia è la produttività. Per questo abbiamo lottato per cercare di cambiare il modello contrattuale, poi siamo riusciti sempre spiegando: “Cari amici e compagni bisogna aumentare la produttività se no la ricchezza non cresce e neanche gli stipendi”. Adesso il Presidente del Consiglio con tutti i Ministri con tutti i luminari dell’economia politica, tutti i professori, alla fine del loro mandato hanno detto “È vero, il problema centrale è la produttività”! Ma anche a novembre del 2011 questo era un problema centrale, no? Non è che lo è diventato a novembre del 2012. E dal Governo arriva questo messaggio: “Sapete che c’è? Risolvetelo! Discutetene e risolvete il
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problema”. È come dire “Noi non c’entriamo nulla, il governo del paese è un’altra cosa, con il mondo reale non ci azzecca”. Lo sapete perché lo ha fatto? Non pensate che sono io che la racconto così, è una cosa molto semplice: il Governo deve cercare di chiudere in bellezza e quindi, siccome comprende che il tasso di disoccupazione comincia a crescere in maniera vertiginosa, che l’economia va male e che il gap della nostra competitività col cavolo che si è ridotto perché non hanno fatto nessuna di quelle cose che banalmente bisognava fare, adesso si è creato una specie di alibi. Vedrete che dopo il 18 di ottobre o quando i giornali cominceranno a scrivere “ma in fondo i Sindacati sono divisi e un po’ sono incapaci, la Confindustria non si sa quello che vuole, eccetera eccetera”. Quindi questo cavolo di Paese non ha potuto fare lo scatto di competitività verso la crescita non per colpa di chi comanda ma per colpa nostra! Questo era un Governo a termine, per noi il termine è già scaduto: prima se ne vanno e più noi ci guadagniamo. Abbiamo anche accarezzato l’idea di fare uno sciopero generale, ma abbia-
mo avuto un piccolo problema: noi uno Sciopero Generale - siccome siamo sempre persone perbene e cerchiamo di fare le cose dicendo quello che vogliamo senza fare propaganda e fumo - lo avremmo fatto solo ad una condizione di avere un obiettivo preciso, cioè mandare a casa il Governo! Non chiedergli cose che tanto non avrebbe mai potuto darci. Ovviamente, com’era presumibile, siamo rimasti da soli. Quindi abbiamo preferito dirgli con le buone vattene a casa e cercare di convincere la maggior parte degli italiani che è arrivata l’ora di tornare ad essere un Paese normale nel quale la gente va a votare e si assume la responsabilità del voto: se ne esce un Governo e una maggioranza... bene, se no pazienza, la democrazia è
bella anche per questo ! Non ci sono più tempi, questo Governo non ha più le risorse politiche - e neanche temporali davanti a sé - per fare nulla di decente che ci interessi. Né sul piano del fisco né sul piano della competitività e, aggiungerei, neanche sul piano del risanamento. Perché l’unica strategia che ha seguito, fin dall’inizio e che seguirà fino all’ultimo atto, è molto semplice: chiederci i soldi per ripagare i debiti! Noi, se i soldi ce li chiedessero per fare investimenti o creare occupazione, ci penseremmo prima di dire di no. Però respingiamo l’idea che ci debbano chiedere i soldi per pagare i debiti che una classe politica ha allegramente fatto per tutti gli anni che abbiamo alle spalle sapendo una cosa molto semplice, che non si tratta solo di tasse in più, ma si tratta anche di posti di lavoro in meno! Pian piano, negli anni, siamo riusciti a metterlo nella testa degli italiani ed ora è diventato un ragionamento normale. Ma qualche anno fa, quando dicevamo che più si riducevano stipendi e pensioni e più si aumentava la disoccupazione, questa era considerata una cosa sconvolgente. Ognuno comprendeva che, se si riducono i consumi, si vive peggio, ci si impoverisce. Ma no, non è solo quello! Anzi quella non è nemmeno la parte peggiore. La parte peggiore è il fatto che in un Paese come il nostro,
ed in tutti i Paesi più evoluti, l’ottanta per cento dei posti di lavoro esistono perché ci sono dei clienti - i concittadini - che usano, comprano - a volte obbligati - servizi e beni di consumo. Noi non possiamo vivere decentemente o pensare di avere una crescita dell’economia se il reddito degli italiani continua a scendere, perché se il reddito continua a scendere, come sta scendendo, i posti di lavoro diminuiranno, anche nei modi più impensati. Per questo motivo è necessaria una vera riforma fiscale che finalmente faccia in modo che le persone che lavorano e pagano le tasse non debbano pagarle anche per conto degli evasori fiscali né, tantomeno, per mantenere una classe dirigente che si è dimostrata assolutamente non all’altezza delle sue responsabilità. Questi sono i veri motivi. Noi stiamo
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vivendo un mondo al contrario. Quando si parla di sacrifici bisogna pensare alla distruzione di posti di lavoro. E quando il mercato non basta per distruggere i posti di lavoro, che cosa facciamo? Li distruggiamo da soli, come il caso dell’Ilva. Una cosa così scandalosa non è capitata in nessuna parte del mondo e, semmai dovesse accadere che un atto amministrativo fa chiudere la più grande siderurgia d’Europa, guardate: sarebbe come una bomba atomica! Non pensate solo ai 20mila posti di lavoro che perderemo nell’arco di pochi mesi, pensate ad un’altra cosa. Nel mondo, dove già ci considerano un posto dove venire forse in vacanza, tutti diranno: “Qui attività imprenditoriali non si possono fare. Il massimo che possiamo fare è venire in Italia, comprare una bella azienda che va bene, togliere tutta la tecnologia e investire da un’altra parte”. Di questi che ci toglieranno un po’di aziende buone che abbiamo ne troveremo ancora, ma di gente che viene qui per investire, produrre, dare lavoro per creare anche competenze non ne troveremo più, quello è il peggiore spot che un paese come il nostro possa fare e neanche dieci Monti riuscirebbero a convincere il mondo che noi non siamo diventati pazzi. Vedete: queste sono le drammatiche condizioni. Per fronteggiare queste situazioni occorre un Sindacato che sappia cosa sta accadendo e che abbia due o tre idee fondamentali da portare avanti. Da far prevalere non solo dentro al sindacato ma nell’opinione pubblica e nei confronti di tutti i decisori politici. E sono esattamente quelle. Noi abbiamo bisogno di investire per aumentare la nostra produttività, la nostra competitività, la nostra capacità di produrre ricchezza. Cosa che abbiamo smarrito: abbiamo pensato per molto tempo che il lavoro era una fatto sociologico. No, il lavoro è la principale leva economica per produrre ricchezza, non è un problema sociologico! È che senza il lavoro nessun paese cresce e migliora. E più il lavoro è qualitativo - cioè più produce ricchezza - e più il Paese progredisce, il benessere si diffonde e anche colui il quale di questo non ne sa nulla e nascerà domani ne usufruirà e ne avrà benefici. Ma se noi stiamo smarrendo la cosa fondamentale come potremmo salvarci? Un Sindacato deve avere questa fondamentale convinzione e purtroppo non è 16
sempre così. La maggioranza ce l’ha, ma c’è una parte consistente del Sindacato che non è interessato, è interessato soltanto ad una cosa: a massimizzare il suo potere di interdizione, di interlocuzione o di mediazione. È questa la vera chiave di lettura che spinge la Fiom a dire che le regole valgono solo quando sono convenienti. Ci sono delle regole? Anzi: nel pubblico impiego ci sono delle regole ed anche nei settori privati ci sono delle regole. Abbiamo parlato del contratto dei chimici: è stato fatto un regolamento per prendere delle decisioni su come si vota e si prendono decisioni sui contratti nazionali. Questa regola è stata approvata all’unanimità, io ero presente insieme agli altri due Segretari, ed è già stata applicata. Ma, siccome a qualcuno il contratto siglato per i chimici non va bene, adesso quella regola non va bene e ci vengono a parlare di contratti separati. Non ci sono i contratti separati in Italia, ci sono i contratti della maggioranza come in tutti i paesi democratici! L’unità, lo dico qui perché adesso mi sono stufato di ripeterlo, è un mezzo non è un obiettivo: noi non sacrifichia-
mo i posti di lavoro e i redditi dei lavoratori, non facciamo abbassare gli stipendi perché dobbiamo andare d’accordo. Avete capito? Non lo faremo mai! Noi vogliamo difendere i posti di lavoro, far aumentare i salari e lo faremo con tutti quelli che ci stanno. Più siamo meglio è, se ci siamo tutti siamo ancora più felici! Uno strumento, un banale strumento. Questa è la nostra vocazione, la nostra essenza, il significato profondo delle parole riformista, indipendente, autonomo e laico. Questa è la Uil! Noi siamo cresciuti. Ogni volta abbia-
mo tenuto ben presente che il nostro obiettivo era il benessere della gente e lavorare in questa direzione. Non per non avere rotture di scatole. Noi lo abbiamo già fatto e lo abbiamo già vissuto. E lo abbiamo vissuto in tempi come dire - difficili. Ma non così impervi come quelli che abbiamo davanti. E se nei tempi che abbiamo davanti, che saranno sul serio molto più impervi di quelli che stiamo vivendo, ci
andiamo smarriti, come se fossimo nel Sahara, ad occhi chiusi, aspettando di sapere se la luce sta in quello che ti dice Tizio o ti dice Caio, noi naufragheremo e aggiungo che sarebbe pure giusto farlo. Ma noi non faremo questa scelta, faremo esattamente il contrario. Noi stiamo organizzando un Sindacato che riesca a vincere da solo, che possa diventare sul serio credibile ed essere una fonte di speranza per milioni di italiani. Un Sindacato che sappia dare coerenza alle parole, che quando dice che vuole cambiare, bisogna cambiare, non dirlo e basta! Quando spiega che il mondo non sarà più come quello che abbiamo conosciuto e che quindi anche noi dovremo avere comportamenti
diversi, li avrà! Noi abbiamo delle cose da fare: capire che il mondo è sul serio cambiato e che i lussi che ci siamo permessi di vivere, quasi a compartimenti stagni, sono finiti. Noi abbiamo strutturato un’Organizzazione che funziona, cresciamo e va tutto bene. Quando io, ogni tanto, incontro qualche persona che mi fa: “come va?” rispondo “la Uil bene, è il resto che va male”. E quindi uno
lo scomodo. Non funziona più! Dobbiamo fare simultaneamente, che significa contemporaneamente, cioè tutti assieme nello stesso momento, un passo per rompere questi piccoli steccati. Che cos’è un Sindacato a rete? Un Sindacato nel quale le varie realtà che rappresenta - ed in un grande Sindacato c’è una varietà non solo numerica ma di condizioni sociali, economiche, produttive, di rapporti aziendali, di territori si incrociano. Noi abbiamo bisogno che queste sinergie si incrocino là, sul territorio, non nella categoria, non dentro gli organismi, ma là! Si devono incontrare e lavorare assieme. È scomodo? Non fa niente, non avete alternative. Nella Uil non c’è proprietà privata, la Uil è di tutti. È nostra ma è di tutti: que-
lo faremo! Noi non siamo persone che si rassegnano, mai! Neanche quando vedono muri con una pendenza di ottantanove gradi, non novanta perché bisogna volare. Noi non ci rassegniamo. Noi rappresentiamo quella parte degli italiani che non vuole e non può rassegnarsi. Noi siamo quella parte degli italiani che di fronte alle sfide non cede, non scappa. C’è da battersi? Noi ci batteremo, e anche gente pacifica come noi, quando crede nelle cose che fa, sa battersi con una determinazione e col coraggio sufficiente! Abbiamo passato tante sfide che adesso, quando sono passate, sembrano modeste. Ne abbiamo una in comune e questa volta, ogni giorno che passa, la nostra responsabilità aumenta. Ogni volta che un ita-
potrebbe dire “Se tu vai bene lascia perdere, preoccupati di quello che devono fare gli altri”. E no! Perché la prospettiva è che ci possa essere il contagio. Anzi è realistico che ci possa essere il contagio. Noi abbiamo un’organizzazione che vive in compartimenti stagni: in una parte stanno i servizi, in un’altra ci sono le categorie, che giustamente si occupano solo dei loro problemi, dei loro iscritti, delle loro aziende eccetera eccetera. Poi c’è la Confederazione che, a livello nazionale... giudicate voi. Ai livelli provinciali, soprattutto, cerca di tirare a campare tra un litigio e l’altro, tra un compromesso e l’altro. E questo qui è un lusso che non ci possiamo più permettere. Non dobbiamo neanche stare a discutere: se è buono o non buono, se ci sta il comodo o ci sta
sto è il passo che dobbiamo fare. Noi faremo tutto ciò che è nelle nostre possibilità; anche noi facciamo le cose in ritardo. Abbiamo un problema di aree contrattuali? Ok, risolveremo il problema! Lo risolveremo con questa filosofia che ho detto, non con questioni burocratiche: vediamo come organizziamo la macchina perché funzioni meglio. Non per dire che alziamo il recinto per cui questa è roba mia e non ci dovete mettere bocca: non esiste, è finita! Qualcuno di voi ha detto e qualcuno lo ha pure pensato - io applaudo di più quelli che lo dicono e un po’ meno quelli che lo pensano senza dirlo: ma lo faremo? È vero? Cioè facciamo solo una “mossa”? State sereni: lo faremo! Per le ragioni che vi ho spiegato per un’ora, per tutte quelle ragioni, noi
liano, un lavoratore, un pensionato si iscrive alla Uil, ogni volta che un cittadino italiano entra nella nostra sede, la nostra responsabilità aumenta. Aumenta la responsabilità politica e morale di dare a queste persone delle risposte. Non sempre le risposte possono risolvere i problemi, lo sappiamo. Ma lo sanno anche loro, non sono stupidi: lo sanno che certe volte più di tanto il problema non si può risolvere. Quello che ci chiedono è la buona fede; la profonda convinzione che noi facciamo tutto il possibile per risolvergli il problema e che non abbiamo nessun altro obiettivo che quello di farlo iscrivere alla Uil, di far sì che questa sia un’Organizzazione che rappresenti sul serio non solo il futuro, ma la speranza di vivere ancora bene nel nostro Paese!” 17
Sempre più INTERPOL
sue varie forme (urbana, giovanile e terroristica). Inoltre, si è dibattuto sulla questione dell’estremismo e dell’ultraviolenza, del ruolo attuale della polizia e delle risposte della politica della sicurezza che oggi più che in passato richiede la compartecipazione di tutte le agenzie sociali e di sicurezza, nazionali e sovranazionali.
Il Vice Capo della Polizia – Direttore centrale della polizia criminale Francesco Cirillo
Signor Prefetto, si è appena conclusa l’81a Assemblea dell’Interpol, com’è andata ? è stato un successo per l’Italia e per le nostre Forze di polizia. Il nostro Paese, per la terza volta nella sua storia, dopo il 1954 ed il 1994, ha avuto l’onore di ospitare questo evento, rafforzando così il proprio ruolo nella comunità internazionale di polizia per la conduzione di nuove e sofisticate attività di contrasto alla criminalità organizzata transnazionale. La sessione ha visto la partecipazione di circa 170 Paesi, mentre a livello tecnico-operativo è stata registrata la presenza di almeno 80 capi della Polizia ed un migliaio di delegati, senza contare il valore aggiunto della partecipazione, in qualità di osservatori, di numerose organizzazioni internazionali e di espositori di tecnicismi delle polizie italiane e straniere con i loro 20
stand. L’agenda dei lavori, che ha compreso un prestigioso vertice tra circa 100 Ministri dell’interno e della giustizia dei Paesi membri, incentrato sul tema della violenza nelle sue varie manifestazioni, ha abbracciato tematiche sui fenomeni criminali di maggior rilievo quali l’immigrazione illegale, la pirateria marittima, la contraffazione, il trafugamento di opere d’arte rubate, la criminalità informatica legata al terrorismo e la lotta alla criminalità organizzata attraverso l’aggressione ai patrimoni illecitamente acquisiti e la cattura di pericolosi latitanti. L’agenda dei lavori della sessione ministeriale è stata contraddistinta dall’esame delle tematiche con le quali le polizie di tutto il mondo si confrontano quotidianamente: mi riferisco al traffico e tratta di esseri umani, alla criminalità organizzata, alla violenza nelle
Quali sono le polizie con cui la collaborazione funziona meglio ? L’Italia ha instaurato negli anni proficue relazioni internazionali di polizia avviando numerose iniziative di cooperazione con gran parte delle polizie mondiali. In particolare, ha creato una rete di esperti per la sicurezza che copre tutte le principali regioni del mondo consentendo la messa in opera di una “piattaforma operativa italiana” per un efficace monitoraggio dei fenomeni criminali locali che hanno proiezioni sul territorio nazionale. Inoltre, l’Italia ha sottoscritto numerosi accordi di cooperazione con la finalità sia di realizzare iniziative di assistenza e formazione soprattutto in favore dei Paesi balcanici (Bulgaria, Moldova, Romania, Serbia ed Albania in materia di falso documentale, traffico di sostanze stupefacenti, indagini antidroga, tratta degli esseri umani, tecniche di contraffazione delle banconote) sia di conferire concreta applicazione tecnico operativa alla collaborazione di polizia dei Paesi. Tale strumento di cooperazione rafforzata consente infatti di focalizzare meglio l’attenzione e, di conseguenza, le politiche d’intervento nella lotta di specifici fenomeni criminali, anche mediante la creazione di gruppi di lavoro congiunti. Dove si registrano, invece, le criticità oggettive nella collaborazione ? Le aree dove si registrano le maggiori criticità coincidono spesso con i territori segnati da situazioni di instabilità politica, economica e sociale che sono caratterizzati da una forte presenza
Contro mafie e terrorismo
Il Capo della Polizia Antonio Manganelli
Da sinistra nella foto il Presidente uscente di Interpol, Boon Hui Khoo, il Ministro dell’interno Annamaria Cancellieri ed il Segretario Generale Interpol, Ronald K. Noble
Sempre più INTERPOL
Il neo Presidente di Interpol, Mireille Balestrazzi
Francobollo commemorativo dell'Assemblea emesso da Poste Italiane
della criminalità organizzata transnazionale e quindi con le organizzazioni criminali italiane. In questi casi l’impegno del Dipartimento della pubblica sicurezza in quelle regioni “calde” è volto a costruire o rafforzare i rapporti di polizia, favorendo così anche le relazioni politiche tra i Paesi. In tal senso, mi piace ricordare l’attività italiana specie nei Balcani, finalizzata ad aiutare le amministrazioni di polizia di quei Paesi.
