UniversitĂ degli Studi di Firenze FacoltĂ di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Filologia moderna
Tesi di Laurea in Letterature comparate
La pelle dell'altro: narrazioni post-coloniali in Italia da Flaiano a Scego.
Relatore:
Candidata:
Prof. Mario Domenichelli
Paola Coppini
Anno Accademico 2009/2010
Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri don Lorenzo Milani
Indice
Introduzione .................................................................................................1 Capitolo 1 Sulla pelle dell'altro 1.1 Inettitudine coloniale. Il Fascismo nel Corno d'Africa. ............................6 1.2 Dell'eros e della schiavitĂš. .....................................................................38 Capitolo 2 Nella pelle dell'altro 2.1 Mimesi imperfette. .................................................................................61 Capitolo 3 La pelle dell'altro 3.1. Sesso, corpi, linguaggi. .........................................................................96 Capitolo 4 4.1 The eighth harmony: la danza di SheitĂ n. ............................................133 Conclusioni................................................................................................161 Bibliografia................................................................................................173
INTRODUZIONE Questo studio tenta di evidenziare le differenti tipologie di visioni e giudizi sull'altro, nell'ambito delle narrazioni post-coloniali italiane, nel periodo che va da Tempo di uccidere di Ennio Flaiano uscito nel 1947, a La mia casa è dove sono, di Igiaba Scego uscito nel 2010. Le diverse categorie ideologiche che traspongono nei testi le varianti tematiche del discorso sull'altro, ci hanno portato ad individuare una tripartizione netta entro cui cartografare comportamenti, pulsioni e ideologie ricorrenti, che differenziano le narrazioni scelte. Le categorie con cui abbiamo ordinato questo repertorio letterario sono l'azione sulla pelle dell'altro, di cui troviamo memoria in Tempo di Uccidere di Flaiano e in Settimana nera di Emanuelli; il tentativo di identificarsi nella pelle dell'altro tramite Asmara addio e L'abbandono. Una storia eritrea, di Dell'Oro; il disagio insito nel racconto autobiografico di chi vive la dimensione di soglia dell'essere considerato altro, sentendosi medesimo, e racconta, in un certo senso, la dimensione di pelle dell'altro. In queste tre categorie di narrazioni si rintracciano svariati parallelismi tematici, utili a valutare il discorso sulle figure che hanno connotato l'immaginario coloniale, che riecheggiano nei testi veicolando la riflessione critica post-coloniale. La volontà di analizzare cronologicamente le opere scelte tenta di sottolineare i parallelismi o i mutamenti riscontrabili nella storia, sia culturale che sociale italiana, considerando le variazioni ideologiche che sottendono a questa produzione letteraria e ne determinano gli esiti. Il concetto conradiano di colonialismo come “rapina a mano armata” rifluisce come caratteristica costante nei testi, così come l'altra riflessione conradiana, sulla darkness che non si manifesta affatto nella wilderness africana, ma, al contrario, si identifica con la cifra originaria del colonialismo occidentale che, anche in epoca post-coloniale, non si libera dalle sue ipocrite giustificazioni e travestimenti. 1
La darkness sta nel cuore stesso della civiltà e trova solo una delle sue manifestazioni al confronto con il luogo selvaggio. Proveremo a concretizzare l'immagine della donna africana dipinta come un emblema di licenziosità ed erotismo ferino, che permette al bianco l'utilizzo della sessualità come strumento di dominio. Questo motivo, tra i più ricorrenti nei testi, connota l'abuso sessuale come strumento di dominio razzista, ma anche come vessazione di genere. Un altro percorso che abbiamo definito è quello analizzabile all'interno dei testi in cui i comportamenti subordinanti, che derivano dalla mancanza di attribuzione di una pari dignità all'altro, si impongono come concetto principale delle legittimazioni coloniali e delle loro memorie successive: così verrà evidenziato che molte descrizioni di affettuosità e di rispetto dell'occidentale verso il colonizzato, sono spesso connotate da venature paternalistiche che stridono con le dichiarazioni d'intenti paritari, che spesso precedono ed accompagnano i testi in cui si rintracciano. Il corpus letterario oggetto del nostro studio non è molto frequentato e, quando lo è, analizzato distrattamente, benché sia portatore di una memoria alternativa necessaria: esso riempie un varco di oblio nella narrativa italiana, anche se l'analisi storica di Del Boca pare completa, quanto spietata. Le tappe storiche fondamentali, che scandiscono i passaggi della nostra analisi, ovvero la conquista dell'impero, il colonialismo ed il successivo processo di decolonizzazione con le sue conseguenze, rientrano nel novero delle pagine più buie della storia d'Italia, nei decenni trattate dalla storiografia come episodi d'importanza contrattabile, grazie anche al concorso, oltre che dei canonici strumenti di comunicazione, di manuali scolastici, che hanno spesso tramandato una memoria coloniale benevola e falsificante. La tentazione di ammorbidire o negare le verità umane e storiche che turbano l'immagine consolidata del “buon popolo” italiano è messa sotto accusa da un patrimonio letterario che recupera una memoria alternativa, “contrappuntistica”
“[...] i padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. 2
L'immedesimazione nel vincitore torna ogni volta di vantaggio ai padroni del momento. […] La preda [...] è disegnata con espressione “patrimonio culturale” […] non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie. E come, in sé, non è immune dalle barbarie, non lo è nemmeno il processo della tradizione per cui è passato dall'uno all'altro. Il materialista storico si distanzia quindi da essa nella misura del possibile. Egli considera come suo compito passare a contrappelo la storia.”.1
Questo patrimonio, grazie proprio all'appartenenza alla sfera letteraria, estranea alla pretesa d'oggettività degli studi storico-scientifici (o presunti tali), permette di rilevare un doppio binario fatto di visioni e giudizi sull'altro, veicolati nei testi tramite l'oggettivazione di comportamenti e azioni che diventano paradigmi delle dinamiche colonialiste, mostrando come queste vengano utilizzate di volta in volta nei testi, con le proprie specificità, approfondendo o meno la riflessione postcoloniale. La ricerca nei testi disegna un percorso che si fa catalogo esemplificativo di atteggiamenti violenti verso l'altro, false coscienze e apologie ideologiche tipiche del metodo colonialista (a cui il colonialismo italiano non sfugge, né si sottrae), che le narrazioni post-coloniali ridiscutono e delegittimano arrivando, nei testi scritti nella nostra contemporaneità, ovvero in un momento storico in cui si manifesta l'urgenza di una riflessione teorica che agisca sul presente, a decretare la necessità che la contrapposizione si trasformi in incontro, in uno scambio reciproco tra identità e ciò che si presenta come alterità. Il primo capitolo, incentrato su Flaiano ed Emanuelli, chiarifica l'atteggiamento della maggior parte dei protagonisti italiani in colonia. Nei comportamenti dei loro protagonisti si respira non solo un'immagine storica degli italiani, ma anche una preoccupante somiglianza degli atteggiamenti descritti con quelli riscontrabili nell'Italia di oggi, in cui però, il movimento migratorio è invertito. Anche nel tentativo di salvare l'altro dall'oblio memoriale, insito nei testi di Dell'Oro, nata in Eritrea ed innamorata di quella terra che considera sua, si subodora un paternalismo strisciante, che distingue i suoi protagonisti bianchi dagli aguzzini coloniali, ma fa intuire al lettore la reale dimensione dei rapporti descritti: la loro appartenenza alla sfera delle relazioni che subordinano il colonizzato. 1 W. Benjamin, Angelus novus, Torino, Einaudi, 1962, pp. 78-79.
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La scelta di utilizzare come percorso conclusivo, sia cronologico che concettuale della tripartizione, la testimonianza di soglia di Scego, somala, ma italiana per nascita, cittadinanza e lingua, ci permette di analizzare gli stessi caratteri fondamentali dell'identità coloniale e post-coloniale italiana, trasposti in un territorio fisico ed ideale comune, in cui l'altro è anche, per una volta, l'identico, e sente su di sé il peso di ideologie e prassi, lontane dall'essere scomparse. Lucarelli, con L'ottava vibrazione, chiude invece il percorso tematico, non tanto per un'inclusione integrale nel nostro itinerario nella narrazione post-coloniale, visto lo sviluppo di una polifonia molteplice che non permette di incasellarlo in nessuna delle nostre categorie, quanto per la scelta dell'ambientazione coloniale (la battaglia di Adua) funzionale ad un'analisi critica sul presente, e per l'apertura all'altro che il testo
sembra
suggerire
come
unica
speranza
per
una
multiculturalità
contemporanea. Il romanzo di Lucarelli è stato sezionato anche per valutare l'utilizzo di un apparato ideologico coloniale formalizzato nell'uso di luoghi comuni che ripropongono, con altri esiti, i parallelismi tematici osservati nei testi precedenti. Il romanzo si apre con una bambina che danza, chiamata da un indigeno Sheitàn, il diavolo; la bambina apre e chiude anche una delle molte vicende narrate, quella di Vittorio Cappa. Sheitàn è una figura infera, primordiale, lurida, che, con la sua lentezza affascinante, ammalia chiunque entri in contatto anche solo visivo con lei: questa figura diabolica sembra una riproposizione della simbologia della wilderness, con cui il continente africano è stato spesso connotato dagli occidentali. Siamo in presenza, però, di un'immagine rovesciata: dell'innocenza, ma terribile, che si sostituisce alla consueta figurazione dell'Africa violata, rappresentata tramite il parallelismo con lo stupro di una donna bellissima. Se, come è ovvio, la produzione letteraria è uno tra i possibili rispecchiamenti dei caratteri identitari di un popolo, imbarazza - ma non sorprende - che la disorganizzazione dilagante e l'approssimazione, umana e politica, formino il ritratto più ricorrente nei testi che narrano le gesta degli italiani in Africa; al contrario, rimaniamo spesso sconcertati davanti alle descrizioni della violenza gratuita e del compiacimento coloniale, in ogni sua forma, che sembrano connotare, 4
con le debite eccezioni, i personaggi civili e militari narrati. I testi che analizziamo impongono al lettore, dunque, la decostruzione del mito “italiani brava genteâ€?2 e della tradizionale immagine della superioritĂ etica del colonialismo italiano, consolidata nelle mitografie coloniali, accertando, se ancora ce ne fosse bisogno, la scarsa plausibilitĂ nella distinzione tra un colonialismo buono e uno cattivo: la ricostruzione della memoria tramite la produzione letteraria permette di staccarsi dalla percezione che scaturisce della storiografia coloniale parziale, in genere strumentale e organica al potere del conquistatore. La storia incornicia i racconti che ne sono figure e i testi ci offrono una tassonomia di immagini e rapporti con l'altro, sviscerati in modi e contesti differenti, conservando la caratteristica comune della prevaricazione sul colonizzato, prima e del razzismo sullo straniero, o giudicato tale, poi. Una memoria letteraria che, preservando dall'oblio una pagina di storia italiana e decostruendo le sue mitografie sedimentate, ci consegna una visione dell'altro grazie a cui raccontare il presente ancor prima che il passato.
2 Questa formula, ormai diffusissima nella concezione comune del colonialismo italiano, è mutuata dal film di G. De Santis, Italiani, brava gente, 1964 (Italia/Russia), che racconta le vicende di un reggimento italiano, con soldati provenienti da diverse regioni, sul fronte russo: l'avanzata nel 1941, i difficili rapporti con gli alleati tedeschi, la disastrosa ritirata nell'inverno del 1942-43.
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CAPITOLO 1 SULLA PELLE DELL'ALTRO. 1.1 Inettitudine coloniale. Il Fascismo nel Corno d'Africa. Tempo di uccidere3 esce nel 1947 da Longanesi e vince nello stesso anno la prima edizione del Premio Strega, dopo essere stato commissionato dall'editore nel 1946. Il titolo è tratto dal libro dell'Ecclesiaste o Qoèlet4, libro sapienziale in cui si afferma la nullità del valore dell'esistenza, l'attestazione della vita umana come vanità. “Vanità, vanità, tutto è vanità”5: anche l'esperienza raccontata in questo romanzo sembra un cerchio che si chiude nel vuoto; l'atmosfera paranoica e surreale del romanzo, sempre sull'orlo dell'esplosione, si risolve in realtà sfumando nel nulla. Il romanzo, scritto di getto come una confessione privata, narra la vicenda di un anonimo tenente italiano durante la campagna abissina (1935-36), a cui Flaiano stesso prese parte come sottotenente e di cui ci ha lasciato un resoconto privato in Aethiopia. Appunti per una canzonetta6, ora in appendice a Tempo di uccidere. Trattandosi di un diario di guerra, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, ha un titolo quantomeno inaspettato, ma perfetto, vista l'ironia tagliente e pervasiva di questo grande del nostro novecento, in grado di ricostruire, in questo taccuino, le contraddizioni di un'impresa tanto assurda quanto fallimentare. Su Tempo di uccidere scrive Goffredo Fofi:
Erano gli anni del neorealismo, e anche se neorealismo è stato un coacervo di cose disparatissime, […] tuttavia continua a colpire l'originalità, “la diversità” di questo romanzo. Ormai da annoverare, mi pare, tra i pochi davvero 3 E. Flaiano, Tempo di uccidere, Milano, Rizzoli, 1973. 4 “Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,un tempo per demolire e un tempo per costruire” Ecclesiaste, 3. 1-3. 5 Ecclesiaste, 1: 2 6 Appendice in E. Flaiano, op. cit., pp. 289-313.
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“moderni” e grandi della nostra letteratura […]. La immane guerra “mondiale” aveva fatto dimenticare ( anche per ovvie necessità di lavacro da parte di una generazione che era stata, prima di passare alla resistenza e alla sinistra, fascista se non altro per motivi anagrafici) l'avventura di una guerra “locale” come quella coloniale dell'etiopia. Flaiano quella guerra l'aveva fatta, e, molto probabilmente, era stata quella “la sua università”, il luogo della formazione profonda, del confronto con se stesso e tra se stesso e gli altri. Ipotizzo ancora: il luogo di uno smascheramento della retorica fascista e nazionale e razzista e di un sé in fondo collettivo, di un sé piccolo-borghese italico e provinciale che egli non doveva amare molto, e dal quale il romanzo gli permetteva di liberarsi più in profondità, inventandosi altro nel protagonista del romanzo. Questo altro – alter ego – va raccontato, capito, smontato, allontanato, esorcizzato per poterne recidere, alla fine, quello in cui ti somiglia, quello che allora in parte ti apparteneva e che ancora non sei riuscito a tagliar via del tutto. […]. Paradossalmente, questo romanzo che apparve allora come poco neorealista e poco “cosciente della storia” nella sua prima persona narrante dalla nebulosa coscienza, ci può apparire ora – proprio per la sua solo apparente non-oggettività – più “realista” di tantissimi altri di quegli anni, amati dalla critica più “politica”, che lo era a livelli estremamente primari. Tempo di uccidere parla di un graduato poco convinto […] nella sua scarsa flaccida cedevole moralità di superficie egli è mosso in sostanza da sensi di colpa che non riescono ad affiorare del tutto, e dai quali l'autore ha invece, a mia impressione, pienissima convinzione. […]. In quel “lui” molto ci dev'essere del “sé” del Flaiano di allora, del 1935-36. […]. Tempo di uccidere è in definitiva bello e importante perché riesce a essere contemporaneamente un “romanzo storico” e un'eccezionale descrizione della povertà umana e morale della borghesia e piccola-borghesia italiana, a cominciare dagli intellettuali. Del 36, del 47, e – Flaiano non avrebbe esitato a sostenerlo – anche di oggi.7
Ci sorprende la cautela con cui Fofi suggerisce la “pienissima convinzione” di Flaiano nella condanna del Fascismo, che è al contrario, siamo convinti, l'obiettivo di questo romanzo. Questa prudenza critica, espressa dalle parole “ipotizzo ancora” e “a mia impressione” ci dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che il potenziale accusatorio di Tempo di uccidere è sempre stato un tabù infrangibile e l'intenzione profonda del romanzo, da velare o su cui sorvolare. In un momento storico di forte necessità di riflessione e ricostruzione, Flaiano si discosta dalla tendenza neorealista imperante: escono nello stesso anno Il compagno di Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, Il cielo è rosso di Berto, L'oro di Napoli di Marotta, Cronaca familiare di Pratolini, Spaccanapoli di Rea. 7 G. Fofi, Strade maestre: ritratti di scrittori italiani, Roma, Donzelli, 1996, p. 60.
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Pur condividendo la riflessione antifascista di alcuni di questi testi, Flaiano si volge in altra direzione, verso un racconto cioè in cui la guerra è protagonista, ma non come riproposizione cronachistica di gesti e azioni. A distanza di dieci anni dalla fine della campagna d'Etiopia, questo romanzo diventa un vero e proprio emblema metonimico della politica e dell'ideologia fascista, un quadro lucido e amaro di una guerra che rispecchia un ventennio, e forse anche, profeticamente, la nostra attualità.
All'inizio degli anni Trenta, mentre le grandi potenze coloniali europee sono impegnate, in varia misura, nella “valorizzazione” delle colonie[...] l'Italia fascista, in un anacronismo reazionario, vagheggiava il sogno di un impero africano. Sebbene ultima arrivata, insieme alla Germania, nello scramble for Africa consumatosi tra il 1870 e il 1914, e con un bottino alquanto magro, comprendente la piccola Eritrea (1885), la desertica Somalia (1889) e la ribelle Libia (1911), l'Italia di Mussolini si mostrò decisa a puntare ancora sulla carta coloniale. Dopo la “riconquista” della Somalia e della Libia tra il 1925 e il 1929, a suon di repressioni brutali e campi di concentramento, la politica coloniale del regime scelse come obiettivo ulteriore l'Etiopia del negus Hailé Selassié, e dal 1932 cominciò a preparare il terreno diplomatico e militare per l'espansione verso l'unico avversario abbastanza debole da garantire all'Italia il successo sicuro e, relativamente, rapido di cui aveva bisogno. Nella logica del regime una vittoria schiacciante contro l'unico paese africano rimasto indipendente sarebbe infatti servita non solo per ottenere il riconoscimento internazionale di grande potenza, ma anche per rinsaldare il consenso interno e per riavviare l'economia messa a dura prova dalla crisi del 1929.8
Mussolini aveva visto nella Campagna d'Abissinia non solo la possibilità di riscatto e affermazione dell'Italia fascista, ma anche la realizzazione dell'identità tra fascismo e sentimento d'italianità; così mise in atto una politica propagandistica aggressiva volta all'“africanizzazione” dell'Italia, che investì la scuola, le istituzioni e, per la prima volta in maniera organica, i mezzi di comunicazione di massa9: 8 G. Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa orientale: una storia di genere,Verona, ombre corte, 2007, p.31. La campagna d'Etiopia, con la sua immensa mobilitazione di uomini e mezzi, trascinò l'Italia sull'orlo della bancarotta alla vigilia della Seconda guerra mondiale. “È stato infatti calcolato che per la preparazione e lo svolgimento delle operazioni militari l'Italia spese una cifra oscillante intorno al miliardo di lire al mese[...]” Ivi, p.32. 9 Grazie alla centralizzazione della politica culturale permessa dalla costituzione del Ministero per la Stampa e la Propaganda nel 1935, ogni giorno infatti “migliaia di messaggi, alcuni confezionati con sottile malizia altri con efficace rozzezza, raggiungono gli italiani attraverso le 530.000 radio private, gli 11.000 apparecchi posti nelle scuole e nelle organizzazioni del regime, gli 81 quotidiani e i 32 periodici politici, i cinegiornali e i documentari dell'Istituto Luce.” A. Del Boca, Gli Italiani in Africa orientale, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 284. In G. Stefani, op. cit., p.32.
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Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di 44 milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un po' di posto al sole. [...] Mai, come in questa epoca storica, il popolo italiano ha rivelato le qualità del suo spirito e la potenza del suo carattere. Ed è contro questo popolo, al quale l'umanità deve talune delle sue più grandi conquiste, ed è contro questo popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di trasmigratori, è contro questo popolo, che si osa parlare di sanzioni.10
Questo è uno stralcio del discorso di Mussolini per la mobilitazione generale alla campagna d'Etiopia: la grandezza d'animo del popolo italiano, verrà presto smentita dai crimini documentati dai pochi storici che hanno ricostruito questa pagina di storia quasi dimenticata. L'etica coloniale fascista è ben riassunta da Angelo Filippi, contadino friulano, volontario in Etiopia, che con questa sintesi mette in luce, nascosta dlla missione morale che si impone al popolo italiano, la logica utilitaristica ed economica che fonda ogni colonialismo:
Perché avventurarsi in quella guerra senza né vantaggi né giustificazioni? L'etica fascista fondava le sue basi sul trimonio: Dio, Patria, Famiglia. Erano questi i principi fondamentali sui quali gli italiani del tempo improntavano la loro vita. Dio- Andare in Africa significava operare per la Chiesa di Cristo: Evangelizzare. Essere portatori di civiltà. Essere Missionari, pionieri in terre sconosciute ed abitate da popoli primitivi. Patria- Andare in Africa significava desiderare il bene della propria patria. Assicurare al proprio paese le materie prime il lavoro e la possibilità di emigrare. Non per combattere e uccidere, ma per far rispettare i diritti dell'uomo, per accrescere il prestigio del nostro popolo. Famiglia- Andare in Africa era per me una via più breve e sicura per realizzare i sogni della famiglia. Significava trovare un impiego al termine della campagna di conquista coloniale, nella terra africana per la quale avevo arrischiato la vita.11
Illuminante a tal proposito il commento sulla prima delle tre istanze su cui si basa l'impresa fascista, in Aethiopia. Appunti per una canzonetta.12, il cui esordio è
10 B. Mussolini, Mobilitazione per la Campagna d'Abissinia, Discorso ai microfoni dell'Eiar ( Ente italiano per le audizioni radiofoniche), 2 ottobre 1935: 11 Archivio Diaristico Nazionale (ADN), A. Filippi, Dalle Alpi alle Ambe, p. 12, in G. Stefani, op. cit., 37. 12 E. Flaiano, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, Appendice in op. cit., pp. 289- 313.
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Le colonie si fanno con la Bibbia alla mano, ma non ispirandosi a ciò che vi è scritto.13
Il primo commento del diario di Flaiano è una verità tagliente, monumentale e definitiva che rifluisce con mimesi perfetta in Tempo di uccidere: il tenente protagonista utilizzerà sintomaticamente le pagine della Bibbia come cartine per sigarette; tutto è destinato a dissolversi nel fumo, specchio della sua vanità e dell'impresa coloniale. Nei crimini, nell'ipocrisia e nell'idiozia grottesca del suo protagonista, Flaiano smaschera le motivazioni propagandistiche della impresa coloniale italiana. Nel suo racconto si evidenziano, non tanto e non solo la disorganizzazione e l'approssimazione dell'esercito italiano ma, in misura maggiore, la propensione al crimine e al sopruso che connota i rapporti in cui l'altro è considerato inferiore o privo di valore umano. Tale caratteristica è appartenuta al colonialismo italiano, così come ad ogni altro colonialismo in ogni tempo ed in ogni luogo, perché essenza stessa della logica che lo fonda, come intuito da Todorov ne La conquista dell'America. Il problema dell'“altro.”
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Nella classificazione delle varie tipologie
di conquista, nella terza parte del saggio, dal titolo “Amare”, nel paragrafo “Comprendere, prendere e distruggere”, troviamo questa riflessione tanto chiara quanto paradigmatica:
[...]se il comprendere non si accompagna al pieno riconoscimento dell'altro come soggetto, allora questa comprensione rischia di essere utilizzata ai fini dello sfruttamento, del “prendere”; il sapere risulterà subordinato al potere.15
Dunque Todorov riconosce l'impossibilità di instaurare rapporti umanamente accettabili nel momento in cui “l'altro” non viene considerato un soggetto, ovvero parte integrante e partecipe di un rapporto duale. Gli episodi brutali che incontreremo nei testi, non sono altro che lo svolgimento di questo paradigma; i protagonisti non sono minimamente interessati alla conoscenza dell'altro e limitano 13 Ivi, p. 289. 14 T. Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell'“altro”, Torino, Einaudi, 1993. 15 Ivi, p. 161.
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le proprie osservazioni a frasi di una superficialità sconcertante. l'“altro”, uomo o donna che sia, serve e viene considerato soltanto come strumento, come mezzo da sfruttare per l'incremento del proprio potere, o ricchezza o narcisismo. Come ben definito da Conrad in Cuore di tenebra:
Non erano colonizzatori; la loro amministrazione, sospetto, si riduceva al mero sfruttamento e basta. Erano conquistatori, e per questo ci vuole solo la forza bruta; niente di cui vantarsi, se ce l'hai, perché la tua forza è solo un fatto contingente che sorge dalla debolezza altrui. Quelli arraffavano tutto quanto potevano per amore di quello che c'era da prendere. Era proprio una rapina a mano armata, omicidio aggravato su vasta scala, di uomini che agivano alla cieca, come del resto ben si addice a chi è alle prese con le tenebre. La conquista della terra, che in generale vuol dire portarla via a chi ha una pelle diversa dalla nostra o un naso un po' più schiacciato, a pensarci bene non è proprio una bella cosa.16
Il quelli di cui parla Conrad può essere riferito ciclicamente e senza esclusioni ai colonialisti di ogni tempo e di ogni nazionalità, non c'è nessuna dissonanza tra le loro violenze e i loro metodi. Tempo di uccidere, che analizzeremo scandagliando gli episodi fondamentali per la nostra analisi, racconta la storia di un tenente che si allontana dal proprio accampamento, grazie ad una breve licenza, in cerca di un dentista che guarisca il suo doloroso mal di denti. Dopo essersi perso nella boscaglia, incontra, stupra, ed uccide, non troppo accidentalmente, un'indigena. Dopo aver nascosto le tracce del proprio crimine, il tenente prosegue il suo viaggio, angosciato dal sospetto di aver contratto la lebbra dalla ragazza violentata. Il tenente perde progressivamente la ragione: tenta di uccidere un medico, da cui crede sarà denunciato e fatto rinchiudere in un lebbrosario, e scappa. In una fuga continua, come se già non si fosse macchiato di sufficienti colpe, il tenente prova, ancora senza successo, ad uccidere un maggiore a cui ha rubato del denaro, derivante da traffici illeciti, per pagarsi il viaggio clandestino di ritorno in Italia. Non conta più per la sua mente squilibrata l'essere in possesso di un regolare permesso di rimpatrio: in preda a deliri di persecuzione diserta e, vagabondando, torna sul luogo del delitto, obbligando un vecchio, unico superstite di un villaggio e 16 J. Conrad, Cuore di tenebra, Milano, Rizzoli, 1989, p. 21.
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probabilmente padre della sua vittima, a sopportare la sua sgradita presenza. Come un ritorno alla propria coscienza, in seguito all'esplosione delle folli manifestazioni del senso di colpa sempre frainteso o equivocato, il tenente non sembra in grado di allontanarsi dal luogo del delitto, ma allo stesso tempo non viene sfiorato dalla volontà di assunzione delle proprie responsabilità, che lo porterebbe a perdere il diritto all'impunità. Quando in seguito ad una visita casuale dei carabinieri al villaggio, sollecitata da un ennesimo episodio di inettitudine del tenente, il protagonista decide di tornare all'accampamento, assumendosi il rischio di una condanna, scopre che tutta la compagnia si sta preparando al rimpatrio definitivo e che non c'è nessun interesse né punizione per i suoi crimini tentati o riusciti. In un'allegoria del vuoto etico che circonda l'esperienza coloniale, la vicenda si risolve nel nulla di fatto di coscienze immuni dal senso di colpa, certe della propria superiorità nei confronti di luoghi e popoli, relegati al ruolo di subordinati, di pedine da muovere e sfruttare. L'attesa redenzione non arriva, il romanzo si chiude nell'aleggiante odore di putrefazione e morte che ben descrive l'azione coloniale. Per quanto riguarda la nostra tripartizione, Tempo di uccidere si rivela incredibilmente efficace a stigmatizzare la tipologia narrativa che abbiamo definito come racconti sulla pelle dell'altro. Il testo è geniale, ricco di intuizioni che ne permetterebbero un'analisi riga per riga, parola per parola. L'ironia e il cinismo spietato di Flaiano non nascondono la sofferenza e l'amarezza che sottendono al testo e che lo fanno descrivere dall'autore come un vero e proprio esorcismo, in cui, come in un'opera cinematografica sembra di poter individuare le carrellate sulle azioni e sui protagonisti emblematici, in un'atmosfera surreale e statica che pervade tutta la narrazione, lontanissima dalla volontà di rappresentazione realista. Ci limiteremo a considerare gli episodi chiave di questo romanzo, tentando di sottolineare progressivamente la ricerca della mimesi tra significato storico e significante letterario. In Tempo di uccidere, Flaiano mette magistralmente in scena la pantomima 12
coloniale, tramite le gesta, o meglio la stasi e il vuoto etico, del tenente protagonista. In questo epos senza eroe, si riflette tutta l'amarezza della presa di coscienza dell'orrore del fascismo come ideologia e come pratica, che si rivela, in terra africana, una grottesca parodia di se stesso. E' l'autore stesso a confessare che l'esperienza africana diventa esplosione di senso e coscienza del fascismo; il significato profondo del fascismo che in patria non si riusciva ad afferrare, in Africa riluce come verità cristallina ed immediata. Il cosiddetto “romanzone”, così ribattezzato da Maria Corti17, questo unicum nella produzione di Flaiano, si addentra nel territorio della totale inettitudine e dell'autoinganno dell'anonimo tenente protagonista, che si assolve continuamente grazie alla totale mancanza di visione del reale e all'estraneità al concetto di rispetto dell'altro; niente che si allontani maggiormente dall’ideologica e propagandistica rappresentazione di un eroe coloniale che, in nome della propria illuminata civiltà superiore, ne conquista e ne civilizza un’altra. L'anonimato del tenente non è casuale, come a sostanziare la comunanza nell'orrore coloniale di ogni suo protagonista attivo e consapevole, il tenente è lo specimen coloniale; l'identità specifica data da un nome e un cognome sarebbe del tutto superflua, in presenza di un grado militare che già di per sé categorizza e spiega. Come tutto è ammissibile per la salvaguardia del “posto al sole”, così tutto è permesso per preservare la propria condizione di privilegiato, impunito, senza capacità di rimorso o redenzione. Come vedremo procedendo nell'analisi del testo, l'ipocrisia radicata nel protagonista non viene rivolta esclusivamente verso e contro gli indigeni, naturalmente considerati inferiori, ma verso l'umanità tutta, che risulta spesso un ostacolo e un limite alla sua immunità. Mariam è un sacrificio umano, la sua morte paradossale, traccia indelebile della totale mancanza del suo valore umano per il tenente, è in realtà mitizzata e nascosta dal manto surreale e romanzato dell'inevitabilità del caso; non solo il tenente decide di finirla e disfarsene come un oggetto di poco conto, ma lo snodo fondamentale di 17 M. Corti, Introduzione a E. Flaiano, Opere, 2 voll., a cura di M. Corti, A. Longanesi, Milano, Bompiani, 1988, p. XXIX.
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questo assurdo sacrificio, il pericolo avvertito nell'ipotetica bestia nel buio contro cui il tenente spara, in realtà è un'ombra di coscienza e non esiste. Il tenente vede un'ombra poco distante dal giaciglio su cui sta passando la notte con la donna a fianco, l'ombra rapidissima passa davanti all'uomo e lui spara. La rapidità dell'avvertimento del senso di colpa per lo stupro di cui si è macchiato, illumina la coscienza del tenente solo per un istante, e lo porta, in un groviglio di pensieri confusi, a dare i significati sbagliati, come sempre, a ciò che lo circonda. La bestia è solo l'emergere dalle profondità della sua anima corrotta della sua essenza dominante: è coscienza e paura del proprio potenziale distruttivo, del marciume morale; dell'ipocrisia che lo paralizza; dell'incapacità di rimorso. Uno dei proiettili rimbalza su una pietra colpendo la ragazza, il tenente non trovando nessun'altra via d'uscita alla grottesca situazione, decide, non potendo, o volendo, salvare la donna, di finirla con un colpo alla testa. Secondo la nostra analisi, i rapporti imposti di superiorità dell'uomo bianco sull'umanità nera, ricorrenti in ogni narrazione che abbiamo analizzato, non sono altro
che
riproposizioni
e
specchi
dell'ideologia
coloniale
che
assolve
l'ingiustificabile prevaricazione sul territorio e sul genere umano altro; da una parte l'imperialismo, dall'altra il suo sostanziarsi in uno o più individui. Nella fase iniziale della vicenda, come abbiamo detto, il tenente è alla ricerca di un dentista; in seguito all'uscita di strada dell'autocarro su cui viaggia, ci si presenta una prova tangibile dell'egoismo del tenente, della sua spregiudicata falsità verso un commilitone, che si risolve nel primo, indicativo, abbandono:
“E così mi lascia solo?” Per mitigare la mia fuga cercai un pretesto, ma era un cattivo pretesto[...]sarei tornato ad aiutarlo. Il soldato finse di crederci e questa sua improvvisa ed ostile condiscendenza mi fece arrossire. Mi strinse la mano senza calore, veramente deluso. Dopo cinquanta passi, un gomito della strada me li nascose, lui e il suo autocarro, e d'allora non li ho più rivisti.18
Il tenente dà espressione immediata alla noncuranza che sarà la cifra caratteriale principale nelle disincantate descrizioni a lui riservate: arrossisce, ma di un 18 E Flaiano, op cit., p. 26.
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imbarazzo dovuto soltanto alla coscienza della propria bugia; il tenente è intriso di menzogna e di un finto altruismo che serve solo come maschera liberatoria. Non c'è nessun interesse o comprensione verso chi affronta il suo stesso destino; soltanto una convenienza privata lo guida nel viaggio. Il tenente inizia così ciò che può definirsi il suo viaggio infernale, nell'abisso interiore continuamente celato sotto l'oscurità inesplicabile di un altrove africano. Poco dopo, nell'incontro con un gruppo di operai ci si offre una delle tante rivelazioni del senso intimo di questo romanzo: il tenente è in cerca di un passaggio sugli autocarri che potrebbero portarlo a destinazione19 e la richiesta di informazioni, che lo porterà a scegliere la scorciatoia, con tutte le conseguenze che analizzeremo, è in realtà un'anticipazione geniale delle tematiche essenziali ed intime del romanzo. Per la prima volta, in questo luogo che separa il noto dall'ignoto, in questa soglia che permette di addentrarsi nelle verità scomode e nelle concretizzazioni essenziali dei crimini coloniali, si avverte l'odore della morte.
“Se prende la scorciatoia, risparmia metà tempo”.[...] sbagliare” […] “Segua sempre il puzzo dei muli morti”.20
“Non potrà
Sarà seguendo l'odore dei muli in putrefazione che il tenente riuscirà a realizzare il suo destino: in una sorta di mappa dell'itinerario coloniale storico e umano, il puzzo dei cadaveri in putrefazione sarà il segnale olfattivo da annusare e seguire per raggiungere il traguardo, mimetizzandosi con la barbarie dilagante. Concetto da non sottovalutare perché questa guida nella scelta della via da seguire identifica in realtà lo spirito coloniale, che nella morte risolve la volontà di potenza: se il mal di denti, che spinge il tenente ad avventurarsi nella boscaglia è la spinta alla scrittura che dirime il groviglio etico del Flaiano uomo, il fetore della morte da fiutare e seguire è il metodo di ricerca di questo romanzo. Il crimine del tenente sarà personale solo nella contingenza, ma esemplare e 19 Ma ci viene subito confessato che le indicazioni richiesta servono come pretesti per tergiversare, vista la repulsione verso il viaggio da intraprendere. Come una sensazione avvertita e respinta. 20 E. Flaiano, op. cit., p. 29.
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collettivo, perché descrizione metonimica di crimini più invasivi che furono il fascismo stesso e la sua smania imperiale. La considerazione che segue immediatamente, ironica e paradossale al tempo stesso, rivela un altro aspetto subitaneamente percepibile nel carattere del tenente e nella sua tendenza costante ad attribuire colpe a chiunque tranne che a se stesso:
Era soltanto un operaio desideroso di essermi utile[...]. Il Cielo mi guardi dall'insinuare il sospetto che egli sia più che una semplice comparsa, e che al suo intervento si debba quanto mi seguì.21
L'insinuazione è invece, nel pensiero del protagonista, automatica e pertinente, come se l'operaio fosse nient'altro che una delle innumerevoli pedine mosse perché il destino del tenente, intriso di morte, si possa compiere. Una figura quasi diabolica, inesplicabile, come l'arlecchino di Cuore di tenebra.
Lo guardai, imbambolato dallo stupore. Stava là, davanti a me, vestito da arlecchino, come se fosse fuggito da una compagnia di mimi, entusiasta, favoloso. La sua stessa esistenza era inverosimile, inesplicabile, e del tutto stupefacente. Era un problema insolubile. Era inconcepibile come avesse potuto esistere, come fosse potuto arrivare così lontano, come avesse fatto a rimanere - perché non scomparisse di colpo.22
Come se la sua colpa, impunibile e irredimibile dovendosi collegare ad una serie di sfortunati eventi, o ad una forza esterna, e non ad una volontà colpevole e perversa volta all'autoconservazione, si potesse attribuire al fato e non ricadere sull'egoismo e la crudeltà del tenente. Ma le carogne dei muli, che effettivamente sono sulla strada e che scopriremo in seguito essere l'ostacolo che impedisce la vista e la scelta della scorciatoia giusta, sono richiamo interessante alla simmetria tra la morte, signora dell'esperienza coloniale e l'essenza intima dell'impresa del tenente, nonostante le sue giustificazioni e la sua malafede.23 21 Ibidem. 22 J. Conrad, op. cit., p.72. 23 “Consideravo la rivoltella un ornamento dell'uniforme, la pulivo regolarmente, ben certo che non sarebbe servita a nulla. Ero venuto in quella guerra sicuro che non l'avrei adoperata. A che serve? Tante armi ci sono
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L' odore di morte, come notato da Mario Domenichelli in Flaiano's A Time to kill and Conrad's Heart of Darkness24, è un emblema, una connessione ben precisa: il mulo morto devia il cammino del tenente, lo conduce all'incontro con Mariam e al suo stupro e conseguente omicidio, lo guida nel territorio della morte, in cui il tenente precipiterà in una spirale di follia e di crimini, rispecchiamenti speculari del valore morale delle conquiste occidentali. Il riferimento a Cuore di tenebra, è presente in tutto il testo di Flaiano. Le descrizioni di Mariam e i concetti espressi dal tenente sulle sue capacità intellettive sono un traslato dell'ideologia imperialista che ha permesso decenni di sfruttamento territoriale ed umano, in nome della missione civilizzatrice dell'uomo bianco, o della tanto auspicabile abolizione della schiavitù, o delle altre innumerevoli e colpevoli ideologizzazioni di cui è stata adornata la nefandezza coloniale. Uno fra i numerosi pregi di questo romanzo è senza dubbio la possibilità data al lettore di percepire immediatamente la dissonanza insita nella pretesa di civilizzazione dell'indigeno da parte dell'uomo bianco, i principi su cui quest'idea squilibrata si basa e la sue barbare manifestazioni. Il tenente, dunque, sta cercando la sua strada nella boscaglia: ridicolo fino al grottesco, con l'indecisione e l'incoerenza che lo caratterizzano, il tenente alterna la speranza di trovare la strada, alla rassegnazione di essersi perso e di non aver trovato la scorciatoia facendo scelte sbagliate, in una continua metafora della sua altalenante esistenza, quando finalmente, avverte il tanto agognato fetore di carogna, nella boscaglia in cui regna una pace antica 25.
Ora sentivo, ma non volevo illudermi, sentivo il fetore di una carogna, il fetore di un mulo. Forse ero salvo. Cercai con gli occhi e la mano andò rapida alla rivoltella, mentre il cuore mi dava un tuffo. Seduto a terra un abissino mi guardava[...] guardava proprio me, fisso, senza muoversi, un occhio aperto e uno socchiuso.26 di più potenti per tenere a bada un nemico che non ne ha.[...] Chi è stato? Io no. Io sparavo da quella parte.” Ivi, p.72. 24 M. Curreli (a cura di), The Ugo Mursia Memorial Lectures. Second Series. Papers from the International Conrad Conference. University of Pisa, September 16th-18th 2004, ETS, Pisa. 25 Ivi, p. 32. 26 Ivi, p. 34.
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Il fetore c'è, la carogna pure: umana. Come un avvertimento, una premessa: il tenente inizia a vacillare, senza punti di riferimento né aiuti di nessun genere. La mappa in dotazione su cui cerca di orientarsi, anche se vecchia di mezzo secolo, sarebbe comunque un indizio valido, se il tenente avesse gli strumenti umani necessari a decifrarlo, un sentiero sulla mappa è infatti indicato con il nome di Hargez, coccodrillo, come vedremo molto più che un semplice campanello d'allarme. In cerca della strada, “che fosse dei pastori, degli struzzi o dei coccodrilli, e un sentiero senza nome, con la sua brava carogna di mulo della Sussistenza, oppure con un soldato che sta leggendo un giornale del mese, scorso!”27, il tenente si scontra solo con il suo destino. Ad un tratto, la vista di una donna che si lava sembra spezzare la monotonia della passeggiata nella boscaglia:
Tra gli alberi c'era una donna che stava lavandosi.[...]non si accorse della mia presenza. Era nuda e stava lavandosi a una delle pozze, accosciata come un buon animale domestico.[...]”C'è di tutto in questa boscaglia”dissi.28
Sì, di tutto, anche una donna da violentare. Come un turista stupefatto ad un safari, il tenente osserva la varietà di flora e fauna che la boscaglia africana offre al visitatore: alberi, camaleonti, coccodrilli e giovani indigene, che a ben vedere non mostrano differenza qualitativa con gli altri abitanti della boscaglia se non la prevedibile addomesticabilità. La descrizione di Mariam, rientra nel canone del ritratto della donna africana offerto dalla maggior parte delle descrizione dei bianchi; Flaiano riesce magistralmente a presentarci la donna attraverso gli occhi di un'ideologia ormai sedimentata, con cui il tenente si fonde senza sforzi:
Perché disturbarla? Era di pelle molto chiara, ma non badai a questo particolare, sorprendente in quella boscaglia. Soltanto sulle montagne di Gondar avevo incontrato donne di pelle così chiara, dove, suppongo, la 27 E.Flaiano, op. cit., p. 36. 28 Ivi, pp. 36-37.
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dominazione portoghese ha schiarito la pelle e i desideri delle donne che si incontrano.29
Supposizioni di questa maliziosità hanno probabilmente legittimato la maggior parte dei rapporti fra uomo e donna in epoca coloniale; il tenente non avverte minimamente l'idiozia della sua analisi, anzi, proprio questa catalogazione superficiale, sui millantati desideri sessuali delle africane annullerà ogni remora ad abusare della donna.
Per lavarsi la donna aveva raccolto i capelli in una specie di turbante bianco. Ora che ci penso: quel turbante bianco affermava l'esistenza di lei, che altrimenti avrei considerato un aspetto del paesaggio, da guardare prima che il treno imbocchi la galleria. Quel fazzoletto di cotone definiva ogni cosa, e io non sapevo che avrebbe definito tutto.30
Ecco la donna, definita, catalogata come in una riserva naturale; il simbolo che farà esplodere la follia del tenente, è ad un primo approccio un cartellino che etichetta la donna differenziandola dalla natura in cui è immersa e di cui fa parte integrante: un po' più di un animale, un po' meno di una donna.31 Le descrizioni che seguono sono inanellate in un resoconto che spicca per superficialità e malafede: apologizzando a priori la violenza che il tenente sta per compiere, inverte i postulati del possibile sillogismo annientando ogni scrupolo, in modo tale da autoassolversi, colpevolizzando la donna. Leggendo in ogni gesto un invito, la scena muta in una trasfigurazione quasi onirica in cui il tenente sembra spinto allo stupro dalla malizia consapevole della ragazza. Dall'inizio del racconto del tenente, tutte le vicende sembrano essere avvolte da una coltre di fatalità; la pratica dell'autoassoluzione passa attraverso l'inevitabilità delle azioni e dei pensieri che pervadono la narrazione:
Avevo finito la sigaretta e mi avvicinai, dovevo passare di lì per raggiungere il sentiero.[...] 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 38. 31 A tal riguardo, per un bilancio complessivo, dovremmo confrontare queste affermazioni con le stucchevoli frasi riservate alla Lei italiana.
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I suoi pensieri, se ne aveva, si muovevano pigramente e non riguardavano la mia persona. La donna non supponeva che in quegli istanti la valle mi stava apparendo veramente fittizia, creata da un desiderio che non avevo mai osato confessarmi. Non supponeva davvero che la desiderassi, oppure non si muoveva appunto perché rispettassi la sua calma. Una donna che fugge attira l'inseguitore, anzi lo crea. Istintivamente lei doveva pensare questo e perciò stava ferma, aspettando di vedermi proseguire. O pensava che potevo dirglielo chiaramente.32
Siamo in presenza dello sviluppo di uno dei tipici monologhi interiori del tenente: è lui il solo a dettare le regole del gioco ed ipotizzarne un potenziale vincitore; quelle che a primo impatto sembrano solo illazioni mentali nascondono il percorso illogico che si risolve nello stupro, in una decisione che ammette solo inutili dissertazioni, che infatti non tardano ad arrivare.
Ero un “signore”, potevo anche esprimere la mia volontà. Se anzi mi fossi preso il fastidio di seguirla sino alla sua capanna e avessi detto: “Voglio sposarti per un mese o due”, lei mi avrebbe seguito senza chiedersi nulla. Il padre avrebbe raccolto le poche monete nella mano, e la donna mi avrebbe seguito, all'avventura.33
In questa dialettica commerciale, il dubbio si riduce immediatamente al calcolo sull'inutilità di quella conquista e al peso che poi la merce comprata impone di dover sopportare. Un peso esclusivamente materiale, vista la cifra d'umanità del tenente.34 Non c'è margine di contrattabilità nello squallore del protagonista: ogni suo pensiero si macchia di colpevolezza, ogni sua tensione apologetica non fa altro che sottolineare la bramosia illegittima:
No, la bellezza che si trova nei sogni è prudente lasciarla sul cuscino (o nelle boscaglie), e non portarsela in giro: si rischia di dover fornire troppe spiegazioni. O l'avrei rimandata al suo villaggio. E lei, per tutto il tempo 32 Ivi, p.39. 33 Ivi, p. 39. 34 “Ma era un'idea assurda, perché non si torna al campo e non si entra nella tenda della mensa gridando: “Esposito, un altro coperto”. Dopo un paio di notti, stanco di doverla nascondere, avrei cominciato a studiare la maniera di disfarmene, cedendola a qualche disincantato ufficiale magazziniere.” Ibidem.
20
pattuito, mi sarebbe rimasta fedele senza sforzo.35
Tre passaggi fondamentali in questa breve citazione. Non ci sembra trascurabile la considerazione che Mariam, bellezza onirica, venga lasciata sì nella boscaglia, ma morta, uccisa dal tenente. Inoltre, il fatto che il tenente ipotizzi, ma mentendosi spudoratamente, un rapporto
coniugale,
anche
se
a
tempo
determinato,
è
immediatamente
ridimensionato dal fastidio che deriverebbe dall'assunzione di responsabilità dell'atto, con conseguente pubblica giustificazione con la compagnia e i commilitoni. Per finire, ci viene illustrato che, come in ogni rapporto di stupro coloniale degno di tale nome, l'abbandono rimane la soluzione più adatta, sicuramente la meno rischiosa; del tutto superflue le considerazioni sulle conseguenze di una scelta che sviluppa in pieno la dinamica servo-padrone. Il ritmo della narrazione tende ad aumentare, il tenente come precedentemente nella boscaglia, ingaggia una lotta con se stesso (dall'esito scontato, viene da commentare), tra l'esigenza di andare, ritrovando la strada, e l'impulso a restare, godendo di una delle bellezze tipiche del luogo. Il balletto della logica corrotta rimbalza tra assurde considerazioni sul crimine che sta per commettere: tutto pur di non razionalizzare il proprio comportamento, addirittura una dissertazione sulla preda che contribuisce alla creazione del predatore. Il tenente chiede informazioni e la donna si avvicina, inconsapevole.
Non vedevo il suo corpo nudo, ma sentivo quel seno noncurante vicino alla mia spalla. Lo toccai. Mi tolse la mano dal seno, quasi con terrore, e si rimise nella pozza.36
Ciò che qualunque essere umano dotato di decenza o di buon senso può considerare esclusivamente un rifiuto, scatena nel tenente un flusso di illazioni 35 Ivi, p. 40 36 Ivi, p. 40.
21
estranee ad ogni equilibrio mentale; considerazioni del tipo: [...]mi chiesi come si poteva simulare a tal punto l'innocenza37, e dopo aver dilatato inutilmente i tempi della lotta fittizia con se stesso e aver deciso di sostare ed approfittare della donna: […] la rimisi a sedere bruscamente, la stessa febbre di prima m'aveva ripreso; e lei mi respingeva con fermezza38, le giustificazioni che sa darsi, esilaranti se non fossero tragiche, sono queste:
Ma il mio desiderio così male espresso non l'offendeva: non ne faceva una questione di belle maniere e di opportunità. Respingeva le mie mani perché così Eva aveva respinto le mani di Adamo, in una boscaglia simile a quella. O forse per aumentare il valore dell'impresa, perché il respingere è una fase del gioco, o perché aveva paura. Ma paura di che? Non era certo la paura di essere violata, ma quella più profonda della schiava che cede al padrone.[...] O forse sottilizzavo troppo?[...] Non era soltanto timore che non la compensassi?39
Probabilmente no, visto il netto rifiuto di accettare le monete. Questo passaggio risulta d'importanza fondamentale non solo per l'analisi del personaggio del tenente, che non si smentisce mai durante tutta la narrazione, dando continua prova della sua miseria umana, ma anche dei luoghi comuni più ricorrenti dietro cui buona parte dei protagonisti coloniali, reali o fittizi, si è rifugiata per dare legittimità ai propri soprusi e crimini sessuali.40 La sessualità primitiva con cui viene identificata la donna africana si fa costante, l'alta percentuale di questo tipo di concretizzazione
è
tanto
ricorrente
nei
romanzi
e
nelle
testimonianze
autobiografiche, da diventare caratteristica. La dinamica sessuale che si sostanzia nel rapporto serva-padrone infesta gli immaginari e le azioni. Inoltre, in questa particolare descrizione, la progressione ha del paradossale, visto che lo status di consapevolezza sessuale di Mariam sembra percorrere in poche righe il faticoso percorso formativo che, dall'infanzia primitiva in cui gli impulsi di conservazione della specie portano all'attività sessuale, porta alla maturità di una sessualità smaliziata tipica dell'emancipazione sessuale femminile occidentale. Questa serie grottesca di squilibri mentali si conclude con l'ipotesi che sia il 37 Ivi, p. 41. 38 Ivi, p. 43. 39 Ivi, pp. 42-43. 40 Concetti e cliché che ritroveremo sia in Settimana nera che ne L'ottava vibrazione.
22
sentimento più ovvio, cioè la paura nei confronti del suo stupratore, a guidare i gesti della donna; il tenente però, che ritiene totalmente irragionevole la preoccupazione della donna, si fa strada il sospetto che sia solo una questione di tornaconto economico, di paura per una mancata retribuzione, circostanza frequente nelle contrattazioni con ogni prostituta africana, e non. Lo stupro così, da atto squisitamente criminale, si trasforma in banale gioco delle parti, in cui non c'è violenza ma soltanto inevitabilità.41
Ritornai verso la donna, tutto quello che successe dopo stento a crederlo.42
Qui l'ipocrisia del tenente tocca una vetta irraggiungibile, quel “stento a crederlo” è un'affermazione del tutto illegittima se si considera che il tenente, secondo la sua ricostruzione, spara tre volte contro il nulla, prima due proiettili e poi un terzo mentre sta cadendo:
Ecco rapidissima l'ombra passarmi davanti. Strisciò sulla terra, per un attimo illuminata dal fuoco: fu un lampo. Sparai due volte. L'ombra mi urtò, sentii il fetore selvaggio della sua pelliccia, e io caddi mentre le scaricavo addosso l'arma per la terza volta43
Il tenente ferisce accidentalmente la ragazza, anche se in questo contesto, il concetto di accidentalmente va chiarito per non rischiare di produrre considerazioni errate riguardo ad una presunta dote empatica del tenente. Come già accennato in precedenza, il tenente spara alla cieca, nel buio, impaurito da un'ombra che non c'è e una delle pallottole di rimbalzo colpisce al ventre la ragazza.
