UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTÁ DI LETTERE E FILOSOFIA DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA
Tesi di laurea in Teoria della Letteratura LA LETTERATURA ITALIANA DELLA MIGRAZIONE: L’ESEMPIO DI ORNELA VORPSI.
CANDIDATO Sara CAMAIORA
RELATORE Chiar. ma Prof. ssa Enza BIAGINI
A. A. 2008-2009
Alla mia famiglia, grazie alla quale ho potuto raggiungere questo traguardo.
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INDICE
RINGRAZIAMENTI
p. 6
INTRODUZIONE
p. 7
1. LA LETTERATURA ITALIANA DELLA MIGRAZIONE: CENNI STORICI, FORME TEMATICHE
p. 9
1.1 Una ricognizione della cosiddetta fase “esotica”
p. 12
1.2 La fase cosiddetta “carsica”
p. 22
1.3 Verso una letteratura multiculturale?
p. 36
2. L’EDITORIA ITALIANA E GLI SCRITTORI MIGRANTI
p. 41
2.1 Le case editrici operanti nella cosiddetta fase “esotica”
p. 42
2.2 Le case editrici operanti nella cosiddetta fase “carsica”
p. 44
2.3 Verso un’editoria multiculturale?
p. 57
3. LA CRITICA SULLA LETTERATURA ITALIANA DELLA MIGRAZIONE
p. 61
3.1 La critica sulla letteratura italiana della migrazione
p.65
3.2 Le risorse digitali sulla letteratura della migrazione
p.82
4
4. L’ESEMPIO DI ORNELA VORPSI
p. 91
4.1 Il linguaggio e lo stile: una contaminazione italo-albanese p. 114 4.2 La scrittura “al femminile” di Ornela Vorpsi: ritratti di donne
p. 139
4.3 Raccontare lo spaesamento: la “scrittura migrante”
p. 156
INTERVISTA A ORNELA VORPSI
p. 183
BIBLIOGRAFIA
p. 189
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio, innanzitutto, Ornela Vorpsi per la sua gentilezza, per la disponibilità nell’incontrarmi e nel rispondere alle mie domande. Desidero, inoltre, esprimere i miei ringraziamenti alla Dott.ssa Anita Pinzi, per avermi inviato materiale prezioso ancora in via di pubblicazione, alla Sig. Emanuela Casavecchi, responsabile dell’ufficio stampa di Sinnos Editrice, alla Dott.ssa Roberta Sangiorgi, direttrice dell’associazione Eks&Tra, per avermi fornito utili informazioni rispettivamente sulla casa editrice e sul lavoro dell’associazione, alla Prof. ssa Brettoni e alla Prof. ssa Pellegrini per i suggerimenti e i contatti. Infine, un doveroso ringraziamento alla Prof.ssa Biagini, per aver seguito il mio lavoro con passione e professionalità.
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INTRODUZIONE
Il presente lavoro intende affrontare una tematica ancora relativamente nuova in ambito letterario, ossia la letteratura italiana scritta da autori stranieri, la cosiddetta “letteratura italiana della migrazione”. Ho pensato di partire da un punto di vista generale, inquadrando storicamente il fenomeno, delineandone l’evoluzione stilistica e tematica, il suo rapporto con l’editoria italiana e con la critica, accademica e non, per poi approdare all’analisi di un caso isolato e meritevole di attenzione, come quello di Ornela Vorpsi. L’obiettivo che mi sono posta è stato quello di mettere in evidenza la potenziale importanza di questi autori, di recente usciti allo scoperto, allo scopo di definire una linea di nuova letteratura italiana, ibrida, multiforme e multiculturale. Per quanto riguarda la parte generale, ho elaborato una sorta di compendio storico del fenomeno a cui ho fatto seguire un’analisi della vicenda editoriale ad esso legata, a mio avviso ricca di spunti interessanti per la particolarità delle iniziative intraprese ai fini della promozione di questi scrittori e successivamente una ricognizione del materiale critico, altrettanto degno di attenzione poiché variegato e composito sia in base al punto di vista con cui si sceglie di analizzare la suddetta produzione, sociologico per alcuni, letterario in senso stretto per altri, sia in base a provenienze dei critici o modalità di presentazione del materiale, su supporto cartaceo o digitale. L’esempio di Ornela Vorpsi rappresenta, invece, un caso emblematico di come questa scrittura si sia arricchita, col tempo, di svariati spunti tematici, lontani da un mero autobiografismo, pur con ampio spazio per le vicende personali, onnipresenti nella scrittura di chi emigra dalla propria patria. L’aver potuto confrontarmi direttamente con l’autrice, sia di persona che con uno scambio di mail, mi ha
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consentito di sviscerare al meglio quelli che, secondo me, sono gli aspetti più significativi, da un punto di vista tematico e stilistico, della sua produzione, come conferma l’intervista che ho posto a conclusione del lavoro. I risultati ottenuti dalla Vorpsi, a livello di resa narrativa e di trasfigurazione, inducono a riflettere su quanto questi recenti autori riusciranno a incidere sull’espressività letteraria nostrana: la loro variegata provenienza implica, infatti, una differente percezione della realtà che si traduce in una scrittura ricca di suggestioni insolite e contaminazioni, grazie alla quale si apriranno nuovi percorsi per la letteratura italiana.
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1. LA
LETTERATURA
MIGRAZIONE:
CENNI
ITALIANA
DELLA
STORICI,
FORME,
TEMATICHE.
Il crescente flusso migratorio che negli ultimi vent'anni ha interessato l'Italia, in ritardo rispetto agli altri paesi europei ma in maniera altrettanto massiccia, ha contribuito a rendere sempre più variegata e composita la nostra società. Nonostante la sostanziale diffidenza con cui sono stati accolti gli immigrati, infatti, molti di loro sono riusciti a far sentire la propria voce e a diffondere la loro cultura, attraverso svariate forme d'arte. In primo luogo, il mezzo letterario ha garantito una notevole possibilità d'espressione a chi voleva raccontare di sé stesso e della propria condizione. La nascita della cosiddetta “letteratura italiana della migrazione”, in riferimento alle opere di autori stranieri che hanno scelto di esprimersi nella lingua del paese ospitante, risale ai primi anni Novanta. In realtà, circoscrivere un fenomeno come questo non è da considerarsi semplice né tantomeno può apparire legittimo delimitarne nettamente i confini. Casi sporadici di testi in italiano da parte di autori non italofoni, infatti, erano già apparsi in passato, quando ancora il numero degli stranieri in Italia non era così elevato; è il caso, per esempio, dell'argentino Juan Rodolfo Wilcock, che, trasferitosi nel 1957 in Italia, affianca alla produzione in lingua spagnola, opere direttamente composte in italiano, o di Alice Oaxman, nata a New York da famiglia russa e da decenni nomade tra la sua città d'origine e Roma, di Giorgio Pressburger, o di Edith Bruck, entrambi di origine ebraica e di
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madrelingua ungherese. In questi casi, la venuta in Italia e la conseguente acquisizione a livello letterario dell'idioma italiano, sono legati a circostanze individuali, di carattere politico o familiare; mentre fattori ben diversi sono quelli che muovono gli autori italofoni degli ultimi anni, emigrati in massa nel nostro paese dalle zone più indigenti del pianeta, in cerca di migliori condizioni di vita. Anche sulla definizione del fenomeno i punti di vista sono molteplici. Alcuni studiosi parlano proprio di “letteratura dell'immigrazione”, sottolineando la provenienza esterna di questi scrittori e differenziandone la produzione da quella appartenente alla “letteratura dell'emigrazione”, cioè da quella degli italiani all'estero; si tratta, in realtà, di facce diverse della stessa medaglia, come ben esemplifica Jean-Jacques Marchand, col concetto di «dittico», comprendente «le opere scritte dagli emigrati italiani in tutto il mondo e le opere scritte da immigrati in Italia da tutto il mondo»1. C’è chi, invece, considerando una tale partizione riduttiva e ghettizzante, preferisce concentrarsi sull'elemento di novità e parlare più genericamente di «letteratura nascente» o «emergente», come Raffaele Taddeo autore di Letteratura nascente. Letteratura italiana della migrazione. Autori
e
poetiche.2,
oppure
utilizzare
espressioni
come
“letteratura
dell'ibridazione” o “letteratura della creolizzazione”, enfatizzando il carattere multiculturale di questa scrittura, come fa Graziella Parati, utilizzando
la
metafora del crocevia, implicita nel contesto letterario degli autori migranti: «l’italiano come lingua nella quale vengono espresse le testimonianze degli immigrati»,
scrive,
«occupa
il
centro
di
un
incrocio
e
diviene
contemporaneamente strumento di visibilità e oggetto di appropriazione»3. Nonostante ciò, Gnisci, in Lettere migranti, il suo ultimo saggio contenuto in Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione4, ribadisce l'idea di chiamare il fenomeno “lettere migranti”, e “scrittori migranti” coloro che ne fanno parte, 1
J. J. MARCHAND, E se il nuovo Planetario Italiano fosse un dittico? in AA.VV., Nuovo Planetario Italiano, a c. di A. GNISCI, Troina, Città aperta edizioni, 2006, pp. 463-472. 2 R. TADDEO, Letteratura nascente. Letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche, Milano, Raccolto Edizioni, 2006. 3 G. PARATI., Mediterranean crossroads: migration literature in Italy, 1999, Madison-London, Fairleigh Dickinson University Press/Associated University Press, p. 15. 4 A. GNISCI, Lettere migranti, in Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Roma, Meltemi, 2003.
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innanzitutto perché la letteratura, se connessa con la migrazione, «attività primordiale e trasumanante della nostra specie», acquista una dimensione più elevata, «basti pensare ai premi nobel degli ultimi anni: da Soynika a Gordimer, da Brodskij a Walcott fino all’ultimo Naipaul», afferma lo studioso; inoltre, egli avverte che «la migranza è una perdurabile […] condizione di transito dentro la quale scrivere acquista e dispensa del senso aggiunto», da qui, quindi, la proposta di definire scrittore migrante anche chi « se non scrive sulla migrazione, sa tutto questo e lo pone come poetica, come tema comune e come pietra di paragone e pietra d’inciampo dell’epoca in cui viviamo»5. Quanto all’arco cronologico da prendere in considerazione, è effettivamente a partire dagli ultimi anni del Novecento che alcuni testi scritti da immigrati inaugurano una stagione letteraria promettente e sempre più ricca di sfaccettature. Volendo tentare di storicizzare il fenomeno, per quanto sia lecito (considerando, come ho detto finora, che si tratta di una produzione letteraria e quindi per sua natura eterogenea e poco classificabile), vale forse la pena seguire la suddivisione temporale operata sempre da Gnisci nel suo libro La letteratura italiana della migrazione6, che appare come un primo approccio storico-critico all'argomento, anche se limitato ai primi anni Novanta. Allo stesso modo si può considerare utile il canone proposto da Ermanno Paccagnini7, nel volume XII della Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato; nella seconda parte, ulteriori suggerimenti bibliografici saranno reperiti dall'utilissimo Nuovo Planetario Italiano8, volume imprescindibile per chi si accosta all'argomento, e dalla «Banca Dati Basili», la banca dati sugli scrittori immigrati in lingua italiana9. Per quel che 5
Ivi, pp.176, 172, 178-179. A. GNISCI, La letteratura italiana della migrazione Roma, Lilith, 1998, ora in ID.,Creolizzare l'Europa: letteratura e migrazione, cit., pp. 73-129. 7 E. PACCAGNINI, La letteratura italiana e le culture minori, in La letteratura italiana fuori d’Italia Cap. V, Vol. XII, de Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato, Roma, Salerno, 2002, pp. 1019-1070. 8 AA. VV., Nuovo Planetario Italiano, a c. di A. GNISCI, Troina, Città Aperta Edizioni, 2006. 9 La Banca Dati Basili è disponibile sul sito www.disp.let.uniroma1.it/basili2001. Proprio dal bollettino di sintesi di Basili, eseguito da Maria Senette e aggiornato a fine 2008, ricaviamo che il numero totale degli scrittori migranti è trecentoventicinque, di cui centoquarantaquattro donne e centottantuno uomini. Le nazionalità rappresentate sono ottantatre e se il continente più prolifico è quello africano, che copre il 33% della totalità della produzione letteraria, seppur incalzato dall’Europa, con il 31%, la nazione in cui si registra il numero più alto di scrittori è l’Albania; per 6
11
concerne i primi tentativi di storicizzazione, possiamo utilizzare le definizioni di Gnisci, distinguendo nella letteratura della migrazione in Italia, una fase cosiddetta «esotica», concentrata sulle problematiche dell'immigrazione e, per la novità
dei
temi,
catalizzatrice
dell'interesse
dell'industria
culturale,
e,
successivamente, una fase «carsica», più variegata da un punto di vista letterario, ma meno attrattiva per il grande mercato editoriale, come analizzeremo nel capitolo successivo.
1.1
Una ricognizione della cosiddetta fase «esotica»
Il primo testo annoverabile nel filone della letteratura migrante, uscito alle stampe nel 1989, passa quasi inosservato; si tratta di una raccolta di poesie dal titolo Foglie vive calpestate. Riflessioni sotto il baobab10, scritta da Ndiock Ngana, detto Teodoro, originario del Camerun e appartenente all’etnia Baasa, uscito alle stampe nel 1989. Nel 1990, compaiono nelle librerie tre testi in italiano firmati, assieme, da un immigrato e da uno o più collaboratori autoctoni: Chiamatemi Ali di Mohamed Bouchane-Daniele Miccione-Carla De Girolamo11, Io venditore di elefanti della coppia Pap Khouma- Oreste Pivetta12, Immigrato firmato da Salah MethnaniMario Fortunato13.
quanto riguarda America e Asia, si parla di numeri inferiori, rispettivamente sessantaquattro e cinquantuno scrittori. 10 N. NGANA, Foglie vive calpestate. Riflessioni sotto il baobab, Roma, UCSEI, 1989. 11 M. BOUCHANE-D. MICCIONE-CARLA DE GIROLAMO, Chiamatemi Alì, Milano, Leonardo, 1990. 12 P. KHOUMA, O. PIVETTA, Io venditore di elefanti, Milano, Garzanti, 1990. 13 S. METHNANI, M. FORTUNATO, Immigrato, Napoli, Theoria, 1990.
12
A questi primi tre titoli seguono, nel biennio 1991-1992, Dove lo stato non c’è. Racconti italiani14del noto scrittore francofono Tahar Ben Jelloun, coadiuvato dal giornalista nonché suo traduttore in italiano Egi Volterrani e pubblicato per iniziativa dell’allora direttore de «Il Mattino», Pasquale Nonno, e La promessa di Hamadì, opera prima di Saidou Moussa Ba-Alessandro Micheletti15. Nel 1991 esce anche Pantanella. Un canto lungo la strada16, testo scritto in arabo dal tunisino Moshen Melliti e successivamente tradotto in italiano da Monica Ruocco, importante fonte storica sull'immigrazione maghrebina. Tutte queste opere rispondono principalmente alla necessità di comunicare direttamente con il pubblico italiano attraverso la scrittura, per poter testimoniare l’esperienza dell’immigrazione. Si tratta di testi editi in un breve lasso di tempo, nel triennio 1990-1992, scritti a quattro o sei mani, cioè frutto della collaborazione, seppur a diversi livelli, tra un autore straniero e un coautore italiano, e accomunati da un sostanziale autobiografismo, se si esclude il caso di Ben Jelloun, e dalle medesime tematiche di denuncia. La volontà di interagire con la cultura e la società italiana, utilizzando il mezzo letterario, come sostiene Paccagnini, crea «una scrittura che è una forma di riflessione ad alta voce, per essere almeno capiti, e, se possibile, accettati. Romanzi e racconti che dicono pertanto di discriminazioni e violenze, ma pure di solitudini e nostalgie: in un interna lotta tra delusioni e volontà d’integrazione»17. L’insorgere di una necessità comunicativa, si fa più forte proprio negli anni novanta, a seguito dell’assassinio del ventinovenne operaio sudafricano Jerry Essan Masslo, avvenuto il 24 agosto 1989 a Villa Literno in provincia di Caserta; l’episodio è preso convenzionalmente come evento-limite che, spiega Gnisci, «segna e determina l’emergenza di una scrittura/letteratura degli immigrati in
14
T. BEN JELLOUN, Dove lo stato non c’è. Racconti italiani, a c. di E. VOLTERRANI, Torino, Einaudi, 1991. 15 S. MOUSSA BA, A. MICHELETTI, La promessa di Hamadì, Milano, De Agostini, 1991. 16 M. MELLITI, M. RUOCCO, Pantanella. Un canto lungo la strada, Roma, Edizioni Lavoro, 1991. 17 E. PACCAGNINI, La letteratura italiana e le culture minori, cit., p. 1058.
13
Italia»18. Lo stesso Ben Jelloun dedica un racconto alla vicenda, intitolato proprio Villa Literno, nella raccolta Dove lo stato non c’è. Racconti italiani19; è forte l’esigenza, da parte degli scrittori migranti, di tematizzare l’insorgenza dell’intolleranza dei fatti di cronaca nei testi. E infatti ancora Gnisci scrive:
I libri che ho menzionato raccontano la vicenda drammatica e avventurosa -e dolorosa- della migrazione in Italia e dell’impatto con la nostra società. Essi mettono in evidenza il razzismo italiano, ancora apparentemente blando e poco manifesto, ma soprattutto la nostra egoistica indifferenza e sordità: 'gli italiani non sanno prestare ascolto' dice Methnani e Ben Jelloun conferma: 'In questo paese la gente non sa ascoltare. A tutti piace parlare, ma non rispondono mai alle domande che gli si fanno, perché dimenticano di stare a sentire'.20
L’intento di denuncia che guida queste prime opere fa sì che l’istanza letteraria risulti subordinata a questo obiettivo; per tale ragione, alcuni dei testi indicati si configurano essenzialmente come reportages giornalistici più che come testi narrativi. Immigrato di Methnani e Fortunato nasce proprio come un’inchiesta sull’immigrazione, successiva all’episodio di Villa Literno, affidata alla coppia dal settimanale «L’Espresso». Parti del testo erano già state pubblicate il primo aprile 1990, proprio dall' «Espresso», nella rubrica «Inchiesta»; nell'articolo è occultata la mediazione linguistica di Fortunato, poiché, suggerisce Remo Cacciatori in Tirature '91, «se l'affiancare sulla copertina del libro il nome dello scrittore italiano a quello del tunisino può valorizzare letterariamente la testimonianza
di
quest'ultimo,
una
simile
operazione
danneggerebbe
irreparabilmente la credibilità del suo reportage»21. L'opera di MethnaniFortunato, data alle stampe il primo settembre del 1990, è il primo vero “romanzo-verità” sull'universo dell'immigrazione, la trascrizione di un viaggio
18
A. GNISCI, La letteratura italiana della migrazione ora in Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, cit., p. 85. 19 T. BEN JELLOUN, Dove lo stato non c’è. Racconti italiani, a c. di E. VOLTERRANI, cit., pp. 17-38. 20 A. GNISCI, La letteratura italiana della migrazione, cit., pp. 86-87. 21 R. CACCIATORI, Il libro in nero. Storie di immigrati, in Tirature '91, Torino, Einaudi, 1991, p. 169.
14
realmente compiuto in un'Italia dai tanti volti, a volte razzista, a volte violenta, raramente tollerante. Salah è un giovane e promettente tunisino, laureato in lingue, che scappa da un paese senza prospettive per approdare in un altro in cui, in realtà, le speranze si trasformano assai presto in illusioni; il ragazzo si rende conto immediatamente di come la condizione di clandestino accomuni tutti gli immigrati, di qualsiasi estrazione sociale e livello culturale. Così infatti scrive:
Sono costretto a non vedermi più, in così poco tempo, come un giovane laureato all'estero. Non sono già più un ragazzo che vuole viaggiare e conoscere. No: di colpo, mi scopro a essere in tutto e per tutto un immigrato nordafricano, senza lavoro, senza casa, clandestino. Un individuo di ventisette anni venuto qui alla ricerca di qualcosa di confuso: il mito dell'Occidente, del benessere, di una specie di libertà. Tutte parole che già stanno incominciando a sfaldarsi nella mia testa.22
Chiamatemi Alì di Mohamed Bouchane è invece il diario realmente tenuto dal giovane marocchino durante il suo primo anno a Milano, dalla sua partenza da Rabat il 24 marzo 1989 fino al maggio del 1990, quando si concretizza la possibilità di trasformare le sue memorie in un libro grazie all'intervento di amici italiani. Quella di Mohamed è una storia di squallore, pregiudizi e umiliazioni ma anche di solidarietà, come quella che riceve da parte della sua insegnante d'italiano, Carla, che, con l'aiuto del marito Daniele, si prenderà cura della pubblicazione del suo diario:
Carla ha avuto un'idea: tempo fa le avevo parlato di questo diario, e ora mi dice che si potrebbe provare a farne un libro. Io non ci credo, non penso che qualcuno sia interessato alla mia storia. Però mi sento in preda a una strana inquietudine, sono emozionato e continuo a pensare ai miei appunti di ogni sera trasformati in un libro. Dico a Carla che potremmo provarci, anche se mi sento molto confuso. […] Da un mese invece pensavo di scrivere un resoconto del mio anno di vita italiana, da far leggere alle mie insegnanti il giorno dell'anniversario del mio arrivo a Milano.[...] Ma addirittura un libro, chi ci aveva mai pensato?23
22 23
S. METHNANI, Immigrato, a c. di M. FORTUNATO, cit., pp. 25-26. M. BOUCHANE, Chiamatemi Alì, a c. di C. DI GIROLAMO e D. MICCIONE, cit., p.171.
15
Anche Io, venditore di elefanti è la storia del tormentato pellegrinaggio di un africano attraverso la penisola, rielaborato da Oreste Pivetta a partire da una “fonte orale”:
Ho conosciuto così numerosi immigrati e tra questi Pap. […] Mi disse qualche cosa di sé, della manifestazione alla quale aveva partecipato poco prima, dei soliti problemi di casa e lavoro. La nostra conversazione cominciò a scorrere fluidamente: Pap a Dakar; il babbo, la mamma di Pap; Pap venditore in Costa d'Avorio; Pap che parla cinque lingue (wolof, francese, spagnolo, inglese e italiano) [...] Una storia cresceva a poco a poco, si sviluppava semplice, tra giorni tragici e giorni avventurosi con un elemento sorprendente: Pap non raccontava una vicenda soltanto triste, perchè l'Italia che descriveva non era solo indifferente o ingiusta o razzista, perchè i poliziotti o i carabinieri non erano solo dei persecutori, perchè in fondo si poteva sperare in qualche cosa di buono, dopo tante difficoltà, dopo aver lasciato il paese d'origine, il Senegal, che si era mostrato molto più spietato di quello in cui si era sbarcati.24
Il libro di Ben Jelloun Dove lo stato non c’è. Racconti italiani, pur essendo una raccolta di racconti d'invenzione, è frutto di un viaggio di ricerca e documentazione e rappresenta fondamentalmente un’indagine sul disagio e l’emarginazione dei lavoratori stranieri nel Sud Italia, esemplificati dal caso Masso e sulla palese assenza di controllo statale in alcune zone del territorio nazionale; i personaggi delle storie narrate «potrebbero assomigliare a persone viventi e che sono esistite. Come si dice: non sarebbe che una pura coincidenza»25. Sia nel caso di Immigrato che in Io, venditore di elefanti, la mediazione linguistica dei due autori autoctoni si realizza «a monte del testo, nel cui risultato finale appare un'unica voce narrante: quella dell'autore senegalese e del tunisino»26. In Chiamatemi Alì, la storia della collaborazione assume il valore di una dichiarazione di responsabilità nella scrittura:
24
P. KHOUMA, Io, venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano, a c. di O. PIVETTA, cit., p. 9. 25 T. BEN JELLOUN, Dove lo stato non c’è. Racconti italiani, cit. 26 R. CACCIATORI, Il libro in nero. Storie di immigrati, in Tirature '91, cit., p.167.
16
Vado a casa di Carla alle 10.30. C'è anche Daniele, che lavorerà con noi. Decidiamo di procedere con ordine, seguendo le pagine del diario. Io le leggo e le traduco, loro prendono appunti che sistemeranno durante la settimana. Daniele mi dice che quando avremo un po' di pagine pronte farà alcune telefonate alle case editrici per trovare qualcuno interessato a pubblicare il mio diario. Io gli parlo dei miei dubbi e anche Daniele mi confessa di essere perplesso. Dice, però, che bisogna tentare. Soltanto Carla è fiduciosa e più ottimista di noi. 27
Mohamed, l’autore apparso sotto tutela, esprime tutte le difficoltà che presenta il suo lavoro, e il doloroso scavo nella memoria a cui si deve assoggettare per fare parola di sè:
Quando inizio a rileggere il diario, mi rendo conto di quanto sia difficile ripescare dalla memoria certi ricordi. Più che difficile, doloroso. Ho passato giorni bruttissimi, e mentre li racconto mi fermo spesso perchè le parole non vogliono uscire: respiro in fretta e mi sento molto agitato. Il passato è ancora difficile da ricordare, mi fa davvero stare male.28
Si tratta, quindi, in tutti questi casi, di autobiografie sui generis, mediate da un intervento esterno e perlopiù 'tematiche', cioè comprese entro una precisa linea narrativa che è quella volta a illustrare il difficoltoso percorso di emancipazione sociale dei narratori-protagonisti.29 Nel caso Ben Jelloun-Volterrani, la collaborazione non si risolve in una mera trascrizione o revisione del testo, ma diventa un lavoro sinergico e quasi simbiotico tra lo scrittore italiano e quello italofono, come dice lo stesso Volterrani:
Nell'itinerario seguito il mio ruolo è stato di guida, nel senso più banale del termine, ma anche di “complice”, come Tahar vuole definirmi. L'esperienza è stata tuttavia ricca di emozioni e di giochi psicologici reciprocamente praticati. Potendo scegliere almeno i modi di presentare a Tahar i luoghi, le situazioni e gli incontri nelle loro successioni, ho assistito a sue reazioni violente, scandalizzate o rattristate dalla sensazione di impotenza davanti a una realtà complessa, drammatica, ricca di potenzialità positive e invece involute, incomprensibilmente refrattarie a
27
M. BOUCHANE, Chiamatemi Alì, cit., p. 173. Ibidem. 29 R. CACCIATORI, Il libro in nero. Storie di immigrati, cit., p. 167. 28
17
stimoli e provocazioni. Altre volte invece la scoperta di fatti, ambienti, tradizioni ha suscitato entusiasmo e simpatia per le caratteristiche umane, per i modi di vita, ritrovati pressochè identici sulle sponde opposte del Mediterraneo. Da parte sua il gioco preposto era spesso quello dello scambio delle parti, anche nell'affrontare la gente, o quello del coinvolgimento nella scrittura, proponendomi di avventurarmi in stesure alternative o di sviluppare spunti che altrimenti sarebbero stati abbandonati.30
L'operazione Ben Jelloun-Volterrani resta comunque poco chiara, in termini di partizione del lavoro. Ne Il rovescio del gioco, Gnisci, che analizza l'opera in comparazione con Immigrato di Methnani, propone, in nota, proprio un confronto tra la grafica editoriale dei due libri, in particolare tra la diversa posizione dei nomi degli autori in copertina. Se i nomi di Fortunato e Methnani «sono stampati l'uno sopra l'altro, con il secondo rientrato, centrati e nello stesso corpo tipografico, sopra al titolo» , a indicare, quindi, una sorta di «parità autoriale», il nome di Ben Jelloun è segnalato in evidenza con caratteri più marcati, e solo nella riga sottostante c’è la dicitura, più in piccolo, «con la collaborazione di Egi Volterrani»:
Donde si deduce meglio che T. B. J. è autore conosciuto che vende, mentre M. F. e S. M. sono pari (resta la precedenza all'autore italiano, ma l'ordine alfabetico apparente salva).