In primo piano nella foto: il Generale di divisione G. di F. Fabrizio Lisi, Direttore del Servizio cooperazione internazionale di polizia
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Come dovrebbero cambiare le normative e gli accordi internazionali per migliorare l’efficienza e l’efficacia nella cooperazione ? L’esigenza e la consapevolezza operativa
Contro mafie e terrorismo
di dover superare i confini nazionali ed intensificare la collaborazione di polizia, e in genere l’azione penale sul piano internazionale, dovrebbero orientare le strategie degli interventi dei singoli paesi verso un’azione comune. In tale ottica, l’Italia ha ritenuto opportuno compiere un passaggio: creare e diffondere un “modello condiviso” di percorsi investigativi e giudiziari omogenei, nonché favorire l’armonizzazione delle diversificate legislazioni penali nazionali in materia di criminalità organizzata transnazionale, avendo come base la Convenzione di Palermo. Per soddisfare tale esigenza l’Italia, sotto l’egida dell’UNODC (l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimi-
ne - ndr) e con il partenariato della Colombia, ha realizzato il “Digesto sui casi di criminalità organizzata”, che rappresenta uno strumento pratico di assistenza tecnica e giuridica, sia per migliorare le esistenti procedure pratiche ed operative, sia per stimolare cambiamenti nelle normative nazionali e per applicare le buone prassi individuate. Cosa potrebbe fare il nostro Paese ? Oltre alle attività già citate, abbiamo lanciato l’idea dell’istituzione della Scuola di alta formazione per la prevenzione e il contrasto del crimine organizzato di Caserta. Qual è, a suo giudizio, tra quelle pre-
senti, la polizia che più assomiglia alla nostra ? Tutte le polizie si assomigliano se hanno come principi fondamentali la libertà dell’individuo, il rispetto della legalità e la salvaguardia della democrazia. Come veniamo visti all’estero ? Benissimo direi e molto spesso come un modello da imitare. Il modello investigativo made in Italy è oramai riconosciuto in tutto il mondo, soprattutto il nostro modus operandi e l’incisività della normativa antimafia di aggressione ai patrimoni illecitamente acquisiti, costituisce un prodotto che numerose polizie estere hanno acquisito e tuttora viene esportato.
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Interpol e l’Italia formazione di polizia, che permette ai partner di accrescere i propri standard qualitativi dell’attività di contrasto al crimine e delle infrastrutture di sicurezza. Ogni Paese membro opera attraverso un Ufficio centrale nazionale Interpol, che funge da referente unico per tutte le forze di polizia interne riguardo ai rapporti ed alle attività con l’Organizzazione, consentendo agli Stati membri di lavorare congiuntamente nelle indagini e nelle operazioni transnazionali. L’Ufficio italiano è ubicato presso il Servizio per la cooperazione internazionale di Polizia in seno alla Direzione centrale della polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza. La partecipazione dell’Italia risale alla sua stessa fondazione, a Vienna il 7 settembre 1923, quando ancora era denominato “Commissione internazionale della polizia criminale” (Cipc), denominazione che cambiò poi nel 1956 in “Organizzazione internazionale della polizia criminale Interpol” (Oipc - Interpol).
Il Direttore della I Divisione Affari Generali del Servizio cooperazione internazionale di polizia Gennaro Capoluongo
Creata nel 1923, l’Interpol è la più grande Organizzazione internazionale di polizia, che conta oggi 190 Paesi membri e la cui sede si trova in Francia, a Lione. Il suo ruolo principale è agevolare la cooperazione transfrontaliera di polizia, nonché fornire assistenza a tutti gli organismi, le autorità ed i servizi preposti alla prevenzione ed al contrasto della criminalità internazionale, assicurando una funzione di raccordo e coordinamento che consente di operare, in sinergia, a tutela della sicurezza dei cittadini in tutto il mondo. Le strutture all’avanguardia e le infrastrutture di alto livello tecnico ed operativo, di cui è dotata l’Interpol, permettono di rispondere in modo adeguato alle crescenti difficoltà nella lotta al crimine e, grazie alla cooperazione di tutti gli Stati membri, favoriscono lo sviluppo di conoscenze e competenze necessarie al raggiungimento degli obiettivi prefissati. La cooperazione internazionale è attuata tramite un sistema protetto di comunicazione globale, che consente a tutti i 190 Paesi membri di consultare, richiedere e trasmettere istantaneamente dati fondamentali, anche attraverso una costante
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di Gennaro Capoluongo
Condividendo l’obiettivo di rafforzare i rapporti internazionali e la solidarietà tra gli Stati, al di fuori dei confini nazionali, l’Italia ha sempre partecipato attivamente all’Organizzazione, assumendo negli anni un ruolo cardine nella comunità di polizia per la continua funzione promotrice di nuovi e sofisticati metodi di contrasto alla criminalità organizzata internazionale, frutto dell’ineguagliabile esperienza consolidata nella strenua lotta alle associazioni criminose ed a tutte le attività illecite che costituiscono un grave pericolo per le collettività di ogni Paese.
La sede del Segretariato generale Oipc - Interpol a Lione
Per divulgare le qualità specifiche del proprio sistema sicurezza e per dare un ulteriore impulso all’azione concertata delle forze di polizia di tutto il mondo, sino a diffondere una comune dottrina investigativa, l’Italia ha
ospitato pochi giorni orsono, dopo quasi un ventennio dalla precedente sessione italiana del 1994, la riunione annuale dell’Assemblea Generale dell’Oipc - Interpol. Questo consesso, arrivato quest’anno alla sua 81a sessione, rappresenta il massimo organo di governo preposto alla determinazione dell’indirizzo politico, dei programmi finanziari e delle attività operative dell’Organizzazione. La scelta di ospitare questo prestigioso evento rappresenta solo una tappa di un percorso che ha la finalità di esportare sul piano internazionale le eccellenze e le qualificate esperienze italiane nel settore della polizia. Tale attività di carattere strategico generale nelle relazioni internazionali anticrimine ha avuto un precedente momento di successo in occasione della presentazione del “Digesto dei casi di criminalità organizzata”, cioè di un manuale di tecniche e casi investigativi rivolto a coloro che svolgono attività investigative e giudiziarie, di cui l’Italia è stata promotrice. Il naturale compimento di questo cammino potrebbe avvenire con la realizzazione della “Scuola internazionale di alta formazione per la prevenzione e il contrasto del crimine organizzato” che nasce dall’esigenza di colmare un vuoto attualmente sentito, sia in campo europeo sia internazionale, per l’assenza di una struttura in grado di progettare e realizzare percorsi formativi, proposte e studi legislativi su scala mondiale volti al contrasto della criminalità organizzata ed all’aggressione dei patrimoni illecitamente acquisiti. La Scuola rappresenterà un polo di eccellenza a livello internazionale e sarà realizzata nel meridione d’Italia, e precisamente a Caserta, a testimonianza dell’impegno italiano in un’area geografica particolarmente afflitta da fenomeni delittuosi.
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Sì TAV...
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n situazioni del genere, scendere in campo per manifestare il pesante disagio vissuto dai colleghi che prestano servizio per la TAV non è poi così semplice: il rischio di essere strumentalizzati da una stampa che spesso ci censura, ci ignora o peggio ci condanna tutto l’anno, è dietro l’angolo e non ci appassiona apparire sui giornali senza che questo sia utile ai poliziotti.
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...o No TAV?
Gli articoli di cronaca comparsi sulla TAV hanno portato un qualsiasi miglioramento alle condizioni di lavoro in Val di Susa? L’intenzione di denunciare tutti i partecipanti alle manifestazioni NO TAV per favoreggiamento negli atti di violenza manifestata dal Segretario nazionale di altra Organizzazione sindacale di appartenenti alla Polizia di Stato è costruttiva, attuabile, sensata? Quale apporto potrebbe dare all’immagine del Poliziotto il voler denunciare la famigliola che, a torto o a ragione, decida di manifestare pacificamente a Chiomonte? Non è compito del Sindacato produrre articoli di cronaca, né fare facili quanto inattuabili proclami al solo scopo di voler apparire. Incominciamo quindi col dire che il
vero problema non è da ricercare nella presenza dei manifestanti violenti, perché quelli ci sono sempre stati e sempre ci saranno! La questione si protrae in uno stato di patologica cancrena perché, anche quest’anno, ci sono disposizioni ministeriali che impongono di non agire, subire e limitarsi a controllare le manifestazioni, costi quel che costi. Ma purtroppo il costo c’è ed è pesante. Passare dalle pietre alle bombe carta è stato un passo breve e fin troppo agevole. Cosa dobbiamo aspettarci per le prossime manifestazioni? L’irreparabile? E non basta: i Reparti mobili vengono utilizzati in modo irresponsabile, violando costantemente l’Accordo nazionale quadro con turni irregolari e
massacranti, lasciando accumulare ferie e riposi, mentre il personale della Digos, non addestrato ed inquadrato per l’ordine pubblico, rischia ancora di più la propria incolumità, come dimostra quanto accaduto al suo dirigente. è diventata oramai prassi consolidata, osservare gli antagonisti partire in corteo o in gruppi numerosi in direzione del cantiere, bardati di tutto punto con zaini contenenti tutto il materiale atto alla guerriglia (maschere antigas, passamontagna, k-way di colore nero, caschi protettivi e armi improprie di varia natura) e finalizzato all’elusione dell’ identificazione, vederli poi rientrare nelle stesse aree, senza effettuare nessun intervento di polizia, neanche tentare almeno di dare un nome a 29
Sì TAV...
coloro che per ore hanno posto in essere una vera e propria guerriglia con il personale preposto alla vigilanza del cantiere. Per quanto tempo il Piemonte dovrà convivere con l’incertezza sulla percorribilità delle strade della Val di Susa? Chi avrà il coraggio di comunicare alla cittadinanza i costi sostenuti per i servizi di ordine pubblico in valle? Devono essere predisposti nuovi strumenti giuridici contro questa sorta di terrorismo moderno che sa di poter contare sull’ingiustificata impunibilità. Per quanto ci riguarda non cercheremo visibilità gratuita sui mezzi di comunicazione di massa e neanche ci costituiremo come parte civile nel processo in corso contro i No Tav, perché non si deve neanche poter lontanamente immaginare che Poliziotti sia una fazione che si contrappone alle idee di chi non vuole la costruzione di quell’opera: sosterremo invece i singoli colleghi che hanno subito danni da quei reati e si costituiranno parte civile, cosicché i risarcimenti li riceveranno loro e non noi.
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...o No TAV?
No Tav e globetrotter della protesta violenta Dal discorso del Questore Aldo Faraoni alla Festa della Polizia 2012 a Torino
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i sono registrati frequenti momenti di violenza estrema, molto lontani dalle modalità comportamentali di qualsivoglia movimento pacifico. In queste occasioni, soltanto l’impegno, la dedizione e la professionalità delle donne e degli uomini delle Forze dell’ordine hanno permesso di conseguire gli obiettivi prefissati, non senza significativi sacrifici sul piano dell’incolumità fisica di consistenti aliquote di personale. Si è dovuto, in alcuni casi, far ricorso a misurati interventi contenitivi e proattivi, che si pongono sempre molto complessi nelle dinamiche di ordine pubblico. La Digos ha esaltato, in questi contesti, la propria capacità di valutazione delle problematiche e le abilità investigative nell’individuazione dei responsabili di gravi atti di violenza su persone e cose. Il successivo vaglio dei fatti maturati in questi contesti, da parte dei competenti uffici dell’autorità giudiziaria, ha finora confermato la correttezza dell’operato investigativo, concentrato, è opportuno ribadirlo, solo ed esclusivamente sui comportamenti distorti sanzionati dalla legge e non sulle ideologie sostenute dai manifestanti. Nel rispetto delle competenze dei distinti apparati dello Stato si ritiene, pertanto, di aver dato forma e sostanza ad un ideale circuito virtuoso tra l’operatività di ordine pubblico che compete all’Autorità di pubblica sicurezza ed il rispetto delle regole. In una contingenza storico - sociale così delicata, che propone continue sfide all’apparato di sicurezza, si ritiene che gli uffici preposti saranno sempre più chiamati a definire concretamente la cornice in cui sono compatibili espressioni di dissenso, senza offendere altri prioritari principi e valori della nostra convivenza sociale. Questa attenta miscela di equilibri contribuirà altresì alla salvaguardia del diritto di manifestare per coloro i quali vogliono muoversi nel rispetto della dialettica democratica, che appunto può risultare offesa da quelle insidiose pulsioni antisistema che si annidano subdolamente nei più svariati contesti. Deve cioè, in buona sintesi, rimanere inequivocabile il limite invalicabile della legge e del rispetto delle regole oltre cui non è possibile spingersi. È questo, per i violenti, il momento del “redde rationem”, del rendere conto alla Giustizia, cui spetta la competenza in materia. Non si può invocare l’impunità senza minare il principio della certezza della pena. Aldo Faraoni, Questore di Torino
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Lavoratori e professionisti
ono uno dei tanti poliziotti del Reparto mobile, quei poliziotti che forse più di tutti gli altri sono obiettivo di critiche, destinatari di sospetto e diffidenza non solo da parte delle aree antagoniste che obiettivamente cercano lo scontro fisico con le Forze dell’ordine, ma anche da parte di quei cittadini che, per situazioni variamente legate a criticità di ordine economico, sociale, ambientale, portano nelle piazze la loro legittima protesta. I media ed il cinema tentano di appiccicarci addosso l’immagine di gladiatori o anche peggio, eppure io non conosco nessun mio collega di quel “genere” e non ne vedo intorno a me sui nostri mezzi mentre corriamo dove c’è bisogno, tentando di soffocare la paura e di
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dimenticare la stanchezza senza ascoltare pezzi rock, ma la radio di servizio per poter fare il nostro lavoro che consiste nel tutelare tutti: i cittadini che manifestano e quelli che devono poter vivere e lavorare senza essere danneggiati da disordini. La mia vita lavorativa è scandita da continue trasferte di cui vengo a sapere poche ore prima e che incidono pesantemente sulla vita privata e familiare, soprattutto quando parto per servizi particolari come quelli per la TAV in Val di Susa, dove, tra la fine di giugno ed il 3 luglio, i nostri feriti sono stati circa duecento, o quando vado dalla parte opposta del Paese, con trasferte di oltre millecinquecento chilometri, per raggiungere i centri per immigrati di Caltanissetta e Lampedusa. Il collega di Torino salvato il 14 novembre dal casco e ricoverato con un braccio rotto, ha dichiarato: “Come poliziotto non mi sveglio alla mattina con l’idea di andare a picchiare i ragazzi” ed il Questore ha aggiunto: “Quando certe situazioni non vengono risolte a
monte si trasformano sempre in problemi di ordine pubblico. Ci tocca sempre più sopperire a carenze e a vuoti che lasciano altri”. Eppure tanti di noi spesso condividono le ragioni delle proteste, ad esempio quelle del personale della scuola, che anche i nostri figli frequentano e quindi anch’essi vittime dei tagli, di conseguenza siamo vicini agli studenti che protestano. Ma non si può far finta di non sapere che vengono strumentalizzati e spinti a commettere reati da chi lancia il sasso e nasconde la mano. Cercano di farci vestire i panni del “sistema”, invece i primi ad essere vittime di quel “sistema” siamo proprio noi, con i nostri stipendi ogni giorno più scarsi per il tipo di vita che siamo costretti a fare, eppure tartassati come e più degli altri pubblici dipendenti, costretti a stare a lungo lontani da casa effettuando moltissimi straordinari e faticosi doppi turni, rischiando ogni giorno di essere colpiti da pietre, bulloni, biglie d’acciaio, bombe carta, mazze e spranghe. Oggi scelte di portata epocale su pro-
...non gladiatori ed esaltati
blemi economici e sociali vengono fatte da “tecnici” che rifuggono da un reale e leale confronto con i rappresentanti della società civile, Confederazioni sindacali in testa, con le quali invece le soluzioni avrebbero dovuto essere condivise, partendo dalla ricerca di un fattore imprescindibile: il consenso. Il Paese reale si sente ignorato e così, se da una parte lavoratori, piccoli imprenditori, disoccupati e studenti giustamente vogliono far sentire la loro voce, dall’altra i “soliti noti” sono abilissimi nel servirsi della loro legittima rabbia per incanalarla verso azioni violente: le Istituzioni dovrebbero saper ascoltare i primi ed isolare i secondi, additandoli, ma tutto
questo avrebbe un costo politico. Anche i poliziotti però sono lavoratori e la Uil Polizia, in particolare quella di Padova, presso il Reparto mobile, contrasta con forza la proliferazione di orari in deroga ed il ricorso troppo disinvolto all’anticipo dell’inizio dell’orario di servizio rispetto a quello di effettiva partenza del contingente per il ritiro dell’equipaggiamento necessario; lotta affinché le continue missioni fuori sede vengano effettuate avvicendando il personale su periodi più brevi e contrasta un certo militarismo, legato alla salvaguardia dell’aspetto esteriore, che appesantisce inutilmente la nostra vita, già di per sé tutt’altro che semplice. Lottiamo perché nei prossimi anni si
possa ridisegnare davvero ruolo e caratteristiche dei Reparti mobili, con un impiego in ambiti territoriali più ristretti che porti a penalizzare meno la qualità della nostra vita ed anche a non sperperare fiumi di denaro pubblico. Ma soprattutto noi lottiamo perché si pensi di più e realmente alla nostra incolumità, perché finisca la caccia alle streghe e chi ne ha la responsabilità crei le condizioni perché possiamo espletare il nostro servizio nelle condizioni psicofisiche giuste, che ci consentano di evitare errori, dandoci quindi organici sufficienti, protezioni adeguate e strumenti di lavoro idonei ad evitare il contatto fisico con i manifestanti.
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nche attraverso iniziative come questa, inizia quindi a prendere corpo la nuova strada che la Confederazione ha delineato nell’ultima Conferenza nazionale di Organizzazione e dei Servizi : il Sindacato a rete, che si concretizza “nella capacità di mettere insieme le intelligenze e le professionalità” presenti nei diversi settori della Uil e soprattutto nelle categorie - con le quali che lo storico patronato confederale, che proprio quest’anno compie sessant’anni, ha avviato e sta avviando importanti collaborazioni strutturali per creare un pool di eccellenze che possa lavorare su argomenti comuni con attività sinergiche di analisi ed elaborazione ed i cui i risultati verranno poi messi a disposizione di tutti. Tutto questo per evitare non solo sprechi di energie ma anche di denaro, un argomento che, in questo periodo di difficoltà e di crisi, vede tutti interessati: la stessa Ital si trova a dover far fronte ai tagli che il Governo ha proposto al fondo patronati ma - ha spiegato De Santis – contrariamente a quanto qualcuno potrebbe aver interesse a far credere, le risorse attribuite a questo fondo non sono costi o sprechi della politica “ma soldi di lavoratori e datori di lavoro utilizzati per erogare servizi ai cittadini”. Il dare servizi è indice di civiltà e bisogna pensare al Paese reale: l’Italia è uno dei paesi europei a più bassa alfabetizzazione informatica ma, ciò nonostante, grandi Istituti come l’Inps, per consentire a lavoratori e pensionati di consultare le loro banche dati al fine di adempiere ai propri obblighi di legge, si limitano ad inviare le chiavi d’accesso ai loro siti, senza pensare che la maggior parte di essi non ha un computer né tantomeno una connessione internet: come farebbero queste persone se non ci fosse il Patronato? È importante quindi che, in seno alla Uil, l’Ital e le categorie - che sono parte attiva nei servizi e non semplici fruitori – rivendichino il loro ruolo nella società e lavorino insieme in maniera sempre più stretta e proficua, dandosi stimoli reciproci, così come è avvenuto appunto per l’organizzazione di questo Seminario dove di un’idea venuta da una categoria hanno beneficiato anche molte altre. Al centro dell’analisi odierna lo schema di “Regolamento per l’armonizzazione dei requisiti minimi di accesso al sistema pensionistico del personale del comparto difesa-sicurezza e del comparto vigili del fuoco e soccorso pubblico, nonché di categorie di personale iscritto presso Inps, ex-Enpals ed ex-Inpdap, inviato dal Consiglio dei Ministri all’esame delle Commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato a norma dell’articolo 24, comma 18, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201: per il settore Politiche fiscali e previdenziali Uil
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Marco Abatecola ha spiegato, in manieracompleta ed articolata l’analisi effettuata dalla Confederazione, i contenuti del provvedimento ipotizzato e tutte le relative criticità, soffermandosi anche sulle possibili strade lungo le quali, in via di prima approssimazione, potrebbero essere ricercate soluzioni.