Stavo vicino a lei e mi illudevo di non capire, ma avevo capito. Ero stato io.44 41 Non ci pare casuale che lo stesso grottesco rovesciamento, da volontà a fatalità, si riscontri con caratteri identici nell'altro testo cardine della nostra ricerca in questo tipo di narrazioni, Settimana nera. 42 E. Flaiano, op. cit., p. 60. 43 Ibidem. 44 Ibidem.
23
La prima considerazione del tenente, immediata, senza filtri, è un'ammissione di colpevolezza: la mano che spara sa se colpisce, e la mia destra tremava45. Mariam sorride rassicurante e incredula, non può essere stato il tenente a sparare, i suoi occhi cercano solo di capire; cercano una risposta. Il tenente, invece, si altera, è invaso dalla rabbia per la sua inettitudine, per la reazione spropositata alla paura; non ha scelto la soluzione ottimale, se avesse tirato una pietra la belva sarebbe fuggita: e invece alla pietra era stata riserbata un'altra parte in quella sciagurata commedia.46 Certo, il concetto di commedia è apertamente rivedibile, ma questa è la considerazione del tenente, ed il suo contegno assomiglia alla recitazione. Con una pietra non si scacciano i rimorsi di coscienza, ma con un sacrificio umano si può sostituire un sistema di valori; così il tenente sceglie regole che gli permettono di scagionarsi rivolgendo non alla sua colpa, ma alla morte e al fato le debite e dovute attenzioni. Un altro accenno alla dinamica dell'omicidio, suggestiona il lettore, aprendo scenari di volontarietà per quell'atto, fin qui impensabili.
L'avevo colpita, la pallottola era stata deviata, forse da qualche pietra, perché nego che anche nel disordine della caduta io possa aver perduto l'orientamento. Non avevo mancato i primi colpi e il terzo avevo cercato di spararlo basso, appunto per non sbagliare […]. Avevo sparato basso e non c'è altra spiegazione: una pietra.47
Ma la negazione ferma e sdegnata di un personaggio che mente continuamente a sé e al mondo per tutto il romanzo, non può che invertire il senso delle sue dichiarazioni; sorge il dubbio di una possibile premeditazione dell'omicidio, che in seguito si rivelerà, comunque, la miglior via d'uscita dall'impasse decisionale. Tra l'altro non possiamo sottovalutare un passaggio successivo in cui il tenente, cerca di ripulire la scena del crimine da eventuali indizi della sua colpevolezza:
45 Ivi, p. 61. 46 Ivi, p. 62. 47 Ivi, p. 61.
24
Dovevo anzi sbrigarmi, eppure c'erano tante cose da fare. La tomba era a posto, ma attorno al macigno, troppe tracce della nostra sosta. Vi tornai di corsa e per prima cosa mi preoccupai di ritrovare i bossoli delle quattro cartucce che avevo sparato. Ne ritrovai soltanto due.48
Viene da chiedersi il motivo dell'indugio di Flaiano su questi due bossoli: esattamente i corrispettivi delle pallottole sparate contro Mariam. Come se l'autore stesse suggerendo una riflessione più profonda sul crimine del tenente. Si apre lo scenario suggestivo di un crimine premeditato e volontario, per evitare le eventuali recriminazioni della donna dopo il rapporto sessuale o, invertendo i postulati, una delle continue rimozioni di responsabilità del tenente. Prima di sparare alla testa di Mariam per finirla, il tenente confessa a se stesso di aver sparato tre colpi. Quindi si tratterebbe di quattro colpi in tutto, ma abbiamo, invece, soltanto due bossoli, e due sono i colpi che feriscono e uccidono Mariam. Due pallottole inesistenti contro la bestia, e due, le uniche di cui ritrova i bossoli, contro Mariam, dunque? Omicidio volontario e poi la rimozione. Non possiamo affermare con certezza che sia così, non avendo una conferma autoriale, ma la notizia di questo ritrovamento, non sembra assolutamente casuale. Non solo, il piano di intervento viene rimandato continuamente, lasciando spazio alle solite digressioni mentali che ritardano la decisione, ovvia per il tenente, di portare a termine l'impresa iniziata.
Dovevo soccorrerla, non c'era dubbio. Ma come? Cosa si fa quando una donna muore e siete sperduto con lei nella più buia notte dell'anno, tra ombre ostili, in una terra che ha già logorato i vostri nervi, e che voi odiate con tutta l'anima? Pensavo che dovevo andarmene, abbandonarla.49
L'idea che matura repentinamente è già nel tenente; lui stesso inaugura quella che altro non è se non una lunga confessione, un'analisi chiarificatrice e magistrale delle incertezze che esplicano, trasfigurano e sostanziano le colpe del colonialismo. Per questo l'interpretazione di Giovanna Tomasello, per quanto molto interessante nei suoi sviluppi, ci sembra peccare di ingenuità nel descrivere 48 Ivi, p. 70. 49 Ivi, p. 61.
25
l'omicidio del tenente come un gesto inevitabile e pietoso:
[...]Per pietà sprovvisto com'è di medicazioni e di aiuti, dopo aver scartato la possibilità di correre al vicino villaggio pensa di porre fine ai lunghi lamenti e alla sofferenza della giovane e la uccide. Seppellito con cura il cadavere [...]50
Il tenente, personaggio che Flaiano rende antipatico al lettore dalla sua prima apparizione, non sembra essere preoccupato della sorte della ragazza. Nei suoi flussi monologanti post delitto, il pensiero rivolto alla possibile salvezza della ragazza si fa spazio raramente: la sua sorte è scontata per il tenente. Non solo, poche pagine prima, ci si imbatte in un vero e proprio delirio d'onnipotenza:
Qui sei un uomo, ti accorgi di cosa significa essere un uomo, un erede del vincitore del dinosauro. Pensi, ti muovi, uccidi, mangi l'animale che un'ora prima hai sorpreso vivo, fai un breve segno e sei obbedito. Passi inerme e la natura stessa ti teme. Tutto è chiaro, e non hai altri spettatori che te stesso. La vanità ne esce lusingata. Ti approvi, ti guardi vivere e ti vedi immenso, tuo padrone: faresti di tutto pur di non deluderti 51
La falsità dei ragionamenti che sviscerano la situazione della donna viene immediatamente rovesciata nella sincerità esplosiva delle preoccupazioni che riguardano il proprio destino e le conseguenze pericolose del suo atto. Non c'è nessuna cura per l'altro, anche l'attenzione che Tomasello percepisce nella sepoltura è solo la cautela dovuta al terrore che il suo crimine venga scoperto, scatenando reazioni tanto gravi, quanto spropositate, a suo avviso, per l'omicidio di una negra. Il tenente mente a se stesso, finge di essere ciò che non è, finge di possedere percentuali di positività e d'umanità, che gli sono, invece, totalmente estranee. La consapevolezza di fondo viene mascherata per raggiungere l'approvazione generale, in questo caso il tenente sta preparando il terreno per il racconto che farà in seguito. Ciò che l'esterno deve approvare è nutrito dalle costruzioni e considerazioni, false ovviamente, di chi dall'interno vive e constata la propria contraddizione in termini. 50 G. Tomasello, L'Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana., Palermo, Sellerio editore, 2004, p. 211. 51 E. Flaiano, op. cit., p.55.
26
Lo stesso procedimento che con cui la retorica propagandistica accettò e promosse, di volta in volta le necessità coloniali ed imperiali italiane. La conquista, dunque, la devastazione rapace ed il successivo abbandono:
Quest'idea si formulò improvvisamente, ma era già andata maturandosi dal momento che ero corso dalla donna e m'ero accorto di averla ferita.[...] Presi a passeggiare su e giù accanto al fuoco, cercando di riordinare le idee. Cosa dovevo fare?[...] c'erano molte cose da fare, ma tutte insidiose. Capiteci qualcosa con gli indigeni.52
La preoccupazione inizia a divenire ingestibile, il senso di colpa, che non si esplica mai come tale, viene surrogato dalla ricerca di una soluzione che lo salvi dalle possibili complicazioni della sua azione scellerata. L'attenzione nell'analisi delle possibilità, si concentra soltanto su se stesso, sull'essere umano di valore in quel momento, cioè il potente, il bianco, colui che deve concretizzare soluzioni sistematiche che uniscano la minor perdita di tempo e la maggior possibilità di conservazione della propria reputazione e dei propri privilegi:
La donna era agonizzante (non mi si venga a dire che poteva essere salvata, mi rifiuterò sempre di crederlo), tanto valeva aspettare un'ora o due che morisse[...]inutile muovere la macchina dei burocrati, suscitando inchieste[...]e forse un processo. Anzi, sicuramente un processo.[...]E la licenza di un mese che sarebbe diventata congedo alla scadenza? Ecco non potevo disconoscere che i miei argomenti erano meschini, ma erano quelli; e proprio la loro meschinità me li faceva apparire assai forti. 53
La soluzione è l'abbandono, prassi usuale e termine ultimo di ogni colonialismo: un abbandono senza remore, sfruttare lo sfruttabile e poi tornare in patria, possibilmente con l'onore delle armi o con il portafoglio gonfio. Ma la risoluzione del tenente è ancora più orrenda, la sua noncuranza esplode raggiungendo l'apice dell'omicidio volontario. La donna deve essere uccisa, nessuna traccia deve essere lasciata. Così, la crudeltà coloniale si completa e può essere avviato il disumano, ma 52 Ivi, p. 63. 53 Ivi, pp. 64-65.
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liberatorio processo di rimozione:
Dovevo ucciderla. Molte ragioni mi consigliavano di ucciderla, tutte egualmente forti. Dovevo finirla e nascondere il cadavere. E, soprattutto non perdere tempo: l'alba era già spuntata.[...]Quando vidi che volgeva la testa sotto il turbante, sparai.54
Questo l'epilogo dell'incontro tra Mariam e il tenente, nessuna delle ipotesi di possibile salvezza della donna ha reale consistenza; nei balletti mentali il cinismo e il calcolo si alternano alla falsa preoccupazione per il destino della donna: il tenente nonostante la pretesa d'umanità, valuta, esclude e uccide. Questa escalation è rispecchiamento diretto e immediato delle logiche coloniali: non c'è innocenza nelle scelte politico-economiche o nelle logiche di sfruttamento del colonialismo di ogni tempo e ogni luogo; non si può credere, nonostante il tentativo propagandistico di ideologizzazione sia spesso filtrato nelle coscienze, che ci siano, alla base di queste imprese, intenzioni estranee alla volontà d'arricchimento e alla sete di potere. La favola del bianco civilizzatore, portatore della luce della razionalità occidentale, che incontra il primitivo selvaggio regalando possibilità di sviluppo e benessere è qui magistralmente rovesciata e sbilanciata, scegliendo come emblema di questo occidente in Africa, un inetto, disumano tenente in lotta con sé stesso e con la sua folle idiozia. Dunque, le dinamiche dell'omicidio di Mariam in Tempo di uccidere, rivelano una sorta di analisi organica dei motivi fondamentali e delle logiche striscianti del colonialismo di ogni tempo ben formulate da Todorov.55 In questo romanzo, che ribadiamo essere per Flaiano una riflessione profonda e complessa della follia dell'imperialismo fascista, l'omicidio della donna, come azione fondamentale è la spinta che inaugura una spirale abissale di complicazioni e immersioni nella follia del protagonista. Come se l'autore stesse affermando che la redenzione e la riflessione fossero impossibili: nessuna possibilità di prendere coscienza della propria colpa. 54 Ivi, pp. 67-68. 55 Vedi qui, n. 11.
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Non a caso l'omicidio, che si compia o meno, diventa per il tenente la strategia d'uscita dalle situazioni di potenziale e immaginario pericolo, con cui la sua inettitudine lo costringe a confrontarsi: diventa prassi, modus operandi. Il tenente, dopo aver stuprato ed ucciso, è pronto per riprendere il proprio cammino e finalmente dare un'utilità e un senso alla breve licenza.
Un ultimo sguardo alla tomba, prima di perderla di vista per sempre, e addio. “Addio, donna” pensai. “Mi hai insegnato il valore di molte cose, in così breve tempo. Non potrò dimenticarle. Ed è forse per questo che cammino serenamente e mi sento diverso, più grande, di un peso più vivo, poiché tutte le esperienze arricchiscono. Guardo questa sordida boscaglia con altri occhi.56
In realtà la patetica mistificazione riflessiva, serve solo ad infastidire chi legge. Il tenente non riesce ad apprendere niente dalla terribile esperienza, ci sembra più un autodidatta dell'arte di sopravvivere devastando e salvandosi, del tutto indifferente al prossimo. Indicativa la nomina di esperienza formativa assegnata ad un omicidio. Una volta stanziato presso il comando tappa di A., al tenente si presentano una serie di incontri fortuiti che poi si riveleranno risolutivi per la vicenda: il dottore e il maggiore57 che saranno le sue ulteriori potenziali vittime e un vecchio, che scopriremo chiamarsi Johannes, probabilmente il padre di Mariam, in cerca della ragazza scomparsa. Durante l'uscita serale con il maggiore e due prostitute, valutando i comportamenti disgustosi del suo “compagno di giochi”, il tenente prende coscienza, per un istante, dell'esistenza in sé e nell'impresa coloniale 58, di una parte oscura, mortifera, decomposta:
“L'Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza. […] Se uccidessi quest'uomo […] seppellirei anche la parte peggiore di me stesso.”59 56 Ivi, pp. 72-73. 57 Nell'uscita dei due in una casa di piacere, il tenente omicida si lascia andare a considerazioni su quanto siano orribili i comportamenti dei militari e turisti in Africa. Pateticamente la considerazione scaturisce dall'osservazione dei comportamenti scabrosi del maggiore ed alla loro condanna, non c'è spazio, e mai ci sarà, per la coscienza della gravità dei propri comportamenti, valutati sempre come scomodamente necessari. Ivi, p.94. 58 Come vedremo accadere, con modi ed esiti differenti, al dottor Contardi di Settimana nera. 59 Ivi, p. 94.
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La parte peggiore di sé, che per quanto tenti di occultare si rivela pulsante, in ogni situazione. Anche quando, per un'ispezione con il suo plotone in cerca dei briganti che hanno assaltato un cantiere italiano, il tenente è costretto a tornare sul luogo del delitto e a relazionarsi per la prima volta con il vecchio Johannes. La prima apparizione del vecchio, lo vede impegnato a seppellire i cadaveri degli abitanti del villaggio, sterminati per rappresaglia dopo un attacco indigeno ad un cantiere italiano. Flaiano non entra nei dettagli scabrosi di quello che fu realmente un fatto di cronaca e che ci è descritto così, nella sua assurda brutalità, in Aethiopia. Appunti per una canzonetta:
Il 7 marzo ad Adi Onfitò arriva il gruppo Spahis del II Corpo d'armata, ispeziona qualche tucul. Si trovano degli oggetti appartenenti all'ingegnere Rocca (ucciso insieme alla moglie nel massacro del cantiere Gondrand di Mai Lalha). Gli abitanti che avevano già ottenuto da altre truppe il permesso di libera circolazione, vengono uccisi in massa. Le donne gli uomini asserragliati nella chiesa sono trucidati. Una donna, la più avvenente, viene posseduta in circolo e poi nel suo sesso è introdotto un tizzone: un tizzone del rogo che era servito per bruciare il cachi copto. Poi la chiesa viene sgombrata dei cadaveri. Si decide di bruciarli. Alcuni militi della 1078 si accingono all'impresa disgustosa. In una cassa viene trovata, gli occhi sbarrati dal terrore, una povera malata. Viene messa insieme agli altri vicino al rogo. Un centurione la scorge ed urla: “Ma è viva!”. Risponde il milite. “ No, signor capitano, è quasi morta”. Ad ogni modo la donna , salvata dal fuoco la sera, vi andò l'indomani. Era morta nella nottata.60
Le considerazioni sull'assurdità della rappresaglia sono affidate ad un soldato, contrabbandiere in patria, che evidenzia le motivazioni del tutto inappropriate dell'azione degli Spahis soldo dell'esercito italiano.61 La presunta necessità di una punizione esemplare, che impedisca il riproporsi di rapine ai danni degli italiani è smentita seccamente, e con disprezzo, dal soldato che sembra l'unico, tra tanti, a possedere realismo e senso critico assenti negli altri personaggi: “ Si vede che lei non ha mai rubato.”62 Il contrabbandiere è un personaggio di soglia, senza patria, abituato a 60 E. Flaiano, Aethiopia. Appunti per una canzonetta., in op. cit., p. 299. 61 Riflette il tenente: “Gli zaptiè l'avrebbero fatto senza pensarci due volte. […] ricordavano ciò che gli ascari avevano fatto in Libia, sempre pagati dallo stesso padrone, perché questo è il segreto elementare di un buon imperialismo.” Ivi, pp. 112-113 62 Ivi, p.106.
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oltrepassare i confini in clandestinità e soprattutto, slegato dal rispetto delle regole imposte dalla legge: al contrario dell'implicazione del tenente con le istituzioni, il contrabbandiere sta a margine, è un personaggio metanarrativo che sta in mezzo alle due parti. Ma non solo, il contrabbandiere ha un'altra funzione narrativa, questo cammeo è un passaggio segreto che penetra nell'essenza profonda della riflessione, lucida e amara, sui legami intimi che uniscono gli ultimi e gli umili fra sé. Un'umanità senza identità comune, che si riconosce e comunica non grazie ad una stessa lingua o cultura, ma per l'inferiorità imposta che li relega in una posizione subalterna e muta. In Viaggio al termine della notte, Céline sintetizza questo concetto, con la consueta cinica lucidità, nella parte riservata alla sua permanenza nell'Africa coloniale:
Quanto ai negri, uno si abitua presto, alla loro ilare lentezza, ai loro gesti troppo ampi, ai ventri debordanti delle loro donne. La negreria puzza di miseria, di vanità interminabili, di rassegnazione immonda; insomma proprio come i poveri da noi ma con più bambini ancora e meno biancheria sporca e meno vino rosso intorno.63
Nessun bisogno di una lingua comune o delle stesse tradizioni per riconoscersi e comprendersi, la naturalezza del rapporto è data dalle stesse infime condizioni di vita. Così il contrabbandiere è in grado di stringere un rapporto naturale ed immediato con Elias, il bambino del villaggio.
Il contrabbandiere[...] non amava gli indigeni, ma non amava nemmeno chi li uccideva[...]aveva imparato ad odiare chi si serve delle armi e le punta appena può e spara per sottolineare le sue opinioni. Quegli indigeni erano più vicini a lui che a me[...] “Moretto” disse il contrabbandiere, e il bimbo sgambettò verso di lui, fiducioso[...] in seguito parlò sempre nel suo dialetto e i due si intesero a perfezione[…] Il contrabbandiere mi giudicava male[...] Lui con due strilli s'era messo dalla loro parte, tutto era stato detto tra quelle persone, non valeva nemmeno la confusione della lingua a dividerli, perché si intendevano, come 63 L.F. Céline, Viaggio al termine della notte, Milano, Corbaccio, 1992, p. 162.
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legati da radici comuni[...]64
Anche in questo caso, chi legge intuisce immediatamente l'appartenenza del tenente a quella porzione di umanità estranea al contrabbandiere ma, come sempre, la brillantezza percettiva è una qualità estranea al nostro protagonista. Per citare nuovamente Céline e la sua crudezza geniale, con altri protagonisti si intrecciano le stesse riflessioni: avevano scorto in lui,[...] gli innegabili elementi della vera parentela, quelli della miseria incurabile, innata.65 Dell'episodio repressivo, di Adi Onfitò. indicativo quanto scabroso, nel romanzo, vengono inquadrati soltanto il villaggio bruciato, qualche impiccato e il vecchio Johannes intento a seppellire i cadaveri degli altri abitanti. Il custode del villaggio e dei morti, Johannes, padre di Mariam, col suo sguardo vigile ma inerme, diventa una sorta di coscienza collettiva, richiamo ad una collettività mutilata e comunque ancora piena della dignità secolare che le appartiene. Il tenente, ormai totalmente sopraffatto dal terrore, sarà, nella parte finale del romanzo, ospite sgradito di questo vecchio. Johannes, nonostante l’odio palese nei confronti dell’assassino della figlia, che sfogherà soltanto in un momento di ubriachezza, sarà il risolutore della sua vicenda, guarendolo e liberandolo dall’ossessione della malattia inesistente, liberando l’anima del tenente da ogni possibile riflessione sulla propria crudele esperienza.
Guardava me, non c'era dubbio.[...] Quando gli sorrisi[...] egli fece una breve smorfia[...] Non sembrava affatto preoccupato della mia sorpresa e, anzi, sempre più insolente, a un tratto mi strizzò l'occhio[...] Seguitò per due o tre volte a strizzarmi l'occhio. !Johannes,” gridai “smettila!” Il suono della mia voce lo scosse. Lo vidi tremare come scosso da una febbre repentina. Poi gettò un urlo forsennato, un urlo che mi ghiacciò il sangue, era l'urlo che aveva in gola da molto tempo.[...] Lo sentivo alle calcagna, urlante, raccolsi un palo e con quello tenni a bada il vecchio. Subito raccolse anch'egli un palo[...] le sue urla, urla di guerriero che insulta e sfida la morte, mi stavano togliendo ogni coraggio. Così avevo visto lanciarsi contro la mitragliatrice i suoi fratelli, con bastoni anche meno solidi: e non sempre la mitragliatrice li aveva fermati.66
64 Ivi, pp.112-113. 65 L.F. Céline, op. cit., p. 172. 66 E. Flaiano, op. cit., p 258.
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Johannes è, nonostante questo scatto d'ira, una figura evangelica, una figura che incarna la carità cristiana; un simbolo di tolleranza e amore gratuiti: guarisce chi gli ha ucciso la figlia, chiedendo in cambio solo di poter onorare la sepoltura di Mariam. Il protagonista non sarà capace di riconoscenza neanche verso quest’ultimo nobilissimo gesto del vecchio, in cui non vuol riconoscere, per inversione, il proprio titanico egoismo. La palese superiorità etica, morale e spirituale
del vecchio
rispetto al tenente è cristallina, solo il protagonista è incapace di accorgersene. Ma ciò che è più rilevante e fondamentale, e ci avviamo a concludere l'analisi di questo testo, è appunto il processo di nascita e sviluppo nel tenente dell'ossessione per la malattia. Il militare, notando e tentando inutilmente di curarsi la ferita alla mano, inizia ad essere angosciato dall'idea di aver contratto dalla donna un morbo incurabile. Il tenente si convince di aver contratto la lebbra durante il rapporto sessuale con l'indigena; la convinzione nasce dopo aver capito, in ritardo, e questo la dice lunga sull'interesse per l'altrui cultura, che il turbante bianco è il simbolo che contraddistingue i lebbrosi. Ciò che permetteva al vanitoso tenente di etichettare, con superficialità disgustosa, la sua vittima, distinguendola dagli altri elementi naturali della boscaglia, adesso si trasforma nella simbologia di in incubo destinato a torturarlo durante sogno e veglia. Una ferita, un graffio che da tempo ha sulla mano diventa il marchio, inequivocabile per il protagonista, della malattia che lo divorerà. Ma come la bestia nel buio, inesistente ed immaginata, era la rappresentazione della tenebra dentro il tenente, a cui cerca di scappare e che tenta di allontanare, inutilmente, sparandole come se fosse reale, così, il presunto contagio non è altro che l'esplosione del suo senso di colpa che però, data la sua totale anestesia morale, non può risalire a livello della consapevolezza, innescando un processo di razionalizzazione. Ingannato da una simbologia culturale che non conosce, il tenente perderà gradualmente la ragione; si inabisserà nelle profondità del suo inferno, nella sua tenebra personale, inanellando una serie mostruosa di comportamenti totalmente inetti e grotteschi, come il tentato omicidio del medico 33
da cui crede sarà denunciato e rinchiuso in un lebbrosario; la fuga in seguito al suo crimine fallito e il sabotaggio del camion del maggiore, per ucciderlo dopo averlo derubato, per imbarcarsi clandestinamente, nonostante l'inetto abbia una regolare licenza, e tornare in Italia, malato e distrutto dall'esperienza africana, sperando nelle cure amorose della Lei lasciata in patria. La convinzione di essere inseguito dalla morte non gli permetterà di comprendere che, in realtà, il male è dentro di lui. Tutte le giustificazioni vanitose e vacue, che hanno celato l'orrore dei suoi comportamenti distruttori e devastanti e che dopo ogni nefandezza hanno riportato ordine nel caos di una gerarchia etica ingiustificabile, per cui il bravo ragazzo, irreprensibile in Italia, diventa orrido carnefice nell'Africa discarica e sgabuzzino dell'umanità, non sono altro che il misero tentativo di mascherare l'esplosione del senso di colpa. Scrive Domenichelli, ne Il contagio della terra straniera67:
Ma il tenente, non riuscirà mai a vedere la natura vera della sua malattia, che è sì una lebbra ma una lebbra della coscienza della quale, non tanto egli è il contagiato, quanto l'untore. Quella sua malattia[...] ha il suo sintomo nella violenza rapace, assassina di cui lui è portatore, ipocrita, stupido, cieco, che spara nel buio contro la propria paura e uccide l'innocenza.68
Altri due episodi ci sembrano rilevanti per sottolineare la totale incapacità del tenente di comprendere il reale, e la sua completa inettitudine, e riguardano la sua permanenza al villaggio del padre di Mariam. Il tenente, una volta stanziato al villaggio, si appropria dell'unica capanna che sembra avere fattura migliore, nonostante la ferma opposizione del vecchio.
Mi rispose che la capanna non era sua, ed era certo la risposta che meno mi aspettavo. Ormai avevo perso il concetto di proprietà e non m'ero mai chiesto se le capanne africane appartenessero a qualcuno oppure fossero fornite dalla natura, incluse nel paesaggio, veri beni immobili a disposizione di noi mobili mortali.69 67 M. Domenichelli e P. Fasano ( a cura di), Lo Straniero., Roma, Bulzoni, 1998. 68 Ivi, pp. 653-654. 69 E. Flaiano, op. cit., p. 241.
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Quando si può ottenere tutto senza chiederne il permesso, il concetto di proprietà altrui inizia a sfumare. La capanna è decorata da disegni che rappresentano la lotta di San Giorgio contro il drago. Il drago, nell'immaginario occidentale ha le fattezze di una creatura inesistente e spaventosa, ed è leggendaria rappresentazione di paure per pericoli reali e proiezioni mentali. Per il pittore nativo, al contrario, il drago era da identificarsi con l’Hargez, il coccodrillo (che tanto terrorizzava l’ignara Mariam prima del suo omicidio), minaccia reale e pericolosissima per gli africani. I commenti canzonatori del tenente, non fanno altro che confermare la sua idiozia vanitosa, considerando che si riscontrano palesi e legittime giustificazioni nel terrore per un animale che sicuramente ha contribuito a ridurre la popolazione indigena, mentre si stenta a capire una mente devastata dalla paura che spinge a sparare contro un muro di pietra, ferendo “per sbaglio”, e uccidendo per “compassione”, una vittima innocente. Sembra che Flaiano abbia voluto affidare al vecchio Johannes il ruolo di San Giorgio, che con la sua statura morale, non rinunciando alla propria dignità, sovrasta il drago impersonato dal tenente, figura della storia coloniale: nonostante Johannes sia il rappresentante di un popolo soggiogato, e dunque la parte debole, sovrasta il tenente e la sua pochezza morale e umana. Il coccodrillo, bestia feroce che ben rispecchia la mentalità del tenente, abita le scene conclusive in cui, definitivamente, Flaiano riesce, con genialità, a far sì che il lettore odi il suo protagonista. Non a caso, uno degli episodi più interessanti del romanzo, o quanto meno, più immediatamente esplicativi di tutta la vicenda, è l'arrivo dei carabinieri al villaggio, allertati dallo stupido divertimento del tenente che scarica l'intero caricatore contro un coccodrillo. Scherza con un pericolo reale, si prende gioco di una paura del tutto legittima, ma non ha nessuna coscienza della violenza e dell'orrore di cui è causa diretta. Non percepisce il rischio che corre con i suoi stupidi comportamenti, e nonostante si faccia portavoce del popolo della ragione e della razionalità rispetto all'inciviltà 35
africana, ogni suo pensiero e azione rimandano al campo semantico dell'idiozia folle e cieca. L'arrivo dei carabinieri, preceduti da Elias, fa sì che il tenente pensi al tradimento del bambino, ovviamente, per essere lui stesso un traditore; il tenente attribuisce all'esterno tutto l'orrore che è dentro di sé; travisa l'innocenza del bambino perché ha perso, irrimediabilmente, la propria.
Canaglietta” dissi[...]. Ero stato tanto sciocco da raccomandargli di non fare parola a nessuno della mia presenza al villaggio. Di modo che se non aveva capito nulla, io gli avevo fatto capire tutto. […] avevo atteso, pieno di fiducia in quel bimbo, che, già andandosene, meditava di tradirmi.70
Scampato anche il pericolo di essere scovato al villaggio dai carabinieri, grazie al silenzio e alla fedeltà del vecchio e del bambino, e guarito dalla finta lebbra, al tenente non rimane che mostrare al vecchio il luogo in cui ha occultato il cadavere di Mariam, dandogli la possibilità di costruirle degna sepoltura, e tornare all'accampamento per costituirsi, non per un vero pentimento, ma per la convinzione dell’inesistenza di vie di fuga alternative. Tornato all'accampamento,il tenente racconta la sua storia ad un sottotenente, aspettandosi chissà quale commento o considerazione, al contrario l'amarezza conclusiva è il più degno riassunto dell'esperienza coloniale:
“[...]Eccoti diventato una persona saggia, da quel giovane superficiale che eri, e solo per virtù di qualche assassinio che hai commesso senza annettergli la minima importanza. Mi congratulo”71
L’ironia del sottotenente è atroce: non c'è saggezza, non c'è nessuna crescita. La confessione serve solo come sfogo, non c'è redenzione né espiazione. La conclusione nauseante del romanzo si rispecchia nelle considerazioni finali: ogni uomo che ha partecipato alla campagna africana è troppo impegnato a confrontarsi o nascondere i propri delitti per potersi preoccupare di quelli altrui; c'è 70 Ivi, p. 268. 71 Ivi, p. 277.
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un'illuminazione istantanea che neutralizza ogni timore del tenente: se nessuno lo sta cercando, tanto vale rimuovere l'accaduto, tornando, serenamente, alla vita precedente. Dunque, l'inevitabile misera rimozione conclude degnamente il romanzo:
Camminavo accanto al sottotenente e di colpo sentii il suo profumo. Certo, doveva ungersi i capelli con qualche preziosa pomata. Una pomata dal profumo delicato, infantile, ma il caldo lo stava inacidendo. Una pessima pomata, che il caldo di quella valle faceva dolciastra, putrida di fiori lungamente marciti, un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva.72
L'odore della morte, che avverte, istantaneamente, quando ormai è troppo tardi per averne coscienza o rimediare a tutto l'orrore causato. È l'odore del tenente, ciò che gli appartiene, ciò che crea e solidifica la sua essenza più profonda. La componente innata della corruzione morale e materiale nella violenta logica colonialista si realizza nella falsa coscienza e nella presunzione di superiorità che avvolge e determina la qualità ogni rapporto umano tra colonizzatore e colonizzato. Ma il tenente, completamente estraneo a se stesso e all'altro da sé, procede nella sua integrale cecità, avverte l'odore nauseante, ma rimane inconsapevole; attribuisce categoricamente all'esterno, ciò che non vuole riconoscersi proprio: la chiusa di Tempo di uccidere è l'ultima attestazione tagliente, ed amarissima, della violenta menzogna coloniale e dell'impossibilità di redenzione di chi ne ha goduto e approfittato.
72 Ivi, p. 285.
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1.2 Dell'eros e della schiavitù. Anche in Settimana nera73 si esplicano la nostra categorizzazione e la descrizione di rapporti coloniali basati sul sopruso e l'assoluta subalternità dell'africano. Il parallelismo tra colonizzazione e stupro del territorio e dei popoli, descrivendo relazioni umane che per la soddisfazione di una parte, prevedono la totale mortificazione e annullamento dell'altra, si concretizza, in Settimana nera, non solo nel rapporto tra l'anonimo protagonista e la sua schiava negra, ma in tutti i rapporti fra europei ed africani. Scritto nel 1961, un anno dopo la dichiarazione d'indipendenza della Somalia, questo testo riassume le istanze neo-coloniali grazie alla figura del commerciante di scimmie che stigmatizza l'uomo nuovo del colonialismo italiano. Se Farnenti è il perfetto rappresentante della vecchia guardia, ex fascista convinto e poi possidente spietato, il commerciante è la sua evoluzione meno brutale, più moderna, altrettanto criminale. Il primo luglio 1960 sancisce, con l'indipendenza della Somalia, la fine dell'Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia (A.f.i.s.), che le era stata affidata nel 1950 dalla Società delle Nazioni74, nonostante l'Italia avesse perso le suo colonie e non facesse ancora parte della società. Il trusteeship, che in Italia prende il nome di amministrazione fiduciaria, poneva sotto una nuova luce la questione coloniale:
attraverso l’esperimento di un’amministrazione che, a differenza di quella coloniale, non si riducesse al dominio di una potenza europea su popoli altri, ma si proponesse obiettivi di sviluppo, sotto la responsabilità delle Nazioni Unite, nell’interesse dell’ordine internazionale e del popolo amministrato con il fine di prepararlo al conseguimento della piena maturità politica, sociale ed 73 E. Emanuelli, Settimana nera, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1961. 74 “Il 2 dicembre 1950 la assemblea Generale dell'ONU ratificava la convenzione con la quale l'Amministrazione Fiduciaria sulla Somalia era affidata all'Italia, che la esercitava con lodevole impegno e lusinghieri risultati, creando le premesse per l'indipendenza del Paese. Nell'autunno del 1959 l'Italia, aderendo alla richiesta del Governo somalo di anticipare al 1° luglio la scadenza del mandato di tutela, si faceva patrocinatrice di tale proposta all'ONU, che l'approvava senza riserve.” Istituto Italiano per l'Africa, L'Africa. Profilo geografico e storico-politico del continente, Roma, 1971.
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economica entro un certo periodo di tempo.75
L'ottica paternalistica è palese, e ancor più la volontà di continuare a trarre profitto dalla terra africana. In Settimana nera, i protagonisti e i personaggi si alternano come su una passerella di cammei esemplari, in cui ogni ruolo è calibrato per la ricostruzione di un preciso quadro coloniale; ogni frase e azione ha una posizione precisa in questo testo, che risulta essere uno dei rari esempi italiani di riflessione post-coloniale. In un confronto con Tempo di uccidere, appare immediatamente chiaro come il testo di Flaiano possegga maggior consapevolezza critica e cinismo. Flaiano non salva nessuno, perché non c'è salvezza per chi diventa un protagonista nel territorio mortifero del colonialismo: la caratteristica principale del tenente di Flaiano è la sua immersione nell'incoscienza più totale rispetto alla sua esperienza e al suo vissuto coloniale. Chi legge non empatizza mai con il tenente, per la sua incapacità di percezione del reale e per la vanagloriosa impermeabilità nei confronti dell'altro. Il commerciante protagonista di Settimana nera, al contrario, conduce una sorta di autoanalisi, che affronta e cristallizza ogni fase della vicenda e ogni sfumatura di comportamento; la vanità e il vuoto di questo italiano in Somalia, riguardano semmai la sua codarda e ipocrita perseveranza: il commerciante comprende e analizza la sua posizione di carnefice e la perpetua fino al limite estremo. Ogni riflessione che lo pone nella sfera di un inverosimile senso di colpa è immediatamente smorzata dalla lucidità d'analisi sulla propria commedia e sull'irrefrenabile impulso a godere dei privilegi che dipendono dal rapporto servopadrone. Il testo di Emanuelli non manca di potenza accusatoria e di categoricità di giudizio sull'esperienza italiana in Somalia; rispetto all'analisi di Flaiano, tuttavia, le accuse che rivolge all'esperienza coloniale, sembrano smorzate dal passaggio che conduce da una sfera di riflessione dolorosa e cupa all'illuminazione dell'eroe positivo. Contardi, folgorato dall'improvvisa presa di coscienza della propria colpevole 75 A. Morone, L’Onu e l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia. Dall’idea all’istituzione del trusteeship, «Italia contemporanea», n. 242, Marzo 2006. ora in www.italialiberazione.it
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implicazione nel sistema coloniale, sceglie la via dell'espiazione estrema e definitiva e suggerisce una via di salvezza, una possibilità di redenzione, che in Flaiano, più realisticamente, manca del tutto. In L'Africa tra mito e realtà, Giovanna Tomasello sottolinea la differenza motivazionale tra Flaiano ed Emanuelli. Flaiano racchiude nella sua opera le riflessioni su un periodo disastroso appena concluso:
La fine della guerra e la dissoluzione dell'impero collocavano in una nuova luce l'intera vicenda coloniale e favorivano l'analisi del fenomeno della colonizzazione nei termini di un'immagine di coscienza, che non solo esplorava il trauma per la perdita, trasformando l'Africa in una terra d'incubo e di desolazione, ma, soprattutto si soffermava sulle forme di distorsione del reale e sul malessere interiore che accompagnano l'esperienza della conquista, sulla cesura che divide irreparabilmente lo lo spazio interiore del dominato e del dominatore, sulle difficoltà di comunicazione prodotte dai rapporti di potere.76
Emanuelli, invece, il cui romanzo esce nel 1961, un anno dopo la proclamazione dell'indipendenza della Somalia, scrive in un periodo in cui, alle soglie del neocolonialismo:
[...]le nuove forme di sfruttamento e di oppressione, più indirette e mediate ma non meno efficaci ed esiziali, venivano occultate nella predicazione pervasiva dei principi di indipendenza e di uguaglianza fra le nazioni. Poteva nascere l'illusione di una coscienza occidentale ormai liberata dal tetro fardello della colonizzazione, capace di riparare alle proprie colpe, di riconoscere i propri errori.77
Ma solo d'illusione si può parlare; il protagonista del romanzo, infatti, è perfettamente consapevole dell'odiosità delle proprie azioni: questo non gli impedisce di perseverare nei soprusi e nel reiterato stupro della ragazza somala avuta in comodato d'uso. Le giustificazioni con cui il protagonista, in una parentela stretta con il tenente di Flaiano, riempie di menzogne i propri flussi mentali hanno il solo effetto di 76 G. Tomasello, op. cit., p. 216. 77 Ibidem.
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aumentare la forza con cui si impone al lettore il disgusto per i comportamenti suoi e di chi lo circonda. Ma a differenza del tenente, il commerciante italiano, sembra avere completa coscienza dei suoi traffici umani, sembra riconoscere e sviscerare le proprie azioni annoverabili tra i rifiuti dell'operato umano. Il che non lo frena, né lo ferma. Un altro legame tra i due protagonisti è l'analisi del colonialismo come malattia. Manca del tutto, chiaramente, la considerazione sulla propria appartenenza ai germi di questa malattia e della forza distruttrice insita nei comportamenti e nei gesti che appartengono alla più meschina ideologia colonialista; i protagonisti, giudicano gli altri con frasi come:
Il Farnenti era fascista fanatico. È abituato ad usare la maniera forte, ha nel sangue una malattia inguaribile.78
Probabilmente, la stessa malattia che consente al commerciante di utilizzare a proprio piacimento un essere umano, annullando in un attimo la sua dignità, il rispetto per la sua cultura, il suo valore umano e schiacciando, sotto il peso dato alla soddisfazione dei propri impulsi sessuali, le conseguenze emotive di ogni stupro, di ogni violenza, di ogni sadismo. Non è un caso che nei testi e nei romanzi che riflettono sulle esperienze coloniali, una delle costanti in cui ci si imbatte, tanto frequentemente da diventare regola, sia la descrizione dettagliata della crudeltà divertita dell'occidentale nel confronto dei colonizzati. Per stilare una sorta di catalogo essenziale, per esempio, troviamo in Cuore di tenebra79 questo episodio:
L'incendio era stato irrimediabile fin dall'inizio.[...] Nelle vicinanze stavano bastonando un negro. Dicevano che aveva provocato lui, in qualche modo, l'incendio; comunque fossero andate le cose, strillava in maniera veramente orribile. Poi per parecchi giorni lo vidi seduto, in un fazzoletto d'ombra apparentemente assai malconcio, che cercava di riprendersi: dopo di che si alzò e scomparve – e la natura selvaggia senza rumore lo accolse di nuovo nel suo 78 E. Emanuelli, op. cit., pp. 112-113. 79 J. Conrad, op. cit., p. 37.
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grembo.80
Certo, non ci aspettiamo e non troviamo progressismo in questa descrizione leggermente razzista del negro/animale malato, che torna a morire nel grembo della madre terra, ma come sempre, l'episodio è seguito da un'analisi lucidissima e tagliente:
C'era un'aria di cospirazione in quella stazione, ma, ovviamente, non se ne faceva nulla. Era irreale come ogni altra cosa- come la pretesa filantropica dell'intera impresa[...]il solo vero sentimento era il desiderio di venir destinati a un posto commerciale in cui si raccogliesse l'avorio, in modo da poter guadagnare sulle percentuali. […] “Che chiasso fa quel bruto!” , disse apparendo vicino a noi, l'infaticabile uomo dai baffi. “Ben gli sta. Trasgressione– punizione – pum! Senza pietà, senza pietà.[...]” 81
Senza pietà, senza remore. Il “prendere” diventa dunque un diritto sacro e inalienabile del colonizzatore: la rapina non è un crimine, ma il naturale privilegio della propria posizione di padroni. In Céline troviamo un episodio disgustoso in questo senso:
Il nero non aveva ancora, pareva, visto mai un negozio.[...]D'autorità i commessi del reclutamento si impadronirono della cesta per pesare il contenuto sulla bilancia.[...] Gli altri negri[...] li fecero entrare anche loro, bambini compresi e tutto, perché non si perdessero lo spettacolo.[...] Fatta la pesa, il nostro grattatore trascinò il padre, sbalordito, dietro il banco e con una matita gli fece i conti e poi gli chiuse nell'incavo della mano qualche moneta in argento.[...]Il negro restava piantato mogio mogio davanti al banco con la piccola mutanda arancione intorno al sesso. “Te non sapere cosa sono soldi? Selvaggio allora?[...] Tu non parlare fransè dì? Tu essere ancora gorilla eh?[...] Kus Kus? Mabillia? Tu coglione? Bushman! Coglione completo!” Ma restava davanti a noi il selvaggio[...]Sarebbe scappato se avesse avuto il coraggio, ma non osava.[...] intervenne opportunamente il grattatore[...] S'è ripreso i soldi d'autorità e al posto delle monete gli ha stropicciato nell'incavo della mano un grande fazzoletto verdissimo.[...] fece allora anche di meglio. Conosceva davvero tutti i trucchi del commercio imperialista. Agitando davanti agli occhi di uno dei piccoli neri bambini quel gran pezzo di cotonina verde: “Lo trovi mica bello dì gorbetto?[...] C'era più niente da fare perché il 80 Ivi, p. 37. 81 Ivi, p. 40.
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fazzoletto era già entrato in famiglia.82
Nel già citato studio di Todorov troviamo anche un secondo postulato interessante, che legittima un'immagine della malattia coloniale come ricorrente nei secoli e orizzontalmente identica a sé stessa:
Il desiderio di arricchirsi e l'istinto di padronanza (queste due forme di aspirazione al potere) sono certamente all'origine del comportamento degli spagnoli; ma esso è condizionato anche dall'idea che i conquistatori si fanno degli indiani, idea secondo la quale questi ultimi sono degli esseri inferiori, delle creature a metà strada fra gli uomini e gli animali.83
Abbiamo già visto, sia in Conrad che in Flaiano, la frequenza imbarazzante di questo parallelismo ontologico tra il negro e l'animale. Allora, non solo il colonizzatore si arroga il diritto di possedere illegittimamente il patrimonio altrui, ma giustifica questa appropriazione del tutto indebita valutandolo un gesto naturale, data l'inferiorità umana e intellettiva del popolo che sta assoggettando. La denuncia di questo postulato pregiudiziale e razzista sta alla base del giudizio sul colonialismo come crimine, che fonda molte delle riflessioni critiche postcoloniali qui analizzate. Per finire questa breve raccolta degli orrori, nel racconto Chinago, dei Racconti del Pacifico e dei Mari del Sud84, London ci fornisce un'altra prova, in una narrazione profondissima per la riuscita d'immedesimazione con l'altro. Nel racconto si narra la vicenda di un cinese condannato alla ghigliottina, al posto del vero colpevole (non considerando l'illegittimità del processo sommario), per un errore ortografico di distrazione, che confonde i nomi dei due imputati. Ah Cho viene condotto al patibolo, nonostante le sue garbate rimostranze, al posto di Ah Chow:
Il sergente gli lanciò un'occhiata frettolosa e capì lo sbaglio.[...] 82 L.F. Cèline, in op. cit., pp. 156-158. 83 T. Todorov, in op. cit., p. 177. 84 J. London, I racconti del Pacifico e dei Mari del Sud., Roma, Newton Compton, 1992.
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“Guardalo”, fu la risposta. “E' lui.” Shemmer rimase sorpreso. Imprecò per qualche secondo poi guardò dispiaciuto la macchina che aveva costruito con le sue mani e che era impaziente di veder funzionare. “Stà a sentire” , disse alla fine. “Non possiamo rimandare questa faccenda. Ho già perso tre ore di lavoro di quei cinquecento chinago. Non posso permettermi di perderle un'altra volta ancora solo per l'uomo giusto. Facciamola lo stesso finita. È solo un chinago”.85
Non è un essere umano Ah Cho, non un innocente: è solo un chinago, una tra le innumerevoli proprietà del bianco in terra straniera. La sua vita non ha valore, sicuramente non vale quanto la perdita di tre ore di lavoro degli schiavi cinesi, probabilmente non vale neanche quanto la soddisfazione di veder funzionare la ghigliottina artigianale, il giocattolo del funzionario bianco di turno. Tutti questi esempi, queste brutali rappresentazioni sembrano scaturite da una stessa esperienza, in realtà sono gli specchi di momenti e tradizioni differenti, ma sembrano solo far esplodere il senso comune della violenza coloniale. In ogni tempo e in ogni luogo. Così, da Conrad a London, da Céline a Flaiano, fino al più recente Emanuelli, sembra di poter stabilire un intreccio indissolubile tra metodi, ideologie e prassi dei colonialismi europei. Non c'è sviluppo né progresso in quelle violenze disumane e gratuite, nessuna vergogna nel rovesciamento ideologico di uno sfruttamento materiale ed economico travestito da filantropia. Non si tratta, per stabilire definitivamente l'assurdità della pretesa di distinzione dei meriti e demeriti delle varie particolarità coloniali, di un insieme di eterogeneità unite dal nome di colonialismo. Si tratta di un'omogeneità che procede nei secoli, dalle conquiste spagnole, al neo-colonialismo economico, che in forme differenti, testando ogni sfumatura di violenza, si impone come male assoluto, assurdo e ingiustificabile. È lo stesso morbo che infetta e impregna ogni crimine di cui si macchia il tenente di Flaiano: la stessa malattia che lo affligge, fenomenizzandosi in una sintomatologia che nonostante le apparenze, salva lui annientando il prossimo. 85 Ivi, p. 40.
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Quando il tenente afferma che l'imperialismo si trasmette per ereditarietà o contagio, paragonandolo ad una malattia, si verifica la mancata presa di coscienza di ogni colonizzatore che non percepisce la sua identità con il morbo, l'esserne portatore, untore, propagatore. Nello stesso modo procede il ragionamento del protagonista di Settimana nera. Il romanzo è una chiara testimonianza di come il metodo coloniale incida sui rapporti umani. La protagonista femminile, Regina, è una schiava a tutti gli effetti: in casa del signor Farnenti si occupa di servire gli ospiti e di soddisfare gli impulsi sessuali del padrone di casa e dei suoi amici, quando la munificenza del colono la concede agli altri. È ciò che accade all'anonimo protagonista di Settimana nera,
che sembra
inizialmente avere delle remore ad accettare questo dono inaspettato, ma che ben presto si rivela lieto di usufruire di questa merce inusuale, salvo poi confessare, al termine del romanzo, la presa di coscienza del suo ipocrita narcisismo. Il romanzo di Emanuelli è ambientato a Mogadiscio e si apre con una scena di quotidianità in cui i bianchi si godono ancora i loro privilegi e la loro ricchezza: in un albergo del centro, un anonimo commerciante italiano di scimmie e Farnenti, ex fascista, ora possidente, aprono il sipario su una storia di discriminazione e ipocrisia, che si rivela un altro specchio del colonialismo italiano, tra velleità paternalistiche e palese sfruttamento. Farnenti invita il commerciante a trasferirsi nella sua casa durante un periodo d'assenza, ma questa offerta si rivela essere più di una normale cortesia. Il commerciante è esortato a diventare, di fatto, il padrone temporaneo di esseri umani e cose, durante l'assenza da casa di Farnenti. I rapporti del bianco con il negro, sono immersi nella totale mercificazione di quest'ultimo, paragonato ad un mezzo che serve di volta in volta solo per trarre profitto dalla ricchissima terra africana. In realtà questo romanzo è una catalogazione di rapporti, ogni personaggio è un cammeo che ripropone tipologie differenti di rapporti coloniali, tutti sotto il comune denominatore della sopraffazione violenta. La vicenda principale, il rapporto tra la schiava Regina e il commerciante di 45
scimmie, serve all'autore per costruire un'impalcatura accusatoria alla base della quale stanno la presunzione e l'ipocrisia con cui si connotano i personaggi italiani ed ogni loro relazione umana. Il solo Contardi, un medico omosessuale, percepisce la violenza insita nell'ipocrisia del modus vivendi italiano in Africa, e vede rispecchiarsi in questo la sua storia ed i suoi comportamenti: questa illuminazione che gli rende rivoltante ogni suo atto e comportamento quotidiano lo porta al suicidio, sola scelta possibile per la propria salvezza.
Il Contardi da ventidue anni era a Mogadiscio ed era stato protagonista – molto tempo prima – di uno scandalo perché amava i ragazzi ai quali però insegnava anche l'educazione, l'italiano e li avviava a qualche mestiere. […] Contardi era venuto a Mogadiscio come funzionario governativo e dopo due anni aveva avuto l'incidente: per evitare lo scandalo gli avevano detto che doveva rimpatriare o dimettersi e lui aveva scelto la seconda soluzione. Era diventato rappresentante di una casa di produttrice di liquori e vini, guadagnava bene; era rimasto in disparte per molti anni, poi con l'arrivo degli inglesi era risultato l'unico non compromesso con le faccende fasciste; per di più si è dimostrato fermo di carattere, non servile e, quasi contro voglia era tornato nel giro di tutti.86
La figura di Contardi è fin da subito molto interessante per la sua omosessualità che diventa motivo di esclusione o inclusione nei giochi di potere prima italiani e poi inglesi. Ma forse proprio l'omosessualità circonda di reticenza questo personaggio, che non pare del tutto risolto. Questa alterità, paradossalmente, causa di espulsione dal Fascismo, lo pone pertanto in una posizione di privilegio nei confronti degli inglesi. Dunque, la sua alterità, che va a confondersi con quella degli ultimi da un lato, e con l'identità dei carnefici dall'altro, ci sembra un a formulazione brillante attraverso cui veicolare la riflessione. Il personaggio di Contardi, tuttavia, pur stagliandosi sugli altri personaggi per la sua assunzione di responsabilità e per una speranza, anche se di segno negativo, verso l'apertura all'altro, rimane avvolto in un manto di vaghezza che preclude una riflessione più esauriente. Anche perché, in realtà, nel rapporto con i negri, Farnenti, Contardi e il commerciante di scimmie, non sono differenti, ognuno secondo il suo piacere. 86 E. Emanuelli, op. cit., pp. 48-49.