31
Le dinamiche della coautorialità appaiono, quindi, sempre piuttosto difficili da definire. In ogni caso, va aggiunto che questo fattore, non solo ci segnala la non ancora completa acquisizione dell’idioma straniero da parte dei vari migrant writers, ma sottolinea anche la posizione precaria e duplice degli stessi autori, in cerca di una nuova identità, allontanatisi da quella di origine ma non ancora del tutto immersi in quella del paese ospitante. Il tema della duplicità resterà comunque ricorrente nella produzione di autori migranti e a proposito di ciò, ne rappresenta un caso interessante un componimento del camerunense Teodoro,
30
Ivi, p. VI-VII. A. GNISCI, Il rovescio del gioco, Roma, Carucci, 1992 ora in A. GNISCI, Creolizzare l'Europa: letteratura e migrazione, cit., p. 71.
31
18
intitolato Prigione32 , «in cui emerge il desiderio di superare la cristallizzazione dell’identità, di aggirare il rischio della stasi in cui l’emigrante può cadere nel tentativo di preservare le sue origini per non farsi assimilare dalla cultura ospitante. Per Teodoro la prigione è data proprio dall’identificazione univoca, dal riconoscersi in un solo modo»33..
A partire dal 1993, sorge finalmente anche una letteratura della migrazione al femminile, con le opere a quattro mani Con il vento nei capelli di Salwa SalemLaura Maritano34 e Volevo diventare bianca della coppia Nassera ChoraAlessandra Atti di Sarro35. Seguono nello stesso anno Aulò. Canto-poesia dall'Eritrea
36
di Ribka Sibhatu, e, tra il 1994 e il 1996, i testi Lontano da
Mogadiscio di Shirin Razanali Fazel37 e Racordai. Vengo da un'isola di Capo verde di Maria de Lourdes Jesus38. Questi ultimi testi sono scritti in totale autonomia dalle varie autrici straniere in lingua italiana che ripercorrono le proprie vicende personali, integrando l’autobiografia con la storia e le tradizioni del loro popolo d’origine. Anche per quanto riguarda la stesura del libro di Nassera Chora, l'elemento della coautorialità scompare quasi del tutto: la collaborazione, infatti, consiste unicamente in una correzione finale a partire da un manoscritto originale in italiano. Un'altra particolarità di Volevo diventare bianca, è l'ironia con cui si affronta il tema della discriminazione razziale; il difficile vissuto della protagonista viene sdrammatizzato dagli episodi grottescamente divertenti che la ritraggono, prima, bambina, «in quella 'città nella
32
“Vivere una sola vita/ in una sola città,/in un solo paese,/in un solo universo,/una sola madre,/una sola famiglia/amare una sola persona/è una prigione. Conoscere una sola lingua/ un solo lavoro,/ un solo costume,/ una sola civiltà,/ conoscere una sola logica/ è prigione. Avere un solo corpo,/ un solo pensiero,/ una sola conoscenza,/ una sola essenza,/ avere un solo essere/ è prigione.” TEODORO, Nhindô Nero, Roma, Anterem, 1994. 33 M. FIORUCCI, Scritture in movimento, letteratura e testimonianze della migrazione, in «Elghibli», anno 3, n. 13, settembre 2006, www.el-ghibli.provincia.bologna.it. 34 S. SALEM, L. MARITANO, Con il vento nei capelli, Firenze, Giunti, 1993. 35 N. CHORA, A. ATTI DI SARRO, Volevo diventare bianca, Roma, e/o, 1993. 36 R. SIBATU, Aulò. Canto-poesia dall’Eritrea, Roma, Sinnos, 1993. 37 S. R. FAZEL, Lontano da Mogadiscio, Roma, Datanews, 1994. 38 M. DE LOURDES JESUS, Racordai. Vengo da un’isola di Capo Verde, Roma, Sinnos, 1996.
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città' che è la comunità africana di Marsiglia»39, e poi adulta, alle prese con i duri inizi di una carriera d'attrice, fino all'innamoramento per l'Italia. Nassera, anzi, Naci è una donna forte e tenace, sicura di non essere né algerina, né francese né italiana ma sempre e solamente sé stessa:
Ma il fatto era che io ero cresciuta metà araba e metà francese e per quanto mia madre si ostinasse a volermi educare come una ragazza musulmana, facendo i conti di quanto potesse fruttare il mio titolo di studio il giorno che avessi trovato marito, io vivevo ormai in un mondo tutto mio che era un miscuglio di tradizioni algerine e sogni europei. […] Mia madre probabilmente oggi, guardando mio figlio, si chiede quale Dio pregherà, che vita farà, quale lingua parlerà. Ma mio figlio le lingue le sta imparando tutte: l'arabo, il francese, l'italiano; e spero che possa crescere serenamente, prendendo di qua e di là, tutto ciò che potrà renderlo felice. Ma mi auguro, soprattutto, che il futuro gli dimostri che bianco e nero non sono altro che sfumature.40
Il caso di Salwa Salem è invece più complesso: Salwa, infatti, è stata stroncata da un male incurabile prima di dare alla luce la sua opera, che è stata raccolta e pubblicata in seguito, grazie all'impegno di Laura Maritano, coautrice del testo, di Giovanna Calciati e di Elisabetta Donini. Più nitidi sono i ricordi lontani di Salwa e più approfondita è la narrazione dei suoi anni giovanili: l'infanzia e l'adolescenza a Nablus, il periodo in Kuwait coi fratelli, lo studio e il lavoro, la passione politica. Lo scenario della vita di Salwa si sposta, successivamente, in Europa, dove si trasferisce con il neo-marito Muhammad, prima nella algida e asburgica Vienna e poi nella più solare Parma; in Italia si sente maggiormente benvoluta, non fatica a conoscere nuove persone e, dopo un periodo travagliato, trova anche una certa stabilità lavorativa. Dopo verranno i tre figli, sempre inattesi ma alla fine accolti con gioia, il riaccendersi dell'entusiasmo politico, in realtà mai del tutto sopito, sino a giungere ai suoi ultimi anni, tormentati dal cancro; l'ultimo capitolo è più frammentario, sfumato in episodi accennati e valutazioni interrotte.
39 40
N. CHORA, Volevo diventare bianca, cit., p. 133. Ibidem.
20
Nella post-fazione al testo, Laura Maritano parla del difficoltoso lavoro di raccolta e di costruzione del materiale postumo:
Il 5 marzo 1992 Salwa è morta. La sua presenza continuava a essere intorno a me e nella pagine scritte risuonava la sua voce. Ora dovevo fare senza di lei: una grande responsabilità, una grande paura. Era necessario un secondo lavoro di scrittura per portare il testo a una forma più organica e scorrevole.41
La collaborazione tra le quattro donne, tutte amiche di Salwa, e l'aiuto prezioso della figlia Ruba, permettono di portare a termine la stesura del libro.
Ai testi appena citati si aggiungono due libri scritti in carcere, Princesa, di Fernanda Farías de Albuquerque-Maurizio Jannelli42 e La tana della iena43, firmato dalla coppia Itab Hassan-Renato Curcio . Quest’ultimo racconta la storia vera di Hassan Itab, che negli anni Ottanta mise a segno un attentato agli uffici della British Airways nell’Aereoporto di Roma; dal libro, successivamente è nato, per volontà dell’associazione «Narramondo» di Firenze, un monologo in un atto unico, che racconta le motivazioni umane che spingono un ragazzo palestinese a sacrificare la sua giovane vita. Nel caso di Princesa, abbiamo a che fare con una storia tra le più drammatiche di quelle offerteci dalla letteratura migrante. Il romanzo nasce dall'incontro di tre persone che per diverse vicissitudini si ritrovano nello stesso carcere: Giovanni, un pastore sardo colpevole di rapina a mano armata, Maurizio Jannelli, ex brigatista rosso, e Fernanda, un transessuale brasiliano, incarcerato a Rebibbia per omicidio e malato di AIDS. In un primo momento, in realtà, ad incontrarsi frequentemente sono solo Giovanni e Fernanda; è un rapporto di reciproca confidenza, registrato pazientemente da Giovanni, il quale si appunta le storie dell'amica, utilizzando un incredibile pastiche linguistico, a metà tra il brasiliano, l'italiano e il sardo. È a questo punto che subentra l'intervento di Maurizio 41
S. SALEM, Con il vento nei capelli. Una palestinese racconta, a c. di L. MARITANO, nuova ed. riv. e corr., Firenze, Giunti, 2001, p. 168. 42 F. FARÍAS DE ALBUQUERQUE, M. JANNELLI, Princesa, Milano, Tropea, 1997. 43 H. ITAB, R. CURCIO, La tana della iena, Roma, Sensibili alle Foglie, 1991.
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Jannelli, il quale rielabora questo materiale, con l'aggiunta di una personale intervista a Fernanda, e conferendo ad esso l'aspetto di un libro. Un'esperienza di collaborazione che rappresenta un unicum in questo panorama letterario; una storia intensa, alla quale Fabrizio De Andrè si è ispirato per l'omonima canzone contenuta nell'album Anime Salve. Nel 1995 inoltre sono pubblicate La memoria di A.44 e I bambini delle rose45, rispettivamente opere seconde della coppia Moussa Ba- Micheletti e di Moshen Melliti. Quest'ultimo passa definitivamente dall'arabo tunisino all'italiano, affrancandosi dall'autobiografismo per narrare la tenera storia di due bambini extracomunitari, un rom e una cinese, entrambi venditori di fiori nei ristoranti.
Con questi esempi, la prima fase della letteratura della migrazione viene vista dai critici come conclusa. In tempi più recenti, infatti, una seconda ondata di autori migranti ha dimostrato di volersi costituire come una realtà letteraria a tutto tondo, lavorando non più in collaborazione con coautori italiani bensì autonomamente e affrancandosi dalla letteratura testimoniale per cercare tematiche alternative, con risultati alterni ma in ogni caso innovativi: non più, quindi, immigrati che si improvvisano scrittori, ma scrittori a tutti gli effetti, che parlano delle loro emozioni e liberano la fantasia.
1.2
La fase cosiddetta “carsica”
Per Gnisci, in questa seconda fase, «chi scrive in italiano venendo e vivendo nella esperienza della migrazione vuole essere ora riconosciuto come scrittore nel senso più proprio, e non soltanto e non più come un fenomeno da libreria tra l'esotico e 44 45
S. MOUSSA BA, R. MICHELETTI, La memoria di A., Torino, Gruppo Abele, 1995. M. MELLITI, I bambini delle rose, Roma, Edizioni Lavoro, 1995.
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il compassionevole, e, comunque, passeggero e 'improprio'»46. La maturazione linguistica e
contenutistica porta a un’evoluzione dei generi e dei codici,
superando i limiti dell’autobiografismo e della memorialistica per approdare a forme narrative più elaborate. Le vicende personali non scompaiono, ma vengono metaforizzate, se non utilizzate come motivo per percorsi d'invenzione; la poetica della migrazione, insomma, è ancora elemento fondante di questa produzione, ma è velatamente occultata da intenti più marcatamente letterari. Per colpa del disinteresse della grande editoria, questi nuovi autori sono costretti a cercare canali alternativi e secondari per poter far circolare i propri testi: da questo aspetto deriva la definizione di fase “carsica”. Grazie all'impegno di associazioni di volontariato e di riviste specifiche, la letteratura della migrazione continua la sua strada, «una strada minore, dimessa e accidentata, che essa però percorre in un'aspra libertà»47; ne agevola la diffusione un nutrito repertorio di pubblicazioni antologiche, come quelle del premio Eks&Tra, organizzato da Roberta Sangiorgi in collaborazione con la casa editrice Fara48. Prendiamo in considerazione la prima di queste raccolte, intitolata Le voci dell'arcobaleno49, e risalente al 1995, anno della prima edizione del concorso; dall'analisi dei testi che l’opera raccoglie, risulterà evidente l'evoluzione stilistica e tematica della letteratura migrante. Il volume riporta le opere vincitrici assieme a quelle ritenute meritevoli di pubblicazione, suddividendole in due sezioni, poesia e narrativa. Non solo prosa, quindi, ma anche poesia migrante; sono in molti, infatti, che scelgono di parlare della propria condizione tramite i versi. Questa prima edizione vede vincitori tra i 46
A. GNISCI, La letteratura italiana della migrazione, cit., p.90. Ivi, p. 91. 48 Le antologie del premio Eks&Tra sono: AA. VV., Le voci dell’arcobaleno, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1995, AA. VV., Mosaici d’inchiostro, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1996; AA. VV., Memorie in valigia, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1997; AA. VV., Destini sospesi di volti in cammino, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1998; AA. VV., Parole oltre i confini, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1999; AA. VV., Anime in viaggio, Mantova, Edizioni Eks&Tra, 2002; AA. VV., Il doppio sguardo, culture allo specchio, Adnkronos Libri, 2002; AA. VV., Pace in parole migranti, Nardò, Besa, 2002; AA. VV., Impronte, Nardò, Besa, 2003; AA. VV., La seconda pelle, Mantova, Eks&Tra editore, 2004. 49 AA. VV., Le voci dell’arcobaleno, cit. 47
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poeti Vincent Depaul, dalla Costa d'Avorio, Vida Bardiyaz, dall'Iran, e Inés Ventura, dall'Argentina. Il primo è maggiormente legato alla rappresentazione dei problemi quotidiani dell'immigrato: la povertà, i pregiudizi e i problemi sul lavoro (Lavoro nero è anche il titolo di una sua poesia); in un certo senso, trasporta in versi l'intento testimoniale che era appartenuto ai primi testi migranti. In Vida Bardiyaz, invece, notiamo la volontà di recuperare personaggi appartenenti alla propria sfera biografica e di trasfigurarli letterariamente; operazione, come ho detto sopra, tipica degli autori di questa ipotetica “fase carsica”, che dalla loro esperienza personale di migranti, traggono spunto per una scrittura letteraria. Nel suo caso, è la figura della nonna a risvegliare la sua nostalgia, una nonna «fantasma e presenza costante» che «viene tramata e articolata nella nostra lingua e su quella del perfetto ricordo, dell'assoluto altrove»50. Inés Ventura, invece, descrive la condizione di eterna instabilità dell'immigrato, viaggiatore perpetuo da un destino incerto «Raccogli le tue speranze in una valigia,/ la tua roba, i tuoi ricordi nelle viscere/e sei pronto … ad essere marchiato»51. Tra i narratori invece risultano vincitori Tahar Lamri, algerino, Christiana De Caldas Brito, brasiliana, e Ngoi Bakolo dallo Zaire. Sia Lamri che la De Caldas Brito diventeranno personaggi di rilievo nel panorama della letteratura migrante italiana. Il primo, si ispira a una problematica particolare e poco approfondita dagli altri scrittori, a dimostrazione che i tempi sono pronti per un ampliamento dei nuclei tematici: il confronto tra varie generazioni di immigrati. Il suo racconto Solo allora, sono certo, potrò capire, parla della crisi di identità culturale esistente nei figli di genitori
trapiantati
all'estero;
se,
talvolta,
padri
emigrati
rimuovono
categoricamente il ricordo della patria d'origine, associandovi quello di una vita irta di difficoltà, i figli, appartenenti alle cosiddette seconde generazioni, sentono invece il bisogno di viaggiare alla ricerca delle proprie radici. Così Lamri fa dire al protagonista:
50 51
Ivi, p. 10. I. VENTURA, Timbri, in ivi., p. 23.
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ognuno di noi è legato a qualche cosa: un'immagine, un ricordo, un sapore dell'infanzia o dell'infanzia dei suoi genitori. I paesaggi di questo paese mi sembrano familiari, certi paesaggi che vedo per la prima volta sono così nitidi nella mia memoria che non mi spiego il fatto. Forse è il presente che per me diventa passato all'istante, perchè ho bisogno di inventarmi una storia, delle radici.52
La brasiliana De Caldas Brito esordisce nella narrativa con il racconto-monologo incluso in questa raccolta, intitolato Ana de Jesus, parodia linguistica amara e ironica delle colf sudamericane. Ana, infatti, è una collaboratrice domestica che, assalita dalla nostalgia del suo paese d'origine, vuole lasciare l'Italia e prepara un discorso con cui giustificarsi con la sua “signora”, imbastendo il poco italiano appreso con la propria lingua madre: «Io ti racconto queste cose perchè tu capisce che voglio tornare. Sì signora, io non trovo bene in Italia. Io torno»53. Ricostruendo a posteriori il linguaggio spontaneo di chi è appena arrivato, la scrittrice brasiliana dimostra una conoscenza avanzata dell'idioma del nuovo paese, come dice Davide Bregola nel saggio relativo all'America Latina in Italia in Nuovo Planetario Italiano:
il monologo Ana de Jesus è scritto in «portuliano», cioè in un italiano fortemente contaminato sul piano morfologico e lessicale dal brasiliano. L’operazione di ricostruire con tale abilità un linguaggio così vivo e spontaneo secondo la scrittura nasce da una buona padronanza della lingua del nuovo paese, che consente di riprodurre la spontaneità del parlato di chi è arrivato da poco e mescola due lingue quando si esprime. Christiana ricorda che la stessa cosa è successa agli emigrati italiani arrivati in Brasile: parlavano un miscuglio di italiano e portoghese. Per creare nella scrittura una lingua ibrida bisogna lasciar parlare contemporaneamente le due lingue che vivono dentro di te: la lingua di prima e la lingua del dopo vengono in tal modo a unirsi nell'interlingua.54
Già con la lettura di questa prima raccolta antologica, si nota come, nell'ambito della letteratura migrante, si sia allargato non solo l'orizzonte tematico, ma anche 52
T. LAMRI, Solo allora sono certo potrò capire, in ivi., p. 58. C. DE CALDAS BRITO, Ana de Jesus, in ivi., p. 61. 54 D. BREGOLA, America latina in Italia, in AA. VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., p. 359. 53
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quello delle provenienze; se prima registravamo una netta prevalenza di africani, con l'aumento dell'immigrazione, abbiamo autori dall'America Latina, dall'Europa balcanica, dai Paesi Arabi. Lo scioglimento dell'URSS, l'abolizione del Patto di Varsavia, il lungo conflitto balcanico e la caduta del regime di Hoxha in Albania, hanno favorito una vasta ondata migratoria dall'est europeo verso l'Italia, che, per la sua particolare posizione al centro del Mediterraneo, rappresenta per queste popolazioni la porta d'ingresso all'Occidente. Come ricorda Maria Cristina Mauceri, nel suo saggio L'Europa venuta dall'Europa, contenuto in Nuovo Planetario Italiano, la fine del conflitto balcanico ha imposto una mutazione profonda dell'assetto geopolitico di questa zona, portando talvolta alla sparizione di nazioni, come è stato per la Jugoslavia. Per molti di questi autori, quindi, l'atto di scrivere non è solo l'esigenza di mettere in parole sulla carta la nostalgia della propria patria, ma realmente rappresenta l'unico mezzo per farla rivivere, poiché, come scrive Mauceri, «essi sono degli esiliati che qualora volessero far ritorno in patria non la troverebbero più perchè ormai la Jugoslavia è un paese che rimane nella memoria ma è scomparso dalla carta geografica»55. Oltre a numerosi testi di taglio prettamente autobiografico, anche tra la produzione degli ex-jugoslavi, c'è chi rielabora le vicende personali e del proprio paese in opere di finzione narrativa; onnipresente è il tema della guerra, che ha insanguinato per tanti anni queste terre. Un esempio è Tamara Jadrejčič, vincitrice del concorso Eks&Tra nel 2002, con il racconto Il bambino che non si lavava. Qui la tragicità del conflitto balcanico è vista dagli occhi ingenui di un bambino, che non riesce a capacitarsi del repentino stravolgimento della sua vita quotidiana, e di sua madre, disperatamente consapevole dello sgretolamento del suo nucleo familiare:
Una specie sconosciuta di paura aveva disattivato tutte le sue emozioni e cancellato anche la certezza della routine quotidiana, da quando due settimane prima era arrivata la lettera di reclutamento che ordinava a suo marito, nonché padre di Ivan e degli altri suoi figli, di presentarsi la mattina dopo all'Ufficio della Difesa Territoriale. La Croazia era entrata in guerra e, vuoi o non 55
M. C. MAUCERI, L'Europa venuta dall'Europa in AA. VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., p. 114.
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vuoi, lo erano anche tutti i suoi cittadini. Quel giorno la guerra era uscita dalla televisione e si era concretizzata in quel pezzo di carta spiegazzato che il postino aveva cercato di stirare con il palmo della mano, dopo averlo estratto dalla borsa. Per parecchi minuti era rimasto lì a rovistare cercando quello giusto. Ma non gli era riuscito di sorridere come al solito, anche per lui quella doveva essere una gran brutta giornata. E da quel giorno che sembrava qualunque, tutto cominciò a smontarsi nella vita di Sanja e della sua famiglia.56
Dall’area romena, da dove proviene la minoranza etnica attualmente più presente nella nostra penisola, abbiamo solo pochi casi rilevanti; uno di questi è Mihai Mircea Butcovan, il quale recentemente ha pubblicato il suo primo romanzo, dal titolo Allunaggio di un immigrato innamorato
57
. L’allunaggio è da riferirsi alla
condizione del migrante, sbalzato nella nuova realtà del paese ospitante, pianeta diverso e tutto da scoprire. Oltre alla storia dell’innamoramento tra un romeno e una ragazza italiana, il romanzo offre alcuni elementi narrativi interessanti e ironici sulla maniera di tanti nostri compatrioti di rapportarsi con le genti dell’est, sui loro preconcetti e le loro contraddizioni. Butcovan maneggia la lingua italiana come un giocatore alle prime armi ma dotato di un incredibile talento; attento a sfumature lessicali e doppi sensi, mescola espressioni gergali e forme dialettali, ad esempio:
Ma ti rendi conto che colpo per tutto il paese vederti passeggiare per le strade con la “belesa che fa invidia agli alter del paes”? Poco importa se non più di un mese fa ci si trovava a Pont du Legn per sostenere el Senatùr che diseva: «Fuori l’Italia dalla Padania e fuori i terùn dalla Padania e fuori i vù cumprà dal… non importa il concetto è questo!»58
Sul caso albanese ci soffermeremo a lungo in seguito, analizzando l’esempio di Ornela Vorpsi, perciò in questa sede mi soffermerei solo su alcuni nomi: in primo luogo, l’autore più prolifico, ossia Gezim Hajdari, poeta con alle spalle esperienze letterarie importanti già nel proprio paese d'origine. Due suoi significativi componimenti sono inclusi ne Le voci dell'arcobaleno; il primo, in particolare, si 56
T. JADREJČIČ, Il bambino che non si lavava, in AA.VV., Pace in parole migranti, Nardò, Besa, 2002, p. 21. 57 M. MIRCEA BUTCOVAN, Allunaggio di un immigrato innamorato, Nardò, Besa, 2006. 58 Ivi, p. 52 .
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distingue per il forte valore allusivo, riproducendo con versi toccanti il frequente sentimento di estraneità di un immigrato:
Piove sempre/in questo paese/ forse perchè sono/straniero
59
.
Nell’ambito della narrativa si distinguono Ron Kubati e Arthur Spanjolli, le voci maschili albanesi attualmente più note nel nostro paese; mentre, tra le donne, Ornela Vorpsi, Elvira Dones e Anilda Ibrahimi hanno destato un certo interesse tra i lettori italiani negli ultimi anni. Dalla Slovacchia proviene, invece, Jarmila Očkayová, che esordisce nella narrativa in italiano nel 1995, con Verrà la vita e avrà i tuoi occhi60, seguito da L’essenziale è invisibile agli occhi61, Requiem per tre padri62 e, nel 2006, da Occhio a Pinocchio63. Nella sua opera prima, la Očkayová racconta la storia di una tenera e intensa amicizia tra due donne, una delle quali vittima di una tragedia familiare e, conseguentemente, di un dolore immenso e lacerante che la conduce alle soglie dell’autodistruzione. L’unico dei romanzi in cui è presente il tema della migrazione è L’essenziale è invisibile agli occhi, che racconta la storia di Agata, una donna proveniente dall’Est europeo. Così dice di sé stessa la protagonista del romanzo:
io sono nata lì, sono cresciuta nel clima della guerra fredda, tra dichiarazioni di pace e corse all’armamento
64
In realtà la condizione di migrante della protagonista è subordinata a tutta una serie di aspetti della sua sfera personale, molto più importanti ai fini della narrazione; l’intreccio si dipana con colpi di scena degni di una spy story a tutti gli 59
G. HAJDARI, Da Ombra di Cane, in AA.VV., Le voci dell'arcobaleno, cit., p. 25. J. OČKAYOVÁ, Verrà la vita e avrà i tuoi occhi, Milano, Baldini&Castoldi Dalai, 1995. 61 ID., L’essenziale è invisibile agli occhi, Milano, Baldini&Castoldi Dalai, 1997. 62 ID., Requiem per tre padri, Milano, Baldini&Castoldi Dalai, 1998. 63 ID., Occhio a Pinocchio, Isernia, Cosmo Iannone, 2006. 64 Ivi, p. 23. 60
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effetti. In Occhio a Pinocchio, riscrittura della favola di Collodi, la Očkayová dimostra di voler collocarsi in una precisa tradizione letteraria. Se già con Verrà la vita e avrà i tuoi occhi e L’essenziale è invisibile agli occhi, i rimandi a Pavese e Saint-Exupéry erano evidenti, adesso traspare l’intento di mettersi a diretto confronto con un classico italiano, esperimento che, fino ad ora, rappresenta un unicum nel panorama della letteratura della migrazione in italiano. Lo stile drammatico e, nello stesso tempo, colto e raffinato, della Očkayová, dimostra una totale padronanza dell’italiano da parte della scrittrice, che predilige un linguaggio sofisticato e ricco di ibridazioni. La sua scrittura è stata definita spesso “mitteleuropea”, implicando, con ciò, una «disponibilità a rimarcare una forte identità […] e al contempo di cancellare i confini, di abbattere le barriere etniche e linguistiche»,65 come ricorda Bregola.