Bruno Di Cola, Segretario generale della Uilcom
Michele Zerillo, dell’area tecnica Ital Uil, ha poi illustrato le problematiche legate all’atteggiamento degli Enti previdenziali che, a fronte di quesiti di cittadini che si rivolgono al Patronato per avere assistenza, lo scavalcano inviando le risposte direttamente e solo ai cittadini medesimi. Eppure anche il Patronato è al servizio del cittadino ed il servizio che offre avvantaggia anche gli Istituti previdenziali, i quali sono dunque in difetto verso i cittadini per il non aver sviluppato a dovere i mezzi di comunicazione telematica con il Patronato medesimo, che produrrebbero appunto un miglioramento generale del servizio al cittadino. L’avvocato Antonio Fiamingo, consulente legale dell’ Ital, ha poi spiegato presupposti, finalità e modalità delle iniziative adottate, sia in sede amministrativa che giurisdizionale, non solo per ottenere il dietrofront governativo sulla trattenuta del 2,5% a carico del dipendente, giudicata incompatibile con il regime di trattamento di fine rapporto dalla Corte Costituzionale, ma anche per acquisire l’evidenza delle contribuzioni previdenziali che l’Amministrazione della difesa deve versare ai militari in servizio volontario e che al momento, dalla consultazione delle banche dati dell’Inps - gestione ex Inpdap, non risultano presenti. Benedetto Attili, Segretario generale Uilpa, intervenuto in rappresentanza dei lavoratori del Corpo di Polizia penitenziaria, del Corpo
Benedetto Attili, Segretario generale Uilpa
forestale dello Stato e del Soccorso pubblico, ha ricordato che è proprio dalla Uil e da alcune sue categorie che è partita la denuncia sull’illegittima trattenuta del 2,5% sul Tfr dei dipendenti pubblici, a cui poi si sono accodati gli altri Sindacati, in principio scettici se non proprio denigratori nei confronti di questa iniziativa. Nel merito dell’armonizzazione, premesso che tutti i lavoratori vanno rispettati tutti allo stesso modo, puntualizza che però non tutti sono uguali perché quelli al servizio del benessere della collettività, come appunto quelli del Comparto sicurezza e soccorso pubblico, sono sottoposti ad un maggiore logorio fisico e psicologico. Facendo un ragionamento politico, una riforma del sistema pensionistico non può dunque essere mirata solo a far cassa senza tener conto delle ripercussioni che essa avrà su determinate categorie, alle quali non può essere applicato l’assioma secondo il quale all’aumento speranza di vita corrisponde un aumento capacità lavorativa: come accennato il logorio è anche psicologico e non si può pensare che un vigile del fuoco, ad esempio, possa svolgere al top il suo lavoro avendo più sessant’anni. Per non parlare del mancato avvio della previdenza complementare per il Comparto, i cui addetti, se non ci sarà un serio intervento del Governo, rischiano di essere nel medio e lungo termine una nuova categoria di poveri, visto che notoriamente le pensioni calcolate col sistema contributivo equivarranno a circa il 50-60% dell’ultimo stipendio percepito: il Segretario Uilpa ha concluso pertanto chiedendo alla Confederazione tutto il supporto necessario per la soluzione di questo problema. Il Segretario generale della Uilcom Bruno Di Cola ha analizzato a fondo e descritto i problemi dei lavoratori dei giornali quotidiani – i poligrafici – e degli artisti, toccati anch’essi da questa armonizzazione, ma ha anche parlato di situazioni pregresse, non ancora risolte da questo governo tecnico, che poco si sta interessando del sociale, con grave danno per tutto il Paese e per alcune categorie di lavoratori in particolare. I lavoratori poligrafici costretti ad orari e turni massacranti, visto che i quotidiani escono 360 giorni l’anno - già negli anni ottanta al passaggio dal sistema tradizionale, il cosiddetto settore a piombo, all’elettronica hanno visto diminuire i loro addetti da 15.000 agli attuali 5.000, e con l’avvento del digitale si sono creati notevoli esuberi nel settore, per cui sono stati firmati degli accordi che portavano i lavoratori, con una norma definita di accompagno, tre anni prima fuori dall’azienda, collocati in una specie di mobilità per poi accedere alla pensione. Ma per effetto del decreto di armonizzazione da gennaio verranno aboliti questi tre anni per cui, se non verranno presi dei provvedimenti immediati, queste persone saranno dei disoccupati a tutti
gli effetti. Di Cola ha poi ampiamente illustrato la situazione previdenziale dei lavoratori dello spettacolo, che per le caratteristiche tipiche della loro attività, discontinua e ridotta nel tempo, non possono far valere che pochi contributi - a fronte dei 120 contributi giornalieri se ne registrano in media poco più di 70 anche se l’attività di un lavoratore di questo settore non si sviluppa solo nell’ambito della produzione di uno spettacolo, ma anche attraverso lo svolgimento attività di ricerca ed aggiornamento. Sono perciò notevoli le difficoltà di accesso ad un trattamento pensionistico adeguato se esso viene rapportato alla contribuzione, senza tener conto delle specificità, che caratterizzano anche questo settore, che richiedono invece mirate normative per attuare una reale perequazione. Michele Zerillo, area tecnica Ital Uil
In rappresentanza del Ministero del lavoro è intervenuto Edoardo Gambacciani, Direttore generale del settore previdenza, che si è soffermato sul fatto che sul provvedimento di armonizzazione c’è stata solo la deliberazione preliminare al Consiglio dei Ministri, sottolineando che il testo risultante è frutto di un confronto che, dopo il Ministero del lavoro e quello dell’economia, ha coinvolto tutte le singole Amministrazioni interessate, oltre che gli Enti previdenziali Inps, ex Inpdap ed ex Enpals. Tutte le problematiche emerse nel corso dei lavori odierni sono state dunque affrontate nel tentativo di raggiungere un equilibrio tra i principi dettati dalla delega, che imponeva un innalzamento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico, con le riconosciute specificità dei settori interessati ed in particolare del Comparto sicurezza, dove gli aspetti pensionistici si saldano in maniera pressoché inestricabile con quelli ordinamentali e con le problematiche legate anche agli organici. Né va sottaciuta la problematica del mancato avvio per
Edoardo Gambacciani, Direttore generale del settore previdenza
il Comparto della previdenza complementare la cui soluzione però, non essendo la tematica compresa nella delega conferita dal Parlamento, in sede di stesura dello schema di provvedimento di armonizzazione poteva solo essere auspicata. È anche per questi motivi ed in virtù del principio della delega che, dopo l’ipotesi iniziale, sono stati cancellati tutti gli interventi ipotizzati sugli specifici meccanismi di salvaguardia, come l’istituto dell’ausiliaria. Gambecciani ha ricordato come, dopo la riforma Dini del 1995 e la conseguente armonizzazione del 1997, il Comparto è stato escluso da tutti gli altri interventi successivi e solo nel 2010 ce n’è stato uno che non lo ha distinto dai lavoratori in genere, applicando anche qui il criterio differimento della decorrenza annuale, la cosiddetta finestra mobile e l’aggancio alla speranza di vita per tutti i requisiti. Tutto il mondo previdenziale dal primo gennaio 2013 vedrà progressivamente crescere i requisiti minimi di accesso al sistema pensionistico e, partendo dalla cornice normativa di diritto vigente cui applicare il criterio direttivo fissato dal legislatore, cioè l’introduzione di misure di armonizzazione dei requisiti di accesso tenendo conto delle obiettive peculiarità ed esigenze dei settori di attività nonché dei rispettivi ordinamenti, era evidente che era necessario salire con la gradualità necessaria a salvaguardare anche gli assetti organizzativi senza discostarsi eccessivamente dal principio stabilito dal decreto salva Italia e dal criterio di delega. In quest’ottica lo schema di provvedimento presentato rappresentava per il Ministero del lavoro un punto di equilibrio ragionevole tra queste diverse esigenze: tenuto conto dei limiti di età vigenti, più la finestra mobile, più l’incremento dell’aspettativa di vita, che comunque scatta dal primo gennaio 2013, la scalettatura ipotizzata nello schema di provvedimento è una progressione molto morbida e le reazioni lette
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sui giornali non sembrano tenere conto appunto della normativa vigente. Su istituti tipici come le maggiorazioni dei periodi di servizio e dei moltiplicatori per la Polizia e dell’ausiliaria per i militari, sui quali c’era stata inizialmente una divergenza di opinioni tra le Amministrazioni, grazie alla sintesi collegiale, non si è intervenuto. In altri termini l’armonizzazione si è limitata, in estrema sintesi, ad assorbire la finestra mobile nel requisito minimo, quindi sostanzialmente senza un incremento effettivo dell’età di pensionamento, cui si aggiunge l’aggancio alla speranza di vita, ed anche in questo caso non si fa altro che confermare una regola già esistente. Ora quindi il provvedimento, così come è stato licenziato dal CdM, è all’esame del Parlamento ed il Ministero del lavoro sarà attento a cogliere eventuali osservazioni tecniche che emergeranno nei pareri delle Commissioni competenti e quelle che potranno pervenire dal Consiglio di Stato per poi arrivare al testo definitivo che sarà quello che verrà sottoposto all’esame sempre del CdM ma stavolta in via definitiva. L’auspicio è che tutto questo iter possa concludersi ragionevolmente entro la fine dell’anno proprio per consentire, correttamente anche dal punto di vista della decorrenza temporale, l’entrata in vigore anche dei nuovi requisiti a decorrere dal primo gennaio del 2013. Il Segretario generale Uil Polizia Oronzo Cosi ha raccontato l’esperienza da lui personalmente vissuta nel 1997, allorquando si trattò di studiare, concertare e quindi redigere il testo dell’armonizzazione della previdenza del Comparto sicurezza e difesa alla riforma pensionistica Dini che due anni prima, casualmente proprio nelle stesse settimane in cui veniva istituito quel Comparto, aveva introdotto per tutti gli altri lavoratori d’Italia il sistema di calcolo contributivo, affiancato da quello misto e, per il personale più anziano, dal vecchio retributivo che è sopravvissuto fino alla sua definitiva abrogazione, per tutti, a partire dal 1° gennaio scorso. Due sono le differenze che caratterizzano quel provvedimento di armonizzazione rispetto a quello di cui si parla oggi: la prima è che a quel provvedimento diedero il proprio contributo i Sindacati della Polizia di Stato e le Confederazioni, cui fu consentito non solo di seguirne lo studio e la stesura, ma di parteciparvi attivamente conferendo al testo una condivisione che lo rese immediatamente idoneo alle esigenze per rispondere alle quali era stato concepito e che non incontrò le odierne resistenze nonostante gli interventi fossero, necessariamente, molto più incisivi di quelli attualmente ipotizzati. La seconda, forse non meno importante della prima e certamente ad essa intrinsecamente legata, è che tutti i lavori si svolsero presso il
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denza alla medesime condizioni, non bisogna pensare all’armonizzazione come se si trattasse di un’unificazione, perché non si può trattare tutti alla stessa maniera quando sono presenti situazioni oggettivamente diverse, altrimenti si rischia di creare dei disallineamenti che non sono coerenti.
Mauro Nori, Direttore generale dell’Inps
Palazzo Viminale, all’interno del quale sedeva l’allora Ministro dell’interno Giorgio Napolitano, con l’intervento “in trasferta” da via Flavia dell’allora Ministro del lavoro Tiziano Treu; oggi i lavori si sono svolti altrove, come dimostrano le intestazioni dei documenti ufficiali che fanno riferimento ad un inesistente Comparto difesa-sicurezza e a “truppa, sergenti e marescialli” anziché ad agenti, sovrintendenti ed ispettori. È proprio questa diametralmente opposta impostazione che è alla base delle storture da cui è affetto un intervento che lascia inalterata l’inadempienza di questo Governo, rispetto a quella di tutti quelli che lo hanno da allora preceduto, nella mancata attuazione della previdenza complementare solo ed esclusivamente per questo Comparto, a differenza di ormai tutti gli altri, cui si aggiunge un intervento che, proprio a causa delle modalità adottate nella sua elaborazione e quindi della prevalenza delle spinte recepite rispetto alle istanze ignorate, aggrava ulteriormente lo squilibrio generazionale, salvaguardando solo ed in parte il “quando” si andrà in pensione, ma senza dare alcuna risposta positiva rispetto al “quanto” si percepirà di pensione. Mauro Nori, Direttore generale dell’Inps, ha dal canto suo richiamato l’attenzione sul fatto che, quando si parla di regolamenti di armonizzazione e si comincia a trattare una materia previdenziale che presenta, per delle tipologie di lavoro, delle specificità, queste vadano salvaguardate: tutti devono accedere alla previ-
Il dirigente generale Inps - gestione ex Inpdap Giorgio Fiorino ha ribadito che un intervento sui requisiti di accesso alla previdenza del Comparto sicurezza e difesa, fermi alla normativa del 1997, andava fatto visto che si era intervenuti su tutti i settori. In questo settore si partiva da una situazione di età al pensionamento media di 54 anni con circa 33 anni di contribuzione e questo perché, fino al 31 dicembre 2011, era possibile uscire dal mondo del lavoro con la pensione anticipata con un canale specifico delle Forze di polizia e per il
personale della difesa, che era quello dei 53 anni con l’ottanta per cento della base pensionabile, che una particolare applicazione delle aliquote portava ad essere raggiunta con circa 38 anni di servizio. In un momento in cui si è fatta una riforma della previdenza che riguarda tutti i settori che eleva l’età per l’accesso al pensionamento a 66 anni e 3 mesi più l’incrementato della speranza di vita, non ritiene corretto definire il provvedimento in argomento una omogeneizzazione, considerandolo invece la corretta armonizzazione da cui non ci si poteva più esimere, proprio perché era dal 1997 che i requisiti delle categorie interessate erano rimasti fermi. Riguardo alla trattenuta del 2,50% ha spiegato che il legislatore non ha mai inteso far passare realmente al Tfr i lavoratori pubblici che erano in Tfs, ma voleva solo dare una prestazione più bassa. Ha concluso soffermandosi sul fatto che l’Inpdap, pur
essendo nato nel 1994, ha assunto le competenze pensionistiche per il Comparto sicurezza nel 2005 e per quello difesa nel 2010: fino a quegli anni le informazioni sul conto assicurativo le tenevano il Ministero dell’interno ed il Ministero della difesa, tutti i provvedimenti di riscatti e di ricongiunzioni per tutte le domande presentate fino al 2005 dai lavoratori della sicurezza e fino al 2010 da quelli della difesa erano e sono rimaste di competenza di quei Ministeri: ciò che non si trova nella posizione assicurativa sono il riconoscimento del servizio militare ed il riscatto di alcuni servizi e ciò è dovuto al fatto che l’Amministrazione, che fino al giorno prima ha svolto attività di ente previdenziale, non ha ancora trasmesso telematicamente le informazioni necessarie all’inserimento nella banca dati degli statali, che oggi è un orologio svizzero. È impensabile che l’Inps possa accettare la trasmissione dei dati su supporto cartaceo: vanno concordate con l’Istituto le modalità di trasmissione telematica dei dati da parte delle Amministrazioni del Comparto difesa e sicurezza: non si vuole accusare nessuno. Ma solo negli ultimissimi tempi queste Amministrazioni si sono adeguate all’invio telematico della denuncia mensile analitica e sulla tempestività dell’aggiornamento mensile che per legge va fatto dal 2005. Ha concluso il seminario Domenico Proietti, Segretario confederale con delega a fisco e previdenza, che innanzitutto si è detto molto soddisfatto per la realizzazione di questo lavoro di approfondimento di merito, per cui la Uil insieme alla Ital sono riuscite a riunire ad uno stesso tavolo dei responsabili politico-sindacali Domenico Proietti, Segretario confederale
dell’Organizzazione, tecnici interni ed autorevoli esperti esterni, che si sono confrontati ed hanno messo a disposizione di tutti le loro conoscenze ed esperienze. Tutto questo è stato possibile proprio perché la Uil ha sempre fatto del suo impegno di elaborazione e di proposta sul tema della Previdenza, nel suo significato complessivo, uno dei connotati fondamentali del suo essere un Sindacato riformatore e riformista. Solo la Uil, a dicembre dello scorso anno, aveva intravisto nella riforma pensionistica - che a parere di Proietti e della Uil tutta, doveva essere un qualcosa che doveva migliorare e non peggiorare la vita delle persone - quella gigantesca operazione di cassa del sistema previdenziale italiano che poi si è rivelata a tutti, ed i primi a farne le spese sono stati gli esodati, di cui il Ministro del lavoro all’inizio negava addirittura l’esistenza. Il Governo ha commesso un grave errore culturale rifiutandosi di interloquire con le Parti sociali, nonostante queste abbiano una notevole esperienza e tutte le carte in regola sul tema previdenza. Infatti la Uil si è posta da tempo il problema della sostenibilità del sistema previdenziale e ben sapeva che era in equilibrio dal punto di vista economico, grazie anche alle riforme degli ultimi due anni: lo dicevano la Commissione Europea ed il Fondo Monetario Internazionale e lo confermano oggi i dati dell’Inps che dimostrano che, al netto dei provvedimenti della riforma Fornero, i cui effetti si vedranno solo l’anno prossimo, l’accesso alle pensioni è diminuito del quaranta per cento. Perciò la previdenza non era un problema impellente da risolvere e le risorse per far fronte alla crisi potevano essere attinte da altre poste di bilancio, primi fra tutti i costi improduttivi della politica, come infatti era stato proposto dalla Confederazione. Costatata questa “sordità” da parte del Governo, Proietti ha dichiarato che l’unica strada che la Uil può percorrere, per provare ad incidere, è quella di provare ad avere un’interlocuzione con il Parlamento, così come è stato fatto per risolvere il problema degli esodati. È evidente, afferma il Segretario confederale, che se il Governo non si fosse chiuso in una torre d’avorio, come nella migliore tradizione di una vecchia ed obsoleta cultura accademica, ed avesse accettato una sano confronto con le Parti sociali, prima di emanare dei provvedimenti, tanti errori si sarebbero evitati: il Paese ha bisogno di stabilità delle norme e di certezza del diritto mentre il Governo attua una sorta di balletto ogni qualvolta c’è da emanare un provvedimento, come avvenuto anche per la “Legge di stabilità”, per la quale si è detto tutto ed il contrario di tutto. In questo modo si crea un clima di incertezza, soprattutto per quel che riguarda il sistema previdenziale, che crea nelle persone una continua destabilizzazione nella percezione del proprio futuro, come avviene anche
nel caso della mancanza della previdenza complementare per il Comparto sicurezza e soccorso pubblico. Un settore, quello della previdenza complementare italiana, nel cui sviluppo - come ricorda Domenico Proietti c’è stato un notevole impegno da parte del Sindacato, eppure la maggior parte del Paese ignora che la nostra previdenza complementare è presa a modello in tutta Europa, avendo dimostrato di aver salvaguardato i risparmi dei lavoratori che hanno aderito al Fondo, anche in questo periodo di crisi mondiale dei mercati finanziari: è un sistema che funziona perché è frutto della concertazione tra Parti sociali e datoriali, il che dimostra che è con il dialogo ed il confronto che si ottengono i migliori risultati. La Uil si farà pertanto promotrice di una proposta che possa colmare il gap che penalizza i lavoratori del Comparto sicurezza e soccorso pubblico per ciò che riguarda la previdenza complementare, ma è importante anche che cessi la campagna di disinformazione e depistaggio che ha creato un clima di scetticismo nei lavoratori ed uno stallo delle adesioni, ma venga invece lanciata una nuova ed efficace promozione della previdenza complementare. Per far ciò la Confederazione ha intrapreso una collaborazione con alcune delle categorie che hanno già attivato i Fondi, e ritiene che si possa coinvolgere anche la Ital per ciò che concerne la formazione di coloro che andranno a fare promozione presso i lavoratori e le lavoratrici. Il Governo ha messo una gigantesca mano al Settore previdenza dicendo “lo facciamo per riequilibrare gli squilibri intergenerazionali”, ma non è stato così perché non è stato destinato un solo euro alla sviluppo della previdenza complementare, né sono state seguite la logica e la razionalità nell’accorpamento degli Enti previdenziali, che la Uil proponeva già dal 2007. Al Sindacato non interessa difendere uno spazio per occupare qualche casella, interessa invece difendere l’operatività dei Fondi e lo spazio di democrazia sociale e contare all’interno degli Enti, perché questi gestiscono le risorse di lavoratori ed imprese: le Parti sociali devono svolgere un ruolo di garanzia in un vero spazio di governace condivisa e collettiva, per evitare di continuare a fare gli errori che si continuano a fare. La Uil ha quindi le carte in regola, come il seminario contribuisce a dimostrare: bisogna sviluppare questa iniziativa a cominciare dal documento che raccoglie le proposte emerse da questo incontro, utile a ricercare un’interlocuzione in Parlamento, per continuare in tutte le sedi, soprattutto nel contatto con gli iscritti e con i lavoratori e le lavoratrici nella diffusione di questa posizione di grande responsabilità, ma anche di grande chiarezza e trasparenza, intorno alla quale è possibile continuare ad aggregare il consenso ed a far crescere la nostra Organizzazione.