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Il protagonista, invece, che durante tutto lo svolgersi della vicenda sembra perfettamente consapevole e a suo agio nella complicità con il sistema di sfruttamento coloniale, dichiara la propria acquisizione di coscienza nella parte conclusiva del testo. Il romanzo, infatti, sfuma su una confessione falsa e stucchevole:
“Senti” le dissi “ho tutto il tempo, prima che ci sia il funerale, di raccontarti perché sto riprendendomi e cosa intendo per violenza e perché forse è morto Contardi, insomma perché adesso è tutto molto chiaro dentro di me.”87
Quel concetto illuminante di violenza, in realtà, non appartiene al patrimonio concettuale del penitente, non è una sua intuizione ma di Contardi, e questo determina la divergenza di destini; la comprensione di Contardi, l'orribile rivelazione, porta al suo suicidio, grazie al quale, come reazione secondaria il commerciante può furbescamente tirarsi fuori dalla situazione, lavando la propria coscienza grazie al sacrificio altrui. I danni che ha contribuito a provocare all'umanità che lo circonda non prevedono un risarcimento della parte lesa: come in Tempo di uccidere, dal momento che le vittime sono in realtà considerate esseri inferiori, il crimine viene presto dimenticato grazie alla possibilità di obliare ogni responsabilità. E grazie alla colpevolezza imperante, che dilaga e investe tutti, vince la filosofia per cui, in un mondo di tutti colpevoli, il concetto di colpevolezza sfuma verso l'inesistenza. Tornando al testo, al commerciante di scimmie viene offerto da Farnenti, di prendere il suo posto durante un'assenza temporanea, usufruendo di uomini, donne e mezzi che gli appartengono. Il lettore intuisce immediatamente che le rimostranze sdegnate del commerciante sono soltanto la maschera sotto cui nascondere la propria appartenenza allo stesso genere di Farnenti: preamboli di azioni ignobili e coscienti. Il dottor Contardi, assiste insieme al commerciante al disgustoso spettacolo dell'esibizione delle ragazze che Farnenti addestra per soddisfare i suoi impulsi 87 Ivi, p.183.
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sessuali ma, mentre per il dottore la visione di quell'orrido spettacolo sfocia nell'esplosione del proprio senso di colpa e nel conseguente suicidio, la stessa scena non impedisce al commerciante di perseverare nello sfruttamento sessuale della splendida Regina. Ci troviamo dunque di fronte ad una successione di eventi che sottolineano la sporca coscienza del commerciante italiano che, in questo identico al tenente di Flaiano, mente a se stesso dall'inizio alla fine del romanzo anche se con metodiche d'autoillusione differenti. Il commerciante è colpevole, accetta il possesso indiscriminato di oggetti e persone, senza distinzioni qualitative, si piega volentieri alla logica diffusa della totale inferiorità del negro:
“Ti piace?” mi domandò Farnenti. Scossi la testa cercando riparo nell'ipocrisia, guardai gli altri ospiti, eccitati, sudati, che aspettavano una mia risposta e continuai a scuotere la testa in silenzio, come se buttassi lontano una tentazione soltanto per far piacere ai miei compagni.88
Ma la tentazione si trasforma in attuazione; ancora prima che Farnenti termini la formulazione dell'invito con cui il commerciante si trasformerà in signore e padrone dei suoi beni, si intuisce la predisposizione del protagonista ad accettare, senza che i suoi tentennamenti convincano il lettore:
“Senti [...] Io stasera vado in concessione. Sto fuori quindici giorni” […] “Tu prendi una valigia e vieni qua. [...]hai persino un bagno che è un bagno, hai una camera con l'aria condizionata, hai la radio. Il frigorifero è pieno di roba. Hai tutto, anche la Regina.” […] “Questo signore venire stasera qua. Tutto essere suo. Capito? Lui venire e comandare come padrone. Capito? Tutto suo, qua dentro” e le diede un pizzicotto sul braccio. […] Come rifiutassi un'offerta poco convincente risposi: “Grazie, niente da fare”.89
Come in una contrattazione commerciale, il bilancio finale è negativo, sembra 88 Ivi, p.25. 89 Ivi, pp. 25-26.
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quasi che il commerciante voglia erigere un muro di confine che lo differenzi dall'indecenza circostante in virtù di un'improbabile superiorità etica; sembra sorpreso e schifato da un'offerta tanto meschina. La proposta del Farnenti, al contrario, lo convincerà molto più rapidamente di quanto possa indurre a pensare questa reazione iniziale. Siamo di fronte ad un personaggio che, per un primo brevissimo momento, risulta potenzialmente positivo. Immediatamente dopo però il commerciante si rivela essere soltanto uno dei moltissimi sfruttatori coloniali: nonostante sia perfettamente lucido, tanto da commentare e giudicare le proprie azioni, non si esime dagli imbarazzanti tentativi di nasconderle sotto un velo di umanità e moralità, francamente inesistenti. Il protagonista di Emanuelli si spinge alla pantomima amorosa, che inscena dinamiche tipicamente occidentali, del tutto inappropriate e fuori luogo in un rapporto sessuale imposto, uno stupro, nell'Africa coloniale. Mentre in Tempo di uccidere, l'ipocrisia del protagonista si manifesta attraverso una serie di intuizioni lasciate al lettore, che servono ad aumentare progressivamente il sentimento d'antipatia verso il tenete, in Settimana nera la falsità del personaggio emerge direttamente dalle sue stesse riflessioni.
Il
protagonista si mente, si analizza e si smaschera in completa autonomia, e palesa continuamente la sua essenza con digressioni di questo tipo:
“Allora, domani mattina, non andare via. Devi rimanere qua. Capito?” “Sì, capito.” “Ripeti che hai capito davvero.” Mi vergognavo di questo dialogo, tra l'infantile e il demente; ma erano parole necessarie alla mia ipocrisia. Inventavo a me stesso e cercavo di offrire a lei il trucco della bontà amorosa.90
Ogni volo mentale, che analizza il rapporto del commerciante con la sua schiava, è all'insegna dello smascheramento; assistiamo a continui rovesciamenti di senso che fungono da confessione, ma non frenano l'istinto bestiale che lo spinge a trarre profitto da questo inaspettato privilegio. 90 Ivi, pp. 63-64.
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La continua partita con se stesso, con il suo ego, è soltanto una sceneggiata e ha il vantaggio di non poter essere smascherata in nessun modo perché a nessuno interessa una condanna. Il commerciante è perfettamente consapevole delle sue azioni: Dopo qualche secondo voltò adagio gli occhi verso di me, aveva uno sguardo né gentile né invogliante, e subito accettai quella risposta silenziosa come un compromesso tra il mio desiderio e la sua pazienza. La guardavo. Mi sentivo pervaso da tenerezza, da gratitudine fisica, che servivano a far tacere ogni scrupolo. E poi avevo la rassicurante sensazione di non poter essere smascherato.91
Nel corso del romanzo assistiamo ai patetici e ripetuti tentativi di dissimulare il tipo di relazione con Regina, ventilando le sue possibilità di scelta e di rifiuto, in siparietti imbarazzanti. Ogni volta che il commerciante tenta di analizzare e definire verbalmente l'entità e la tipologia del rapporto che lo lega a Regina, si scontra con il muro resistente della consapevolezza della donna, che vanifica ogni sforzo di correzione della realtà.
[…] subito trovai una variante, ripetendo nel linguaggio cretino che si usa parlando con i servi: “Regina tu scusare se io venire tardi. Machìna rotta, capire? Machìna non funzionare più”. Rifiutava e mi rimproverava le mie giustificazioni, perché rispose: “Tu essere padrone”. “No: io non essere padrone, lo sai.” Gli occhi le brillarono [...] “Tu non essere padrone, ma stare come padrone”.92
L'accusa è secca e non lascia spazio a nessuna protesta teatrale; il commento di Regina si scaglia contro l'ipocrisia del commerciante: la schiava non ha bisogno di un vocabolario forbito per zittire l'italiano, basta la sua dignità. D'altronde, il protagonista si limita a scuotere la testa, protestando remissivamente, come in presenza di una verità talmente cristallina da rendere inutile ogni tentativo di contrasto. Anche nei rapporti che potrebbero far emergere un'affettività naturale, come 91 Ivi, pp. 87-88. 92 Ivi, p. 119.
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quello tra il protagonista ed il suo aiutante Abdì, si palesa una distorsione, un confine labile tra paternalismo e sfruttamento. Durante uno dei loro giri nei villaggi, per l'acquisto delle scimmie, mentre sono alla ricerca del posto giusto in cui fermarsi a mangiare, si assiste a questa scena:
“Avere ombra?” gli avevo chiesto. “Ombra.” “Se non c'è ti spacco la testa.” Mi vergognai subito di queste parole, che non erano le mie solite, ma Abdì non era permaloso. 93
E' difficile fidarsi della confessioni di vergogna del protagonista: Abdì, solitamente trattato con decoro qui diventa una valvola di sfogo. L'imbarazzo per il proprio comportamento meschino si attenua immediatamente considerando che Abdì, come un bravo animaletto domestico, ubbidiente e mansueto, non si offenderà. Non si offenderà neanche quando, alla fine del romanzo, il commerciante lo userà come pedina nell'ultimo, misero, tentativo di liberarsi la coscienza e staccarsi da Regina. Se Regina accettasse le avances di Abdì, il commerciante potrebbe liberarsene. Così, vergognosamente usa Abdì come cavia per riuscire a liberarsi la coscienza dagli abusi su Regina: se la donna si mostrasse sessualmente disponibile con chiunque, il commerciante sarebbe legittimato ad abbandonarla con sdegno. Ma Regina lotta con Abdì, lo ferisce, lo rifiuta perché può farlo: lui è un suo pari, un negro, dunque non può imporle di obbedire ai suoi impulsi, può eventualmente chiedere ed attendere risposta. Così, quando il protagonista, soddisfatto dal rifiuto di Regina, torna da lei, si fa trasportare da desideri menzogneri, presto smentiti. Con una logica tanto semplice quanto brillante, la verità della coscienza di Regina, con la sua forzata mansuetudine, devasta in poche frasi la presunzione di innocenza che il commerciante continua ad attribuirsi:
“Regina voglio averti sempre con me. Bisogna studiare il modo, ci deve essere.” […] “Poi padrone cambiare fantasia” [...] “Io non essere padrone. Capito? Io essere amico.” […] “Abdì essere amico. Tu essere padrone.”94 93 Ivi, pp. 44-45. 94 Ivi, p. 155.
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La possibilità che una schiava africana possa offendersi o soffrire degli abusi di un bianco è talmente remota da svanire nello sgabuzzino del proprio egoismo. L'umanità negra è descritta e vista come oggetto senza capacità intellettuali di cui si può disporre a proprio piacimento, come nel caso di Regina che però scopriamo essere soltanto la più bella di una serie potenzialmente infinita di ragazze, cedute da un uomo all'altro, grazie alla munificenza del loro padrone italiano. La scena risolutiva che chiarisce in quali termini Settimana nera può considerarsi un'emblematica riflessione post-coloniale sull'ignobile e sottaciuta brutalità italiana nei confronti degli africani, vede come protagonisti il possidente Farnenti, il commerciante di scimmie ed il dottor Contardi, futuro suicida. Questa triade rappresenta tre possibili sfumature del colonialismo, tre tipologie comportamentali, ma anche una tripartizione del grado di coscienza in Settimana nera. In primo luogo la violenza gratuita di Farnenti verso l'altro, considerato totalmente privo di valore umano: l'ex fascista rappresenta la cecità totale, l'altro non esiste in quanto essere umano, tutt'al più come servo, dunque ha lo stesso valore nullo di un oggetto che contribuisce a alleggerire e migliorare la vita in colonia. In secondo luogo l'indifferenza presuntuosa del commerciante di scimmie: la totale impermeabilità all'altro si manifesta con i continui patetici richiami alla coscienza. Il commerciante vende animali e usa esseri umani, distinguendo le due categorie viventi solo in base al differente uso che ne può fare. È la figura liminare tra Farnenti e Contardi, la sfumatura degradante del retaggio coloniale, che perpetua l'ingiustizia, ma accompagnandola con lamentose riflessioni apologetiche. È disgustato, almeno formalmente, dal comportamento di Farnenti; si giudica migliore non toccando le vette oscene del possidente, in realtà gli è molto vicino: cambiano i metodi, ma non la sostanza. In ultima istanza, la coscienza di Contardi il cui risveglio, illuminato dalla fulminea consapevolezza della propria appartenenza ad un sistema criminale, lascia spazio solo all'annullamento di sé e della propria ipocrisia. Per questa illuminazione Contardi ha bisogno del confronto con la criminalità palese di Farnenti: il suo grado di coscienza può realizzarsi solo nella valutazione di somiglianza con ciò che rifiuta. 52
Il commerciante, vero protagonista del romanzo, è in realtà la figura di passaggio che incarna la banalità del male: si scandalizza dell'oscenità dei comportamenti di Farnenti, ma sfrutta volentieri i benefici che possono derivare dai privilegi coloniali. Il dottor Contardi è la soglia di coscienza oltre la quale non c'è salvezza: la sua razionalizzazione è ciò che in un istante palesa ai suoi occhi, grazie all'esibizione circense della bambina somala, ciò di cui la sua vita si è nutrita in Africa. Il vortice di orrore in cui precipita, porta all'inevitabile conseguenza della morte. I tre personaggi si definiscono in base agli altri: Farnenti che non si pone domande sulla plausibilità delle sue azioni, nell'appurare il suicidio del medico reagisce quasi con stizza, giustificando una tale pazzia con l'anormalità, cioè l'omosessualità, di Contardi.
Farnenti rideva: “Capito, capito che cosa? Se non era neanche normale”.[...] “Per esempio aveva capito” gli risposi “che ci hanno accettato non sapendo d'avere da noi soltanto la nostra civile ipocrisia e i nostri vizi.”95
Il risveglio del commerciante, con la sua disponibilità alla comprensione e alla confessione che dovrebbe purificarlo, avviene soltanto dopo che il medico ha espiato al posto suo, e viene il sospetto che il tentativo di giustificare il medico, sia con il poliziotto che con Farnenti, non sia che l'ultimo atto di un processo di espiazione sulle spalle altrui. Il medico, a sua volta, condannando Farnenti, giudica se stesso colpevole e sceglie la punizione definitiva. Vediamo la serie di episodi che scatenano la reazione disperata di Contardi. In visita alla concessione di Farnenti, il commerciante ed il dottore vengono accolti da quest'atmosfera:
Là in fondo Farnenti sbraitava contro un giovanotto seminudo [...]. Per fargli capire meglio quanto gli diceva, lo picchiava con il pugno chiuso [...]. “Vengo subito” ci disse, “ma prima devo far capire a questo cretino come funziona la pesa. È una basculla da poveretti, non un meccanismo elettronico, anche uno del Cottolengo la saprebbe adoperare. Cretino, imbecille. Non soltanto non sai 95 Ivi, p. 176.
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adoperarla, ma anche la guasti.”96
Segue una passerella di uomini e donne che tallonano e servono il possidente, come in una corte in cui il re dispone degli esseri umani come di balocchi per divertirlo; assistiamo nell'apice della sconcezza, ad un momento talmente laido e volgare da far inorridire il lettore:
Il caffè venne portato da una ragazza sui quindici anni […] Appena uscì Farnenti disse, con la solita indifferenza spadroneggiante: “È in rodaggio da quattro giorni. Viene su bene”. “È schifoso” ribatté Contardi, con tanta ostentata fermezza da far dubitare che fingesse una condanna per un travestimento ironico del suo cinismo. […]. Poi disse: “ Un bananeto bisogna rinnovarlo ogni cinque o sei anni. Non capisco perché non dovrei rinnovare ogni anno quello che mi fa comodo.97
Il parallelismo tra beni materiali ed esseri umani è in realtà una mimesi perfetta, senza nessun particolare differenziante che distingua o stabilisca una scala di valori tra ciò che di sfruttabile offre la terra africana. La situazione peggiora nel momento in cui la volontà di legittimare le proprie azioni scandalose, sconfina nella dimensione di pretesa etica e si ricopre ideologicamente di un'infida missione morale. Così, come l'invasione fascista aveva il compito propagandistico di liberare il popolo africano dalla turpe pratica della schiavitù, la subdola vocazione di Farnenti è quella di stimolare il processo di emancipazione delle bambine somale dal loro destino di perdita dell'identità sessuale; liberarle dall'orrore della tortura fisica nel rituale della mutilazione genitale98, annichilendo allo stesso tempo, per sempre, la loro dignità di donne e di esseri umani liberi. Le ragazzine, salvate dalla mutilazione, diventano schiave sessuali mute, 96 Ivi, pp. 98-99. 97 Ivi, pp. 102-103. 98 “[…] forse Contardi non sapeva che quelle ragazze, proprio per l'intervento farnentiano, venivano sottratte ad un usanza disumana. Ma come medico Contardi dove sapere che il sesso di tutte le ragazze, di qualsiasi clan[…], verso i nove anni veniva mutilato e cucito, lasciando un pertugio per orinare. Parlava come se facesse una relazione, adoperando termini di medicina sessuologica. […] a questo punto Farnenti si era lasciato trasportare dal suo entusiasmo apologetico e gridava: “Ma io quando posso proibisco, vieto che si compia l'operazione mutilatrice. Perché tagliare quel che dà piacere? Io le faccio crescere intatte, come la natura vuole: vere donne, che possono sentire quel che sentiamo noi.”Ivi, p.106
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fenomeni del circo degli orrori nella corte dell'ex fascista italiano .
“In attesa del giorno buono bisogna avere cura del bananeto”. Si rivolse alla ragazza: “Su, levare bene tutto e fare festa ai tre padroni”. Ci indicò con la mano, elevandoci al suo stesso grado di potere. La ragazza si tolse la tunica bianca con mosse infantili, dove c'era un'ombra di gioco, d'effetto deprimente. Rimase nuda, efebica, quasi senza sesso. Sul ritmo che Farnenti le dava battendo le mani, cominciò un simulacro di danza del ventre [...]. Lo scatto dei fianchi era modesto, senza malizia tecnica o interpretativa e anche Farnenti dovette restare deluso. “Su” le ordino, “adesso fare come scimmia.” […] cominciò ad altalenare il ventre, offrendosi e ritirandosi, imitando l'amplesso.99
Sono due gli aspetti fondamentali di questo racconto grottesco: se da una parte, si raccoglie lo sdegno per una pratica di mutilazione che non può che risultare gravissima agli occhi degli occidentali, l'entusiasmo apologetico sottolinea la tendenza a considerare plausibile ogni atto di sopraffazione umiliante, in virtù dei benefici che il colonizzatore porta nella vita del colonizzato. Questa inversione di responsabilità dovuta al bilancio unilaterale del rapporto costi-guadagni è frequentissima nelle motivazioni che rimpolpano le ideologie colonialiste. Inoltre, il trattamento riservato ai negri, in questo caso la simulazione dell'amplesso, in un gioco perverso che eccita il padrone bianco, si edifica sulla convinzione della loro nullità, della loro mancanza di mezzi e strumenti critici, che li rende oltremodo sfruttabili, oppure della loro necessaria posizione di svantaggio, dovendo accettare l'imposizione degli usi e costumi dei dominatori, ma completamente estranei ai propri. La donna africana, qui schiava e oggetto di ludibrio e indecenza, è il soggetto ricorrente di esempi multiformi della soddisfazione del bianco che si innamora dell'esotica bellezza, addirittura arrivando a fantasticare su un futuro di coppia, palesemente infondato e impraticabile. Come visto in Tempo di uccidere, la progettualità matrimoniale dura lo spazio di un secondo. Non sempre e non solo la pratica di subordinazione si esprime con gli strumenti 99 La scena continua con la soddisfazione eccitata del padrone che ha addestrato a dovere il suo fenomeno da baraccone. “Era contento, eccitato: “Queste cose non le ha certo imparate dalle suore a Chisimaio” annunciò ridendo[...]” Ivi, p. 105.
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della violenza fisica o psicologica. Nella lettura dei testi ci si scontra in innumerevoli esempi di relazioni, che per quanto possano dimostrarsi affettuose e rispettose, mostrano comunque il ritratto di rapporti impari, squilibrati. Il giudizio su questi comportamenti non può che essere fermo: ne è prova lo sdegno di Contardi in Settimana nera100, presagio del suicidio che affermerà la sua presa di distanza da un sistema a cui appartengono tutti i protagonisti del romanzo. Consapevoli o no. L'episodio del circo a casa Farnenti, devastante per il medico, al contrario, non scalfisce minimamente il commerciante, che continua la sua relazione con Regina e che con l'espediente della prova di Abdì non farà altro che confermare la sua immobile povertà morale. Per Contardi, la visita a casa Farnenti è uno schianto della coscienza, il suo commento nel ricordo della serata non solo dà notizia del crollo emotivo che ne conseguirà, ma rivendica anche la possibilità di una partecipazione differente, basata non più solo sul sopruso, ma anche su un tentativo d'empatia: la facoltà di allontanarsi dal morbo coloniale riconoscendosi colpevoli e complici con ciò che si condanna.
“Sì, le due ragazze e tutte le altre storie che ho indovinato. La storia di quel giovanotto che pesava le banane, del vecchio ruffiano con le gengive scoperte, del ragazzino orfano, dei cani. Anche loro, hai visto? Rispecchiano la violenza di Farnenti.” [...] “non dovrei tanto criticare. Ho passato qua molti anni, dai trentacinque in poi, e ne ho combinate d'ogni colore, come tutti gli altri. Ma in fondo è sbagliato dire così: il colore è unico. Caro mio, è il colore della violenza vanitosa o viziosa, ipocrita o raffinata. Queste cose le so da molto tempo, ma da stasera in modo particolare.”101
Immediatamente successivo è l'apice della riflessione e del mea culpa, ancora lontano dall'essere penetrato nelle riflessioni italiane sull'esperienza coloniale. Contardi si staglia sui suoi compagni di avventura perché è l'unico in grado di formulare un verdetto insindacabile sull'esperienza coloniale sua, e per traslato di 100 “E chi vuol togliere i tuoi meriti? Dico soltanto che sono metodi schifosi” ripeté Contardi fingendo, forse per pudore, d'essere cocciuto e noioso al modo degli ubriachi.” E. Emanuelli, in op. cit., p. 107. 101 La vanità rimanda immediatamente alla motivazione della scelta del titolo Tempo di uccidere, d'ispirazione biblica, tratto dal libro dell'Ecclesiaste. Ivi, p. 112.
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quella italiana, che si può estendere al colonialismo in genere. Chiunque tenti di fare distinzioni all'interno delle varie prassi coloniali o si tenta di gerarchizzare colonialismi più o meno dannosi, non considerando che anche un solo crimine contro l'umanità o il territorio basta a delegittimare questo tipo d'impresa, dovrebbe imporsi il ricordo dell'ultima considerazione che Emanuelli affida al medico italiano:
“Tutte giustificazioni ignobili. Anche quando credi di non aver mai adoperato la rivoltella, lo staffile, il tribunale, la furbizia, le macchine, il danaro, ti accorgi di aver adoperato la tua ipocrisia di civilizzato e i tuoi vizi”.102
La stessa considerazione è riassorbita dal commerciante, che non convince però; sembra soltanto una dichiarazione di colpevolezza o un'anticamera del rilassamento della coscienza, che potrà dirimere il garbuglio di colpa e pena con la rielaborazione del racconto. Se si volesse fare un bilancio conclusivo per quanto riguarda la riflessione sui rapporti diretti con l'altro, Emanuelli propone un'analisi abbastanza impietosa, anche se preserva dei margini di positività, con la figura di Contardi. Non c'è spazio per nessun ottimismo, al contrario, nel racconto delle reazioni che commentano il passaggio di consegne ai posti di comando tra gli italiani, costretti alla perdita dei loro decennali privilegi, e i somali in procinto di riacquistare la propria indipendenza e libertà: la vicenda, come già detto, si svolge alle soglie dell'indipendenza somala, in un momento storico e sociale di grande incertezza per i coloni che vedono sfumare la loro posizione di predominio e l'urgenza dell'avvicendamento ai ruoli di comando politico e commerciale. Tutti i dubbi e i pregiudizi coloniali su questo passaggio sono affidati ad un italiano, che il commerciante di scimmie incontra in un locale, il quale manifesta lo sconcerto che deriva dalla rivendicazione dei somali di acquisire posti di comando, relegando i colonizzatori ad un ruolo subalterno. La difesa di questo diritto da parte del commerciante suona come una vuota apologia di se stesso, forse sufficiente, nel suo pensiero, a minimizzare il suo ruolo 102 Ivi, p. 115.
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nel sistema, tramite la soddisfazione sessuale che si è garantito sfruttando Regina. Il dialogo tra i due si svolge in un'atmosfera molto ambigua, il commerciante di scimmie sembra muoversi sul filo scherzoso del mistero su che valore si debba attribuire alle sue parole di difesa verso i somali.
Era un perito industriale, da una settimana aveva presentato il preventivo per la costruzione di un impianto elettrico, ma non si decidevano ad approvarlo. “Chi?” domandai con distrazione guardando nella sala. […] “Volevo dire gente nera come loro. Adesso cominciano a comandare e negli uffici i nostri tecnici devono aspettare il loro parere.” “Lo so. È giusto che sia così.” Mi guardò sorpreso, perché non capiva se dicevo seriamente o per prendermi giuoco di lui. […] “Però non sono scemi quando trattano gli affari.” “Lo so da un pezzo.” confermai, lasciandolo ancora nell'incertezza se le mie parole erano serie o scherzose.103
Non sembra possibile che certi giudizi di valore su un popolo comunemente considerato inferiore e incapace di gestire autonomamente le proprie risorse e l'indipendenza dai bianchi, abbiano una legittimità razionale. Il protagonista è divertito dall'incredulità che provoca la sua attestazione di stima, comprende perfettamente che il pensiero del perito rispecchia quello della quasi totalità dei coloni e anche il suo, a ben vedere, considerati i suoi continui abusi sull'inferiorità di Regina. Quasi in ogni testo che abbiamo analizzato si riscontra la sorpresa e lo sconcerto degli italiani nell'affrontare la fine del periodo coloniale, con la difficile rinuncia alle ricchezze e ai privilegi che essa aveva comportato. In piena decolonizzazione, i commenti sdegnati dei protagonisti italiani, per la riappropriazione da parte dei somali della terra, dei ruoli di comando e della gestione del territorio, usano i toni e i modi della spiacevole sorpresa: emerge l'incredulità di essere cacciati da una terra ormai considerata proprietà privata indiscussa. Ma questi giudizi di valore sono destinati a rovesciarsi quando si rovescia l'ottica della visione: quando chi è abituato a classificare, giudicare e catalogare diventa 103 Ivi, pp. 137-138.
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oggetto di visione altrui, la vanità e la presunzione sfumano nel senso di inferiorità. In un sistema di assiologie imperfette e non universalizzabili, lo stesso popolo italiano, che si è permesso dietro lo scudo di un paternalismo d'accatto, di schiavizzare e sfruttare l'umanità negra e di attribuirsi una superiorità razionale e morale, è costretto a prendere atto della propria immedesimazione con la violenza bruta del fascismo molto più che sintomatico: quella violenza che ci appartiene come popolo è ciò che permette di assistere senza troppo sdegno ai vari sketch teatrali che Farnenti inscena nella concessione con i “sudditi disgraziati di un regno in malora” 104. Il suicidio di Contardi è questa realizzazione, ma i commenti sull'estremo rifiuto della propria identità carnefice rimandano a giudizi di valore negativi che dipingono il suicida come anormale e pazzo: solo un pazzo, in questa mentalità perversa può considerare illegittimi i soprusi grazie ai quali si soddisfa la volontà di potenza. E dunque assistiamo all'ultimo, penoso, tentativo del commerciante di trovare una giustificazione che purifichi anche se stesso:
Farnenti rideva: “Capito, capito che cosa? Se non era neanche normale” [...] “Per esempio aveva capito” gli risposi “che ci hanno accettati non sapendo d'avere da noi soltanto la nostra civile ipocrisia e i nostri vizi.” [...] Mi voltai per attraversare il portico e salire nella mia camera. Feci una doccia con l'illusione di levarmi di dosso qualcosa che puzzava - come se l'ipocrisia potesse avere l'odore dolciastro della carogna e la violenza di quello amaro del caffè bruciato.105
Ecco che qui, come in Tempo di uccidere, la considerazione finale e pregnante è affidata all'odore di morte, di carogna, qui addirittura si parla di odore violento del caffè bruciato: l'odore molesto; l'odore della propria ipocrisia. La putrefazione della propria coscienza, che si rivela sempre come colpa o punizione altrui e che non scalfisce l'impunità dei protagonisti ci pare un'allegoria perfetta della fine e degli sviluppi del colonialismo italiano e non solo, la consapevolezza dell'assenza di conseguenze legittima tutto. La presa di coscienza finale dell'orrore che infetta chiunque chiuda gli occhi 104 Ivi, p. 110. 105 Ivi, pp. 176-177.
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davanti allo scempio dello sfruttamento, sembra comunque non scalfire l'indifferenza del protagonista; c'è spazio soltanto per un bagliore momentaneo nella scoperta dell'appartenenza alla schiera di esseri immondi: ciò che potrebbe sublimare il protagonista, il suo senso di colpa che potrebbe frantumare la sua dilagante ipocrisia, rimane invece una misera eco nella coscienza. A pagare il conto non sono mai i protagonisti: i comprimari a volte, gli africani sempre. Questi testi non lasciano spazio a nessuna vena d'ottimismo. Anche il commerciante come il tenente di Flaiano, tornerà in patria mondo, pulito dai suoi peccati grazie all'altrui sacrificio, o grazie all'indifferenza che accomuna tutti e permette l'assoluzione del silenzio sulle proprie colpe. Non c'è scenario peggiore col quale concludere. Anche le riflessioni che possono scaturire da questo tipo di analisi si perdono nella cupezza dell'eclatante realismo di queste pagine, che purtroppo dipingono l'Italia come protagonista, se non della spartizione del potere economico e territoriale, in cui ha avuto suo malgrado un ruolo minore, in prima linea nello sciagurato mercimonio coloniale. Commentando la dichiarazione del generale Guglielmo Nasi106, eccellente amministratore e soldato tra i più valorosi, che ha scritto: “la storia coloniale di tutti i paesi è purtroppo una storia di orrori. Ma dobbiamo riconoscere che la storia coloniale italiana è quella che di gran lunga ne annovera meno”, scrive Del Boca:
Ancora una volta, anche nelle riflessioni di uno dei massimi gradi dell'esercito, affiorava il mito dell'italiano diverso, più tollerante, più generoso. Ancora una volta l'italiano era posto, nella graduatoria dei popoli, in una posizione privilegiata, protetta. Ancora una volta, scattava, naturale, spontanea, la solita sconsiderata autoassoluzione107
E vedremo, nelle analisi successive, che i testi di Flaiano ed Emanuelli saranno ben altro che cupe e dolorose riflessioni: si riveleranno piuttosto come tristi e appropriati pronostici sull'ottusa perseveranza delle prassi gestionali italiane mai veramente ripudiate, neanche in successivi periodi post e neo-coloniali. 106 Archivio Giuseppe Brusasca, b. AI/2, f.16. In A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005.p. 209. 107 Ibidem.
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CAPITOLO 2 NELLA PELLE DELL'ALTRO. 2.1 Mimesi imperfette. Ne La conquista dell'America. Il problema dell'«altro», Tzvetan Todorov formula un concetto che risulta prezioso nell'analisi dei testi di Erminia Dell'Oro.
[…] il fatto è che il rapporto con l'altro non si costituisce entro una sola dimensione. Per render conto delle differenze esistenti nella realtà occorre distinguere almeno tre assi, intorno ai quali ruota la problematica dell'alterità. C'è, in primo luogo, un giudizio di valore (piano assiologico): l'altro è buono o cattivo, mi piace o non mi piace, o meglio, come si diceva allora, è mio pari o è un mio inferiore (perché ovviamente, il più delle volte, io sono buono, ho stima di me stesso...). Vi è, in secondo luogo, l'azione di avvicinamento o di allontanamento nei confronti dell'altro (piano prasseologico): io abbraccio i valori dell'altro, mi identifico con lui; oppure assimilo l'altro a me stesso, gli impongo la mia propria immagine; fra la sottomissione all'altro e la sottomissione dell'altro vi è anche un terzo termine, la neutralità o indifferenza. In terzo luogo, io conosco o ignoro l'identità dell'altro (piano epistemologico); qui non vi è, evidentemente, alcun assoluto, ma un'infinita gradazione fra stati conoscitivi minimi e stati conoscitivi più elevati.108
Il tentativo di mimesi con l'altro è un filo conduttore costante nella produzione di Erminia Dell'Oro. La scrittrice, nata ad Asmara, rimarca continuamente l'amore verso la terra d'origine ed i suoi abitanti, le meraviglie climatiche e naturali, il cosmopolitismo della capitale eritrea e tenta, nei suoi testi, un'immedesimazione con l'altro che si risolve in scelte, stili e risultati differenti. Se, seguendo i tre assi ipotizzati da Todorov, si può certamente situare Dell'Oro nella gradazione elevata del piano epistemologico e si può, allo stesso tempo, credere alla buona fede dell'autrice quando afferma la parità con l'altro sul piano assiologico, rimaniamo incerti sulla questione prasseologica, vista la dicotomia tra l'intenzione di mimesi di Dell'Oro e l'effettiva trasposizione letteraria. 108 T. Todorov, op. cit., p 226.
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Prima di analizzare questa tripartizione, leggiamo alcune dichiarazioni dell'autrice, che utilizzeremo per chiarire la nostra analisi. In un'intervista, rilasciata a Irene Claudia Riccadri, uscita sulla rivista di Letteratura della Migrazione «El-Ghibli», Dell'Oro afferma, con una chiarezza che lascia poco spazio a fraintendimenti di essere perfettamente consapevole dei benefici che le sono arrivati dalla sua appartenenza biografica. Erminia, immersa nell'agio di una famiglia coloniale, tenta di recuperare la memoria del popolo a cui, nonostante il distacco sociale ed economico netto, sente di appartenere.
Quasi tutti i suoi romanzi sono ambientati nello stesso luogo (l'Eritrea)... e anche quando la vicenda comincia in Italia, finisce per approdare lì. Perché? Che ruolo ha avuto questo Paese nella sua formazione umana e poetica? Sono nata in Eritrea e lì ho vissuto fino a vent'anni. Mio nonno ci è andato nel 1886 e mio padre è nato e morto lì (veniva in Italia come turista e ripeteva sempre che voleva morire nel suo paese, l'Eritrea. E così è stato). Era un colonialista paternalista, certo, ma è sempre stato rispettoso coi suoi lavoratori eritrei: non l'ho mai sentito dire una parola contro di loro. Amava profondamente quel paese e mi diceva che quella era la mia terra. E per me era naturale che fosse così: era il mio mondo, l'unico che ho conosciuto fino a quando non l'ho lasciato. Le mie radici affondano in Eritrea, il luogo dove ho passato gli anni fondamentali della vita: l'infanzia e l'adolescenza sono i periodi in cui si imprimono le immagini, le sensazioni più vivide, quelle che anche in seguito non ti lasciano mai. Anche se frequentavo le scuole italiane dove ci facevano studiare la storia e la geografia dell'Italia (mi ricordo che gli affluenti del Po erano un incubo perché nulla era meno interessante per noi che vivevamo lì), la mia vita era impregnata della terra magica d'Africa, magica sotto tanti aspetti: per la luce, per i colori, per la gente, per le sensazioni che offre. Oltre a questo avevo l'opportunità e la fortuna di frequentare un ambiente cosmopolita. Mio padre aveva conoscenti arabi (andavo a cena a casa loro e mangiavamo sui tappeti, sui cuscini), io avevo amici greci, inglesi... eritrei pochi perché non vivevano nei quartieri dei bianchi.109
In questo breve ricordo autobiografico emergono motivi che si rivelano snodi fondamentali nella produzione dell'autrice. In prima istanza, la forte sincerità per quanto riguarda i rapporti instaurati dalla sua famiglia con gli eritrei: si afferma, senza travestimento, la consapevole appartenenza alla dimensione coloniale, alla sua sfumatura migliore, certo, 109 I.C. Riccadri, Intervista ad Erminia Dell'Oro, www.El-Ghibli.org, Letteratura della Migrazione, anno 0, numero 2, Dicembre 2003.
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rispettosa e generosa, ma comunque ad un sistema di valori che fa dell'altro uno strumento. Tra l'altro, questa formalizzazione testuale, rivive nelle parole di Elisabetta Hagos, eritrea emigrata in Europa che, intervistata sul senso del termine “postcolonialismo”, in relazione al ruolo della madre, parla della convinzione di sua madre di potersi vivere soltanto come servitrice dei bianchi:
...per mia madre è ancora così. Cioè mia madre è talmente radicata questa mentalità che ancor oggi lei chiama tutti i bianchi “signore” e “signora”. Mia madre non riesce a dare del tu a nessun bianco, non ci riesce. Anche sul lavoro. E non è semplice per me dire a mia madre: “Guarda che tu non stai parlando con delle “signore”, tu stai parlando a delle persone come te a cui tu stai offrendo un servizio.[...] Il fatto è che la gente della sua generazione non aveva “pretese”. Molti non hanno neanche la cittadinanza nonostante abbiano vissuto in Italia una vita intera. E non la pretendono.110
Nell'intervista, a Riccadri, Dell'Oro dichiara che il suo intento è ricostruire e restituire la memoria di chi, perseguitato e oppresso, non può aprirsi al mondo, e dunque, la sua scelta sul piano prasseologico todoroviano sarebbe quella di fondersi con l'alterità, facendosene voce:
Qual è stata la spinta che le ha fatto riprendere in mano la penna? Anche quando ero giovane desideravo scrivere qualcosa di utile, qualcosa che avesse un senso. Arrivata in Italia mi ero accorta che quasi nessuno conosceva la storia delle colonie italiane in Africa. Era una fetta del nostro passato di cui nessuno sapeva o voleva sapere nulla. Le nostre colonie erano piccole, perse in fretta, popolate soprattutto da fascisti... non c'era letteratura su questo argomento, come negli altri paesi europei. Così, quando sono tornata a scrivere, mi sono messa dalla parte degli eritrei. Il più bel complimento me l'ha fatto l'ambasciatore dell'Eritrea, che mi ha detto che avevo scritto come avrebbe potuto fare uno di loro. Nei miei libri ho dato forma e rielaborato le mie fantasie di bambina e di adolescente e ho ridato vita a persone che ho conosciuto davvero [...] Sellass la coraggiosa protagonista di L'abbandono: la sua storia è un omaggio alle donne eritree, eccezionali, grandissime lavoratrici, capaci di sacrifici enormi. Anche quelle che vivono e lavorano in Italia e che rinunciano a tutto per mandare i soldi a casa. Ho sempre creduto fosse un dovere morale per chi ha la possibilità di scrivere non dimenticare queste 110 D. Ghidei Biidu, E. Hagos, Io noi voi. Intervista a donne della diaspora eritrea nell'Italia post-coloniale (a cura di) S. Marchetti e B. De Vivo, in «Zapruder. Storie in movimento», Bologna, XXIII SettembreDicembre, 2010.
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donne, questi bambini e bambine "perdenti", sconfitti dal destino ma tenaci, coraggiosi, eccezionali. Quando sono usciti i miei libri, dall'estero mi chiamavano spesso perché se cercavano un autore italiano che parlasse di colonialismo si imbattevano necessariamente in me. Qui mi invitano a parlare di Eritrea ma non hanno mai fatto niente di serio su questo tema.111
L'amore per la terra africana è un altro topos fondamentale nelle scritture di Dell'Oro, motivo ricorrente nei testi, che determina l'atmosfera magica, nutrita di colori e meraviglie naturali. Per esempio, in Asmara addio112, con i toni tenui e aggraziati, costanti nella produzione dell'autrice, vediamo la descrizione di Modok fare da incipit al romanzo:
Quando Dio creò Modok, l'isola degli uccelli, era in uno stato d'eccitazione. Guardò il Mar Rosso che era uno dei suoi capolavori, ed esaltato dalla sua bellezza allungò la mano sull'acqua, accarezzandola. [...] E subito migliaia di uccelli la scossero con il loro richiamo dicendole che era nata e le onde rosa e viola l'abbracciarono donandole conchiglie lucenti [...] Allora io turbata da tanta bellezza chiesi a Dio di farmi nascere. Possibilmente vicino a Modok.113
Questa apertura su una natura mitica, primordiale, magica, che racchiude in sé il senso della purezza, simbolo anche dell'infanzia della scrittrice, è per Mario Spinella un espediente letterario che serve a ovattare la realtà storica trasportando il lettore in una dimensione fiabesca:
L'autrice […] si propone - e vi riesce - di destare subito nel lettore l'impressione di trovarsi in presenza di un'atmosfera in certo modo "fiabesca". Lo testimonia la sapienza con cui apre e chiude l'itinerario delle vicende domestiche, con l'immagine di un'isola magica, l'isola degli uccelli, quasi un territorio del sogno e della bellezza, immersa nelle nebbie e nella luce che segnano i confini tra realtà e irrealtà.114
111 I. C. Riccadri, intervista cit. 112 E. Dell'Oro, Asmara addio, Milano, Baldini e Castoldi, 1993, p. 11. 113 “[...]Diede un'occhiata all'altopiano dell'Eritrea, una fiaba sospesa nell'aria africana, con il monte Bizen ai cui piedi si aprivano precipizi vestiti di verde, il cielo blu punteggiato dal volo dei falchi, e ai piedi dell'altopiano quella macchia azzurra, viola, verde, le strisce di smeraldo e di ametista che l'adornavano come nastri della festa[...]” Ivi, p.11. 114 M. Spinella, «Le muse,oggi», 50, Gennaio-Febbraio, 1989.
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Nei testi che analizziamo, Asmara addio e L'abbandono. Una storia eritrea115, l'autrice sceglie due generi differenti, cercando però risultati comuni: il recupero memoriale dell'Africa e dei suoi abitanti, sempre proposti come emblemi di dignità, ed il ripensamento di una pagina di storia italiana, particolarmente indicativa, in terra africana. Il tentativo di immedesimarsi nella pelle dell'altro, ci sembra incompleto in entrambi i testi: se in Asmara addio si assiste alla sfumatura verso la deriva paternalistica che ritrae i servi eritrei come privilegiati e felici di servire la generosa famiglia italiana, ne L'Abbandono, il racconto è accompagnato dalla sensazione sempre presente di ambiguità, dovuta all'utilizzo di categorie di giudizio prepotentemente occidentali nel far fluire il pensiero della protagonista eritrea Sellass. Categorie che non inficiano la dettagliata rappresentazione di quel mondo, dovuta alla competenza su quello che Todorov definisce “piano epistemologico”, e che garantiscono una ricostruzione approfondita e emotivamente partecipe della storia e delle tradizioni eritree. Inoltre, i tentativi di Dell'Oro fondati su una conoscenza profonda e stratificata dell'Eritrea e dei suoi abitanti, affascina il lettore guidandolo nella ricostruzione etnologica e storica. La sensazione rimane comunque che Dell'Oro in questi due testi, più che una mimesi con l'altro, tenti di recuperare una memoria autobiografica duplice, fondata sì sull'amore per l'Africa e la sofferenza per le ingiustizie a destinate a quella terra, ma che, nello stesso momento, non può prescindere dalla componente privilegiata dell'estrazione coloniale della scrittrice. Nel 1988116 esce Asmara addio, tributo nostalgico all'Eritrea, terra natale dell'autrice: Dell'Oro nasce infatti ad Asmara, durante la Seconda Guerra Mondiale. La narrazione è affidata a Milena, alter ego dell'autrice. Il padre, Mario, è uno dei sei figli di nonno Filippo Conti e Linda Baldini, emigrati in Africa durante la prima 115 E. Dell'Oro, L'abbandono. Una storia eritrea, Torino, Einaudi, 1991. 116 L'anno di uscita non è, probabilmente, casuale. In questo anno infatti, rischia di arenarsi il progetto di cooperazione italiano in Eritrea, del Tana-Beles. Il faraonico progetto di riqualificazione e bonifica di un vastissimo territorio (ottantamila ettari) nella provincia etiopica del Goggiam, crea infatti forte indignazione fra gli oppositori di Menghistu, dando il via ad una serie di agguati verso i lavoratori italiani e ad azioni di guerriglia e focalizzando l'attenzione sulla strumentalità del progetto, ammantato di motivazioni umanitarie. a fini politici. Vedi P. Veronese, Tana-Beles, l'Italia coinvolta nella strategia di Menghistu, «La Repubblica», 13 settembre 1988.
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fase coloniale. La madre, Sara Mayer, ebrea italiana, fugge dall'Italia nel 1938 insieme ai genitori e al futuro marito, conosciuto in Italia durante una sua breve vacanza, per scampare alle leggi razziali promulgate in quell'anno dal fascismo. La tematica della diaspora ebraica è particolarmente cara a Dell'Oro, non tanto per motivi di devozione religiosa, anche se la madre era ebrea, quanto per il forte significato identitario di individui atavicamente costretti all'esilio. Nelle primissime pagine di Asmara addio ci imbattiamo nella figura di Anna Levi, ebrea italiana, compagna di viaggio del nonno Conti:
Quando sostavano per mangiare qualcosa o riposarsi, Anna apriva una piccola Bibbia consunta e per qualche attimo si estraniava da tutto. Aveva nei grandi occhi scuri lo sguardo antico di chi da secoli va in giro per il mondo, di chi conosce da sempre l'esodo, il dolore, la fatica, ma se li fa compagni e dà loro un posto nel cuore.117
L'ebraismo dunque come metafora di sradicamento e segregazione, come ponte con la difficile condizione dei meticci, numerosissimi nelle colonie italiane, di cui si occuperà invece ne L'abbandono, in cui riflette sull'auspicabile nuova formulazione dei concetti di ‘patria’ e ‘casa’, consapevole che l’uomo non appartiene esclusivamente al Paese in cui è nato o del quale possiede la nazionalità.118 Asmara Addio è un affresco autobiografico, che racconta la propria memoria africana, nutrita dalle vicende ed i racconti della sua famiglia e dei servitori che accompagnano la sua crescita fino a che, ventenne, è costretta a trasferirsi in Italia, nella madre patria mai conosciuta. La partenza è una ferita lacerante, uno strappo identitario e un distacco da una fase serena della vita garantita da agiatezza e privilegio. Dell'Oro è stata infatti costretta a partire e lasciare la sua terra natia nel 1964, a due anni dall'annessione 117 E.Dell'Oro, op. cit. p. 15. 118 D.Comberiati, Una diaspora infinita: l’ebraismo nella narrativa di Erminia Dell’Oro, in Memoria collettiva e memoria privata: il ricordo della Shoah come politica sociale, (a cura di) Stefania Lucamante, Monica Jansen, Raniero Speelman, Silvia Gaiga, Italianistica Ultraiectina 3,Utrecht, Igitur Utrecht Publishing & Archiving Services, 2008, p. 49. Questo studio molto interessante, presenta un'errore nell'analisi della migrazione dei coniugi Levi, che, partendo a fine Ottocento, non stanno ovviamente cercando di mettersi in fuga dalle leggi razziali. Inoltre Anna Levi è compagna di viaggio del nonno Conti, non madre di Lidia, come invece afferma Comberiati: “[...]nella descrizione della madre di Lidia Conti, Anna Levi, che sceglie di andare in Eritrea con la figlia per sfuggire alle prossime persecuzioni, l’ebraismo diventa immediatamente sinonimo di diaspora e continua migrazione[...]” Ibidem.
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dell'Eritrea all'Etiopia119.
C'era un'altra me stessa che mentre lasciava quei luoghi restava su isole di bianco corallo, su monti sospesi nell'aria. Era come una lacerazione, una ferita dolente separarmi da quell'io che non mi avrebbe seguito e che già mi mandava le immagini che mai sarebbero morte.120
Sullo sfondo delle vicende personali narrate in Asmara addio si snoda la storia dell'Italia fascista, della catastrofe imperiale e della seconda guerra mondiale, con aneddoti che sfiorano da lontano la Resistenza, ma non solo, vista l'attenzione per la storia Eritrea, della sua annessione e della lotta per la liberazione e l'indipendenza. La prima data che si riscontra nel testo è il 1896, anno della sconfitta degli italiani a Dogali121
Gli italiani mandati in Eritrea per sconfiggere Menelik, che la propaganda aveva descritto come un monarca selvaggio e crudele, divennero i martiri di un episodio che non si voleva dimenticare. Un giorno il lontano popolo abissino, che non aveva chiesto a nessuno di essere colonizzato,avrebbe dovuto pagare a caro prezzo quel massacro122
Un anno dopo, Filippo Conti, nonno di Milena, sbarca a Massaua:
per non perdermi nei labirinti oscuri della memoria alla ricerca di chissà quali avi apro la porta del suo lontano esilio dal mondo a mio nonno paterno, Filippo Conti. […] Detestava la fabbrica e sognava l'Africa, il misterioso paese dove gli uomini bianchi andavano a fare gli esploratori e i coloni, e un giorno decise di partire.123 119 Il 12 novembre 1962, l'imperatore Hailé Selassié, annette unilateralmente l'Eritrea all'Etiopia, dichiarandola quattordicesima provincia dell'Impero, decretando così, di fatto, lo scoppio della guerra tra etiopi ed eritrei che durerà fino al 12 dicembre 2000, data in cui verrà firmato ad Algeri il trattato di pace tra i due stati. Per una cronologia storica vedere l'Osservatorio Politico sull'Eritrea: www.eritreaeritrea.com 120 E.Dell'Oro, Asmara addio, op. cit., p. 214. 121 […] cinquecento italiani erano stati uccisi dagli abissini.[...] Si era scritto molto sulla tragica valle africana in cui tra le euforbie e le pietre i corpi degli italiani erano stati mutilati e seviziati. Era stata una tragedia che aveva pesato sul cuore degli italiani e che aveva opportunamente distolto, come ben sapevano i ministri di allora, l'opinione pubblica dagli scandali nazionali in cui erano coinvolte le banche più prestigiose. E. Dell'Oro, Asmara addio, op. cit, p.14. 122 Ivi, p. 15. 123 Ivi, p.12.
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L'ultima data che appare alla fine del testo è il 1974, anno del colpo di stato degli uomini del Derg e della fine dell'impero d'Etiopia: ciò che una volta era stato il paradiso dei bianchi, era diventato un inferno in cui la guerra per l'indipendenza eritrea contro il Derg etiopico si fondeva con la guerra civile tra il Fronte di liberazione dell'Eritrea (F.L.E.) e le frange ribelli del nuovo Fronte popolare di liberazione dell'Eritrea ( F.P.L.E)124.
Nel 1974 un colpo di stato, preparato con grande abilità dagli uomini del Derg, segnò la fine del millenario Impero d'Etiopia [...] nessuno doveva più credere che Hailé Selassié fosse l'inviato di Dio, ben strano sarebbe stato il Padre Celeste a fidarsi di un vecchio che nutriva di tenere carni i suoi cani e lasciava morire di fame la povera gente.[...] Pochi mesi dopo la caduta dell'impero, una sera, mentre Asmara rifletteva le luci del tramonto, i guerriglieri eritrei, dopo aver unito tutte le loro forze, entrarono nella città e Asmara spalancò le porte all'inferno. I passanti atterriti, sorpresi da quell'attacco fulmineo, correvano verso un qualsiasi rifugio, bambini mendichi trascinavano urlando vecchi ciechi barcollanti e molti cadevano in terra, il sangue macchiava le strade, i soldati etiopici arrivavano da tutte le parti per respingere l'attacco e sparavano ovunque.125
Questa guerra, descritta con dolore dall'autrice, vedrà morire molti dei servitori ricordati nel racconto, vittime di una storia atroce di continue sopraffazioni, in una totale e continua assenza di pace. Si può dire che, se da una parte il romanzo fallisce nel tentativo di attribuire agli eritrei il ruolo di protagonisti, Dell'Oro riesce, dall'altra, nella ricostruzione romanzata di una pagina di storia Eritrea. Questo tentativo di ricompattare quella terra e quel popolo in un romanzo che li omaggi, scaturisce dall'urgenza dettata da un preciso momento storico che vede, di fatto, la loro scomparsa, distrutti più dalla storia extra nazionale che non da quella propriamente africana126, viste le implicazioni del Derg nella divisione in sfere d'influenza dei due blocchi durante la 124 Nel 1974 in Eritrea scoppia la rivolta della 2a divisione etiopica: i soldati chiedono migliori condizioni economiche e familiari. L’imperatore Hailé Selassié viene deposto dai militari e nasce il DERG, Consiglio Amministrativo Militare Provvisorio e il primo Capo di Stato della nuova Etiopia è il Generale Aman Andom, eritreo, che verrà poi ucciso per il suo tentativo di mediazione, alla ricerca di una soluzione pacifica del conflitto. Nello stesso anno si conclude la guerra civile tra F.L.E. e F.P.L.E. Vedi Osservatorio Politico sull'Eritrea www.eritreaeritrea.com 125 Ivi, pp. 223-224. 126 Il Derg, regime militare di ispirazione Marxista-Leninista, fu armato grazie all'aiuto di Urss, Germania dell'Est, Cuba e Corea del Nord. L'Urss, interromperà l'afflusso di armi in Etiopia nel 1989, in seguito all'abbandono degli Usa della confinante Somalia.