Per quanto riguarda il continente asiatico, sono ancora pochi i casi di scrittori migranti che scelgono di utilizzare la lingua italiana nelle loro opere. In ogni caso, il maggior numero di questi proviene sicuramente dal cosiddetto Vicino Oriente. Negli ultimi anni, infatti, a seguito dell’aggravarsi del conflitto mediorientale, si è verificata una grossa ondata migratoria proveniente da queste zone verso il continente europeo. In Italia il fenomeno è più recente rispetto a paesi come Francia e Inghilterra, e questo ha fatto sì che anche la produzione letteraria legata a queste zone sia più esigua rispetto al resto d’Europa, dove invece scrittori mediorientali si sono imposti nella lingua ospitante già da diverso tempo. Un altro fattore determinante è che inglese o francese sono lingue coloniali e proprio per questo più diffuse tra queste popolazioni; inoltre, utilizzandole, questi autori si sono garantiti una fama notevole, pur pagando il prezzo dell’emarginazione da parte del mondo arabo. È vero quindi che l’italiano, «non essendo una lingua della colonizzazione, in qualche modo paradossalmente viene a svolgere le funzioni
65
D. BREGOLA, Da qui verso casa, Roma, Edizioni Interculturali, 2002, p. 80.
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dell’arabo classico, dal momento in cui è eletta liberamente da voci sostanzialmente diverse fra loro per presentarsi in unità»66. Già abbiamo parlato del caso di Salwa Salem, palestinese, che racconta la sua storia grazie all’intervento esterno di coautrici italiane. Tra gli autori che hanno pubblicato negli ultimi anni, per l’originalità tematica e la qualità del lavoro letterario si distingue il siriano Yousef Wakkas, che, nel 1998, ha ricevuto dal Presidente della Repubblica una medaglia per il suo impegno nell’ambito della letteratura italiana della migrazione. Ha pubblicato alcune raccolte di racconti: Fogli Sbarrati, Terra mobile e La talpa nel soffitto. Racconti metropolitani67. In questa sede ricordiamo anche Younis Tawfik, poeta e narratore, che deve la sua fama particolarmente al romanzo La straniera68, originale sia per l’utilizzo di diversi registri linguistici che per la fusione di prosa e poesia; considerando la presenza alternata di due differenti voci narranti e la trama a incastro, chiari rimandi alla tradizione mediorientale delle Mille e una Notte, Tawfik realizza con questo romanzo un’efficace ibridazione di culture diverse, contaminando generi e lingua. Il romanzo racconta la difficile storia d'amore tra un architetto mediorientale, residente in Italia da molti anni, e una giovane marocchina, emigrata da poco, clandestina e costretta a prostituirsi per vivere. Il confronto tra due diverse facce dell’immigrazione e l’efficace resa, in termini letterari, della condizione della donna straniera, hanno decretato il successo di questo romanzo. La straniera ha infatti rappresentato uno dei pochi casi editoriali di questa produzione così sotterranea; come analizzeremo in seguito, è stata una tra le poche opere ad essere pubblicata da una grande casa editrice. Tra i pochi autori provenienti dal resto dell’Asia, un caso interessante è rappresentato dall’indiana Lily-Amber Laila Wadia, autrice di una raccolta di racconti intitolata Il burattinaio e altre storie extra-italiane69; in questa storia si
66
M. LECOMTE, L’Asia mediterranea o Vicino Oriente, in AA.VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., p. 296. 67 Di Y. WAKKAS: Fogli Sbarrati, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1996, Terra mobile, Isernia, Cosmo Iannone, 2004, La talpa nel soffitto. Racconti metropolitani, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2005. 68 Y. TAWFIK, La straniera, Milano, Bompiani, 1999. 69 L. WADIA, Il burattinaio e altre storie extraitaliane, Isernia, Cosmo Iannone, 2004.
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trovano tematizzati, in un reciproco gioco di specchi, i preconcetti e gli stereotipi degli occidentali nei confronti degli indiani e viceversa.
L’America Latina, nei tempi passati meta della grande migrazione italiana, ha visto negli anni un’inversione di rotta che ha portato, al contrario, molti dei suoi abitanti a trasferirsi nella nostra penisola. In particolare, è dal Brasile che provengono la maggior parte degli scrittori sudamericani italofoni. Tra le figure più rappresentative troviamo Heleno Oliveira, poeta già noto in patria, il quale si trasferisce a Firenze nel 1985 e vi abita per circa dodici anni. Una volta in Italia, affianca alla scrittura in lingua madre la composizione di versi in italiano; solo nel 2003, postuma, esce la sua raccolta di poesie in italiano: Se fosse vera la notte70. Già abbiamo ricordato Christiana de Caldas Brito, che, dopo aver pubblicato Ana de Jesus all’interno de Le voci dell’arcobaleno, inserisce il monologo in una raccolta di brevi racconti al femminile, intitolata Amanda Olinda Azzurra e le altre71. Le protagoniste di queste storie sono tutte «donne difficilmente ascoltate»72, e, con la lettura di questo volume, emerge proprio una particolare propensione all’ascolto da parte della scrittrice, propensione da ricollegare alla sua attività di psicoterapeuta (pare essere un inserzione autobiografica, quindi, Ali Alina Alice, il monologo-sfogo, contenuto nel libro, di una giovane donna durante la terapia); in relazione con la sua professione è anche la delicata sensibilità con cui affronta il disagio di figure femminili spesso emarginate, come le colf, le lavandaie, o, semplicemente, le immigrate in generale, tutte voci che letteralmente l’hanno spinta a scrivere:
Che origine hanno questi ritratti di donne? Persone reali che ho potuto osservare? Certo. Creature della mia immaginazione? Anche. Parti mie di cui prendo coscienza attraverso la scrittura? senz’altro. Hanno cominciato a parlarmi piano. Poi, un po’ più forte. Alla fine, gridavano.
70
H. OLIVEIRA, Se fosse vera la notte, Roma, Zone, 2003. C. DE CALDAS BRITO Amanda Olinda Azzurra e le altre, Roma, Lilith, 1998. 72 Ivi, p. 113. 71
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Volevano farsi sentire. Non ho fatto altro che ascoltarle e permettere loro di impadronirsi della mia voce. Grazie a loro ho qualcosa da raccontarvi. 73
Lo sperimentalismo messo in atto dalla De Caldas Brito coinvolge non solo la sfera linguistica, con l’utilizzo, come abbiamo detto sopra, di un idioma ibrido che lei stessa definisce “portuliano”, ma anche i procedimenti narrativi: a monologhi in prima persona, contraddistinti da un periodare ampio e convulso, come il corso dei pensieri delle protagoniste, affianca narrazioni più elaborate, dall’andamento teatrale, come il racconto Lavandaie in quattro tempi, o Il pinga pinga, caratterizzato da un sovrapporsi di punti di vista diversi. Il merito della scrittrice è, senza dubbio, quello di aver trasposto in italiano una sensibilità tipicamente brasiliana, sia nella ricerca di una musicalità linguistica, sia nell’uso di elementi dalla forte potenza straniante e immaginativa, come il cuore impiccato e abbandonato pulsante in La triste storia di Sylvinha con la Ypsilon e Tum tum, tum tum 74. Sempre nell’ambito della narrativa dal Brasile, non si può non menzionare Julio Monteiro Martins, come Oliveira e Hajdari già scrittore nella sua lingua madre, che esordisce in italiano con Racconti italiani75. Si tratta di racconti piuttosto brevi, alcune anche di poche frasi, e per la maggioranza ambientati in Toscana; le epoche sono le più disparate, dal passato lontano dei conquistadores
e di
Magellano (in Un mare così ampio), a un ipotetico futuro in cui un Giuliano Pirro “quarantatre” porta avanti la sua generazione di cloni (in Venerazione per il due). Come già nella De Caldas Brito, nei racconti di Monteiro Martins, il marchio della cultura di appartenenza è palesato da una scrittura fortemente evocativa e da atmosfere a prima vista rubate al realismo magico sudamericano; tutto ciò, però, coesiste con il desiderio di ricollegarsi a una sorta di “sentire comune” italiano, attraverso l’analisi di aspetti e fenomeni della nostra società. Vi leggiamo infatti
73
Ivi, p. 114. La raccolta viene poi ripubblicata nel 2004 da Oedipus e, nello stesso anno, esce anche una nuova silloge di racconti, Qui e là, Isernia, Cosmo Iannone; oltre a piecès teatrali e a libri per bambini, la De Caldas Brito dà alle stampe il suo primo, vero romanzo nel 2006, intitolato 500 temporali, Isernia, Cosmo Iannone. 75 J. MONTEIRO MARTINS, Racconti Italiani, Nardò, Besa, 2000. 74
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di camorra (in O’ cancelliere), di immigrati marocchini (in Ottantacinque ottantanove), di discoteche riminesi (in Miss Maglietta Bagnata), di un Centro di Prima Accoglienza di Torino (in Angeli in Europa), di lavoro precario (ne La parabola del giovane economista). Questi racconti permettono ai lettori di osservare il nostro mondo e la nostra quotidianità attraverso uno sguardo straniero, una sensibilità “altra” che, grazie alla sua diversità, ne mette in luce nuovi aspetti. Lo stesso Monteiro Martins definisce Racconti italiani un libro di narrativa brasiliana in italiano, che ha permesso di portare alla luce una «essenza nascosta della realtà […], una resina piena di pathos che fluisce come sangue d’ambra […] dall’interno dell’inconscio collettivo (degli italiani, se ho ben capito)»76, come scrive Gnisci nella sua Postfazione. Dall’Argentina proviene invece Clementina Sandra Ammendola. Per questa scrittrice, la venuta in Italia è stata un ritorno più che una migrazione; il padre infatti è italiano, cosicchè la Ammendola possiede la doppia cittadinanza, italiana e argentina. Della sua produzione è da citare il romanzo autobiografico e bilingue intitolato Lei, che sono io/Ella, que soy yo77, che già dal titolo manifesta la duplice identità della scrittrice e il perenne senso di sdoppiamento che caratterizza il proprio vivere. Una vicenda similare è stata quella di Adrian Bravi, anch’egli figlio di genitori italiani emigrati in Argentina e anch’egli immigrato di ritorno nella terra d’origine dei familiari; all’esordio in spagnolo, Río Sauce78, seguono tre romanzi in lingua italiana, Restituiscimi il cappotto, La pelusa e il più recente Sud 198279 .
Tra gli immigrati africani continuano a essere numerosi i casi di chi si cimenta con la scrittura in italiano, con risultati interessanti. Tra questi c’è Kossi-Komla Ebri, autore di due insolite raccolte Imbarazzismi80 e Nuovi imbarazzismi81 che
76
J. MONTEIRO MARTINS, Racconti italiani, Nardò, Besa, 2000 p. 165. C. AMMENDOLA, Lei, che sono io/Ella, que soy yo, Roma, Sinnos, 2005. 78 A. BRAVI, Río Sauce, Buenos Aires, 1999. 79 Di A. BRAVI: Restituiscimi il cappotto, Ravenna, Fernandel, 2004, La pelusa, Roma, Nottetempo, 2007 e, il più recente Sud 1982, Roma, Nottetempo, 2008. 80 K. KOMLA EBRI, Imbarazzismi, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2002. 81 ID., Nuovi imbarazzismi, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2004. 77
33
contengono aneddoti sui principali pregiudizi di noi italiani nei confronti degli immigrati di colore, di un commovente romanzo,
Neyla. Un incontro, due
mondi82, e di una scelta di brevi racconti africani, La sposa degli dei. Nell’africa degli antichi riti83. Nella sua produzione, certamente si segnala Neyla, uno dei casi più emblematici del passaggio da una scrittura testimoniale a una più creativa e propriamente letteraria; pur affrontando problematiche tipiche degli immigrati, come il perenne senso di sdoppiamento, la non appartenenza a una cultura precisa, le difficoltà a rapportarsi sia con la patria d’origine che con quella d’adozione, Kossi-Komla Ebri lascia da parte l’autobiografismo per dare un’impronta lirica e intimista alla sua scrittura. É la storia di un uomo che dopo cinque anni torna in Africa per le vacanze; l’impatto con il paese d’origine è forte, il protagonista non capisce più chi sia effettivamente né a quale cultura appartenga se a quella africana o occidentale, contraddizione che si svela subito con la sua attrazione verso una donna di colore ma dal modo di fare tipicamente europeo, Neyla. A conclusione del romanzo, lo stesso autore, nella postfazione, commenta:
Questo romanzo vuole essere un tentativo di affrontare alcune tematiche del continente africano, partendo dall’intimistica, da ciò che accomuna ogni essere umano: dalla difficoltà di vivere, dall’amore, dai sogni, dal vissuto quotidiano, senza la pretesa di fare l’antropologo, lo storico, il sociologo84
Nel frattempo, mentre di alcuni tra gli appartenenti alla prima ondata di scrittori, non si ha più notizie, altri, al contrario, proseguono l’attività letteraria: è il caso di Pap Khouma che nel 2005 pubblica con Baldini & Castoldi Dalai la sua opera seconda, Nonno Dio e gli spiriti danzanti, dove si parla, come in Neyla, del ritorno in patria di un giovane immigrato. Tra gli autori africani, meritano una distinzione a parte quelli provenienti da Somalia, Eritrea e Etiopia, per i quali l’italiano non è una lingua di “migrazione”,
82
ID., Neyla. Un incontro, due mondi, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2002. ID., La sposa degli dei. Nell’Africa degli antichi riti, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2005. 84 K. KOMLA-EBRI, Neyla, cit., p. 96. 83
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bensì l’idioma della loro istruzione, dalle scuole elementari all’università: una lingua già da tempo acquisita e che sanno manipolare senza problemi. Nei testi di questi autori emerge il passato coloniale italiano, una pagina di storia nazionale che troppe volte si è cercato di estirpare e di cui ancora oggi poco si parla. Caratteristica comune della loro produzione è l’alone leggendario che circonda tutto ciò che riguarda il nostro paese, la sua cultura e, eventualmente, sottocultura; un mito che si sgretola immediatamente con l’arrivo nella penisola. Un esempio è il romanzo di Garane Garane, Il latte è buono 85, in cui già il titolo richiama una visione manichea del mondo, diviso inesorabilmente tra bianchi e neri; il latte, infatti, indica il colore della pelle dei “buoni”, mentre indice di cattiveria è il “caffè”, ossia la “negritudine”. Il protagonista del romanzo di Garane giunge nel nostro paese con la consapevolezza di sentirsi a casa, ma presto scopre che saper parlare la lingua di Dante correntemente purtroppo non lo fa sentire uguale agli altri. Il latte è buono è il primo romanzo scritto in italiano da un somalo, e, secondo Gnisci, anche il primo romanzo postcoloniale italiano, anzi, la «prima voce decolonizzata africana che ci riguarda e racconta», come è riportato sulla quarta di copertina del volume. Altri casi sono quelli della somala Cristina Ubax Ali Farah, con il romanzo Madre piccola86 e di Gabriella Ghermandi, con Regina di fiori e di perle87.
Casi particolari di scritture migranti, sono quelli di Carmine Abate e di Alexian Santino Spinelli, provenienti da diverse realtà alloglotte e portavoci di culture ancora poco conosciute in Italia, seppur molto diffuse. Il primo ha una storia personale insolita che si riflette nella sua produzione: nato nella Calabria arbëresh e successivamente emigrato in Germania, vive attualmente in Trentino. Il tema della migrazione è affrontato sia da un punto di vista, per così dire, arbëresh, per raccontare la storia degli albanesi venuti in Italia a seguito del condottiero Scanderberg, sia da un punto di vista di emigrato italiano, memore della sua
85
G. GARANE, Il latte è buono, Isernia, Cosmo Iannone, 2005. C. UBAX ALI FARAH, Madre piccola, Roma, Frassinelli, 2007. 87 G. GHERMANDI, Regina di fiori e di perle, ,Roma, Donzelli, 2007. 86
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esperienza tedesca. Questa molteplicità di identità culturali è evidente anche da un punto di vista linguistico; Abate infatti utilizza un pastiche linguistico che include termini italiani, arbëresh, e di “germanese”, l’italiano utilizzato dagli emigrati in germania. Santino Spinelli, in arte Alexian, è un rom abruzzese, musicista, compositore e autore di testi poetici bilingui, in italiano e in romanès, nonché titolare della cattedra di Lingua e Cultura Zingara all'Università di Trieste. Da segnalare sono i suoi saggi Prinćarang: incontro con la tradizione dei Rom abruzzesi88 e Baro romano drom. La lunga strada dei rom, sinti, kale, manouches e romanichals89: la sua produzione ha il merito di riportare allo scoperto espressioni musicali e letterarie appartenenti alla cultura rom, presente sul territorio italiano assai prima rispetto all'ondata migratoria degli anni novanta, ma, nonostante ciò, ancora poco integrata nella nostra società.
1.3
Letteratura della migrazione o letteratura multiculturale?
Con l'inizio del nuovo millennio, ritorna l'interesse della grande industria culturale nei confronti della letteratura della migrazione; vi si dedicano spazi in grandi eventi letterari, si recuperano opere edite in passato, se ne pubblicano altre con majors dell'editoria. Gli scrittori migranti conquistano uno spazio sempre più importante nel panorama letterario nazionale, arricchendo «la nostra odierna stanca e spesso sclerotizzata espressività letteraria non solo e non tanto a livello tematico, quanto piuttosto di immaginario narrativo, e anche di soluzioni
88
A. S. SPINELLI, Prinćarang: incontro con la tradizione dei Rom abruzzesi, Pescara, Italica, 1994. 89 ID., Baro romano drom. La lunga strada dei rom, sinti, kale, manouches e romanichals, Roma, Meltemi, 2003.
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stilistiche, […] contributi che possono concorrere a scomporre e fors'anche a sgonfiare diversi stereotipi: soprattutto letterari, ma anche umani»90. Come accennato sopra, determinante ai fini di questa “uscita allo scoperto” è stata la pubblicazione de La straniera di Tawfik, divenuto caso letterario nel giro di pochissimo tempo, e vincitore di sette premi, tra cui il Grinzane Cavour nella sezione esordienti e il premio Comisso, per la narrativa. Altro caso emblematico è stato quello di Randa Ghazy, giovanissima scrittrice egiziana, la quale riscuote un notevole successo alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna del 2002, con il suo libro Sognando Palestina91; è la prima volta che, nell’ambito della letteratura della migrazione, si affronta una questione problematica come il conflitto israelopalestinese in un terreno neutro come quello della letteratura infantile. Finora, infatti, i pochi esempi di testi per ragazzi, scritti da autori migranti, si erano proposti un intento ludico o didattico, tralasciando gli aspetti più scottanti e brutali della loro condizione; Randa Ghazy, al contrario, con una scrittura chiara e diretta, descrive la situazione vissuta sulla propria pelle dai giovani palestinesi, prigionieri di una catena di violenza e odio che sembra non potersi mai spezzare. Il testo presenta anche novità nell’impianto formale, con uno stile fortemente drammatico, esasperato da una sintassi a membri franti, oscillanti tra prosa e poesia, e dall’uso insistente di anafore e ripetizioni: Un abbraccio, un abbraccio, una lacrima, due, no, no, fermale, fai qualcosa per fermarle, ma non ci riesci, è inutile, è un momento così, un momento che non si può fermare Ibrahim strinse Nedal con tutta la forza che aveva in corpo e si abbandonò ai singhiozzi, il suo corpo scosso dai singhiozzi,
90
E. PACCAGNINI, La letteratura italiana e le culture minori in Storia della letteratura italiana, Vol. XII, La letteratura italiana fuori d’Italia a c. di E. MALATO, cit., p. 1062. 91 R. GHAZY, Sognando Palestina, Milano, Fabbri, 2002.
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le lacrime gli offuscavano la vista, una pena indicibile gli stringeva il petto in una morsa tutto quello che aveva costruito dalla morte di suo pa-dre crollò in un attimo92
Sempre con la Fabbri, Randa Ghazy ha pubblicato nel 2005 Prova a sanguinare e nel 2007 Oggi forse non ammazzo nessuno. Storie minime di una giovane musulmana stranamente non terrorista93. Aldilà di un giudizio sull’effettivo valore letterario delle sue opere, e sottolineando come l’essere una adolescente straniera che scrive di tematiche “adulte”, come la guerra e il terrorismo, abbia nettamente contribuito a decretarne il successo, a Randa Ghazy va senza dubbio riconosciuto il merito di aver riportato l’attenzione del mercato editoriale sul fenomeno delle lettere migranti. Oltre a ciò, autori migranti partecipano a concorsi letterari nazionali, aggiudicandosene i premi principali; è il caso di Hajdari, vincitore del Premio Montale nel 1997, di Ornela Vorpsi e Elvira Dones, vincitrici del Grinzane Cavour, rispettivamente nel 2005 e nel 2008, di Tamara Jadrejčič, che ha conseguito il Premio Calvino nel 2004 con il racconto Il prigioniero di guerra. La letteratura della migrazione, insomma, sembra incamminarsi verso un percorso indirizzato a farla diventare letteratura italiana a tutti gli effetti. Alcuni passi della relazione di Serge Vanvolsem, professore di linguistica italiana presso l’università belga di Lovanio, presentata durante il primo «Forum sulla letteratura della migrazione», svoltosi a Mantova presso l’associazione culturale Eks&Tra, forniscono spunti di riflessione interessanti sulla questione: I premi, i forum, i congressi e gli studi sulla letteratura della migrazione sono quanto mai utili e necessari, ma non possono che essere delle tappe intermedie, da superare. Per me la letteratura della migrazione sarà letteratura tout court o non sarà. […] Una tale apertura richiede coraggio, perché comporta sempre dei rischi, perché significa uscire dal guscio protettivo. E significa
92
R. GHAZY, Sognando Palestina, Milano, Fabbri, 2002, p. 100. ID., Prova a sanguinare, Milano, Fabbri, 2005; ID., Oggi forse non ammazzo nessuno. Storie minime di una giovane musulmana non terrorista, Milano, Fabbri, 2007.
93
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soprattutto buttarsi sul mercato letterario ed accettare le dure leggi della concorrenza e del raffronto qualitativo. Molti testi che vanno sotto l’etichetta di letteratura della migrazione non passeranno al vaglio di un tale esame qualitativo, ma non vedo perché i migliori non potrebbero accettare la sfida. I premi conquistati da singoli scrittori in concorsi letterari anche al di fuori della letteratura della migrazione sono la miglior prova che essi sono pronti e che è proprio questa la strada da seguire.94
E, in occasione del decennale del concorso Eks&Tra, l’anno seguente, ancora Vanvolsem dichiarerà:
Parlare di queste letterature settoriali è quindi sempre una forma di marginalizzazione, è ammettere che se ne parla e che se ne deve parlare perché la letteratura tout court ancora non lo fa, ignora o trascura il fenomeno, o comunque lo giudica tuttora inferiore rispetto alla produzione letteraria comune. È quindi accettare la tradizionale distinzione tra una letteratura canonica, che conterrebbe solo gli autori veri e propri, ed un’altra, per gli scrittori di serie B. Ecco perché il Gouncourt di Ben Jelloun (1987), la Civetta d’Oro di Bouazza (2004), e aggiungo volentieri per l’italiano, il premio Montale di Hajdari (1997) sono così importanti, perché sono stati conseguiti non in un’area protetta, ma su un terreno aperto ad ogni forma di concorrenza, comprese, purtroppo, anche le regole di una crescente monetizzazione della letteratura come di tutta l’arte. La vita letteraria vera e propria comincia fuori delle “riserve”.95
L’esigenza di denominare il fenomeno “letteratura della migrazione”, come abbiamo anticipato all’inizio del capitolo, citando Lettere migranti di Gnisci, non è da intendersi come una “segregazione culturale” di una nuova produzione letteraria, bensì persegue l’intento di definirne la poetica. Quello che è sbagliato, al contrario, è «considerare i migranti in generale e gli scrittori stranieri in quanto 'immigrati' nelle nostre terre […], e cioè come 'intrusi' dentro il nostro corpopatria o, addirittura, dal punto di vista del bisogno di classificazioni della 'scienza letteraria' europea»96.
94
S. VANVOLSEM, Quando sulla letteratura soffia el ghibli, http://www.eksetra.net/forummigra/relVanvolsem.2003. 95 ID. , Dieci anni di Eks&Tra. Nuove vie per la lingua e la letteratura straniera. Relazione di Serge Vanvolsem, http://www.eksetra.net /forummigra/relVanvolsem.2004. 96 A. GNISCI, Lettere migranti, in Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, cit., p. 179.
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In ogni caso, lecita o no, questa fase intermedia di settorializzazione, in cui la letteratura migrante è stata prima oggetto d’attenzione dell’industria culturale e poi, da questa stessa, resa invisibile, ha avuto il merito di aver agevolato l’espansione degli scrittori migranti; a questo punto, pare avviarsi verso la sua conclusione, lasciando posto a un terzo momento che, parafrasando Carmine Abate, potremo definire “multiculturale”, ossia «una letteratura fatta dallo sguardo plurimo e ibrido sul mondo di cui è portatore chi parte e vive altrove»97.
97
C. ABATE, Immigrazione ed emigrazione. Intervista a Carmine Abate, http://digilander.libero.it/vocidalsilenzio/carmineintervista.htm.
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2. L’EDITORIA ITALIANA E GLI SCRITTORI MIGRANTI.
Ripercorrendo la storia della letteratura della migrazione in lingua italiana, si può notare come, a seconda dei momenti, il mondo editoriale si sia posto con diversi atteggiamenti. L’industria culturale si è mostrata, nei confronti di questa produzione, talvolta interessata, talvolta diffidente, determinando chiaramente la fama di alcuni autori e discriminandone altri, magari di più elevato valore letterario, come dimostra la discreta popolarità riscontrata dai primi testi migranti usciti alle stampe: romanzi dal taglio prettamente giornalistico, il cui intento testimoniale superava quello di tipo meramente letterario, sono diventati dei “casi editoriali”, sfruttando l’elemento di novità che li caratterizzava, a differenza dei testi pubblicati in seguito, meno autobiografici e più intimisti, che, sia per la maggior profondità delle tematiche affrontate, sia per il momento storico meno favorevole alla ricezione di autori stranieri, non hanno avuto la stessa fortuna. Nel suo saggio L’editoria della letteratura della migrazione, Silvia Camilotti distingue le case editrici legate agli autori migranti in tre categorie:
Alla prima categoria fanno capo le case editrici che non hanno una politica editoriale interculturale e pubblicano gli scrittori migranti, per così dire, una tantum. […] Nella seconda categoria possiamo raggruppare alcune case editrici che hanno pubblicato numerosi testi di autori migranti, ma non li hanno raccolti in una collana e sembrerebbero quindi escludere politiche editoriali mirate. […] La terza pattuglia include case editrici con un progetto interculturale che è stato
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pensato fin dall’inizio come una collana per scrittori migranti, senza però farne una mirata nicchia commerciale e 'ghettizzante'.