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Come si sente un poliziotto quando comincia ad occuparsi di assistenza all’altro personale, qual è l’impatto? Direi che l’impatto è sicuramente forte, comunque significativo. La nostra formazione non è vicina a questo tipo di lavoro, dove ci si confronta con molte problematiche di carattere prettamente tecnico. Lavorandoci, però, e lasciandosi coinvolgere, in breve ci si trova fortemente motivati perché si può toccare con mano quello che si riesce a fare per i colleghi e le loro famiglie; l’aiuto che si può dare a persone che si trovano in difficoltà, o a persone che semplicemente possono ricevere un’agevolazione nell’affrontare le spese quotidiane: penso ad esempio alle convenzioni, specialmente quelle con le assicurazioni. Quindi il fatto di poter essere sempre utili al prossimo, in questo caso ai colleghi, ci riporta poi allo spirito di lavoro che anima ogni poliziotto, ritrovandoci coinvolti in quello che fa il collega sul territorio, occupandoci di lui come persona. Questo è l’aspetto che più contribuisce a dare un’anima a questo Servizio.
È ancora attuale quindi mantenere un modello di assistenza basato su risorse interne alla Polizia anziché rivolgersi all’esterno? Certo, c’è una motivazione in più che credo sia insostituibile. In realtà questo Servizio è composto da entrambe le componenti che collaborano al funzionamento degli uffici dipartimentali: persone dell’Amministrazione civile e persone appartenenti alla Polizia di Stato che sono animate dalla stessa passione per questo lavoro, che svolgono con la stessa attenzione ed intensità. Alla base di tutto c’è dunque la forte sinergia data dalla motivazione e dalle specifiche e spiccate professionalità che operano all’interno dei vari settori di cui è composto il Servizio. Com’è cambiata nel tempo questa attività? Il Fondo di oggi è uguale a quello di dieci anni fa? In questo ufficio si incontrano le due anime di questa attività: quella che riguarda la gestione dei capitoli di bilancio dello Stato
e quella che riguarda l’attività del Fondo di Assistenza per il personale della Polizia di Stato. Sicuramente, rispetto al passato, ci siamo dovuti adeguare ad una normativa molto più rigorosa, basti pensare ad esempio al codice dei contratti: tutta l’attività relativa alla cosiddetta assistenza collettiva è regolata da meccanismi che il legislatore innova continuamente. Il Fondo stesso è stato recentemente riorganizzato e, in base al nuovo regolamento, sono state aggiornate alcune competenze. Perciò oggi c’è bisogno di maggiori conoscenze e specializzazioni ed una particolare attenzione a queste norme con cui in passato non ci si confrontava in maniera così stringente ma che, attualmente, garantiscono quella trasparenza che credo sia un dato assolutamente positivo, così come lo è la condivisione di alcune scelte. Penso ad organismi come le Commissioni paritetiche o la Commissione consultiva del Fondo di Assistenza, in cui c’è anche la possibilità di condividere apertamente ed in maniera trasparente le iniziative con le Organizzazioni sindacali e quel-
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le che il Servizio o il Fondo portano avanti per i colleghi. Ed a suo parere quali, tra le iniziative e le attività svolte dal Fondo o dal Servizio, sono maggiormente rilevanti nell’assistenza al poliziotto? Storicamente questo servizio è organizzato su una parte che fa assistenza collettiva ed una parte che fa assistenza individuale. Per quanto riguarda l’assistenza collettiva l’impegno è quello di offrire dei servizi in strutture attentamente curate, date in gestione a professionisti del settore, nel rispetto dell’evidenza pubblica, che possano essere proposti a costi sempre favorevoli per l’operatore di Polizia che riesce a fruirne. Penso ad esempio ai numerosi centri balneari che abbiamo su tutto il territorio del nostro Paese, per cui il nostro sforzo è quello di riuscire a mantenere la competitività. C’è poi il Castello Stifterhof a Merano: una struttura bellissima, ma con dei costi di gestione importanti, che vorremmo provare a rendere fruibile a tutti utilizzando, ad esempio, il sistema dei last minute, che è senz’altro tra modi di fare viaggi e vacanze più utilizzati ai nostri giorni. Risparmiare sui costi di gestione ci consente di investire maggiori risorse nelle infrastrutture e nell’ammodernamento di queste. E per l’assistenza individuale? Come Servizio l’aspetto più rilevante è dato dalle procedure connesse al riconoscimento dello status di vittima del dovere e dalla
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gestione dei relativi capitoli di bilancio. Come Fondo, su questo fronte la nostra attenzione principale è per le categorie meno fortunate, come ad esempio colleghi che hanno figli disabili o con malattie ad andamento cronico: il nostro impegno è quello di tradurre questa attenzione in manovre di bilancio che possano andare ad aumentare quei capitoli di spesa a loro dedicati. A tale scopo esiste una Commissione specifica che si riunisce per esaminare le varie situazioni e patologie per poi attribuire dei contributi. Inoltre abbiamo sottoposto all’esame dello scorso Consiglio di amministrazione del Fondo la proposta di ripristinare l’abitudine di offrire il soggiorno gratuito ai bambini del cosiddetto Piano cronici a Badia Prataglia, nelle foreste Casentinesi in provincia di Arezzo: una gradevole struttura. Avevamo avuto dei problemi con la ditta che aveva preso in appalto la gestione, ma già dall’estate scorsa la struttura ha ripreso a funzionare ottimamente e per la prossima stagione vorremmo aprirla proprio alle famiglie dei colleghi con i loro bellissimi bambini inseriti nel Piano. Così facendo cerchiamo di far dialogare le due anime del Fondo, in modo da indirizzarle verso un unico obiettivo, perché l’assistenza non può essere fatta tenendo i due aspetti separati ed è proprio in questa iniziativa che riusciamo ad essere utili sul fronte dell’assistenza individuale, facendo lavorare meglio una struttura che normalmente si colloca, come gestione, nel cosiddetto percorso dell’assistenza collettiva.
Qual è stato il risultato che, nella sua attività alla direzione del Fondo, le ha dato maggiori soddisfazioni? La mia più grande soddisfazione? Non ce n’è una in particolare. Io devo trovare motivazioni nelle cose che faccio nel quotidiano: anche riuscire a fare una sistemazione dei conti o il recupero di somme che dovevano rientrare, per poi poter dedicare queste risorse agli obiettivi istituzionali del Fondo rientrano tra i risultati che possiamo raggiungere nel breve-medio periodo. Poi ci sono quelle per le quali invece c’è bisogno di più tempo, e spero proprio che nelle prossime settimane alcune importanti procedure di gara si concludano positivamente … Allora le cambio la domanda di prima e Le chiedo: qual è l’obiettivo del Fondo che Le darebbe maggior soddisfazione veder realizzato sotto la Sua direzione? Senza dubbio la copertura assicurativa… quello sarebbe veramente un bel risultato! Abbiamo un obiettivo comune, allora! Certamente! Se riuscissimo a realizzare l’obiettivo della copertura assicurativa sarebbe un grande risultato. Ci abbiamo provato negli ultimi due anni con diverse procedure ed è un meccanismo sul quale ci siamo confrontati con le Organizzazioni sindacali, per cui sono stati evidenziati degli aspetti critici che fortunatamente sono in fase di risoluzione. Ora c’è la procedura in atto, quindi speriamo che questa si concluda al più presto in modo positivo.
Storia ed organizzazione del Fondo Come vede il ruolo del Sindacato rispetto alla sua attuale attività? Il Sindacato è un interlocutore assolutamente necessario, perché occuparsi di un tema come l’assistenza al personale non può che farsi in maniera condivisa. Poi, ricollegandoci a quel discorso di trasparenza e di condivisione, il primo interlocutore è senza dubbio l’Organizzazione sindacale, poiché penso che sia naturale confrontarsi su certe tematiche mentre è assolutamente doveroso farlo su altre.
L’Amministrazione dell’Interno assiste i suoi poliziotti dal 10 luglio 1952 quando viene istituito l’ente morale “Fondo assistenza previdenza e premi per il personale della pubblica sicurezza”. A metà degli anni ’60 viene trasformato in “Fondo di assistenza per il personale della pubblica sicurezza”, ente di diritto pubblico per il perseguimento dell’assistenza sociale diretta ed indiretta a favore del personale della pubblica sicurezza, mentre la stesura del primo Statuto risale al maggio 1968. L’ultimo aggiornamento normativo è invece del 2010: con l’emanazione del Regolamento di riordino, il Fondo ha assunto la denominazione di Fondo di Assistenza per il Personale della Polizia di Stato. Questo è presieduto dal Capo della Polizia che è anche presidente del Consiglio di amministrazione, nonché rappresentante legale. Si avvale del personale del Servizio Assistenza e Attività Sociali il cui Direttore è delegato dal Capo della Polizia alla gestione ordinaria delle attività del Fondo.
Pensa che il suo essere donna l’agevoli nell’espletamento di questa attività o crede invece che sia indifferente? Credo sia indifferente! In tutte le diverse attività belle ed entusiasmanti che ho svolto in questi anni di servizio ho sempre cercato di avere un approccio mio personale. Rispetto a certe tematiche si dice che la sensibilità femminile abbia una marcia in più, ma nella mia vita, professionale e non, ho conosciuto donne poco sensibili ed, al contrario, uomini molto sensibili. Quindi, a mio parere, la sensibilità è una qualità che riguarda la persona.
Attività
Un’ ultima domanda prima di congedarci: Le manca la Polizia? Ho avuto la fortuna di fare cose diverse nell’ambito di questa Amministrazione, perciò non mi manca perché ne faccio parte integrante anche facendo quello che faccio oggi! Bella risposta, grazie! Prego, bella domanda!
Svolge interventi mirati e specifici che vanno ad aggiungersi e a completare quelli invece più generici, solitamente forniti dall’Amministrazione della pubblica sicurezza. Le attività si svolgono su due sfere ben distinte: Assistenza individuale (che fa capo alla I Divisione del Servizio Assistenza). Per fornire dei dati: nel 2011 sono state esaminate 601 istanze per concedere sovvenzioni in denaro per i dipendenti ai cui figli sono state riscontrate gravi malattie croniche (Piano “Marco Valerio”). Quanto all’assistenza per gli Orfani, sono state erogate sovvenzione a 55 nuclei familiari. Nel 2012, 50 ragazzi hanno partecipato al soggiorno organizzato in Inghilterra, a Canterbury, e 38 a quello negli USA, a Princeton. Presso il Centro Sportivo di Tor di Quinto, la scorsa estate è stato realizzato un Campo estivo per i figli dei dipendenti; sono stati ospitati 471 ragazzi, dall’11 giugno all’1 settembre 2012. Assistenza collettiva (che fa capo alla II Divisione), che si occupa della gestione dei sono 21 centri balneari in funzione sul territorio nazionale, di cui alcuni recentemente sottoposti ad importanti restyling. A questi vanno aggiunti i Centri Montani di Merano (Castello Stifterhof), Badia Prataglia e il residence di Bardonecchia. Molto forte è anche l’impegno sul fronte delle Convenzioni, che vanno dal settore assicurativo, a quello sanitario, non trascurando il campo della formazione e delle attività di svago.
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Fattore umano
È ancora importante il “fattore umano” nella gestione delle risorse umane o l’evoluzione delle tecnologie informatiche ne ha ridotto l’importanza anche in questo settore di attività? È indubbio che il processo di modernizzazione - in atto in tutti i settori della Pubblica Amministrazione - si concretizzi, anche nella Polizia di Stato, in un crescente utilizzo di strumenti tecnologici, soprattutto informatici, sempre più moderni e all’avanguardia; questi strumenti rappresentano preziose opportunità ed è ovvio che vengano utilizzati anche nel settore della gestione delle risorse umane e quindi anche da parte dell’Ufficio che dirigo. Al riguardo, è necessaria una fondamentale premessa: laddove l’azione dell’Amministrazione è rivolta alla realizzazione di un fine istituzionale o all’offerta di un servizio nei confronti dell’“utenza” per così dire a “proiezione esterna”, può risultare più evidente l’impatto dell’innovazione tecnologica od informatica sulle attività lavorative. Penso infatti – ma giusto per citare alcuni esempi che più immediatamente mi vengono alla mente e senza fraintendimenti circa l’indispensabile “momento umano” che sta comunque dietro ogni attività – ai nuovi strumenti o alle nuove dotazioni che sono state messe a disposizione dei servizi di controllo del territorio, come dei servizi di polizia stradale ovvero delle indagini di polizia scientifica, come delle investigazioni di polizia giudiziaria, ovvero ancora delle procedure amministrative inerenti al rilascio dei titoli di polizia. In un campo, invece, come quello della gestione delle risorse umane, credo di poter dire, senza tema di smentita, che il pur prezioso ausilio dei mezzi e dei sistemi informatici è molto più indiretto, molto più mediato, nel senso che rappresenta si un valido supporto nella fase della preventiva organizzazione dei processi lavorativi, ma non certo nel cosiddetto core business della nostra attività, che si sostanzia in un delicato momento di valutazione dei diversi fattori in gioco, non suscettibili di un “calcolo ragionieristico”. Può farci alcuni esempi? Certamente: è chiaro che un sistema di archiviazione informatizzato della documentazione oppure un impianto informatico di raccolta e di elaborazione di dati o, ancora, l’automazione dei diversi e complessi procedimenti amministrativi di competenza dell’Ufficio sono un prezioso e valido aiuto. Alla fine, tuttavia, nella concreta gestione delle risorse umane, sotto qualsiasi aspetto la si voglia considerare, risulta imprescindibile “l’intervento umano”. Cioè un’analisi attenta e scrupolosa che, apprezzando le innumerevoli sfaccettature, deve consentire di coniugare le situazioni personali e le inclinazioni professionali con le esigenze di servizio. È con questo approccio,
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con una sensibilità che non potrà mai avere una macchina, che io ed i miei collaboratori ci sforziamo di trovare le migliori soluzioni possibili ai diversi casi che quotidianamente ci vengono sottoposti. Lei ha maturato una notevole esperienza in diversi contesti dell’Amministrazione di pubblica sicurezza: come si è trovato a gestire un settore così specifico, oltre che delicato ed importante? Questa particolare esperienza professionale mi ha fatto comprendere come la gestione delle risorse umane sia senza dubbio uno dei compiti più difficili per un’Amministrazione, come la nostra, complessa e pluriarticolata. Qui non si tratta di realizzare direttamente operazioni o servizi di polizia, né di impiegare risorse strumentali, tecniche o logistiche, ma di valorizzare il nostro “capitale umano”, fatto di persone, di colleghi. La continua ricerca della migliore soluzione possibile – con tutti i limiti, anche umani, che io per primo riconosco – è l’unica molla che spinge il nostro quotidiano agire, anche quando questa soluzione riesca poi a soddisfare solo in parte o per nulla il nostro interlocutore. Di questo, quando accade, siamo noi i primi a dolercene. È importante, in quest’ottica, che gli amministrati partecipino a questa ricerca delle “migliori soluzioni”? Più che importante, direi addirittura fondamentale. La logica della condivisione con i colleghi della ricerca della soluzione migliore è un aspetto cardine nella moderna visione della gestione delle risorse umane. Solo collaborando riusciamo a fare in modo che le molteplici e diverse situazioni personali, familiari e di servizio riescano meglio a sintetizzarsi nella decisione finale, tenendo conto delle esigenze di tutti. Ed è proprio per questo motivo che, come dicevamo all’inizio, il nostro è un lavoro che non può essere delegato a macchine o ad altri strumenti tecnici, ma rappresenta un onere ed una responsabilità che vanno necessariamente assunti da persone, con tutti i limiti che ciò può comportare, e che solo altre persone - e mi riferisco ai colleghi cui la nostra azione è rivolta - possono arricchire di utili contributi. In quest’ottica, noi cerchiamo di renderci sempre disponibili, al massimo delle nostre possibilità e del campo di azione in cui ci è dato di muoverci, a far comprendere le ragioni e le esigenze su cui si fondano determinate scelte dell’Amministrazione, sperando, a nostra volta, in un’onesta comprensione da parte dei colleghi dei nostri sforzi e, soprattutto, dei non celati limiti che le attuali e ben note criticità strutturali, organiche e finanziarie impongono. Per noi la logica della partecipazione e della condivisione informativa – prima ancora che obbligo giuridico - è un dato culturale acquisi-
to ormai da tempo, proprio perché prima e maggiormente rispetto ad altri settori ci siamo dovuti più direttamente confrontare con questa nuova mentalità dell’agire amministrativo. La comunicazione rappresenta allora un “valore aggiunto” nella vostra attività lavorativa? È evidente, da quanto detto sinora, che lo strumento della comunicazione rappresenta non solo un “valore aggiunto”, ma proprio un fondamentale “valore strategico” nell’ottica di un’attenta politica di gestione delle risorse umane. E sotto questo aspetto – mi sia consentito affermarlo – ogni sforzo è stato fatto e si sta facendo per creare una continua comunicazione ed una costante interazione tra il nostro Ufficio ed i colleghi amministrati, specie con quelli impegnati nelle difficili realtà territoriali. Tutto questo come si traduce concretamente nel vostro agire quotidiano? La maggior parte della giornata lavorativa mia e dei miei collaboratori è proprio dedicata al contatto diretto con i colleghi, all’ascolto delle loro esigenze ed aspettative personali e professionali, all’esame congiunto delle possibili soluzioni dei loro problemi o delle loro aspirazioni di servizio, al recepimento di ogni spunto e di ogni feedback da cui poter trarre utili indicazioni. Ogni giorno diamo attenzione a tutti i colleghi che si presentano nei nostri uffici a seguito di convocazioni programmate od anche per loro autonoma iniziativa: cerchiamo di assicurare sempre ad ognuno di loro un adeguato momento di costruttivo confronto, quand’anche le nostre risposte – per quei limiti oggettivi a cui sopra ho fatto cenno, connessi all’organico o ai vincoli finanziari – possano non corrispondere alle specifiche aspirazioni. Queste operazioni di attenta e laboriosa analisi, che ponderano i bisogni dei singoli e le necessità dell’Istituzione, sono propedeutiche alla cosiddetta “gestione attiva”, cioè la tutela in via concreta ed immediata dell’ordine e della sicurezza pubblica, rimessa alla competenza operativa delle articolazioni centrali e territoriali. C’è da considerare che se qualcuno dei miei collaboratori non è visibilmente impegnato a risolvere problemi, confrontandosi personalmente con gli interessati, sta comunque utilizzando tutta la propria competenza e professionalità per risolverli nel silenzio tipico del nostro quotidiano agire. Quali sono, infine, le nuove sfide che una moderna gestione delle risorse umane, in particolare nei ruoli medio-alti della Polizia di Stato, deve prepararsi ad affrontare? Non v’è dubbio che questa domanda evoca un momento di riflessione di grande responsabili-
Le nuove strategie gestionali delle risorse umane
risorsa strategica
tà, ma, al contempo, fortemente affascinante e suggestivo, come sempre accade quando, siano esse aspettative personali o professionali, spingiamo il nostro sguardo oltre il limite dell’ “orizzonte visivo”. Con riferimento, quindi, alle “nuove sfide” che attendono questo complesso e delicato settore, occorre premettere che bisogna proiettarsi verso una sempre più moderna visione della gestione delle risorse umane, traendo dagli spesso (e talora anche troppo) richiamati modelli esperienziali del settore privatistico ciò che risulta effettivamente esportabile nella Polizia di Stato (e forse, più in generale, nelle pubbliche amministrazioni), ma senza snaturare le tipiche modalità di esercizio delle funzioni statali. Detto ciò, ritengo che per arrivare preparati ad affrontare le nuove sfide del nostro settore ci si debba muovere su due direttrici: l’una giuridico-amministrativa, in funzione di una sempre maggiore semplificazione delle procedure, l’altra strategico-gestionale, indirizzata verso una effettiva modernizzazione nell’utilizzo dello strumento stesso della gestione delle risorse umane. Sotto il primo profilo, negli ultimi anni e nei limiti consentiti dalla normativa vigente, sono stati fatti significativi passi avanti, almeno per ciò che riguarda l’Ufficio che dirigo. Mi riferisco alle implementazioni di strumenti e procedure informatiche di lavoro, alcune già realizzate ed altre in fase avanzata di realizzazione, come ad esempio l’automazione dell’archivio, l’informatizzazione dei procedimenti relativi alle valutazioni, alle trascrizioni matricolari, alla progressione in carriera ed alla mobilità, nonché al progetto di completa automazione del foglio matricolare. Inoltre, grazie alla standardizzazione di complesse procedure giuridico-amministrative, abbiamo realizzato un’importante semplificazione degli adempimenti ad esse connessi anche a beneficio di altri Uffici centrali e di quelli territoriali. Ma la sfida decisiva per il settore delle risorse umane è piuttosto la piena acquisizione della dimensione strategico-gestionale, in modo che l’assetto dell’organizzazione possa sempre assicurare il migliore svolgimento della missione istituzionale. In sostanza, ritengo che, alla luce di un deciso cambiamento di mentalità, si possa realizzare una moderna gestione delle risorse umane, sforzandoci di coniugare il ruolo tipicamente amministrativo con uno più marcatamente strategico, in linea con quei modelli manageriali del settore privato, che attribuiscono alle politiche gestionali del personale ed al loro sviluppo un ruolo di primaria importanza per il conseguimento degli obiettivi prefissati, passando sempre ed ovviamente attraverso un sempre più pieno, trasparente e consapevole coinvolgimento degli interessati.