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Guerra Fredda. Per tornare ai testi e al loro significato nella produzione dell'autrice, leggiamo una sua dichiarazione presente nella relazione di Dell'Oro al IV Forum Internazionale sulla Letteratura della Migrazione:
Il mio percorso di scrittrice è segnato soprattutto da libri cosiddetti 'di frontiera', da storie di ambientazione coloniale e post coloniale. La motivazione che mi ha spinto a realizzare un desiderio che avevo fin da bambina - diventare scrittrice - è legata a una realtà coloniale a lungo rimossa in Italia, assente fino a pochi anni fa dai libri di storia, ignorata non soltanto dai giovani. Ancora oggi molti italiani non sanno dove sia l'Eritrea o la confondono con la Somalia e con l'Etiopia. Mio nonno paterno che emigrò nel 1896 ad Asmara, ha sempre sentito un senso di appartenenza più all'Eritrea che all'Italia sebbene si considerasse 'un bianco, in terra d' Africa', come tutti i colonizzatori. Per me, nata e vissuta in Eritrea fino a vent'anni, non fu facile lasciare Asmara, la mia famiglia, gli amici, le abitudini, ma non avrei potuto realizzare le mie aspirazioni nella mia piccola città, che ai giovani offriva poco, se si intendeva intraprendere un percorso diverso da quello dei padri.127
Questa dichiarazione racchiude il senso di Asmara addio che non è solo la coronazione di un sogno artistico, ma anche e soprattutto la riappropriazione di un passato pulsante nella biografia dell'autrice. Milena, la bambina narratrice, cresce nell'Asmara italiana e cosmopolita, città sull'altipiano dal clima mite, ricca di tesori naturali che innamorano la bambina e inebriano i suoi ricordi. L'attenzione che Dell'Oro dedica al popolo eritreo è la rappresentazione emblematica di un tipo di paternalismo che connota gli italiani in colonia. L'autrice scrive:
Asmara addio è l'identificazione dell'autrice con il luogo in cui è nata, ed è la storia di cento anni di Eritrea, attraverso le vicende dei suoi personaggi, italiani ed eritrei. Ai personaggi eritrei l'io narrante dà un particolare rilievo; rappresentano un popolo dignitoso, orgoglioso, vissuto per molti anni nell'ombra, ed è da quell'ombra che la Milena del libro vuole toglierli. Rigbè, Elias, l'ex ascaro Mahasciò, Abbai, e tanti altri hanno attraversato la vita di Milena bambina e Milena ragazza, lasciando ricordi, sensazioni indelebili ed affetti che il tempo conserva.128 127 E. Dell'Oro, Le opere di Erminia Dell'Oro come ponte fra culture diverse, IV Forum Internazionale sulla Letteratura della Migrazione, Mantova, 3 aprile, 2004. in www. eksetra.net 128 Ibidem.
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Questa affermazione restituisce solo in parte le sensazioni che investono il lettore. Se da una parte è vero che ai personaggi eritrei viene concesso il privilegio di comparire, dall'altra è innegabile che solo di comparse si tratta. La loro mentalità, i loro pensieri, sono riproposti tramite l'utilizzo di categorie di giudizio occidentali ed è quindi facile, e logico, imbattersi nella tenerezza della serva Rigbè, a cui vengono attribuiti esclusivamente aggettivi e caratteristiche positive, che adora la sua padroncina Milena e contribuisce, come serva appunto, alla possibilità di vivere serenamente una vita di ricca bambina italiana ad Asmara. I servitori come Rigbè, Mahasciò, Elias, sono trattati dignitosamente in casa Conti, ma ciò non elimina un capriccioso bisogno di italianizzazione dell'Africa con la riproposizione di schemi e motivi domestici tipici della famiglia italiana benestante. Non solo, se si scorrono le descrizioni dei servitori che a vario titolo si alternano in casa Conti o casa Mayer, si intuisce immediatamente lo spirito velatamente coloniale con cui è vissuto, con il massimo affetto possibile, ovviamente, il rapporto con questi subalterni. Ghebrè, un operaio dell'impresa edile di nonno Conti, muore mentre sta lavorando. Turù è sua moglie:
I Conti diedero un po' di denaro alla famiglia di Ghebrè e offrirono a Turù un posto di lavandaia. La famiglia di Ghebrè non era mai stata così fortunata. Per la prima volta avevano visto delle monete tutte insieme e la miseria, seduta da sempre in mezzo a loro, aveva avuto un attimo di paura, ma si era subito ripresa sapendo che è un'impresa troppo ardua scacciare la povertà con poche monete.129
Questo è uno dei classici esempi del paternalismo che invade e appesantisce il romanzo: non discutiamo la buona fede dell'autrice, e neanche il sentimento di dispiacere della famiglia Conti per la morte dell'operaio ed il tentativo di risarcimento, ma lo spingersi a parlare di fortuna, suggerisce che il di rapporto di coppia fra i due africani, sia valutato come passibile di una contrattazione fra dolore della perdita e soddisfazione economica. Anche nel ritratto di Mahasciò, ci sono delle connotazioni simili, con una 129 E. Dell'Oro, op. cit., p.25.
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descrizione che ammicca ad un certo tipo di convinzioni ideologiche tipiche dell'Italia coloniale, senza la ricerca di una riflessione strutturata e profonda sulla figura dell'ex ascaro.
Mahasciò aveva fatto parte di un battaglione che aveva combattuto contro gli inglesi, vicino a Cheren, nel 1941. avevo sempre sentito parlare di lui come di un uomo, o meglio di un eritreo esemplare; aveva dimostrato coraggio e fedeltà agli italiani. Per gli ascari l'uniforme rappresentava un simbolo sacro e i loro ufficiali erano stati padri a cui confidare ogni più recondito fatto della loro vita. I sopravvissuti, ormai vecchi ricordi di tempi passati, erano per gli italiani il modello a cui si sarebbero dovuti attenere tutti gli eritrei. Ma avanzavano nuove ere, altre generazioni, e si sospirava sull'estinzione dei fedeli Mahasciò. Sentivo, sempre più ricorrente, la frase “Questa gente non ha riconoscenza”, seguita dal riepilogo di tutto quello che era stato fatto dagli italiani in Eritrea.130
Non possiamo essere certi che il privilegio di appartenere ai fedeli servitori d'Italia, fosse avvertito come tale anche dall'ascaro Mahasciò, senza dubbio però si può commentare l'uso di catalogazione delle opere meritorie italiane, come reazione al disinnamoramento delle nuove generazione eritree nei confronti dei bravi italiani. Dell'Oro riporta in modo neutrale l'abitudinarietà del ritornello risentito sull'insufficiente riconoscenza, senza però spingere la riflessione critica verso una denuncia del fatto che proprio su questi presupposti si fonda la mitografia del bravo italiano, miglior colonizzatore possibile. Ecco perché nutriamo delle riserve sull'appartenenza integrale di Dell'Oro all'asse prasseologico positivo dell'abbraccio e assimilazione all'altro, proposta da Todorov, nonostante l'autrice dichiari che è questa è l'essenza della sua scrittura. La stessa dinamica concettuale ed emotiva presente nella descrizione di Mahasciò, si riscontra in molti documenti del patrimonio di letteratura memorialistica, di cui usufruiamo grazie ai soldati italiani che hanno raccontato i servizi della popolazione africana a loro disposizione e di coloro che sarebbero divenuti ascari, spesso reclutati da giovanissimi. Giulietta Stefani riporta una testimonianza del maresciallo Polcri, che dall'Etiopia scrive il resoconto del rapporto, che Stefani ipotizza di tipo intimo, forse 130 Ivi, p. 31.
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omosessuale, con il suo “negretto”, evidenziando il tipico razzismo paternalistico coloniale:
Il mio piccolo “impiastrino” (così chiamo il mio negretto piccolino) mi si attacca un giorno più dell'altro, figurati che adesso mangia con me a tavola e che bel garbo ha nel tenere il cucchiaio, e come si pulisce la bocca prima di accostarsi il bicchiere [...]. Dorme con me e sai dove?...al posto dello scendiletto metto quattro o cinque coperte a doppio e lui sta meglio lì che in paradiso. […] Nei momenti che più mi assale la nostalgia dell'Italia, mi faccio abbracciare da quelle due braccine nere accosto quel visino bello nero al mio e mi sento tutto intenerito e buono.131
Dunque, il rapporto con il ragazzino africano del maresciallo Polcri, non solo ci offre l'ennesimo spunto di riflessione sulla categoria in cui inserire i rapporti coloniali, ma spinge anche il ragionamento verso la prova di una connotazione buonista e apologetica, sotto cui mascherare la verità di quei rapporti. Anche i familiari di Milena, e Milena stessa, adottano il ruolo di bravi padroni bianchi, onesti e rispettosi con i servitori, salvo stupirsi e rimanere delusi ed insoddisfatti nei rari casi in cui si trovano a confrontarsi con una recalcitrante serva eritrea o a dover sopportare il fastidioso divario linguistico con servitori che non hanno tempestivamente appreso la lingua italiana.
Mi hanno mandato (la ragazzina non la sopportavo più, se l'è presa la signora Castoldi che ha una vocazione per i ritardati) una signora di mezz'età, ha buona volontà ma non capisce bene l'italiano, è un po' svanita, così fra noi è un dialogo fra sordi e io mi innervosisco molto, quando avrà capito le mie abitudini andrà meglio. Le hanno comunicato che dovrà andare a scuola (così spesso sarà via) e mi chiedo se una donna della sua età, con la vita che ha fatto, avrà voglia di dedicarsi allo studio.132
A tal proposito, è utile tener presente l'intervento di Giulia Barrera, durante il convegno “Africa: biografia di un continente.”133, in cui dichiara che nei racconti raccolti e nelle interviste agli eritrei, è proprio la mancanza di istruzione (erano 131 A. Polcri, Il soldato e il negretto, in G. Stefani, op. cit., pp.127-128. 132 E. Dell'Oro, Asmara addio, op. cit., p.231. 133 G. Barrera, Italia, l'avventura coloniale, relazione al convegno Africa: biografia di un continente, Roma 4-6 Ottobre 2010. Della stessa autrice vedi anche Patrilinearità, razza e identità: l'educazione degli italoeritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934), in «Quaderni Storici», 109, aprile 2002, pp. 21-24.
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permesse le scuole solo fino alla quarta elementare), insieme alla prassi dell'abbandono dei figli meticci, a risultare uno dei ricordi più dolorosi della colonizzazione italiana. Problemi linguistici da un lato, incomprensioni essenziali dall'altro, in ogni caso manca una presa di distanza di Dell'Oro. Eccezionale la riflessione di Flaiano, in Aethiopia. Appunti per una canzonetta, che con la sua consueta ironia, determina immediatamente la direzione opposta sullo stesso ragionamento:
La civiltà è un'opinione. Sarà molto difficile, forse impossibile, amalgamare questa gente, portarla ai nostri costumi. Dopo quarant'anni di dominio gli eritrei sono ancora pieni di credenze e di usi radicati e ci vorranno almeno altri quarant'anni di cinema
americano per guastarli.134 Parlando della partenza di Abeba, una serva entrata in casa Conti per sostituire la sorella morta, Milena riflette:
Non l'avevamo rimpianta, perché aveva sempre avuto nei nostri confronti un atteggiamento di silenziosa ostilità, che nessuno era riuscito a capire. Poteva essere, il suo severo silenzio, un modo di proteggere un'eccessiva timidezza o un senso di malessere in un mondo che sentiva lontano da lei. In pochi anni aveva imparato a parlare bene l'italiano, a leggere e a scrivere, e a fare tutto in casa. [...] e quando dopo molti anni vidi su un giornale italiano la fotografia di un gruppo di guerriglieri eritrei riconobbi immediatamente la giovane donna con pantaloni, camicia e berretto verde, il cui viso era diventato ancora più bello e più fiero. Pensai che non c'era da sorprendersi, quello era il suo posto da sempre.135
In questa riflessione è evidente una dicotomia logica, uno sfasamento probabilmente dovuto alla distanza temporale che separa le due fasi della riflessione di Milena: un primo momento, che deve all'assenza d'empatia l'incomprensione del distacco mostrato da Abeba; una seconda ricostruzione in cui si individua, a posteriori, quel distacco come sintomo di disprezzo per chi, tra gli altri, l'ha resa 134 E. Flaiano, op. cit., p. 294. 135 E. Dell'Oro, op.cit., p.169.
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schiava nella propria terra. È da notare, inoltre, che sono proprio le riflessioni, come quella che emerge dalla citazione, velatamente colonialiste, a creare attrito con la volontà dichiarata da Dell'Oro di ricostruire una memoria storica che abbia come protagonisti gli eritrei: l'autrice sembra avvicinarsi verso l'asse todoroviano dell'indifferenza, in buona fede e spinta da un amore generalizzato che, a volte, rischia di scivolare verso la neutralità. L'autrice spiega che il fascino di Asmara è dovuto in parte anche al suo multiculturalismo, che è però uno degli aspetti più evidentemente escludenti della dimensione coloniale; i bambini delle più varie nazionalità giocano insieme per le vie di Asmara, così come gli adulti si ritrovano nei tanti clubs asmarini, eritrei esclusi, grazie alla politica italiana di apartheid, in questo, all'avanguardia:
Asmara addio vuol essere una testimonianza dell'arricchimento spirituale, culturale, che comporta il vivere a contatto con persone 'altre'. In Eritrea, oltre agli eritrei, convivevano indiani, arabi, greci, gente di razze e religioni diverse. Purtroppo non c'era la coscienza di un arricchimento culturale, da parte degli italiani, perché i più arrivarono nella colonia nel periodo fascista, negli anni in cui vennero promulgate le leggi razziali che bollavano come inferiore anche la razza nera e vietavano i matrimoni misti.136
La questione delle leggi razziali è particolarmente importante per l'analisi dei testi di Dell'Oro, per la sua implicazione empatica, e per la condivisione emotiva della sofferenza che implica il rifiuto di ogni tipo di razzismo. I futuri genitori di Milena, non ancora sposati, scappano dall'Italia per evitare la persecuzione delle leggi razziali nel 1938, anno di promulgazione, e decidono per non incorrere in problemi di giustizia, di sposarsi nella meno rischiosa Africa.137 Il pensiero del destino dei propri cari lasciati in patria non li abbandonerà mai e anzi, si fonderà con il dolore per ogni perseguitato e sofferente della terra. Come 136 E. Dell'Oro, Relazione al Iv Forum Internazionale della Letteratura della Migrazione, Mantova, 3 Aprile 2004. in www.eksetra it 137 Il 7 ottobre1938 la famiglia Mayer e Mario, riuniti a tavola, parlavano dell'imminente cerimonia e del viaggio che li avrebbe portati in Africa. Erich accese la radio per sentire il notiziario[...]. Il Gran Consiglio del Fascismo aveva deliberato che gli ariani non potevano contrarre matrimoni misti. E, insieme ad altre delibere, la decisione di un controllo dell'immigrazione di ebrei verso alcune zone dell'Etiopia. E. Dell'Oro, op.cit, p.54.
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quelli in cui si imbattono nel primo incontro con l'Africa:
[…] Erich seguì con lo sguardo il vecchio pazzo finché non scomparve dietro le montagne. Pensò alla loro fuga dall'Italia, dalla malvagità, dall'ingiustizia, dalle persecuzioni. Ma ovunque fossero andati, lo specchio immenso del male, sospeso tra il cielo e la terra, avrebbe riflesso sul volto di un lebbroso, nella pancia gonfia di un bambino, come quello che ora agitava le piccole mani in segno di saluto, l'impronta millenaria della miseria umana, una miseria che trascinando attraverso il tempo il suo povero corpo piagato, vestita di pianti sommessi che pochi ascoltavano, arrivava fino agli anni in cui gli uomini riuscivano a librarsi negli spazi su ali d'argento, ma non ad immergersi nei baratri oscuri del dolore per portare un po' di luce ai compagni che non l'avevano mai vista.138
Il linguaggio poetico non nasconde l'amarezza della riflessione. Alla miseria umana ciclica e onnipresente, è impossibile sottrarsi: la fuga è solo il rimedio momentaneo che allontana lo sguardo dall'orrore razzista in Europa e lo posa su un orrore ugualmente disumano nell'altrove. Anche in questo passaggio, purtroppo, Dell'Oro non approfondisce la riflessione critica: l'autrice non affronta la necessaria immedesimazione dell'orrore con la stessa dimensione coloniale che, in quella precisa contingenza storica, ha permesso ai suoi nonni la fuga e ai suoi genitori il coronamento del sogno d'amore. La questione ebraica e le leggi razziali sono ponti tramite cui nel testo si fondono le vicende storiche africane con quelle europee: l'excursus sulla nascita contemporanea di Milena in Africa e della cuginetta nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald, a testimoniare la compresenza di storie e la divergenza di destini, è particolarmente efficace.
Nel pomeriggio in cui Milena nasceva in una bella camera soleggiata dove fu accolta con amore e commozione, una sua lontana cugina, figlia della nipote di Lia, piangeva alla vita in uno squallido camerone del campo. La madre […] avrebbe voluto tenere nel suo grembo per sempre quel figlio, e nasconderlo al mondo allucinante in cui si trovava. [...] la bambina pianse più forte e la madre cercò di farla tacere premendo il piccolo viso contro il suo seno. Il soldato si diresse con passo marcato verso la branda e, con mani tremanti di collera, prese la bambina e andò a gettarla in una fossa comune fra 138 E.Dell'Oro, op.cit., p.61.
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gelidi corpi.139
Per quanto riguarda le descrizioni dell'altro, una figura fondamentale del testo è Rigbé, ribattezzata dal nonno Erich, la brutta, servitrice in casa dei nonni Mayer. Rigbé ha nel testo una duplice funzione: quella di incarnare la dignità e l'onore del popolo eritreo, che rimangono intatti nonostante l'occupazione coloniale e, insieme, il ruolo dell'ottima domestica perfettamente italianizzata, che adora i suoi padroni essendo ricambiata, fino al punto di avere facoltà di parola e di giudizio negli affari domestici. Qui è presentata insieme ad Elias, un altro servo:
[…] venne loro incontro una donna di età indefinibile, alta magra, con un occhio completamente indipendente dall'altro, e una croce nera tatuata sulla fronte spaziosa. La sua bruttezza venne subito spazzata via da un grande sorriso cordiale, dall'allegria di ogni suo gesto, dalle vivaci parole che in un italiano molto vago davano il benvenuto ai padroni. E mentre accendeva luci e spalancava porte impartiva ordini all'esile ragazzo che si muoveva dietro di lei come fosse stato la sua ombra, riparato dal volteggiare frusciante della lunga gonna variopinta che pareva l'ala di un uccello esotico […]. “È Elias”, disse ai Mayer indicando il ragazzo; “lui tiene pulito il giardino e mi aiuta in casa. È molto giovane ma è bravo.” […] “Credo che andremo d'accordo”, disse Erich a Rigbé, dopo che Mario se ne fu andato.“Certo guitana”, rispose lei con tono allegro e sicuro, guardandolo con l'unico occhio che riusciva a vedere diritto davanti a sé. “ So fare tutto, lavare stirare e cucinare benissimo.” […] Poi se ne andò trascinandosi dietro Elias che sarebbe presto stato tramutato in Eliseo, facendo volteggiare un'ultima volta la gonna.[...] e anch'io un giorno l'avrei conosciuta, e avrei vissuto con lei momenti di gioia, quando arrivava dalla cucina con la mia pietanza preferita, verdure ed olive al forno, una sua invenzione come sosteneva. [...] Rigbé ed Eliseo, la gioia e la malinconia, avrebbero legato per noi gli anni, i luoghi amati, dai tempi lontani di paesi felici a quelli per noi impensabili allora, dell'oscuro dolore, che, come un fiore notturno che chiude i suoi petali al sole, li avrebbe imprigionati nel suo calice per restituirli all'oblio.140
La lunga citazione mette in luce diversi aspetti che abbiamo provato ad analizzare e chiarire fin qui. Se da un lato, la benevolenza dei padroni è tangibile, dall'altro il rapporto si riduce, appunto, ai compiti lavorativi e, sia l'andare d'accordo che lo spendere momenti felici, vengono ridotti dall'autrice, realisticamente, all'adempimento dei doveri domestici di Rigbé, sempre debitamente accompagnato 139 Ivi, pp. 88-89. 140 Ivi, pp. 67-69.
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dal sorriso solare e rincuorante della donna. Elias, che è il doppio negativo di Rigbè, sempre silenzioso e malinconico, avrà un futuro da alcolista: neanche l'aver raggiunto uno status soddisfacente, secondo i Conti, come aiutante nell'impresa di famiglia, lo incoraggerà a disintossicarsi. I sentimenti, le frustrazioni e persino i diritti di questi personaggi, metonimici di un popolo, non sono neanche presi in considerazione: questa carenza è sicuramente intrisa di buona fede, ma senza dubbio è un dato indicativo dell'ottica ancora troppo occidentale, per rivendicare, come invece fa Dell'Oro, una “doppia cittadinanza emotiva”. La storia di Elias è, in questo senso, molto istruttiva: suo padre fu assassinato nel massacro del lago Ascianghi, avvelenato con l'iprite dall'esercito italiano nel 1936, durante la campagna per la conquista dell'Etiopia. Assassinato, come racconta Aptè di ritorno dalla guerra:
“Non come in guerra […] come Dio può accettare che si combatta la guerra. Hanno avvelenato il lago e loro non c'erano a veder morire gli uomini.” Apté raccontò i giorni e le notti del lago Ascianghi; fantasmi che urlavano le sofferenze dei vivi entrarono nella casa portando con loro l'ultima notte sulle sponde del lago.141
In Italiani, brava gente? Angelo Del Boca riporta la testimonianza di Hailé Selassié sugli effetti di un attacco chimico dell'aeronautica:
Fu uno spettacolo terrificante. Io stesso sfuggii per un caso alla morte. Era la mattina del 23 dicembre e avevo da poco attraversato il Tecazzè, quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani. Il fatto tuttavia non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo abituati ai bombardamenti. Quel mattino, però, non lanciarono bombe, ma strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l'acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche . Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano in un'agonia che durò ore. Fra i colpiti c'erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini. I miei sottocapi, intanto, mi avevano circondato e mi chiedevano consiglio, ma io ero stordito, non sapevo cosa 141 E. Dell'Oro, op. cit., p. 150.
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rispondere, non sapevo come combattere questa pioggia che bruciava ed uccideva.142
Del Boca è stato, inizialmente, uno dei pochi studiosi ad occuparsi dell'utilizzo di armi proibite da parte del regime fascista, a lungo negato, anche in piena democrazia, da altri storici e dalle istituzioni.
Scomparsa la censura, si imponeva la parola d'ordine di negare, di tacciare di antitaliano chiunque avesse avanzato dubbi guidava il gruppo dei negazionisti Indro Montanelli, per oltre cinquant'anni il più accreditato opinion maker. Lui in Etiopia, c'era stato. Non parlava per sentito dire. La sua era una testimonianza di un combattente, sempre in prima linea con le avanguardie. E giurava di non aver mai visto un abissino ucciso con i gas. Giurava di non aver mai sentito il caratteristico odore di mostarda dell'iprite. Chi sosteneva il contrario, era semplicemente un mentitore. 143
Montanelli si scuserà pubblicamente il 13 febbraio 1996, sulle pagine del «Corriere della Sera», dopo che sei giorni prima il ministro della Difesa del Governo tecnico Dini, Generale Domenico Corcione, aveva ammesso l'utilizzo di bombe e proiettili caricati a iprite ed arsine, durante la guerra italo-etiopica.144 Dunque il padre di Elias è una delle innumerevoli vittime eritree della barbarie coloniale italiana, e per il suo orfano, l'unica possibilità per provvedere alla sussistenza della famiglia è accettare l'incarico di servitore, proprio presso una famiglia italiana, grazie all'intercessione di Rigbé che, per delicatezza verso i futuri datori di lavoro di Elias, sceglie di non precisare in che guerra il ragazzo ha perso il padre, non volendo turbare la sensibilità delle sorelle Conti, così tenere di cuore.145 Del dislivello tra padroni e servi è disseminato il testo. Il risultato è un'esclusione benevola dell'altro che, salvo nelle rappresentazioni dettagliate dei costumi e delle 142 Testimonianza all'autore, raccolta ad Addis Abeba il 13 aprile 1965, in A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005, p. 203. 143 Ivi, p. 206. Montanelli aveva in precedenza dato testimonianza che: “I gas furono usati dagl'italiani, così come le pallottole esplosive “dum-dum” furono usate dagli abissini. Né l'una né l'altra di queste barbare armi fu adottata su tale scala, e con tale frequenza, da aver potuto sensibilmente modificare il corso del conflitto: questo è tanto vero che molti combattenti italiani poterono negare in perfetta buona fede che ai gas si fosse fatto ricorso.” I. Montanelli-M. Cervi, L'Italia littoria, Milano, Rizzoli, 1979, p. 295. 144 Notizia riportata in A. Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., p. 206. Per la polemica Del BocaMontanelli vedi A. Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 2007. 145 Ivi, p.153.
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tradizioni degli eritrei, è presente come strumento di accrescimento del benessere degli italiani; il testo nel suo insieme racconta lo scorrere della vita asmarina dei bianchi, lontani dalla guerra in patria e convinti, per un periodo, di aver raggiunto il paradiso terrestre.
Cappellini, velette, pipe, bastoni...Era l'Asmara dei bianchi, e sul Corso Mussolini, divenuto poi Corso Italia, allora non passavano gli eritrei. Se ne stavano, quelli urbani, ad Abbasciaul, alla periferia di Asmara, a sopravvivere nella loro secolare miseria e si organizzavano come potevano, per ricavare qualche centesimo dagli uomini bianchi., venendo in città a vendere uova e pollame, e i bambini impararono presto, come i disgraziati bambini di tutto il mondo a cui l'estrema miseria dà qualche lezione di sopravvivenza, a tendere la mano per chiedere il bacscisc, la mancia. C'erano le squadre di eritrei addestrate per il lavoro dell'edilizia e furono per gli europei un'immensa risorsa perché non costavano quasi niente e lavoravano dall'alba al tramonto. Nelle famiglie dei vecchi coloniali, che ebbero vita più difficile e faticosa dei loro posteri, non si usavano ancora le cuoche, i camerieri, le bambinaie, non c'erano le camere per la servitù. Ma si cominciava a utilizzare ragazzine e donne per i lavori più faticosi.146
Quest'ultima clausola, che poi diventerà la normalità, ha una significanza ossimorica, visto l'accostamento linguististico ragazzine/lavori più faticosi (pratica che, tra l'altro, si ritrova identica nell'Italia di allora). Più sorprendente, se si considera l'intento di Dell'Oro, il lapsus linguistico, o gaffe, che dir si voglia, sui lavoratori dell'edilizia eritrei che, come merce, non costavano quasi niente.147 A ogni modo, concludendo il percorso all'interno di Asmara addio, dispiace constatare che uno degli obbiettivi di Dell'Oro, forse il più prezioso e innovativo, quello di dar voce ai protagonisti che coabitano le stesse vicende, su livelli paritari, in una pagina di storia condivisa, non sia stato raggiunto. Rimane la sensazione che il testo si centrato, molto più che sulla condivisione di un destino bifronte, sul racconto nostalgico del mondo agiato a cui appartiene: il mondo dei bianchi.
Quando li incontravo per le vie di Asmara,vecchi coloniali superstiti, il greco 146 E. Dell'Oro, op. cit., p.22. 147 Ibidem.
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Evangelos, Marco Levi, il romano Banfi, avevano l'aspetto rilassato, i visi abbronzati dal sole, sembravano respirare una tranquilla e soddisfatta vecchiaia, senza nessuna nostalgia per le lontane patrie dove due terribili guerre avevano costretto milioni di disgraziati a vivere molto peggio di loro.148
Il 1991 è un anno importante per l'Eritrea, il F.P.L.E., libera Asmara e dichiara la fine della guerra contro l'Etiopia e la costituzione di un governo di transizione che durerà fino al 24 maggio 1993, giorno della proclamazione dell'indipendenza dell'Eritrea e della nascita del cinquantatreesimo stato africano.149 Nello stesso anno esce L'Abbandono. Una storia eritrea, secondo romanzo di Dell'Oro, d'ambientazione africana. Nell'anno di proclamazione d'indipendenza della terra che sente sua, nell'anno della realizzazione del sogno politico del “suo” popolo, Dell'Oro tenta un'immedesimazione totale con l'altro, scegliendo come protagonista del suo romanzo la bellissima eritrea Sellass, e facendo della sua storia, forse ispirata a fatti realmente accaduti, il cardine intorno a cui far ruotare fatti e personaggi che indirizzano la riflessione verso l'analisi critica dei danni collaterali causati dall'esperienza coloniale. Anche in questo romanzo, come già sperimentato in Asmara addio, l'interesse per i rapporti tra bianchi ed indigeni avvolge tutta la narrazione e l'utilizzo del tessuto storico provvede alla ricostruzione dettagliata di fatti, luoghi e ambientazioni. La differenza tangibile tra i due romanzi, al di là del loro valore letterario, si racchiude nella scelta della protagonista, che indica una volontà di fusione con l'altro molto forte, che si sviluppa, a tratti, anche nella scrittura e non solo nelle intenzioni dell'autrice. Il compito non è dei più semplici: nonostante la buona volontà e la conoscenza stratificata di questo popolo, il rischio corso dall'autrice è quello di scivolare nella tentazione fuorviante di mischiare il proprio sistema valoriale di riferimento a quello di Sellass, facendo sì che la bellissima eritrea, a tratti, parli e si comporti come una donna occidentale; il ritornello con cui Dell'Oro sottolinea la disperazione di Sellass, “ma come ha potuto?”, non sembra una scelta 148 E. Dell'Oro, Asmara addio, op. cit., p.21. 149 Isaias Afewerki, è eletto Presidente della Repubblica. L'Etiopia e l'Eritrea firmano un protocollo d'intesa chiamato "Agreement of friendship and cooperation" che concede all'Etiopia l'utilizzo di Assab e Massawa in regime di porto franco.
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plausibile sia perché l'abbandono era una pratica diffusa e prevedibile fra gli italiani, sia perché sembra un prestito linguistico attinto dal patrimonio patetico o romantico occidentale, più che dalla tradizione orale eritrea. Sellass, fugge dodicenne dalla miseria del suo paese, cercando nella città una possibilità di riscatto e di fuga dalla povertà. La raccomandazione iniziale dei familiari, di non avere rapporti servili con i bianchi, sembra un monito prolettico, da non dimenticare durante la lettura. Nel momento in cui Sellass sceglie di contravvenire alle regole familiari e tribali, per cui i bianchi sono nemici e nient'altro, si scatena un vortice di disperazione, con un breve e vano momento di felicità iniziale, che sembra manifestarsi come nemesi. Come se il rapporto tra indigeni e bianchi potesse rivelarsi solo come lotta e contrapposizione ed ogni tentativo di inversione, di contravvenzione ad un destino segnato, dovesse risolversi nell'asprissimo scontro con la realtà di una prevedibile sconfitta.
Sellass aveva dodici anni, se fosse rimasta al paese avrebbe dovuto sposarsi e accettare un futuro senza alcuna speranza.[...] La decisione di Sellass fu approvata da tutti i parenti, ormai lei era adulta, c'erano già troppi affanni perché anche la sua scelta diventasse un problema.“Non diventare mai la serva dei bianchi,” le disse Mebrat, la sorella più vecchia. “Questo paese è nostro e noi non dobbiamo servirli.”150
Il comandamento dei familiari, a cui Sellass contravverrà disonorandoli, racchiude la fierezza di un popolo; la volontà di lottare per il diritto di essere padroni di sé, di non piegarsi, di non diventare strumento di un popolo straniero, aggressore, che li ha invasi e ha usurpato i loro spazi e le loro risorse. Nel viaggio, dal paese alla città, con l'attraversamento del deserto, un losco presagio si stende sul testo: l'incontro con i derelitti, soli, disgregati dalla loro comunità per il pudore della propria sofferenza, è un richiamo al destino di Sellass, alla sua duplice ghettizzazione. Dopo essere diventata la donna di un bianco, dopo aver concepito i suoi due figli, meticci, Sellass sentirà il peso di un doppio sradicamento perché, se da un lato i bianchi la considerano un'illusa sciarmutta, termine arabo usato nel Corno d'Africa per “prostituta”, indegna di entrare a far 150 E. Dell'Oro, L'abbandono. Una storia eritrea, op. cit., pp.3-4.
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parte della loro élite, dall'altra ha perduto ogni rispetto da parte del suo popolo, che nel rapporto di coppia con un bianco non riconosce un amore, ma solo una giusta causa per non reintegrare la donna e i suoi due bastardi nella comunità
Sulla sabbia calda, come grandi insetti scuri, strisciavano gli infetti della piana di Otumlo per raggiungere un'allucinazione improvvisa che li chiamava in un punto qualsiasi di quel deserto di morte, o per andare lontano, a difendere, in una solitudine estrema, un disperato pudore.151
Carlo Cinzi, futuro compagno a termine di Sellass, arriva in Africa in cerca di una vita migliore, o per meglio dire, fuggendo dalla miseria che attanaglia la sua famiglia. L'incontro con Sellass sembra determinato da un incrocio di destini simili: entrambi hanno lasciato la famiglia prestissimo, per giungere al doppio risultato di togliere una bocca da sfamare alle già misere risorse familiari, e insieme, ottenere un riscatto e una realizzazione personale, tramite un percorso indipendente.152
Carlo Cinzi aveva lasciato, a dodici anni, il paese vicino a Pavia, per emigrare in America. Era il primo di cinque fratelli. I suoi genitori coltivavano un fazzoletto di terra che non bastava a sfamare la famiglia, spesso suo padre andava a lavorare, a giornata, nel podere di un ricco signore.[...] una sera il padre di Carlo parlò dell'America. “Aldo” disse, “si trova bene, c'è molto lavoro.” [...] Sua moglie si fermò davanti alla finestra e fece alcuni segni sul vetro appannato. “L'America”, disse, “è lontana e non si sa cosa c'è. Qua siamo a casa nostra.” “Casa piena di miseria,” sospirò l'uomo, e dell'America non si parlò più.153
Così Carlo, affascinato dalle possibilità intuite dal padre, tenta l'avventura americana. Come molti italiani, ripone nel sogno emigrante l'attesa di una vita diversa, di una fortuna finalmente fraterna, benigna. Ma i sogni di Carlo si infrangono presto contro il muro di indifferenza che schiaccia gli umili ovunque e con le stesse modalità: il suo viaggio, reso ancora più infausto dall'imperversare della crisi del '29, è destinato a concludersi presto e risolversi in una cocente 151 E. Dell'Oro, L'abbandono. Una storia eritrea, op. cit., p. 7. 152 “La donna sapeva del progetto di Carlo di andare in America e gli diceva che era bene che andasse a cercare un po' di fortuna, al paese non l'avrebbe trovata, come non l'aveva trovata suo padre, faticando una vita sulle zolle di terra.” Ivi, p.18. 153 Ivi, p. 17.
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delusione. La scelta di Dell'Oro è calzante, Carlo sperimenta sulla sua pelle la solitudine disarmante degli oppressi, l'unico amico che troverà in America è, non a caso, un bambino negro di Harlem, con cui condividerà sogni e scorribande: aveva trovato nell'amicizia col ragazzo negro, un'alleanza contro un comune destino che li isolava da un mondo troppo remoto.154 Questa prolessi sembra ammiccare alle vicende future e nascondere un segreto testuale: l'alleanza, che farebbe di ogni incontro fra popoli una fonte incredibile di ricchezza umana e culturale, perde ogni fascinazione, nel momento in cui si raggiunge lo stato di superiorità sull'altro. Se per Carlo quell'amicizia americana era stato uno strumento di salvezza, il ricordo di quel rapporto provvidenziale non basterà in Africa a far di lui un uomo coraggioso e non uniformato alla massa dei cialtroni, che sono partiti con l'unico interesse di soddisfare i propri bisogni, qualunque essi siano. Di ritorno da New York, a Carlo non rimane che ricominciare la sua faticosa e povera vita precedente, sentendo intorno a sé il senso di sconfitta, i silenziosi giudizi di chi sembra rimproveragli di non aver fatto fortuna.
Quando ci fu la campagna d'Africa Carlo decise di tentare un'altra avventura. Il duce stava costruendo l'impero coloniale e prometteva lavoro e benessere per tutti. Si parlava di investimenti di miliardi, Mussolini assicurava che nelle lontane terre africane, dove il sole splendeva tutto l'anno ci sarebbe stato posto per molti italiani, occorreva che sorgessero in fretta le strutture necessarie all'espansione dell'impero.[...] Per Carlo fu un viaggio diverso da quello che aveva fatto verso New York molti anni prima.[...] Era come se per la prima volta si rendesse conto che stava godendo dell'irripetibile e meravigliosa avventura della vita […] e che per la prima volta, la vita [...] gli facesse una misteriosa promessa di felicità.155
L'immagine esotica e propagandistica dell'Africa come terra dalle mille risorse è uno dei poli d'attrazione, per l'adunata in Africa. L'altro polo è senza dubbio la fuga dalla miseria e la possibilità di un'esistenza decorosa, se non proprio l'intravedere all'orizzonte una possibilità d'arricchimento del tutto esclusa in patria. 154 Ivi, p. 20. 155 Ivi, pp. 20-21.
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In quegli anni arrivarono in Abissinia uomini di ogni condizione: disoccupati di cui l'Italia si liberava volentieri, avventurieri in cerca di fortuna, manovali, professionisti, disgraziati, che in patria tiravano a campare, tutti sospinti dalle parole del duce che aveva promesso benessere nelle lontane terre d'Africa. Nella baraonda e nell'entusiasmo per la nuova patria, dove il sole scaldava anche l'anima e le indigene erano docili e belle [...].156
Le promesse mussoliniane fecero leva sulla bramosia di riscatto tipica di un popolo povero come quello italiano, tra l'altro costretto a ulteriori grandi sacrifici proprio per permettere le spese di quella catastrofica spedizione alla conquista dell'impero.157 Leggiamo ancora in Flaiano, geniale, come sempre:
7 dicembre [...] Ogni ufficiale furbo, del resto compra un autocarro e lo fa “viaggiare” sotto altro nome. In Italia c'è della gente che si leva gli anelli dalle dita.158
E anche: Il sacrifizio degli stitici (letto su una scatola di Rim) Chiediamo venia ai nostri affezionati clienti se la scatola non è di metallo come per il passato. In simili momenti è bene lasciare tutto a disposizione della Patria: ma assicuriamo che la confezione originaria sarà ripresa appena possibile...eccetera.159
Torniamo al testo di Dell'Oro: la disillusione di Carlo allo sbarco nella tanto 156 E. Dell'Oro, Asmara addio, op. cit., p. 31. 157 “Nel 1936 Mussolini conquistò l'impero. Non fu una guerra di conquista ma di aggressione. Sull'Etiopia piovvero dagli aeroplani i gas distruttivi seminando terrore e morte, fu avvelenate l'acqua di centinaia di pozzi e del lago Ascianghi, feroci battaglie scossero la tranquilla terra d'Etiopia dove nei giorni maledetti gli indigeni videro arrivare i diavoli alati. Hailè Selassiè, il monarca che la propaganda fascista aveva descritto come un autocrate selvaggio, aveva fatto ogni sforzo, appellandosi alle potenze mondiali, per salvare la pace. Costretto all'esilio, diede al mondo una lezione di stile con il suo discorso alla Società delle Nazioni; il minuto imperatore africano seppe trovare, come già avevo fatto al Parlamento di Addis Abeba, nobili parole che affidavano il suo amato ed offeso paese al Dio che un giorno avrebbe teso la mano per difendere la giustizia. Altri discorsi pronunciava Mussolini dal balcone di piazza Venezia alla folla richiamata da campane, sirene e tamburi. Annunciava all'Italia, con la fierezza del nuovo Cesare a cui tutto doveva essere permesso, la conquista dell'impero. Le potenze europee in un primo tempo condannarono la sua impresa per poi lasciare che il duce andasse per la sua strada; c'erano altri problemi da affrontare.” E. Dell'Oro, Asmara addio, op. cit., p. 33. 158 Si fa riferimento alla “Giornata della fede”, in cui venne chiesto agli italiani di donare le loro fedi nuziali alla patria, per fonderle e ricavare delle riserve d'oro. E. Flaiano, op. cit., p. 291. 159 Ivi, p. 308.
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desiderata Africa, si mischia a quello dei più. La descrizione di Dell'Oro non fa che avvalorare i molti racconti del patrimonio memoriale incentrati sulla reazione di sconcerto al primo impatto con l'Africa Orientale:
Carlo ebbe una sensazione di angoscia che gli oppresse il petto, era come se la gioia e la speranza che aveva provato nei lunghi giorni di navigazione fossero ora eteree bugie che si dissolvevano nei vapori dell'aria. [...] Mentre scendevano a terra a Carlo parve di essere capitato all'inferno. Sentiva sul corpo una massa pesante di umidità e di calore che gli incollava gli abiti addosso; la luce bianca, abbagliante, gli fece desiderare che giungesse subito la sera, doveva pur esserci la notte anche in quel torrido, allucinante paese.160
I toni riservati a questa scoperta sono quelli emozionali tipici dell'autrice, niente di più diverso in Flaiano, che dissacra anche l'infrazione dei sogni col solito tono amaro e brillante, lontano dallo stile patetico che si affaccia nella scrittura di Dell'Oro, permettendo un'analisi più immediata e lucida,
16 novembre. Un soldato scende dal camion, si guarda intorno e mormora: “Porca miseria!”. Egli sognava un'Africa convenzionale, con alti palmizi, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei films Paramount denominata Oriente, che offre tanti spunti agli autori di pezzi caratteristici per orchestrina. Invece trova una terra uguale alla sua, più ingrata anzi, priva d'interesse. L'hanno preso in giro.161
Oppure: Dopo un mese a Zehuf Emni. “A poter spaccare la terra in due ci si troverebbe dentro uno di quei foglietti che si trovano nei cioccolatini con un proverbio incitante alla rassegnazione.”162
Tra Flaiano e Dell'Oro la cifra qualitativa è indiscutibilmente diversa; il contenuto, lo stesso. 160 Ivi, p. 27. 161 O anche: “Selaclacà-Axum Osservando i terreni, incolti, due soldati pensano all'Italia.“È poco fertile questa terra” dice uno. “Poco fertile?” ribatte l'altro. “Ma se si fanno due e persino tre raccolti di pietre all'anno!” E. Flaiano, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, in Tempo di uccidere, op. cit., pp. 289-290. 162 Ivi, p. 297.
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Carlo dunque sbarca in questa terra che si rivela subito una realtà diversa da quella immaginata, sognata e sperata durante il viaggio. Il primo incontro a Massaua, con Salvatore, uno scaricatore italiano, che nonostante abbia tatuata la dichiarazione d'amore eterno alla sua donna lasciata sulle montagne calabre, è un cultore della prostituzione locale (e anche di quella procurata dalla madre patria163), è significativo e simbolico, quasi un'anticipazione dello sviluppo del romanzo. Carlo crede di essere un uomo speciale, un uomo che non si piegherà alle rozze regole della vita in colonia, ma vivrà seguendo soltanto la genuinità dei suoi sentimenti. Questa scelta teorica coraggiosa durerà finché si sentirà al sicuro, libero da implicazioni pericolose, poi, la sua presunta superiorità si rivelerà essere completamente illusoria, e Carlo, con l'abbandono di Sellass, andrà ad aumentare la schiera dei “cattivi” italiani in terra africana. In pochi incontri silenziosi, rischiarati dalla luce del faro, Sellass e Carlo si innamorano, quando Carlo si ammala e interrompe i consueti incontri silenziosi, Sellass lo attende al faro, vergognandosi di questa rimproverabile attrazione per il bianco. Ma l'amore vince tutto: il giudizio di disapprovazione che Sellass riserva al fratello Tesfai, arruolatosi come ascaro, e dunque diventato un servitore dei bianchi, non vale per il suo sentimento bruciante verso il ragazzo con quegli ignoti occhi azzurri: l'amore fa eccezione
Sellass divenne la donna di Carlo, imparò a pronunciare il suo nome e a esprimersi nella sua lingua. Carlo la vedeva di nascosto. Non voleva che i compagni sapessero, eccetto Maurizio, poi capì che la relazione con una donna eritrea veniva tollerata purché non fosse troppo esibita. Il Duce era lontano, non si poteva pretendere, con quel clima e quelle donne, che le leggi non fossero modificate, a seconda delle personali esigenze e passioni. Quando Sellass rimase incinta Carlo la portò ad abitare in una casetta vicino alle saline [...].164 163 “[...]arrivavano dall'Italia le disinvolte fanciulle inviate dal Duce per le necessità e il diletto dei lontani figli della patria, e soprattutto perché non venissero toccate donne di razze considerate inferiori[...].” E. Dell'Oro, L'abbandono. Una storia eritrea., op. cit., p.28. 164 Ivi, p. 36.
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Non si potevano non piegare le leggi a proprio piacimento, inseguendo le proprie necessità. Dopo l'entrata in vigore nel 1937 del Regio decreto legge n. 880 – che vietava il madamismo (l'acquisto di una concubina) e il matrimonio degli italiani coi «sudditi delle colonie africane» – altre leggi di spiccata indole razzista vennero promulgate dal parlamento italiano. Addirittura il 5 agosto 1938, a testimonianza di una tendenza ormai divenuta convinzione, veniva pubblicato su «La difesa della razza», il “Manifesto della razza” di cui l'articolo 7 recita:
È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia […] vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra–europee, questo vuol dire elevare l'italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità. 165
Il divieto di unione di uomini italiani con donne abissine, rimase, ovviamente, un'utopia, ma il tentativo di stigmatizzare l'illegalità di questi rapporti si spinse fino a vietare rapporti che avessero “indole coniugale”. Rispettando quindi la fisiologica pulsione sessuale di uomini attratti dal suggestivo potere sessuale delle negre, si impedivano quei rapporti che, assomigliando ai matrimoni metropolitani, assumessero caratteristiche di quotidianità; quei rapporti che prevedessero una cifra d'affettività, inspiegabile per i teorici, vista la convinzione dell'inferiorità delle donne africane.166 Dell'Oro si insinua in queste dinamiche utilizzando la duplice segregazione di Sellass, non accettata dai bianchi e respinta dal suo popolo che non ne accetta il tradimento e rifiuta i suoi bastardi, per affrontare non solo l'emarginazione dei 165 Manifesto della razza, art. 7, in «La difesa della razza», anno I, numero I, 5 agosto 1938, p. 2 166 Nel 1937 poi, oltre alla legge che puniva le relazioni d'indole coniugale con la reclusione da uno a cinque anni, il ministro Lessona impartiva alcune direttive in base alle quali: “1) il matrimonio tra sudditi metropolitani e e sudditi delle colonie non deve essere permesso; 2) il riconoscimento, la legittimazione e l'adozione dei figli nati da unione di cittadini con sudditi devono essere al pari vietati” in G. Stefani, op. cit., p.159.
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meticci come forma di razzismo, ma anche la dimensione di ogni discrimine razziale, che in ogni epoca e in ogni luogo, presenta le stesse assurde motivazioni. Abbiamo già visto come Dell'Oro utilizzi altre tipologie di discriminazione per riflettere sulle dinamiche sconcertanti dei concetti di razza e patria, usati come veicolo di segregazione. È proprio in questo momento della scrittura, che il suo tentativo di immedesimazione con l'altro raggiunge le vette migliori. Nel legame con la sofferenza di Sellass, e quella diversa, ma non meno profonda dei suoi figli, Dell'Oro riesce nel tentativo di creare una comunanza che prescinde dalle determinazioni di tempo, luogo e razza, e porta a compimento la mimesi con
l'alterità, con chiunque sia considerato altro e dunque pericoloso. Il riscatto temporaneo di Sellass, che sente di non essere serva, ma legittima compagna di Carlo, colei che gli ha dato due figli, Marianna e Gianfranco, è destinato ad incrinarsi velocemente, portando la vicenda della donna ad esiti tragici.
Ormai si sapeva che Carlo aveva avuto due figli da una ragazza eritrea; lui spesso dormiva a Gherar perché temeva le conseguenze di aver procreato bambini meticci. Peccato, dicevano, per un ragazzo italiano accasarsi con una di loro, si sarebbe col tempo “insabbiato”. Le leggi del Duce vietavano di andare con donne di razze inferiori, e l'uomo che procreava meticci poteva venire arrestato e stare in galera da uno a cinque anni.167
Carlo viene addirittura richiamato all'ordine dal maggiore Donati, viene ammonito a lasciare la donna e i figli con motivazioni allucinanti. La ragazza che ora gli sembra bellissima, peggiorerà, diventando vecchia e avvizzita in breve tempo; l'esperienza gli insegnerà che questi selvaggi non hanno sentimenti e con un minimo risarcimento metteranno da parte le rivendicazioni; per ultimo, l'amor di patria e per la razza ariana, impone che non si tollerino queste unioni che aumentano la schiera dei bastardi.168 Carlo sembra in realtà aspettare soltanto il momento giusto per lasciarli; il 167 E. Dell'Oro, L'abbandono. Una storia eritrea, op. cit., p.44. 168 Avevo saputo da Renzo Meregazzi, capo di gabinetto del ministro dell'Africa italiana, Alessandro Lessona: “Il duce è preoccupato, e se avesse potuto avrebbe anche proibito Faccetta Nera, che è un'insidia per la stirpe. Ma la canzonetta è oramai divenuta troppo popolare: “Però non si conquista un impero per imbastardirsi. Non voglio mezzosangue, intesi Meregazzi?” Testimonianza di Vittorio Gorresio, 1936, in G. Stefani, op. cit., p. 132.
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pensiero, di tanto in tanto, vola nostalgico alla sua famiglia eritrea, alla triste eventualità di dividersi, ma con la serena rassegnazione di dover obbedire ad un ordine provvidenziale. Già consapevole di non voler rimanere con loro, sembra soltanto rimandare la decisione in attesa di sviluppi futuri. L'occasione di disfarsi di questi tre pesi, gli viene offerta con l'entrata dell'Italia nel conflitto mondiale, una buona scusa per allontanare dalla città Sellass e i bambini, rimandandoli al paese. Nella discussione con l'amico Maurizio, da sempre molto affettuoso con Sellass e i suoi figli, Carlo ammette di aver sfruttato l'occasione per fuggire da un'unione che mai aveva creduto indissolubile ed eterna:
“Io non resto” disse ancora Carlo. “Riuscirò a fuggire.” “E Sellass? E i bambini? Ci hai pensato? O farai come tutti quelli che se ne vanno piantando qua donne e figli?” “Ci ho pensato. Le ho dato, per ora, del denaro. La guerra finirà prima o poi e allora tornerò. Non posso restare a farmi ammazzare per quella ragazza, non voglio più nemmeno sentire parlare di guerra.” [...] “Lei non avrebbe mai pensato, nemmeno in caso di estremo pericolo,di allontanarsi da te .”169
Carlo non si fa impressionare dallo sdegno di Maurizio, se ne va, fugge dalla guerra che lo terrorizza, lasciando dietro di sé il sacrificio della sua donna e dei suoi bambini. Si imbarca su una nave, tentando la fuga in Sud Africa dove si rifarà una vita dopo la prigionia in un campo inglese. Scopriremo il suo destino, quando Marianna tenterà di rintracciarlo, ormai adulta, e ne apprenderà la scomparsa. Questa svolta, da un lato esprime un giudizio definitivo su Carlo, che col suo abbandono volontario, senza assunzione di responsabilità, diventa l'incarnazione del colonialismo stesso, dall'altro segna l'itinerario dei tre verso l'abisso della ghettizzazione. Sellass è costretta a tornare al paese dalle sorelle che ormai la vedono come una traditrice, come una prostituta che si è piegata al bianco per ottenere privilegi e ricchezza, e che, oltretutto, ha procreato dei bastardi.