98
Si tratta, quindi, di una partizione legata non tanto alla notorietà della singola casa editrice, quanto al tipo di politica editoriale adottata nei confronti del fenomeno. Infatti, se è avvenuto più di frequente che grandi aziende abbiano dato alle stampe opere di letteratura migrante in maniera sporadica, senza il loro inserimento in collane o progetti specifici, è pur vero che anche edizioni di piccole o medie dimensioni hanno tenuto lo stesso atteggiamento. È invece tipico di realtà minori, spesso legate al mondo del volontariato e del no-profit, la creazione di progetti interculturali destinati alla promozione di scrittori migranti. Da un punto di vista cronologico, nonostante la sostanziale coesistenza dei vari atteggiamenti, si registra una notevole attenzione, da parte di importanti case editrici, nei confronti degli autori migranti appartenenti alla cosiddetta “fase esotica”, come sopra evidenziato; è, invece, nella cosiddetta “fase carsica” che all’occultamento del fenomeno da parte dell’industria culturale di massa risponde l’attività sotterranea di piccole realtà editoriali, di associazioni o di cooperative sociali, sulle quali ci soffermeremo approfonditamente.
2.1
Le case editrici operanti nella cosiddetta “fase esotica”.
Abbiamo ricordato in precedenza come il tragico episodio di Villa Literno abbia alimentato, all’epoca, la produzione letteraria dei primi stranieri extracomunitari giunti nel nostro paese. Spinte dal fiorente dibattito mediatico intorno al caso Masslo e, in generale, al recente fenomeno dell’immigrazione, grandi case editrici 98
S. CAMILOTTI, L’editoria italiana della letteratura della migrazione in AA. VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., pp. 383, 384, 385.
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rivolgono la loro attenzione a questa produzione: la Garzanti pubblica nel 1990 Io, venditore di elefanti di Pap Khouma-Oreste Pivetta, la De Agostini, nel 1991, La promessa di Hamadi di Saidou Moussa Ba-Alessandro Micheletti, Einaudi, invece, Dove lo stato non c’è. Racconti italiani di Tahar Ben Jelloun-Egi Volterrani, Feltrinelli Rometta e Giulieo di Jadelin Gangbo e la e/o Volevo diventare bianca di Nassera Chora. Senza dubbio, è il “fattore novità” a rendere interessanti queste opere agli occhi della grande editoria; del resto, in tale momento, il fenomeno dell’immigrazione è agli albori e tutti questi testi presentano un’intensa riflessione civile su problemi alla ribalta dell’attualità, come l’emarginazione razziale e l’integrazione tra autoctoni e immigrati ancora da realizzarsi. Anche realtà editoriali minori si occupano di questa nuova produzione come la casa editrice Theoria di Napoli, che pubblica Immigrato di Salah Methnani-Mario Fortunato, o la Leonardo di Milano con Chiamatemi Alì di Mohamed Bouchane-Daniele Miccione-Carla Di Girolamo99. La politica editoriale, in ogni caso, è sempre quella di stimolare la curiosità dei lettori:
Il lettore, di fronte a un problema che occupa quotidianamente le prime pagine dei giornali, vuole conoscere. E questo gli promettono le copertine dei due libri, secondo le metafore della consolidata formula dell’autore-esploratore sociale: «storie e incontri disegnano la mappa di un’Italia sommersa e parallela dove vive una moltitudine di personaggi di cui poco si conosce» (Io, venditore di elefanti); «il primo racconto-testimonianza dall’universo dell’immigrazione» (Immigrato). Ma il lettore non vuole solo vedere, vuole essere visto, giudicato dal punto di vista dell’altro, ora che i continui episodi di intolleranza e i pamphlet di giornalisti e di sociologi (Ferrarotti, Balbi, Bocca, Nirenstein, Balbo e Manconi, Iraci Fedeli, ecc.) lo additano a razzista. Anche questo gli è assicurato dall’apparato paratestuale dei due testi, nella fascetta mobile che avvolge Immigrato («Viaggio di un clandestino nell’Italia del razzismo») e nella «Introduzione» a Io, venditore di elefanti, dove non a caso Oreste Pivetta si rivolge ai lettori italiani («Pensai che sarebbe stato giusto fare qualcosa, magari scrivendo, per denunciare attraverso le voci di quei ragazzi, le responsabilità del nostro paese e qualsiasi atteggiamento razzista»). In effetti questi libri si
99
Oltre a queste ricordiamo Datanews che pubblica Lontano da Mogadiscio (S. RAZANALI FAZEL,1994), Sensibili alle foglie La tana della iena (H. ITAB,1991), le Edizioni Lavoro I bambini delle rose ( M. MELLITI, 1995), Tropea Princesa ( F. FARIAS DE ALBUQUERQUEM. JANNELLI, 1994), Lupetti Verso la notte Bakonga (J. GANGBO, 1999).
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rivolgono a noi, non certo ai senegalesi o ai tunisini connazionali dei loro autori, e questo dato ci può aiutare nel cogliere alcune convenzioni di genere all’interno di questo tipo di narrazioni, che all’estero è senz’altro più diffuso e che comunque è presente anche in Italia attraverso alcune traduzioni, oltre ai due testi in questione.100
Il caso di Con il vento nei capelli di Salwa Salem-Laura Maritano è particolarmente interessante; pubblicato una prima volta nel 1993, dalla Giunti, è stato ristampato due volte, rispettivamente nel 2001 e nel 2009, a dimostrazione di un interesse non ancora sopito nei confronti di un testo dall’alto valore testimoniale. In generale, però, l’iniziale interessamento lascia gradualmente il posto a una sostanziale indifferenza; da questo momento poi, il fattore “novità” che ha caratterizzato i primi testi migranti passa in secondo piano, provocando l’allontanamento da questa produzione delle edizioni maggiori.
2.2
Le case editrici operanti nella cosiddetta “fase carsica”
Nella fase cosiddetta “carsica” sono, soprattutto, le case editrici di piccole dimensioni a dedicarsi al fenomeno, spesso varando iniziative specifiche per gli scrittori migranti, talvolta, invece, pubblicandoli sporadicamente senza inserirli in appositi progetti, scelta sulla quale vertono, solitamente, quelle maggiori.
La prima collana dedicata alla letteratura della migrazione è stata «Linguafranca», della casa editrice romana Lilith, esperienza di breve durata e costituita da pochi ma significativi testi. Diretta da Armando Gnisci, si presentava divisa in due sezioni, la blu riservata ai testi degli scrittori immigrati e la rossa alla saggistica
100
R. CACCIATORI, Il libro in nero. Storie di immigrati, cit., pp. 163-164.
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legata alle problematiche dell'interculturalità. La sezione blu è inaugurata dal poemetto Il segreto della capanna101 dello scrittore del Camerun Ndjock Ngana, proseguendo con l’opera d’esordio di Christiana de Caldas Brito, Amanda, Olinda, Azzurra e le altre102; la sezione rossa, con il saggio di Armando Gnisci, La letteratura italiana della migrazione, poi ripubblicato assieme a altri saggi nel volume complessivo Creolizzare l’Europa103, per i tipi della Meltemi.
Tra le iniziative aventi come scopo principale la promozione della letteratura della migrazione, è, in primo luogo, da segnalare il concorso letterario Eks&Tra, al quale è legata anche un’interessante vicenda editoriale. Si tratta del primo concorso rivolto prettamente ad autori migranti: nasce nel 1995, per iniziativa dell’associazione culturale omonima, a Rimini, per poi trasferirsi dal 1999 a Mantova, grazie al sostegno del Centro di Educazione Interculturale della Provincia. Dal 2004 l’associazione collabora con il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, dal 2005 con il Comune di Mantova, e, dal 2006, anche con la Provincia di Bologna, ai fini del convegno «Scrivere la migrazione. Presentazione dei volumi vincitori del concorso Eks&Tra per scrittori migranti. I suoi intenti sono quelli di «promuovere la conoscenza reciproca, verificare fino a che punto è giunta o può giungere l'integrazione fra espressioni culturali che possono mutuamente arricchirsi, scoprire come i valori fondamentali dell'uomo siano ovunque gli stessi», come leggiamo nella presentazione sul sito dell’associazione: da qui sorge l’urgenza di promuovere «un premio letterario rivolto proprio a coloro che vengono spesso considerati come corpi estranei da emarginare e ghettizzare o anche da espellere»104. Già la scelta del nome dell’associazione rimanda ai suoi primari obiettivi:
101
N. NGANA, Il segreto della capanna, Roma, Lilith, 1998. C. DE CALDAS BRITO, Amanda, Olinda, Azzurra e le altre, Roma, Lilith, 1998. 103 A. GNISCI, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, cit. 104 Dal sito www.eksetra.net. 102
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Il nome Eks&Tra che abbiamo scelto per presentarci indica la provenienza da altri paesi: Eks=ex, e l'arrivo Tra noi.
L'& è una congiunzione che assomma in sé le difficoltà e insieme la grande ricchezza dell'incontro. 105
Il concorso è servito da trampolino di lancio per molti nuovi scrittori e, nell’arco degli anni, ha raccolto, ormai, più di mille e ottocento scritti di migranti in italiano, andando a costituire il primo vero archivio storico della letteratura italiana della migrazione, consultabile anche on-line106. I racconti e le poesie presentati in gara, sono raccolti in antologie, della cui pubblicazione, dal 1995 al 1999, si è occupata la piccola casa editrice romagnola Fara. Una volta trasferitosi a Mantova, Eks&Tra si è appoggiata prima alla Adn-Kronos, e successivamente a Besa, per poi diventare essa stessa editrice dei testi che premia. Addossandosi già da tempo le spese di promozione dei testi (che altrimenti sarebbero state mere promozioni editoriali, senza espliciti riferimenti al senso di Eks&Tra), l’associazione ha deciso di pubblicare autonomamente i testi, garantendo così una maggior diffusione anche degli scopi e delle motivazioni della stessa. Le tirature sono limitate, consistono in non più di mille copie a volume; la distribuzione è possibile solo via internet, e, in quanto associazione senza fini di lucro, le vendite sono rivolte esclusivamente a chi ne fa parte. Le eventuali entrate, inoltre, vengono riutilizzate ai fini di pubblicare nuove opere di scrittori migranti sconosciuti o esordienti, che altrimenti non ne avrebbero la possibilità.107
Sempre dall’ambito del no-profit proviene l’esperienza della Sinnos, che nasce come cooperativa sociale ONLUS all’interno del carcere di Rebibbia nel 1990: lo scopo, inizialmente, è il reinserimento nel mondo del lavoro di persone
105
Ibidem . http://www.eksetra.net/database/index. 107 Informazioni gentilmente fornite dalla Presidentessa dell’Associazione Roberta Sangiorgi. 106
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svantaggiate. È in un secondo momento, con l’emergere del dibattito interculturale, che l’associazione inizia la sua attività di service editoriale, in un primo tempo appoggiandosi a case editrici amiche, per poi, successivamente, proporsi essa stessa come tale, promuovendo la diffusione di opere concernenti l’educazione interculturale, il diritto, il rispetto dell’altro e dell’ambiente e tutto ciò che educhi alla cittadinanza responsabile. Negli ultimi anni la cooperativa ha aumentato il suo personale, attualmente composto da dodici persone e ha dato alle stampe numerosi testi che trattano di diritto e multiculturalità, molti dei quali opera di scrittori migranti; si tratta, soprattutto, di testi per ragazzi, volti a favorire una maggiore integrazione tra giovani di diverse provenienze nell’ambiente scolastico. In particolare, l’attuale offerta della Sinnos, si presenta suddivisa nelle seguenti collane:
I MAPPAMONDI Autori immigrati scrivono per ragazzi italiani che hanno compagni di scuola stranieri. Ma anche per ragazzi stranieri che hanno compagni di scuola italiani... […]
FIABALANDIA Ecologia, multicultura, diversità, ma anche storie illustrate e colorate, perché attraverso il fantastico, l'ironia, il gioco, si possa inventare insieme un mondo migliore... […]
ZEFIRO I racconti portati da Zefiro vengono da terre lontane e ci donano la ricchezza e la diversità di patrimoni culturali dove a volte è ancora viva la tradizione orale. Testi preziosi e antichi, resi ancor più affascinanti dalla presenza del testo originale... […]
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NOMOS Un linguaggio accessibile e vivaci illustrazioni avvicinano i più piccoli al mondo del diritto, coinvolgendoli in una visione più ampia della realtà che li circonda. Il messaggio è che il diritto è sempre presente nella vita quotidiana e riguarda ognuno di noi. […]
LEGGIMI Libri di narrativa piacevoli e divertenti per tutti, anche per chi fatica a leggere. Strutture sintattiche semplici, una font creata appositamente per evitare confusioni, carta che stanca meno la vista. […]
SEGNI Una serie di libri che affrontano diversi temi: religioni, conflitti, dati, filosofia, istituzioni... Strumenti per capire il mondo che ci circonda, e non solo quello più vicino a noi. Saggi per riflettere, per ampliare le nostre conoscenze e arricchire il nostro spirito... […]
ZONAFRANCA Una nuova collana dedicata ai "giovani adulti". Storie importanti e belle per riflettere sulle questioni aperte della nostrà società e della nostra epoca108
Nonostante testi sulla multiculturalità e l’immigrazione siano onnipresenti tra le pubblicazioni Sinnos, i Mappamondi e Zefiro sono le collane specificamente rivolte all’incontro con culture straniere: si tratta, in entrambi i casi, di raccolte di testi bilingui e perlopiù destinate alla fruizione scolastica. Nel primo caso, troviamo scritti in prima persona da immigrati, con l’intento di raccontare in prima persona il proprio vissuto e le difficoltà d’integrazione con la società ospitante, accompagnati da storie, leggende e notizie del paese d’origine dell’autore, nonché da illustrazioni: costituiscono, quindi, “libri ponte” tra culture diverse, utili sia ai bambini italiani, che in tal maniera, possono approcciarsi meglio ai loro compagni stranieri, sia a questi ultimi, per non dimenticare la storia 108
Dal sito www.sinnoseditrice.org.
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e le tradizioni a cui appartengono. Esclusi i casi di Igiaba Sciego e Clementina Sandra Ammendola109, gli autori dei volumi inclusi nei Mappamondi hanno concluso la loro attività letteraria con questa pubblicazione; le storie contenute nei volumi di Zefiro, invece, sono raccolte sia da autori italiani che da stranieri, o talvolta in collaborazione. Anche le collane Fiabalandia e Nomos sono rivolte a un pubblico giovanile, la prima raccogliendo filastrocche e storie su vari temi, tra cui anche l’intercultura mentre la seconda si dedica prevalentemente al diritto. Nei Segni, invece, sono sviluppate per adulti le stesse tematiche ampiamente affrontate nella produzione per ragazzi. Da settembre 2009, inoltre, sarà avviata una nuova collana curata da Gnisci, denominata Nuovo immaginario italiano, dedicata alla riflessione sul processo di trasformazione che ha interessato la cultura italiana negli ultimi anni, grazie al contributo sempre più determinante dei migranti. I testi di prossima uscita sono di saggistica: L'educazione del te e Nuovo immaginario italiano. Altre iniziative di stampo interculturale sono il Calendario interculturale, che raccoglie le indicazioni e le spiegazioni delle festività e ricorrenze delle religioni e delle culture di tante comunità presenti sul territorio nazionale e l'agenda Assaggenda - Assaggiro del mondo, curata da un'erborista, Anna Colarossi, che presenta le spezie e i loro usi. A nome di Antonio Spinelli, un collaboratore scomparso da un anno, la Sinnos ha avviato un progetto, Le biblioteche di Antonio, volto a costituire delle biblioteche scolastiche laddove la mancanza di fondi ne abbia impedito la realizzazione110.
Un’iniziativa importante nel campo della poesia migrante, è quella dell’editore Loggia de’ Lanzi di Firenze, che, a cura di Mia Lecomte, a sua volta poetessa nella collana Cittadini della poesia, dà alle stampe nel marzo 1998 e poi nel gennaio 2000, cinque piccoli Quaderni, suddivisi in base all’area geografica di provenienza dei poeti antologizzati: due quaderni per l’area balcanica, due per 109
I. SCIEGO, La nomade che amava Alfred Hitchcock, Roma, Sinnos, 2003 ; C. AMMENDOLA, Lei che sono yo/Ella que soy yo, cit. 110 Informazioni gentilmente fornite da Emanuela Casavecchi, responsabile dell’ufficio stampa Sinnos.
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quella mediorientale e uno per quella africana111. Nella prima raccolta troviamo componimenti di poeti albanesi, bosniaci e croati, nella seconda soprattutto di poeti iracheni e iraniani e nella terza di poeti provenienti da Nigeria, Camerun ed Eritrea. La nazionalità rappresenta, quindi, il denominatore comune dei Quaderni, a differenza delle antologie del premio Eks&Tra, che includono tutti i testi relativi all’anno di partecipazione al concorso, senza rifarsi ad alcun parametro di provenienza o di cultura. Se il criterio geografico, utilizzato nei Quaderni, mette in rilievo tematiche e modalità espressive ricorrenti tra le opere di autori col medesimo retroterra storico e culturale, l’eterogeneità delle antologie Eks&Tra ha permesso di portare alla luce testi di scrittori dalle origini più svariate; per esempio notevole è la presenza di autori dell’area sudamericana, trascurata dall’iniziativa editoriale della Loggia dè Lanzi. La dimensione antologica si conferma preponderante nella diffusione di autori migranti; sempre di più sono i progetti editoriali che raccolgono racconti o poesie di scrittori stranieri, spesso in vista di premi letterari. In questo senso, l’ennesimo esempio è quello di Lingua Madre, concorso nato nel 2006 e rivolto a donne straniere residenti in Italia, desiderose di approfondire, utilizzando la lingua ospitante, il rapporto tra identità propria e identità “altra”; una sezione speciale è dedicata alle donne italiane che, con la scrittura, si fanno tramite di queste culture diverse, raccontandone storie che hanno incontrato, vissuto conosciuto. Il concorso è organizzato dal Centro studi e documentazione sul pensiero femminile di Torino e le antologie sono pubblicate dalla casa editrice torinese Seb 27112.
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AA. VV., Quaderno Balcanico I, a c. di M. LECOMTE, Firenze, Loggia dè Lanzi, 1998; AA. VV., Quaderno Balcanico II, a c. di M. LECOMTE, Firenze, Loggia dè Lanzi, 1998; AA. VV., Quaderno africano, a c. di M. LECOMTE, Firenze, Loggia dè Lanzi, 1998; AA. VV., Quaderno Mediorientale I, a c. di M. LECOMTE, Firenze, Loggia dè Lanzi, 2000; AA. VV., Quaderno Mediorientale II, a c. di M. LECOMTE, Firenze, Loggia dè Lanzi, 2000 112 AA. VV., Lingua madre duemilasei, a c. di D. FINOCCHI, Torino, Seb27, 2006; AA.VV., Lingua madre duemilasette, Torino, Seb27, 2007: AA. VV., Lingua madre duemilaotto, Torino, Seb27, 2008
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Il marchio Ediarco rappresenta un progetto mirato alla promozione della letteratura della migrazione. Le Edizioni dell’Arco nascono nel 1989 per la pubblicazione di testi universitari; è a partire dal 1994 che si dedicano agli scrittori migranti, soprattutto di provenienza africana, collaborando con la cooperativa Gruppo Solidarietà Come, che si occupa della distribuzione dei libri. La cooperativa ha ricevuto in uso il marchio e lo ha mantenuto fino al novembre 2003, quando è stata fondata la società editoriale Ediarco Srl. La principale modalità di diffusione dei testi è la vendita su strada da parte di operatori extracomunitari, con l’obiettivo di creare nuove opportunità di lavoro tra gli immigrati; negli ultimi anni, inoltre, la distribuzione si è allargata tramite la vendita on-line dei volumi editati e gli accordi con alcune librerie fiduciarie, come leggiamo sul sito della casa editrice:
Il Gruppo Solidarietà COME è il distributore unico dei testi della Ediarco, e si affida a tre canali: la diffusione per strada; accordi diretti con librerie e luoghi sociali;la diffusione attraverso internet (www.ediarco.it) acquistando i volumi che interessano (www.consorzioequilibri.it). Il primo canale è sicuramente quello più sviluppato e si affida a circa 400 persone che operano soprattutto nell'Italia del Nord (con leggeri incrementi nel Centro). Questi diffusori sono impegnati con due tipi di contratto: come soci della cooperativa o come lavoratori autonomi con partita iva. In entrambi i casi comprano i libri del Gruppo Solidarietà COME - la tiratura media è di circa 3000 copie - con il 50% di sconto ( il prezzo di copertina è di 6,90 euro). Tutto ciò che ricavano dalla vendita fa parte del loro ricavo. L'altro canale di diffusione che si sta sviluppando è quello delle librerie. Ediarco srl ha un certo numero di librerie fiduciarie in diverse città italiane (a Milano la Azalai e la Libreria Alternativa, a piacenza la Fahrenheit 451, a Roma Odradek e la Mia Libreria, a Torino Byblos, a Varese Liber, a Venezia La Ginestra, a Genova L'albero delle lettere, fino a Locarno con Librerie Alternative).113
Per quanto l’attenzione alle tematiche dell’immigrazione e del confronto con altre culture siano elementi caratterizzanti di tutta la produzione Ediarco, alla produzione di autori migranti è riservata una collana, chiamata appunto Letteratura migrante e diretta dallo scrittore Kossi Komla Ebri, autore del
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www.ediarco.it.
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“bestseller” della collana, con 30 mila copie di vendita nel 2002, Imbarazzismi114. Al momento l’opera, nonostante il successo, non è stata inserita in nessun circuito editoriale “tradizionale”, mentre del romanzo Neyla, sempre di Kossi Komla Ebri, sono stati acquistati i diritti da una casa editrice spagnola. «Ediarco» favorisce nettamente scrittori esordienti, i più validi dei quali successivamente continuano la loro produzione con altre case editrici, talora di maggiori dimensioni; è il caso di Paul Ngoi Bakolo, che, dopo gli esordi con la «Ediarco», ha pubblicato per i tipi di Fabbri Editori Colpo di testa, nel 2003 e Chi ha sentito russare una banana? nel 2007. Se la maggioranza degli autori scelti è di provenienza africana, non va dimenticato che i tipi di Ediarco hanno pubblicato anche autori albanesi, come Spanjolli115, e sudamericani, come Jorge Canifa Alves116 Peculiare è l’operazione di editing svolta dalla «Ediarco» sulle opere dei suoi autori, come leggiamo nel sito:
Lo sforzo degli autori africani di calarsi nella nostra realtà è gravoso anche a livello linguistico ed è significativo il fatto che la maggior parte di questa letteratura sia scritta nella lingua ospitante. tanto che l'attività di editing delle opere è fondamentale nella redazione del Gruppo Solidarietà COME e di Edizioni dell'Arco ed è spesso fatta in comune con l'autore. Raro il caso di opere scritte direttamente nella lingua originale (in questo caso la traduzione è esternalizzata) perché in genere l'opera viene tradotta in lingua veicolare come il francese o l'inglese, e solo successivamente in italiano.
La collana «L’Italia che guarda», diretta da Pier Sandro Pallavicini, ha sempre come protagonista l'Africa, ma in prospettiva ribaltata: in questo caso sono autori italiani a parlare del “continente nero” e del rapporto quotidiano tra migranti in Italia. Pier Sandro Pallavicini, nel 2003, era già stato curatore, insieme a Jadelin Mabiala Gangbo, del fortunato L’Africa secondo noi117, in cui undici noti scrittori italiani, tra cui Tiziano Scarpa e Laura Pariani, si confrontavano con questo
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K. KOMLA EBRI, Imbarazzismi, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2002. A. SPANJOLLI, L’accusa silenziosa, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2007. 116 J. CANIFA ALVES, Racconti in altalena, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2005. 117 AA. VV., L’Italia che guarda, a c. di P. PALLAVICINI, Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2003. 115
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continente e i suoi abitanti. Vista l’ottima riuscita dell’esperimento, «Ediarco» ha continuato il progetto, estendendolo ad altri numerosi autori:
La collana “L’Italia che guarda” ribalta il punto di vista: sono gli scrittori italiani che parlano di Africa, di africani, di esperienze fatte là o di vita a contatto con chi è venuto fin qua. I testi li cerchiamo tra quelli non concilianti, e dunque tra quelli non necessariamente “politicamente corretti”. I testi li cerchiamo tra quelli scritti con l’urgenza di comunicare la propria verità, nella speranza di riuscire a guardare dentro ai meccanismi che regolano il complicato rapporto tra il nostro paese e quel continente, tra l’uomo italiano e quello africano. Che si tratti di storie tutte africane o tutte italiane e quotidiane, la speranza è quella di entrare nei risvolti delle coscienze modificate - nel bene e nel male - dai lontani decenni di colonie e missioni, e dagli anni più vicini del volontariato contrapposto a leghismi e razzismi. E non solo: la speranza è anche quella di dare un’occhiata al complesso e deviato immaginario nostrano, che, macinato da lunghi anni di tritatutto cinematografico e televisivo, nonostante il quotidiano contatto gomito a gomito con chi viene da quel continente continua - fuori da ogni tempo e da ogni senso - a considerare l’Africa niente più che selvaggia, misteriosa, sensuale.118
Infine, va ricordata la collana «Dentro e fuori», diretta da Roberto Mauri, che raccoglie inchieste e reportages dall'Africa, come Rwanda. La notte delle stelle cadute119, pubblicato nel 2005.