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A
ltra dichiarazione, secondo la quale la presenza italiana rappresenta il prodotto della prassi affaristica illecita ed il tentativo di tenere lontano il made in Italy dall’India per favorire i gruppi politici locali1. Controversia tra Italia e India sull’affare Enrica Lexie Ci sono anche questioni attinenti l’esatta locazione dove è avvenuto l’incidente, se si è consumato nella acque internazionali oppure nelle acque interne dell’India. Dopo l’incidente, le autorità indiane non hanno esitato a fermare la petroliera Enrica Lexie, battente bandiera italiana, convincendola ad entrare nel porto di Kochi 2, dove hanno proceduto al fermo dei due marò per interrogarli e, dopo aver valutato le responsabilità su chi ha sparato, accusarli del reato di omicidio.
Le autorità italiane, a loro volta, hanno posto in risalto il fatto che l’India non aveva alcuna giurisdizione in merito all’accaduto e, quindi, che solo l’Italia aveva la esclusiva giurisdizione sui propri organi ufficiali che operavano per la sicurezza dell’Enrica Lexie e questo in base ad un principio generale storicamente e comunemente riconosciuto dall’ordinamento internazionale – e, da ultimo, sancito nell’articolo 87 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 – secondo cui nelle acque internazionali lo Stato della bandiera è il solo soggetto normalmente legittimato ad esercitare poteri coercitivi nei confronti delle
navi iscritte nei propri registri3. Le autorità indiane facevano presente alle autorità italiane che spettava a loro l’esercizio della giurisdizione, in base al loro ordinamento interno. Il luogo dove è avvenuto l’incidente costituisce il punto cruciale per comprendere la natura della controversia tra i due soggetti di diritto internazionale. A parere delle autorità italiane, visto che la petroliera Enrica Lexie si trovava in alto mare al momento dell’accaduto, le Corti indiane non sono competenti nel giudicare i due marò, secondo il diritto internazionale4. Questa disputa tra i due Stati opera alcuni differenti punti: il primo, se l’esercizio di giurisdizione da parte dell’India viene inibito dalle rilevanti norme di diritto internazionale generale; il secondo, se l’inseguimento e il fermo della Enrica Lexie in acque internazionali era ammissibile; e, il terzo, se questo priva i tribunali interni indiani ad applicare la loro giurisdizione. Il primo punto può essere risolto dando uno sguardo alle fonti standard del diritto internazionale generale come, a titolo di esempio, i trattati e la consuetudine. Classicamente lo jus cogens o, meglio, il diritto internazionale consuetudinario disciplina l’esercizio della giurisdizione secondo cui ciascuno Stato potrebbe esercitarla in ogni momento, tranne dove si presenta una norma che la vieta. Su questo punto si espresse già la Corte Permanente di Giustizia Internazionale, prima della nuova
Note
Corte Internazionale di Giustizia, la quale affrontò un simile caso nel 1927, sottolineando che lo Stato nazionale della nave, dove ci furono anche dei morti, aveva tutto il diritto di esercitare la giurisdizione perché il reato si consumò sul territorio di quello Stato, visto che la nave era, in un certo senso, considerato lembo territoriale5. Questo principio trova la sua recente espressione nello jus cogens noto come il principio del fine territoriale. Gli altri principi del territorio sono quello soggettivo, quello della nazionalità attiva, della personalità passiva, dell’universalità, della protezione e, possibilmente, quello degli effetti dottrinali. Gli Stati, pertanto, sono liberi di limitare l’esercizio della propria giurisdizione mercé, inter alia, accordi internazionali siglati. Gran parte degli Stati, che costituiscono la vita della società internazionale, dopo la decisione della Corte Permanente di Giustizia Internazionale inerente l’affare Lotus tra Francia e Turchia del 1927, si sono riuniti a Montego Bay nel 1982 per dar vita alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, firmandola ed invertendo la decisione dell’affare Lotus. Si menzioni il fatto che sia il governo italiano che quello indiano hanno ratificato e firmato questo trattato del 1982, per cui sono a tutti gli effetti vincolati ad esso6. L’articolo 97 paragrafo 1 della Convenzione di Montego Bay sul Diritto del Mare enuncia che in caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare, che implichi
la responsabilità penale o disciplinare del comandante della nave ovvero di qualunque altro membro dell’equipaggio, non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari contro tali persone, se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza. Questo articolo va applicato esclusivamente ai casi di collisione ed incidenti di navigazione nelle acque internazionali, ad esclusione di altri eventuali casi. La Convenzione di Montego Bay sul Diritto del Mare inibisce l’esercizio di giurisdizione su atti che cagionano una collisione che avviene su una altra nave battente bandiera di un altro Stato, fondandosi, pertanto, sul principio oggettivo territoriale7. La norma generale inerente la giurisdizione in acque internazionali è sancita nell’articolo 92, secondo cui le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva. Purtroppo, questa norma non specifica in modo netto la giurisdizione penale su atti che avvengono su una nave e si concludono su di un’altra nave. Essa fa riferimento soltanto alla giurisdizione sulle navi e si riferisce, in larga misura, all’autorità di fermare la nave nelle acque internazionali e di condurre l’attività di polizia giudiziaria a bordo. Sempre l’articolo 92 può essere letto per comprendere l’esclusione della
1 Sono le 16:30 del 15 febbraio. In ogni caso i colpi esplosi dai marò che non vogliono uccidere ma solo allontanare, intimidire, respingere. Alcuni colpi che, purtroppo, finiscono dentro il corpo di due uomini che erano a bordo del peschereccio St. Antony, partito il 7 febbraio per la pesca del tonno: muore Ajesh che era al timone, colpito in pieno viso e Velentin che alzandosi è stato ucciso da un colpo al petto. Gli altri pescatori, 9 uomini, erano sottocoperta, riposavano perché la pesca avviene di notte. 2 La petroliera Enrica Lexie è salpata alle 23 ora locali (19.30 in Italia) del 5 maggio 2012, dopo aver ottenuto gli ultimi permessi dalle autorità doganali e portuali di Kochi. Lo ha reso noto il direttore generale della compagnia armatrice Pio Schiano. Questa mattina l’Alta corte di Kochi aveva rilasciato l’ultima autorizzazione necessaria a liberare la nave a bordo della quale si trovavano i due marò detenuti nel Kerala con l’accusa di aver ucciso, il 15 febbraio scorso, due pescatori indiani scambiati per pirati. La nave, con 24 uomini d’equipaggio e quattro militari dell’unità anti-pirateria, ha fatto rotta verso lo Sri Lanka. In La Repubblica, 05/05/2012 3 L. Salamone, Polizia marittima e lotta al traffico di stupefacenti via mare alla luce della vigente normativa nazionale ed internazionale, in sez. Diritto internazionale, www.diritto.it, 2004. 4 G. Paccione, La questione dei due marò detenuti in India nel diritto internazionale, in La Gazzetta italobrasiliana, Braunes, edizione giugno 2012, p. 44-45. 5 Si pensi che in fondo, nel 1927, la Corte Permanente di Giustizia Internazionale, nel famoso caso Lotus, vapore francese, affrontò la questione su una collisione tra questo vapore e quello turco, a seguito della quale era venuto l’affondamento del vapore turco e la morte di 8 marinai turchi. Si pose un problema di giurisdizione. Cosa era accaduto? Il comandante del vapore turco e l’ufficiale di guardia della Lotus erano stati condannati ad una pena detentiva da parte del tribunale turco. Il governo francese contestò questa soluzione asserendo, per quel che concerneva l’ufficiale francese, la competenza esclusiva dell’ordinamento giuridico francese e, quindi, dello Stato della bandiera, in quanto, trovandosi in alto mare si negava tale competenza al tribunale turco. Se fosse stata nelle acque territoriali turche nulla quaestio perché in effetti c’era stata una rilevanza esterna (è noto che quanto a rilevanza esterna subentra la competenza e la giurisdizione dello Stato delle acque territoriali o costiero). In questo caso, ci si trovava in alto mare per cui non era possibile sottrarre la giurisdizione alla nave cui appartiene l’ufficiale in questione. G. Paccione, Il regime giuridico dell’alto mare nel diritto internazionale, in http://www.diritto.net/dirittonethome/dirittointernazionale/2401.html; Affare Lotus, in pubblicazione della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, serie A – n.10, 7 settembre 1927. 6 La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o UNCLOS acronimo del nome in inglese United Nations Convention on the Law of the Sea,, èun trattato internazionale che definisci i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani, definendo linee guida che regolano le trattative, l’ambiente e la gestione delle risorse naturali. Questa convenzione è stata delineata durante un lungo processo di negoziazione attraverso una serie di Conferenze delle Nazioni Unite, iniziate nel 1973 ed è stata aperta alla firma nella città di Montego
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applicazione all’approccio dell’obiettivo territoriale della giurisdizione, facendo riferimento ai casi eccezionali. Il problema di quest’approccio sta nel fatto che, secondo la teoria oggettiva, lo Stato nazionale della nave, dove è stato commesso il crimine, non esercita la giurisdizione sulla nave in cui il crimine ha avuto il suo inizio. L’India ha sempre ritenuto di dover esercitare il proprio diritto di considerare crimini quelle attività che si manifestano o si sono manifestati, se pur parzialmente, sul suo territorio. Il contenuto della norma, presente nell’articolo 92, indica come prevenire gli Stati dall’esercizio della giurisdizione su eventi che accadono a bordo di una nave in acque internazionali e che batte la bandiera di un altro Stato. In aggiunta, va sottolineato che la norma, di cui all’articolo 97, inerente la collisione, sarebbe superflua, se l’articolo 92 fosse intesa come esclusione della competenza giurisdizionale in tutti i casi, dove il reato viene commesso a bordo di un’altra nave8. Gli estensori della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare non tennero in considerazione o, meglio, esclusero la giurisdizione solamente nei casi di collisione ed incidenti di navigazione, asserendo, in conclusione, che in altri casi la giurisdizione è consentita. Estendere la giurisdizione indiana su reati che vengono commessi su navi che battono bandiera indiana è conforme con l’attuale prassi giurisdizionale riguardanti i reati che hanno il loro inizio nel territorio di uno Stato e sono commessi o parzialmente compiuti nel territorio di un altro Stato. Le Corti indiane andrebbero intese come aventi la giurisdizione sui due marò basata sulla mancanza di ogni esplicita inibizione della Convenzione di Montego Bay del 1982 sull’esercizio del principio dell’obiettivo territoriale ed il fatto che la prassi giurisdizionale attuale di solito sostiene l’esistenza di alcune giurisdizioni in determinati casi. Competente a prescrivere comportamenti è, ovviamente, una questione separata dal se perseguire o meno la petroliera Enrica Lexie in acque internazionali, ed era consentito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare. Questo secondo problema concerne l’autorità di uno Stato di trattenere una nave in acque internazionali. L’articolo 111 paragrafo 1 della Convenzione di Montego Bay del 1982
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enuncia che è consentito l’inseguimento di una nave straniera quando le competenti autorità dello Stato costiero abbiano fondati motivi di ritenere che essa abbia violato le leggi e i regolamenti dello Stato stesso. L’inseguimento deve iniziare quando la nave straniera o una delle sue lance si trova nelle acque interne, nelle acque arcipelagiche, nel mare territoriale, oppure nella zona contigua dello Stato che mette in atto l’inseguimento, e può continuare oltre il mare territoriale o la zona contigua solo se non è interrotto. L’esatta locazione della petroliera italiana Enrica Lexie, al momento dell’inseguimento iniziato – se al di là del mare territoriale –, può essere considerato come un violare i diritti nella zona dell’alto mare, in cui la nave italiana si trovava in quel momento. Nonostante tutto, alcune cose possono essere evidenziate con certezza. Le autorità indiane non avevano alcun diritto di inseguire la nave Enrica Lexie, visto che i presunti atti di omicidio sono avvenuti oltre il loro mare territoriale e, quindi, in aree non soggette alla sovranità dello Stato indiano. Contrariamente, a parere di chi scrive, essi avevano pienamente il diritto e l’autorità di fermare la nave battente bandiera italiana, solamente se l’incidente fosse accaduto nelle loro acque territoriali. A maggior ragione, visto che la nave italiana era stata trattenuta in modo inappropriata nel porto di Kochi per alcuni mesi – il suo rilascio è avvenuto agli inizi del mese di maggio –, le autorità indiane sono in dovere nel risarcirla per
ogni perdita giornaliera. Ciò è sancito proprio nel paragrafo 8 dell’articolo 111, sempre della Conven-zione di Montego Bay del 1982, secondo cui una nave che abbia ricevuto l’ordine di fermarsi o sia stata sottoposta al fermo fuori dal mare territoriale in circostanze che non giustificano l’esercizio del diritto di inseguimento verrà indennizzata di ogni eventuale perdita o danno conseguente a tali misure. Ma questo non ha ancora risolto il problema della giurisdizione indiana circa la detenzione dei due fucilieri della marina militare, che sono tuttora, anche se in parte liberi, in attesa della decisione dell’alta Corte indiana per il loro via dal territorio indiano. L’ultima problematica concerne la questione inerente i tribunali indiani se sono autorizzati ovvero abbiano titolo a processare i due marò – o fucilieri della Marina militare italiana – per l’accusa di omicidio, in cui si suppone pure che l’India abbia violato una serie di norme di diritto internazionale proprio attraverso il fermo della petroliera battente bandiera italiana e l’arresto dei due organi ufficiali. La risposta dell’India non può che sembrare positiva come questione di diritto. Sebbene non viene dibattuto, generalmente, il procedimento giudiziario di un individuo sarà legale anche nel momento in cui quella persona sia stata data in custodia alla Corte indiana con strumenti illeciti. La Camera straordinaria del Tribunale cambogiano, ad esempio, ha esplicitamente riconosciuto tale dottrina9, mentre il Tribunale internazionale per i cri-
mini di guerra in Ruanda ne ha già dibattuto10. Non pare esserci, di conseguenza, una parte del diritto internazionale che possa regolare il modus con cui poter esercitare la giurisdizione a causa di questo presunto arresto illegale. La presenza di questi nuclei militari a bordo si attiene anche alla risoluzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la quale invita tutti gli Stati a con-
Nel precedente paragrafo è stato affrontato l’evolversi della disputa internazionale tra i due soggetti di diritto internazionale – India c. Italia – inerente la posizione dei due fucilieri della marina italiana, i quali si trovavano in quel momento sulla Enrica Lexie e venivano accusati di aver sparato ai due pescatori indiani, che erano a bordo del peschereccio, scambiati per pirati. Questa controversia tra l’Italia e
tribuire al contrasto della pirateria al largo delle coste somale e nell’Oceano indiano. Le autorità italiane hanno insistito sul problema che, sulla base dei principi del diritto internazionale, la giurisdizione sul caso appartiene unicamente all’ordinamento giudiziario italiano, perché i fatti sono avvenuti in un’azione antipirateria, come pure quest’azione è stata compiuta in alto mare su una nave battente bandiera italiana e anche per il fatto che ne sono stati protagonisti militari italiani, organi ufficiali dello Stato italiano. L’incidente avvenuto in acque internazionali tra la petroliera battente bandiera italiana ed il peschereccio indiano viene dipinto come una specie di giallo internazionale.