Sellass si fermò, guardò ancora in silenzio il loro capo rasato, quel segno di lutto che le dava un'angoscia profonda. “Tesfai è morto,” disse Mebrat senza 169 E. Dell'Oro, L'abbandono. Una storia eritrea, op. cit., pp. 63-64
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mostrare alcuna emozione per il ritorno di Sellass. “È stato ucciso mentre combatteva per gli italiani. È morto per loro, brutta gente che è venuta da padrona nel nostro paese, a rubare,e uccidere.” Guardò i bambini. “E questi?” domandò “Sono i tuoi figli?” Sellass fece un cenno col capo. “Anche tu con i bianchi. Così hai dei bastardi..” Marianna strinse forte la mano della madre. Non sapeva, in quel momento, il significato della parola detta da Mebrat, ma non l'avrebbe più dimenticata, capì che era un'offesa per loro e per Sellass [...] “Qui non puoi stare [...] abbiamo abbastanza disgrazie, non vogliamo bastardi, non sono della nostra famiglia.170
Marianna non avrà più modo di dimenticare quella parola, che sarà al contrario, lo scoglio insormontabile nella ricerca della sua identità. Gianfranco, qui molto piccolo, svilupperà un mutismo malinconico, nonostante i continui sforzi di creatività e di coinvolgimento della sorella, che lo accompagnerà nella crescita fino alla scelta del proprio destino. Sellass è costretta a lasciare il suo villaggio da reietta; è costretta a trasferirsi con i suoi bambini, sempre più specchi della sua tragedia, in una sperduta periferia disastrata. Dovrà, soprattutto, infrangere l'ultimo baluardo della sua dignità offesa, e accettare di essere una serva dei bianchi, tuttofare in un ristorante di italiani; ammesso che il suo rapporto con Carlo avesse realmente una valenza differente dalla dinamica padrone-servo, alla donna non rimane che accettare l'unico destino che da sempre si era imposta di rifiutare. Sellass diventa uno spettro vivente, il suo unico imperativo è raccogliere i soldi necessari per comprare una casa all'Amba Galliano, bel quartiere di Asmara, per restituire ai suoi figli la vita e lo stato sociale che avrebbero potuto avere se il padre non li avesse abbandonati. Non ha più amore da distribuire ai suoi figli, per loro non ci saranno più carezze, non avranno più le tenerezze della madre, completamente inaridita dall'abbandono di Carlo. Sellass sembra aver anche perso la parola: le uniche frasi che le rimangono sono per opporre netti rifiuti alle avances dei molti uomini che la vorrebbero come compagna, offrendole in cambio una vita agiata, ed il ritornello, molto occidentale, che accompagna ogni suo pensiero. “Come ha potuto?” si chiede Sellass, continuamente, mentre percorre i chilometri per andare a lavoro; mentre picchia Marianna, colpevole solo di 170 Ivi, pp. 58-59.
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assomigliare troppo al padre; mentre riflette sulla sorte dei suoi figli, affidati alla carità fredda di suore che li giudicano come fanno tutti gli altri. Il percorso verso la disperazione irreversibile, passa attraverso le violenze sulla figlia, che dopo la prima volta, diverranno fatto quotidiano:
“Come ha potuto,” disse come parlando a se stessa. Poi, all'improvviso, colpì al viso, con violenza Marianna. La bambina si appoggiò al muro. Gianfranco le si avvicinò. Fu allora che Marianna ebbe, per la prima volta, paura di sua madre che era stata quasi tutto il suo mondo. E capì che qualcosa di terribile stava accadendo.171
Purtroppo per i due bambini, questa discesa nell'abisso della madre, coabita con un mondo esterno che li rifiuta perché diversi. Il loro percorso di crescita e di formazione scolastica è costellato da esperienze terribili in cui tutto il mondo sembra collaborare alla loro esclusione, o quantomeno, al tentativo di disintegrare ogni sforzo di costruzione d'identità. Se Marianna, con il suo carattere energico ed intraprendente riuscirà a sopportare il gelo e l'astio che la circondano, fino a diventare indipendente, tanto da scegliere la partenza per l'Italia; Gianfranco, al contrario, silenzioso e rannicchiato nel suo piccolo mondo interiore, si isolerà da chi non lo accetta, scappando dalla scuola e iniziando a lavorare da un falegname italiano e, una volta cresciuto, sceglierà di rimanere in Africa, lontano da quella patria lontana che non sente affatto sua. Questa l'accoglienza che i due bimbi ricevono nel quartiere periferico in cui si trasferiscono:
Un ragazzetto si avvicinò loro: “Cosa volete?” domandò con astio. “Giocare,” rispose Marianna “abitiamo in quella casa.” “Lo so,” disse il ragazzo, “siete meticci, non vi vogliamo.” altri bambini si avvicinarono al ragazzo, tutti guardavano Marianna e Gianfranco ma nessuno manifestava un segno di simpatia. “Meticci,” gridò uno di loro, e subito gli altri gli fecero coro.” Meticci, schifosi meticci, urlavano tutti. Una donna, immobile sulla soglia di un tucul, si puliva i denti con una corteccia e guardava. Gianfranco si mise a piangere, Marianna gli strinse forte la mano, poi qualcuno la spinse e lei cadde a terra trascinando con sé il fratello. 171 Ivi, p. 75.
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Allora tutti si buttarono sui due bambini, tiravano i capelli a Gianfranco, davano botte sul viso e sulle spalle di Marianna. Urlavano e ridevano.172
L'aggressività dei bambini, indottrinati dai grandi, come può testimoniare l'indifferenza della donna che non interviene, sottolinea il totale razzismo che schiaccia i meticci e la loro difficilissima condizione. Un altro esempio ci pare molto efficace per inquadrare definitivamente la dimensione razzista in cui storie di questo tipo trovavano la loro definizione. Quando Sellass si presenta dalla “cattolicissima” Suor Ernesta, per chiedere di accettare Marianna alla sua scuola, viene accolta così:
“Sono venuta per mia figlia,” disse sottovoce Sellass. “Tu volere metterla a scuola da noi?” domandò la suora scandendo le sillabe. Sellass si sentì offesa. Parlava discretamente l'italiano e lo capiva bene, e non le piacque sentirsi rivolgere la parola in quel modo in cui alcuni bianchi si rivolgevano ai neri. “Sì,” disse, e si sforzò di trovare le parole migliori per esprimere ciò che voleva dire. “Mia figlia mi ha detto che voi potete tenerla.” “Noi potere,” disse la suora, “e non fare pagare come la scuola dove va ora. Tu fare serva no?” Sellass fissò al suora [...]. Avrebbe voluto andarsene, non avere più niente a che fare con quell'essere ignorante che le stava davanti; ma era pur sempre una suora. Pensò al denaro che avrebbe risparmiato. [...] “La porto qui domani, prima di andare al lavoro”disse. [...] “Tu andare in chiesa?” domandò la suora guardando severamente Sellass, “perché tu avere bisogno di perdono di Gesù per questi bambini.”173
In questi passaggi Dell'Oro mostra una forte empatia, l'immedesimazione con l'umiliazione e gli affronti razzisti che devono subire Sellass ed i suoi figli, per un abbandono che li ha lasciati senza legittimazioni identitarie, è integrale e riempie il testo. L'ignoranza e la presunzione della suora, rappresentante della vocazione 172 Ivi, p.83. 173 Ivi, p. 175. Imbarazza questa rappresentante del missionario bianco, in Africa per salvare popoli che hanno nella loro fede una piena risoluzione. Sarebbe da augurarle lo stesso destino del missionario John Starhurst, narrato da Jack London nel racconto Il dente di balena, in J. London, I racconti del Pacifico e dei Mari del Sud, op. cit., pp 62-70. Il racconto è la risposta alla presunzione cattolica nell'obbligare popoli che hanno la propria religione e i propri culti, ad una fede in cui non si riconoscono. Il missionario Starhurst viene, dopo il reiterato tentativo di evangelizzazione, ucciso e mangiato dalla tribù cannibale in cui aveva provato a diffondere proseliti.
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missionaria cattolica, sono di una esemplarità disarmante: anche lo strumento linguistico viene usato per sottolineare un'inferiorità che non esiste, che è solo negli occhi di chi guarda. Nel tentativo di identificazione con l'altro, non possiamo tralasciare, come già detto, le origini ebraiche di Dell'Oro, il patrimonio culturale e i racconti familiari degli esodi e delle persecuzioni subite, narrate anche, come già visto, in Asmara addio. La comunanza nel dolore porta necessariamente ad una mimesi, e non si può non focalizzare l'attenzione sul fatto che anche il fascismo fondeva con facilità la tematica del meticciato con quella dell'ebraismo, basando la discriminazioni su ridicole teorie pseudo-scientifiche.
Respinto dai bianchi e neri (il meticcio) è un ribelle, cova un sordo rancore tanto più in quanto non ha famiglia. Il meticcio, essere afamiliare, è anche asociale e astatale e, quando non è antisociale e antistatale. Figlio di una colpa, ligio ad influenze contrastanti, precocemente sessuale, senza freni morali, minato dall'azione deleteria dello spettacolo a cui assiste, è preda di tendenze degenerative. Questo bastardo, questo essere negativo è pertanto anche uno spostato e un ribelle. Il meticcio dunque come tale rappresenta per noi in Africa ciò che l'ebreo rappresenta in Europa e in America... l'equazione: ebreometiccio è molto convincente.174
Marianna e Gianfranco, immersi in questa dinamica di esclusione che non permette di sentirsi integralmente parte di nessuna delle due componenti della società, troppo chiari per l'una, troppo scuri per l'altra, crescono come due solitudini; dovendo rinunciare alla presenza della madre, costretta a lavorare prima nel ristorante, e in un secondo momento a prestare servizio in una casa privata. Questo cambio lavorativo è per la donna l'umiliazione più profonda. Mentre giudicava dignitoso il lavoro ottenuto al ristorante, essere la serva in una casa di bianchi è il raggiungimento del gradino più basso della sua scala gerarchica di possibilità. Ciò che da sempre aveva rifiutato come disonore maggiore, diventare schiava delle famiglie bianche, diventa l'unica strada possibile per comprare una casa per i suoi figli. 174 N. Marchitto, La difesa della razza nell'Impero:il problema dei meticci, “GUF” Mussolini, Napoli 1939, p. 28.
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Questo l'unica dimostrazione d'amore che è rimasta a Sellass, tutta la tenerezza ed il calore umano si sono spinti con la partenza dell'uomo che le ha distrutto la vita. L'odio per Carlo, la porta addirittura a nascondere ai suoi bambini il foglio con cui l'uomo li aveva riconosciuti come suoi. Gli anni passano, Marianna e Gianfranco si costruiscono destini autonomi. Marianna sceglie di partire per l'Italia, alla ricerca del padre e della sua identità: la terra in cui è cresciuta non le appartiene, e la partenza è una ricerca di un posto per sé in cui radicarsi e trovare, finalmente, la sua risoluzione. Gianfranco rimane in Africa, si trasferirà, dopo alcuni anni in Arabia Saudita per cercare la fortuna e la ricchezza che Asmara non può dargli: non sente l'Italia come una patria in cui cercarsi; il suo posto è con se stesso, con i suoi silenzi pensierosi.
[…] metterò via dei soldi poi andrò in Italia. Voglio andarmene. Sellass si fermò, si appoggiò contro il muro di una vecchia casa, guardò sua figlia. “Bene.” mormorò, “se è questo che vuoi. Andare in... Non terminò la frase, quell'ultima parola divenne soltanto un respiro. “Io non voglio rimanere qua, in questo paese,” disse Marianna. “È il tuo paese,” disse sempre sottovoce Sellass. La ragazza strinse più forte il lembo dell'abito. “No,” rispose con calma, “non è il mio paese. Io andrò in Italia.” […] “Mi dispiace lasciare Gianfranco,” soggiunse Marianna, “spero che anche lui venga in Italia.” “No,” sospirò Sellass, “lui resterà qua. Lui è diverso.”175
Il testo si chiude sullo scenario di guerra tra Etiopia ed Eritrea: nel momento in cui si realizza il desiderio di Sellass di vedere i bianchi abbandonare la sua terra, tutto quello che rimane è l'immagine di un popolo martoriato; il suo popolo che da vent'anni continua ad essere ucciso per la ricerca d'indipendenza. La casa, testimonianza della caparbietà di Sellass, viene espropriata dai soldati etiopi, ma a lei non importa più: i suoi figli, ormai hanno scelto la loro strada, i percorsi per riconquistare la loro identità, a lei non rimane che tornare nella baracca della periferia.
“Cuhum?” gridò un soldato vedendo la donna. [...] “Che c'è?” gridò ancora il 175 E. Dell'Oro, L'abbandono. Una storia eritrea, op. cit., pp. 252-253.
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soldato. “Era la mia casa,” disse Sellass a bassa voce, ma calcò le parole per mostrargli che era decisa a stare là quanto tempo voleva, senza alcuna paura. [...] “Devi andartene,” disse poi con calma il più anziano, “non puoi più stare qua, non è più la tua casa.”[...] Diede un ultimo sguardo alla casa, poi dopo aver fissato negli occhi i soldati, come a dire che erano solo piccoli, ridicoli uomini di nessuna importanza, si voltò e si incamminò verso il centro [...].176
Rimane un dubbio sul registro stilistico scelto per descrivere il dolore di Sellass: l'autrice sembra attribuirle, a tratti, delle parole ed una gestualità tipici di sceneggiature romantiche moderne; ciò non toglie che l'impatto emotivo del testo è molto forte, e che quel tentativo di immedesimazione nella pelle dell'altro, che pareva abortito in Asmara addio, qui sembra più vicino a realizzarsi.
176 Ivi, pp. 261-262.
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CAPITOLO 3 LA PELLE DELL'ALTRO 3.1 Storie, corpi, linguaggi. Parlare della pelle dell'altro, utilizzando i testi di Igiaba Scego, significa esercitarsi in una proiezione mentale, che utilizzi, come veicolo d'analisi, le narrazioni che descrivono come si subisce l'additamento di alterità, lottando per l'inclusione in un'identità che contempla la dimensione plurale propria delle seconde generazioni di migranti. Con la denominazione la pelle dell'altro, non consideriamo Scego l'altro, e non apponiamo nessuna etichetta stigmatizzante in virtù della sua identità multipla di italiana dalla pelle nera, tutt'altro. In questo capitolo si tenta di valutare il significato delle sue narrazioni che raccontano l'essere definito o considerato straniero, altro, pur essendo e sentendosi parte integrante della società che la giudica e della sua cultura. Si tenta di condurre quest'analisi tenendo presente il fatto che il concetto di straniero, non si può inserire in una categoria astratta, ma, al contrario, è il risultato di dinamiche che di volta in volta si mostrano includenti o escludenti: è un prodotto, cioè, dell'immaginario dominante. Dunque
possiamo
mutuare,
per
un'argomentazione
della
connotazione
fondamentale di straniero, o altro, di cui Scego tenta una decostruzione, il concetto di “Oriente” che Said esplica nell'introduzione di Orientalismo177:
Muovo dall'assunto che l'Oriente non sia un'entità naturale data, qualcosa che semplicemente c'è, così come non lo è l'Occidente. Dobbiamo prendere molto sul serio l'osservazione di Vico che gli uomini sono gli artefici della loro storia, e che ciò che possono conoscere è quanto essi stessi hanno fatto, per trasporla su un piano geografico: quali entità geografiche e culturali, oltre che storiche, “Oriente” ed “Occidente” sono il prodotto delle energie materiali ed intellettuali dell'uomo. Perciò, proprio come l'Occidente, l'Oriente è un'idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e linguaggio che gli hanno dato realtà e presenza per l'Occidente. Le due entità geografiche si sostengono 177 E.W. Said, Orientalismo, Milano, Feltrinelli, 1999.
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e in una certa misura si rispecchiano vicendevolmente.178
Fuori dalle implicazioni testuali, operiamo una trasposizione, utilizzando questo concetto, che è una delle basi su cui Said costruisce l'impianto accusatorio contro l'Occidente imperialista, anche intellettualmente, per concretizzare l'assurdo epistemologico ricorrente nei pregiudizi escludenti l'altro, nell'Italia descritta da Scego. Nel nostro paese, l'interesse verso il dibattito e la discussione sulla definizione di identità/alterità è in ritardo rispetto all'evidenza di una condizione sociale multiculturale irreversibile, di cui Scego si fa specchio, strumento e voce. Roberto Mulinacci scrive in Abbecedario postcoloniale I-II179, utilizzando il postulato di Said, per cui chi tenta di giudicare la dialettica sull'alterità utilizzando categorie pregiudiziali acquisite non può che imboccare una strada senza uscita, che la stessa concettualizzazione vale anche nel processo inverso per una definizione di identità:
[…] benché proprio la formazione dell'identità sia legata, in correlazione speculare, al riconoscimento dell'altro - che, quindi, partecipa, contemporaneamente, al processo di autocoscienza individuale e collettiva -, la differenza tra culture, o meglio, l'individuazione di culture altre non si fonda su identità date, originarie e immutabili, ma è piuttosto la risultante di dinamiche storiche di contatto, nonché di fenomeni proiettivi analoghi, ma di segno inverso, a quelli che costruiscono il paradigma identitario. Ne discende, perciò, che concepire parimenti l'alterità quale categoria assoluta, cristallizzando cioè, in identità oppositiva una condizione relazionale - quella che permette, appunto, di identificare l'altro da sé rispetto a ciò che è identico -, anziché rivendicare legittimamente il diritto dell'Altro alla differenza, può finire, paradossalmente, col rinchiudersi dentro una logica di esclusione, governata proprio dal bisogno dell'Altro di essere riconosciuto come tale. Ma che cos'è, allora, l'Altro? [...] E soprattutto, chi è l'Altro? Lo sconosciuto abitante di un remoto altrove o il nostro ignaro vicino di casa? Il diverso che sta fuori o quello che si nasconde dentro di noi? Già “noi” e gli “altri”, o meglio, “Io” e “l'Altro”: un'opposizione binaria in cui sembra raccogliersi tutta la dialettica dell'alterità.180
178 Ivi, p. 5. 179 R. Mulinacci, Alterità, in S. Albertazzi, R. vecchi (a cura di), Abbecedario postcoloniale I-II, Macerata, Quodlibet, 2004, pp. 41-51. 180 Ivi, pp., 41-42.
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Questo immaginario che divide, non riguarda, ovviamente, esclusivamente l'Italia in questo preciso momento storico, per Scego è un handicap internazionale che bipartisce il mondo in due categorie immutabili: “esistono solo due categorie: gli sfruttati e gli sfruttatori. E non importa se si vive a New York, a Timbuctù o a Mogadiscio. Si può essere sfruttati, usati, maltrattati ovunque. Il luogo è solo un pensiero sociale.”181 Ma quest'immagine soggettiva del luogo sociale, in cui, senza riserve, si sviluppano le prassi sfruttatrici, di cui quelle coloniali non sono state che una delle possibili fenomenizzazioni, trova in Italia terreno fertile di applicazione. La serie d'immagini, motivi e richiami letterari utilizzati costantemente da Scego, sia in Oltre Babilonia182 che ne La mia casa è dove sono183, nostri romanzi di riferimento, sia negli altri racconti che utilizzeremo, sia negli articoli scritti per «l'Unità» e vari blog, costruiscono un affresco che rappresenta, senza filtri, l'Italia odierna, con le sue mancanze ed i suoi vizi, in parte ascrivibili ad un passato storico non introiettato né ridiscusso. Un passato di cui ancora l'Italia non si è assunta la responsabilità, da cui non è riuscita ad emanciparsi, o meglio, di cui non si è interessata. La storia ha il ruolo di protagonista costante nei testi di Scego. Il passato coloniale, cioè la vicenda che lega indissolubilmente l'Italia e la Somalia, si affianca continuamente alla storia contemporanea delle due nazioni e alle ripercussioni della vicenda coloniale sulle due patrie dell'autrice, fondendo passato e presente, collettivo e personale. In La mia casa è dove sono, ultimo romanzo di Scego, che lei stessa pone come tappa conclusiva del suo percorso di riunificazione delle “ferite” somale e italiane, l'autrice cerca di sovrapporre fisicamente le sue due città, disegnando una mappa del cuore che unisca i luoghi fondamentali della sua anima e della sua esistenza. Per esempio, al vuoto fisico lasciato dalla Stele di Axum, bottino di guerra restituito recentemente all'Etiopia, nel centro di Piazza Capena a Roma, Scego 181 Igiaba Scego, In mancanza di tutto anche l'inferno diventa sopportabile, Marea, 4, 2004, p. 74. In C. Barbarulli, Scrittrici migranti. La lingua, il caos, una stella, Pisa, Edizioni ETS, 2010, p. 75. Si veda anche S. Mezzadra, La condizione post-coloniale, Verona, Ombre corte, 2008. 182 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, Roma, Donzelli, 2008. 183 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, Milano, Rizzoli, 2010.
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attribuisce la figurazione dell'oblio da cui è stato sepolto il passato coloniale italiano; la mancanza di sostituzione della Stele, con un altro monumento che solleciti e custodisca la memoria di quel passato è, per la scrittrice, il sintomo lampante dell'assenza di interesse dell'Italia nei confronti dei suoi crimini e dei danni recati ai popoli africani. Il suggerimento è quello di colmare quel vuoto innalzando un monumento in memoria dei caduti del colonialismo, che funga da monito cicatrizzante e da incentivo per un rinnovamento sociale e culturale, che faccia sì che le vittime di quel periodo, e dei suoi sviluppi nefasti, come lo zio di Scego, assassinato dagli uomini di Barre, non rimangano cadaveri muti, sepolti dalla Storia.
Il primo si chiamava Omar Scego, era mio nonno. Il secondo si chiamava Osman Omar Scego ed era mio zio. Di loro ho visto solo fotografie in bianco e nero. Stessa fronte ampia, stesso sguardo sicuro. La piazza con il suo vuoto, orfana della stele, mi ha sempre ricordato la loro assenza nella mia vita. Ma anche la loro forte presenza. Sono morti prima della mia nascita.[...] Ogni volta che passo da piazza di Porta Capena ho paura dell'oblio. In quella piazza c'era una stele, ora non c'è niente. Sarebbe bello avere un monumento per le vittime del colonialismo italiano. Qualcosa che ricordi che la storia dell'Africa orientale e dell'Italia sono intrecciate.184
Igiaba Scego nasce a Roma nel 1974, da genitori somali immigrati in Italia per sfuggire alle persecuzioni successive al golpe di Siad Barre, nei confronti della classe dirigente formata nelle lotte pre-indipendenza della Syl185. Il padre di Scego fu formato dalle scuole fasciste nell'infanzia186 e spedito, nel periodo dell'A.f.i.s, ad “imparare la democrazia in Italia”. Dunque, la storia personale della famiglia Scego, si lega inevitabilmente alla storia delle due nazioni; le tappe delle vicende e dei legami tra Italia e Somalia sono 184 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., pp. 75-91. 185 La Syl (Somali Youth League), formazione indipendentista, nacque nel 1943, durante l'amministrazione britannica che precedette l'Amministrazione fiduciaria italiana. 186 “Di quella sua infanzia papà mi ha tramandato molte canzoni in lingua bravana e in lingua somala. Mi cantava anche una marcetta: quella canzone, lo confesso con una certa vergogna, mi piaceva da matti.[...] Era tutta un zumpappà zumpappà. Da piccola non capivo molto di quel testo che avocava un ragazzo audace, un ragazzo di Portoria che sta gigante nella storia. Solo anni dopo capii che era la canzone dei balilla, un inno fascista. Qualcosa che andava contro quello che eravamo.[...] Ma d'altronde lui da bambino anche se stava in pieno equatore, era un balilla. La sua infanzia era stata il fascismo, poi come tanti aveva condotto una lotta per liberarsene[...] I maestri, tutti rigorosamente italiani, dicevano ai bambini che gli occhi del Duce erano attenti e scrutavano ognuno di loro.” Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., pp. 38-39.
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ripercorse in quasi ogni testo di Scego, sia con descrizioni dettagliate, che con brevi accenni, come in una continua sottolineatura del bisogno di cartografare un passato riversato sulla quotidianità contemporanea. La scelta, inizialmente obbligata per i genitori, dell'Italia come paese in cui fuggire per rifarsi una vita, diventa per Scego una rivendicazione della sua duplicità, nonostante lo sconcerto di chi ha scelto un destino differente, lontano dalla patria degli ex colonizzatori.
Io invece ero l'italiana della barzelletta. I somali della Gran Bretagna non capivano questa mia ostinazione a stare nella terra dei nostri ex colonizzatori. “Che ci fai lì?” mi chiedevano tutti. Alcuni malignamente aggiungevano: “Non hai nemmeno marito”. L'Italia era vista dai somali di Gran Bretagna come la peggior scelta possibile. Un paese dove un profugo somalo non ha aiuti dallo stato, niente casa, niente sussidio, nessuna cassa di mutuo in aiuto. Un paese dove il razzismo serpeggia laido dove meno te lo aspetti. E dove immancabilmente finisci sposata a un bianco. Questa per molti somali era una vergogna assoluta.[...] “Che vuoi fare, la madama, come quelle povere donne durante il colonialismo?” [...] certo che no! Però era difficile spiegare le mie ragioni. L'Italia era il mio paese. Pieno di difetti, certo, ma il mio paese. L'ho sempre sentito profondamente mio. Come del resto lo è la Somalia, che di difetti abbonda.187
L'Italia come scelta, l'Italia come resistenza: senza dimenticare un passato fatto di soprusi e oltraggi al popolo somalo, ma con la volontà di una cicatrizzazione, che si nutra dell'analisi critica responsabilizzante, grazie a cui emanciparsi. Secondo Scego, infatti, non ci si salva dal proprio passato vergognoso, se non tramite un'apertura mentale che porti ad un recupero consapevole delle dinamiche storicopolitiche, e delle colpe dovute all'avidità di potere che hanno contraddistinto le elìte politiche sia italiane che somale. L'insistenza con cui Scego tratta le vicende storiche, anche reiterando gli stessi significativi episodi in più testi, oltre a segnare un percorso personale di riflessione che sembra concludersi con La mia casa è dove sono, si giustifica proprio in virtù di quest'urgenza di recupero memoriale, di cui da sempre si è fatta portavoce. Utilizzando direttamente i testi nella loro disarmante lucidità critica, incaselliamo un mosaico di riflessioni e ricostruzioni delle tappe storiche che conducono dal colonialismo all'Amministrazione fiduciaria fino all'indipendenza della Somalia e 187 Ivi, p. 16.
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che, utilizzando una terminologia di Said, crediamo di poter definire “contrappuntistiche”188:
Erano stati sconfitti dei padroni. Al loro posto ne erano arrivati altri, nuova lingua, nuove divise, nuove pratiche. La gente non rimpianse molto quelli di prima, gli italiani pallidi, e cominciarono a masticare contenti l'inglese. Durò poco la tutela inglese. Qualcuno decise in alto loco, in un palazzo tutto di vetro in una città al di là del mare, di far tornare i padroni di prima, gli italiani. Quel palazzo di vetro era imbottito di donne e uomini originali. Si fingeva di contenere il mondo. Si sorrideva con labbra di diversa grandezza. [...] Niente era eccessivo al palazzo di vetro solo le decisioni. Sì, quelle oltre che eccessive erano ingombranti e a volte del tutto idiote. [...] Fu così che [...] decisero che in Somalia dovevano tornare gli italiani. “Fortunati” disse qualcuno. […] Forse pensavano ai maccheroni. [...] I somali invece odiavano la pasta. Profondamente. […] Era troppo dura per amalgamarsi con le loro papille agrodolci. Odiavano anche gli italiani. Erano stati vessati per anni da loro. Il colonialismo gli era uscito dalle orecchie. [...] “Perché devono tornare?” gridava il popolo. “Perché non siete pronti” rispondevano (sempre molto per bene) dal palazzo.[...] Fu così che le Nazioni unite diedero all'Italia […] che aveva perso la guerra e anche un mucchio di denaro […] il compito di traghettare la Somalia verso l'indipendenza. “Ora dovrete insegnare la democrazia a quegli zulù”189 [...] Il famigerato Afis, l'Amministrazione fiduciaria italiana, stava cominciando.[...] Ma in Somalia la notizia come fu presa? […] “Gli inglesi sono dei colonialisti anche peggiori degli italiani, ma con loro lavori in libertà. Con gli italiani questo è impossibile. Loro non cercano persone competenti, ma solo sciocchi manovrabili.” […] Il nostro paese […] aveva mille disfunzioni: povero, diviso in clan in perenne guerra tra loro, senza infrastrutture degne di questo nome.[...] Una volta in terra africana l'Italia insegnò quindi quello che sapeva fare meglio: la corruzione. Inoltre una forte classe politica somala non serviva al Belpaese. La meta era semmai tirare su una classe dirigente politica bisognosa e corruttibile.[...] Quasi tutti i leader somali avevano fatto tirocini in Italia. Alcuni, come il futuro dittatore Siad Barre [...] furono direttamente addestrati dai dai servizi segreti italiani. L'amministrazione fiduciaria italiana durerà dal 1950 al 1960. in quei dieci anni le infrastrutture sono state nulle. L'amministrazione completamente ferma. [...] 190
188 […] tramite un nuovo orientamento integrazionista o contrappuntistico nello studio della storia, che vede le esperienze occidentali e non-occidentali in rapporto tra loro, in quanto collegate dall'imperialismo. E.W.Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma, Gamberetti, 1998, p. 306. 189 “Si contrapponevano due prospettive: per l'Italia era pura questione di prestigio. Per i somali una questione di esistenza. [...]Gente che aveva massacrato etiopi nella valle del Faf veniva mandata in quell'antico impero a insegnare la libertà repubblicana. È un po', passatemi l'esempio, come spedire un kapò a insegnare al nuovo stato d'Israele come vivere nel deserto. Qualcosa di completamente assurdo.” Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., p.45. 190 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, op. cit., pp. 257-260.
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Italia amministratrice, Italia maestra di democrazia: per quanto questo percorso formativo possa suonare ossimorico, durante il periodo dell'Amministrazione fiduciaria in Somalia, l'Italia formò, di fatto, quella che sarebbe stata poi, l'elìte politica della Somalia indipendente:
Dopo ci furono errori. Ci furono tanti incubi. Delusioni. Cattiverie. Insensatezze. Molti si accorsero che nulla era cambiato. Si era diventati Terzo mondo. Ma era un po' come essere colonia. Si dipendeva ancora. I capi, i paladini delle libertà, risultarono corrotti. Chi non lo era fu assassinato. Poteri militari. Poteri sacrali. Poteri burocratici. Poteri marci. Tutti i poteri alla ribalta, tranne uno. Quello del popolo. L'anno passò. Il 1960. l'anno del popolo. Durò un attimo. Fu molto bello.191
Queste le sensazioni tramandate a Scego dai familiari che vissero quel sogno subito abortito: anni di speranze, di illusioni, di errori; la classe dirigente che aveva creduto di risollevare il proprio paese dalla povertà e dalla guerra, sarà cacciata o costretta alla fuga dal colpo di stato di Siad Barre, anch'esso, come il padre di Scego, democraticamente formato in Italia.
Il 21 ottobre 1969 era venuto Barre al potere. Bruciava i culi. Con la scusa del comunismo diceva che si era tutti uguali, ma che lui era più uguale degli altri [...] Sapevano tutti che lui non li avrebbe mai difesi, che quella storia [...], del nemico etiope ai confini era una truffa e che l'unico nemico della nazione era proprio lui- Siad. Così molti decidevano di andare via dalla Somalia, “per un po', finché quello là non tira le cuoia. Finché non torna la democrazia”.[...] E così i somali cominciarono ad andare via negli anni settanta per la politica e continuarono negli anni ottanta per la fame. Negli anni novanta per la guerra civile. E così via, senza interruzione, nel 2000, 2001, 2002, 2003 e oggi, in questo stesso istante, in ogni tempo. […] Prima era stato Barre il comunista, a chiedere il bicchiere di sangue ogni mattina, poi negli anni ottanta fu Barre il capitalista a volere quel tributo, e intanto se ne andava a braccetto con gli americani e i ladroni del partito socialista italiano.192 191 Ivi, p. 251. 192 Ivi, pp. 103-104. “Questa è la storia di due uomini che il popolo chiamava Bottino e Boccagrande. All’anagrafe i nomi segnati erano altri, Bettino Craxi e Siad Barre, ma il popolo (quello somalo) preferiva chiamarli Bottino (in italiano) e Boccagrande (Afweyn in somalo), perché a detta loro il primo sapeva come accumulare denari e l’altro aveva una bocca così grande che quei denari sapeva triturarli ben benino. Un giorno di settembre del 1985 alle 15,30 locali, le 14,30 italiane, Bottino scende dal lucente bireattore Gulfstream. Boccagrande lo aspetta ai piedi della scaletta. Boccagrande dice all’amico italiano “vedi, sta piovendo”. Nel cielo nemmeno l’ombra di una nuvola. Bottino che vede oltre i suoi occhi approva e dice “sì, piove”. I due si intendono alla perfezione. La pioggia c’era, ma non era fatta di acqua, bensì di contante. Erano i miliardi italiani che dal 1981 al 1984 sommersero le casse dello stato somalo. Però quel denaro non andò ai rifugiati della guerra dell’Ogaden, non andò ai somali bisognosi. Erano gli anni della cooperazione
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I genitori di Scego sono esempi della diaspora che ha investito la Somalia dopo il 1969, anno della presa del potere di Siad Barre e che continua tutt'oggi ad essere nutrita dai migranti somali, in continua fuga dalla guerra civile che, dagli anni novanta, sta flagellando la Somalia. Come abbiamo visto, l'esperienza privata e personale della famiglia Scego è la base su cui Igiaba fonda le sue narrazioni; anche i romanzi e i racconti in cui il dato personale non è diretto protagonista, si subodorano esperienze e riflessioni potentemente intrise della sua biografia. Le vicende biografiche si riversano nei testi; dietro ogni donna che attraversa le scritture di Scego si scorge l'autrice, correndo il rischio di confondere la scrittrice con le sue protagoniste, di cadere nella trappola dello scambio tra autore e protagonista, salvo poi essere perdonati di questa ingenuità critica dall'autobiografia vera e propria di Scego, La mia casa è dove sono, in cui si ritrovano espressi nella loro verità, gli aneddoti trasfigurati nei testi precedenti. Per fornire soltanto un esempio di questo scambio continuo, la faticosa acquisizione della casa, come simbolo di una stabilità che permetta la costruzione di una nuova vita, è trattato sia in «Dismatria»193racconto non autobiografico, che in La mia casa è dove sono, con modalità differenti, ma compenetranti. In entrambi i testi, la tematica della casa è un mezzo significativo usato per approfondire lo sradicamento dei migranti. Nel primo racconto, infatti, la voglia di comprare una casa della protagonista, si scontra con la scelta di precarietà della madre, rappresentata dalle mille valigie in cui sono riposti vestiti ed oggetti, pronti per la partenza, in attesa di tornare in Somalia una volta che sarà ristabilita la pace.
[…] a casa mia la parola armadio era tabù. Come del resto erano tabù la parola casa, la parola sicurezza, la parola radice, la parola stabilità. Concetti astratti per la mia famiglia. Illogici! La verità è che tutte quelle valigie nascondevano la nostra angoscia, la nostra paura. Mamma diceva sempre: “Se teniamo tutte le italiana. Gli anni in cui si costruivano autostrade nel deserto e si riempiva l’antica terra di Punt di armi (troppe) e rifiuti tossici.[...]. La corruzione cominciò a dilagare come una peste tra i somali. L’antica terra conosciuta fin dai tempi di Hatshepsut per i suoi profumi e i suoi colori, cominciò a puzzare per i rifiuti tossici insabbiati e per il denaro sporco. La guerra in-civile di oggi tra le tante cause ha anche questa corruzione di ieri[...]” Igiaba Scego, Via del popolo somalo, «L'Unità», 27 gennaio 2010, in www.unita.it/news/94252/via_del_popolo_somalo 193 Igiaba Scego, «Dismatria», in Pecore nere (a cura di) F. Capitani, E. Coen, Roma-Bari, Laterza, 2005.
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nostre cose in valigia, dopo non ci sarà bisogno di farle in fretta e furia”. Il “dopo” sottolineava un qualche tempo non definito nel futuro quando saremmo tornati trionfalmente nel seno di mamma Africa.194
Nell'autobiografia, invece, la casa, per quanto misera, è il rifugio in cui tornare dalle incursioni in cerca di cibo o vestiti alla Caritas di Trastevere; il luogo in cui aspettare il ritorno del padre, partito in cerca di fortuna in giro per il mondo; è il porto franco in cui stringersi ed accogliere i parenti e gli amici in fuga dalla Somalia, ma anche, grazie ai tocchi di colore, al quadro della Mecca, alle statuette di animali africani, la rappresentazione in Italia della loro storia e del loro destino di orfani, o come si chiamano i somali, in modo molto suggestivo, “dismatriati”195.
Eravamo poveri. Papà assente causa lavoro [...] I primi anni in Italia alloggiavamo sempre nelle camere di qualche pensione scalcinata. Erano stanze anonime, spoglie e spesso buie. Mia mamma cercava di ravvivarle con qualche quadro e qualche foto. [...] Al centro c'erano i nostri lari e penati, gli spiriti protettori, che avevano il volto dello zio Osman e dei nonni. Immancabile il quadro della Sacra Mecca [...] In qualche angolo c'erano anche rinoceronti e dromedari, che mia madre spesso accarezzava con tenerezza. Con il tempo le pensioni si sono trasformate in appartamenti, ma erano sempre molto scalcinati e dall'aria perennemente provvisoria.[...] Vivevamo nella città come creature sospese [...] Prima eravamo sole ad aspettarlo, poi la casa si è riempita [...] Noi eravamo poveri in canna ma, generosi. Se c'era un metro libero si accoglieva qualcuno. In terra straniera non potevi negare l'ospitalità ad un connazionale.196
Grazie anche all'intreccio e la sovrapposizione continua delle differenti dimensioni storiche, Scego costruisce una rielaborazione della propria esperienza, per indirizzarla verso una ricomposizione che è, insieme, lotta per la riconquista di sé e per l'accettazione della propria identità ibrida, come tappa fondamentale per la successiva ricomposizione con l'“altro”. Il concetto di alterità in questo senso, e in questi sensi, è abbastanza complesso 194 Ivi, p. 10. 195 “Eravamo in continua attesa di un ritorno alla madrepatria che probabilmente non ci sarebbe mai stato. Il nostro incubo si chiamava dismatria. Qualcuno a volte ci correggeva e ci diceva: “In Italiano si dice espatriare, espatrio, voi quindi siete degli espatriati”. Scuotevamo la testa, un sogghigno amaro[...]Eravamo dei dismatriati, qualcuno - forse per sempre - aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, alla Somalia.” Ivi, p. 11. 196 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., pp. 114-115.
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vista l'appartenenza legale ed ontologica di Scego, anche alla cultura italiana. L'autrice si sente un mix, ma per l'Italia è ancora, spesso, una straniera. Il percorso memoriale si lega alla necessità della preservazione dall'oblio della storia coloniale italiana e dei crimini italiani in Somalia, mutuabili con quelli nelle altre colonie, innestandosi prepotentemente nel carente dibattito sulla questione, come voce risoluta, presente e resistente. L'impresa tentata da Scego è spalleggiata dalla sua esperienza di vittima dei soprusi e gli insulti razzisti subiti in terra italiana nella contemporaneità e, ci pare di profonda importanza, si colloca in quella dimensione in cui l'individuale diventa collettivo; il personale, politico. Quindi possiamo affermare che la scrittura di Scego non si nutre soltanto delle narrazioni sul passato, che a tratti, come negli echi dell'ascesa politica del padre, si fa mitologia familiare; non si nutre soltanto della tradizione orale, che è patrimonio culturale dei genitori; si nutre anche della sua competenza diretta sulle sentenze pregiudiziali che le hanno riservato gli italiani, compagni di scuola, vicini di casa, estranei, e che ha cementato quest'urgenza di ridiscussione simbiotica. Dunque, ripartendo dal filone storico di Scego, la Somalia colonizzata viene alternata e sostituita, nelle narrazioni, da quella amministrata e, successivamente, da quella tiranneggiata da Barre e poi distrutta dalla guerra civile; questa corrente storica alternata è accompagnata dal binario parallelo scabroso di un'Italia cattiva padrona, cattiva maestra, cattiva amministratrice, gradualmente sempre più indifferente, via via che la sua influenza si è fatta più indiretta e dunque maggiormente dissimulabile. Nella denuncia di Scego, infatti, la colpa degli italiani non si esaurisce nel colonialismo straccione e crudele, descritto così da una delle narratrici di Oltre Babilonia:
Di imperiale quell'italietta lì non aveva niente, era solo un cumulo di gente famelica, di gente che non sapeva chiedere scusa. [...] A Maryam non piaceva ricordare quell'anno. Il 1936. l'ira funesta si era abbattuta con violenza sulla sua famiglia. Era l'anno in cui era morto suo padre. Era morto, le avevano detto, sul fronte sud di Graziani [...] era andato a conquistare l'impero per gli italiani. Era un po' rossiccio, questo se lo ricordava bene. La pelle del corpo, poi, era quasi 105
diafana.[...] Suo papà era un dubat ed era andato a combattere gli etiopi in abissinia, a invaderli in un certo senso. Non era una bella cosa da fare.[...] Erano dei gaal, però chi se ne frega.[...] gli fecero indossare due lembi di stoffa bianca e poi dritto dritto lo mandarono a far la festa ad altri neri come lui. Ad altri fratelli. Alla gente del Corno.197
né con l'A.f.i.s.,
A Maryam gli italiani che vedeva per strada facevano parecchia paura. Erano sempre tutti rossi e grondavano liquidi. Però tutti dicevano che questi non erano come quelli di prima, non erano padroni, ma li stavano aiutando a diventare liberi. Però non erano mica tutti d'accordo su questa cosa qua. Per esempio, la cugina Hibado non lo era affatto. Diceva che la Syl, la lega somala, li avrebbe liberati presto e che quegli sporchi italiani non avevano buone intenzioni. Diceva che l'Afis, l'amministrazione fiduciaria italiana, era una porcheria.[...] Nessuno ti aiuta a diventare libero, o lo sei o non lo sei, e certe cose mica si imparano, si sentono.[...] Maryam trovava la cugina Hibado un po' curiosa.[...] E poi quella politica sempre in testa. “ Ci libereremo. Vedrete. Ci libereremo. Anche se questi filoitaliani vogliono ancora essere schiavi, il popolo non sta più con loro. Ormai crede in noi della Lega”.[...] Erano anni di passaggio, quelli. Dopo la guerra che aveva coinvolto il mondo per le ragioni del Nord grasso, il Sud aveva deciso che non era più il tempo della schiavitù e che si poteva vivere diversamente. Certo, c'era anche da dire che il Nord grasso si era anche stufato di quel colonialismo, che ormai non gli conveniva avere più quelle terre da sostenere direttamente, che c'erano modi più economici per controllare i popoli e sfruttarli. Quindi dopo quella grande guerra, la seconda, il Nord grasso aveva detto al Sud povero fa pure quello che vuoi, io non ti ostacolerò. Però non è proprio così. Erano ancora loro a decidere chi doveva essere liberato, in che tempi e con quale modalità. La Somalia sotto tutela. Era stato deciso. Ma i somali non erano tutti d'accordo. C'era la Lega. C'era gente come la cugina Hibado. […] La strada piena di gente [...] Ad aspettare. Cosa? L'amministratore fiduciario italiano. Era quello che li doveva condannare per dieci anni. Quello che doveva insegnare la democrazia a loro somali ignoranti. Così era stato decretato in un paese lontano. A New York. In un palazzo tutto di vetro. [...] Bisognava accoglierlo.[...] Non vide altro che il didietro della gente. Culi e schiene, nuche e capelli.[...] Al suo passaggio la gente si era voltata tutta dall'altra parte. Lo stava rifiutando.198
La colpa degli italiani si moltiplica e risorge ogni volta che l'arido disinteresse sostituisce la ricostruzione e l'assunzione di responsabilità. 197 Maryam Laamane è la madre di Zuhra, entrambe narratrici di Oltre Babilonia. Maryam, non ha più il marito e racconta da sola la memoria collettiva della famiglia e della storia patria. Registra su cassette i suoi racconti per offrire alla figlia Zuhra una possibilità di ritrovamento e ricostruzione del sé, tramite l'oralità, specificità del patrimonio culturale e tradizionale somalo. Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit, p. 17. 198 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, op. cit., pp. 110-114.
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Rispetto agli altri paesi l'Italia si è purtroppo distinta, una volta conclusa l'esperienza, per la sistematica mancanza di un ripensamento che portasse a costruire una coscienza critica su quelle vicende. Mentre in altri paesi, che hanno condiviso lo stesso passato di colonizzatori, la comunità intellettuale e civile è stata spinta dai fatti ad una analisi seria sul colonialismo, in Italia si è preferito il silenzio, ma non a livello di ricostruzione storica, che anzi è, oggi, ben strutturato, bensì a livello di riflessione socio-politica, non solo sulle vicende in sé, ma anche alle loro conseguenze pratiche, sia nella breve, che nella lunga distanza, che porta alla contemporaneità. Il risultato di questa non-scelta è un vuoto di memoria e di coscienza, in una buona percentuale di italiani, che investe l'esperienza coloniale, i suoi crimini, i suoi limiti e le sue ripercussioni sull'Italia e l'Africa contemporanee. In poche righe Scego mette in luce questa latenza tipicamente italiana che, possiamo affermare a posteriori, i protagonisti dei testi analizzati nel capitolo delle narrazioni sulla pelle dell'altro facevano facilmente presagire: questa tendenza all'oblio, al valore zero della memoria, sembra caratteristica antropologica del popolo italiano. Senza spostare la discussione sul piano assiologico, attribuendo giudizi valoriali ai vari sistemi coloniali, concetto che abbiamo già considerato illegittimo nei capitoli precedenti, il passaggio che riportiamo di seguito, nella sua estrema semplicità, stigmatizza la distanza che permette un confronto sul piano delle riflessioni post-coloniali.
Però su una cosa avevano ragione da vendere: l'Italia si era dimenticata del suo passato coloniale. Aveva dimenticato di aver fatto subire l'inferno a somali, eritrei, libici ed etiopi. Aveva cancellato quella storia con un facile colpo di spugna. Questo non vuol dire che gli italiani siano stati peggio di altri popoli colonizzatori. Ma erano come gli altri. Gli italiani hanno stuprato, ucciso, sbeffeggiato, inquinato, depredato, umiliato i popoli con cui sono venuti in contatto. Hanno fatto come gli inglesi, i francesi i belgi, i tedeschi, gli americani, gli spagnoli, i portoghesi. Ma in molti di questi paesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale c'è stata una discussione, ci si è accapigliati, gli scambi di vedute sono stati aspri e impetuosi; ci si è interrogati sull'imperialismo e i suoi crimini;sono stati pubblicati studi; il dibattito ha influenzato la produzione letteraria, saggistica, filmica, musicale. In Italia 107
invece silenzio. Come se nulla fosse stato.199
Tramite questi episodi, Scego disegna la sua esistenza-essenza, i ricordi e le sofferenze tipiche di uno sradicamento coatto che, nella mappatura che sovrappone Roma a Mogadiscio, in La mia casa è dove sono, è simbolizzato anche dalla statua dall'Elefantino del Bernini, che con tenerezza Scego considera un rimando marmoreo alla condizione di sua madre:
Essere tutt'uno con la savana. Ma la savana è lontana, lontanissima. Per lui è terra proibita È in esilio perpetuo, una creatura nata sola. Non sa nemmeno se ci tornerà in Africa. Non sa nemmeno se ci è mai stato. […] Per me quell'elefantino è somalo. Ha lo stesso sguardo degli esuli.[...] ha lo stesso sguardo della mia mamma. Non può tornare, non può dissetare la sua angoscia. L'esule è una creatura a metà. Le sue radici sono strappate, la vita è stata mutilata, la speranza è stata sventrata, il principio è stato separato, l'identità è stata spogliata.200
Nonostante questa malinconica lucidità sulla condizione dei migranti, di cui necessariamente soffre anche l'autrice, Scego difende con forza la sua condizione esistenziale e dà una definizione, che si rivelerà essere contemporaneamente ritratto delle sue protagoniste, della sua condizione ontologica duplice e della mescidanza culturale che l'ha cresciuta e plasmata.
Infatti io sono proprio una scrittrice migrante di seconda generazione, nata in Italia da genitori migranti e un po' migrante nel cuore (per non parlare poi del fisico). La mia formazione culturale è italiana, la lingua in cui scrivo è l'italiano (non per scelta, ma per corso naturale)…ma il mio vissuto è legato a doppio filo con la madrepatria del cuore, ossia quella Somalia martoriata dei miei genitori. Indagare su questo tema mi sembrava un'opportunità sia per me stessa, sia per gli altri. [...] (per gli scrittori migranti di prima generazione) L'italiano quindi è una scelta. Invece per me non lo è stata. Non riesco a pensare ad un'altra lingua per esprimere il mio pensiero scritto. Il somalo scritto (una lingua scritta recentemente, nata nel 1972) lo trovo lontano dalle mie corde e l'italiano è la lingua che uso per esprimermi in forma scritta. Anche a casa - dove parlo costantemente somalo con i familiari - lascio i messaggi scritti in italiano. Quindi non ho scelto di scrivere in italiano, mi è capitato…..l'italiano per me è il corso naturale della mia scrittura. Ciò non toglie che arricchisco la mia scrittura con inserimenti di parole somale o arabe 199 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., p. 16. 200 Ivi, pp. 54-55.