La collana «Kumacreola. Scritture migranti» dell’editore «Cosmo Iannone», diretta da Armando Gnisci, rappresenta un originale progetto di miscellanea di saggistica e narrativa, legate agli studi post-coloniali e alla letteratura migrante:
Il progetto di questa collana tiene insieme scrittura-pensiero-immaginazione e grandemigrazioneinterculturalità-creolizazzioneeuropea. Chi persegue questa poetica, sia che narri o faccia poesia o critica culturale, può trovare posto in questo autobus verso il futuro. Perciò, accanto e dopo Wakkas ci sono io, e dopo Garane Garane, Davide Bregola e Marie-José Hoyet o Arnold de Vos, europei che scrivono in italiano. Cerchiamo di costruire insieme le porte e le vie verso un altro mondo possibile.120
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Dal sito www.ediarco.it. R. MAURI, Rwanda. La notte delle stelle cadute., Barzago-Marna, Edizioni dell’Arco, 2005. 120 "Kumacreola" - Intervista a Armando Gnisci, www.comune.fe.it/vocidalsilenzio/kumacreolagnisci. 119
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Si tratta, insomma, di un catalogo onnicomprensivo, in quanto include sia Via della decolonizzazione europea e Mondializzare la mente121, di Gnisci, utili vademecum sugli indirizzi attuali della critica post-coloniale, sia il libro di interviste a poeti migranti di Bregola, Il catalogo delle voci122, sia romanzi e racconti di autori di svariate provenienze, dal romanzo di Christiana de Caldas Brito alla raccolta di racconti di Wakkas123; c’è spazio anche per uno sguardo al rovescio sul fenomeno della migrazione, ossia per testi di emigrati, come il romanzo Volesse la terra124 di Claudio Nereo Pellegrini, prete operaio italiano emigrato in Belgio, e un’antologia di racconti di Franco Biondi, psicologo e scrittore ora residente in Germania, dal titolo Vita emigrata125. L’obiettivo di «Kumacreola» è quindi quello di offrire uno svariato numero di testi che possano arricchire di nuovi spunti l’attuale dibattito interculturale, come Gnisci scrive:
La collana non è un ghetto per scrittori immigrati ma ha come proprio senso la produzione di una nuova contro-cultura europea, quella della creolizzazione delle vite e della conoscenza, delle opere comuni e della rivendicazione di un altro mondo possibile, attraverso la messa in azione di “compagnie miste sulla stessa via”, possibili compagnie felici. La strada opposta a quella della rivolta senza speranza contro un potere indigeno-europeo oppressivo e, anch’esso, senza speranza.126
«Kumacreola» include ormai dodici opere di vari autori migranti più o meno noti, dalla De Caldas Brito a Wakkas, Laila Wadia, Garane Garane. Vista la discreta fortuna della vendita su strada da parte di «Ediarco», anche la «Cosmo Iannone» ha pensato di usufruire di questa opportunità per la diffusione dei testi di «Kumacreola», affiancandola a quella della vendita on-line dei libri e organizzando una efficace rete nazionale di distribuzione, con agenti locali e
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A. GNISCI, Via della decolonizzazione europea, Isernia, Cosmo Iannone, 2004; ID., Mondializzare la mente, Isernia, Cosmo Iannone, 2006. 122 D. BREGOLA, Il catalogo delle voci, Isernia, Cosmo Iannone, 2005. 123 C. DE CALDAS BRITO, 500 temporali, Isernia, Cosmo Iannone, 2006. 124 Y. WAKKAS, Terra mobile, Isernia, Cosmo Iannone, 2004. 125 F. BIONDI, Vita emigrata, Isernia, Cosmo Iannone. 126 AA.VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., p. 36.
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regionali: tutto questo per combattere l’indifferenza del grande mercato nei confronti delle piccole realtà editoriali. Anche altre collane editoriali della Cosmo Iannone trattano del tema della migrazione, concentrandosi, però, maggiormente sulla produzione degli italiani all’estero: si tratta di «Reti», «I quaderni sulle migrazioni», «I memoriali» e «Scrittori Canadesi».
Come «Kumacreola», anche la collana «Mangrovie», della casa editrice «Traccediverse», non si concentra unicamente sulla diffusione di testi di autori migranti in lingua italiana, ma allarga le sue prospettive, includendo saggi e inchieste su culture lontane. Così la direttrice editoriale Silvia De Marchi spiega le caratteristiche e gli obiettivi del progetto:
Le mangrovie sono piante lacustri, dalle radici in apparenza delicate, quasi radici non radici, perché sono in superficie, attraversano il confine tra terra e acqua, facendo da ponte tra questi due elementi. Così, anche per lo straniero, la lingua dell'ospite è radice esile, perché non propria, non intima, eppure sopravvivenziale, perché consente di con-vivere con l’altro. Come la mangrovia, lo scrittore migrante affonda le sue radici nell'acqua, elemento dinamico e mutevole, pur ancorandosi alla terra della sua lingua, che è madre e proteggente. Nelle «Edizioni Mangrovie» trovano collocazione le opere di scrittori stranieri che hanno scelto la lingua italiana per esprimersi, facendo lo sforzo di uscire da sé, dal rifugio protetto e proteggente della propria lingua madre per raccontare andando presso l'altro, innanzitutto con la lingua. Essi dunque, migrano prima di tutto tra le lingue che vuol dire anche migrare tra i mondi. Con le loro scritture che ri-creano il nostro italiano ci consegnano i mondi diversi che loro abitano. Trovano posto inoltre, in queste edizioni, pubblicazioni che raccontano territori e scenari altri, rifiutando interpretazioni etnocentriche: saggi, diari, e reportage fatti di sguardi attenti su realtà altre.127
Il catalogo di «Mangrovie» ospita tredici testi, tra reportages, opere di narrativa e antologie; in particolare, due sono le raccolte di racconti, Lo sguardo dell’altro, che raccoglie i testi dei partecipanti al concorso omonimo e Torino è casa nostra, 127
Dal sito www.mangrovie.org.
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mentre I nostri semi - Peo tsa rona comprende testi poetici di autori del postapartheid. Di recente ideazione è la proposta di raccogliere materiale per una nuova antologia di racconti che abbiano per argomento le ultime leggi sull’immigrazione e gli eventuali disagi che hanno causato o causeranno agli stranieri in Italia. La casa editrice, inoltre, ha creato il «Progetto Scuola», proponendo percorsi didattici differenziati, rivolti essenzialmente ai docenti di materie letterarie, che possano, attraverso la lettura e lo studio dei libri «Mangrovie», sensibilizzare gli studenti sulle tematiche interculturali.128
Ci sono anche case editrici di piccole dimensioni che promuovono la diffusione di alcuni autori migranti, senza però inserirli in progetti specifici; una di queste è «Il Grappolo», che ha pubblicato La storia di Adelaide e Marco di Christiana de Caldas Brito e l’antologia Parole di Sabbia.
I tipi del «Grappolo» hanno
inaugurato, piuttosto, un interessante progetto rivolto a scrittori italiani emigrati all’estero, con la collana «Radici», che, appunto, raccoglie opere di poesia, narrativa e saggistica con l’obiettivo «di far conoscere in Italia poeti e scrittori venuti fuori da quell'amalgama che è la popolazione immigrata»129, come leggiamo sul sito della casa editrice. Nonostante l’allontanamento dal concorso Eks&Tra, anche «Fara» ha continuato a pubblicare spontaneamente autori migranti, sia nella collana «Terremerse», che comprende anche le prime tre antologie del premio Eks&Tra, sia nella collana «Imprinting»; non si tratta, però, di progetti editoriali specificatamente rivolti alla letteratura della migrazione, piuttosto di collane che guardano in generale agli autori emergenti, pur con una particolare attenzione al dibattito interculturale. La casa editrice leccese «Besa», adotta un tipo analogo di politica, dedicando ampio spazio agli scrittori migranti in tutto il suo catalogo, pur inserendoli prevalentemente nella collana «Lune Nuove»; le scelte vertono principalmente su
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Vedi Progetto Scuola su www.mangrovie.org. www.edizioniilgrappolo.it.
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autori di provenienza albanese, come Spanjolli, Kubati e Guaci, ma anche sudamericani, come Julio Monteiro Martins. Infine, neppure le Edizioni Missionarie Italiane di Bologna creano una linea editoriale apposita, ma danno alle stampe opere di autori migranti in collane differenti: Io…donna…immigrata…volere dire scriveredi Valentina Acava Mmaka, nella collana «Cittadini del mondo», e All’incrocio dei sentieri- i racconti dell’incontro di Kossi Komla Ebri nei «Sussidi Scolastici». In realtà, il programma editoriale in toto delle Edizioni Missionarie Italiane è legato al tema del “geograficamente altro”; elemento che ha reso inevitabile un incontro tra l’espressione editoriale degli istituti missionari e la nascente letteratura migrante.
Per quanto riguarda la saggistica, casa editrice di punta è la «Meltemi», che ha pubblicato ultimamente i saggi di Gnisci sulla letteratura migrante130.
2.3
Verso un’editoria multiculturale?
Negli ultimi anni, con il “riaffiorare alla luce” della letteratura della migrazione, pare essere tornato l’interesse di alcune grandi case editrici nei confronti degli autori stranieri italofoni. Come già accennato nel capitolo precedente, uno dei momenti chiave di questo “processo di apertura”, nei confronti degli autori migranti, è l’uscita alle stampe del romanzo La straniera di Younis Tawfik. Sulle origini del successo, del tutto
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Con la Meltemi Gnisci ha pubblicato: Creoli meticci migranti clandestini e ribelli, Roma, Meltemi, 1998; Poetiche dei mondi, Roma, Meltemi, 1999; Una storia diversa, Roma, Meltemi, 2001; Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione., Roma, Meltemi, 2003( comprende Il rovescio del gioco del 1992 e La letteratura italiana della migrazione, e in più due scritti inediti, Perdurabile migranza e Lettere migranti).
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inusuale, sino a quel momento, per uno scrittore straniero per la prima volta alle prese con l’italiano, si è interrogata Maria Cristina Mauceri:
Il successo del romanzo di Tawfik dipende da diversi motivi. La lunga permanenza di Tawfik in Italia gli ha consentito di conoscere la psicologia del suo pubblico potenziale. Da una parte La straniera offre ai lettori italiani uno strumento per entrare in contatto con il paese e la cultura di provenienza dè due protagonisti, anche soddisfacendo la loro curiosità per paesi esotici. Familiarizzando i lettori con realtà sociali e culturali diverse, quest'opera contribuisce a creare un'intesa tra il mondo degli immigrati e quello italiano. Nello stesso tempo li aiuta a capire i motivi per cui molte persone decidono di emigrare, e le loro difficoltà economiche e psicologiche in Italia. D'altro canto, tematiche quali la solitudine e l'alienazione sono universali, per cui anche il lettore occidentale può condividere i problemi dei protagonisti. Il successo letterario de La straniera è anche dovuto all'originalità del suo stile e della sua struttura. L'autore innesta la tradizione letteraria araba in un romanzo scritto in italiano e in gran parte ambientato nell'Italia contemporanea. L'inserimento della poesia nella prosa e il linguaggio poetico che si ispira a immagine arabe rivelano nuove capacità espressive dell'italiano. Il principio dell'alternanza è un modo nuovo con cui l'autore mette in contatto due culture. L'intento di Tawfik era di riaprire quel dialogo tra letteratura araba e letteratura occidentale che era iniziato in epoca medioevale. Credo che il successo del romanzo dimostri che ci sia riuscito.131
Anche Piersandro Pallavicini, sul sito «Nazione Indiana», cerca di motivare questo caso letterario, scrivendo:
[…] dotato di più appeal commerciale e spinto volentieri da un buon ufficio stampa è stato il caso di Tawfik. Che, senz’altro, ne La Straniera scrive da vero letterato (e d’altronde Tawfik è docente di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Genova) confezionando un buon testo dove l’immigrazione e i suoi traumi e drammi sono in primo piano, ma dove anche si scrive con ricercatezza, dove si cerca di fondare un ibrido linguistico, dove l’immaginario e il sapere mediorientali si sfumano e si sommano a quelli italiani. Un romanzo riuscito che, non a caso, coniugando temi forti ad un elegante approccio scrittoriale, è diventato il primo (e sinora unico) libro di un certo successo nella categoria “scrittori migranti”: ha venduto intorno alle 20.000 copie, ha ricevuto il Grinzane Cavour, elevando, in più, Younis Tawfik al ruolo di mediatore culturale tra la comunità araba e l’Italia.
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M. MAUCERI, La straniera di Younis Tawfik: un dialogo tra due culture http://arts.anu.edu.au/acis/abstracts/mauceri2.htm.
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Dal caso letterario Tawfik in poi, si sono moltiplicati i casi di autori migranti pubblicati da note case editrici. Einaudi, per esempio, nel 2003 propone, nel suo catalogo, una nuova autrice di provenienza guineana, Aminata Fofana, con il romanzo La luna che mi seguiva; nel 2005, pubblica il romanzo d’esordio dell’albanese Ornela Vorpsi, Il paese dove non si muore mai e il successivo La mano che non mordi, nel 2007132. La Vorpsi non è l’unica autrice proveniente dall’Albania ad attirare l’interesse di Einaudi: per gli stessi tipi, infatti, esce, nel 2008, Rosso come una sposa di Anilda Ibrahimi. Un’altra scrittrice albanese ha la medesima fortuna e viene pubblicata da una grande casa editrice: si tratta di Elvira Dones che dà alle stampe con Feltrinelli Sole Bruciato e Vergine Giurata, dopo aver edito le sue opere precedenti con Besa e Interlinea133. Ben tre autrici della medesima nazionalità, insomma, raggiungono, in pochi anni, il mercato nazionale. Sicuramente questo risultato è favorito dalla vicinanza, sia geografica che culturale tra l’Italia e l’area balcanica; vicinanza che, talvolta, implica riferimenti a temi e scenari non del tutto sconosciuti ai lettori nostrani, che, di conseguenza, si dimostrano particolarmente recettivi nei confronti degli scrittori di tale origine. Il fattore vicinanza non ha giocato a favore, invece, dell’area africana, i cui autori continuano a pubblicare maggiormente con case editrici minori. Tra le cause di questa scarsa diffusione possiamo includere in primo luogo la presenza, nella produzione letteraria africana, di motivi strettamente legati alla patria d’origine, di conseguenza “inattesi” e difficilmente accessibili al lettore italiano. A determinare questa mancata integrazione contribuisce, in parte, anche il fatto che, mentre gli autori di origine balcanica spesso svolgono professioni attinenti al campo letterario, o hanno, talvolta, esperienze pregresse nel settore già nel loro paese, gli autori africani, nella maggior parte dei casi, hanno composto le proprie opere essenzialmente a seguito della propria esperienza migratoria; ciò comporta, in molti casi, un approccio alla scrittura sicuramente più diretto e spontaneo ma 132
Il secondo libro, una breve raccolta di racconti intitolata Vetri rosa, è dato alle stampe con i tipi di Nottetempo. 133 E. DONES, Senza bagagli, Lecce, Besa, 1998; Bianco giorno offeso, Novara, Interlinea, 2004; I mari ovunque, Novara, Interlinea, 2007.
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nello stesso tempo, privo di quelle accortezze e ricercatezze che hanno sancito la fortuna della Vorpsi e di altri. Non si tratta, in ogni caso, di una regola generale: ci sono, per esempio, validissimi autori di area africana che, nonostante la notevole esperienza in ambito letterario, restano inspiegabilmente relegati nella piccola editoria, come KossiKomla Ebri, o autori di provenienza ispanoamericana che, pur essendo letterati di professione, come Monteiro Martins, continuano a pubblicare con Besa o Cosmo Iannone. Non è stata una questione di vicinanza culturale, invece, quella che ha decretato il successo di Randa Ghazy, quanto, piuttosto, la scelta di un tema al centro del dibattito politico contemporaneo e dal forte impatto emotivo, come il conflitto israelo-palestinese, nonché la giovane età dell’autrice, che pubblica Sognando Palestina134 a soli quindici anni; la stessa Ghazy ammette in un intervista di aver notato, talvolta, un interesse solamente superficiale nei confronti della sua opera e meramente rivolto alla sua precocità e all’argomento trattato.
Queste valutazioni segnalano, in ogni caso, un allargamento del mercato editoriale che tante riservatezze ha mostrato finora nei confronti di tale produzione. Associazioni no profit, ONLUS, piccole realtà editoriali, di cui si è parlato sopra, continuano e continueranno a divulgare autori migranti di recente affacciatisi nel nostro panorama letterario; nel frattempo, resta auspicabile una sempre maggiore apertura del mondo editoriale verso tutte queste nuove voci, ricche di spunti e originalità.
134
R. GHAZY, Sognando Palestina, cit.
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3. LA CRITICA SULLA LETTERATURA ITALIANA DELLA MIGRAZIONE.
L’attenzione intorno alla letteratura italiana della migrazione è stata piuttosto tardiva rispetto al fiorire di questa nuova produzione; i primi testi migranti, pur riscuotendo un discreto successo editoriale, non riescono a attirare l’interesse degli studiosi, che, inizialmente, li vedono come un fenomeno destinato a esaurirsi precocemente, senza lasciare grosse tracce nel panorama letterario. In un secondo momento, grazie all’opera di Armando Gnisci, vero e proprio scopritore della letteratura migrante in lingua italiana, sorge un innovativo filone di critica che si rivolge ai migranti nell’ottica di un’evoluzione degli studi post-coloniali. Osservando l’andamento della critica intorno alla letteratura migrante, è opportuno rilevare come la maggioranza dei contributi, in realtà, provenga al di fuori dell’ambito accademico, come giustamente rileva Franca Sinopoli nel suo utile compendio sul tema, in Nuovo Planetario Italiano:
non si può e si deve guardare solo alla critica letteraria accademica, ma anche a una molteplicità di interventi che vanno dalle interviste alle prefazione e postfazioni di volumi, anche antologici, a loro dedicati o da loro pubblicati, agli articoli online su riviste sovvenzionate dagli enti locali e dedicate alle culture dell’immigrazione, ai 'pezzi' giornalistici (dai quotidiani ai periodici più disparati), alle recensioni, ecc. In questi ultimi casi diciamo da subito che i temi prevalenti che interessano
il contesto
ricettivo
non accademico
sono
soprattutto
quelli prevedibili
dell’emigrazione e dell’immigrazione. Per lo più si tratta di critici “compagni di strada”, di docenti delle scuole medie impegnati nell’aggiornamento della didattica alla luce dei cambiamenti della società italiana e di operatori interculturali o giornalisti interessati al recente filone interculturale, che rilevano nei testi pubblicati dagli immigrati tematiche riguardanti principalmente il conflitto sociale tra indigeni (noi) e nuovi arrivati (loro), la perigliosità del viaggio migratorio e le diverse
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forme di elaborazione e di negoziazione della nostalgia del paese d’origine. I testi letterari pubblicati dai migranti diventano dei testimoni delle culture e della recente immigrazione o, al massimo, vengono prevedibilmente presentati come latori di messaggi di pace e di buona convivenza alla società italiana.135
Il recente fiorire di indagini accademiche è stato determinato da un ampliamento delle tematiche e degli stili, che hanno reso questa letteratura più elaborata e ricca di spunti critici. È da sottolineare, inoltre, la provenienza straniera di molti studiosi che si dedicano agli sviluppi della letteratura interculturale in lingua italiana, come Vanvolsem, docente all’università di Lovanio, o Chiellino, professore ad Augsburg e vari professori di università nord-americane, come ad esempio Simona Wright e Graziella Parati. Non è un caso che la maggioranza di questi provenga da università americane, contraddistinte da una spiccata attenzione per i cultural studies; l’apertura su orizzonti stranieri della nostra letteratura è stato oggetto di analisi antropologiche e sociologiche, prima che letterarie in senso stretto. È probabilmente segno di una tendenza a relegare questa letteratura in un ambito differente da quello italianistico, in apparenza quello originale; uno studio più diffuso della stessa, in questo senso, sta prendendo campo solo ultimamente, con l’iniziativa di Paccagnini di inserire un canone di autori migranti in una storia della letteratura italiana. Indagando sulle ragioni che hanno condotto queste discipline a concentrarsi sulla diffusione di autori migranti, Gnisci sottolinea che «queste scienze studiano la società, le culture e la formazione dei cittadini del e nel nostro presente/locale mondiale in maniera aperta e critica»; per questo «chi può ignorare che il nostro mondo è percorso attualmente dalle migrazioni, è alterato dagli squilibri determinati dalla globalizzazione e dai problemi delle società complesse e multiculturali?», ribadisce il critico, poiché «il loro (di tali scienze) studio è esattamente questo studio»136. È lo stesso Gnisci, però, in un articolo apparso su «Kumà», a mettere in rilievo anche le distorsioni di un 135 136
AA. VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., p. 89. A. GNISCI, Creolizzare l’Europa: letteratura e migrazione, cit., p. 96.
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«eccessivo e, direi, poco critico fervore metodologico per i cultural studies», da ricondursi a una «mediocre applicazione di questa metodologia di ricerca in senso imperialistico e etnologico»: Voglio dire “imperialistico”, perché l’interesse per l’argomento delle migrazioni sembra dettato dalla politica generale della mente nord-americana di conoscere, schedare e controllare tutti i fenomeni culturali che emergono dai vari mondi: una specie di scudo spaziale enciclopedico dell’egemonia planetaria degli yankee. Nel nostro caso, questa ideologia globale si caratterizza con due elementi aggiuntivi: il tema delle migrazioni è intrinsecamente ed elettivamente legato alla “nazione” italoamericana, alla sua immagine e al lavoro degli studiosi di Italianistica negli USA; e poi, un argomento del genere, permette di fare carriera nelle università negli States più facilmente che altri canonici (da Dante a Sanguineti, voglio dire), perché si presume di agire praticamente senza controlli e/o legittimazioni da parte dell’accademia italiana. Anzi, si può addirittura arrivare a sovvertire il modello “naturale” degli studi universitari delle letterature e delle culture straniere: è l’università anglofona nord-americana che fa la ricerca sulle letteratura della migrazione italiana. […] Voglio dire “etnologico”, proprio nel senso che la società italiana attuale viene studiata dal di fuori e da lontano, e viene rappresentata, quindi, in maniera falsamente oggettiva- proprio come se fosse un campo di indagine merceologica da trafficare “etnologicamente”, dagli immigrati a Versace, dal Papa a Benigni, da Rossini a Modugno, in un trionfo del post-modernismo più triviale e alienato.137
Con tutte le riserve del caso, bisogna comunque ammettere che è grazie all’interesse dei cultural studies che sono emersi studi settoriali su alcuni aspetti della letteratura migrante, come la poetica della migrazione e del discorso autobiografico o la questione della scrittura “translingue”; lavori più specifici, poi, hanno condotto anche a analisi di genere del fenomeno, come vedremo in seguito. Un’ulteriore aspetto da prendere in considerazione, inoltre, è il ruolo della tecnologia nella diffusione della letteratura migrante; una serie di risorse elettroniche comprendenti riviste online e siti web, nate a partire dai primi anni novanta, ha rappresentato un utile mezzo di promozione per moltissimi nuovi autori, che altrimenti avrebbero faticato a farsi conoscere. I vantaggi della rete
137
A. GNISCI, Per studiare la letteratura della migrazione in Italia, in «Kumà», n. 1, 2001, www. disp.let.uniroma1.it/kuma/critica/ForumItalicum.
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sono ben evidenti, come sostiene il direttore del periodico «Sagarana» Julio Monteiro Martins, intervistato da Luisa Carrer,:
Senz’altro Internet ha un ruolo decisivo nell’equilibrio necessario riguardo a quest’immagine. È evidente a questo punto che la rete è diventata – magari a scapito dei suoi creatori – il grande, e forse unico vero sistema di informazione alternativa a quella “ufficiale”. […] Questo accade soprattutto perché la produzione e l’emissione d’informazione attraverso Internet, almeno per ora, ha dei costi relativamente bassi, e quindi sopportati da quei gruppi sociali e culturali che non possono contare sulle abbondanti sponsorizzazioni dei loro detrattori. Se tutto questo sarà o meno in grado di alterare le tendenze neo-conservatrici, o per usare una felice espressione di Pasolini, il “fascismo consumistico” dei nostri tempi, con il suo carico di preconcetti e di razzismo, solo il tempo dirà.
E tra i motivi principali che l’hanno indotto alla scelta del formato digitale menziona:
la questione dei costi, ma soprattutto, più importante dei costi, la distribuzione, che è il nodo centrale dell’esistenza di una rivista culturale. Poi, una filosofia di inserimento: a) arrivare dappertutto, anche in altri paesi dove si studia la cultura italiana e dove vi sono lettori, soprattutto nelle università; b) arrivare gratis a tutti quelli che avranno accesso a un computer (e oggi questo accesso è libero nelle scuole e nelle biblioteche). È la democratizzazione assoluta di questo tipo di informazione; c) Aprirsi ai contributi dei lettori in un ambiente interattivo possibile solo attraverso le nuove tecnologie della comunicazione; d) Sperimentare nuove possibilità estetiche e organizzative di un sito internet letterario, ottimizzandone quindi il potenziale.138
In sostanza, l’uso di risorse alternative ha permesso la diffusione, su larga scala, di studi sulla letteratura migrante, sconfiggendo così la pregiudiziale di larga parte dell’ambiente accademico e permettendo il successo di molti autori migranti. Analizziamo, quindi, in un primo momento il rapporto tra la critica e la letteratura migrante e, successivamente, le principali fonti digitali sull’argomento.
138
L. CARRER, Reti di lettere migranti, in «Kumà, creolizzare l’Europa» n. 9-10/ 2005, http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma9.html.
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3.1
La critica sulla letteratura italiana della migrazione.