l’India ha come nodo della discussione il problema della giurisdizione o, meglio, quali dei due Paesi ha il diritto di esercitarla e, quindi, gestire l’incidente. Tanto è vero che parte di questa controversia è basata sul disaccordo inerente il luogo in cui la Enrica Lexie si trovava ed il peschereccio nel momento in cui ebbe luogo quel triste incidente. Le autorità indiane hanno sempre asserito che le due imbarcazioni, nel momento dell’incidente, si trovavano nelle loro acque territoriali; al contrario, le autorità italiane hanno sostenuto fortemente che l’incidente si è consumato nelle acque internazionali. Entrambi gli Stati sono parti della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982, che codifica gran parte del diritto internazionale contemporaneo, che affronta gli eventi che avvengono in mare e copre una serie di questioni centrali della controversia tra i due Stati. Si
Il foro internazionale competente a giudicare la controversia inerente l’affare Enrica Lexie
Bay, in Giamaica, il 10 dicembre 1982. L’Italia ha ratificato la convenzione a mezzo di legge del 2 dicembre 1994, n. 689. 7 La giurisdizione territoriale dà diritto ad uno Stato di espletare norme che regolano l’ordine pubblico e le attività di carattere economico e commerciale. 8 “L’articolo 97 della Convenzione stabilisce che il fermo o il sequestro della nave non possono essere disposti da nessuna autorità che non sia lo Stato di bandiera che ne ha la giurisdizione esclusiva. Questo vuol dire che la decisone del Tribunale di Kollam che ha disposto il carcere per i due ufficiali Massimiliano Latorre e Salvatore Girone è illegittima. Ma c’è di più a confermare la piena competenza italiana. I due militari che operavano a bordo della Enrica Lexie hanno agito in base alla legge n. 130 del 2 agosto 2011, adottata dal Parlamento per dare esecuzione alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sono state le Nazioni Unite a chiedere agli Stati l’adozione di misure più efficaci per combattere la pirateria che prolifera nelle acque al largo dell’India e della Somalia. I militari, inviati a bordo di una nave privata per garantire la sicurezza della navigazione, agiscono in base al diritto internazionale, nel pieno rispetto del codice penale militare di pace, ricevendo ordini non dal comandante della nave privata, ma dai vertici militari. E’ il comandante del nucleo ad avere la piena responsabilità delle operazioni condotte per contrastare la pirateria. Gli atti dei due militari, quindi, sono imputabili allo Stato che, al massimo, ne potrebbe essere chiamato a rispondere con un risarcimento dei danni se si dimostrasse un’illiceità del comportamento. Così non sembra. L’azione dei militari italiani, che hanno un’immunità funzionale in quanto organi dello Stato con precisi compiti istituzionali, è avvenuta nel pieno rispetto delle regole internazionali. Non si è trattato di un’azione sproporzionata tant’è che i militari italiani sono intervenuti, per garantire la protezione della nave dal rischio di un attacco di pirati, prima lanciando avvertimenti e solo dopo aprendo il fuoco dalla plancia della petroliera. In ogni caso, qualora si dimostrasse l’esistenza di un errore, la stessa Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare prevede che, in caso di interventi motivati da un sospetto di pirateria che poi risulta infondato, lo Stato sia responsabile unicamente per i danni e le perdite provocate”. M. Castellaneta, Nel mare internazionale la giurisdizione allo Stato della bandiera, 08 marzo 2012 si veda sul sito: http://www.marinacastellaneta.it/category/immunita-organi-dellostato. 9 Extraordinary chambers in the courts of Cambodia before the pre-trial chamber, Criminal Case File No. 002/14-08-2006; Extraordinary chambers in the courts of Cambodia: provisional detention order against kaing guek eav “Duch, in International legal Materials, Vol. 46, No. 5, 2007, pp. 913-918, in ASIL; “Summary of the Speech of Mr. Thor Saron, Cambodian Judge”, in National Workshop Report on Awareness Raising in Arms Law, July 16-18, 2006, pages 15-16 (Working Group on Weapons Reduction, 2006), pp. 1-6,8, 15-17; Robert Petit and Anees Ahmed, A Review of the Jurisprudence of the Khmer Rouge Tribunal, in NJIHR, Volume 8, Issue 2 (Spring 2010). 10 Prosecutor v. André Rwamakuba, Case No. ICTR-98-44C-T; A.M. Maugeri, La responsabilità da comando nello Statuto della Corte Penale Internazionale, Milano, 2007; Klip, André and Sluiter, Göran. Commentary on the trial judgment in the case of Prosecutor v. Rwamakuba Annotated lea-
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prenda in considerazione, a titolo di esempio, l’articolo 111, già citato prima, che affronta le condizioni in cui è consentito ad uno Stato procedere al fermo di un’imbarcazione di un altro Stato in alto mare. Direttamente implicato in questa vicenda è l’articolo 92 paragrafo 1, sempre della Convenzione di Montego Bay del 1982, di cui si è in precedenza delineato, presumendo che l’applicazione dell’articolo 92 porti la controversia nell’ambito di tale trattato ad innescare il provvedimento della disputa. L’articolo 287 dove al paragrafo 1 sottolinea che al momento della firma, della ratifica o dell’adesione alla presente convenzione o in un qualunque altro momento successivo, uno Stato e` libero di scegliere, mediante una dichiarazione scritta, uno o più dei seguenti mezzi per la soluzione delle controversie relative all’interpretazione o all’applicazione della presente con-
venzione: a) il Tribunale internazionale per il diritto del mare costituito conformemente all’Allegato VI; b) la Corte internazionale di giustizia; c) un tribunale arbitrale costituito conformemente all’allegato VII; d) un tribunale arbitrale speciale costituito conformemente all’allegato VIII, per una o più delle categorie di controversie ivi specificate, e al paragrafo 5 che se le parti in controversia non hanno accettato la stessa procedura per la soluzione della controversia, questa può essere sottoposta soltanto all’arbitrato conformemente all’allegato VII, salvo diverso accordo tra le parti. Conseguentemente, in assenza di un accordo o di una dichiarazione, la controversia sull’applicazione e l’interpretazione dell’articolo 92 sarà soggetta solamente all’arbitrato, come sancito nell’Allegato VII della Convenzione di Montego Bay.
Le autorità italiane hanno presentato tale dichiarazione attestante la ragione che, in attuazione dell’articolo 287 della Convenzione di Montego Bay, per la soluzione della controversia concernente l’interpretazione o l’applicazione della Convenzione sul diritto del mare e dell’Accordo adottato nel mese di luglio del 1994 relativa all’attuazione della Parte XI, ha scelto sia la Corte Internazionale di Giustizia sia il Tribunale Internazionale del Mare11, senza specificare la precedenza o dell’uno o dell’altro. Attraverso la presentazione di questa dichiarazione, in base all’articolo 287, le autorità italiane hanno voluto riaffermare la propria fiducia nei confronti degli organismi giudiziari internazionali. Attenendosi al paragrafo 4 dell’articolo 287, secondo cui se le parti di una controversia hanno accettato la stessa procedura per la soluzione della controversia, questa
Un attacco di pirati nell’Oceano Indiano sventato dalla Marina Militare Italiana 16 gennaio 2012, nell’Oceano Indiano, a 250 miglia circa da SALALAH (OMAN), la fregata Grecale della Marina Militare, inserita nel dispositivo NATO SNMG2 nel contesto dell’operazione antipirateria Ocean Shield, è intervenuta a protezione della motonave italiana Valdarno che ha subito un tentativo di abbordaggio al largo delle coste omanite. I pirati si sono avvicinati con un barchino, partito da un’imbarcazione tipo Dhow che agiva da nave madre, e hanno esploso alcuni colpi di arma da fuoco. L’equipaggio si è rifugiato nella citta-
della e sono state messe in atto le misure di auto protezione che hanno consentito di evitare il sequestro. Il Grecale ha immediatamente inviato sul posto il suo elicottero e quando stamani ha raggiunto la scena d’azione ha effettuato l’abbordaggio del Dhow sul quale sono risultati presenti 10 yemeniti e 11 somali. (Fonte: professionedifesa.blogspot.it)
può essere sottoposta soltanto a quella procedura, salvo diverso accordo tra le parti, le autorità italiane hanno voluto scegliere la stessa procedura alla pari di altri Stati che hanno scelto questi due organismi di carattere giudiziario internazionale. Le autorità indiane, al contrario, non hanno seguito quanto enunciato nell’articolo 287, cioè a dire aver deposto la dichiarazione, ma ha presentato una dichiarazione attenendosi all’articolo 36 paragrafo 2 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, in base al quale gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti il medesimo obbligo, la giurisdizione della Corte su tutte le controversie giuridiche concernenti: l’interpretazione di un trattato; qualsiasi questione di diritto internazionale; l’esistenza di qualsiasi fatto che, se accertato, costituirebbe la violazione di un obbligo internazionale; la natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale, accettando in modo vincolante la giurisdizione di quell’organismo internazionale. A parità di condizioni, questa dichiarazione solitamente sarebbe in grado di determinare la giurisdizione con la Corte Internazionale di Giustizia, ciò si viene a realizzare mediante la lettura della dichiarazione italiana, di cui sopra si è voluto evidenziare, secondo la Convenzione di Montego Bay, assieme con quella indiana ai sensi dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia. Entrambi gli Stati hanno manifestato la volontà di affidarsi alla giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia. La decisione dell’India di sottoporre il caso alla giurisdizione12 della Corte Internazionale di Giustizia sorge per la ragione che vi sono alcune eccezioni di rilevanza particolare come le controversie nei confronti delle quali le Parti coinvolte ad una disputa hanno accordato o, meglio, accorderanno di ricorrere a qualche altro metodo di soluzione o le controversie nei confronti delle quali un’altra Parte alla disputa ha accettato la giurisdizione vincolante della Corte Internazionale di Giustizia esclusivamente per o in relazione ai fini di tale controversia ovvero dove l’accettazione al vincolo giurisdi-
zionale della Corte Internazionale di Giustizia sul comportamento di una Parte alla controversia è stata depositata o ratificata, meno di dodici mesi prima della presentazione della Corte domanda davanti alla Internazionale Giustizia, e, infine, le controversie riguardanti l’interpretazione e l’attuazione di un trattato multilaterale, a meno che tutte le Parti al trattato risultano anche essere Parti al caso presentato già alla Corte Internazionale di Giustizia o al governo indiano specialmente se accettano la giurisdizione. Le autorità indiane, nella loro dichiarazione depositata presso la cancelleria della Corte Internazionale di Giustizia, hanno escluso in modo netto la giurisdizione vincolante davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per i casi mediante l’interpretazione dei trattati multilaterali, a meno che tutte le Parti al trattato sono coinvolti nel caso. La Convenzione di Montego Bay è un vero e proprio trattato multilaterale e non ogni Parte ad esso sarebbe Parte del caso della Corte Internazionale di Giustizia in merito alla controversia tra Italia e India. Se queste condizioni reggono ed il caso si poggia sull’articolo 92, allora la Convenzione di Montego Bay disciplinerà la controversia e l’Allegato VII si applicherà richiedendo a questo punto l’arbitrato. Esiste anche la possibilità di adire la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia, inquadrando la vicenda nel campo del diritto internazionale generale. L’articolo 92, come è stato già accennato, fa riferimento alla giurisdizione sulla nave che si trova in alto mare, sebbene è parte, in un certo senso, del territorio dello Stato a cui appartiene, ma non si riferisce ai principi per determinare il luogo di un’azione ai fini di stabilire la giurisdizione penale. Questa problematica della giurisdizione si riferisce ai principi del diritto internazionale pubblico e venne già deciso dall’allora Corte Permanente di Giustizia Internazionale in uno dei noti casi dell’inizio del secolo scorso, quando non era ancora entrata nel vivo la Convenzione di Montego Bay: l’affare Lotus. L’accettazione dell’India della giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia sarebbe valida se la questione legale fosse delineata come andare nella giusta competenza degli Stati di
ding cases of international criminal tribunals : Vol. 25: the International Criminal Tribunal for Rwanda, 2006-2007, p.509-522; 11 Sarin, Observation on the mechanisms of settlement of disputes under United Nations Convention on the Law of the Sea, in RC, 1985, p.107 ss.; A. Cannone, Il Tribunale internazionale del diritto del mare, Bari, 1991, p. 41 ss. 12 L. Mazzarelli, La Giurisdizione civile e penale dello Stato costiero sulle navi straniere, Bari, 1993, p.15 ss. 13 Articolo 35 -1. La Corte è aperta agli Stati aderenti al presente Statuto. 2. Le condizioni alle quali la Corte è aperta agli altri Stati sono determinate, con riserva delle speciali disposizioni contenute nei trattati in vigore, dal Consiglio di Sicurezza, ma in nessun caso tali condizioni possono porre le parti in posizione di ineguaglianza davanti alla Corte. Articolo 36 -1. La competenza della Corte si estende a tutte le controversie che le parti sottopongano ad essa ed a tutti i casi espressamente previsti dallo Statuto delle Nazioni Unite o dai trattati e dalle convenzioni in vigore. 2. Gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti il medesimo obbligo, la giurisdizione della Corte su tutte le controversie giuridiche concernenti: a. l’interpretazione di un trattato; b. qualsiasi questione di diritto internazionale; c. l’esistenza di qualsiasi fatto che, se accertato, costituirebbe la violazione di un obbligo internazionale; d. la natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale. 3. Le dichiarazioni di cui sopra possono essere fatte incondizionatamente o sotto condizione di reciprocità da parte di più Stati o di determinati Stati o per un periodo determinato. 4. Tali dichiarazioni sono depositate presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne trasmette copia agli Stati aderenti al presente Statuto ed al Cancelliere della Corte. 5. Le dichiarazioni fatte in applicazione dello articolo 36 dello Statuto della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, e che siano tuttora in vigore, sono considerate, nei rapporti tra Stati aderenti al presente Statuto, come accettazioni della giurisdizione obbligatoria della Corte Internazionale di Giustizia per il periodo per il quale debbano ancora aver vigore, e in conformità alle loro clausole. 6. In caso di contestazione sulla competenza della Corte, la Corte decide. 14 P. Simone, Le riunioni degli Stati parti quale strumento di attuazione della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, in Com. Int., 2000, p.219 ss. 15 “Il 16 dicembre 2008 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione 1851 (2008) concernente la situazione in Somalia, autorizzando gli Stati e le organizzazioni regionali che cooperano nella lotta alla pirateria e alle rapine a mano armata in mare al largo delle coste somale i cui nomi siano stati precedentemente comunicati dal governo federale di transizione somalo (GFT) al segretario generale delle Nazioni Unite a prendere tutte le misure necessarie e appropriate in Somalia al fine di reprimere gli atti di pirateria e le rapine a mano armata in mare, purché tali misure siano prese nel rispetto delle norme applicabili del diritto internazionale umanitario e dei diritti dell’uomo” in Decisione 2012/174/PESC del Consiglio, del 23 marzo 2012 , che modifica l’azione comune 2008/851/PESC relativa all’operazione militare dell’Unione europea volta a contribuire alla dissua-
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legiferare e far rispettare le leggi. L’India, dunque, sarebbe soggetta alla giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia nel caso in cui l’Italia dovesse depositare la propria domanda alla cancelleria della Corte. Questa formulazione della questione giuridica evita la diretta applicazione della Convenzione di Montego Bay del 1982 e rende la richiesta dell’arbitrato previsto nell’Allegato VII non applicabile. È d’uopo evidenziare che l’India non accetta giurisdizioni vincolanti, in cui un altro Stato coinvolto, nel caso abbia accettato solo di recente la giurisdizioCorte ne obbligatoria della Internazionale di Giustizia. Pertanto, l’Italia non ha necessità di accettare la giurisdizione obbligatoria e di depositare il caso presso la Corte Internazionale di Giustizia13. In poche parole, ci sono con molte probabilità due fori internazionali che possono dibattere la controversia tra lo Stato italiano e quello indiano in merito alla questione dei due fucilieri della marina italiana, accusati di aver sparato ed ucciso i due pescatori indiani, questi sono il Tribunale Internazionale del Mare e la Corte Internazionale di Giustizia. L’opzione di portare la controversia davanti al Tribunale Internazionale del Mare, in base all’articolo 287 e la Parte VII della Convenzione di Montego Bay pare essere la più lineare. Si rammenti che, come già posto in risalto prima, entrambi gli Stati sono parti alla Convenzione di Montego Bay e, dunque, l’incidente ingloba le azioni che sono accadute in mare. Ogni genere di decisione sarebbe strettamente circoscritta all’interpretazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare – dovuta alla competenza del meccanismo di risoluzione della controversia – e qualunque sia il trattato di principi giurisdizionali possa pretendere di creare tra gli Stati parti della Convenzione di Montego Bay14. L’opzione di presentare l’affaire dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia è considerata maggiormente conveniente. Mentre si dibatte specificamente del luogo degli eventi in mare per il fine di carattere giurisdizionale, come il caso potrebbe essere potenzialmente importante per il modo di intendere generalmente la giurisdizione extraterritoriale degli Stati. La Corte Internazionale di Giustizia avrebbe l’opportunità di elaborare, attraverso i principi della giuri-
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sdizione territoriale, stabiliti nell’affare Lotus, un caso datato nell’anno 1927, e che in modo celere sta lasciando un segno nel mondo delle relazioni interCorte nazionali di oggi. La Internazionale di Giustizia, come una vera e propria istituzione, ha un gran fine e, forse, terrà presente le conseguenze della propria decisione su altri settori del diritto, rispetto ad un mero tribunale che non farà, anche se avrà avuto modo di focalizzare solamente intorno al diritto del mare. In ogni modo, i due protagonisti sulla scena internazionale, quali l’India e l’Italia, per poter portare al temine il loro disaccordo, potrebbero richiedere la mediazione del Segretario Generale delle Nazioni Unite ovvero sottoporre la controversia ad un unico arbitrato oppure risolverla diplomaticamente anche se, visto il discorso coerente della vicenda, è poco probabile che la controversia sia risolta con lo strumento della diplomazia.