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(tradizione religiosa) o bravane (il dialetto della città di mio padre: Brava. È una lingua bantù molto simile al swahili). In più da aggiungere, nel caso mio, i forti legami tra Italia e Somalia. Essendo stato il mio paese d'origine Ex colonia italiana, ha conservato molti legami con la penisola, anche linguistici. Mio padre (che è stato addirittura Balilla da piccolo, quindi ha vissuto da vicino anche gli orrori del fascismo), mia madre, i miei fratelli hanno frequentato scuole italiane in Somalia. E spesso nella nostra famiglia i testi scritti erano veicolati in italiano.201
Questo è l'autoritratto di Igiaba Scego, tratto dalla sua relazione al già citato IV Forum Internazionale sulla Letteratura della Migrazione; in poche righe la scrittrice tratteggia gli aspetti fondamentali che legano la sua esistenza alla sua produzione testuale. La storia, il corpo, il linguaggio, nella miscela tra il patrimonio culturale ed identitario italiano con quello somalo, sono i cardini su cui Scego focalizza la sua indagine e che ritroviamo costanti, non solo nei romanzi e nei racconti che analizziamo, ma anche nelle numerose interviste rilasciate dall'autrice, in cui la continua riproposizione di queste istanze, sembra rimarcarne l'urgenza testimoniale. Questi motivi centrali sono fili conduttori, coordinate, che Scego usa nell'itinerario verso la scoperta, o meglio, la definizione della sua identità di cittadina italiana d'origine somala. Scego vive l'esperienza di soglia fra due dimensioni e culture diverse, sentendosi un contenitore di tradizioni, che contraddistinguono la sua esistenza e provocano una ricerca incessante verso l'affermazione dell'identità frazionata e multiforme, troppo spesso considerata dagli italiani come identità estranea, come scarto dalla norma e dunque come pericolo. L'analisi dell'elemento linguistico è imprescindibile nella produzione di Scego. Non solo l'utilizzo quotidiano delle due lingue madri, ma anche la loro compenetrazione, l'urgenza di padroneggiarle con lo stesso grado di competenza, senza permettere all'una di surclassare l'altra, è un modo per testimoniare la sua polifonica molteplicità. Sempre durante la stessa relazione al IV Forum Internazionale sulla Letteratura della Migrazione, Scego approfondisce il disagio insito nell'essere una miscela che 201 Igiaba Scego, Gli scrittori migranti della seconda generazione, IV Forum Internazionale sulla Letteratura della Migrazione, Mantova, 3 aprile 2004. in www.eksetra.net
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impediva nell'infanzia e nell'adolescenza una crescita lineare e serena, per colpa dell'assenza di accettazione che derivava indubbiamente dall'esterno, ma che affondava le proprie radici in una confusione esistenziale, anche personale. Da qui, la volontà di omologazione, che soprattutto nell'infanzia crea i presupposti dell'accettazione nel gruppo dei pari, ed il conseguente immediato rifiuto di tutte le connotazioni che la facevano sentire, ed essere, altra rispetto alla società italiana che la circondava. Gli scritti di Scego sono tendenzialmente scritti “in movimento”, itineranti: nei continui cambi di narratore e nazione, come in Oltre Babilonia, o nell'itinerario fisico di cui Scego si serve per raccontare, in La mia casa è dove sono, le passeggiate o le “fughe” nella Roma di cui ogni scorcio rimanda ad un angolo d'Africa, si traspone l'urgenza di un percorso formativo e riformatore: i luoghi fisici o mentali, i passaggi, gli attraversamenti, sono pretesti di narrazione. In un intervista l'autrice ha dichiarato, a proposito dei movimenti e sommovimenti esistenziali della protagonista di Salsicce202, che compra e tenta di mangiare, non riuscendoci, cinque chili di salsicce, andando incontro al peccato religioso per la volontà di omologarsi al popolo italiano, che:
(la protagonista) […] lei è il suo percorso, il suo viaggio […] non è un racconto autobiografico, più che altro volevo fotografare la situazione delle seconde generazioni; ché a volte è difficile scegliere e a volte la cosa migliore è non scegliere, riuscire a vivere il confine, la frontiera, cioè il fatto di essere tutt'e due o tutt'e tre le cose (italiana, somala e islamica), e tutte le tre identità non vanno l'una contro l'altra, ma si integrano una dentro l'altra”203 La sottolineatura del fatto che non sia un racconto autobiografico, visto che Scego assicura di non aver mai provato ad assaggiare salsicce per sentirsi italiana, è una spia di quanto, in ogni sua narrazione, la situazione descritta sia, se non biograficamente, ontologicamente, riconducibile all'esperienza personale. Nel seguente estratto troviamo, invece, il suo primo scontro con il razzismo e la 202 Igiaba Scego, Salsicce, in Pecore nere, op. cit., pp. 23-36. 203 Anonimo, Intervista a Igiaba Scego, in www.youtube.com/watchv=78QFPoCc2cI&feature=related
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discrasia tra l'amore incancellabile verso le sue tradizioni somale e il bisogno di integrazione, ovvero tra gli ingredienti esplosivi di questa scissione identitaria.
Spesso gli scrittori di seconda generazione sono nati qui, nel Bel Paese. O se non sono nati, ci sono venuti da molto piccoli (pochi della decade 70/80 sono frutto di matrimoni misti). Siamo figli di quella generazione di migranti approdata in Italia negli anni 70/80. Abbiamo frequentato le scuole italiane, abbiamo avuto una formazione culturale italiana, abbiamo vissuto parte della nostra vita in un habitat italiano (dico parte perché la casa per uno scrittore di seconda generazione non è un habitat italiano o lo è solo in parte). Quindi siamo italiani in tutto e per tutto. Non siamo diversi dai vari Andrea, Luca e Gaetano. Abbiamo visto l'Italia vincere i mondiali di calcio dell'82, Abbiamo fatto una sana overdose di cartoni animati giapponesi come ogni ragazzino italiano che si rispetti [...]. Però in noi c'era una differenza, la nostra origine migrante. Abbiamo succhiato con il latte materno mondi lontani, esotici che però ci appartenevano nell'intimo. Nel caso mio era la Somalia: a casa vivevo la cultura somala e la religione islamica. Parlavo il somalo, mangiavo il cibo somalo, facevo le preghiere ad Allah e non a Gesù. Vivevo di fatto una scissione, una scissione che soprattutto nell'infanzia è stata piuttosto conflittuale. Non capivo tante cose da piccola e poi vivevo fuori dalle mura domestiche quella cosa immonda chiamata razzismo. I neri -e in generale - gli stranieri erano pochi all'epoca e devo dire che in quei primi tempi i miei genitori e poi di riflesso io (a scuola soprattutto) abbiamo dovuto affrontare i peggiori insulti. Questo mi ha portato a negare la Somalia, volevo rigettarla e volevo avere la pelle bianca come gli altri.204
Anche in questo breve testo sono presenti tutti i cardini della scrittura di Scego: da una parte la storia, come già scritto, dall'altra la connotazione non solo culturale, ma anche fisica della diversità: la pelle nera, i tratti somatici, la “chiappa africana”, i capelli sono tutti elementi che si reiterano nei testi, sempre veicolanti il percorso di crescita che va dal rifiuto all'accettazione di sé. Proprio per quanto riguarda il corpo, nella sua vasta produzione letteraria, Scego sempre divisa tra le sue due dimensioni, accorcia le distanze culturali procedendo per infrazione di tabù comuni alle sue due matrie: il corpo e la sessualità. L'autrice dichiara in un'intervista rilasciata a Maria Cristina Mauceri che, mentre il campo semantico delle funzioni fisiologiche e della loro vitalità è spesso censurato in Italia, ma non in Somalia, la dimensione della sessualità, accomuna le 204 IV Forum Internazionale sulla Letteratura della Migrazione, cit.
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sue due patrie, che la affrontano soltanto con molto pudore e cautela.
In Salsicce il corpo ha un ruolo importante, e lo avrà ancor di più nel racconto successivo, La strana notte di Vito Renica, leghista meridionale. Tu indulgi volentieri negli aspetti bassi del corpo. Mi domando quanto parlare di funzioni corporali rappresenti da parte tua la rottura intenzionale di un tabù e in quale delle tue due culture? I somali parlano tranquillamente di funzioni corporali, semmai rompo un tabù italiano, quando parlo di Vito Renica che vorrebbe farsi tante donne, però, rompo un tabù somalo, perché il sesso in Somalia è un grande tabù.205
Scego percorre con una certa insistenza questi due motivi, affermando che eliminare i limiti e le frustrazioni imposte dal concetto tradizionale di identità o appartenenza, legato ad ogni tipo di caratteri fisici, è fondamentale per un'accettazione del sé che veicoli un messaggio sociale di rispetto reciproco e un tentativo di incontro con l'altro. Ma non solo: l'utilizzo insistente del corpo e della sessualità affermano che, se la violenza, coloniale o contemporanea, investe l'altro senza differenziazioni, sul corpo della donna l'applicazione degli stereotipi di conquista e di sopruso è più facilmente spendibile, spostando così ulteriormente il focus su una prospettiva di genere. Come scrive Clotilde Barbarulli, rifacendosi al testo “Corpi in movimento. Poetica del concetto di casa. Poetica della diaspora.” di Stanford Friedman:
È la letteratura che può aiutare a capire la complessità di un mondo diviso, a livello di classi e di generi, tra dominatori e dominati, tra ricchi e poveri, tra inclusi ed esclusi, un'ingiustizia globalizzata in cui sono le donne a pagare, sempre di più, specie se diverse: emerge l'intersezionalità del genere con i suoi altri elementi, quali la razza e la classe in particolare. Se il percorso di lettura si concentra sui testi scritti in italiano da migranti e da giovani di seconda generazione, vediamo l'articolarsi di varie forme di violenza: il corpo per primo come espressione della nostra rigidità culturale, marchia il singolo/la singola come straniero/a, a causa della pelle, dei capelli o delle parole dette.206
205 M.C. Mauceri, Igiaba Scego: la seconda generazione di autori transnazionali sta già emergendo, intervista con l'autrice, «El ghibli, letteratura della migrazione», 1, 4, 2004, in www.elghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_01_04-section_6-index_pos_1.html. 206 S. Stanford Friedman, “Corpi in movimento. Poetica del concetto di casa. Poetica della diaspora.”, Mediazioni, in www. mediazionionline.it, cit. in C. Barbarulli, op. cit., p. 117.
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Non possiamo non accennare, a proposito delle scritture sulle problematiche del corpo all'infibulazione, pratica di tortura tribale riservata a milioni di donne mussulmane. L'esperienza dell'escissione dell'organo sessuale femminile e della clitoride, appartiene anche la famiglia di Scego, che racconta la tortura subita dalla madre, risparmiata invece all'autrice, grazie alla scelta amorosa e consapevole dei genitori. La pratica dell'infibulazione, mascherata da precetto religioso, è in realtà una pratica mostruosa di mutilazione della sessualità femminile; la menomazione identitaria peggiore fra quelle immaginabili, che porta all'impossibilità di fruizione di rapporti sessuali soddisfacenti e di una sessualità libera, integra, umana. La totale rimozione, anche psicologica, della sfera sessuale, relega la donna ad una totale subalternità sessuale.
Mamma della boscaglia ha tutti ricordi dolci tranne uno: il giorno in cui la infibularono. All'inizio registrò solo il dolore. Poi con gli anni, da sola, capì che quello che le era stato fatto era una mostruosità. Mamma non serba rancore. Mi ha sempre detto: “ [...] Nessuno aveva mai detto ai miei genitori, ai loro genitori, che era una tradizione crudele, non prescritta dalla nostra religione”. Aveva circa otto anni, la mia mamma.[...] Arrivò dalla mammana, addetta all'operazione, con una tremarella da fare tenerezza. [...] Allargò le gambe, fu ubbidiente come si erano raccomandate le donne della famiglia. “In quel momento ho cercato Dio. Chiedevo: “Oh Allah Clemente e Misericordioso, Allah Signore degli Universi, ti prego fammi essere coraggiosa. Fammi sentire meno dolore”I207 […] Io mi immagino (di questo mia madre non parla molto volentieri) che la decisione di essere contro quel dolore sia stata immediata. Lei con i fianchi legati, con una cicatrice che tardava ad arrivare, decise nel suo piccolo di cambiare il corso della storia. Io in un certo senso mi sento una mappa di mia madre. Mamma (con papà naturalmente, che è sempre stato contrario alla pratica) mi ha regalato l'amore.208
La Scego stessa ha rischiato di essere sottoposta all'infibulazione, salvandosi soltanto grazie alla ripetizione del divieto della madre, rivolto alle parenti, di 207 “Pregai tanto il mio Dio. Non volevo pensare a quel sangue che zampillava sotto di me.” Due donne le tenevano le gambe, per impedirle di muoversi durante l'operazione. Tutto avvenne senza anestesia; mamma non dimenticherà mai quel dolore fortissimo. Fu brava. Strinse i denti, era una donna saacad, mica una qualsiasi. Non poteva piangere davanti alla tribù. Nonostante la sofferenza non ha mai cercato di divincolarsi, fuggire era considerato una grande vergogna. Al termine le vennero legati i fianchi e stette così per circa una settimana, doveva dare il tempo alla ferita di cicatrizzarsi.” Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, 63- 64. 208 Ibidem.
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perpetrare quella tortura; il dolore provato dalla madre è rifluito nella sua esperienza di donna, rimappando in lei le possibilità perse dalla madre:
Mi ricordo che da piccola, quando mamma mi ha lasciata da sola in Somalia con le mie zie corsi qualche pericolo. Mi ricordo che qualcuno accennava a una puntura: “Igiaba, ti facciamo una punturina proprio lì. Non sentirai male.” io ero molto preparata sull'argomento. Dicevo semplicemente: “Fa male. Mamma non vuole.”209 [...] fu la corazza che mi difese. La volontà di mia madre, la sua esperienza di dolore, mi hanno permesso di essere una donna completa, con tutti gli organi al posto giusto. Ecco perché mi sento una mappa di mia mamma. Lei mi ha disegnata intera, senza omissioni né “tagli”.210
Questa dolcezza e grande cautela nell'affrontare un argomento spinosissimo, lasciano il posto ad altri toni a tratti divertiti nell'utilizzo delle funzionalità del corpo per raggiungere la sfera del paradossale o del grottesco, nella ridiscussione dei caratteri identitari. L'insistenza, a tratti truce e compiaciuta, sulla descrizione degli organi sessuali o delle funzioni fisiologiche, serve a Scego per attirare l'attenzione del lettore sull'importanza della conoscenza e accettazione del corpo e della sessualità per il percorso identitario, ma non solo: ogni manifestazione corporale e basso-corporale, viene vista da Scego come conseguenza di un trauma, di un'imposizione e come compartecipazione del corpo al blocco mentale creato dall'esperienza personale. Così, se ne La strana notte di Vito Renica, leghista meridionale211, la defecazione viene vista come necessaria liberazione da un'identità non più sentita come propria, in Oltre Babilonia vedremo come il sangue mestruale, di cui Zuhra non riconosce il colore, ma solo la macchia sugli slip, indichi la momentanea perdita del riconoscimento della principale connotazione femminile, in seguito ad uno stupro. Dunque, in queste scelte inconsuete riscontriamo la volontà fortissima di Scego di stimolare il lettore tramite l'infrazione di tabù troppo spesso canonizzati, e di ribadire l'importanza d'analisi del sé, che non escluda nessun aspetto o punto di 209 “Erano gli anni Ottanta. Stava facendo una campagna contro l'infibulazione anche il governo di Siad Barre, che come tutti i dittatori prendeva a cuore certe battaglie sociali per creare consenso, un po' come Mussolini con la bonifica dell'Agro Pontino.” Igiaba Scego, La mia casa è dove sono,op. cit., pp.65-66. 210 Ibidem. 211 Igiaba Scego, La strana notte di Vito Renica, leghista meridionale, in 0, 4, 2004, in www.elghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_00_03-section_1-index_pos_1.html
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vista. Nel racconto La strana notte di Vito Renica, leghista meridionale la petulanza della descrizione dell'impasse fisiologico di Renica e l'esplosione fecale liberatoria, sono tentativi ironici per umanizzare e deridere il protagonista, scrutando le contraddizioni insite nella sua negazione/riappropriazione identitaria. La filosofia che distingue l'umanità in buoni o cattivi evacuatori, propugnata da Vito, abbassa le categorie di giudizio a livello del basso corporale, crediamo anche per sottolineare la grettezza del metodo di distinzione fra esseri umani, tramite caratteri fisici o fisiologici, per aprire successivamente la discussione sulla riappropriazione del sé e tramite l'esplosione finale che libera, ed insieme ridisegna, l'identità del personaggio.
L'intestino di Vito Renica era in subbuglio [...] rumoreggiava impetuosamente. [...] Per Vito la vita era racchiusa in una cagata. Il mondo per lui era diviso in due categorie di esseri umani: i complicati e i semplificati. I primi avevano problemi a cagare (e non solo), gli altri no.[...] Però alla gente non piaceva molto parlare di quell'argomento, non era "signorile". Vito se ne fotteva della signorilità! [...] Da un po' Vito era diventato un complicato. Tutto dipendeva da quella donna, lo sapeva. [...] Vito infatti era un leghista convinto. Un leghista di primo pelo. Un Bossiano di ferro, di quelli che ce l'avevano duro come il senatur. Vito non trovava nel suo essere napoletano un impedimento alla fede bossiana. […] Vito Renica odiava Napoli. E odiava soprattutto i napoletani. "Cazzo! Che sfiga nascere a Napoli!". Però Vito si consolava, meglio napoletano che negro. Non sarebbe stato forse peggio essere nato in qualche fottuttissimo villaggio di pigmei cannibali? Almeno così aveva la pelle bianca e poteva decidere di diventare quello che voleva. A 18 anni decise che sarebbe diventato un leghista [...] Abbandonò presto la città della tarantella per la più solida città della Madunina […] Quindi la prima cosa che fece fu quello di lavorare sul suo accento. Voleva cancellare ogni traccia di napoletanità dalla sua voce. Ingabbiò la A, torturò la E, spense la I, straziò la O, uccise la U. Dopo le vocali fu poi un gioco da ragazzi passare all'italiano standard.[...] Poi in una fredda mattina di Febbraio si accorse che ogni forma di dialetto era sparita dal suo essere. Finalmente era diventato un uomo X, senza identità. Di tanto in tanto per darsi un tono aggiungeva al discorso perle di dialetto lombardo apprese di sfuggita chissà dove. Si sentiva un re in quella nuova veste di uomo X. Dopo questa operazione fu facile anche trovare lavoro.[...] Era completamente solidale con i datori di lavoro lombardi."Mettersi un napoletano in azienda....ma che siamo matti? Se fosse stato un negro almeno si poteva sfruttare, ma questi napoletani sono furbi e poi chiamano i sindacati. Sono dei bastardi ingrati! Li conosco bene, ci ho vissuto gomito a gomito tutta la vita....ingrati e noi Nord che li abbiamo nutriti e coccolati per anni".Vito parlando del Nord aggiungeva sempre il pronome NOI accanto. […] Napoli 115
non era NOI, era LORO.212
Il percorso di Vito Renica prosegue, con impulsi intestinali sempre più forti e incalzanti, in trasferta a Roma “ladrona”, per incontrare la donna che ha provocato il suo cambiamento esistenzial-intestinale. L'incontro con la donna avverrà in una Roma colpita dal black out, in cui le uniche persone disposte ad aiutare Vito e offrigli un bagno sono gli immigrati che lui odia profondamente e di cui, chiaramente rifiuta l'aiuto. Ma quando arriva il momento della sconvolgente defecazione pubblica, sembra innescarsi un processo di risveglio, come se Scego avesse connotato, con la persistente stitichezza, il sintomatico affacciarsi di un risveglio di coscienza.
[..] Lui era leghista, mentre lei una rifondaiola arrabbiata. Lui odiava i negri, i terroni, gli ebrei, gli zingari e tutte le categorie non ariane; tutta gente che avrebbe meritato secondo Vito la camera a gas, lei invece faceva vacanze solidali in Senegal e comprava solo dalle botteghe del commercio equo&solidale. Inoltre in lei c'era (la foto era chiarissima) sangue di extracomunitario. Era italiana, votava, ma qualcosa nel suo percorso era andato storto. Qualcuno aveva troieggiato in Africa e aveva fatto l'errore di non abortire o far abortire. [...] dopotutto anche durante il periodo delle colonie i soldati italiani si sollazzavano con le indigene. Non era peccato mortale, nessuno lo avrebbe accusato di tradire la causa leghista. Anzi lo avrebbero complimentato."Si sa che le negre fanno godere molto più delle bianche" si giustificava davanti alla sua coscienza xenofoba.”Però lui si stava innamorando di quella donna, non era solo questione di sesso. Non cagava da quattro giorni e pure prima il suo andamento corporeo non era dei più regolari.[...] Non gli importava della puzza. Non gli importava della vergogna. Quelle cose importavano al leghista.... lui non era mai stato leghista, lui era di S.Giorgio a Cremano come poteva essere un leghista? Era un controsenso assurdo. Immerso nella sua sporcizia Vito Renica scoppiò in una risata strana. La gente attorno a Giordano Bruno ne fu spaventata. Tutti scapparono alla chetichella. Ora era l'unico padrone della piazza. O almeno credeva. Una ragazza alta, slanciata e bagnata dalla pioggia si avvicinò a lui e gli disse "scusa sei Vito? Vito Renica? Il leghista?" "No...ti pare che un leghista faccia il barbone?" "Non so....io li odio i leghisti. Ero solo curiosa di vedere questo tipo in faccia e gridargli in faccia il mio disprezzo." "Non perderci tempo con i leghisti...brutta razza...." La ragazza sorrise."Sei simpatico....ma lavati....c'è la Caritas che offre da mangiare" e così dicendo gli offrì un biglietto da visita. "vai a questo indirizzo....lì troverai un pasto caldo e un bagno". Vito sorrise. Mormorò un 212 Ibidem.
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"grazie" a fior di labbra. La ragazza lo salutò con la mano e sparì nel buio.213
Anche Zuhra, una dei narratori di Oltre Babilonia, inizia e termina il suo percorso raccontando la funzione fisiologica del ciclo mestruale. In questo romanzo si alternano cinque narratori, chiamati la Pessottimista (Maryam Laamane-madre), la Negropolitana (Zuhra Laamane-figlia); la Reapparecida (Miranda Ribero Martino-madre) la Nus-Nus (Mar Ribero Martino-figlia),e il Padre (Elias), unico uomo, che lega, a loro insaputa, le quattro donne tra sé, essendo stato il compagno delle due madri e padre sconosciuto alle due figlie. Le vicende dei narratori si alternano a cadenza regolare, non sempre intrecciandosi fra sé e creando, forse volutamente, un po' di confusione nel lettore, che è costretto ad inseguire i racconti e i ricordi di cui ogni narrazione è intrisa e che lo trasportano in tre continenti Africa, America ed Europa - abbracciando un arco di tempo molto vasto che dall'Impero coloniale fascista, passando attraverso l'Argentina dei desaparecidos, arriva fino alla Roma contemporanea. In seguito ad uno stupro subito nell'infanzia, Zuhra, la Negropolitana, chiamata così per la fusione delle due essenze, africana e romana, ha perso la facoltà di vedere i colori, la possibilità di godersi la bellezza del mondo, ridotto alla neutralità del bianco e nero. Nel suo percorso di crescita e di cura psicologica li ha riacquistati tutti tranne il rosso: colore dell'amore, colore della passione, ma anche colore del sangue, della guerra, da cui sua madre è scappata, e dell'identità sessuale insita nel ciclo mestruale. La scintilla della narrazione in questo testo è proprio il sangue mestruale, la macchia del quale Zuhra non riesce a contraddistinguere come rosso; da questa riflessione scaturisce il racconto del suo percorso di riconquista della propria identità, dell'affermazione di sé come donna, prima di tutto, ma anche come multiformità di donna italiana e somala insieme.
[…] la gente ha paura della parola mestruazione. Panico totale. La gente si spaventa quando una cosa è molto vera.[...] Sognavo una menopausa perenne. Non le odio. Ma prima un po' sì, le odiavo. Un po' tanto ma non perché fanno 213 Igiaba Scego, La strana notte di Vito Renica, leghista meridionale, op. cit.
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male, tutti le odiano per questo motivo. Mi fanno venire dei crampi assurdi al basso ventre e poi quelle emicranie che dal collo salgono su su fino alla punta più estrema del cranio […] Ma non era per il dolore che non le nominavo. Non per quello fisico, almeno.[...] Ogni volta che venivano, ogni volta che vedevo le mutande sporche mi rattristavo.[...] Quando le guardo sulle mie mutande vedo solo un punto di grigio.214
Al contrario di ciò che scrive Barbarulli215 nel suo saggio sulle scrittrici migranti, Zuhra ha ancora le mestruazioni, ma non può riconoscerne il colore, quel rosso grazie all'acquisizione del quale potrebbe ricompattare la sua identità femminile, facendone una protagonista del processo di riconquista della sua identità “negropolitana”; il suo itinerario all'interno di sé, si conclude insieme a quello delle altre donne-narratrici del romanzo, tutte sofferenti e tutte in viaggio verso la risoluzione del loro presente, tramite la guarigione da un passato che le ha rese sole, spezzate, in cerca della loro ricomposizione. Ognuna ha il suo percorso, la sua storia da narrare. Così Maryam, la madre di Zuhra, recuperando la tradizione orale africana, incide per la figlia su audiocassette la storia della loro madre Somalia e tutto l'orrore dell'occupazione italiana e della guerra civile da cui è scappata portandosi via la figlia. L'Argentina dei desaparecidos è raccontata da Miranda, madre di Mar, che soffre di un pesante senso di colpa per essere stata l'amante di un torturatore dell'Esma (il gruppo di torturatori che ha rapito e fatto scomparire anche il fratello Ernesto), e che sente su di sé il peso del privilegio della sua salvezza, in contrapposizione agli altri argentini che sono rimasti, ed hanno lottato. Mar è lesbica, negra ma italiana, ex compagna di una donna che si è suicidata, figlia di una madre bellissima (Miranda) in confronto alla quale si sente inadeguata. Figura realmente di soglia in questo romanzo sembra convogliare in sé tutto il peso delle sofferenze del mondo. E infine, il padre, Elias, a cui è affidata la narrazione della storia familiare in Somalia, è la figura che lega queste donne, essendo padre di Zuhra e Mar, sorelle che non si conoscono, ma che si incontreranno a Tunisi, in una famosa scuola di arabo classico, emblema delle loro origini. In questo vortice 214 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, op. cit., pp.16-17. 215 “Zuhra crescendo non riesce ad elaborare il trauma fisico e psichico che la fanno sentire ridotta ad un oggetto[...]Non ha infatti le mestruazioni.[...] Zuhra, che vorrebbe tanto vedere quel filo rosso “uscire dalle gambe, dalla figa”. In C. Barbarulli, op. cit., pp.124 125.
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narrativo, al di là delle vicende particolari, è interessante valutare come Scego faccia interagire non tanto i personaggi, quanto le loro storie fatte di identità frazionate e scisse: fatte di patrie da abbandonare, da imparare ad amare o da cui farsi accettare. L'interesse fondamentale per la nostra analisi risiede nella ricomposizione totale delle storie che viene emblematizzata dal ritorno della visione del rosso, del sangue mestruale di Zuhra che riunifica in sé la guarigione identitaria delle altre narratrici.
È rossa la sua stella. Un po' umida ma bella.[...] Una costellazione. Dentro la costellazione, la sua storia di donna. E dentro la sua storia quella di altre prima di lei e di altre dopo di lei. Le storie si intrecciano, a volte convergono. Spesso si cercano. Tutte unite da un colore e da un affetto.216
Il colore riacquistato è la riconquista dell'identità, la risoluzione della ricerca di sé, della cicatrizzazione di sofferenze lontane personali e collettive, ma anche la convergenza di tutte le ricerche. Ognuna tramite la ricostruzione della propria vicenda, cura le ferite e ricompatta, insieme alla propria identità, la storia che le appartiene e che la precede, come identità collettiva. Da un lato la Somalia, la diaspora, l'Argentina, salvate dall'oblio tramite il racconto e la preservazione della memoria storica; dall'altro, il razzismo e l'omosessualità come ferite ricomponibili nell'oggi, tramite l'apertura all'altro. Questo itinerario simmetrico connota fortemente la scrittura verso un indirizzo di genere che si mostra interesse costante nei testi di Scego. Il corpo, come abbiamo detto, è una componente fondamentale, anche come strumento di riconoscimento identitario, messo continuamente in discussione da una società ciecamente razzista, che vede nelle differenze, prima di tutto fisiche, un'arma di esclusione e allontanamento. Il colore della pelle si staglia, su tutto, come primo ostacolo di integrazione sociale.
Potevo anche dare nell'occhio, e con il colore di pelle che ho, di questi tempi 216 Igiaba Scego, op. cit., p.456.
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non conviene dare nell'occhio. Ci vuole niente ad essere scambiati per pericolosi sovversivi. Un attimo per diventare terrorista. Basta una barba, uno straccio addosso, un'idea in testa. Poi se sei nero sei sempre il primo sospettato, di tutto. Di vivere, forse.217
Scego racconta come nasce l'ossessione per il documento che certifica senza dubbi l'inclusione legale nel paese in cui si vive, o da cui si proviene quando viaggiamo all'estero, affidando questa compulsione identificativa al personaggio di Zuhra, in preda all'ansia e allo smarrimento, quando il colore della pelle sembra togliere legittimità a quel pezzo di carta che indica la sua cittadinanza italiana, la ragazza tenta un rafforzamento con tutto ciò che la possa connotare come tale:
Tiro fuori il mio passaporto bordò. Lo guardo. Zuhra Laamane. Io con il cognome di mia madre, anche se non si usa. Io, me medesima, in persona, in carne e ossa, tette, figa e tutto. Io, italiana. Io, italiana? Il solito dubbio che mi assale. Mi basterà solo il passaporto per dimostrarlo? E se mi portassi anche la patente? E la tessera del cineclub? Sì, mi porto anche quella. E la tessera dei punti del supermercato? E la tessera dell'Arci solidarietà? Quella della Biblioteca Nazionale? Sì tutte, me le porto tutte. E pure quella del benzinaro. Tutto fa brodo. In ognuna di queste dannate tessere c'è scritto il mio nome in stampatello, no? La mia residenza nella Città eterna, pure. Purtroppo non c'è scritto che sono italiana, ma dimostrano almeno che vivo qua. Rafforzano l'italianità del mio passaporto.218
Anche Scego, come Zuhra, ha dovuto affidare a documenti e tessere il suo riconoscimento di cittadina italiana e, nel caso che stiamo per riportare, anche la sua onestà, messa in dubbio per la appartenenza etnica. L'autrice spiega come questa vessazione privata abbia influito sulla volontà di veicolare un messaggio fortemente politico nei suoi racconti, che parli di un'identità decostruita, neutralizzata, negata dall'esterno:
Ero stanca e arrabbiata. Un controllore di autobus mi aveva trattato come una ladra solo perché non trovavo la tessera (tessera che trovai all'ultimo, evitandomi per fortuna la multa). Mi disse qualcosa come "voi negri siete tutti ladri". Una litigata che non vi dico. Tornai a casa triste e cominciai a scrivere. Quel racconto divenne Salsicce, ossia il racconto che mi ha portato tanta 217 Ivi, pp. 13-14. 218 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, op. cit., p. 39.
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fortuna facendomi vincere il premio per scrittori migranti Exs&tra 2003. In Salsicce il tema dell'identità è predominante. Lo sarà anche in altri racconti editi - come La strana notte di Vito Renica, leghista meridionale, pubblicato proprio ora sulla rivista El-ghibli - e inediti. In Salsicce parlo di un'identità multipla che viene messa in crisi dalla legge Bossi-Fini. Ne La strana notte di Vito Renica, leghista meridionale, rappresento un personaggio, un napoletano, che nega la sua identità e se ne costruisce un'altra, spinto dalla pressione politica, perché vuole essere un leghista. In Salsicce dico una cosa che ogni volta mi meraviglia: "Credo di essere una donna senza identità. O meglio con più identità. Chissà come saranno belle le mie impronte digitali! Impronte anonime, senza identità, neutre come la plastica."219
La ricerca di un'identità neutra, omologante, che permetta di confondersi con quella autoctona, pregiudica la possibilità di accettarsi come donne negre e provoca tentativi deleteri e dannosi di cambiare il carattere fisico più immediatamente identificativo, quale il colore della pelle. Nel raccontare il microcosmo della stazione Termini di Roma, il luogo di incontro dei somali, si possono comprare cibi e oggetti provenienti dalla Somalia, che regalano un'illusione di vicinanza, Scego confida disgustata che lì si trovano anche dei farmaci corrosivi, che “da quella Somalia” allontanano il più possibile.
Per esempio ci sono un mucchio di negozi che vendono creme per sbiancare la pelle. Quando vedo l'esposizione fantasiosa di questi veleni mi sale il sangue al cervello. Mi arrabbio da morire! Siamo belli come siamo, black is beauty.[...] Molta gente, soprattutto le donne, sogna di diventare come Posh Spice o come Beyoncé. Vogliono essere amate, coccolate. I media continuano a dir loro che con quei capelli ricci e i loro sederi poderosi non hanno chance di cavarsela in questa vita. Che nero non è bello, che anzi è brutto e mostruoso. Tutte fregnacce, ma molte ci credono.220
Scego non si ferma al colore della pelle, i caratteri identitari di un popolo, sono per la scrittrice una grande risorsa, un patrimonio, che non sempre è percepito come risorsa e valorizzato. Lei stessa dichiara, in quasi ogni intervista, di essere stata molto scontenta del suo aspetto fisico che la faceva giudicare, soprattutto nell'infanzia e nell'adolescenza, diversa da suoi coetanei, che la decifravano e la definivano altra, per l'impossibilità di fonderla e confonderla con ciò che ritenevano 219 Igiaba Scego, Iv Forum Internazionale sulla Letteratura Migrante, cit. 220 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., pp.103-104
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proprio e familiare. Scego afferma di essere riuscita ad accettare le sue peculiarità fisiche solo alla fine di un percorso che ha portato, come già detto, al rispetto, l'accettazione la valorizzazione del sé, ma che ha dovuto oltrepassare la frontiera del desiderio di sentirsi neutra, trasparente, inesistente. Così, se il suo naso perfetto, caratteristica tipica del popolo somalo, la “chiappa africana”, i capelli crespi, sono stati per molto tempo soltanto gli evidenziatori della sua differenza, e il divertimento di molti fra i suoi compagni che li utilizzavano per ferirla ed escluderla, alla fine di questo difficile percorso, è riuscita ad andare fiera di quel mondo dentro di lei.
A sedici anni la mia differenza mi pesava. La mia pelle, i miei capelli, la mia chiappa decisamente africana erano ostacoli. La mia differenza era un macigno. Avrei pagato per poter essere come gli altri, anonima. Non mi sono sognata mai bianca di pelle, quello mai, ma mi sognavo trasparente. Qualcosa che gli altri potessero percepire come neutro. Invece ero nera, con i capelli ricci, e di neutro avevo forse le unghie dei piedi. Spiccavo in mezzo a tutto quel bianco. Ero come una linea di evidenziatore tra linee ordinate tutte bianche. Spiccavo da morire e non nella maniera giusta. Non come avrei voluto. 221
Non è casuale che proprio un carattere fisico, ovvero i capelli, siano la peculiarità che Scego utilizza in Oltre Babilonia, per sancire l'inizio della resurrezione di Mar, grazie alla sorella Zuhra che le mostra quanto l'amore verso se stessi sia il primo motore dell'apertura per cambiare un mondo ostile, chiuso, cattivo, che va lentamente riconquistato. Nella digressione di Mar ci sono anche tutti i dubbi che hanno attanagliato Scego, la sofferenza della scissione vissuta ed insieme subita; la sensazione di inadeguatezza nel sentirsi un individuo a metà.
Io, Mar Ribero Martino, che senso ho? Sono frutto del Terzo mondo. Un padre negro, una madre figlia di terroni. Pigmentata da macchie di schiavitù e spoliazione. Sono terra di conquista. Terra da calpestare. Frutto ibrido senza colore. Senza collocazione. Una mezzosangue che non appartiene a nulla. Il mio sangue è contaminato. C'è troppo di altri in me. Niente si sposa in me. Natiche grosse. Naso piccolo. Capelli ispidi. Peli pubici strabordanti, di un colore bruno che non ha la dignità del nero. Occhi grandi. Bocca piccola. 221 Ivi, 138-139.
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Pelle marroncina. Collo lungo. Non mi capisco. Sembro uno scarabocchio. Vorrei essere bianca. Come Pati. Vorrei avere riflessi accecanti. Invece, dalla mia pelle trasuda fatica. Mezzosangue. Seminegra. Mi vergogno. Per i black non abbastanza scura. Per i white non abbastanza chiara. Parlo come Zuhra Laamane. Sono scorretta. [...] Lei mi vuole lavare i capelli, sai mamma? Perché abbayo, lo so, mi vuole bene. Oh, Zuhra, non lavarmi i capelli. Io mica sono come te. Tu sei nera, bella, luce di sole, orgogliosa di te. Io sono uno scarabocchio. Non lavarmi i capelli. Lasciami vivere la mia vita con questi spaghetti in testa. Lasciami vivere con questo odore di cute bruciata, di cranio bruciato.[…] Non raggiungerò mai il bianco che mi acceca. Non raggiungerò mai quel nero che non conosco. Mio padre, una foto, il negro a cui devo questo colore.[...] Mi avrebbe detto che nero è bello e ci avrei creduto.[...]non si deve avere paura delle parole. Nigger is beauty. Ma half- nigger? Seminegra? Semibianca? Semipallida? Seminiente?222
Il percorso collettivo affratella e unisce, a volte, sembra confessare Scego, c'è la necessità che qualcuno che ha già attraversato gli spazi dello stesso dolore o che lo sta attraversando nello stesso momento, si faccia portatore di confronto e di aiuto. Quello che l'autrice sembra aver assunto come compito e che definisce, in La mia casa è dove sono, riferendosi al disegno della mappa che ricostruisce Mogadiscio, fatto con il fratello, il cugino ed il nipote, un percorso collettivo che nella storia familiare non ha uguali223
Le mani di Zuhra erano energiche. Scuotevano i capelli come panni consumati da uno sporco inespugnabile. Zuhra Laamane non voleva essere vinta da quello sporco. E così scuoteva e scuoteva i capelli di Mar, li scuoteva e gli ridava vita. Li strofinava e quasi li creava224
Zuhra, con la sua forza ed il suo ottimismo, funge da ancora di salvezza. Lotta contro lo sporco simbolico rappresentato dal razzismo, dalla spinta coatta alla necessaria omologazione, dalla ghettizzazione dell'altro. Dando nuova vita ai capelli 222 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, op. cit., p.388. Anche nel seguente estratto si rileva la sensazione di spettacolarità del diverso e di ghettizzazione dell'alterità: “Posso toccarli?” […] Le mani violavano il suo cranio[...] Tutti affondavano in lei curiosità eurocentriche. La toccavano come se fosse una specie in via d'estinzione, un animale selvaggio della foresta. Era un'umana da zoo. Un esemplare, non una persona. Era stata fortunata a non nascere nell'Ottocento, perché allora esistevano davvero quelle fiere dell'umano, quegli zoo dove bestie feroci e abitanti delle colonie afro-asiatiche venivano dati in pasto ai curiosi e ai nullafacenti. […] Forse le avrebbero risparmiato le catene, ma sicuramente le avrebbero scoperto i seni, perché dopotutto lei era solo un animale, una cosa. Una meticcia che non valeva niente. Se fosse stata una donna della colonia, di quella Somalia del padre mai visto, i bianchi l'avrebbero usata come orifizio per dimenticare la noia e la nostalgia.” Ivi, pp. 392-393. 223 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., p. 12. 224 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, op. cit., p. 396.
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di Mar, Zuhra ricrea la sua identità, annientata dallo strumento occidentale, (Mar si piastra i capelli per dar loro una parvenza europeizzante), e ripristina la peculiarità fisica di Mar, dando nuova vita, metonimicamente, anche alla sua storia e al suo sé. Comparando i due romanzi principali di Scego, notiamo che il percorso iniziato con Oltre Babilonia, che anche strutturalmente sembra voler rappresentare il groviglio esistenziale dell'autrice ed il bisogno di far esplodere il suo percorso di riflessione, rifluisce, in un getto più composto ed intimo, in La mia casa è dove sono, così che i due romanzi si compenetrano vicendevolmente. Nella descrizione del nonno di Scego, che si trova nell'autobiografia, riecheggiano le domande di Mar, a cui l'autrice però sembra finalmente aver trovato risposta: le nostre radici, se non sono viste come vincoli, sono risorse inesauribili. Impossibile rivendicare, nel mondo moderno, una pretesa di incontaminazione.
Guardo ancora la foto di mio nonno. Il bianco della sua pelle mi ha posto questi interrogativi irrisolvibili. Il bianco di quella pelle metteva in crisi la costruzione che mi ero fatta della mia fiera identità africana. Nessuno è puro a questo mondo. Non siamo mai solo neri o solo bianchi. Siamo il frutto di un incontro o di uno scontro. Siamo crocevia, punti di passaggio, ponti. Siamo mobili.225
Siamo mobili, dunque, inutile predicare il contrario, anche se spesso, questa mobilità, in veste di migrazioni, contribuisce alle tragedie della nostra contemporaneità, alle morti di chi cerca nella terra che è ricordo del proprio passato, un futuro che dia pace e progettualità.
Era successa una tragedia. Un'imbarcazione era colata a picco. Una di quelle che solcano il Mar Mediterraneo in cerca di un approdo verso un futuro qualsiasi in terra d'Occidente. Chi prendeva quelle navi scappava da guerre, fame, carestia.[...] Invece nell'ottobre del 2003 una di quelle barche era colata a picco. Era stata sfortunata. [...] Al telegiornale non importava se quei corpi sarebbero stati seppelliti in grazia di Dio invece di marcire in pieno sole.[...] Ma noi non potevamo essere Ponzio Pilato. Noi dovevamo guardare in faccia il volto osceno di quella realtà che ci era toccata in sorte. Era piena di somali, quella carretta [...]. Quella nave di carta era piena di gente con il mio stesso naso, la mia stessa bocca, i miei stessi gomiti.[...] Perché loro sono morti e noi siamo vivi? […] Noi che non abbiamo mai chiesto nulla a quest'Italia che ci 225 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., p. 77.
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ha colonizzato, quel giorno abbiamo urlato un diritto.226
Il grido è la richiesta di funerali a carico dello Stato Italiano. Il momento di lutto nasconde, dietro le pieghe della sofferenza e del trauma, anche un moto fortemente identitario, nel riconoscersi popolo, stringendosi gli uni agli altri nel dolore. Questo snodo è veramente significativo: non solo il funerale è il luogo e il momento in cui il dolore può fluire liberamente e senza freni, ma è anche momento collettivo in cui riconoscersi come parte di qualcosa, di una comunità, di un destino. Questo funerale di migranti, chiesto a gran voce ed ottenuto dai dismatriati, dà loro la possibilità di riconoscersi come parte di un popolo che rivendica il diritto di ricevere dignità da chi quotidianamente li ignora e li subordina. Il momento di dolore collettivo come passaggio focale di un'acquisizione identitaria riconosciuta è ricorrente in Scego, come momento di rilevanza sia sociale che privata. Ma si affaccia un'altra importante considerazione: quegli esseri umani morti per scappare da una patria ormai distrutta, per raggiungerne un'altra che un'imposizione antica ha decretato essere, volenti o nolenti, la più vicina alla loro storia, avrebbero potuto risvegliare dall'assopimento di coscienza italiano. Nello sconvolgimento che segue all'acquisizione di un avvenimento inequivocabile e non silenziabile, che si fa contenuto storico, politico, sociale e umano, si sarebbe potuto innescare un processo tramite cui ripensarsi e ridefinirsi. Superfluo dire che non è successo. Attraversare frontiere, non solo fisiche, incrociarsi, scontrarsi, creare nuovi spazi che prendano vita dagli interstizi lasciati liberi dalle incrostazioni culturali: questa la speranza di Scego e del suo messaggio letterario e politico. La frontiera ci pare, in qualche modo, anche lo statuto ontologico di Scego: essa stessa è scissa e duplice, attraversa da una potenzialità con cui trasformare lo scontro in incontro. Ma l'attraversamento dell'altro, si scontra con un altro fattore identitario fortissimo che è la lingua, ultimo dei tre cardini su cui abbiamo visto ruotare la scrittura di Scego. Quante lingue ci sono dentro ognuno di noi? Quante influenze ci attraversano e 226 Ivi, p. 96.
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che ci contaminano dalla nascita, frutto del nostro bagaglio culturale, della nostra appartenenza personale? Scego risponde facendo parlare l'argentina Miranda, in un colloquio a distanza con la figlia Mar, divisa tra le identità a cui non riesce a dare ordine e congruenza.
Noi parliamo la lingua della frontiera, quella degli attraversamenti continui. Quante lingue ci sono dentro di noi? Tu lo sai, figlia mia? Io lo intuisco, ma non so dire di quante lingue siamo fatte. In noi c'è di sicuro l'ancestrale lingua india, la lingua di Coatlalopeuh. Poi c'è la lingua della storia, lo spagnolo esportato col sangue e con l'inganno. Ma nella nostra bocca è cambiato, lo sento, si è ingentilito, si è innervato di noi. Non è più la lingua arrotolata dalle consonanti compatte dell'inizio del mondo. Diventa aria e stelle. Diventa sole e luna. Si fa carne. Si fa viva. Diventa altro, una lingua segreta [...]227
Anche Zuhra, nello stesso romanzo, affronta la scalata della riflessione sulla lingua della madre, e sua lingua madre, che divide le due donne per grado di competenza, unendole emotivamente. Zuhra riconosce il somalo come la lingua ancestrale che la riconduce alla sua essenza più profonda e pura, alla nascita, al prendere vita, inciampando però nella difficoltà di utilizzare al contempo un'altra lingua madre, che l'ha cresciuta e accompagnata nel confronto/scontro con il mondo.
Mamma mi parla nella nostra lingua madre. Un somalo nobile dove ogni vocale ha un senso. La nostra lingua madre. Spumosa, scostante, ardita.[...] Mi chiedo se la lingua madre di mia madre possa farmi da madre. Se nelle nostre bocche il somalo suoni uguale [...] non mi sembro all'altezza della mia Maryam Laamane. […] Incespico incerta nel mio alfabeto confuso.[...] Ogni suono di fatto è contaminato. Ma mi sforzo lo stesso di parlare quella lingua che ci unisce. In somalo ho trovato il conforto del suo utero, in somalo ho sentito le uniche ninnananne che mi ha cantato [...] Ma poi, ogni volta, in ogni discorso, parola, sospiro, fa capolino l'altra madre. Quella che ha allattato Dante, Boccaccio, De André e Alda Merini. L'italiano con cui sono cresciuta e che a tratti ho anche odiato, perché mi faceva sentire straniera.228
La diffrazione linguistica che appartiene anche a Scego e la caratterizza, ha radici lontane nel tempo, rintracciabili nella sua storia familiare. 227 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, op. cit., pp. 414-415. 228 Ivi, p. 443-444.
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Il nonno di Scego, ascaro durante il periodo coloniale e traduttore di Graziani, inaugura di fatto la dimensione di soglia che investe tutte le generazioni successive. Una scissione atavica: il nonno, a metà tra fascismo e resistenza, tanto da farle sognare una traduzione inneggiante alla rivolta; suo figlio, il padre di Igiaba, diviso tra le lotte indipendentistiche della Syl e il percorso di formazione italiana; Igiaba stessa, frammentata e unita dalla nascita dalla sovrapposizione di Somalia e Italia.
di nonno ho sempre sentito mille aneddoti.[...] ha imparato molto in fretta a parlare l'italiano. Non aveva fatto scuole o corsi, aveva semplicemente respirato l'aria intorno a lui. E questa parlava il bravano della terra natia, il somalo lingua franca e l'italiano dei padroni. […] Anche il nonno fu preso subito a lavorare dagli italiani. Ma il suo destino non erra quello di essere carne da cannone.[...] C'era scarsità di interpreti ed uno sveglio così era raro trovarlo. Fu messo subito a tradurre. [...] ad un certo punto della sua esistenza divenne uno degli interpreti del gerarca fascista Rodolfo Graziani.[...] 229 Il nonno è stato anche tra i promotori dell'Indipendenza e ministro del primo governo somalo.[...] Avviò i suoi figli verso la lotta contro quel colonialismo che lui era stato costretto a servire.[...] Era con il fascismo e contro il fascismo. Era dentro e fuori. Era vittima e carnefice. Mio nonno incarnava quello che Gloria Anzaldùa [...] chiamava herida abierta, ferita aperta. Anche nonno è stato una ferita aperte dove il terzo mondo si scontra con il primo e sanguina.230
Ma anche l'altro polo familiare, rappresentato dalla provenienza nomade della madre, ha significato per Scego uno sconvolgimento nell'accettazione della sua duplicità. La madre di Scego infatti non sa scrivere, la sua cultura nomade non prevede questa pratica, che invece risulta necessaria all'inclusione sociale nell'Italia 229 “Oggi sono in pochi a ricordarsi di Graziani, ma fu uno tra i più feroci uomini che il fascismo abbia mai avuto.[...]. Rodolfo Graziani aveva toccato per la prima volta il suolo d'Africa nel 1908, alla vigilia del primo conflitto mondiale [...]. Ma fu in Libia nel 1921, che Graziani si fece conoscere tristemente per la prima volta. La Libia era formalmente colonia italiana, ma la gran parte del territorio libico era nelle mani dei partigiani capeggiati da Omar al Mukhtar, un religioso senussita. Graziani fu senza pietà […].Tra le molte atrocità la più terribile furono i trasferimenti coatti nei lager. Donne, bambini, giovani, anziani venivano presi, brutalizzati, picchiati e veniva loro abbattuto il bestiame [...]. Anni dopo, nel 1936, la stessa cosa avvenne, anche se con modalità diverse, in Etiopia.[...]. Nella guerra per l'impero mussoliniano, Rodolfo Graziani, insieme a Badoglio, fece uso di armi chimiche severamente vietate dalla convenzione di Ginevra. Ma Graziani era uno che se ne fregava delle convenzioni e dei diritti umani. [...] Dopo un fallito attentato nei suoi confronti, per rappresaglia Rodolfo Graziani ordinò la distruzione di interi quartieri della capitale Addis Abeba. Fece uccidere chiunque capitava sotto tiro: donne, bambini, giovani, anziani.[...] Una delle stragi più efferate del dopo attentato fu [...] ai danni di religiosi: il massacro della comunità copta di Debra Libanos è ricordato ancora come uno dei peggiori in quei territori.” Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., pp. 78-79. Per L'eccidio di Debra Libanos vedi A. Del Boca, Debra Libanos: una soluzione finale, in Italiani, brava gente?, op. cit., pp. 213-232. 230 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., p. 84.
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moderna. La distanza dallo standard italiano di accettabilità sociale ha provocato nell'autrice un forte imbarazzo, soprattutto nella confessione di questa incompetenza materna, con i suoi coetanei. Questa differenza è stata causa di un'iniziale rifiuto da parte dell'autrice, della cultura materna e delle sue specificità, fra cui l'oralità. Successivamente, con il percorso di maturazione e di recupero,
il rifiuto è
scomparso e anzi, è stato sostituito dal rispetto per il tentativo della madre di non perdersi nello sradicamento, ed insieme dall'accettazione e dalla ricerca continua dei momenti che cementano un rapporto madre-figlia nella quotidianità (e che la incarnano, soprattutto nel periodo dell'infanzia), fatti di ninnananne, favole, sussurri, racconti, che nell'esperienza di casa Scego coincidono con il patrimonio orale dei nomadi somali della boscaglia.
Da piccola mi faceva soffrire anche un po', confesso. Non lo dicevo a nessuno, un po' me ne vergognavo. Mi chiedevo come mai questa donna intelligentissima, questa donna sempre informata, non sapesse scrivere. Nei nostri documenti i nomi somali sono stati ridotti, scambiati, omessi.[...] Io invece di Igiaba Alì Omar Scego, sono diventata Igiaba Scego.) [...] Ma con le migrazioni succede di perdere qualcosa di se stessi. Forse mia madre si è ostinata a non scrivere per non perdere la cultura dei nomadi, la sua cultura orale, che mi ha trasmesso.231
Ciò che sconvolge è il condizionamento integrale che viene dall'esterno, da un “fuori” con cui ogni migrante o seconda generazione spera di non doversi scontrare, essendo costretto spesso a violentare la propria essenza per piegarsi a dinamiche di esclusione tipiche della modernità. Scego confessa che il suo percorso di accettazione e rifiuto della lingua somala è stato fortemente condizionato dalla necessità prioritaria di essere inclusa nella società in cui stava crescendo: considerato il fatto che il carattere immediato del colore della pelle, non poteva essere modificato in nessun modo, l'unica possibilità rimaneva, per la bambina in cerca d'affetto, lavorare sulla lingua: farne vivere una, uccidendo l'altra.
Ero molto confusa da piccola. Ma era una bella confusione, saltellavo come un grillo da una lingua all'altra e mi divertivo come una matta a dire cose che il 231 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., pp. 68-69.