Come già anticipato, la diffusione della letteratura della migrazione in lingua italiana si deve ad Armando Gnisci, finora la voce più autorevole in questo campo. In realtà, il primo contributo sul tema appartiene a Remo Cacciatori e consiste in
un
breve
capitolo
dell’annuario
Tirature ’91139,
dedicato
essenzialmente al rapporto tra il mercato editoriale e le prime opere di scrittori stranieri in lingua italiana, ossia Salah Methnani, Pap Khouma e Tahar Ben Jelloun. L’esordio sul tema da parte di Gnisci, avviene nel 1992, con la precoce pubblicazione del saggio Il rovescio del gioco, in cui troviamo un’efficace comparazione tra il testo di Ben Jelloun e quello di Salah Methnani. Segue, nel 1998, La letteratura italiana della migrazione, primo compendio storico del fenomeno, anche se limitato al materiale edito nei primi anni ’90. Entrambi i saggi verranno raccolti successivamente nel volume complessivo Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, del 2003, in cui sono presenti anche gli scritti inediti Perdurabile migranza e Lettere migranti. Attraverso la lettura del volume, si coglie, oltre all’arricchimento della letteratura stessa, anche un ampliamento degli orizzonti critici; dall’analisi isolata di alcuni testi, svolta nei primi saggi, Gnisci approda ad un’attenta valutazione di un intero universo culturale, di recente formazione e tuttora in fase di sviluppo, di cui le opere iniziali di Salah Methnani e Pap Khouma dimostrano davvero di essere i «primi due libri di una serie ventura e auspicabile»140. In Poetiche dei mondi, del 1999, ribadisce l’importanza dei fermenti culturali messi in circolazione dagli scrittori italofoni e, nello stesso tempo, evidenzia la necessità di allontanarsi da una visione monoculturale ed “eurocentrica” della letteratura: 139 140
R. CACCIATORI, Il libro in nero. Storie di immigrati in Tirature ’91, cit. A. GNISCI, Creolizzare l’Europa, cit., p. 24.
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In un epoca della civiltà europea come quella attuale (siamo diventati: Eurolandia), immersa totalmente nel brodo della logica del mercato globale ( il Weltmarkt di cui parlavano già nel 1848 i giovani Marx e Engels) e sommerso dalla chiacchera scolastica post-moderna, dalla lussuosa noia decostruzionista e post-utopica e dalla logica totale del “pensiero unico[…] bene, in questa epoca intendo proporre un libro di poetiche; le mie, che spero possano farvi venire pensieri, vostri. […] Come è facile vedere, si tratta di mondi, culture e poetiche pensabili e praticabili nella pluralità della loro scioltezza e dei loro possibili incontri. Il che significa che non è consentito pensarli/e secondo le idee tipicamente europee di unità e sistema. Poetiche, culture e mondi che non convergono ma colloquiano; che non si assimilano secondo la logica dell’egemonia ma si traducono, si pareggiano e si meticciano; che non si arrendono ma che sono capaci di organizzare un loro futuro; se è possibile, insieme. Anche attraverso la fausta occasione di potersi incontrare in luoghi comuni, e imprevedibilmente, come sostiene Glissant. 141
Gnisci, in questo testo, introduce anche il tema della questione postcoloniale italiana, oggetto di una “collettiva amnesia culturale”, di cui parla in questi termini:
L’analisi critica deve scomporre, per ragioni prevalentemente euristiche, il caso composito in almeno quattro matrici elementari […]: la storia della emigrazione italiana durante il periodo che Hosbawm ha chiamato The age of empire 1875-1914, ed oltre, fino agli anni Sessanta del nostro Short Century. Una vera e propria “colonizzazione povera” della “Grande Proletaria” mondialmente diasporica […] storia dimenticata e pochissimo frequentata dai nostri letterati e intellettuali; la recente storia dell’immigrazione – altrettanto mondiale e povera- in Italia. Un fenomeno e un problema parimenti trascurati dalla cultura colta italica […]; la storia ignorata del nostro passato coloniale, europeo (Albania, isole greche) e angolo della sindrome è sicuramente quello più praticato dagli storici e dagli intellettuali, ma non dalla prospettiva che ho chiamato del “caso post-coloniale italiano”. Si tratta della millenaria storia dell’Italia come penisola centrale del Mediterraneo: una corsa dalle Alpi verso Sud-Est di terre depredate, sbranate, occupate e colonizzate da “stranieri”, fino all’unificazione sabauda.142
141 142
A. GNISCI, Poetiche dei mondi, Roma, Meltemi, 1999, p. 7, p. 9. Ivi, p. 38.
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L’idea peculiare alla base di Una storia diversa143 consiste, invece, nella formulazione di un canone alternativo della storia letteraria mondiale, basato su criteri e periodizzazioni differenti:
La mia proposta di una storia letteraria diversa serve a tentare di immaginare e riscrivere diversamente l’educazione del senso critico, del gusto e dello stesso immaginario politico delle giovani generazioni delle nazioni europee imperiali, insieme a quelle non imperiali e a quelle non europee, così avvantaggiate nell’immaginare e praticare il futuro. Serve da contributo da parte di un letterato di Eurolandia alla decolonizzazione e alla nuova educazione interculturale tra pari e stranieri. Se non vogliamo che essa venga fatta dai nostri governi, su precise direttive delle potenze economiche-finanziarie.144
I tre volumi di Via della decolonizzazione europea, pubblicati, i primi due, nel 2004 e il terzo nel 2007, propongono un percorso di letture adatte a “decolonizzare” la mente del lettore europeo ed eurocentrico; questi suggerimenti bibliografici, che spaziano da Said a Conrad, passando da Fanon e Todorov, si configurano come una sorta di sostrato culturale atto a fornire gli strumenti necessari a chiunque voglia avvicinarsi con mente libera ad autori migranti. Indicativo ciò che leggiamo nella quarta di copertina di Biblioteca interculturale. Via della Decolonizzazione europea, n.2:
Come fa la gente dell’Europa occidentale, la gente come noi, a pensare oggi gli irakeni e i cinesi, gli americani del nord e i caraibici e quelli del sud, i nigeriani e i ceceni, gli indigeni maya del Chiapas, i mapuche della Patagonia o gli aborigeni australiani? Che libri deve leggere e film vedere e musiche ascoltare per avviarsi a capire quelli che ci ostiniamo a chiamare “altri” e le loro storie, insieme alla nostra? Le storie del colonialismo, delle migrazioni, dei rapporti e delle miscele tra le civiltà, ad esempio? È questo che significa “interculturale”? E “multiculturale” che vuol dire, allora? Siamo sicuri, noialtri europei occidentali, di possedere un senso positivo e certo della “relazione interculturale”, oggi? Questo libro pone domande simili e altre ancora. E risponde? chiederete. Sì. Con consigli per libri, cinema, musica, siti web e luoghi da frequentare. Tutti, quasi tutti, reperibili in italiano.
143
145
A. GNISCI, Una storia diversa, Roma Meltemi, 2001. Ivi, pp. 52-53. 145 A. GNISCI, Biblioteca interculturale. Via della Decolonizzazione europea, n.2, cit., p. 4. 144
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La poetica di Gnisci si pone come obiettivo principale la costituzione di un’identità “creola” del pubblico letterario, sottendendo all’atto di creolizzare l’accezione elaborata da Eduard Glissant nel suo saggio Poetica del diverso:
La parola “creolizzazione” viene evidentemente dal termine “creolo” e dalla realtà delle lingue creole. Che cos’è una lingua creola? È una lingua composita, nata dal contatto fra elementi linguistici completamente eterogenei fra loro. […] Ecco perché penso che il termine “creolizzazione” si applichi alla situazione attuale del mondo, cioè alla situazione in cui una “totalità terra”, infine realizzata, permette che all’interno di questa stessa totalità ( in cui non c’è più alcuna autorità “organica” e dove tutto è arcipelago), gli elementi culturali più lontani ed eterogenei possono, in alcune circostanze, essere messi in relazione. Con risultati imprevedibili.146
Le analogie tra una creolizzazione caraibica e la questione dell’identità europea sono autorizzate dallo stesso Glissant, che a proposito del confronto sostiene:
La tesi che sosterrò è la seguente: la creolizzazione che accade nella Neo-America, e che sta conquistando le altre Americhe, è la stessa che è in atto la mia tesi è che il mondo si creolizza, cioè che le culture del mondo messe oggi in contatto in modo simultaneo e assolutamente cosciente, cambiano scambiandosi colpi irrimediabili e guerre senza pietà, ma anche attraverso i progressi della coscienza e della speranza che permettono di dire -senza essere utopici o, piuttosto, accettando di esserlo- che le umanità di oggi abbandonano, seppure con difficoltà, la convinzione molto radicata che l’identità di un essere è valida e riconoscibile solo se esclude l’identità di ogni altro essere. È proprio dentro questo cambiamento doloroso del pensiero umano che vorrei ci incamminassimo insieme.
147
L’apporto che, secondo Gnisci, la letteratura italiana della migrazione offre alla cultura nostrana è di inimmaginabile portata; gli spunti e le testimonianze lasciateci da questi nuovi autori nella nostra lingua, ci permetteranno di liberarci dopo secoli del “fardello dell’uomo bianco”, ritenendoci finalmente decolonizzati e liberi da preconcetti razziali:
146 147
E. GLISSANT, Poetica del diverso, Roma, Meltemi, 1998, pp. 18, 20. Ivi, p. 14.
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Il discorso condotto da Gnisci intorno alla creolizzazione dell’Europa apre, come si diceva, una prospettiva transnazionale e transcontinentale attraverso la quale inquadrare e comprendere l’attuale letteratura italofona degli scrittori migranti, la quale potrebbe essere intesa come capace di “mondializzare” una tradizione letteraria ed in immaginario- quelli italiani- attraversati da una pericolosa crisi di senescenza. La questione della “creolizzazione dell’Europa” acquista tuttavia, esplicitamente, nelle intenzioni di Gnisci, un significato più generale che travalica il campo e il destino delle lettere italiane ed europee […] Questo significato generale riguarda la possibilità di un cambiamento nella civiltà europea grazie alla sua nuova creolizzazione a seguito dei movimenti migratori che da almeno trent’anni stanno modificando la nostra società, attraverso una «contrattazione inventiva dell’imprevedibile e del regime dell’ospitalità profonda», alla quale rispondere, in quanto europei, con una progressiva ed inarrestabile decolonizzazione. 148
Sempre a cura di Gnisci, ma realizzato con la collaborazione di molti altri studiosi è il già citato Nuovo Planetario Italiano: si tratta della prima catalogazione completa e ad ampio respiro, che contestualizza storicamente il fenomeno della letteratura migrante e lo integra con brani antologizzati dai più importanti autori emersi negli ultimi anni. Il libro è strutturato in tre parti differenti, precedute da un’ampia introduzione a sua volta costituita da tre saggi, rispettivamente di Gnisci, di Maria Cristina Mauceri e di Franca Sinopoli. L’intervento di apertura verte su quelli che sono i temi più tipici della poetica del curatore del volume: la creolizzazione, la decolonizzazione europea, la natura storico-antropologica della migrazione e le sue conseguenze nella produzione letteraria dei migranti. Nella seconda parte, intitolata Diaspore europee e migrazione planetaria, la Mauceri si concentra sul tema della migrazione in letteratura, elaborando una sorta di «ricognizione della mobilità di letterati e scrittori a partire dall’Europa»149; segue un’ulteriore bibliografia che suggerisce ottimi approfondimenti sul tema. Il contributo della Sinopoli, già ricordato in precedenza, fornisce un’ottima mappa della critica sulla letteratura della migrazione in lingua italiana, segnalando ogni contributo degno di nota, per poi riportarlo nella bibliografia conclusiva.
148 149
AA. VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., p. 95. Ivi., p. 42.
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La prima parte, intitolata Il Planetario, consta di otto capitoli, in cui sono antologizzati i vari autori migranti, suddivisi in base al criterio geografico: l’Europa Balcanica, il Maghreb, l’Africa nera, le ex colonie italiane, l’Asia mediterranea, il lontano Oriente. La sezione si conclude con il contributo di Silvia Camilotti dedicato all’editoria, che abbiamo già citato nel capitolo dedicato alla questione. La seconda parte, intitolata La letteratura della migrazione nell’Europa Occidentale, mette a confronto il fenomeno nostrano con la già avvenuta internazionalizzazione delle altre letterature europee; in quattro differenti capitoli, infatti, si analizzano gli scrittori migranti tedeschi, inglesi e francesi, senza però riportare brani antologizzati. L’ultimo intervento della sezione è il già citato E se il Nuovo Planetario Italiano fosse un dittico? di Jean-Jacques Marchand, che auspica un confronto fecondo tra gli scrittori migranti e gli scrittori italiani nel mondo. La terza e ultima parte affronta in tre capitoli, il rapporto tra immigrazione e altre forme di produzione artistica, per l’esattezza, cinema, teatro e musica. Nei tre interventi, cambiano le prospettive di riferimento, ossia, per quanto riguarda il cinema, Angela Gregorini si sofferma in particolare sulla produzione documentaristica italiana incentrata sul fenomeno migratorio, mentre, per quanto riguarda il teatro e la musica, sia Maria-Josè Hoyet che Sonia Sabelli passano in rassegna le più importanti voci straniere che al momento operano nel nostro paese nei rispettivi campi.
Già un’altra raccolta di saggi, seppur di portata differente rispetto al Nuovo Planetario Italiano, aveva tentato un inquadramento generale del fenomeno; si tratta di Borderlines. Migrazione e identità nel Novecento150, curata da Jennifer Burns e Loredana Polezzi, e contenente scritti, oltre che di queste ultime, di Sergia Adamo, Clementina Sandra Ammendola, Lorenzo Chiesa, Derek Duncan, 150
AA. VV., Borderlines. Migrazione e identità nel Novecento, a c. di J. BURNS, L. POLEZZI, Isernia, Cosmo Iannone, 2002.
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Federico Faloppa, Deborah Holmes, Alessandra Masolini, Sante Matteo, Vincenzo Minutella, Catherine O’Rawe, Luisa Percopo, Kerstin Pilz, Susanna Scarparo, Stefania Taviano, James Walker e Kirsten Wolfs. Il risultato è un lungo ed articolato percorso di ricerca e di riflessione su come si possa delineare una nuova percezione dell’ “identità italiana” nell’attuale contesto di una società multietnica e globale. Al centro delle analisi in questione, il fenomeno migratorio, considerato nelle tre dimensioni fondamentali dell’esperienza storica e culturale italiana: l’emigrazione oltre i confini, la mobilità interna, le recenti immigrazioni verso l’Italia. I numerosi interventi offrono un panorama composito, legato a diverse sensibilità, maturate nei diversi contesti culturali del mondo.
In ambito prettamente “italianistico”, il capitolo curato da Paccagnini nella Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato151, rappresenta, per ora, l’unico canone di autori migranti inserito in una storia generale della letteratura italiana, precisamente all’interno del paragrafo relativo a Scrittori migranti in Italia dal 1990 ad oggi. La Sinopoli, pur rimarcando il meritevole intento di Paccagnini, esprime alcune riserve sul titolo, a suo avviso ambiguo, della trattazione:
L’ “ambiguità” del titolo è dovuta, a mio parere, al fatto che esso non copre il caso della letteratura degli stranieri in Italia, come d’altra parte appare una forzature introdurlo all’interno di un volume dedicato a La letteratura italiana fuori d’Italia. A quando un volume sulla letteratura dei translingui o, per usare il termine coniato da Giorgio Pressburger, dei nostri «scrittori senza lingua»?152
Paccagnini, dopo sottolineato come casi di scrittori allofoni in lingua italiana si siano già verificati in passato, analizza il fenomeno a partire dalle grande immigrazione dei primi anni Novanta proveniente dall’Africa, fino ai primi anni duemila, in cui, allargatosi l’orizzonte delle provenienze, tematiche, generi e tipi di scrittura si dilatano offrendo un ventaglio di proposte editoriali variegate. Il critico segue, in un certo senso, lo schema già varato da Gnisci, pur senza 151
E. PACCAGNINI, La letteratura italiana e le culture minori, in La letteratura italiana fuori d’Italia Cap. V, Vol. XII, de Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato, cit. 152 AA. VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., p. 101.
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utilizzare direttamente i termini “esotica” e “carsica”, ma rimarcando le differenze tra queste due fasi, in termini di qualità letteraria e ricezione da parte del mercato. Un altro esempio di “canone” degli scrittori migranti, è quello proposto da Graziella Parati in Mediterranean crossroads: migration literature in Italy153, in traduzione inglese.154
Indipendentemente dai lavori di Gnisci, il Centro Culturale Multietnico La Tenda si è occupato del fenomeno della letteratura migrante a partire dai suoi albori; nel 1999 è uscito La lingua strappata. Testimonianze e letteratura migrante155, a cura di Alberto Ibba e Raffaele Taddeo, in cui sono antologizzati brani di Kossi Komla-Ebri, Abdel Malek Smari, Saidou Moussa Ba, Hossein Hosseinzadek e altri, soprattutto di provenienza africana. Lo stesso Taddeo, responsabile del centro, continua a seguirne gli sviluppi; in particolare, molto utile è il suo lavoro del 2006 Letteratura nascente. Letteratura italiana della migrazione. autori e poetiche156, in cui l’analisi della letteratura italiana della migrazione è inserita in un contesto sociologico ben preciso. Nei primi due capitoli e in parte del terzo, l’autore analizza il fenomeno migratorio da un punto di vista storico, economico e legislativo; dopo essersi inizialmente soffermato sulle sue cause principali, tra cui e in particolar modo «la deprivazione economica nei paesi d’origine»157, successivamente passa a descrivere i fattori determinanti che hanno portato alla trasformazione del nostro paese da terra di emigranti ad approdo di immigrati. Il secondo capitolo è dedicato più specificatamente all’aspetto giuridico della questione, passando in rassegna le leggi italiane in materia dai primi anni Novanta alla più recente Bossi-Fini. È solo nel terzo capitolo, intitolato Immigrazione in Italia e produzione letteraria, che Taddeo affronta direttamente il tema della 153
G. PARATI, Mediterranean crossroads: migration literature in Italy, cit. In ambito strettamente italianistico è da annoverarsi il numero monografico Fuori casa in «Nuovi Argomenti», n. 29, 2005. 155 AA. VV., La lingua strappata. Testimonianze e letteratura migrante, a c. di A. IBBA e R. TADDEO, Milano, Ass. Leoncavallo Libri, 1999. 156 R. TADDEO, Letteratura nascente. Letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche, Milano, Raccolto Edizioni, 2006. 157 Ibidem, p. 154
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scrittura migrante, fornendo possibili risposte ad alcune problematiche ad essa connesse. In primo luogo, tenta di spiegare perché nel nostro paese gli stranieri si siano dedicati alla scrittura tanto rapidamente, quando negli altri paesi europei una produzione letteraria da parte degli immigrati si è avuta in tempi assai successivi al loro arrivo; secondo Taddeo, ciò è avvenuto perché non esiste «un altro paese in cui, da parte degli stranieri di prima generazione, si sia verificata una volontà di partecipazione così intensa come si è verificato e continua a verificarsi in Italia»158, probabilmente per colmare un vuoto di comunicazione che noi autoctoni, volontariamente o involontariamente, abbiamo creato sin dal principio. In realtà, il fatto si spiega anche con un semplice dato ricavato da analisi e statistiche, ossia l’alto grado di scolarizzazione degli immigrati giunti in Italia, i quali, se non hanno studiato la nostra lingua prima di arrivare, riescono ad apprenderla e a manovrarla con una velocità sorprendente. Il capitolo si conclude con un commento all’inevitabile e auspicabile mondializzazione della produzione letteraria, ora come non mai rivolta ad un orizzonte transnazionale. Nel quarto capitolo, Taddeo elabora un interessante confronto sulle diverse posizione assunte, negli ultimi anni, relativamente al nome con cui indicare l’opera degli scrittori migranti; non si tratta di un annoso dibattito tra studiosi ma di un interessante comparazione tra diverse visioni del fenomeno, che si conclude con la scelta dell’opzione “letteratura nascente”. Da qui in poi, Taddeo elabora una ricognizione del materiale uscito negli ultimi anni, con particolare attenzione ai concorsi letterari rivolti ai migranti, in primo luogo Eks&Tra. Il quinto capitolo, intitolato, Mappa della produzione della “Letteratura nascente”, presenta una rapida panoramica sui principali autori migranti, ai quali Taddeo dedicherà maggior spazio nelle pagine seguenti, dove, in due differenti capitoli, affronta le esperienze più significative, prima, nell’ambito della narrativa e, successivamente, nell’ambito della poesia. Per ciascun autore preso in esame, Taddeo stende una scheda, di lunghezza variabile a seconda della vastità e dell’importanza delle sue opere. Dei criteri di scelta già parla nel capitolo introduttivo, dove segnala che approfondirà: 158
Ivi, p. 24.
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a) i testi dei primi anni ‘90 scritti a “quattro mani” che hanno implicato la collaborazione di un coautore italiano;
b) i testi scritti e pubblicati a partire da metà degli anni ’90 che possono considerarsi del tutto maturi e autonomi sul piano della lingua;
c) testi pubblicati a seguito del concorso Eks&Tra, che … è da ritenersi importante all’interno del fenomeno di crescita e di sviluppo della letteratura prodotta dagli stranieri in Italia; d) testi di poesia in lingua italiana composti da immigrati159
Tra gli altri contributi esterni all’ambiente accademico, sono da segnalare i testi di Davide Bregola, Da qui verso casa160 e Il catalogo delle voci161, nei quali l’autore porta avanti un progetto di esplorazione della letteratura migrante. Si tratta, infatti, di due raccolte di interviste, rispettivamente a narratori e a poeti stranieri, residenti in Italia da tempo; lontani da fini didattico-critici, i lavori di Bregola hanno il pregio di scandagliare un universo ancora sconosciuto come quello degli scrittori migranti, mettendo in luce interessanti realtà individuali. Come afferma la Sinopoli, l’autore, utilizzando la tecnica dell’intervista diretta, realizza «un approccio questa volta veramente militante, nel senso che milita accanto agli scrittori stranieri che pubblicano le loro opere in italiano, i quali vengono sollecitati a parlare della propria poetica elaborata attraverso l’esperienza della migrazione»162. In Da qui verso casa, gli scrittori interpellati rispondono a questioni legate a interculturalità, tecniche narrative e rapporto con l’editoria italiana; nel Catalogo delle voci, invece, oltre alle classiche problematiche connesse con il fenomeno della scrittura “translingue”, si affronta più nello specifico la questione della composizione poetica in una lingua diversa. Centrale resta comunque la questione dell’editing, che, nel caso di scrittori alle prese con 159
Ibidem, p. 7. D. BREGOLA, Da qui verso casa, Roma, Edizioni Interculturali, 2002. 161 D. BREGOLA, Il catalogo delle voci, Isernia, Cosmo Iannone, 2005. 162 AA. VV., Nuovo Planetario Italiano, cit., p. 93. 160
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una lingua diversa dalla propria, diventa fondamentale ai fini di una diffusione e comprensione degli stessi; i pareri degli autori sono differenti tra loro, ma la tendenza generale è quella di accettare le revisioni imposte dall’editor, sempre che non stravolgano il corpo narrativo dei testi163.
Come già notato in precedenza, nella fase carsica della letteratura italiana della migrazione ha prevalso la dimensione antologica, essendo difficile per la maggioranza di questi autori, molto spesso esordienti, dare alle stampe singolarmente le proprie opere. All’interno di queste pubblicazioni, troviamo molto spesso interessanti studi dei maggiori esperti della questione, che hanno contribuito ad accrescere l’attenzione della cultura letteraria verso i nuovi autori migranti. L’esempio più significativo di questa tendenza è Ai confini del verso164, la prima raccolta organica della produzione poetica migrante, che si distingue per la maniera sistematica e aggiornata con cui è affrontato l’argomento e per il prezioso apparato critico-bibliografico. Nella Prefazione, Mia Lecomte, curatrice del volume, ripercorre le tappe di sviluppo della letteratura della migrazione, dagli esordi all’emergere di una produzione poetica, tappa più complessa e difficile da raggiungere, per la necessità intrinseca di un dettato linguistico elaborato; analizza, successivamente, il meccanismo che si impone allo scrittore migrante nell’abbandono della propria lingua madre, dalla sofferenza, implicita in questa recisione del passato, all’approdo ad un idioma d’elezione. Così scrive su «Sagarana», riportando le riflessioni svolte ai fini dell’elaborazione della prefazione al testo:
Quella di abbandonare la lingua madre è comunque sempre una decisione molto sofferta, un taglio con il proprio passato- le proprie origini, la propria storia personale, il proprio paese, inteso geograficamente e come spazio interiore, di cui si rischia di impoverire il futuro letterario- che alcuni decidono di non compiere mai. Ed è una scelta complessa, perché la padronanza di una lingua straniera, soprattutto come scrittore, implica un lungo percorso, con una zona di passaggio, 163
Alla questione dell’editing Bregola dedica un articolo pubblicato su «Sagarana», intitolato appunto Editing, www.sagarana.it/rivista/numero8/ibridazioni, in cui riprende alcuni punti delle interviste di Da qui verso casa. 164 AA. VV., Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, Firenze, Le Lettere, 2006.
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più o meno ampia, che i linguisti chiamano di “duplice incompetenza”, persi tra l’eco dell’idioma famigliare, che sbiadisce ogni giorno di più, e i palpiti vitali di una lingua che non si lascia possedere. […] Ci sono quindi sicuramente delle differenze fra la letteratura che si esprime in una lingua scelta liberamente, e quella in una lingua in qualche modo imposta dalle circostanze. Il secondo caso può riservare delle gradite sorprese, come molti “matrimoni combinati”, ma è nel primo a mio avviso che si riscontrano i risultati migliori, o perlomeno più intensi, proprio per quella componente di libertà – linguistica, contenutistica, morale- che nel rischio, è garanzia di uno spessore, di una forza, altrimenti irraggiungibili.165
In ultima istanza, la Lecomte propone un interessante riflessione sull’uso dell’italiano da parte di scrittori allofoni e sulla sua particolare natura di lingua non propriamente “post-coloniale”: È propriamente una caratteristica dell’italiano, infatti, lingua di importanza letteraria per eccellenza, quella di essere anche contaminata, impura, dialettale, di essere caratterizzata da una doppia spinta conservatrice/eversiva insita nella sua storia. Da sempre c’è stata la ricerca di una lingua unitaria, attica, ciclicamente messa in discussione, e oggi, in una situazione di stagnamento politico e culturale, in cui l’italiano è ridotto ad un balbettio contaminato da linguaggi pubblicitari e mediatici, in un appiattimento linguistico e letterario in cui la stessa esistenza della poesia è messa a dura prova, proprio questa lingua della migrazione, provvidenzialmente e naturalmente rivoluzionaria, vitale, rischia di restituirci finalmente – abortiti molti dei tentativi autoctoni costruiti a tavolino- l’italiano nella sua vera ricchezza, a farne finalmente cantare la poesia.166
Tornando alla raccolta, ad ogni autore antologizzato è riservato un capitolo, che si apre con una breve biografia e un’introduzione all’opera; i venti poeti e poetesse167 sono stati scelti in modo da ritrarre una selezione rappresentativa di nazionalità diverse, per l’esattezza quindici. Ben aggiornata è la bibliografia degli
165
M. LECOMTE, UNA MAPPATURA DI CICATRICI- riflessioni da una prefazione per un’antologia di poesia italiana della migrazione, in «Sagarana» n. 14, www.sagarana.it/rivista/numero14/ibridazioni3. 166 Ibidem, p. 4. 167 Gli autori antologizzati sono: Ubax Cristina Ali Farah, Hasan Atiya al Nassar, Anahid Baklu, Mihai Mircea Butcovan, Gregorio Carbonero, Arnold de Vos, Nader Ghazvinizadeh, Gëzim Hajdari, Pap Khouma, Thea Laitef, Egidio Molinas Leiva, Julio Monteiro Martins, Ndjock Ngana Yogo Ndjock, Heleno Oliveira, Lidia Amalia Palazzolo, Barbara Pumhösel, Candelaria Romero, Barbara Serdakowski, Božidar Stanišić, Spale Miro Stevanović
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autori e altrettanto interessante è la postfazione di Franca Sinopoli, Scrivere nella lingua dell’altro, in cui la studiosa ripercorre le tappe accademiche di trattazione del fenomeno, per poi illustrare il sostrato teorico di questo percorso critico e le principali problematiche che mette in evidenza (la letterarietà o meno di questa produzione, i criteri di identificazione di una produzione così vasta, il suo statuto di letteratura “minore”, in rapporto a una presunta letteratura “maggiore”). A chiusura del saggio, c’è un’aggiornatissima bibliografia comprendente le riviste, sia cartacee sia online, gli interventi accademici, i testi e le antologie, la banca dati online BASILI e tutti gli strumenti necessari a chi si accosti al fenomeno.