Problema dell’immunità funzionale dei due fucilieri della marina militare Quale definizione è possibile dare al termine pirateria? Essa rappresenta un crimine che si concretizza in acque internazionali, nel senso che non si consuma nelle acque interne che viene denominato mare territoriale. In sostanza, la pirateria è un vero e proprio atto criminale internazionale iure gentium, rispetto a qualsiasi insieme di atti deno-
minati pirateria dalle norme interne di un particolare Stato. In questo contesto si evidenziano due necessari criteri per un atto da essere considerato pirateria: gli eventi devono coinvolgere almeno due navi e che gli aspiranti di azioni piratesche lo abbiano fatto per fini privati. Quest’ultimo criterio, ad esempio, non considera quegli atti che vengono compiuti per scopi di carattere politico. Ma quali sono i metodi disponibili per perseguire e punire coloro che compiono atti di pirateria? Il metodo principale consiste nel procedimento di arresto e di processo ai presunti pirati da parte delle autorità nazionali, una soluzione ben nota per essere di sovente inconsistente sebbene dipeso al variare di leggi e prassi nazionali. Vi è da sottolineare che solamente le navi da guerra, come pure quelle navi identificate ed autorizzate dalle autorità nazionali, hanno la totale approvazione a stanare il fenomeno della pirateria in alto mare. Le navi private o soggetti privati non hanno alcuna autorizzazione o permesso di contrastare i pirati. Il diritto di catturare i pirati nelle acque internazionali include il diritto circoscritto di fermare le navi che navigano sotto la bandiera di uno Stato diverso rispetto a quelle navi da guerra che procedono al fermo. Nel caso di quei pirati al di fuori delle costa della Somalia, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato, mercé la risoluzione n.1851 del 200815, gli Stati a contrastare, con azioni oppressive, la pirateria nel mare territoriale della Somalia e, in determinate
circostanze, perseguire i pirati che si sono rifugiati all’interno del territorio somalo ovvero presenti sul suolo della Somalia16. Ciò ha portato il dibattito sui metodi leciti posti a disposizione ad imbarcazioni private di proteggersi dai attacchi pirateschi. Riferendosi al lavoro dell’Organizzazione Internazionale Marittima, è possibile puntualizzare che è permesso avere la sicurezza armata su navi commerciali con il compito di respingere eventuali attacchi nocivi perpetrati dai pirati. Si badi bene che questo personale armato viene limitato
diritto internazionale o gli eventi accaduti nelle acque internazionali e quei fatti, sono presenti nella controversia; pertanto, l’incidente avvenuto poteva essere evitato se la petroliera battente bandiera italiana – Enrica Lexie – non fosse stata deviata verso le acque territoriali indiane cioè verso il porto di Kochi. La ragione data per la nave mercantile italiana, che si è portata verso il porto della città di Kochi, si basava sul fatto che coloro che avevano sparato, cioè a dire i due marò, dovevano procedere ad identificare i due individui sospettati di essere pirati. Questo fu
al solo compito di difendere la nave privata ovvero commerciale e non a perseguire i pirati. La Francia, a titolo di esempio, usa i propri militari per fornire solo la sicurezza, mentre la Spagna utilizza corpi privati e, invece, l’Italia permette entrambi almeno legislativamente17. Questo è un incidente, già antecedentemente affrontato nei paragrafi precedenti di questo scritto, in cui sono coinvolti i due fucilieri della Marina militare italiana, che erano presenti sulla petroliera Enrica Lexie, da dove fecero fuoco contro il peschereccio, uccidendo due pescatori di nazionalità indiana, che furono erroneamente scambiati per dei veri e propri pirati. Le polemiche su se o meno l’India possa giustamente porre in essere la propria giurisdizione sul caso sotto la guida dei principi di
solo un pretesto che permise alle autorità indiane di accogliere nelle proprie acque territoriali la petroliera italiana e procedere al fermo dei due marò. Se la nave italiana non si fosse diretta verso il porto di Kochi, non ci sarebbe stato alcun arresto18. In merito alla questione della giurisdizione inerente gli eventi accaduti in acque internazionali, ci sono all’interno della Convenzione di Montego Bay tre articoli che regolano proprio il tema della giurisdizione, tali articoli sono il 97, il 94 e il 92. Degli articoli 97 e 92, si è già ampiamente discusso nei precedenti paragrafi. In modo rapido, si è constatato che, mentre la disposizione dell’articolo 97 fa riferimento a qualsiasi altro incidente della navigazione, il vero significato di questa frase è quello di comprendere
sione, alla prevenzione e alla repressione degli atti di pirateria e delle rapine a mano armata al largo della Somalia; Resolution 1851 (2008) Adopted by the Security Council at its 6046th meeting, on 16 December 2008; Natalino Ronzitti, La lotta alla pirateria al largo delle coste della Somalia e nell’Oceano Indiano, in Istituto Affari Internazionali (IAI), n. 15, 10 marzo 2008; C. Telesca, Recenti misure internazionali di contrasto alla pirateria, Vol. VII Anno 2009, in Dipartimento di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente; J. P. Pierini, l’Aspetto giuridico nazionale (diritto marittimo e penale), Pirati di ieri e di oggi, in supplemento alla Rivista Marittima, 12/2009, p. 70 ss.; Nazioni Unite : Consiglio di sicurezza Risoluzione 1851 (2008), adottata il 16 dicembre 2008, con cui si autorizzano gli Stati e le organizzazioni regionali a prendere in Somalia tutte le misure necessarie a reprimere gli atti di pirateria commessi al largo delle coste della Somalia, in RDI, 1/2009, pp.270-274; F. Fedi, Come processare i pirati somali, in http://www.affarinternazionali.it/, aprile 2012; U. La Torre, Sicurezza della nave e difesa dalla pirateria, in Rivisita del Diritto di Navigazione, vol. XL, n.2, 2011; F. Caffio e N. Ronzitti, La pirateria: che fare per sconfiggerla?, in Osservatorio di politica internazionale, n.44, aprile 2012, p.1 ss. 16 R. Cazzola Hofmann, I nuovi pirati. La pirateria del terzo millennio in Africa, Asia e America Latina, Milano, 2009; M.C. Noto, La repressione della pirateria in Somalia: le misure coercitive del Consiglio di Sicurezza e la competenza giurisdizionale degli Stati, in Comun. intern., 2009, 439 ss. a 453 s.; T. Treves, Piracy, Law of the Sea and Use of Force: Developments off the Coast of Somalia, in Eur. J. Intern. Law, 2009, 399-414.; M. C. Ciciriello, F. Mucci, La moderna pirateria al largo delle coste della Somalia: un banco di prova per vecchi e nuovi strumenti internazionali di prevenzione e repressione, in Rivista di Diritto della Navigazione, vol. XXXIX, n.1, 2010, p.87 ss. 17 F. Caffio, Nuovi strumenti di protezione contro la pirateria a favore delle navi private, in Rivista Marittima, ottobre 2011; Legge 2 agosto 2011, n. 130. Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 luglio 2011, n. 107, recante proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia e disposizioni per l’attuazione delle Risoluzioni 1970 (2011) e 1973 (2011) adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Misure urgenti antipirateria. Gazzetta Ufficiale n. 181 del 05 agosto 2011. 18 il 15 febbraio i marò sulla Enrica Lexie hanno comunicato alle autorità militari italiane di aver registrato, alle ore 12,28 italiane, un attacco da parte di sospetti pirati e di aver messo in atto graduali azioni dissuasive, inclusi colpi di avvertimento, quali il naviglio sospetto si era allontanato. Successivamente, alle ore 15 italiane, le autorità indiane hanno chiesto al comandante della Enrica Lexie di dirigersi verso il porto di Kochi, precisando che avevano arrestato alcuni sospetti pirati e necessitavano di una collaborazione per identificare gli autori dell’attacco. Alle ore 15,30 il Comando operativo interforze della Difesa ha ricevuto dal capo team del nucleo militare di protezione – i marò a bordo della Lexie – la comunicazione che la compagnia armatrice aveva deciso di accogliere la richiesta indiana, autorizzando la deviazione di rotta. Quindi, alle ore 17,48 di quel giorno, l’Enrica Lexie e` arri-
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altre collisioni che possono esserci tra due navi. L’articolo 94, al contrario, si riferisce agli obblighi dello Stato di bandiera, tuttavia, quest’articolo si occupa poco della pur sufficienza assistenza al caso19. Circa l’articolo 92 paragrafo 1, in aggiunta a quello detto sopra, potrebbe essere un punto fondamentale al fine di far valere l’esclusiva giurisdizione italiana sugli eventi della petroliera Enrica Lexie. Si potrebbe, dunque, asserire che gli spari abbiano avuto luogo sull’imbarcazione italiana e sul peschereccio indiano, determinando in tal modo la giurisdizione per entrambi gli Stati, secondo l’articolo 92. L’argomento più solido per la giurisdizione esclusiva italiana sui due fucilieri della marina italiana, accusati di aver cagionato la morte di due membri del peschereccio indiano, era fondato o, meglio, basato sull’idea dell’immunità funzionale20. Si è evidenziato che i due marò appartengono alle forze militari dello Stato italiano e che la sua struttura legislativa a favore della sicurezza privata non è stata ancora concretizzata. In particolare, si pone in chiaro che sia l’ordinamento interno italiano sia le varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prevedono l’impiego di guardie armate per respingere i pirati. Come agenti della politica nazionale ed internazionale, gli atti compiuti dalle forze militari italiane sarebbero attribuibili all’Italia e non individualmente ai militari. Ciò escluderebbe i due marò dall’essere processati e condannati in India. Questo genere di immunità funzionale ha la sua origine nel diritto internazionale cogente già nel lontano XIX secolo.
Dibattito sull’istituto dell’immunità funzionale La vicenda dei due marinai italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, quali organi in divisa al servizio dello Stato, con l’accusa di aver ucciso dalla petroliera Enrica Lexie battente bandiera italiana due pescatori indiani confondendoli per pirati, al largo dello Stato di Kerala, ruota attorno alla figura dell’immunità funzionale nell’ambito del diritto internazionale. In base ad un obsoleto principio di diritto internazionale classico, un militare che agisce nell’esercizio delle proprie funzioni, e aldilà del territorio del Stato di apparte-
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nenza, non ne risponde in prima persona, ma la sua azione od omissione sarà imputata allo Stato di provenienza. Pertanto, un eventuale illecito non va imputato a tale militare personalmente nell’ambito del diritto penale dello Stato estero, ma allo Stato di provenienza nell’ambito del diritto internazionale. Tale immunità è definita funzionale e, nel caso di specie, l’India non l’ha riconosciuta all’Italia ed ai due marò, anzi, lo Stato indiano ha deciso di procedere mercé un procedimento interno, con norme di diritto penale indiano. Cosa si deve intendere per immunità funzionale? Essa va intesa quale inibizione sostanziale all’esercizio della giurisdizione, nel senso che il comporta-
mento tenuto dai due marò, quali organi statali, è un atto dello Stato italiano e, pertanto, non riferibile ai due fucilieri italiani che l’hanno materialmente posto in essere21. Mediante questa immunità, si garantisce la sovranità dello Stato, applicando il principio di diritto internazionale par in parem non habet iurisdictionem, nel senso che non si può delineare il fatto che uno Stato non ha giurisdizione su un altro Stato. A mio parere, l’autore del fatto illecito cade sullo Stato italiano e non sui due marò, nel senso che l’immunità funzionale si realizza nell’esenzione dalla giurisdizione dello Stato straniero dell’individuoorgano che ne beneficia, ma che non si connette all’inviolabilità personale del-
l’organo e, pertanto, non comporta l’immunità dalle misure coercitive come, ad esempio, l’arresto oppure la detenzione preventiva, sino a quando non si giunga ad essere certi che l’individuo agiva in qualità di organo dello Stato. La norma che prevede l’istituto dell’immunità funzionale è una norma di carattere consuetudinario, e la consuetudine, insieme agli accordi di carattere convenzionale ed agli atti unilaterali de jure riconosciuti, costituisce la fonte primaria delle norme nel diritto internazionale. Si è, inoltre, parlato di incertezza riguardo al luogo dove è avvenuta la tragica morte dei due pescatori, se in acque internazionali o meno. Dal punto di vista giuridico, muterebbe in ogni caso poco. L’immunità funzionale, infatti, deve essere in ogni modo riconosciuta 22. La prassi secolare ed antichissima che ha portato al principio di cui sopra è conclamata a tal punto da far pensare che l’atteggiamento indiano poco abbia a che fare con il diritto e molto con la politica, in particolare con quella interna dell’India. Quello che voglio in questo paragrafo asserire non è certo l’innocenza dei due fucilieri della marina italiana, ma un principio di diritto, secondo il quale un’azione od omissione, commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, vanno necessariamente, se non obbligatoriamente, giudicate nella giurisdizione dello Stato di provenienza. L’immunità funzionale per i membri delle forze armate, come istituto, si può reperire nei documenti diplomatici del XIX secolo. Un primo esempio è reperibile in un documento diplomatico dove si evidenzia la rivendicazione dell’immunità funzionale nell’affare McLeod del 1841. McLeod 23, un ufficiale delle forze britanniche, attaccò assieme ai suoi subalterni, una nave, ormeggiata nello Stato di New York, cagionando la morte di uno dei membri dell’equipaggio della nave Caroline, giacché eseguivano ordini provenienti dal governo inglese di procedere a colpirla e distruggerla. Durante la sua visita negli Stati Uniti per ragioni non correlate alla sua mansione di ufficiale del Regno Unito, venne sottoposto agli arresti e processato a New York, per omicidio e per incendio alla nave Caroline. Alla notizia dell’arresto di McLeod, il governo inglese manifestò un atto di accusa nei riguardi del governo statunitense, asserendo che l’attacco alla Caroline
costituiva un atto ufficiale e, quindi, ogni responsabilità non ricadeva su McLeod, ma solo sul governo del Regno Unito, con conseguenza del suo rilascio e del non procedimento processuale. I due soggetti di diritto internazionale e gli Stati Uniti e la Gran Bretagna risolsero la controversia, giungendo in modo concorde a ritenere che un individuo, facente parte di una forza pubblica ed agendo sotto l’autorità del proprio governo, non va considerato responsabile delle azioni compiute. È un principio di diritto pubblico sanzionato dagli usi di tutte le nazioni civili e che il governo statunitense non ha espresso alcuna contrarietà. Malgrado ciò, McLeod venne ugualmente processato nello Stato di New York con l’accusa di omicidio. Mentre il ramo esecutivo del governo federale statunitense sembrava aver concesso al McLeod il beneficio dell’immunità funzionale, ciò non fu condiviso nel sentimento federale nello stesso tempo con alcuni distinguo. In risposta a questa controversia il noto senatore statunitense John Caldwell Calhoun dichiarò al Senato degli Stati Uniti che ora, non possono esserci dubbi che la simile norma, quando applicata agli individui, e che sia il capitale sia gli agenti o, se volete, gli strumenti sono da considerare responsabili nell’ambito penale, direttamente il contrario della norma su cui venne fatta per il rilascio di McLeod ( … ). Si supponga, inoltre, che le autorità inglesi od ogni altra autorità di un altro Stato, contemplando la guerra, invii degli emissari a far saltare la fortificazione eretta, ad alto prezzo, per la difesa del nostro commercio, sarebbe la produzione dei più autentici documenti firmati da tutte le autorità del governo inglese, renderlo una transazione pubblica e dispensare i cattivi da ogni responsabilità dalle nostre leggi e dal nostro ordinamento giudiziario? O desidererebbero che il governo presenti una richiesta per il loro immediato rilascio 24? Questa dichiarazione fatta dal senatore J.C. Calhoun dovrebbe rendere chiaro il fatto che, in combinazione con il processo di Alexander McLeod, il principio inerente l’immunità funzionale per gli ordini militari non era saldamente stabilito nel 1841. È vero che la dichiarazione del governo federale degli Stati Uniti, in quanto responsabile della politica este-
vata alla fonda nelle acque territoriali indiane e alle ore 18 il capo team, maresciallo Latorre, ha riferito di aver appreso dalla compagnia armatrice che era circolata la notizia della morte dei due pescatori. E `stato più volte sollevato l’interrogativo sul perché la nave sia entrata nelle acque indiane e sul perché i militari siano scesi terra. L’ho già detto pubblicamente da diverso tempo, in diverse occasioni: siamo tutti d’accordo che la nave non avrebbe dovuta entrare in acque indiane e i militari, di conseguenza, non avrebbero dovuto essere obbligati a scendere a terra. Nel primo caso – l’ingresso della nave in acque indiane – si e` trattato del risultato di un sotterfugio della polizia locale, in particolare del Centro di coordinamento per la sicurezza in mare di Bombay, che aveva richiesto al comandante della Lexie di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati. Sulla base di questa richiesta, il comandante della Lexie, acquisita l’autorizzazione dell’armatore, decideva di dirigere in porto e il comandante della squadra navale e il Centro operativo interforze della Difesa non avanzavano obiezioni, in ragione di una ravvisata esigenza di cooperazione antipirateria con le autorità indiane, non avendo essi nessun motivo di sospetto. Nel secondo caso, quello della consegna dei marò, essa e` avvenuta per effetto di evidenti, chiare, insistenti azioni coercitive indiane ( … ) -Informativa del Ministro degli Esteri sull’arresto di due militari italiani in India, in 690° seduta XVI legislatura, Senato della Repubblica, 13 marzo 2012, Roma, p.7 ss. 19 Ogni Stato apre un’inchiesta che sarà condotta da o davanti a una o più persone debitamente qualificate, su ogni incidente in mare o di navigazione nell’alto mare, che abbia coinvolto una nave battente la sua bandiera e abbia causato la morte o lesioni gravi a cittadini di un altro Stato, oppure abbia provocato danni seri a navi o installazioni di un altro Stato o all’ambiente marino. Lo Stato di bandiera e l’altro Stato cooperano allo svolgimento di inchieste aperte da quest’ultimo su uno qualunque di tali incidenti (art.94 paragrafo 7). 20 A. Cassese, International Law, II ed., Oxford, 2004, pp.110-120; N. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Torino, 2004, p. 119 ss. 21 P. De Sena, Diritto internazionale e immunità funzionale degli organi Statali, Milano, 1996, p. 7 ss.; A. Atteritano, Immunity of States and their organs: the contribution of Italian jurisprudence over the past ten years, in Italian Yearbook of International Law, vol. XX, 2010, p.33 ss.; M. Frulli, Sull’immunità dalla giurisdizione straniera degli organi statali sospettati di crimini internazionali, in Immunità costituzionale e crimini internazionali, Aldo Bardusco, Marta Cartabia, Micaela Frulli e Giulio Enea Vigevani ( a cura di), Atti del convegno, Milano, 2008, p.3 ss. 22 M. Miele, L’immunità giurisdizionale degli organi stranieri, Milano, 1961, p. 24 ss.; L. Migliorino, Giurisdizione dello Stato territoriale rispetto ad azioni non autorizzate di agenti di Stati stranieri, in RDI, 1988, p.784 ss.; B. Conforti, In tema di immunità funzionale degli organi statali stranieri, in RDI, 2010, p.5 ss. 23 D. Urquhart, Case of Mr Mc Leod, London, 1841, p.7 ss. 24 J. B. Moore, A Digest of International Law, vol. 2, p.409 ss., Washington, 1906.; R. Y. Jennings, The Caroline and Mc Leod Cases, in AJIL, 1938, p.82 ss.; Quadri, Diritto internazionale pubblico, Napoli, 1968, p.271 ss.; L. Zanardi, La legittima difesa nel
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La Marina Militare salva l’equipaggio di una nave attaccata dai pirati nell’Oceano Indiano Il 21 settembre 2011 il Cacciatorpediniere Andrea Doria, impegnato in Oceano Indiano nell’ambito dell’operazione antipirateria della NATO denominata “Ocean Shield”, è intervenuto in assistenza al mercantile cipriota “Pacific Express”, oggetto di un tentativo di sequestro da parte di pirati armati. L’attacco, reso vano dalla pronta reazione dell’equipaggio che si è chiuso nella cittadella (parte protetta della sovrastruttura), è durato quasi tutta la notte e ha anche provocato un incendio a bordo. Al suo arrivo in zona, circa 200 miglia ad est di Mombasa, Nave Doria si è avvicinata al mercantile e, verificata l’assenza