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droghiere non poteva capire.[...] poi è arrivata la scuola e ha cambiato tutto. Lì mi dicevano: Voi non parlate, fate i versi delle scimmie. Non si capisce nulla […] “Avevo constatato che la pelle nera non si poteva cancellare, quella me la dovevo tenere. Ma almeno sulla lingua potevo lavorarci. Avevo quattro o cinque anni. Non ero ancora una africana orgogliosa della sua pelle nera.[...] Quindi decisi di non parlare più il somalo. Volevo integrarmi a tutti i costi [...]. Non parlare la mia lingua madre divenne il mio modo bislacco di dire dire “amatemi”.232
Anche Maryam Laamane non sa scrivere. Per Zuhra, l'ascolto della madre che parla somalo, avvicinandola alla tradizione orale delle origini, è il catalizzatore di una rinascita continua del legame viscerale con l'Africa. Sua madre, parlando quella lingua dell'appartenenza, ma anche dell'estraneità in Italia, dà alla luce continuamente un legame originario, partorisce la madre linguistica simbolica. Così come la vera madre di Scego non impara a scrivere per non perdersi, tradendo la sua cultura dell'origine, Maryam oppone una resistenza alla lingua dell'imposizione di Barre, contestando l'inappropriatezza, per la rappresentazione delle sfumature caratteristiche e dell'anima della lingua somala, dei nuovi caratteri latini, scelti ed imposti.
Maryam Laamane non sa scrivere questo somalo in caratteri latini che Siad ha scippato ad altri. Lei scrive in osmania. Il somalo di mamma è orale, il suo somalo è fatto di storia, poesia, musica e canto. [...] Lo ha imparato da piccola negli incontri di resistenza culturale [...] Quei caratteri (che erano stati) scelti dai giovani somali della Lega per scrivere la loro lingua, per firmare con un alfabeto nuovo la nuova indipendenza. Maryam mi ha raccontato questa storia dell'osmania […] “Tutte queste lettere squadrate dei bianchi, per noi non vanno bene. I caratteri latini non sono adatti alla nostra ricchezza lessicale. La T con la sua durezza, la S con il suo sibilare serpentesco. Non ti puoi fidare di loro, di queste lettere. Non riporteranno mai quello che diciamo, pensiamo, conserviamo. Tradiscono. Sono straniere.” Quando parla, mia madre è sempre gravida. Partorisce l'altra madre, la sua lingua.”233
Scego è riuscita a portare a termine il recupero di sé. Ha intrapreso un viaggio difficile, spesso ostacolato dalla società avversa, che continua, nonostante sia una scrittrice e giornalista affermata a vedere in lei l'altro, lo straniero, il diverso. La conquista più difficile, probabilmente, non è tanto concludere il percorso interiore, 232 Ivi, p. 150. 233 Igiaba Scego, Oltre Babilonia, op. cit., pp. 444-445.
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lavorando sui dissidi multiformi che l'esperienza e il bagaglio culturale familiare depositano nel profondo di ognuno di noi, ma scontrarsi quotidianamente con una società sorda e cieca, che non è disposta ad aprirsi al confronto e, finalmente, crescere.
Ma fu solo quando tornai in Somalia che ricominciai ad usare la lingua di mia madre. [...] Ora posso dire di avere due lingue madri che mi amano in ugual misura. Grazie alla parola ora sono quella che sono.234
Lo sconforto che fluisce nei testi, per quanto riguarda il rapporto dell'Italia con il suo passato o la mancanza di interesse nella sua ricomposizione critica, volta ad una crescita morale della nazione, o la lentezza dei processi di incontro e riconoscimento dell'altro, è disarmante. L'unico auspicio è una ricomposizione di confine, di frontiera che lasci aperti gli spazi mentali, e non solo, al confronto. Un attraversamento, mentale e fisico di ciò che Bhabha definisce in-between space235, come unica possibilità di una rifondazione identitaria: un'occasione che dovremo saper cogliere.
Frontiera è una parola che mi mette a disagio. Porta un carico di morte che non posso ignorare. Ma so che devo partire da questo disagio per ricercare una opportunità. In un qualsiasi vocabolario ci diranno che la frontiera in geografia e nel diritto internazionale è la linea di confine tra due stati. Su wikipedia possiamo scoprire altre cose. Scopriamo per esempio che così è chiamato il bordo di una varietà in geometria, che c’è un film con questo titolo del 1982, che un gruppo punk hardcore valdostano ha scelto questo nome. Nonostante le definizioni il mio disagio rimane.236
C'è un bisogno di definizione, per andare incontro a questa difficoltà esistenziale, che si pone anche come momento di svolta nella ricomposizione identitaria che si volge al futuro con sguardo ottimista. 234 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., p. 156. 235 “Questi spazi intermedi (in-between space) costituiscono il terreno dell'elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo - che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell'atto stesso in cui si definisce l'idea di società.” H. Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, p. 12. 236 Igiaba Scego, Frontiera. Dolore e sangue nel confine di speranza, «L'Unità», 26 Luglio 2009.
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Sento che questa parola è fatta di dolore. Ci sono frontiere storiche, geografiche, psicologiche, economiche, culturali, politiche. Quelle linee dividono un noi da un loro, un loro da un altro loro, me da me, me da te. Sulle frontiere la gente perde la vita in guerre inspiegabili. Su quelle linee si creano muri invalicabili. Pensiamo al muro tra Israele e Palestina, al filo spinato tra Stati Uniti e Messico, ai barconi respinti nel nostro Mediterraneo. Frontiera fa rima con esclusione. Fa rima con paura. È una parola che crea nell’uomo e nella donna rabbia, frustrazione, depressione. Le parole mancano davanti ad una parola così carica di rancore. La frontiera ti obbliga a scegliere una parte, ti obbliga a separare e forse anche ad odiare. Sarebbe bello disinnescarla. Ma come? 237
Dunque, l'attraversamento della frontiera è un processo doloroso e di riconquista del sé che deve procedere dall'indagine intima sull'identità, per poi propagarsi all'esterno diventando veicolo di lotta ed affermazione come afferma Gloria Anzaldùa, scrittrice di culto per Scego, nel suo testo sulla frontiera:
Questa autrice sembra che ci dica: cominciate dal potere egemonico dei paesi ricchi, dai traffici di armi che usano i confini a loro piacimento, a quelli che si ingrassano con il crimine organizzato, cominciate dai gommoni affondati, dai corpi che per una speranza fanno viaggi sotto i camion perché in Afghanistan noi esportiamo «democrazia». E solo facendo così che la frontiera diventa un’altra cosa. Lei diceva che la frontiera è «il luogo o stato della coscienza dove tutti possiamo ascoltare e parlarci, dove le divisioni possono essere colmate, forse perfino sanate». È un luogo simbolo dove cominciare a riflettere su altri linguaggi, altre visioni, altri futuri. Per far questo Gloria Anzaldúa attraversa le lingue, passa dall’inglese allo spagnolo al nahuatl e allo spanglish con una tale naturalezza da lasciare disorientati. Usa otto lingue per dare lo stesso messaggio di una pace generata da un conflitto. Una concordia che lei definisce così: «Il confine tra Stati Uniti e Messico es una herida abierta dove il Terzo Mondo si scontra con il primo e sanguina. E prima che si formi una cicatrice, la ferita torna a sanguinare, e dal sangue di due mondi nasce un terzo paese - una cultura di confine.238
L'auspicio è quello di iniziare una decostruzione delle logiche di potere e di 237 “Gloria Anzaldúa nel suo libro (ormai culto negli Stati Uniti) Terre di confine/La Frontera prova a farlo. La frontiera andrebbe attraversata e riattraversata ci dice Gloria. Prima dentro noi stessi e poi fuori da noi. Lei si definiva scrittrice femminista, chicana, tejana, patlache (parola nahuatl per lesbica) di Rio Grande Valley, nel sud del Texas. Così metteva in connessione i suoi vari esseri. Il suo essere Messico e Stati Uniti insieme. Rio Grande Valley poi è un simbolo di duplicità, è il fiume che separa il Messico dal Texas, un paese abitato dai messicani molto prima dell’annessione agli Stati Uniti. Dicendo patlache poi fa coming out nella lingua antica degli aztechi. Decostruisce la Anzaldua e lo fa dai punti più dolorosi. È dalla spaccatura che si deve cominciare.” Ibidem. 238 Ibidem.
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dominio, non aver paura di contestare l'utilizzo di barriere difensive, come arma di esclusione fisica, ma anche umana ed intellettuale: solo lottando per la creazione e l'individuazione di spazi ibridi all'interno delle spaccature della contemporaneità, saremo in grado, se vorremo, di sfruttare la frontiera come occasione di crescita e miglioramento.
penso che in Italia la cultura di confine forse è l’unica speranza di salvezza che abbiamo, forse la frontiera ci eviterà l’inesorabile declino in cui ci siamo infilati. Si c’è dolore in questa parola Frontiera, ma dentro c’è anche una grande opportunità. Sapremo coglierla?239 [...]
Concludiamo lasciando la parola ancora, per l'ultima volta, all'autrice e al suo personale tentativo di “disinnescare la frontiera”. Nella conclusione de La mia casa è dove sono troviamo la definizione di cosa significhi per Scego essere italiana. Il groviglio si scioglie con difficoltà, fino a ricomporsi nell'insieme di un'alterità che nel momento in cui viene espressa con la massima consapevolezza ed orgoglio, si mostra irriducibilmente anche come identità:
Che significa essere italiano per me...[...] Sono italiana, ma anche no. Sono somala, ma anche no. Un crocevia. Uno svincolo./Un casino. Un mal di testa./Ero un animale in trappola./Un essere condannato all'angoscia perenne. Essere italiano per me...[...] Quei puntini ci avrebbero perseguitato per tutta la vita, [...] Io ho provato qui a raccontare brandelli della mia storia. Dei miei percorsi. Brandelli perché la memoria è selettiva. [...] Mi sono concentrata sui primi vent'anni della mia vita perché sono stati i vent'anni che hanno preparato il caos somalo […] Ma sono stati anche i vent'anni in cui l'Italia è cambiata come non mai. Da paese di emigranti a paese meta di immigrati, dalla tv chioccia alla tv commerciale, dalla politica all'antipolitica, dal posto fisso al precariato. Io sono il frutto di questi caos intrecciati. E la mia mappa è lo specchio di questi anni di cambiamenti. Non è una mappa coerente. È centro, ma anche periferia. È Roma, ma anche Mogadiscio. È Igiaba, ma siete anche voi.240
239 Ibidem. 240 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, op. cit., pp. 158-160.
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CAPITOLO 4 4.1 The eighth harmony: la danza di Sheitàn. Nel 2008 esce, per Einaudi, L'ottava vibrazione241 di Carlo Lucarelli. Lo scrittore, famoso per i numerosi e osannati noir, per le interessanti ricostruzioni dei Misteri d'Italia e della trasmissione televisiva Blunotte, chiama questo romanzo un “nuovo esordio”, definendolo un romanzo di ampio respiro, a sfondo storico, ambientato in Eritrea alla vigilia della disfatta di Adua. Interessante, in questa sede, è valutare in che modo e con quali scelte stilistiche e argomentative, L'ottava vibrazione si possa inserire nelle narrazioni post-coloniali analizzate nel nostro studio, e come sia possibile intravedere, tra le pagine di questo testo, le tematiche ricorrenti e parallele, che abbiamo definito nel percorso fatto fin qui. Il corposo romanzo è ambientato a Massaua, nel 1896, alla vigilia della battaglia di Adua; la vicenda ruota attorno ad una moltitudine di storie e personaggi, tra cui sono individuabili una serie di fili conduttori. La prima scena del romanzo vede protagonisti Vittorio Cappa, un funzionario coloniale, e Aicha, prostituta africana, impegnati in una scena di sesso. La relazione tra i due personaggi si riduce ad una sessualità morbosa, destinata ad interrompersi temporaneamente con l'arrivo di Cristina, moglie di un imprenditore italiano, in Africa per ucciderlo ed impedirgli di sperperare tutto il loro patrimonio nei dannosi investimenti coloniali. Vittorio si innamora di Cristina, o così crede, tanto da progettare insieme l'omicidio del marito Leo, delitto che invece Cristina compirà da sola, lasciando Vittorio e tornando in Italia. Aicha e Cristina sono la prima di una serie di dualismi di cui il romanzo sembra nutrirsi. Ahmed, è l'attendente omosessuale di Vittorio; insieme truffano l'esercito italiano contraffacendo i registri commerciali; l'amante di Ahmed è Gabrè, combattente indipendentista e spia del negus, unico personaggio che incarna le rivendicazioni eritree, che verrà scoperto e 241 C. Lucarelli, L'ottava vibrazione, Torino, Einaudi, 2008.
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ucciso dagli zaptiè dell'esercito italiano, mentre Ahmed, finirà nel campo di concentramento di Nocra, come collaborazionista e traditore. Poi ci sono le storie dei soldati. Il sergente Montesanto è volontario in prima linea ad Adua prendendo il posto del capitano Branciamore e di fatto salvandogli la vita. Il capitano in Africa ha trovato nuova vita e una madama Sabà, che non lascerà per tornare in Italia dalla sua famiglia. Montesanto, voce narrante della battaglia, muore ad Adua Il brigadiere dei carabinieri, Antonio Maria Serra è in cerca di un assassino di bambini, il maggiore Flaminio, che si rivela, in colonia come in Italia, un pazzo sanguinario. Molti indizi di questo noir inserito nel romanzo, portano a pensare Flaminio colpevole: per esempio il bambino che il maggiore fa acquistare al suo attendente Cicogna, da un criminale, il Greco, che il brigadiere Serra, insieme ad Isaias, uno zaptiè, catturerà e farà confessare. L'onere di uccidere il criminale che gestisce la zona di Massaua soprannominata “Meschinopoli”, toccherà ad Isaias242, in modo da non scalfire l'immagine di Serra, bravo ragazzo italiano, carabiniere integerrimo. La figlia dello zaptiè è la bellissima Asmareth, di cui il carabiniere Serra si innamora, ma con la quale non può coronare l'amore ricambiato, visto che sarà nel novero dei morti di Adua. La pista seguita da Serra, infatti, lo porterà a morire, mentre Flaminio, non solo sopravviverà alla battaglia, a differenza del suo attendente Cicogna, ma verrà premiato e promosso. C'è anche la storia dell'anarchico Pasolini, mandato in Africa per punire la sua sovversione, che dopo aver dichiarato, lungo tutto il corso del romanzo, la sua assoluta indisponibilità a combattere, si accorge, durante la battaglia, di dover sparare, per salvare sé ed i suoi compagni, e allora decide di farlo come individuo e non come soldato, spogliandosi di tutto e rimanendo completamente nudo, col solo fucile in braccio. Sparirà in una nuvola di fumo: uno dei numerosi morti della battaglia e di questo romanzo. 242“Mi chiamo Dante” “Dante? Davvero?” “No, così mi chiamano gli italiani. Io mi chiamo Isaias, ma per voi sono Dante.” “E perché?” “Questo Dante...io credevo che fosse un guerriero, e che mi chiamavano così perché ero un buon soldato. Poi invece ho scoperto che era un azmarìs, un cantastorie. Mi hanno chiamato così perché parlo bene la vostra lingua. Fate sempre cose inutili, voi italiani, disse Isaias, ma lo disse in tigrino, e così piano che Serra non se ne accorse nemmeno [...]” Ivi, p. 103.
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Così come moriranno, presumibilmente, gli anonimi soldati del romanzo: il veneto, il faentino, il toscano , il romano; non lo sappiamo, visto che dopo essere serviti a riportare le diffrazioni linguistiche dell'esercito italiano, sovrabbondanti nel testo, di loro non si fa menzione nella scena del ritorno alla base dei superstiti. Il personaggio che noi riteniamo centrale è, però, il soldato Pasquale Sciortino, unico che parla soltanto tramite i suoi pensieri; non interagisce con nessuno, mai, perché nessuno capisce il suo dialetto (è ciociaro), e perché viene continuamente dimenticato da tutti gli altri. L'unica comunicazione di Sciortino, empatica, emotiva, silenziosa, sarà quella con Sebeticca, contadina indigena, con cui il contadino ciociaro, deciderà di fondare una famiglia, rimanendo in Africa. Sulla loro nuova vita si chiude L'ottava vibrazione, opponendosi al rapporto solamente sessuale tra Vittorio e Aicha, con cui il romanzo era iniziato. Sciortino è un contadino, non un truffatore, e Sebeticca per lui non rappresenta la dimensione dell'erotismo selvaggio della donna africana, ma la sua nuova compagna, con cui condividere una famiglia, una casa, un pezzo di terra. A questo incontro empatico con l'altro, segue la poesia da cui è tratto il titolo, e di cui parleremo in seguito. I fili che intrecciano la trama complessa del romanzo sono, dunque, almeno sei. Per prima incontriamo la storia di Vittorio, Aicha e Cristina, da cui si dipana la storia di Cristina e Leo, e la più importante storia d'amore omosessuale di Ahmed e Gabrè. La storia del brigadiere Serra e del maggiore Flaminio intreccia quelle dello zaptiè Isais, dell'attendente Cicogna e del trafficante di “Meschinopoli” il Greco. La storia dell'anarchico Pasolini sembra invece un assolo. Poi ci sono le storie d'amore: quella del capitano Branciamore e di Sabà, e quella di Sciortino e Sebeticca che riteniamo, in qualche modo, solutrice del romanzo. In questa molteplicità di vicende, parallele, ma spesso non intrecciate tra loro, scegliamo di esaminare approfonditamente quei personaggi e quegli episodi funzionali al nostro studio sulla narrazione post-coloniale, sulla o della pelle dell'altro. Lo sfruttamento sessuale; la contrapposizione della sessualità africana a quella occidentale; il madamato; i loschi traffici dei coloni italiani, civili o militari; la 135
nuova speranza di imprenditoria in Africa; l'imperialismo straccione italiano; il potenziale mortifero dell'uomo, che non è regalo occulto dell'Africa, ma lì trova l'occasione di palesarsi in nome di un'ipotetica atmosfera selvaggia e primordiale: questi sono solo alcuni degli aspetti sfiorati nel traboccante romanzo di Lucarelli. I molti personaggi del romanzo sembrano incarnare ognuno una sfumatura del patrimonio letterario che racconta le possibili esperienze e i risvolti coloniali, collaborando al montaggio di questa “ripresa” coloniale. L'esercito italiano, descritto per lo più tramite lo strumento della specificità linguistica di ognuno dei suoi appartenenti, sembra, ad esempio, la definizione dell'incapacità comunicativa che porta spesso a negare o subordinare l'altro. Il maggiore Flaminio incarna la psicosi del Male, nella forma più odiosa del compiacimento dello sterminio; il carabiniere Serra, in incognito in Africa, sulle tracce di Flaminio, è forse un'allegoria dell'illusione coloniale, stigmatizzata nell'incompleta ricerca di risoluzione nell'altrove; la storia d'amore tra il capitano Branciamore, sposato in Italia, e Sabà, è metonimia della pratica diffusissima, e già trattata nei capitoli precedenti, del madamato; Aicha e Cristina sono le due facce della separazione tra la sessualità selvaggia e la freddezza europea. E poi c'è l'intenzione profonda del romanzo, quello che secondo noi è un personaggio geniale e fondamentale, il soldato Pasquale Sciortino, contadino ciociaro, che nessuno capisce, che nessuno ricorda e che, in Africa, incarnando la semplicitas umana, trova completa soddisfazione e risoluzione, nell'amore per la contadina negra Sebeticca. Sciortino rivela la sua purezza, la sua totale mancanza d'interesse verso i privilegi di cui potrebbe godere se sfruttasse la sua condizione di italiano conquistatore; ma a differenza delle mire degli altri protagonisti, in Sebeticca, Sciortino non vede né un giocattolo sessuale, né un'avventura esotica, in lei riconosce solo una contadina, uguale a quelle italiane, con cui costruire una famiglia e coltivare un pezzo di terra. Nella postfazione al testo, intitolata La fortuna degli scrittori243, Lucarelli spiega la formalizzazione del romanzo, suggerita da una domanda di un lettore durante un incontro con l'autore: 243 Ivi, pp. 453-456.
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[…] qualcuno mi ha chiesto cosa stavo scrivendo. Non stavo scrivendo nulla, in quel momento, e avrei potuto dire così, per adesso ancora niente, ma siccome mi sembrava che per uno scrittore stare senza scrivere, anche se temporaneamente, fosse una condizione innaturale, ho messo insieme uno sciame di suggestioni che mi ronzava in testa da un po' di tempo e ho detto: un romanzo storico ambientato in Eritrea attorno alla battaglia di Adua. Niente di più, perché davvero avevo soltanto qualche parola che mi risuonava nella mente, un po' di immagini ancora più sfocate delle fotografie in cui le avevo viste, e un mucchio di buone intenzioni, ma nient'altro, neanche un titolo.244
Il titolo sarà tratto dalla poesia del poeta etiope, Tsegaye Gabrè Medhin, HomeComing Son:[...]Questa è la terra dell'ottava vibrazione/ dell'arcobaleno: il Nero./ È il lato oscuro della luna, /portato alla luce./ Ultimo colpo di pennello nel dipinto di Dio245. Nell'“ottava armonia” di Medhin, c'è la blackness, il nero della pelle del suo popolo e il monito rivolto allo straniero, affinché rispetti della culla della civiltà. Nell'“ottava vibrazione” di Lucarelli, sembra apparire la dimensione misteriosa dell'animo umano: il “lato oscuro” che in terra africana pare trovare l'ambiente adatto per manifestarsi, è però vinto dalla figura di Sciortino, con cui si chiude il romanzo. A questo proposito, è utile valutare la figura diabolica con cui si apre e si chiude la storia di Vittorio, in un certo senso il doppio negativo di Sciortino. Una bambina che danza, indicata da Ahmed con il nome di Sheitàn, il diavolo: quest'essere malefico si presenta come simbologia contigua o sovrapponibile al presunto potenziale mortifero insito nella wilderness, con cui giustificare l'esplosione della darkness della civiltà, nelle prassi coloniali in terra africana:
Fuori, c'è una bambina che balla. Sporca scalza, con addosso una camiciola corta, di un colore indefinibile, i capelli raccolti in due codine crespe ai lati della testa. Tiene le braccia alzate e si muove incurante del ritmo che tre uomini, tre vecchi seminudi con un fez rosso sulla testa, le suonano attorno. [...] Sembrava che fossero lì da tanto tempo.[...] “Non la guardare signore, è pericolosa”, dice Ahmed. “Perché? È solo una bambina che balla.”[...] Quello è Sheitàn. È il diavolo. Ti ruba l'anima se lo guardi.” “A me sembra una bambina che balla.” [...] Si accorse che la bambina lo stava guardando. [...] “Tra poco 244 Ivi, p. 453. 245 Look where you walk unholy stranger/ This is the land of the eighth harmony/ In the rainbow: Black./ It is the dark side of the moon/ Broughtto lightThis is the canvas of God’s master stroke.
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arriva il piroscafo”, disse Ahmed “Il signor Cristoforo aspetta, dobbiamo fare la Magia.” Vittorio faticò ad allontanarsi dalla finestra, come se lasciare lo sguardo della bambina gli costasse uno sforzo fisico, da indolenzire i muscoli del collo. Ma forze era soltanto il caldo.246
Il mix di competenze, buone intenzioni e caoticità, che si riscontra nel romanzo di Lucarelli, trova un commento puntuale nel giudizio espresso da Nicola Labanca, storico e studioso del colonialismo, che vede nelle buone intenzioni di un certo tipo di narrativa, tra cui L'ottava vibrazione, un meccanismo che spesso risulta straniante, quando non propriamente inefficace:
Questi romanzi vogliono essere post-coloniali molto più di quanto essi davvero riescano a farlo. L'impegno e la professione di fede sono indubbi, il capovolgimento della figura dell'eroe e in alcuni casi del protagonista (da “bianco” ad “indigeno”) non è trascurabile. Ma se il superamento del razzismo e degli stereotipi del passato deve passare per una conoscenza accurata e un riconoscimento profondo delle specificità e delle differenze dell'Altro - senza per questo essenzializzarle e naturalizzarle- è evidente che questa letteratura non aiuta ancora molto.247
Concordiamo con Labanca quando afferma che un certo tipo di stereotipi, che abbiamo visto connotare le memorie sul colonialismo, e che sono presenti in altro modo in Flaiano o Emanuelli, utilizzati però per decostruirne la legittimità, siano rintracciabili anche nel romanzo di Lucarelli. Questi “prismi” attraverso cui sono state osservate e consolidate le ideologie colonialiste, legittimandone le prassi, si trovano ne L'ottava vibrazione, ma non sembrano concretizzarsi integralmente come strumenti distaccati di critica postcoloniale, né come elementi utili allo scardinamento di pregiudizi ormai sclerotizzati. Quello che in sostanza ci sembra uscire dal “nuovo esordio” dello scrittore è un insieme eterogeneo di storie, luoghi e personaggi, intrisi spesso di caratteristiche stereotipe, che comportano la riduzione dell'alto potenziale di questo esperimento letterario ambientato in Africa coloniale. 246 Ivi, pp. 6-7. 247 N. Labanca, Racconti d'oltremare. L'immagine della società nativa nella letteratura “postcoloniale” italiana., in «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale», XXIII, SettembreDicembre, 2010, p. 173.
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Un giorno ho visto una fotografia d'epoca coloniale che raffigurava insieme soldati italiani e abissini e mi sono accorto che dovevo tenere a freno il mio immaginario perché non li trasfigurasse e reinterpretasse istintivamente in Apache di Toro Seduto e giacche blu del 7º Cavalleria. [...] E allora mi sono chiesto perché rinunciare a tutto questo, ad un patrimonio di narrazione proiettato nel passato, nel futuro e anche in un presente da perforare con un carotaggio narrativo da pozzo petrolifero. […] (ad) Una narrativa di ampio respiro per raccontare e interpretare il mondo, con un linguaggio nuovo e concreto, come a suo tempo fecero gli scrittori del Grande Romanzo Americano per raccontare le contraddizioni e le trasformazioni del loro paese. Anche attraverso la storia, che per noi italiani non essendo mai passata è sempre attuale e presente (mi autocito anche io con falsa modestia con la mia Ottava Vibrazione).248
Dunque, l'avvertimento della propria memoria storica come patrimonio sconosciuto, spinge l'autore alla trattazione di fatti che si sono riversati sul presente, condizionandolo. Ne L'ottava vibrazione l'analisi ed il recupero del passato, volti ad una riflessione sul nostro presente, rimangono spesso scissi in moduli descrittivi che appartengono allo stesso immaginario coloniale che si tenta di ripensare. Va sottolineato che lo sforzo documentaristico dell'autore è palpabile, e che Lucarelli dissemina il testo di descrizioni minuziose degli usi e costumi dei popoli raccontati, degli equipaggiamenti dei due eserciti contrapposti, e anche delle tante specificità linguistiche che caratterizzavano una spaccatura interna sia alla popolazione coloniale italiana, che a quella indigena. Lucarelli dà, infatti, voce ai tanti personaggi con cui ha scelto di costellare il testo, riportando alla luce il plurilinguismo dell'esercito italiano, fatto di soldati estranei culturalmente l'uno all'altro, e fornendo elenchi di sinonimi che rappresentano la coabitazione di lingue e dialetti africani: questa conoscenza approfondita si formalizza in una catalogazione didascalica e, a volte, stancante, quando non in turpiloquio gratuito. Iniziamo a dare forma a questa analisi, citando due esempi che riguardano l'aspetto linguistico: solitamente usato come cardine identitario nelle scritture postcoloniali, qui ci pare che venga affrontato dallo scrittore soprattutto per dare
248 C. Lucarelli, Noi scrittori della nuova epica, in « La Repubblica»,3 Maggio 2008.
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rilevanza alla coralità del romanzo249. Scegliamo, tra le molte citazioni possibili, il linguaggio e lo stile del caporale Chilletta, esempio di meschinità umana e coloniale:
Che vi pensate che sia l'Africa, parate con la fanfara, - dice ve penzate, Afriga, co' la vanvara, […] “E le negrette? Che vi pensavate di scoparvi le negrette? Coglioni,-cojoni,- ve le siete viste su «Guerra d'Africa», disegnate, con le poppe di fuori, - de fori - la Venere nera, la Circe d'Africa […]. Madonna, Marò […] le donne qua o sono troie o sono cagne, - cane, - ma voi siete coglioni, - cojoni - e vi tocca scavare la latrina nuova per la merda degli ufficiali, coglioni, - cojoni – vuo ldire che ve lo prenderete un'altra volta lo scolo dalle negrette, coglioni, - cojoni.250
Questo monologo averebbe in sé il germe di un'analisi post-coloniale: per esempio sugli strumenti di propaganda dell'immagine stereotipa della disponibilità e della ferinità sessuale delle africane (che ne permetteva lo sfruttamento, tramite stupri o prostituzione), ma non si sviluppa in un discorso critico; l'autore sembra galleggiare su una superficie acquosa, senza dare corpo e consistenza alla riflessione. Anche quando cambiano i protagonisti, e Lucarelli passa all'immedesimazione con l'altro, il metodo è identico. Nella descrizione del plurilinguismo africano, Lucarelli si ferma ad una catalogazione che manca di approfondimento. Vediamo il tentativo di Ahmed - attendente dell'esercito italiano e amante di Gabrè, una spia del Negus - che affronta il disagio di definire la propria identità omosessuale, con l'ostacolo aggiuntivo dalla mancanza del vocabolo nella sua lingua madre:
In tigrino quella parola non c'è. Sì certo si dice rogùm, ma significa un'altra cosa, strano, strambo, anche maledetto.[...] In arabo quella parola c'è. [...] Ma'būn, pensa, poi scuote la testa, no, pensa, no, mormora [...] Non è ma'būn quella parola. Ma'būn significa depravato [...] Lui è lūtī, e lo mastica tra le labbra, allungando le vocali e spingendo forte quella t contro i denti stretti […]251 249 G. Stefani, Coloniali. Uomini italiani in Africa da Flaiano a Lucarelli,in «Zapruder. Storie in movimento» op. cit., p. 50. 250 Ivi, pp. 34-35. Questo è un esempio, ma c'è il romano, il faentino, il veneto e tutta la gamma dei dialetti italiani. 251 Ivi, pp. 176-177.
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Il focus viene immediatamente spostato su altri due personaggi, non prima che Cristoforo Del Re, cugino di Cristina e amico di Vittorio, offra la sua gamma di sinonimi regionali italiani per “omosessuale”. Ma la scena si chiude lì. Anche nell'episodio che precede l'uccisione di Gabrè, amante di Ahmed, la sovrapposizione linguistica, rimane fine a se stessa: questo limita il “carotaggio narrativo” e ci sorprende, considerando anche che Gabrè è l'unico personaggio a cui vengono affidate le rivendicazioni indipendentiste, e che il ragazzo ci pare invece connotato soltanto dalle sfumature della passione amorosa e dell'ingenuità politica, salvo poi farne quasi un martire, visti i rimandi alla croce e al sudario, nella descrizione della sua morte.
“Sei diverso anche tu” Gabrè si stese sulla schiena, le mani tra i capelli, sotto la testa. [...] “Una volta mi avresti guardato con vergogna, - hishma, in arabo ma con la s strisciata, alla scioana, hitshma. - Adesso mi guardi con desiderio – Raghva, alla scioana. “No. Con amore - . Hubb. [...] Sono un soldato, mormorò Gabrè, - voglio la libertà per la mia gente e una patria grande e forte, - qawi, con la q aspirata, ma perché sta piangendo, non perché è scioano. [...] “Aprite! Carabinieri!” […] “Occhio alla ragazza!” Grida il carabiniere, poi si accorge che Gabrè è un ragazzo, e allora sorride, dice: “Occhio al frocetto, “ ma Gabrè è scattato in avanti, è saltato giù dal letto […] La schiena nuda del ragazzo è là, tra le lenzuola bianche, il maresciallo spara e Gabrè allarga le braccia, come in croce, stacca anche i piedi da terra e vola in avanti […] Cade dentro un lenzuolo che lo avvolge come un sudario [...] Ahmed ha sentito lo sparo. “No!” grida, e lo ripete in tigrino252, in arabo e ancora in italiano: “'Mbì! Lā1 No!253
Ma L'ottava vibrazione è definito, come detto, soprattutto un romanzo corale in cui i molti personaggi, e le loro vicende, si alternano in un crescendo narrativo che porta alla catastrofe di Adua, figlia dell'innata approssimazione e della cialtroneria dell'esercito italiano; quello che stona con quest'intento è il continuo spezzettamento, che ci sembra frammentare anche le determinazioni di senso. 252 A proposito di questa denominazioni: “Le denominazioni e le caratterizzazioni delle popolazioni dell'Africa facevano parte della scrittura, non solo scientifico-antropologica ma più generalmente letteraria del tempo coloniale. Lucarelli, ad esempio, ripete le vecchie distinzioni coloniali fra abissini, tigrini ed etiopici, ed usa almeno in un'occasione il termine (dispregiativo) di galla.” N. Labanca, Racconti d'oltremare. L'immagine della società nativa nella letteratura “postcoloniale” italiana, in op. cit., p. 174. 253 C. Lucarelli, L'ottava vibrazione, op. cit, pp. 320-323. Ahmed verrà arrestato e trasferito a Nocra, campo di concentramento italiano. Per un approfondimento su Nocra vedi A. Del Boca, L'inferno di Nocra, in Italiani, brava gente?, op. cit., pp. 73-88.
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Vediamo invece un commento entusiastico sul testo:
L’Eritrea è colonia italiana da appena dieci anni, e nella città costiera si muovono soldati, spie, funzionari intrallazzoni, fattucchiere, puttane, uomini d'affari brianzoli, giornalisti embedded e – forse - un assassino di bambini. Diverse sottotrame scivolano l’una accanto all’altra senza mai intrecciarsi davvero, ciascuna va incontro al proprio climax (o intenzionale anticlimax), e molti dei personaggi del libro non arriveranno mai a conoscersi. Le vicende individuali hanno luogo in un tempo sospeso, stagnante, l’afa rallenta ogni movimento, ventole appese ai soffitti rimestano l’aria senza portare refrigerio ed è diffusa l’impressione che le cose «succedano sempre da un’altra parte»254
Questo è un estratto dalla recensione di Wu Ming 1, in un articolo che osanna Lucarelli non solo per l'ottima riuscita del romanzo, ma anche per la scelta, calzante secondo il recensore, dell'ambientazione storica nel passato coloniale, in funzione di una riflessione sulla contemporaneità, caratteristica che connota la generazione di scrittori che proprio Wu Ming 1 ha definito, entusiasticamente, “New Italian Epic”. Ciò che sorprende, però, è la scelta delle parole usate per l'encomio: Wu Ming 1 utilizza una terminologia stereotipa per congratularsi con il coraggio del nuovo esordio di Lucarelli; soprassiede, o peggio, si accomoda, sulle latenti255 risoluzioni “orientaliste” del romanzo, ambientato in un tempo sospeso, stagnante, in cui l'afa rallenta ogni movimento, trascurando il fatto che queste connotazioni fanno parte di un repertorio di luoghi comuni e di riferimenti mentali statici, ed appunto orientalisti, da cui una trattazione post-coloniale dovrebbe difendersi strenuamente. Operazione che si ripete, nello stesso articolo, nell'acclamazione della forza espressiva dello scrittore nella descrizione di scene erotiche, in cui vedremo all'opera lo stesso meccanismo descrittivo: […] il quinto e ultimo encomio va alla capacità - che non immaginavo in Lucarelli - di scrivere pagine di intenso erotismo, anzi, di molteplici erotismi. 256 Se tentiamo una cartografia del romanzo, tramite personaggi ed episodi, che rimarcano sottotesti e campi semantici “orientalisti” e retaggi degli stereotipi 254 Wu Ming 1, Lucarelli “ricomincia” dalla guerra in Eritrea, in «l'Unità», 1 Aprile 2008, ora in www.wumingfoundation.com/italiano/nandro_sezione.html 255 Per la connotazione della distinzione tra “orientalismo latente” ed “orientalismo manifesto” si veda E. Said, Orientalismo, op. cit. 256 Ibidem.
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coloniali, possiamo chiarire da cosa l'autore non ci sembra liberarsi. I primi due personaggi che esemplificano la nostra ipotesi, sono Aicha e Cristina. Un'opposizione si costituisce dalla dicotomia fra la femminilità africana, vista come erotismo primitivo e selvaggio e quella occidentale, considerata come sofisticazione e travestimento, mitografia tipicamente orientalista. L'argomentazione, quanto mai scivolosa, viste le implicazioni sessuali reali e metaforiche, della prassi coloniale, si risolve in un'immagine omogenea della donna: malefica, licenziosa, assassina e spregiudicata. L'autore sembra non fare distinzioni di cultura o di colore della pelle: afferma la prevalenza del “lato oscuro” nell'essere umano, in questo caso, nell'umanità di sesso femminile. Nella descrizione di Aicha, soprannominata amabilmente, la cagna nera, l'esplosione dell'erotismo è una costante descrittiva. La donna viene costantemente paragonata ad un animale e fotografata quasi sempre in momenti di erotismo vulcanico e ossessivo. Da non sottovalutare che questo personaggio viene rappresentato in un persistente mutismo, dal momento che nessuno capisce la sua lingua, se non per intravedere consenso nell'unica parola che pronuncia e che sembra significare sì, da cui le è stato dato il nome. Aicha, sì. Aicha è un essere senza capacità di pensiero, in grado solo di soddisfare le proprie e le altrui pulsioni emotive, descritta con atteggiamenti e aggettivazioni tipiche del campo semantico animale.
Aicha tolse il piede dalla cassa, gli voltò le spalle e si lasciò allacciare i fianchi con la futa, docile e silenziosa. [...] (Vittorio) si trovò con la schiena contro il muro della ghiacciaia, il culo nudo di Aicha premuto addosso, gli angoli della futa stretti in pugno come un paio di redini […] no, pensa, dai, no, ma lei aveva cominciato a muoversi, sfregando le natiche nere sulla tela bianca dei suoi calzoni [...] Ma poi pensa che lui è quello che è, e lei pure, e quella era Massaua [...]257
257 C. Lucarelli, op. cit., pp. 9-12. citazione presente anche in G. Stefani, Coloniali. Uomini italiani in Africa da Flaiano a Lucarelli, in «Zapruder, storie in movimento», op. cit., p. 52.
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Sarebbe criticamente ingenuo attribuire certi giudizi all'autore; quello che si tenta di mettere in luce in questa sede è la vicinanza delle descrizioni di questo tipo alle tipologie descrittive della letteratura coloniale e la sottolineatura della pericolosità, per chi si cimenta con la narrazione e con gli intenti di analisi post-coloniale, di utilizzo dei topoi narrativi attinti proprio dal patrimonio semantico in discussione. Il personaggio di Aicha, ricorda le parole di Said:
L'orientalismo stesso era una provincia esclusivamente maschile [...] esso vedeva se stesso e il proprio oggetto tramite lenti sessuali. Ciò è ben evidente negli scritti di viaggiatori e romanzieri: la donna è quasi sempre una creazione delle fantasie di predominio dell'uomo; esprime una illimitata sensualità, è più o meno stupida e, soprattutto, disponibile [...] Per di più la visione maschile del mondo [...] tende ad essere statica, congelata, eternamente immobile.258
Un altro esempio, si può trarre dalla descrizione di Aicha mentre pratica il rito del malocchio, secondo la tradizione tribale e familiare:
Quando arriva sulla spiaggia lontano dal centro abitato, si toglie la futa dai fianchi perché c'è un po' di luna e dalla caserma dei carabinieri, che non è lontana, potrebbero vedere la macchia chiara della stoffa. Invece così, nerissima e nuda, non la vede nessuno e i riflessi del sudore sulla sua pelle sembrano quelli della luna sul mare. Dentro la futa ha qualcosa. La tira fuori dalla stoffa e la lascia cadere dentro il buco che ha scavato nella sabbia. Ci butta dentro la monete, meglio ancora, e intanto sussurra qualcosa in una lingua che non è fullah, non è tigrino e non è kunama. Poi si accuccia sulla buca, come una cagna, e ci piscia dentro.259
Si potrebbe rifiutare la scelta di questa citazione, visto che si riferisce alla descrizione di un rito tribale, che giustamente non viene edulcorato, ma la scelta dell'accostamento al cane, che ricorda molto da vicino quello della donna/animale, già visto in Flaiano ed Emanuelli, rimanda alla brillante intuizione todoroviana sull'implicita legittimità dei soprusi quando all'altro non si attribuisce lo statuto ontologico di essere umano. Nel ruolo scelto per Aicha, e nelle parole a lei riservate nel corso di tutto il 258 E. Said, Orientalismo, op. cit., 255. 259 Ivi, p.80.
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romanzo, si insinua una concezione prettamente coloniale, orientalista e implicitamente razzista, che non essendo spinta verso la decostruzione aperta e manifesta, sembra ridursi a modello convenzionale e facilmente spendibile. La situazione svolta di poco nella descrizione del doppio di Aicha: Cristina. Le due donne si dividono non tanto l'amore, riservato all'italiana, ma i favori sessuali di Vittorio Cappa, commesso coloniale e truffatore, il quale si innamora della sofisticata Cristina, mentre ammette che Aicha è, e può soltanto essere, un giocattolo sessuale collettivo.260 Cristina rappresenta senza dubbio la freddezza, anche questa stereotipa, e la sofisticazione delle donne occidentali, rispetto alle africane; l'insistita descrizione degli indumenti, dei suoi ornamenti e delle sottovesti con cui cerca di difendersi dal sempre ribadito caldo schiacciante di Massaua261, ci mostrano una miscela letale di innocenza e malizia, che farà perdere la testa a Vittorio, e scatenerà le ire di Aicha, sempre nuda, all'opposto della rivale.
Dovette chiamarla per farla uscire dall'acqua. […] Vittorio alzò il mento in un cenno divertito, e solo allora Cristina si accorse che il cotone bianco della sottoveste le si era appiccicato alla pelle, trasparente d'acqua, e praticamente era nuda. “Oddio!” urlò, e gli corse tra le braccia per farsi coprire. “Piano, piano...non c'è nessuno.” “Ci siete voi! E c'è il ragazzo! Giuro che non immaginavo! Dio che vergogna...”262
Le due donne non si incontrano mai nel romanzo, ma Aicha, meno sprovveduta di come viene descritta, tenterà di uccidere Cristina, mettendole del veleno nella brocca d'acqua che tiene sul comodino. Colta dopo l'operazione d'avvelenamento:
Adesso è di nuovo sensazioni, niente parole, niente pensieri, neanche ricordi, come se quello che ha appena fatto, la pasta bianca, il bicchiere, la caraffa, non 260 Il possedimento collettivo di Aicha è problematizzato solo per le preoccupazioni destate in Cristoforo, cugino dell'angelica Cristina, dall'ipotesi di un possibile contagio sessuale che può infettarla avendo avuto in comune con Aicha, l'amante Vittorio Cappa. Da sottolineare anche che era stato proprio Cristoforo ad aver ideato, dopo aver fatto sesso con Aicha, lo pseudonimo di cagna nera. “ Ecco, infatti!” Del Re sbatté la mano aperta sul tavolo […]. “Cristo, Aicha! Chissà cosa gli ha attaccato, quella troia!” Ivi, p. 182. 261 “Crissi, tesoro, sei bagnata come un pulcino. I vestiti ti si asciugano subito, ma con tutta questa roba addosso per bollire come un uovo sodo. Devi cambiarti.” Ivi, p. 19. 262 Ivi, p. 150. La vergogna è del tutto fittizia e strumentale: l'episodio si conclude con un rapporto sessuale tra i due.
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l'avesse fatto mai. Soltanto i muscoli che si tendono sotto la pelle per non fare rumore mentre si muove sulla veranda, lenta, sinuosa, spingendosi avanti con le spalle nude. [...] Quando si muove così, Aicha non ha parole, non ha pensieri, come una iena o un gatto nero263
Sgattaiolando nel buio, sempre come un animale, perde sulla veranda della casa di Cristina il braccialetto di conchiglie, regalatole da uno dei suoi amanti; che diventerà per l'italiana un souvenir esotico da sfoggiare, e che porterà Vittorio ad una fastidiosa sovrapposizione mentale delle due donne:
“Toglilo.” “Perché?” Era di Aicha. Gli fa venire in mente lei, la cagna nera, l'ha cacciata a calci l'altro giorno, quando è tornata, le ha detto di non farsi vedere più e vuole dimenticarsela, soprattutto ora che sta per fare l'amore con Cristina. È anche per questo che ha deciso di uccidere Leo.264
Aicha, il nero, e Cristina il suo doppio occidentale; il bianco accecante, ipnotizzante, come l'aureola ornamentale di un angelo senza scrupoli:
Ma perché mi fa questo effetto, si chiese Vittorio, Cristina aveva tenuto l'ombrellino, anche sotto la tettoia e lo faceva girare tra le dita, appoggiato ad una spalla. Sembrava un disco bianco sospeso nell'aria, un'aureola candida che si confondeva con il riverbero del sole sui muri delle case, segnata appena dalle linee delle stecche.265
Lucarelli crea il personaggio di Cristina, anche per concettualizzare l'ubiquità del male, che non si trova nel cuore oscuro dell'Africa, ma nel lato oscuro dell'essere umano: Cristina, su mandato delle parenti anziane del marito Leo, preoccupate di preservare il patrimonio familiare che lui sta investendo incoscientemente in colonia, parte dall'Italia con l'intento di risolvere il problema, anche uccidendolo, se necessario. La giovane donna è l'incarnazione della freddezza e della premeditazione; l'immagine del crimine dissimulato e nascosto grazie ad una trasfigurazione positiva: le pennellate sul personaggio potrebbero suggerire un 263 Ivi, p. 235. 264 Ivi, p. 216. 265 Ivi, p. 97.
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discorso sull'impunità e l'assenza di scrupoli dei crimini coloniali italiani, che invece, rimane in superficie, dando solo un ritratto poco esaltante delle due facce della femminilità. Come già valutato per il tenente di Flaiano e per il commerciante di scimmie di Emanuelli, non è la wilderness a creare un potenziale mortifero prima inesistente: il luogo selvaggio con la sua presunta malefica misteriosità, permette esclusivamente di fare esplodere e di oggettivare, senza vincoli morali o legali, la darkness, cifra essenziale del colonialismo. Un'altra figura che incarna la darkness della civiltà è il maggiore Marco Antonio Flaminio, conte di San Martino. Questo graduato dell'esercito italiano, sempre in alta uniforme, esteticamente impeccabile nelle uscite in pubblico, e probabile assassino di bambini, è al centro di un'indagine non autorizzata, condotta in incognito dal brigadiere Serra. Anche questi due personaggi sono un'opposizione binaria. Pensa in francese il maggiore Flaminio. Lingua della madre, di maman, sempre nominata nei momenti di feticismo perverso ed agghiacciante, da cui dipendono gli orgasmi provocati dal pensiero o dalla vista del sangue. La notte dell'arrivo in Africa, delirante di febbre, il maggiore Flaminio:
Vedeva: il sangue, tutto quel sangue che gli brucia sulle mani, che gli spruzza in faccia a spruzzi densi e duri, e lo acceca, ma lui non riusciva neanche a tirare indietro la testa, aprì solo la gola in un urlo senza voce che gli uscì dalla bocca in un gorgoglio raschiato, sottile e acuto come il verso di un uccello. Vedeva: il sangue. Sentiva: il sangue. Sentì: l'erezione che si gonfia veloce sotto il lenzuolo già inzuppato di sudore scuro, pensò: mon Dieu, se lo sapesse maman.266
Lucarelli gioca con la trama del noir inserito nel romanzo, focalizza l'attenzione del lettore sulla plausibilità della colpevolezza di Flaminio, senza però darne certezza. La lotta a distanza del carabiniere Serra, arruolatosi in incognito in una compagnia volontaria, per seguire il suo sospettato, si risolve in una bolla di sapone, 266 Ivi, p. 48.
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data la morte dell'investigatore: il maggiore Flaminio si rivelerà un pazzo sanguinario, in Africa per soddisfare il suo bisogno di sangue, ma incapace, lì, di uccidere il bambino che aveva fatto comprare per questo scopo. Volto di un colonialismo che in Africa vedeva una possibile risoluzione ed uno sfogo per le problematiche interne, Serra non porta a termine la sua missione, morendo nella battaglia di Adua, all'apice della ricerca:
Serra guarda verso la collina e vede il suo maggiore ancora fermo sul cavallo. [...] Serra guarda verso la collina e pensa che non può finire così. Stringe l'impugnatura di corna di bufalo del guradè che ha ancora in mano e mormora: “No, così non finisce.” Allora comincia a correre [...] Non sente più niente. Il battito del suo cuore, il suo respiro che gli rimbomba nelle orecchie. No, non finisce così. No. Alle sue spalle un cavaliere galla [...] Colpisce Serra alla nuca con la punta della spada e gli strappa il maggiore dalla vista, perché la testa gli si gira su una spalla, di colpo, spezzandogli il collo.267
Nell'indagine, in realtà, si rivela un'essenza ben più importante e nascosta. Il maggiore Flaminio è un criminale: acquista un bambino, per capire se la sua uccisione potrà provocargli piacere. Il bambino in questione non si aggiungerà alla lista dei morti italiani, perché Flaminio realizzerà, in Africa, nell'altrove, che i suoi orgasmi sanguinari sono provocati non tanto dal gesto criminale dell'omicidio, ma solo dalla vista del sangue che scorre. Serra dunque, indagando sugli omicidi italiani,
ha
realmente
individuato
l'essenza
criminale
del
maggiore
e,
metonimicamente, la darkness della civiltà. Ma l'indagine è destinata nel romanzo a chiudersi con la sua morte: nessun investigatore, nessun delitto. Il lettore esita nell'attribuire fondamento all'indagine di Serra, anche se le prove si affacciano ad intermittenza.268 Quando Serra ed Isaias interrogano violentemente il Greco, lo schiavista, facendogli confessare di aver venduto il bambino al caporale Cicogna, attendente di Flaminio, il lettore crede di essere ad un passo dalla chiusura dell'indagine, ma per la prima volta l'investigatore vacilla. 267 Ivi, pp. 436-437. 268 “Conclusioni. I quattro infanticidi sono collegati tra loro, sono stati commessi da un assassino di bambini per il gusto di uccidere e questo assassino è il maggiore Flaminio Marco Antonio conte di San Martino. Richiedo l'autorizzazione ad approfondire le indagini. F.to Brig. Cc. Sera Antonio Maria.” Ivi, p. 317.
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Il Greco è un personaggio squallido, un trafficante di uomini, donne e bambini, ed
è
indicativamente
conosciuto
come
sindaco
di
Otumlo,
sobborgo
soprannominato “Meschinopoli”.
“Attento, adesso, voglio sapere un'altra cosa, ed è una cosa importante. Lo ha comprato per sé, quel bambino?” [...] Non c'era più niente da vendere. Il Greco lo sapeva. Se avesse avuto tempo avrebbe potuto portare avanti una trattativa anche sul nulla, ma quella era tutta sulla sua pelle [...] “No” disse il Greco. “Immagino che il bambino non era per lui, ma non so niente altro. Davvero” [...] Pensa, Serra. Pensa: cos'ho in mano.[...] Il bambino è simile in tutto a quelli uccisi in Toscana, e anche questo è un fatto. E il caporale che lo ha comprato è l'attendente del maggiore Flaminio, principale indiziato per quegli omicidi...Pensa: no. Pensa. Principale indiziato per lui, lui e basta.269
Serra sembra esitare per la prima volta; la volontà di incastrare Flaminio porta il brigadiere nella schiera dei colpevoli coloniali per l'uccisione, anche se per mano di Isaias, del Greco, che scardina l' immagine di carabiniere integerrimo.