I testi di taglio generale finora analizzati rappresentano, in realtà la punta dell’iceberg degli studi sulla letteratura migrante; preponderante è, infatti, la presenza di scritti a carattere più specifico che analizzano unicamente aspetti singoli della questione. Quest’approccio “settoriale” è stato inaugurato da alcuni studiosi statunitensi che a partire dalla metà degli anni novanta si sono indirizzati al fenomeno, focalizzandosi su questioni affini al loro ambiente. Graziella Parati, per esempio, già citata per il suo primo tentativo antologico, si sofferma inizialmente sul filone della letteratura migrante composta da autori africani, denominando italophone voices168 i primi autori come Saidou Moussa Ba, Salah Methani e Pap Khouma; sulla sua scia, altri studiosi americani, di solito di origine italiana, approfondiscono questo campo, probabilmente poiché fortemente contiguo alla letteratura afroamericana169. Una prima indicazione in questa
168
G. PARATI, Italophone voices, in «Studi d’Italianistica nell’Africa austral/ Italian studies in Southern Africa», 8.2, 1995. 169 Altri esempi sono: A. MEDA, R. WILSON, Images of Africa in Italian Literature and Culture in «Studi d’Italianistica nell’Africa austral/ Italian studies in Southern Africa», 6.1, 1993; S. MATTEO, Italiafrica. Bridging, Continents and Culture, Forum Italicum Publishing, Stony Brook, New York 2001; S. PONZANESI, Contemporary Women Writers of the Indian and AfroItalian Diaspora, State University of New York Press, 2004. In Italia invece abbiamo: C. GHEZZI, La letteratura Africana in Italia: un caso a parte, in «Africa. Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto Italo-africano», a. XLVII, n. 2, pp. 275-286; A. GNISCI, La voce dell’Africa e il silenzio degli intellettuali europei oggi. Con particolare riguardo agli italiani, in ID., Poetiche dei mondi, Roma, Meltemi, 1999, pp. 25-40. Da ricordare gli atti del convegno di Caen, AA. VV., L’Afrique coloniale et postcoloniale dans la culture, la letterature et le societè italiennes. Représentations et témoignages, Actes du Colloque de Caen, 16-17 novembre 2001, Presses Universitaire de Caen, France 2003.
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direzione è rintracciabile nella prefazione, proprio della Parati, a Mosaici d’inchiostro170, la seconda antologia del concorso letterario Eks&Tra: in questa sede, la studiosa scrive che La promessa di Hamadì, di Moussa Ba e Micheletti è introdotto da un canto tipico della tradizione orale senegalese dei Griot o cantastorie, ripresa anche dal senegalese Madou Gueye Storia di Gora, il sarto di Ndiobenne, in un racconto inserito nell’antologia. L’esempio dei Griot serve a dimostrare come alla varietà dei luoghi di provenienza corrisponda una variegata tradizione letteraria che si nasconde tra le righe dei racconti, dei romanzi e delle poesie; la divulgazione di queste tradizioni letterarie può contribuire a creare uno spazio ibrido di collaborazione simbiotica tra culture. In questo caso, comunque, è significativo rintracciare la presenza di una tradizione letteraria d’appartenenza ben definita. In un primo momento, è naturale parlare di “letteratura afroitaliana”171, essendo in toto originaria di questo continente la prima letteratura migrante. Con la crescita esponenziale dei flussi migratori verso il nostro paese e il conseguente emergere di autori nativi dei luoghi più disparati, le possibilità di circoscrizione diventano sempre più numerose; per esempio, attualmente, a seguito dell’emigrazione di massa da queste zone, è fiorito un percorso di analisi legato agli scrittori di origine balcanica172. L’esempio afroitaliano, insomma, pur rappresentando solo un’ipotesi, apre la strada ad altri studi che si concentrano sul filone dell’origine nazionale-continentale degli autori migranti. Altre analisi mirate si possono effettuare partendo da un punto di vista tematico, per esempio dedicandosi all’uso della cifra autobiografica nel racconto di finzione; al tema hanno dedicato alcuni saggi sia critici statunitensi come William
170
AA. VV., Mosaici d’inchiostro, cit., p. 7. Il concetto di “letteratura afroitaliana” è introdotto da A. PORTELLI, Le origini della letteratura afroitaliana e l’esempio afroamericano, in AA. VV., L’ospite ingrato. Globalizzazione e identità, III, 2000, Macerata, edizioni Quodlibet, 2001, pp. 69-86 e da A. GNISCI, Scrittori africani della creolizzazione europea in «Palaver». Sull’argomento vedi anche G. GUZZETTA, L'italia prende il largo. Identità italiane in movimento (in italiano e inglese) in «Studi d'italianistica nell'Africa australe», vol. 21, 2008. S. PONZANESI, Il postcolonialismo italiano. Figlie dell’impero e letteratura meticcia, in «Quaderni del ‘900», IV, 2004, pp. 25-34. 172 Ad es. lo scritto di B. RONCA, Desir d’exister- gli scrittori migranti dai Balcani, in «Sagarana», n. 21, ott. 2005. 171
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Boelhower173 o italiani, come la stessa Sinopoli174. Il contributo della Sinopoli è ricco di spunti che individuano nuovi possibili percorsi da seguire da parte della critica sulla letteratura della migrazione. Innanzitutto la studiosa, nel riferirsi alla letteratura migrante, preferisce parlare di «discorso autobiografico», più che di autobiografismo vero e proprio, spostando «l’attenzione da un problema e da un piano teorico-formali ad un piano ermeneutico e ad un problema storicocritico»175. Dopo queste premesse generali, elabora un’analisi critica dei testi di Gezim Hajdari e di Salah Methnani, i quali «mostrano come il movimento attraverso il palinsesto della migrazione si serva del discorso autobiografico per approdare ad una poetica comune del sentire e della transitorietà, una poetica cioè che costituisce insieme il soggetto/testo ed il lettore come disappartenenti»; entrambi i due autori realizzano un «percorso s-formativo e deformante del soggetto autobiografico […] che richiama esemplarmente al lettore la qualità del migrante e del viandante come figure umane originarie attraverso le quali […] il discorso autobiografico si trascende in ritmo e corpo presente, spirito del corpo umano, essere nel mondo, mondanità compiuta». Il senso dell’analisi della Sinopoli riconduce all’«esistenza di una poetica della migrazione come poetica del sentire disappartenente e della transitorietà»176, legata alla sostanziale diffidenza italiana nei confronti di stimoli letterari “altri”; un messaggio che implica un allontanamento dalla visione elitaria e monocentrica della cultura tipica della critica nostrana.
Nella produzione attuale della letteratura italiana della migrazione colpisce la massiccia presenza di scrittrici; ad un’attenta analisi statistica delle opere e degli autori fino ad oggi pubblicati, è possibile rendersi conto di come le autrici 173
W. BOELHOWER, Immigrant Autobiographies in Italian Literature: the birth of a new text type, in «Forum Italicum», n. 35, 2001, pp. 110-128. 174 F. SINOPOLI, Poetiche della migrazione nella letteratura italiana contemporanea: il discorso autobiografico, in «Miscellanea Comparatistica», a c. di GNISCI, n.7, 2001, di «Studi (e testi) italiani. Semestrale del Dipartimento di Italianistica e Spettacolo», Università di Roma, La Sapienza, Bulzoni, 2001, pp. 189-206 ora anche in «Kumà», n. 3, www.disp.let.uniroma1.it/kuma/critica/sinopoli-critica-kuma3. 175 Ivi, p.1. 176 Ivi, pp. 2, 8.
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rappresentino più o meno il trenta per cento della produzione totale di questa letteratura, una percentuale enorme se si pensa al ruolo e alla presenza delle scrittrici nella letteratura italiana contemporanea. Proprio per questa ragione, il confronto fra due generi di scrittura, quello maschile e quello femminile, è diventato un tratto portante del discorso critico sulla questione. A inaugurare gli studi di genere sulla letteratura della migrazione è un contributo di Simona Wright177, in cui nelle prime opere di scrittrici migranti sono individuati una crescente maturazione linguistica, una consapevole appropriazione delle strategie narrative e un originale uso degli strumenti stilistici. La ricercatrice Sonia Sabelli inserisce, in seguito, un suo studio su autrici straniere italofone in un volume complessivo di saggi sulla critica femminista italiana, a riprova di una volontà di commistione tra letteratura migrante e letteratura italiana tout court178; della stessa autrice è presente un altro contributo sul tema nella rivista «Quaderni del ‘900»179. Di recente pubblicazione, è un volume di Silvia Camilotti proprio sulle scrittrici migranti e sul loro ruolo all’interno del panorama letterario nazionale180.
In ultimo, meritano di essere menzionate alcune esperienze di periodici cartacei che si sono dedicati, totalmente o in parte, alla promozione della letteratura migrante. È il caso, per esempio, di «Caffè», curata dall’Archivio Immigrazione di Roma e giunta, nel giugno 2006, al sedicesimo numero: nata nel 1994 dalla volontà di un ristretto gruppo di intellettuali, stranieri e italiani e alcuni studenti universitari, con lo scopo di dar voce alle espressioni scritte e orali degli scrittori immigrati in Italia, viene così chiamata «perché come il caffè che, provenendo dall'Africa, dall'Arabia, dall'America Latina, è diventato parte integrante, rito quotidiano della cultura italiana, così le voci degli stranieri che vivono in Italia 177
S. WRIGHT, Can the Subaltern Speak? The Politics of Identity and Difference in Italian Postcolonial Women’s Writing., in «Italian Culture», vol. XII, 2004, pp. 92-113. 178 S. SABELLI, Scrittrici eccentriche: generi e genealogie nella letteratura italiana della migrazione in AA. VV., Dentro/fuori/sopra/sotto. Critica femminista e canone letterario negli studi d’Italianistica, a c. di A. RONCHETTI, M. SAPEGNO, Ravenna, Longo, 2007, pp. 171-179. 179 ID., Lingua e identità in tre autrici migranti, in «Quaderni del ‘900», IV, 2004, pp. 55-66. 180 S. CAMILOTTI, Lingue e letterature in movimento: scrittrici emergent nel panorama letterario italiano, New York, Bononia University Press, 2009.
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diventano parte necessaria dei nuovi linguaggi che si parlano nel nostro paese. Il caffè è anche un luogo dove i viaggiatori fanno sosta, dove le persone stanno insieme e parlano tra loro; ebbene il nostro Caffè prova a svolgere la stessa funzione»181. L’originalità dell’iniziativa, consiste nell’aver individuato, tra i primi, l’importanza dell’apporto degli autori migranti nella nostra letteratura e aver promosso un progetto di capillare diffusione degli stessi:
Tra gli obiettivi di questa pubblicazione, rendere conto della molteplicità e della stratificazione dell'immigrazione nel nostro paese, portando alla luce quel patrimonio di saperi e di esperienze che merita di essere conosciuto e che spesso resta nascosto sotto un omologante sguardo paternalistico o, peggio ancora, intollerante; contribuire ad arricchire la nostra cultura, attivando quel dialogo che è essenziale perché si realizzi una armoniosa e proficua convivenza. L'ideale del multiculturalismo è stato spesso presentato in forme troppo superficiali e semplificate, che rischiano di smussarne l'incisività. Caffè, un po' in anticipo rispetto ad altre iniziative editoriali che seguiranno negli anni, ha provato a praticarlo, affermando già agli inizi degli anni novanta che la letteratura italiana è anche opera di poeti camerunesi, di viados brasiliani, di intellettuali tunisini, di ambulanti pakistani che si impadroniscono della nostra lingua, la cambiano, la sprovincializzano e ne fanno uno strumento per una comunicazione profonda, oltre che di lotta e di rivendicazione.182
La rivista cartacea «Paginazero», uscita alle stampe dall’aprile 2003 al dicembre 2007, per poi sospendere la propria pubblicazione, si proponeva di mettere in relazione la cultura italiana con l’Est Europa, per «far conoscere la bellezza e le contraddizioni della letteratura balcanica e la miopia di quella cosiddetta Occidentale, far raccontare da scrittori le loro storie vissute in zone di frontiera, pubblicare poeti inediti nel nostro paese e molto altro»183; in generale, al centro di ogni pubblicazione c’è stato il concetto di frontiera, di confine e di sconfinamento in paesi e letterature a noi ancora sconosciuti. Il progetto continua via web con un blog184, volto ad ampliarne le tematiche portanti, sulla scia di un percorso interculturale già inaugurato con l’attività editoriale; la rivista ha inoltre reso 181
http://www.archivioimmigrazione.org/caffè.htm . Ibidem. 183 Ibidem . 184 http://rivistapaginazero.wordpress.com 182
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disponibile online sul proprio sito185 la consultazione del sommario dei vari numeri e la lettura integrale di alcuni articoli, tra cui, ad esempio, l’editoriale conclusivo, in cui la redazione spiega come gli eccessivi costi di produzione e distribuzione abbiano portato alla chiusura del periodico.
Infine, è da ricordare la rivista trimestrale «Daemon - libri e culture artistiche», che approfondisce numero per numero differenti tematiche culturali, ha dedicato alcuni numeri passati proprio alla letteratura migrante186; dal suo sito187 è possibile accedere ad alcune interviste e approfondimenti sulla stessa.
3.2
Le risorse digitali sulla letteratura italiana della migrazione.
Al di là delle pubblicazioni, la letteratura italiana della migrazione sta conoscendo una discreta diffusione via internet. Alla base di questa di questa capillare presenza nel web c’è la volontà sia di superare i ristretti circoli degli addetti ai lavori, molto spesso diffidenti nei confronti di produzioni innovative, sia di raggiungere il pubblico scavalcando i tradizionali iter della pubblicazione a stampa, dato che per qualsiasi autore emergente pubblicare un’opera in internet è più facile che attraverso case editrici: come scrive Luisa Carrer, l’editoria digitale «riserva un’attenzione specifica e promuove la diffusione delle voci dei cittadini immigrati in modo paritario, economico e capillare, ciò che i mezzi tradizionali ancora non sanno fare»188 Passiamo quindi in rassegna le principali risorse digitali sull’argomento. 185
www.rivistapaginazero.net
«daemon 5 - Espiazione: Scrivere in un'altra lingua»; «daemon 9 - Italiano dove stai andando?»; «daemon 12 - Così vicini, così lontani». 187 www.daemonmagazine.it 188 L. CARRER, Reti di lettere migranti, cit. 186
82
Un supporto fondamentale per chi vuole seguire gli sviluppi della letteratura italiana della migrazione è, senza dubbio, BASILI189, la prima e unica banca dati sugli scrittori migranti in Italia, nata nel 1997 dall’iniziativa di Armando Gnisci e Franca Sinopoli, grazie a un finanziamento iniziale del CNR e ad uno successivo e più consistente da parte del Dipartimento di Italianistica e Spettacolo dell’Università La Sapienza di Roma. In oltre milletrecento schede sono raccolti tutti i riferimenti bibliografici di letteratura da e su scrittori migranti; non solo, quindi, le opere stesse degli autori stranieri italofoni, ma più in generale tutto ciò che principalmente o in senso lato li riguarda. A proposito di ciò, leggiamo nella presentazione di BASILI sul sito:
BASILI si sta arricchendo su due fronti. Il primo è quello dei testi di critica: saggi, articoli, recensioni; il secondo riguarda le opere (anche qui in senso lato) di scrittori la cui migrazione non rientra nel modello principe dell'emigrazione di massa che ha portato in Italia gran parte degli scrittori archiviati. Si tratta invece di un fenomeno molto più longevo e articolato, che riguarda i letterati in esilio e/o quelli che si sono avventurati in Italia per diverse ragioni (politiche, innanzitutto) o che hanno deliberatamente deciso di venire a stare in Italia.
190
In base al terzo Bollettino di Sintesi risalente al 20 settembre 2008, sappiamo che la
Banca
Dati
raccoglie
informazioni
su
trecentoventicinque
scrittori,
centottantuno uomini e centoquarantaquattro donne; inoltre emerge che il 33% degli scrittori archiviati sono africani e che i generi che prevalgono nella grande varietà della produzione letteraria sono quelli canonici della poesia e della narrativa. Le modalità di consultazione sono semplici e di facile accessibilità: è possibile effettuare ricerche secondo scrittore e opera letteraria, secondo critico e opera critica, secondo tesi universitarie o unicamente inserendo un qualsivoglia termine
189
http://www.disp.let.uniroma1.it/basili2001/default.htm/. Dal 1996 al 2000 è stata alloggiata presso il server del CISADU della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”. Dal 2001 è stata notevolmente potenziata grazie ad un consistente finanziamento del Dipartimento di Italianistica e Spettacolo, sul cui server è attiva dal 1 aprile 2001. 190 www.disp.let.uniroma1.it/basili2001/.
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all’interno dei vari campi, che sarà utilizzato come chiave di ricerca. Nel caso si voglia fare un analisi ad ampio spettro sul panorama della letteratura migrante, è possibile consultare tutti i contenuti di BASILI, “cliccando” sulla sezione d’interesse senza digitare alcuna parola; in questo modo si ottiene la visualizzazione completa delle sezioni della Banca Dati in ordine alfabetico. Per quanto riguarda le informazioni relative agli autori, le aree di ricerca comprendono nome, continente, nazione, lingua madre e lingua coloniale; per quanto riguarda le opere letterarie e di critica, invece, titolo, luogo di pubblicazione, anno di pubblicazione, casa editrice, genere letterario, codice ISBN. Infine, nella sezione tesi di laurea, possiamo reperire notizie complete su titolo, nome del tesista, anno sede universitaria, università, facoltà e disciplina. Il nome BASILI richiama quello di un’altra banca dati, BASLIE191, fondata nel 1992 da Jean-Jacques Marchand, in cui sono catalogati gli scrittori italiani emigrati all’estero che continuano a pubblicare nella loro lingua madre. La scelta non è sicuramente casuale, considerando la volontà, più volte ribadita da Gnisci, di studiare l’opera degli scrittori stranieri italofoni in comparazione con la letteratura degli emigrati italiani nel mondo; come ha sostenuto ne Il rovescio del gioco, la vera letteratura italiana della migrazione «inizia con le migrazioni di intere popolazioni di italiani verso tutto il mondo alla ricerca di lavoro a partire dall’immediato periodo post-unitario e trova il suo completamento nella letteratura scritta dagli immigrati, venuti in Italia da tutto il mondo in cerca di lavoro, a partire dall’ultimo decennio del XX secolo»192, andando a costruire il cosiddetto “dittico” di cui parla Marchand, nel capitolo ad esso dedicato in Nuovo Planetario Italiano193.
191
http://www.unil.ch/ital/scripts/letquery.pl. A GNISCI, Il rovescio del gioco, cit., ora in ID., Creolizzare l’Europa: letteratura e migrazione, cit., p. 193 J.J. MARCHAND, E se il Nuovo Planetario Italiano fosse un dittico?, in Nuovo Planetario Italiano, cit., pp. 463-472. 192
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Con lo stesso spirito di BASILI, opera la rivista online «Kúmá»194, che riporta testi di scrittori migranti, brani di critica sul tema, informazioni sulle novità editoriali e notizie sulle altre arti. Nell’editoriale inaugurale così Armando Gnisci spiega le basi della poetica di BASILI e «Kumà»:
Kúmá, nella lingua bámbara dell'Africa occidentale subsahariana, vuol dire Parola (in italiano rimanda a una famosa Sibilla, in giapponese vuol dire orso, in macedone indica la persona che metterà il nome al neonato, in wolof e in altre lingue altro ancora).
La nuova forma di BASILI & kúmá si manifesta in un momento in cui la coscienza che qualcuno ha avuto ed ha di partecipare ad un movimento epocale di creolizzazione della cultura europea comincia a diventare finalmente critica e attiva. La nostra società va cambiando. È già cambiata. BASILI & kúmá è ben attrezzata per aver tenuto (per gli anni 90) e tenere in conto ciò che è accaduto e per partecipare all'avventura alla quale andiamo incontro.
Gli stranieri che prendono in mano la nostra lingua per scrivere racconti e versi, teatro e sceneggiature, informazione e docenza, critica e politica, ci sfidano da una posizione che nessuno è in grado di vedere a questo modo: e cioè, come una presa di potere e di padronanza nei nostri confronti, più ricche e degne della nostra monotona e sterile senescenza, piena di affari e vuota di sogni. Un poeta albanese migrante ha vinto nel 1997 il premio Montale scrivendo versi in italiano, quando (mai) un poeta italiano scriverà in albanese? Questa è la scandalosa padronanza asimmetrica che ci viene proposta. Nessuno se ne accorge: noi sì. A permettercelo è la nostra vocazione che è diventata mestiere, che vuol dire passione e servizio: niente di più e niente di meno.
Secondo noi i migranti vanno producendo l'oltranza di un mondo nuovo dentro quello vecchio in cui sono approdati, e vogliono viverla e crearla insieme: con noi. Noi, però, non sappiamo nemmeno come rispondere, ancor prima di poter sapere come si fa. Possiamo imparare almeno a rispondere solo se costruiamo delle avanguardie, nella cultura e nella scuola, che tentino di agganciare la nostra marcia artritica alla loro corsa ardita.
BASILI & kúmá serve a questa poetica.
194
www.disp.lett.uniroma1.it/kuma.htlm.
85
Dall’homepage di «Kùmà» possiamo consultare i contenuti dell’ultimo numero, mentre a sinistra abbiamo accesso all’archivio dei testi pubblicati; l’area Sezioni racchiude, suddividendoli, i testi di narrativa, poesia, critica e commento, mentre Rubriche aggiorna i lettori su novità editoriali, iniziative per l’intercultura, link utili per la formazione, a livello universitario sui temi della migrazione. Di particolare interesse il campo Decolonizziamoci, che raccoglie materiale teorico a supporto della poetica di «Kùmà» stessa e del suo promotore:oltre a vari articoli di Gnisci, tra cui quello già citato sulla decolonizzazione, sono presenti contributi di altri comparatisti come Magdi Youssef, o inchieste di studiosi o giornalisti su problematiche in vario modo collegate alla migrazione o all’integrazione razziale.
Anche il sito dell’associazione Eks&Tra195 rappresenta un’utile risorsa sugli scrittori migranti: vi si trovano informazioni sul concorso, sulle attività per le scuole e sui vari Forum della letteratura della migrazione svoltisi degli anni precedenti, i cui interventi sono raccolti online e scaricabili, ma anche un consistente archivio formato da tutti gli elaborati pubblicati dal 1995 ad oggi fornendo, quindi, la possibilità di consultare direttamente via internet i testi raccolti nelle antologie del premio uscite negli ultimi anni.
La rivista «Sagarana»196, fondata da Julio Monteiro Martins e legata all’omonima associazione culturale, contiene una specifica rubrica dedicata agli scrittori migranti, denominata Ibridazioni e coordinata da Armando Gnisci, il quale la definisce in questi termini:
La letteratura delle ibridazioni sorge all'incrocio meticcio dei generi e ne asseconda la mischia e la disseminazione; vive dentro le migrazioni: da una patria a un'altra o a nessuna, da una lingua verso
195 196
www.eksetra.net. www.sagarana.net.
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e attraverso un'altra, da una pelle a una nuova. La letteratura delle ibridazioni e' all'opera anche in Europa ormai ed e' stata portata dal rovescio del destino coloniale delle sue nazioni imperiali, come un'opera di risarcimento scandaloso da parte dei mondi che abbiamo devastato e che ora ci nutrono, attraverso le nostre lingue: antiche e imprevedibilmente "renate". Un vero pasticcio, al quale e' salubre appartenere.
197
La sezione racchiude sia racconti e poesie sia interessanti saggi di poetica; per esempio, sul primo numero della rivista sono stati pubblicati, in anteprima, due componimenti di Hajdari e un racconto di Christiana De Caldas Brito, mentre nel secondo compare una poesia di Derek Walcott, utilizzata per la mostra fotografica In cammino di Sebastião Salgado, e un testo della saggista, traduttrice e comparatista Anastasija Gurcinova, che descrive un suo ritorno a Belgrado dopo svariato tempo. Sul sito di «Sagarana», si trovano anche i dibattiti tenutisi durante i seminari sugli scrittori migranti, svoltisi durante la stagione estiva tra il 2001 e il 2008, a cui hanno partecipato studiosi e scrittori, come Mia Lecomte, Amara Lakous, Clementina Sandra Ammendola e molti altri ancora; questi incontri hanno rappresentato un utile occasione di dibattito e di confronto sulle principali questioni legate alla scrittura migrante, come la scelta della lingua, il rapporto con l’editoria, le differenze culturali.198
Un’iniziativa, cui si è già fatto cenno, è quella dovuta ad alcuni protagonisti di questa letteratura, i quali hanno creato una nuova rivista on line, «El-Ghibli»199 diretta da Pap Khouma. Essa si inserisce in una prospettiva piuttosto ampia, ospitando sia brani di letteratura in lingua italiana di autori immigrati, scritti di migranti nel mondo sia di scrittori stanziali italiani e stranieri. Così la redazione presenta il progetto:
197
http://www.sagarana.it/rivista/numero1/gnisci.html. http://www.sagarana.it/scuola/index_seminari.html. 199 www.el-ghibli.provincia.bologna.it, 198
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El Ghibli è un vento che soffia dal deserto, caldo e secco. E' il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno, parola contaminata e condivisa. È la parola della scrittura che attraversa quella di altre scritture, vi si deposita e la riveste della polvere del proprio viaggio all'insegna dell'uomo e del suo incessante cammino nell'esistenza. Cosa contraddistingue la migranza, la scrittura migrante, al di là della lingua in cui si esprime? L'identità multipla di cui è composta, la stratificazione di destini e progetti futuri che ne guida la voce. Una formula ogni volta differente che fa sì che in ogni momento sia altra, straniera a se stessa, in un continuo rinnovamento della propria volatile essenza. El Ghibli, la rivista del vento, è la prima in cui la redazione è composta da scrittori migranti. Si tratta dell'unione collaborativa di individualità ben distinte, ognuna espressione di una composizione alchemica assolutamente unica ed irripetibile, risultato di una personale e composita avventura biologica e culturale, che nella differenza accomuna storie e destini. E per dare vita ad un progetto letterario che, muovendo dalla migranza, riconsideri consapevolmente la parola scritta dell'uomo che viaggia, che parte, che perde per sempre e che per sempre ritrova. Un progetto letterario che parli del viaggio in movimento e di quello immobile.200
Si tratta, insomma, di una rivista “di” e “su” scrittori migranti, che ha l’obiettivo di attirare l’attenzione dei lettori verso nuove produzioni e nuove culture che si mescolano con la nostra, unendo la leggibilità tipica della stampa alla facilità della navigazione in web. I contenuti sono organizzati in sezioni:
[…] "Racconti e poesie", per gli scrittori migranti in Italia, che usano l'italiano come lingua d'espressione letteraria; "Parole dal mondo", per gli scrittori migranti non italiani nel mondo; "Stanza degli ospiti", un tributo di ospitalità agli scrittori stanziali italiani e stranieri - i viaggiatori immobili - con cui è sempre più necessario interagire e collaborare per un arricchimento reciproco. "Generazione che sale", dedicata a bambini e ragazzi, italiani e migranti, vuole essere una sintesi di tutte le altre sezioni, una scommessa in un futuro in cui tutto questo sarà finalmente ovvio: l'importanza sovranazionale della nostra necessità di comunicazione orale e scritta, l'ordinaria transumanza del nostro destino di artefici di parole, la sacralità delle parole sempre più
200
http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/index.