di pirati a bordo, presumibilmente fuggiti alla vista dell’unità militare, ha inviato un team di sicurezza per liberare l’equipaggio. Successivamente il Comandante della Pacific Express, vista la gravità dell’incendio, ha dichiarato la nave persa e ha chiesto soccorso alla nostra unità. Il Cacciatorpediniere Andrea Doria ha imbarcato l’intero
equipaggio del mercantile (Comandante di nazionalità ucraina e 25 marinai filippini) e ha diretto verso Mombasa dove hanno richiesto di essere sbarcati. Le forze aereo-navali alleate continuano le operazioni per prevenire e contrastare le attività criminali contro il traffico mercantile nell’area. Fonte: Stato Maggiore della Marina
ra, sopporta un peso maggiore sul tema rispetto a quelli del solo senatore e dello Stato di New York. Una attuale controversia che coinvolge la rivendicazione dell’immunità funzionale a favore di organi parti di uno Stato concerne l’affare Rainbow Warrior del 1980 25. Questa controversia coinvolge due agenti francesi, violando la sovranità territoriale della Nuova Zelanda, avevano posto in essere un attentato contro l’imbarcazione di Greenpeace, appunto la Rainbow Warrior, ancorata nel porto di Auckland ed utilizzata per protestare contro i test nucleari francesi nel sottosuolo marino. Dopo aver distrutto la nave, i due agenti dei servizi segreti francesi vennero tratti in arresto e accusati di aver cagionato, a bordo della Rainbow Warrior, la morte di un giornalista olandese. La controversia inerente la questione tra i due soggetti di diritto internazionale, cioè a dire Francia e Nuova Zelanda, venne affidata al Segretario Generale delle Nazioni Unite26 per raggiungere una soluzione pacifica. Una delle problematiche che sorse in questa controversia dibattuta fu la pretesa francese secondo cui i suoi agenti andavano rilasciati dalla loro detenzione in quanto beneficiari dell’immunità funzionale27. La Nuova Zelanda, al contrario, manifestò la propria obiezione alla richiesta del governo di Parigi e sostenne che coloro che agiscono in uniforme per conto di organi ufficiali superiori e che emettono ordini non sono esenti dalle responsabilità di azioni penali. L’ordine superiore non viene considerato una difesa, secondo l’ordinamento interno della Nuova Zelanda, né una difesa nei sistemi legali di gran parte degli Stati. Certamente non è considerato una difesa sul piano del diritto internazionale come venne chiaramente determinato durante il processo di Norimberga e in quello post Norimberga. Purtroppo, la questione riguardante l’immunità funzionale non ebbe alcuna soluzione o direttamente affrontata dalla decisione arbitrale. Il punto fondamentale in questo caso sta nel fatto che l’esistenza dell’immunità funzionale, teoricamente riconosciuta se non ignorata nel caso McLeod, venne respinta da una delle Parti – il riferimento viene fatto alla Nuova Zelanda – alla controversia in modo categorico. Gli usi del passato di tutte le nazioni
civilizzate di usare l’immunità agli atti ufficiali di questo genere sembra essersi eroso nel corso degli anni. Non meno di tutti a causa degli sviluppi nel periodo del secondo conflitto mondiale. Si è in presenza di un’interessante distinzione tra l’affare inerente McLeod e quella riguardante la Rainbow Warrior. L’imputato McLeod era un ufficiale in uniforme nel momento in cui il suo presunto crimine veniva consumato, mentre gli agenti francesi erano organi dei servizi segreti. Si potrebbe dire che eseguire operazioni militari alla luce del sole è diverso dalle operazioni che avvengono sottocopertura. Un recente esempio è la vicenda inerente la nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, dove forze militari dello Stato di Israele la occuparono 28. Il caso concerneva l’incidente dell’imbarcazione turca che si consumò nel 2010, quando una flottiglia di imbarcazione partirono dalla Turchia in rotta verso la striscia di Gaza per portare aiuti umanitari e nel tentativo di rompere il blocco israeliano. La Mavi Marmara venne intercettata da una nave da guerra battente bandiera dello Stato di Israele. Nel momento in cui la flottiglia respinse la richiesta delle autorità israeliane a tornare indietro, alcuni militari delle forze armate di Israele salirono a bordo di alcune navi tra cui la Mavi Marmara, cagionando la morte di nove attivisti. L’impiego della coercizione armata o, meglio, l’uso della forza, durante quella intercettazione, venne considerato essere irragionevole ed eccessiva dalla Commissione di esperti voluta dalle Nazioni Unite 29. Di recente il governo turco ha presentato atti di accusa nei confronti di quattro ufficiali di alto grado delle forze armate israeliane per le loro responsabilità circa la morte degli attivisti 30. Questi alti ufficiali stavano eseguendo gli ordini che venivano impartiti dal governo di Israele nel porre in essere i raid contro la flottiglia che man mano si avvicinava a Gaza. Le autorità turche non hanno ritenuto che questi organi ufficiali che indossavano un’uniforme e per di più di alto grado militare potevano appellarsi al tipo di immunità funzionale dell’affare McLeod per i loro presunti crimini. Il fatto stesso che la Turchia sia solo disposta a mostrare le accuse è indicativo dello status dell’immunità funzionale per il personale militare che indossa una divisa, che ha
diritto internazionale, Milano, 1972, p.43 ss.; G. Carella, La Responsabilità dello Stato per Crimini Internazionali, Napoli, 1985, pp.169-170, si veda anche la nota 26 del capitolo I, p.47; P. De Sena, op. cit., p.43 ss.; 25 J. Charpentier, L’Affaire du “ Rainbow Warrior”, in A.F.D.I, 1985, p.210 ss.; A. Cassese, Diritto internazionale I, Bologna, 2003, p. 124 ss.; S. Forlati, Diritto dei trattati e responsabilità internazionale, Milano, 2005, p. 13 ss. 26 Due to France’s non-recognition of the compulsory jurisdiction of the Court, there were jurisdictional obstacles to bringing the case before the ICJ. The parties approached the Secretary-General to ask him to act as mediator in the dispute between them. The Secretary-General agreed to do so and the two States agreed to refer all the problems between them arising from the Rainbow Warrior affair to the Secretary-General. They also agreed to abide by his ruling. The Secretary-General was given a mandate to find a solution that would respect and reconcile the conflicting positions of the parties, and would, at the same time, be both equitable and principled. Literally within days of the ruling, the parties exchanged letters amounting to an agreement in settlement of all issues arising from the Rainbow Warrior affair. In essence, the Prime Minister of France agreed to convey a formal and unqualified apology to the Prime Minister of New Zealand for the attack on the Rainbow Warrior by French service agents which was contrary to international law. He agreed to pay a sum of US$7 million to the Government of New Zealand as compensation for the damage suffered. On the other hand, New Zealand agreed to transfer the two agents responsible for the sinking of the Rainbow Warrior to a French military facility for a period of 3 years. Ban Ki Moon, Alternatives to litigation in a civil society, in ICDR, 2011, p. 11 ss.; Affaire concernant les problèmes nés entre la France et la Nouvelle-Zélande de l’incident du Rainbow Warrior, Règlement du 6 juillet 1986 opéré par le Secrétaire général des Nations Unies, in Recueil des sentences arbitrales, Vol. XIX, 1986, United Nations, New York, p.199 ss. 27 (… ) gli agenti furono condannati a dieci anni di reclusione dai giudici neozelandesi, dove il governo della Nuova Zelanda mantenne fermo il principio della giurisdizione penale sugli autori dal punto di vista interno, mentre la Francia doveva solo sul piano internazionale provvedere ai danni morali e materiali. ( … ) la Francia, contrario alla punizione dei suoi agenti, in contrasto con il diritto francese e il diritto internazionale, accettò di sottoporsi all’arbitrato del Segretario Generale delle Nazioni Unite ( …), in B. Conforti, op. cit., p. 11 ss.; A. Cassese, International Crime Law,Oxford, 2008, p. 309. 28 G. Paccione, Violazione del diritto internazionale inerente la vicenda dell’intervento militare israeliano sui battelli umanitari in alto mare, in www.diritto.it, sez. diritto internazionale, 2010. 29 Report of the international fact-finding mission to investigate violations of international law, including international humanitarian and human rights law, resulting from the Israeli attacks on the flotilla of ships carrying humanitarian assistance, in A/HRC/15/21, 27 settembre 2010. 30 Common Dreams, Turkey Indicts Israel’s IDF Officials for Gaza Flotilla Killings, si veda in www.com-mondreams.org/headline/2012/05/28. 31 A. Annoni, L’abbordaggio della Gaza Freedom Flotilla alla luce del diritto internazionale, in RDI, vol.4, 2011, p.1203 ss.
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commesso crimini nel corso dello svolgimento delle loro funzioni 31. Questi casi dimostrano che le fondamenta per affermare una norma generale del diritto internazionale, che determini l’istituto dell’immunità funzionale per coloro che agiscono in uniforme militare, sono in un certo senso barcollanti. Uno dei più recenti casi, pur asserendo la norma, non fornisce un esempio della sua attuazione. Dal post secondo conflitto mondiale e dagli anni ottanta, si potrebbe affermare che l’immunità funzionale per gli atti ufficiali simili ai crimini non esistevano. L’attuale prassi, sino a poco tempo fa, sembra seguire il percorso disposto dalla prassi moderna e non dalla norma anacronistica approvata nel 1840 dai governi statunitense e britannico. Il rifiuto di una norma generale, la quale si riferisce all’immunità funzionale per il personale militare nell’esercizio delle loro ufficiali funzioni, cagionerà una serie di conseguenze nella controversia tra Italia ed India, anzi direi che le sta già causando. Ciò sta ad indicare, in particolare, che la rivendicazione dell’Italia all’esercizio della giurisdizione esclusiva sui due fucilieri della marina militare è corretta.
Legislazione italiana che regolamenta le figure degli organi militari e dei contractor Dopo due anni di discussioni il governo ha dato il via libera all’impiego dei militari e di personale di compagnie private a bordo delle navi italiane per fronteggiare il pericolo dei pirati. Individui che indossano una divisa ed armati che si trovano a bordo delle navi che battono bandiera italiana, in base all’art. 5 della Legge n.130/2011, adottata dal Parlamento anche per eseguire le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per combattere la pirateria 32, possono far parte di due categorie: agenti militari, forniti dalla Difesa, il cui impiego è a carico dell’armatore; team di guardie giurate, sempre a carico dell’armatore. Per i team militari è stato adottato dal Ministro della Difesa il Decreto di attuazione della Legge 130. Per quelli privati, il Decreto, la cui adozione spetta al Ministro dell’Interno di concerto con il
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Ministro della Difesa e di quello delle Infrastrutture e Trasporti, deve essere ancora emanato33. È d’uopo determinare dei punti fermi che possano essere utili per azioni future ed anche per interventi correttivi/integrativi della legislazione italiana in vigore. Va evidenziato che i gruppi armati, che si trovano a bordo dell’armamento privato, sono da considerare di grande utilità per la protezione contro gli attacchi di gruppi di pirati. L’Oceano indiano è gremito dai navi da guerra che danno la caccia ad imbarcazioni di pirati: la missione Atalanta (a guida Unione Europea) e Ocean Shield (a guida Nato) e la Combined Task Force (CTF) 151, una coalizione di volenterosi con presenza determinante statunitense, nonché un numero non indifferente di altre flotte militari, le cui bandiere mercantili sono
minacciate dai pirati. Tutto questo spiegamento di forze, però, non ha posto fine agli attacchi, a causa del fatto che l’area da sorvegliare è grande ed i pirati operano con piccole imbarcazioni veloci, distaccati da unità camuffate per lo più da navi da pesca (nave madre). Pertanto, i team armati su navi private svolgono un’azione complementare a quella delle navi da guerra ed ormai sono imbarcati su molte bandiere (il Regno Unito ha recentemente ammesso la possibilità di utilizzare i contractor)34. Si rammenti che è lo Stato di bandiera il solo responsabile dell’esecuzione ed applicazione delle norme internazionali e, pertanto, il regime di sicurezza a bordo è, in sostanza, disciplinato e regolato dalla legislazione interna rispettosa delle norme internazionali
vigenti in materia. Visto che ogni Stato di bandiera, essendo titolare dell’esclusiva giurisdizione a bordo sulle attività, disciplini la legittima difesa attraverso le proprie norme interne, che possono diversificare da Stato a Stato. Nel nostro ordinamento circa il reato di pirateria, esistono degli articoli presenti nel codice della navigazione, come l’articolo 1135 e 113635, dove è d’uopo analizzare, in assenza di norme interne già vigenti, che genere di mezzi di difesa debbano essere adottati per contrastare i pirati diretti verso per le navi battenti bandiera dello Stato italiano36. Per garantire e tenere in sicurezza le proprie navi, gli armatori hanno presentato la richiesta alle autorità italiane con lo scopo di porre in essere norme che diano la possibilità di disporre di personale armato a bordo – forze armate o contractors – per difendersi e tutelarsi dalla pirateria. Tra le due figure, quella di organi ufficiali che indossano una divisa e sono al servizio dello Stato e i contractor, vige una differenza sostanziale, che va analizzata in modo dettagliata. Circa l’uso di militari a bordo – come nel caso dei fucilieri della marina militare italiana che si trovavano a bordo del mercantile Enrica Lexie – lo Stato italiano, nell’esercizio della propria sovranità, tra cui viene inclusa la protezione dei cittadini italiani e dei loro beni, può decidere, senza problemi di contrasto con le norme internazionali, di distaccare organi militari a bordo delle navi che transitano nelle aree di mare soggette ad attacchi di pirati. I due fucilieri della marina militare italiana stavano svolgendo una mansione di carattere protettivo nell’ambito di una missione internazionale contro la pirateria attenendosi alle risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a raccomandazioni IMO e alla legge italiana. Al riguardo vige una prassi già seguita da alcuni Stati, come la Francia, la Gran Bretagna, Belgio e adottata anche dall’UE nell’ambito della missione Atalanta per le navi che trasportino carichi del World Food Program. A bordo di tali navi viene accettato che vengano imbarcati team di militari armati destinati alla loro protezione, previo ovviamente il consenso dello Stato di bandiera37. Sebbene i militari sono organi dello Stato, come il caso dei due marò, assi-
milabili ai corpi di truppa che operano all’estero, ogni loro azione e l’eventuale impiego non lecito dell’azione coercitiva armata comporterà la totale responsabilità diretta dello Stato italiano. Inoltre, va menzionato che tutte le norme internazionali, come la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, prevedono diritti ed obblighi nei riguardi degli Stati e non fanno alcun riferimento ai soggetti di diritto interno come gli armatori. Per quanto concernono i contractor, va sottolineato che non vanno confusi con i veri e propri mercenari38, quest’ultimi vengono definiti, dal punto di vista del diritto internazionale, come individui non cittadini di alcuno Stato, che sono reclutati per lottare ed essere partecipi al conflitto con fini lucrativi. Pertanto i contractor non hanno le stesse caratteristiche dei mercenari nel senso che possono avere la cittadinanza dello Stato di bandiera, dovrebbero svolgere il loro lavoro senza fini di lucro e non devono essere partecipi ad un conflitto bellico, ma unicamente difendere ed ostacolare l’arrembaggio della nave. Ciò sta ad indicare che il ruolo dei contractor è quello di tutelare e difendere l’integrità della nave e non quello di divenire attori in un conflitto armato. L’art. 10539 della Convenzione di Montego Bay del 1982 autorizza ogni Stato ad adottare misure militari contro i pirati, mentre non determina nulla per le guardie private o c.d. contractor, che sono considerate dei civili40. Circa ciascuna azione e l’eventuale uso non lecito della coercizione armata da parte dei contractor, la responsabilità dello Stato di bandiera esisterà solo nel momento in cui si dimostri – in base a quanto viene stabilito dal diritto internazionale per gli atti illeciti commessi da privati – che esso ha omesso di prevenire o non ha punito a livello di diritto interno le condotte non legali. La responsabilità degli atti dei contractor ricadrebbe, dunque, sulle compagnie armatoriali, come del resto su di esse ricadrebbe anche la responsabilità nei confronti delle famiglie dei contractor eventuali vittime di uno scontro con i pirati. Il comandante della nave potrebbe non avere tentato di evitare l’abbordaggio, per esempio non cambiando rotta, o non ponendo in essere tutte le manovre possibili o non usando tutte le moderne tecnologie atte ad evitare l’attacco.
32 Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha emanato un congruo numero di risoluzioni inerente la pirateria somala da quando è iniziata la crisi del Corno d’Africa, dalla prima del 2 giugno 2008, la 1816, sino all’ultima del 22 novembre 2011, la 2020. Quindici risoluzioni, compresa la 2018 (2011) dedicata alla pirateria del Golfo di Guinea, che indicano linee di policy e settori di attività internazionale volti a debellare il fenomeno criminale. A. Tancredi, Di pirati e Stati falliti: il Consiglio di Sicurezza autorizza il ricorso alla forza nelle acque territoriali della Somalia, in RDI, 4/2008, p.937 ss.; A. Caligiuri, Le misure di contrasto della pirateria nel mare territoriale somalo: osservazioni a margine della risoluzione 1816 (2008) del Consiglio di Sicurezza, in Il Diritto marittimo, 2008, p. 1506 ss.; F. Munari, La nuova pirateria e il diritto internazionale, spunti di una riflessione; in RDI, 2/2009, p.325 ss. 33 Decreto legge n. 107 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge 2 agosto 2011, n. 130. 34 G.Paccione, Il rapporto tra lo Stato e le società militari e di sicurezza private nel diritto internazionale, in www.diritto.it, sez. Diritto internazionale, 2011. 35 Articolo 1135 -Il comandante o l’ufficiale di nave nazionale o straniera, che commette atti di depredazione in danno di una nave nazionale o straniera o del carico, ovvero a scopo di depredazione commette violenza in danno di persona imbarcata su una nave nazionale o straniera, è punito con la reclusione da dieci a venti anni. Per gli altri componenti dell’equipaggio la pena è diminuita in misura non eccedente un terzo; per gli estranei la pena è ridotta fino alla metà. Articolo 1136 -Il comandante o l’ufficiale di nave nazionale o straniera, fornita abusivamente di armi, che naviga senza essere munita delle carte di bordo, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. 36 A. Lefebvre, G. Pescatore, L. Tullio, Manuale di diritto della navigazione, Milano, 2011, p.751 ss. 37 Andrea de Guttry, Fighting Piracy and Armed Robbery in the XXI Century: Some Legal Issues Surrounding the EU Military Operation Atalanta, in Studi sull’integrazione europea, Bari, n.2 – 2010, p.325 ss. 38 C. Kinsey, International Law and the Control of Mercenaries and Private Military Companies, in Cultures & Conflits, 2012, p.2 ss. 39 Nell’alto mare o in qualunque altro luogo fuori della giurisdizione di qualunque Stato, ogni Stato può sequestrare una nave o aeromobile pirata o una nave o aeromobile catturati con atti di pirateria e tenuti sotto il controllo dei pirati; può arrestare le persone a bordo e requisirne i beni. Gli organi giurisdizionali dello Stato che ha disposto il sequestro hanno il potere di decidere la pena da infliggere nonché le misure da adottare nei confronti delle navi, aeromobili o beni, nel rispetto dei diritti dei terzi in buona fede. 40 International Convention against the Recruitment, Use, Financing and Training of Mercenaries, A/RES/44/34, 72nd plenary meeting, 4 December 1989; C. Kinsey, International Law and the Control of Mercenaries and Private Military Companies, Cultures & Conflits, 26 juin 2008, vedere sul sito: http://conflits.revues.org/index11502.html.; Quoted in Zarate J.C., (1998) The Emergence of a New Dog of War: Private International Security Companies, International Law, and the New World Order, in Stanford Journal of International Law, No. 34, p125.
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