C'è una pala. Serra chiama Dante.270 “Cos'è questa?” “È per dopo.” “Dopo cosa?” Dante indicò il Greco con un cenno della testa [...] “No, no...hai capito male. Noi lo interroghiamo, va bene, lo bastoniamo anche un po', va bene, ma poi basta. Noi non le facciamo certe cose. Siamo carabinieri.” [...] “Se lo lasciate andare lui va subito a vendervi al caporale...” “E se gli facciamo paura? Sono un carabiniere...” “No, siete un soldato. Lui lo ha capito e non ha paura. Non lo spaventate più. Il Greco. C'è solo una cosa che gli fa paura.” C'era una pistola nella fondina che Serra teneva attaccata alla cintura [...] “No.” “Io mi sono fidato di te. Tu mi hai detto che sei un carabiniere e che vuoi prendere un assassino di bambini.” [...] “Se adesso lasci andare il Greco la tua indagine finisce qui.[...]” Serra pensa: è vero. Lo sa da sempre, lo sa fino da quando ha visto la pala, ma non voleva ammetterlo. Forse lo sapeva anche da prima, quando Dante picchiava col bastone, o quando ha visto il Greco legato mani e piedi e lo ha lasciato così.271 [...] “io non faccio certe cose” disse Serra[...] “Io sì,” disse dante, e pensò anche: come al solito, mentre raccoglieva la pala.272
269 Ivi, p. 307. 270 Vedi qui nota 241. 271 “Fino a che punto pensa Serra, fino a che punto. E poi pensa a quel bambino di san Frediano [...] pensa a quello venduto dal Greco e se lo immagina uguale, stesso corpo sventrato e nudo, morbido come se fosse di gomma, soltanto più scuro. E poi pensa al maggiore Flaminio, e stringe i pugni e i denti, e siccome ne ha bisogno, pensa anche a tutti quegli stronzi figli di papà generale che fanno quello che vogliono e passano davanti a chiunque [...] e siccome gliene serve ancora, pensa anche al Greco, puttaniere schifoso, schiavista, mercante di bambini.” Ivi, p. 310. 272 Ivi, pp. 306-310.
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Immediatamente dopo questo omicidio, troviamo il capitolo sulla storia dell'indagine di Serra. L'autorizzazione a procedere era stata negata, non per mancanza di prove, ma per il rilievo sociale e politico dell'indagato, dunque siamo davanti alle dinamiche sporche del potere di ieri e di oggi, care a Lucarelli, e affidate alle recriminazioni di Serra, durante tutto romanzo, ma qui solcate in superficie, senza convinzione, come se l'autore disseminasse il testo di spunti interessanti, senza poi compierli del tutto.
Il fatto che il maggiore Flaminio sia un debosciato, un depravato e forse anche un invertito non basta a fare di lui un assassino di bambini. Questo in considerazione soprattutto del peso sociale e politico del soggetto, che come lo stesso brigadiere fa notare ripetutamente, ha notevolissime relazioni sia familiari che personali. Si consiglia anzi di riprendere il sottoposto per essersi spinto già troppo avanti [...] E poi a mano sotto la firma del colonnello: Fa strani discorsi questo brigadiere. Non sarà un sovversivo?273
La dicotomia tra la potenzialità criminale insita nell'essere umano, e la necessità di attribuzione della sua esplosione ad una terra straniera e a fattori esterni, è uno schema consolidato e riconoscibile anche nella storia di Flaminio, che crediamo essere davvero l'assassino cercato da Serra, che in Africa realizza un destino già scritto e definito in Italia. In colonia, Flaminio scopre che non sono gli omicidi e le sevizie sui bambini a farlo godere, ma che il suo destino di morte è ben più “glorioso”; la sua realizzazione sarà il sangue versato da un intero battaglione:
Doveva andare in Africa, doveva venire in colonia per capirlo. Doveva tenere un bambino tra le braccia e una baionetta in mano per capire che non era uccidere il suo destino. Non era sventrare, sgozzare, straziare, lui, con le sue mani, che gli dava piacere, ma la vista del sangue che scorre. Giovani, bianchi, vigorosi soldati che muoiono versando sangue. […] Doveva venire in Colonia, per capirlo. Doveva comandare un battaglione e mandarlo a morire.274
Il maggiore ci sembra la simbolizzazione della perversità del male, in questo caso delle guerre di aggressione; nella sua follia sanguinaria c'è la cifra di un colonialismo che si nutre dei crimini e delle devastazioni, che trova in questi la sua 273 Ivi, pp. 317- 318. 274 Ivi, p. 435.
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soddisfazione. Il maggiore si eccita pensando alle ferite, al sangue. Il suo incontro con la bambina che balla, Sheitàn, il diavolo, ritratta come presenza fissa intorno alle vite dei soldati, è fondamentale: è l'incontro tra due demoni. Dall'incontro con Sheitàn, nell'urlo disumano del maggiore si libera la potenza del male con la decisione dell'acquisto del bambino; si conclude per Flaminio, la terribile ricerca di sé. Il parallelismo con l'incontro di Vittorio con Sheitàn è immediato: per Vittorio l'incontro non significa risoluzione: l'omicidio progettato, sarà infatti compiuto senza il suo intervento; per il maggiore, invece, sfiorare il demone significa capire e realizzare il suo destino:
Un movimento dietro al graticcio che chiude la finestra. Chissà perché lo nota, è un movimento lontano, fuori nella strada, eppure lo avverte nella coda dell'occhio, si volta e lo vede [...] nient'altro che un movimento. C'è una bambina che balla. Il movimento, quel riflesso oltre il graticcio, era lei.[...] e quando il suo sguardo arriva alla finestra, lì si ferma, e punta dritto sull'occhio del maggiore. Flaminio fa un passo indietro [...] poi spalanca la bocca, afferrando l'aria con le mani, e spinge la lingua fuori per urlare ma non ci riesce, ghiacciato da un brivido di terrore che lo irrigidisce come se fosse in croce. Perché lo vede.[...] Un occhio rotondo, aperto, sgranato, fisso su di lui. L'urlo del maggiore fa perdere l'equilibrio al caporale che scende di colpo.[...] per un momento anche il caporale fa un passo indietro, perché davvero negli occhi del maggiore ci aveva visto la morte. [...]“Chiudi la porta!” con un ruggito che non aveva niente di umano […] 275
Questo personaggio paradossale, è la coordinata verso la disfatta di Adua visto che, chiamato a guidare uno dei battaglioni, rimarrà immobile, senza impartire ordini né ideare strategie difensive, per veder morire i suoi uomini, e goderne, perso nel vortice di un orgasmo (reale) sanguinario. La cronaca dello scontro di Adua, e della sua progressiva trasformazione da sconfitta in catastrofe è affidata alle reiterate affermazioni di sconcerto del sergente Montesanto, che è in prima linea sostituto volontario del capitano Branciamore, di cui poi parleremo. Nessun esercito occidentale è stato battuto dalle truppe africane. Nessuno, mai.
275 Ivi, pp. 172-173.
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“Serrare i ranghi!” grida il sergente “Prima fila in ginocchio!” urla Montesanto, e intanto pensa: nessun esercito indigeno è mai riuscito a battere un esercito europeo ben inquadrato, nessun esercito indigeno, mai.[...] “ Serrare le file!” grida “ spalla contro spalla! E coraggio, per la Madonna! Chi non ha paura di morire muore una volta sola!” tra poco saranno a tiro, pensa Montesanto, mentre una parte della sua testa ripete: nessun esercito indigeno, mai, ininterrottamente, come una preghiera. Le cannonate che raschiano il cielo vanno ad esplodere in mezzo agli abissini [...] ma quelli non si fermano, hanno già divorato il pendio, e adesso sono nella piana.276
Alla fine della battaglia, in mezzo ai corpi degli italiani e degli africani, il maggiore Flaminio, può sfogare la sua bramosia di sangue. Ne viene trovato cosparso, come se lui stesso si fosse dipinto il corpo col sangue degli uomini martoriati in quella carneficina; il simbolo del male, della cattiveria e cupidigia umana trova compimento e soddisfazione grazie agli uomini che ha deliberatamente mandato a morire: sembra un'allegoria coloniale, che perde le sue specificità particolari e nazionali, identificandosi nella criminalità compiaciuta di ogni colonialismo. Nell'ultima descrizione, il maggiore è colto nella sfumatura più grottesca:
[…] lui non ce l'ha più un corpo, è solo un insieme di terminazioni nervose che si sciolgono struggendosi in un orgasmo assoluto.[...] L'hanno trovato le penne nere del Cheren che girava tutto nudo tra le rocce, coperto di sangue, tanto che all'inizio pensavano che fosse ferito, e invece no, non era sangue suo. E ce ne aveva addosso tanto, quasi se lo fosse spalmato da solo sulla pelle, ma vabbè, era in stato di choc, poveretto. Però adesso si è ripreso.[...] gli daranno la medaglia d'oro e lo faranno colonnello, così invece di un battaglione, comanderà un reggimento.277
Lucarelli riflette sui meccanismi che impermeabilizzano l'assunzione di responsabilità: così procede la storia, spesso premiando chi si è macchiato di crimini orrendi, nascondendo la verità e perpetuando la spirale di orrore e delitto. Il soldato Pasquale Sciortino, invece, si è salvato dal massacro: come al solito, è stato dimenticato. Mandato di vedetta sull'altipiano, con un binocolo che non ha 276 “[...] Vede tigrini a torso nudo, il gabì avvolto attorno alla vita, scalzi, scioani dal camicione bianco, galla col corpetto di capra, beni amer dai capelli crespi alti sulla testa, etiopi che pestano la polvere con i sandali [...]. Portano scudi rotondi di pelle di rinoceronte e di ippopotamo, lance lunghe dalla punta larga, guradè ricurvi, affilati come rasoi, cartucciere a tracolla e tanti, tantissimi fucili.” Ivi pp., 426-430. 277 Ivi, pp. 434-442.
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neanche tirato neanche fuori dal tascapane, perché non sa cos'è, né come si usa, Sciortino incontra una contadina del luogo, a cui dà il nome di Sebeticca: è vedova ed ha un figlio che Sciortino chiama, teneramente, na cimmie. Quando finalmente i soldati si ricordano della sua esistenza, lo prelevano e lo accusano di diserzione.
Sciortino era nell'orto davanti alla capanna, a travasare altre piantine dal casco di sughero alla terra secca. Aveva scavato tanti buchi con la baionetta e li riempiva con l'acqua della borraccia e stava pensando a Sebeticca, alle sue sise appise, a dentr'e fore. Pensava che voleva farcela anche lui na cimmie con la sua donna. Chissà come sarebbe venuta, chissà di che colore. [...] Se ne accorse solo quando lo chiamarono e se li vide alle spalle, uno col fucile puntato el'altro con le catenelle. “Ma guarda com'è ridotto,” disse quello col fucile. Sporco, scalzo, i calzoni dell'uniforme tagliati al ginocchio. “Sembra un abissino,” disse quello con le catenelle.[...] “Si è sistemato bene questo macaco... guarda qua, c'è anche una capra. […] Sciortino si lasciò girare la catenella intorno ai polsi, e alla faccia che aveva poteva essere una capra, o un macaco per davvero, o una piantina di fava, senza pensieri e senza sentimenti. Ce li aveva invece, ma erano rimasti indietro, ingolfati tra la testa e il cuore, incastrati l'uno sull'altro, come le parole quando balbettava278.
Sciortino trascorre in cella l'intervallo di tempo che basta a richiamare tutte le truppe ad Adua e, nuovamente dimenticato, riesce a liberarsi e tornare da Sebeticca. La purezza di Sciortino è commovente. Non esiste l'altro per il soldato ciociaro, o forse è lui ad essere considerato altro dai suoi commilitoni, comunque sia, la questione dell'estraneità e dell'alterità non gli appartiene, e non sembra neanche preoccupato di riuscire ad approfittare della situazione traendone vantaggi: nella donna, Sciortino riconosce soltanto una bella contadina, che coltiva in modo sbagliato una piantina di fave sull'altipiano, alla quale può offrire il suo aiuto ed il suo amore. È l'eroe dell'ingenuità, capace soltanto di piccoli crimini necessari alla sopravvivenza, capace di sacrificare un proprio strumento di difesa, il casco, per coltivare una piantina interrata male da Sebeticca. Ma è soprattutto l'eroe dell'assenza di crudeltà, l'unico (poi vedremo Branciamore, ma con connotazioni differenti ed altri esiti), che nello sfacelo della distruzione e del saccheggio coloniale, riesce a creare e dare vita; non a caso, il 278 Ivi, pp. 389-390.
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romanzo si chiude, prima della citazione sull'“ottava vibrazione”, con il suo ritorno a casa, in quella che è diventata, senza nessuna difficoltà e senza necessità di ridiscussione identitaria, la sua nuova casa.
Tutte le volte che qualcuno lo fermava, Sciortino faceva quello che aveva sempre fatto, stava zitto (tanto nessuno lo capiva), con la testa bassa, finché gli altri non si stufavano, lasciavano perdere, e dopo pochi passi già lo avevano dimenticato. Lungo la strada aveva rubato quello che gli serviva, che stava tutto in un tascapane, rubato anche quello. C'era una borraccia d'acqua, un pezzo di formaggio ed un casco di sughero. Ma mica per lui, il casco. Per la piantina di fava che teneva davanti a casa (piandine, fave, e 'mbaccia a la cas', pensò Sciortino). Quell'altro gliel'avevano rotto i carabinieri, ma questo era molto più bello, perché era un casco da ufficiale, più morbido e di sughero più fine. Non vedeva l'ora di farglielo vedere, a Sebeticca.279
Forse Sciortino rappresenta quell'“ottava vibrazione” di cui parla il titolo, quella nota che risolve una scala e permette di sanare la sospensione creata dalle altre sette. Quest'ottava vibrazione è un'entità ancora potenziale, che è di là da venire, ma che con il suo apparire dà completezza al tutto, facendo combaciare origine e compimento; non a caso Sciortino rimane, anche in Africa, un contadino; non è in cerca di riscatto sociale, né di soldi o di potere. Forse davvero quest'incontro, quest'abbraccio gratuito con il meticciato, base di una parità tra i popoli, è la sfumatura che innalza il presente verso una speranza per il futuro. La scelta di non tornare in Italia, non solo permette a Sciortino di rimanere se stesso in ogni luogo, ma garantisce, nello stesso momento, la sottolineatura della sua statura superiore e della sua risoluzione: in mezzo a tante storie e personaggi irrisolti, che non trovano la loro compiutezza in Africa, Sciortino si distingue, e questo grazie alla sua essenza pura che non gli consente di vedere nel diverso un pericolo o un essere da subordinare, ma soltanto un suo simile, e soprattutto un suo pari. La stessa scelta di non ritorno in Italia, e di risoluzione africana, riguarda il capitano Branciamore che, al contrario di Sciortino, presenta un vuoto di coscienza: un lato oscuro che lo rende un eroe positivo a metà. 279 Ivi, p. 450.
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In Africa, il capitano si è rifatto una vita, con tanto di moglie, o meglio, madama, Sabà, e progettualità familiare. La sua storia d'amore è raccontata con molta tenerezza, sembrano una coppia innamorata e felice, l'unico dettaglio che tradisce la visione idilliaca d'insieme è, appunto, la considerazione, fulminea e subito rimossa, che Branciamore, come molti soldati italiani trasferiti Africa, in Italia ha un'altra moglie ed un'altra famiglia. Anche in questa circostanza, non si sviluppa una riflessione sulla problematica del madamato; tramite la sua sapienza narrativa, Lucarelli spinge il lettore a schierarsi con il soldato italiano; a gioire quando Montesanto gli risparmia la discesa in prima linea, e quando, finita la battaglia, può tornare sano e salvo da Sabà e da Amléset, la figlia che è sicuro di aver concepito prima della partenza.
“Porto il battaglione al fronte,” dice Branciamore. “Domani, adesso. Partiamo all'alba. […] “Perché?” grida Sabà. “ Perché? Perché proprio tu?” Branciamore le mette una mano sulle labbra, piano. “Perché me l'hanno ordinato. Ci vanno i miei soldati e ci devo andare anch'io” [...] “ Sono un militare, mica un commerciale.” “No! Tu non sei un soldato! Sei mio marito!” [...] Di nuovo si sente spaccare il cuore, e questa volta è il senso di colpa, di più, è dolore, perché stava per dire qualcosa che le avrebbe fatto più male di uno schiaffo, stava per dirle: no, non sono neanche tuo marito, perché lei è la sua madama e lui ce l'ha già una moglie, in Italia [...] Lui resta avvolto dal suo abbraccio […] E appena lei lo sente lo stringe per i fianchi con le gambe, gli si aggrappa come una scimmia, lo spinge dentro premendogli i talloni sulle natiche bianche da europeo, gli serra la nuca con le braccia nere [...] e (Branciamore) non riesce a dirle altro che faremo un figlio, amore mio, moglie mia, faremo un figlio, e se sarà femmina la chiameremo Amlesèt, che in tigrino significa Sono tornato. 280
Si intravede in questa descrizione, tratteggiata con la consueta insistenza sull'opposizione di bianco/nero, e con la sessualità animalizzata di Sabà, un'altra delle caratteristiche rappresentazioni, ancora troppo orientaliste, riscontrabili ne L'ottava vibrazione. Anche nel ritratto dell'indigena, ricorrono i dettagli descrittivi ricorrenti nella rappresentazione delle madame in colonia: Sabà si è occidentalizzata, è, anche visivamente, la perfetta compagna di un italiano. Può così diventare la consigliera nei percorsi formativi, verso l'europeizzazione, di altre donne che prenderanno la 280 Ivi, pp. 136-138.
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sua strada. Come Asmareth, che a lei chiede consigli per conquistare il brigadiere Serra. Suggerimenti che, oltre ad evidenziare la tendenza all'occidentalizzazione degli immaginari e dei comportamenti, si sostanziano nella loro inutilità, non solo perché il carabiniere sarà nel novero delle vittime di Adua, ma anche perché Serra prima della partenza è già innamorato di Asmareth ed ama in lei proprio la bellezza, l'esotismo (non insistiamo sull'orientalismo latente) e la specificità africana.
Sabà si alza e va a prendere una sedia come la sua. L'aveva indicata ad Asmareth, appena entrata in casa, ma lei si era seduta per terra, com'era abituata a fare. Si era tolta le ciabatte e si era accucciata su un fianco, le gambe raccolte di lato, sotto il vestito. Sabà le mette la sedia davanti, poi la prende per le spalle e la obbliga ad alzarsi, la tira su quasi di peso, perché Asmareth è sorpresa e non capisce. La fa sedere dritta, schiacciandole le spalle contro lo schienale. Poi prende le ciabatte, gliele getta per terra, davanti ed Asmareth ci infila dentro i piedi. […] Asmareth lancia un'occhiata alla fotografia e si vede così, bella come Sabà, dritta come Sabà, e sorride anche, come lei nella cornice. “Se vuoi essere una donna, devi essere come una donna,” dice Sabà “ Non come una bambina.”281
Il concetto di donna è diventato quello di una donna composta, non scalza, e rigorosamente dritta sulla sedia: una donna occidentale. Concordando con Giulietta Stefani, ribadiamo che non si tratta di attribuire a Lucarelli limitate capacità immaginative, né, tantomeno, la condivisione di stereotipi sulle donne africane, ma riflettere sull'opportunità di veicolarli, seppure in un lavoro di fiction, in modo così insistito e disinvolto, e soprattutto, senza introdurre elementi chiari di distanziamento e di critica.282 Elementi chiari di distanziamento e di critica, che invece Lucarelli inserisce nella parte conclusiva del romanzo, quando i pochi sopravvissuti alla catastrofe di Adua riflettono sulla memoria, da consegnare ai posteri, di quella che dovrebbe essere un'istruttiva, per quanto dolorosissima, esperienza bellica e umana. Il giornalista che aveva seguito le truppe in battaglia, dovendone registrare gli onori, si trova a dover pensare ad un articolo critico, che metta in discussione l'organizzazione cialtrona e approssimativa dell'esercito italiano: 281 Ivi, p. 345. 282 G. Stefani, Coloniali. Uomini italiani in Africa da Flaiano a Lucarelli, op. cit. p. 54.
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“Credevamo di imporci a quattro beduini da comprare con le perline e invece siamo andati a rompere i coglioni all'unica grande potenza africana, cristiana, imperialista e moderna. Anche i francobolli aveva fatto fare il negus.” [...] “ Ci siamo andati impreparati, mal comandati e indecisi e quel che è peggio senza soldi. Fidando nella nostra fortuna, nell'arte di arrangiarsi e nella nostra bella faccia. Lo abbiamo fatto per dare un deserto alle plebi diseredate del meridione, uno sfogo al Mal d'Africa dei sognatori, per la megalomania di un re e perché il presidente del Consiglio deve far dimenticare scandali bancari e agitazioni di piazza. Ma perché le facciamo sempre così, le cose, noi italiani?” [...] Il giornalista ha ricominciato a scrivere. Non l'articolo, quello lo ha già dimenticato, un'altra cosa. Un memoriale, un libro, esotismo, azione, avventura, sacrificio intrepido, ci sono tutti gli elementi giusti per vendere parecchio. Titolo: Gli eroi di Adua.283
Così sembrano aver trovato espressione molte delle memorie sul colonialismo italiano, esotismo, avventura ed eroismi spendibili. In questo brano troviamo la concretizzazione di uno sguardo al presente, che si nutre dell'indagine sul passato: un ritratto dell'Italia immobile e sempre uguale a se stessa che fa pensare che spesso non capiamo chi siamo, perché ignoriamo ciò che siamo stati. Come ben evidenziato dall'interessante studio di Giulio Leoni ed Andrea Tappi, questo meccanismo è stato perpetrato grazie ad un insieme propagandistico di stereotipi ripetuti ed alla correità della maggior parte dei manuali scolastici che, fino a tutti gli anni settanta, hanno sorvolato sui reali crimini del colonialismo, attribuendo all'impresa coloniale italiana poco spazio, e riportandola con: una specifica forma di reticenza che di fatto ha contribuito all'invenzione della tradizione altrettanto efficace di un colonialismo circondato da un'aura d'innocenza o quanto meno di minore impatto sulle popolazioni sottomesse. Il mancato dibattito sulla decolonizzazione, avviato invece in altri paesi, porta gli autori dei manuali nostrani a scivolare verso una dimensione meno eroica, per un verso mantenendo vivo il mito degli italiani brava gente, alacri lavoratori e vittime casomai di decisioni altrui, specie sotto Mussolini; per un altro, tacendone i misfatti.284 283 C. Lucarelli, op. cit., pp. 439-440. 284 G. Leoni, A. Tappi, Pagine perse. Il colonialismo nei manuali di storia dal dopoguerra a oggi, in «Zapruder. Storie in movimento.», op. cit., pp. 154-167.
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Lucarelli conosce, e qui riporta magistralmente, i processi di rimozione memoriale, propri del popolo italiano: affida al giornalista una capacità di critica abortita in nome di una maggiore spendibilità e di un miglior guadagno. Torna alla mente una delle lapidarie costatazioni di Aethiopia. Appunti per una canzonetta, in cui Flaiano profetizza l'abuso verbale che verrà fatto dell'esperienza coloniale, consegnata in forma di memoria falsa e costruita:
Quando la campagna sarà finita non pochi si precipiteranno a scrivere dei libri. Già immagino il contenuto e i titoli: “Fiamme nel Tigrai”, “Africa te teneo”, “Tricolore sull'Amba”! E i giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?285
Così si chiude il cerchio, tornando al punto da cui quest'analisi aveva preso le mosse. Così come l'impunità e la mancanza di riflessione responsabilizzante erano le cifre distintive della Campagna d'Etiopia, descritta tramite il tenente di Flaiano, così Lucarelli sembra riproporre le stesse dinamiche e mancanze nel colonialismo di prima generazione: altri uomini, altri capi, ma la stessa ipocrita prassi. Il testo di Lucarelli, in relazione alla nostra analisi sulla visione dell'altro nelle narrazioni post-coloniali, ha il merito di inserirsi nella riflessione, accendendo i riflettori su un passato sconosciuto ai più e su questa memoria non condivisa. Il nostro giudizio non può essere assiologico, né attribuire allo scrittore la condivisione dei luoghi comuni di cui ci siamo occupati e che affiorano ad intermittenza nel romanzo. Ci sembrano però molto efficaci e ben scelte le parole usate da Labanca nell'affermare che, in un certo tipo di romanzi, tra cui L'ottava vibrazione:
[…] un cammello e un paio di palme hanno sempre “fatto” Africa. Il punto è che essi ripetono vecchi orientalismi, logori stereotipi che per decenni sono stati funzionali al potere coloniale e alla razzializzazione dei rapporti tra italiani e africani nelle colonie. Non sono solo luoghi comuni: sono dispositivi narrativi connotati e dotati di un proprio motore e di una propria vita passata, che solo con superficialità potrebbero essere detti innocui. Non sono strumenti 285 E. Flaiano, in op. cit., p. 299.
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od ordigni inerti quanto piuttosto mine antipersona, capaci anche di rimanere ferme per decenni, ma pronte a esplodere con immutate conseguenze al minimo contatto. La loro presenza, quindi, quand'anche incidentale, qualifica questa letteratura come troppo poco o ancora non del tutto post-coloniale. Vi è in questo, forse, una lezione più generale non solo per la letteratura ma sia per la storiografia sia più ampiamente per la memoria italiana recente del passato coloniale nazionale.286
Rimane un altro rammarico che riguarda il personaggio di Sciortino, che pur nella sua unicità non ha il ruolo di protagonista né di voce narrante: non è, insomma, la coscienza in contrapposizione alla quale osservare e valutare le altre storie e gli altri personaggi. In questo romanzo, le uniche vicende a non perdersi nell'oblio dell'incompiutezza sono quella di Cristina, quella del capitano Branciamore e Sabà e, appunto, quella di Pasquale Sciortino. Anche il maggiore Flaminio torna in Italia premiato e promosso, ma questa ci pare un'allegoria della pervasività del Male e delle dinamiche del potere, sempre uguali a se stesse, e ben sintetizzate, sia pur con un accenno, grazie alla figura grottesca del giornalista. Dove cercare la concretizzazione dell'“ottava vibrazione”, quindi? Chi o cosa dirime l'insieme, come il do, “ottava nota”, che riproponendo la prima, risolve lo sviluppo della scala che altrimenti non si completerebbe? Cristina raggiunge il suo scopo in Africa: fermare il marito, uccidendolo; il suo comportamento spregiudicato fa di lei un personaggio completamente negativo: malvagio, oscuro, indifferente. Il capitano Branciamore è l'unico insieme a Sciortino, che sceglie volontariamente di rimanere in Africa, fondendosi con la diversità e l'altrove. É senza dubbio un'importante “scelta di campo”; Branciamore decide di non aggiungersi alla schiera degli italiani che hanno abbandonato in Africa le loro madame e i loro figli; questo non cancella comunque la presenza di una famiglia italiana che lo aspetterà invano. Sciortino, invece, senza opacità, rimane in Africa perché lì ha trovato la sua dimensione e la sua risoluzione, che sono identiche, probabilmente, a ciò che lo 286 N. Labanca, op. cit., p. 175.
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avrebbe atteso al suo ritorno in patria: è proprio l'incontro disinteressato con l'umanità altra, a decretare l'unicità di questo protagonista. Nel romanzo che sembra frenato dall'esigenza di far funzionare una struttura narrativa densa, complessa e a momenti caotica, Pasquale Sciortino, nella sua purezza e semplicità, dimostrata anche nel rapporto con l'altro, si fa inconsapevole portatore di sviluppo e di speranza anticoloniale. Realizzandosi, crediamo, nell'“ottava vibrazione”.
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CONCLUSIONI. In questo studio abbiamo tentato di valutare come la visione e lo sguardo sull'altro possano modificarsi e differenziarsi in base alle categorie di giudizio utilizzate per veicolare l' immagine dell'alterità. Emerge un continuo parallelismo metaforico tra la metodologia colonialista, conradianamente intesa come “rapina a mano armata” e le gerarchie di rapporti umani, imposti o subiti, che i testi mostrano lucidamente come agiti sulla pelle dell'altro . La sessualità, l'utilizzo del corpo, il linguaggio si impongono come strumenti di sopraffazione descritti e sfruttati nei testi per formalizzare la denuncia contro l'ideologia e la prassi coloniale, e che continuano a manifestarsi anche in epoca neo e post-coloniale, sia come pratiche che come trasposizioni letterarie. Non è casuale che la ragnatela di scambi e rapporti umani che il colonialismo ha fattualmente creato, rifluisca nei testi col racconto di rapporti tra i sessi, descrizioni di rapporti sessuali coercitivi, o veri e propri stupri, che rispecchiano la paradigmatica voracità sul “territorio” vergine, la mercificazione dell'altro e la folle cecità dell'impresa coloniale. In ogni testo analizzato, la specificazione più frequente di questa azione sulla pelle dell'altro, è l'abuso sessuale, anche se con connotazioni non esclusivamente di genere. Lo stupro come prassi, non è un trattamento riservato alle donne, come ci racconta uno dei numerosi episodi di Oltre Babilonia di Scego (in uno dei capitoli affidati alla narrazione del padre, a cui è affidata la ricostruzione dell'esperienza coloniale italiana in Somalia), in cui si narra la tragedia di identità irrimediabilmente spezzate attraverso la sottomissione sessuale: il negro viene privato della sua virilità, scardinando irrimediabilmente la sua identità sessuale, per l'affermazione della volontà di potenza del bianco. Anche quando lo strumento sessuale non si formalizza in vero e proprio stupro, come invece succede in Tempo di uccidere di Flaiano, ma come sfruttamento del privilegio coloniale, come in Settimana nera di Emanuelli, è evidente che il 161
rapporto con l'altro, nella narrativa post-coloniale, prenda forma nei testi per lo più come rapporto sessuale con l'altra: merce, perché priva di valore umano, e stigmatizzazione del rapporto padrone/servo. I testi, tramite i loro protagonisti solitamente ipocriti, meschini o senza nessuna percezione del reale, decostruiscono ironicamente la sostanziale plausibilità del concetto di superiorità occidentale, applicata alla capacità critica e all'esercizio della ragione. Questo cardine dell'ideologia colonialista e idea d'impianto del tentativo di bonifica dell'inconscio altrui (portare la luce laddove c'è solo oscurità e rischiarare con la superiorità della ragione, il buio intellettivo del popolo colonizzato), è messo sotto accusa nei testi, tramite i racconti dei crimini, delle inettitudini latenti o manifeste e delle storture etiche gratuite ed ingiustificabili, presenti in maggior misura, ma non esclusivamente nelle narrazioni sulla pelle dell'altro. Nei testi di Dell'Oro, in cui si prevedrebbe una memoria contrappuntistica ed alternativa, siamo in presenza di categorie di giudizio ancora troppo occidentali e di premesse di interazione basate su un rapporto che subordina gli africani agli italiani, depotenziando la sperimentazione di mimesi con l'altro. Nel caso di Scego, sulla cui produzione è incentrato il terzo capitolo sulla narrazione che racconta la pelle dell'altro, abbiamo evidenziato le ripercussioni di questa concettualizzazione tramite l'analisi di Scego dell'Italia contemporanea e delle condizioni di vita dei migranti o delle seconde generazioni, raccontate grazie alla storia che lega indissolubilmente Italia e Somalia, e che mette in luce una stasi formale e sostanziale nelle dinamiche dei rapporti con l'altro . Il conradiano sentore di putrefazione e morte che l'uomo bianco porta dentro di sé, perché essenza stessa delle sue ideologie e dei suoi metodi, si subodora spesso nei racconti e nelle narrazioni che abbiamo definito sulla pelle dell'altro: percepito ed ignorato, nel tentativo meschino e fallimentare dell'autoassoluzione, come in Tempo di uccidere; soglia d'illuminazione nel buio colonialista e limite non oltrepassabile, al di là del quale esiste solamente la pazzia o, come in Settimana nera, il suicidio risolutorio del dottor Contardi Ciò che in questo lavoro chiamiamo visione o sguardo sull'altro si oggettiva nei testi tramite una serie di atteggiamenti ricorrenti che si esplicano in tanti modi 162
quanti sono i protagonisti; per tentare uno sforzo organizzativo abbiamo scelto la tripartizione, che scandisce le tappe di un percorso fino all'ibridismo di Scego, in cui la categoria di altro è profondamente ridiscussa in nome di un auspicabile processo di incontro tra le due istanze culturali, quella italiana e quella somala, che coabitano nell'autrice, come esempio particolare di un auspicio universale. Quest'ibridazione, o mescidanza, si crede essere anche la cifra de L'ottava vibrazione, incarnata nella figura di Sciortino, come personaggio risolto pacificamente nell'incontro con l'altro, in mezzo ad una serie di vicende non concluse o irrisolte, che sembrano allegorie del colonialismo, anche se strutturate in modo incompleto. Questi due indirizzi comuni degli ultimi due autori analizzati, e più recenti, sembrano voler indirizzare la riflessione verso l'apertura all'altro, vista come necessità del contemporaneo. L'incontro con l'alterità dunque, come strategia di confronto in ciò che Édouard Glissant chiama caos-mondo, ovvero: lo choc, l'intreccio, le repulsioni, le attrazioni, le connivenze, le opposizioni, i conflitti fra le culture dei popoli, nella totalità-mondo contemporanea[...] si tratta di una mescolanza culturale, che non è semplicemente un melting-pot, attraverso cui la totalità-mondo è realizzata.287 I tre paradigmi della catalogazione, ci hanno permesso, oltre ad una ricerca delle varianti ideologiche nei testi, di rintracciare parallelismi tematici utili all'analisi e alla ricostruzione di una memoria collettiva dimenticata. Il velo che si squarcia rivelando l'orrore è un motivo conradiano che rifluisce sia in Tempo di uccidere che in Settimana nera, anche se in entrambi i testi, le vicende si chiudono sull'amara costatazione dell'impunità dei crimini coloniali, grazie anche alla possibilità di obliare i propri delitti o le proprie ipocrisie. Dopo una serie di comportamenti totalmente illegittimi, la presa di coscienza finale dei crimini commessi (siano essi legalmente perseguibili o meno) lampeggia come intuizione avvertita e subito rimossa, senza possibilità di redenzione. I due protagonisti rimangono come inebetiti: uno infastidito dal l'odore dolciastro della morte che lo avvolge e lo precede in ogni luogo come emanazione della sua colpa, l'altro stupefatto dalla consapevolezza fulminea e chiarificante di essere parte 287 E. Glissant, Poetica del diverso, Roma, Meltemi, 1998, p. 76.
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integrante dell'umanità mortifera, che non usa pistole, ma annienta il prossimo con crudeltà reiterata e sempre assolta. Per quanto riguarda invece il sottotesto della sessualità, alla donna africana viene tendenzialmente attribuita una sessualità selvaggia e ferina; una naturalità spesso in contrapposizione alla nobiltà del corrispettivo occidentale o, nel caso de L'ottava vibrazione, all'algida sofisticazione dell'identità e della sessualità della donna bianca. Le descrizioni fisiche delle donne africane presentano caratteri di naturale morbosità, nutrita dal presunto potere fascinatorio insito nell'animalità della donna nera: questa tipizzazione ha avuto nella realtà, come diretta conseguenza, la legittimizzazione dello sfruttamento sessuale della negra, che diventa un oggetto di sfogo: un momento ludico per l'uomo bianco che ne dispone senza rimorsi, nel periodo coloniale e nella contemporaneità, in Africa e in Italia. In riferimento alla strategia mal funzionante del romanzo di Lucarelli, l'esempio della vulcanica ed ossessiva sessualità di Aicha, la cagna nera, ci sembra indicativo. Anche Dell'Oro, per descrivere le sue “protagoniste” africane utilizza un patrimonio descrittivo che rimanda alla bellezza prettamente esotica e orientalizzante, nutrita di sinuosità e profonda dignità (spesso tramite la descrizione dell'incedere e della postura di queste donne), che partecipa alla consueta tipizzazione. Non è raro imbattersi nelle stucchevoli diatribe mentali dei personaggi maschili, veri antieroi letterari che invertono le caratteristiche di virilità e fermezza propagandate dal fascismo: un'ipocrita lotta interiore tra passione e ragione, dall'esito scontato, tra le animalesche pulsioni sessuali e le elucubrazioni sull'opportunità o meno del gesto che si sta per compiere (un omicidio, uno stupro, un madamato a termine), che verrà comunque compiuto, spesso accompagnata dall'affacciarsi intermittente del senso di colpa, subito represso dalla smania di soddisfazione In Settimana nera, oltre ai rapporti sessuali coatti a cui deve sottostare Regina, siamo in presenza di una serie di stupri psicologici sui sottoposti somali, (in Dell'Oro sono civilissimi rimproveri e licenziamenti della servitù eritrea), visti come 164
animali da soma, passibili di ogni nefandezza verbale o fisica, nel caso in cui non siano in grado di conformarsi al loro ruolo di schiavi; questa prassi rifluisce nei racconti contemporanei di Scego, in cui si entra in contatto con il razzismo odierno, che si nutre degli stessi luoghi comuni sull'inferiorità dell'altro: fisica, intellettuale, culturale. Il corpo, che abbiamo visto essere un altro sottotesto comune, con il suo potenziale vitale, sessuale e fascinatorio, è presente prepotentemente in ogni narrazione analizzata, differenziandosi categoricamente a seconda che sia strumento di sfruttamento o, all'inverso, di riappropriazione del sé, come nei testi di Scego. Si può affermare che i romanzi scelti sembrano indicare nell'analisi postcoloniale della memoria coloniale italiana e della sua violenza, una connotazione, anche se non esclusivamente, fortemente di genere. I protagonisti maschili del primo capitolo, agiscono subdolamente su donne che fanno le spese, fisiche, di un colonialismo stupratore. Nel primo capitolo Mariam viene uccisa e Regina, nonostante sia descritta nella sua enorme dignità, è costretta a subire la condizione di giocattolo sessuale. Sellass, protagonista nel secondo capitolo del nostro studio, è scelta perché molto bella, ma velocemente abbandonata, con due figli, come una merce senza valore. Le donne di Scego, di cui pullulano i suoi romanzi, sono vittime, in quanto donne e in quanto negre, della soddisfazione sessuale e del razzismo degli uomini bianchi. Le protagoniste africane di Lucarelli, Aicha e Sabà, sono una prostituta muta e una madama. In periodo di guerra o di “pace”, in Africa o in Europa, la violenza è spesso violenza sulla donna e quest'analisi attraversa la naturalezza con cui il paradigma dei colonialisti alla conquista di una terra vergine si confonde e si mutua con gli stupri sulle donne africane, o con la loro mercificazione a scopo sessuale. Prendiamo in prestito una riflessione di bell hooks: “il corpo delle nere era il terreno discorsivo, il campo da gioco dove razzismo e sessualità convergevano. Lo stupro come diritto e rito del gruppo maschile bianco dominante era la norma culturale. Lo stupro era anche una metafora adeguata della colonizzazione. La 165
sessualità ha sempre fornito metafore di genere alla colonizzazione.”288 L'utilizzo o sfruttamento del corpo, ma anche le sue potenzialità vitali e fisiologiche, sono temi irrinunciabili e frequentissimi nei testi analizzati e nella letteratura post-coloniale in genere, facendosi, soprattutto in Scego, veri e propri fili conduttori:
ad
esempio,
nella
contrapposizione
fra
l'importanza
della
consapevolezza del proprio corpo da un lato, e le orride mutilazioni genitali come veicolo di menomazione identitaria femminile, con cui si toglie alla donna la possibilità di affermazione del sé tramite la negazione del diritto, ad una sessualità integra e libera. Questo diritto naturale dell'essere umano viene rovesciato in Settimana nera, in cui l'integrità sessuale diventa merce di scambio e il salvataggio dalla mutilazione è l'alibi sotto cui celare lo sfruttamento sessuale delle bambine da parte del possidente italiano Farnenti. La necessità di un'identità completa, anche fisica, come presupposto di percorsi formativi sani, si riscontra in molti dei testi in questione, soprattutto in Dell'Oro, ne L'abbandono. Una storia eritrea, fino al romanzo edito più recentemente La mia casa è dove sono di Scego . In Asmara addio la questione identitaria è filtrata dall'esperienza autobiografica di un'alterità privilegiata, quella dell'autrice, e dall'assenza di disagi nell'essere cittadina italiana ad Asmara, convivendo senza integrazione, ma con tolleranza, con i nativi africani: il garbo con cui vengono descritti i rapporti paternalistici tra padrone e servo, non nasconde il loro senso intimo di prevaricazione. Ne L'Abbandono. Una storia eritrea, invece riscontriamo un suo più completo e profondo tentativo di immedesimazione con l'altro: Dell'Oro intende posizionarsi in una prospettiva esistenziale che le permetta una mimesi totale nella pelle dell'altro, scegliendo come protagonista del romanzo una donna eritrea abbandonata con due figli dal compagno italiano. Procedendo nella lettura e nell'analisi, l'operazione di Dell'Oro risulta molto interessante, anche se sperimentata tramite categorie ideologiche tipiche della donna occidentale, ancora inadeguate; queste scelte, per quanto dettate da un reale interesse per l'altro, sottolineano l'impossibilità di 288 bell hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale., Milano, Feltrinelli, 1998, p. 36-37.
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spogliarsi della propria pelle indossandone un'altra, da un lato, e, dall'altro, evidenziano l'esigenza di un processo d'interazione che rispetti le proprie ed altrui specificità. Il tentativo di Dell'Oro, raggiunge esiti migliori quando sceglie di utilizzare la dolorosa problematica del meticciato come metonimia di ogni ghettizzazione, questione che alla scrittrice, di origine ebraica, preme particolarmente. Dell'Oro riempie lo sguardo disgustato degli eritrei verso Sellass dell'esemplarità dell'odio per il bianco, ma suggerisce al contempo la necessità di una riflessione che travalichi i confini contingenti, rivolgendosi ad ogni tipo di razzismo e segregazione, come a certificare che nelle sofferenze derivate dai soprusi, dal razzismo e dall'esclusione sociale, non c'è distinzione, ma solo univocità. I meticci partoriti da Sellass appartengono alle due etnie e tuttavia sono ad entrambe estranei, perché privi di un'identità razziale completa e strutturata fin dalla nascita. La spinta di sguardi multipli evidenzia l'irrimediabile impossibilità di un'integrazione forzata e slegata dalla realtà in cui, necessariamente, l'identità di un popolo o di un individuo si costruisce principalmente sul senso di appartenenza: ad una terra, alle tradizioni, alla cultura, alla lingua. Dunque in Dell'Oro si intravede una speranza nella fusione di alterità, rappresentata dalla scelta di Marianna di guarire le ferite e ricostruire la propria identità in Italia, ma immediatamente bilanciata dal dubbio del fratellino Gianfranco che invece, nell'altro, quell'Italia che non lo accettava in Africa, vede solo un'estraneità. Comunque sembra delinearsi, per la prima volta una speranza possibilista verso l'abbraccio con l'altro. Interessante a questo proposito valutare che questa tematica, del tutto assente in Flaiano, inizia a manifestarsi, ma soltanto come negazione, nel suicidio di Contardi e si delinea, finalmente con contorni meno labili, in Dell'Oro, per poi esplodere in Scego e, in tonalità minore, in Lucarelli. Sembra dunque sostanziarsi un'attenzione all'altro che si manifesta in modo direttamente proporzionale all'incremento, nella contemporaneità, di un'urgenza di riflessione socio-culturale e politica, dovuta al ripresentarsi degli spettri di un passato dimenticato, sotto forma di migrazione, 167
richieste d'asilo o di rifugio politico. Nell'abbraccio disinteressato con l'altro, è riposta la speranza dei due autori più contemporanei: Lucarelli e Scego sembrano orientati verso un'apertura possibilista, che vede nel multiculturalismo un'occasione, forse l'unica, da non perdere. La lingua ed il linguaggio sono altri due perni su cui ruota la riflessione postcoloniale: considerato uno dei legami più forti che cementano un popolo, si manifestano nei testi come veicolo fondamentale di unione o lontananza. In Settimana nera abbiamo notato l'utilizzo di un apparato verbale imperativo; il verbo, sempre coniugato all'infinito nel rivolgersi agli africani, è utilizzato per ridurre la comunicazione al sottoinsieme elementare del dare ordini, e dunque diventa un'ulteriore strumento di dominio. La sottolineatura della possibilità di un'inferiorità anche linguistica è soltanto una delle mutilazioni possibili, fondata sull'esautorizzazione del patrimonio culturale del colonizzato, che nella contemporaneità abbiamo visto formalizzarsi, invece, nella sensazione straniante di un'alterità imposta tramite l'obbligo a viversi come l'altro, che si nutre anche dell'alienazione linguistica. Non a caso Scego in ogni testo e racconto, focalizza l'attenzione sulla pregnanza del linguaggio come affermazione identitaria da un lato come mancata padronanza di un linguaggio non completamente identitario ma necessario alla convivenza integrata, dall'altro come abdicazione coatta alla propria lingua nel piegarsi ad un'integrazione forzata. Nella sua riappropriazione della lingua somala, lingua della famiglia e della dimensione domestica, rigettata nell'infanzia come connotazione discriminante, c'è tutto il senso del percorso umano della scrittrice che impara a convivere con la sua identità multipla, affiancando alla sua prima lingua madre, una seconda, sempre madre, sempre radicalmente parte della sua essenza. La scrittrice ritiene che la riappropriazione della “sottomessa” lingua madre ed il raggiungimento della riconquista di sé, che passi necessariamente tramite la conoscenza delle proprie specificità umane e culturali, siano i primi cicatrizzanti per innescare processi d'incontro solidale – la scrittrice usa raramente la parola “integrazione” - ancora latenti nella realtà contemporanea. Allora ecco che l'aspetto linguistico diventa 168
fondamentale nei testi di Igiaba Scego: grazie all'antropomorfizzazione del linguaggio visto come madre, si determina una continua rinascita di senso, che vede proprio la lingua in prima linea verso l'affermazione d'identità, con la sua essenza vitale, pulsante, feconda, che può diventare, nell'accoglienza dell'altro e nella parziale analfabetizzazione del sé, il primo strumento di abbraccio tra diversità. La diffrazione linguistica costante ne L'ottava vibrazione risponde invece più all'esigenza di realismo della ricostituzione di una multiculturalità che non divide soltanto il colonizzatore dal colonizzato, ma anche i soldati dell'esercito italiano fra loro, come in una sordità reciproca, specchio dell'impermeabilità umana; la strategia narrativa però galleggia in superficie, non riuscendo ad approfondire la concettualizzazione dell'assenza di comunicazione tra diversità, problema chiave del post-colonialismo. Nel romanzo di Lucarelli, i personaggi si propongono come simboli strategici della gamma di esperienze e condizioni possibili in una dimensione coloniale: così il madamato si alterna ai traffici loschi dei soldati italiani; un'indagine su un omicida di bambini si arena con la morte del detective, diventando simbolo del vuoto su cui sembra concludersi l'esperienza coloniale; la disfatta di Adua è causata dalla volontà di soddisfazione della smania di sangue e violenza, tipiche del delirio bellico, incarnate nella figura del maggiore. Da questa miscela incongrua emerge il geniale personaggio del soldato Sciortino, di cui nessuno capisce la lingua e che viene sempre dimenticato ed abbandonato, che propone la comunanza tra gli umili, bianchi o negri che siano, colonizzati o colonizzatori, nell'anonimato e nel silenzio che unisce tutti gli ultimi, e che, soprattutto, rimane se stesso in ogni luogo. Non il ruolo di “dominatore”, né l'esotica Africa possono determinare un'inversione identitaria, anzi, la purezza di Sciortino è l'ancoraggio per uno sguardo fiducioso sul nostro futuro. Come sembra affermare Scego, anche se con implicazioni completamente differenti, ne La mia casa è dove sono, riproponendo i motivi fondamentali di Oltre Babilonia, nell'attraversamento della frontiera, che è prima di tutto in noi, e soltanto dopo entità fisico-geografica, si può percepire un'opportunità da non sprecare, per iniziare un percorso che elimini i concetti di identità/alterità, verso un accoglimento 169
reciproco. Se Oltre Babilonia segna un itinerario alla riscoperta delle origini, indirizzato verso la necessità di restituire dignità all'altra dimensione di sé, in La mia casa è dove sono, le due facce sono sovrapposte e una rivela l'altra in filigrana. In una mappa virtuale che fonde Roma, sua città natale, a Mogadiscio, terra del cuore, Scego ricostruisce la storia della sua famiglia attraversando i legami storici che saldano le sue due patrie. La fusione delle mappe di due città, Mogadiscio e Roma, stigmatizza significanze pregnanti: non solo esistono mappe di Mogadiscio risalenti soltanto all'epoca fascista, ma non si può dimenticare che, la distruzione di Mogadiscio, ancora in corso, trova una parte delle sue origini proprio nell'occupazione italiana. Dunque, crediamo di poter affermare che il recupero della memoria, lo sfruttamento sessuale, le sfumature di genere delle prassi di dominio, il linguaggio come strumento includente/escludente, la tematica dell'accoglimento dell'altro, sono le argomentazioni fondamentali che fondano il ridotto corpus di narrazioni postcoloniali italiane. Vorremmo concludere con un'ultima considerazione sui testi di Scego. Chi, in nome dell'appartenenza ad un popolo che in passato ha subito le vessazioni dell'occupazione italiana, sua patria per cultura e cittadinanza, si aspettasse odio nelle sue parole, sarebbe costretto a ricredersi. Nei suoi testi si trova la denuncia dei crimini italiani, ma anche la dichiarazione d'amore per le due patrie, da lei duramente “riconquistate”, e la strenua convinzione della necessità del recupero della memoria su cui porre le basi per una riconciliazione, per la cicatrizzazione di ciò che, mutuando un pensiero di Gloria Anzaldùa, definisce herida abierta289. Qui consideriamo ferite aperte anche il tenente di Flaiano, il commerciante di Emanuelli, Carlo Cinzi, la segregazione meticcia in Dell'Oro e il maggiore Flaminio. Queste narrazioni evidenziano una comunanza di storia e destini, nel tentativo di mettere in luce e restituire alla memoria vicende che sono, consapevolmente o meno, parte integrante dell'identità italiana, nonostante i tentativi di obliarle e 289 G. Anzaldúa, Borderlands. La Frontera: The New Mestiza, San Francisco, Aunt Lute Books, 2007.
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nasconderle nei vuoti di coscienza e di riflessione critica sul passato. Nella continua “alterità” con cui deve confrontarsi dalla nascita, Scego intravede una possibilità di mappatura del sé che comprenda e rispetti ogni sfumatura, senza dover necessariamente abortire una parte per far vivere l'altra, e senza dover etichettare, con definizioni ingabbianti, il suo ruolo nella società. Proprio ciò per cui abbiamo ritenuto geniale il personaggio di Pasquale Sciortino. Il lieto fine di Oltre Babilonia, con la finale ricomposizione liberatoria di tutti i narratori-protagonisti, e l'identificazione di Scego con i suoi lettori, italiani e non, in La mia casa è dove sono, sembrano lasciar intravedere la speranza di una società che inizi a muoversi in direzione dell'intransigenza verso ogni forma di intolleranza razziale e culturale (e dell'utilizzo delle categorie di alterità fisica, intellettuale, culturale, criteri con cui ancora si divide l'umanità), riscontrabile anche nella scelta del titolo L'ottava vibrazione e del personaggio di Sciortino, sua incarnazione. Nell'Italia contemporanea, visto il diffuso disinteresse e la negligenza di riflessione su un passato coloniale che si riflette prepotentemente sul presente, nel manifestarsi irreversibile di migrazioni internazionali, e vista soprattutto l'urgenza di ridefinizione dei concetti di “frontiera”, “straniero”, “altro”, imposta dal delinearsi di una nuova forma di società, le ipotesi di Scego e Lucarelli ci sembrano un ancoraggio possibile ed auspicabile. Rubando un'intuizione ad Homi Bhabha:
Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale, è il bisogno di pensare al di là delle tradizioni relative a soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi invece su quei momenti o processi che si producono negli interstizi, nell'articolarsi di differenze culturali. Questi spazi “inter-medi” (in-between space) costituiscono il terreno per l'elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo – che danno il via a nuovi segni d'identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell'atto stesso in cui si definisce l'idea di società.290
La progressiva attenzione verso la problematica dell'incontro nell'in-between space, che abbiamo visto farsi spazio nei testi, proporzionalmente alla fenomenizzazione dell'emergenza politica e sociale, vede nella letteratura uno strumento di riflessione pregnante ed efficace per un'azione sul reale, un luogo in 290 H. Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, p 11.
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cui contestare e resistere, senza contrazioni idealistiche, e da cui muoversi per un attraversamento cosciente delle proprie ed altrui frontiere.
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