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contaminate e bastarde che ci sopravviveranno, di quelle "reliquie - come le definisce lo scrittore ungherese Deszo Kosztolànyi - santificate dalla sofferenza e sfigurate dalla passione".201
I testi contenuti nelle sezioni sono presenti in sia in lingua originale che in italiano, corredati da note biografiche riguardanti gli autori. Si trovano, inoltre, una rubrica dedicata all’analisi storico-critica della produzione di scrittori migranti, denominata Recensioni, un’area di commento su questioni politicoculturale, Interventi, e, infine, un Supplemento dedicato, volta per volta, a differenti autori o anche a manifestazioni culturali, come il festival Evocamondi, promosso dalla stessa rivista. L’area Notizie è dedicata alla diffusione delle principali novità in ambito di concorsi, premi letterari e segnalazioni bibliografiche mentre dai Links è possibile accedere alle più utili risorse elettroniche su letteratura migrante, dibattito interculturale, informazione alternativa.
«Letterranza»202 è un sito ideato e gestito dall'Associazione PIEMONDO.Onlus e interamente dedicato alla letteratura degli immigrati espressa in lingua italiana, dove è possibile reperire le schede bio-bibliografiche di ogni autore, le recensioni di ogni opera registrata e altri documenti, nonché accedere ad alcuni siti personali dei vari scrittori, fra gli altri a quelli dell’italo-etiope Gabriella Ghermandi, dell’albanese Gino Luka, della guineana Aminata Fofana e del togolese Kossi Komla-Ebri. Consiste essenzialmente in una pagina di ricerca e archivio, piuttosto tecnica ma comunque dotata di riferimenti e contatti utili: Non è una rivista letteraria in rete, né uno spazio di espressione per scrittori emergenti (di questi ce ne sono gia abbastanza in rete e nei link ne segnaliamo quelli da noi ritenuti i migliori). E' semplicemente uno spazio dove si archiviano le biografie, le bibliografie, le recensioni e le interviste classificate per autori, per titolo d'opera e per ordine cronologico. Vi troverete le schede bio-bibliografiche di ogni autore, la scheda tecnica e le recensioni di ogni opera registrata e altri documenti: interviste, foto, documenti sonori... e anche uno spazio 201 202
Ibidem . www.letterranza.org.
89
d'incontro, di scambio, una bacheca virtuale di informazioni a disposizione degli autori e di chiunque si occupi di letteratura dei migranti.203
Dall’area Autori si accede all’elenco degli scrittori migranti ivi raccolti, di cui per alcuni è già pronta una pagina con biografia, bibliografia, recensioni e interviste mentre per altri è ancora in fase di preparazione; nella sezione Opere si possono consultare i libri catalogati secondo tre modalità, cronologica, alfabetica e alfabetica per gli editori.
«Voci dal silenzio»204 nasce da alcune esperienze di lavoro sull'immigrazione realizzate nell'ambito della scuola e del volontariato da alcuni collaboratori dell’associazione CIES di Ferrara. L'obiettivo è quello di dar voce, attraverso la scrittura e la letteratura, a persone, donne e uomini, spesso confinate nell'anonimato. Il sito ospita racconti e poesie di scrittori migranti, a volte alla prima
esperienza
editoriale,
nonché
pagine
dedicate
alle
indicazioni
bibliografiche, interviste a scrittori migranti e una finestra sulle culture della migrazione provvista di articoli di approfondimento. In particolare, di significativo interesse è il dibattito online sulla letteratura migrante, curato da Davide Bregola, che coinvolge, oltre allo stesso Bregola, gli scrittori Dario Voltolini, Ron Kubati, Tahar Lamri, Alberto Masala, Candelaria Romero e Piersandro Pallavicini; i nuclei tematici vertono sull’atteggiamento migliore da tenere nei confronti di queste nuove voci, sui veri o presunti difetti della scrittura dei vari autori migranti, sull’interesse da parte della critica italiana, sui principali motivi d’incontro tra scrittori autoctoni e non e sulle vie migliori con cui stabilirli, sul futuro editoriale di questa nuova produzione e su un coinvolgimento della stessa nei circuiti mainstream.
203 204
Ibidem . www.comune.fe.it/vocidalsilenzio.
90
4.
L’ESEMPIO DI ORNELA VORPSI.
Ornela Vorpsi si differenzia sotto vari aspetti dagli altri autori migranti, presentandosi come un unicum nel panorama di questa neonata letteratura. In primo luogo, è un’artista multiforme che si esprime non solo attraverso la scrittura ma anche attraverso le arti visuali, specialmente la pittura e la fotografia, che anzi, sono la sua occupazione principale. In secondo luogo, il suo scrivere in italiano è dettato non da una mera esigenza di diffusione delle proprie opere nel paese in cui risiede ma piuttosto dall’elezione consapevole di un idioma a “lingua letteraria”. La scrittrice, infatti, emigrò dall’Albania all’Italia a ventidue anni e, dopo avervi vissuto cinque anni, ora abita a Parigi: appare insolito, quindi, che non abbia preferito scrivere in francese. In ultima istanza, la scrittura della Vorpsi è da considerarsi emblematica nell’ottica di un’evoluzione tematica e stilistica della letteratura migrante; come si analizzerà successivamente, la ripresa di spunti autobiografici non consiste in un mero recupero del vissuto personale e la trasfigurazione raggiunge alti livelli di evocatività. Inoltre, attraverso le sue tre opere, la Vorpsi traccia un ritratto di donna complesso e ricco di sfaccettature su cui vale la pena concentrare l’attenzione. Nel suo romanzo d’esordio, Il paese dove non si muore mai205, Ornela Vorpsi racconta il dramma di un paese ferito e isolato dal resto dal mondo, attraverso il tragico percorso di crescita personale di una donna che diventa il tramite per approfondire una realtà a noi molto vicina ma assai poco conosciuta come quella albanese. La struttura del romanzo si presenta piuttosto discontinua, procedendo per quadri ben definiti; il nome della protagonista cambia tre volte, disorientando chi legge 205
O. VORPSI, Il paese dove non si muore mai, Torino, Einaudi, 2005.
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che solo a conclusione, ricomponendo i tasselli della narrazione, riconosce che si tratta di un unico personaggio. L’io narrante ha prima sette, poi tredici e poi ventidue anni e il suo nome è prima Ina, poi Eva, infine Ornela, pur essendo sempre la stessa persona, nel cui destino individuale si condensa la realtà di un popolo intero. La protagonista racconta i «dolori precoci» dell’età infantile e i duri riti di iniziazione nell’Albania comunista: la maestra che la picchia per aver portato a scuola vecchie cartoline italiane; il padre assente, sottoposto a un processo a porte chiuse e poi condannato a lunghi anni di detenzione; le penose visite al carcere ma anche i primi contatti con la sfera della morte e del sesso; la scoperta del corpo che cambia; le amiche con le quali confrontare e condividere questi cambiamenti. Descrivendo quella che in apparenza è una vicenda personale e autobiografica, la Vorpsi affronta la storia stessa dell'Albania, declinandola al femminile: dalla presenza asfissiante di una Madre-Partito che impone la condotta di ogni suo figlio, alla vita dolorosa in una famiglia matriarcale, dominata da una madre tradita dal marito che maltratta verbalmente la figlia, quasi a replicare la violenza morale che la società stessa impone sulle donne. L’attenzione verso la sfera sessuale è un’ossessione che fa da costante al tessuto della narrazione; la donna, nell’immaginario albanese è sia oggetto di fantasie erotiche che vittima di pregiudizi malsani che ne segnano il destino:
[…] ci sono regole che nello spirito di un popolo nascono così, in modo naturale, come le foglie su una pianta. Queste regole da noi si fondano su un’unica tesi: una ragazza bella è troia, e una bruttapoverina! – non lo è. In questo paese una ragazza deve fare molta attenzione al suo “fiore immacolato”, perché “un uomo si lava con un pezzo di sapone e torna come nuovo, mentre una ragazza non la lava neanche il mare!” L’intero mare!206
A questo proposito è interessante la riflessione di Raffaele Taddeo sull’argomento:
206
Ivi, p. 7.
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Come struttura di fondo c’è la pulsione erotica, che induce gli uomini a considerare tutte le donne capaci di tradimento e perversione. Il sesso femminile si cuce e si scuce con facilità. Sembra che la possibilità di una coerenza di fedeltà non possa esistere. E’ una pulsione erotica che rende anche l’anziano viscido nei suoi momenti prossemici con bambine; è quella che fa ritenere tutte le donne oggetto di desiderio e di piacere, ma anche soggetto di infedeltà e capaci di torbidi rapporti. A questa pulsione erotica non sfugge nessuno. E’ una struttura cruda e reale ad uno tempo senza finzioni. Sembra quasi che tutta la vita si muova in una lotta spasmodica fra la ricerca del piacere sessuale e la necessità di nascondere l’atto e gli effetti quasi sempre indesiderati.207
Nel romanzo si nota sempre una venatura ironica e, a tratti, surreale, anche perché questa attenzione malata nei confronti del sesso femminile si alimenta soprattutto di voci, dicerie, miti più che di contatti fisici o visivi. È infatti sufficiente un semplice sospetto per far nascere dubbi morbosi:
Quando passi per la strada, i loro sguardi t’incrociano penetrandoti sino al midollo, così in fondo che il tuo essere diventa trasparente. Una volta dentro di te, questo sbirciare diventa un’arte meticolosa. A casa si ripresentava lo stesso discorso: -Non ti preoccupare, - è mia zia che parla, - ti manderemo dal medico per vedere se sei vergine o no. […] Dato che crescevo senza padre e sembrava fossi carina, la questione della puttaneria mi si presentò molto presto. - Diventerai una gran troia, eh… eh…- la voce della zia o di una cugina aveva sempre un lieve tremito, quasi a dire «Eh, lo sappiamo bene noi», e scuotevano la testa leggermente: « Non si può fare niente, mica l’abbiamo scelto noi, una come te! Mangeremo la vergogna con il pane, ecco cosa ci resta da fare! Un giorno ci piomberai in casa col ventre riempito!» Mentre il nonno continuava a arrotolare le foglie di tabacco in silenzio, mia zia e mia cugina soffrivano terribilmente, come se stessero mangiando il pane spalmato di vergogna proprio in quell’istante.208
207
R. TADDEO, Il paese dove non si muore mai - Ornela Vorpsi, in «El-ghibli, rivista online di letteratura della migrazione» (anche in www.el-ghibli.provincia.bologna.it/).
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Quest’erotismo malato è probabilmente anche alla base di una concezione squilibrata dei rapporti familiari. Infatti, mentre la bambina, nonostante tutto, è posseduta da «un amore aguzzo per la madre»209, nei confronti della quale la riverenza si mescola a un costante senso di colpa, verso il padre non prova altro che ripugnanza, accentuata dal momento della sua reclusione, quando questi diventa solamente una persona da dimenticare, neppure degna di essere nominata. Durante la visita al carcere, la bambina non riesce a tollerare che a suo padre sia stato concesso di trascorrere una notte con la moglie, la situazione la repelle: Che fastidio! Mia mamma, questa cosa di buon odore chiamata mamma nelle braccia di lui.210
Il padre scompare dalle loro vite e la bambina scopre mano a mano particolari sempre più raccapriccianti sulla sua condotta dentro e fuori dal
carcere;
ricompare solo nella parte finale del romanzo, con sporadiche e segrete visite alla figlia, che ben presto scoprirà quanto esse siano dettate da un mero interesse:
Comincio a credere che il sentimento di non amore tra noi due sia reciproco. Lui viene a vedermi perché io sono il ponte della sua ossessione; la mamma. Lui la vuole perché lei è bella. La sua donna deve essere per forza bella. Più gli altri dicono che sua moglie è bella più lui la vuole. Lei è la più bella della città, lui deve riaverla.211
Su tutto vigila l’occhio, onnipresente e severo, della madre-Partito, che la narratrice sfida con una ironia che sfiora il gioco:
Ho saputo che il mar Ionio (conoscete lo Ionio, questo mare blu e trasparente che bagna l’Albania, la Grecia e una parte del sud Italia?), ecco adesso anche voi potete sapere che questo mare leggiadro e cristallino grazie a un partigiano albanese di nome Ion, il quale un giorno cadde per la patria colorando col suo sangue le acque profonde, di rosso scuro.212 208
Ivi, pp. 8-9. Ivi, p. 31. 210 Ivi, p. 39. 211 Ivi, p. 103. 212 Ivi, p. 93. 209
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Non è solo l’autorità del Partito l’obiettivo della scrittrice albanese ma piuttosto tutta una serie di caratteristiche tipiche del suo stesso popolo; eloquente, in tal senso, è quanto scrive in apertura:
Dedico questo libro alla parola umiltà, che manca al lessico albanese. Una tale mancanza può dar luogo a fenomeni assai curiosi nell’andamento di un popolo.213
La coerenza del lessico diventa quindi lo specchio in cui si riflettono le patologie di una terra: l’Albania descritta dalla Vorpsi è un paese « di polvere e di fango», in cui «il sole brucia a tal punto che le foglie della vigna si arrugginiscono e la ragione comincia a liquefarsi». Imputabile a questo calore è «la megalomania, delirio che in questa flora germoglia come un’erba pazza. Da ciò anche l’assenza di paura- a meno che questa non sia dovuta alla forma del cranio storto e piatto, dimora regale dell’insofferenza, se non dell’incoscienza.»214. L’Albania è, appunto, «il paese dove non si muore mai» poiché «La paura è una parola senza significato. Lo vedi subito nei loro occhi che sono creature immortali. La morte è un processo estraneo»215. Per fuggire dalla degradazione e dalla grettezza della realtà circostante, la protagonista si rifugia nella letteratura. La sua fantasia di bambina non trova risposte nelle favole del partito, tremendamente monotematiche («le favole del mio paese sono tutte piene di partigiani che quando vengono catturati dai nazisti mangiano la lettera del Partito, il trattato che devono diffondere, perché il segreto non cada nelle mani del nemico. Quando ha inghiottito l’intera lettera e viene torturato, il partigiano non rivela dove sono i suoi compagni-amici degli ideali e muore, mentre la neve bianca si arrossa del suo sangue rossissimo. […] Quando le fiabe parlano di animali, il leone è il partigiano, il lupo e lo sciacallo sono il fascista italiano o il nazista tedesco e la fiaba finisce sempre con il leone che
213
Ivi, p. 3. Ivi, p. 5. 215 Ivi, p. 6. 214
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divora il lupo o lo sciacallo»216) ma piuttosto in quelle dei fratelli Grimm o dei grandi scrittori russi o francesi. L’io-protagonista, come le ragazze di fine ottocento dinanzi alle letture proibite, scopre quei libri e deve iniziare a nascondersi:
Nel frattempo ho scoperto il mio nutrimento. I libri. Leggevo fino all’esaurimento di me stessa, dei miei occhi e a volte fino al ritorno della mamma: io non faccio in tempo a nascondere il libro – il libro è preso, censurato, chiuso a chiave nell’armadio. Era la più grande punizione che mi potessero infliggere, l’interruzione del libro interrompeva il mio scorrere d’essere. Impallidivo con le sofferenze dei personaggi creati da Kuprin, Turgenev, Lermontov, Esenin, Cechov, ritornavo sulle lettere come una droga. Ero libro-dipendente.217
Il bisogno di lottare contro linee educative di cui si percepisce l'assurdo conduce l’eroina, ormai adolescente, a proseguire il suo percorso di letture secondo direttive personali, in netto contrasto con i programmi prestabiliti dal regime. Così, consapevolmente inizierà la propria resistenza a scuola:
- Compagna maestra, ma se ne rende conto che l’universo non può essere senza fine? Chiuda gli occhi. Lo immagina senza fine, ma vede? Non è possibile, deve finire da qualche parte, altrimenti si sarebbe stancato anche se è l’universo. - Tu, Ornela, non hai le idee chiare in testa, manchi di convinzione di carattere ateo. Le tue insinuazioni possono essere giudicate di carattere mistico, alludi forse alla presenza di qualcuno? - No, non credo, non alludo a niente, ma non può essere senza fine, mi è impossibile che sia senza fine. - Ornela, adesso siediti, ti consiglio di studiare un po’ meglio il materialismo dialettico e la teoria dell’evoluzione della specie -. E poi continua rivolgendosi alla classe: - Dovete studiare per bene le opere fondamentali di Darwin, dovete essere armati davanti al nemico: mettiamo caso che Ornela esprima i suoi dubbi al nemico, lui ne può approfittare per metterla su una strada sbagliata; quella della religione, che, come sappiamo, è l’oppio dei popoli. Non mi resta che armarmi e mi sto armando con armi che mi fanno nascere un sacco di domande che però non oso più porre ( le domande possono suggerire delle insinuazioni di cui si potrebbe
216 217
Ivi, p. 93. Ivi, p. 34.
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approfittare il nemico), non mi resta che prestare fede, semplicemente, come due e due che fanno quattro.218
La lettura, quindi, diventa via di fuga e mezzo con cui lottare, capace, nello stesso tempo, di far sognare e di alimentare il dissenso, fino alla scelta dell'espatrio. Meta prescelta è l’Italia, paese oggetto di sogni infantili da quando la protagonista ritrova nei sotterranei della casa vecchie cartoline postali in cui «il cielo era blu beato, blu mistero, blu perfetto, le nuvole bianchissime come cotone in fiore, la casa sotto brillava di una luce senza ansia»219. Un altro ricordo d’infanzia legato all’Italia è il nonno che vagheggia costantemente il mito dell’Italia fascista:
- Si stava proprio bene ai tempi d’Italia, mica questa povertà come oggi, eh quante belle cose! Adesso non posso neanche esercitare il mio mestiere…220
La protagonista, ora di nome Ina, si ritrova a fantasticare nuovamente sull’Italia e i suoi miti nel collegio militare, assieme alle compagne, quando ognuna di loro, si immagina un amante straniero e affascinante:
Gli imperialisti americani, gli sciovinisti russi, i grandi capitalisti francesi e italiani sono pronti a sbarcare per distruggere l’esempio della parità in terra, l’esempio di una società che non ha più lotte di classe, che non conosce antagonismi nel suo seno, la società più evoluta mai conosciuta dalla coscienza umana. La sparatoria non è ancora cominciata e io con le mie amiche, con Ori in particolare, mi ritrovo a sognare l’arrivo dell’imperialista americano o dell’anarchico francese: - Di sicuro sarà bello, tu preferisci l’italiano o il francese? Io preferisco l’italiano, innamorata come sono di Lucio Battisti e Mina. A lei rimane il francese, che la rende felice[…] Tutte e due sognavamo il gesto patetico e teatrale con cui avremmo gettato il fucile e avremmo detto al nostro soldato i rispettivi «Ti Amo» e « Je t’aime».221
218
Ivi, pp. 69-70. Ivi, p. 21. 220 Ivi, p. 63. 221 Ivi, p. 82. 219
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L’epilogo del romanzo è proprio costituito dalla fuga verso «la terra tanto sognata, scenografia di ogni amore nascosto in fondo al cuore»222, in cui si ripongono tante speranze, immediatamente disattese all’arrivo in Italia, quando un giovane si avvicina alla madre della protagonista, rivolgendole una richiesta chiaramente offensiva ed esplicita ma non per lei che ne ignora ancora il senso:
Cosa succede, chiese Eva, e la mamma porpora di piacere disse: - Penso che volesse portarmi i bagagli. -Che ti ha detto? Lei si era sforzata di tenere in mente la frase. - Mi ha detto: «A quanto scopi?» Deve essere qualcosa che ha a che fare con le valigie. «A quanto scopi?» Anche Eva prestò attenzione per fissare nella memoria la frase detta da uno straniero tanto sognato; poi avrebbero chiesto alla cugina che sapeva bene l’italiano cosa volesse dire esattamente. Intanto la curiosità la lavorava, ma purtroppo, di tutte le canzoni che aveva imparato a memoria, non si ricordava della parola «scopare».223
Nel Paese dove non si muore mai, la Vorpsi dipinge un ritratto impietoso del suo paese d’origine e dei suoi compatrioti, afflitti da un’inguaribile tendenza al mascheramento che diventa superbia e li induce a sentirsi superiori persino agli inesorabili meccanismi di malattia e morte; nel romanzo c’è rabbia contro un regime oppressivo ma anche contro la violenza delle sue radici, insite nella stessa cultura albanese. La morte appartiene agli altri, «Ecco come muoiono gli altri», scrive la Vorpsi a proposito dei commenti mattutini degli albanesi sui decessi di gente conosciuta. La malattia e la morte sono gli unici stati in cui ci si permette di compatire qualcuno, di provare sentimenti differenti dall’odio e dall’invidia:
Nel nostro caro paese dove non si muore mai, dove il corpo è forte come il piombo, abbiamo un detto, un detto profondo: «Vivi che ti odio e muori che ti piango». Questo adagio è la linfa del nostro paese. Dopo la morte nessuna brutta parola, oserei dire nessun cattivo pensiero, ti tocca più. La morte è rispetto.
222 223
Ivi, p. 108. Ivi, p. 110.
98
(Il rispetto degli albanesi si deve meritare; cominciate a morire e lo sveglierete, una volta morti finalmente lo otterrete). All’improvviso gli uomini sono dotati di tutte le qualità, le donne di tutte le virtù. Si piange la meraviglia che eri.224
La vicenda dell’io narrante è paradigmatica ai fini di scrivere l’autobiografia di un paese più che di una donna, poiché, come scrive Raffaele Taddeo:
Il primo aspetto forse più significativo è dato dal fatto che la narrazione autobiografica, che risulta evidente anche con il cambiamento di nome della protagonista a focalizzazione interna, è diffusa in un clima socio-ambientale che
segna il ritmo e la successione delle vicende. E’ più la
dimensione della vita di una nazione bloccata nella dittatura comunista che non la crescita di Ornela (Ina, Eva) ad interessare il lettore.
225
L’invulnerabilità è una condizione propria solo di chi vive nei Balcani: fuggendo in un altro paese, infatti, gli albanesi si rendono conto di non essere così forti e invincibili. All’estero «cominciano a sentire che le vertebre dolgono…la spensieratezza lascia il posto all'angoscia…perché hanno capito che lì si muore, e loro morire non vogliono»226.
La seconda opera in italiano della Vorpsi si intitola Vetri rosa. Come nel Paese dove non si muore mai, la forma frammentaria della scrittura ne rende difficile una categorizzazione in un genere ben definito; ancora una volta, infatti, si susseguono capitoli apparentemente svincolati tra loro che, però, sul finale, ricompongono la vicenda unitaria di una protagonista femminile ricca di sfaccettature. In questo testo, la Vorpsi racconta nuovamente il mondo dell'infanzia e dell' adolescenza albanese, delle amiche, dei primi giochi alla scoperta del sesso e del corpo, della solitudine infantile, fino all'intuizione che può avere una ragazzina dell'amore e della morte.
224
Ivi, p. 11. R. TADDEO, Il paese dove non si muore mai - Ornela Vorpsi, cit. 226 Ivi, p. 111. 225
99
I vetri rosa del titolo sono i cocci di un oggetto misterioso che la bambina ritrova nel giardino della zia e successivamente si trasformano da poveri cristalli a stralci di un caleidoscopio di immagini femminili, metafora di una condizione di frammentarietà esistenziale, cifra tematica portante della raccolta:
In quel momento ero molto innamorata dei vetri rosa. Avevo trovato i pezzetti di vetro nel giardino della zia. Doveva essere qualcosa che si era rotto, magari un posacenere, non riuscivo a identificare quell’oggetto di vetro rosa. Riunii i pezzetti. Mi piacevano molto. Erano preziosi. Bianca era più in là, persa nella sua vita. Non le raccontai che avevo trovato quei vetri così belli e misteriosi perché li volevo tutti per me. Magari erano diamanti. Chissà. Nascosi i frammenti rosa nel mio fazzoletto e decisi di tenerne uno piccolo in mano. Lo osservavo facendolo rotolare fra le dita e la scheggia per rendermi felice assumeva i colori dell’arcobaleno.227
I nuclei tematici sono analoghi a quelli del Paese dove non si muore mai, anche se sono già presenti alcune evoluzioni che si concretizzeranno nel romanzo successivo; significativo l’incipit del libro che rimanda proprio alla morte, in antitesi all’opera precedente:
Sono morta per caso. Dico per caso perché ero ancora giovane e non ero malata. Ma tanto è frangibile l’umano che appena nato è già vecchio per morire. Dunque non dovrei dire che ero ancora giovane e non ero malata, ero un umano che poteva morire come tutti in qualsiasi momento, ecco.228
La morte, elemento inesistente nella mentalità albanese del romanzo d’esordio, qui si impone fin dall’inizio con la sua inesorabile presenza, diventando un ossessione indomabile della protagonista:
In vita ho molto meditato sulla morte. Non è trascorso giorno senza che il suo velo filtrasse le mie cellule; il suo pensiero non mi ha mai lasciata sola. Forse è stata la cosa più fedele di tutto quello che ho conosciuto e avuto nella mia breve esistenza di diciassette anni. Quando succedeva (molto di rado, quasi mai) che durante il giorno, per varie ragioni, il gusto della morte non mi lambisse, era sicuro che la notte avrebbe rimediato a questo trascurare. Nella notte qualcosa di scuro mi 227 228
O. VORPSI, Vetri rosa, Roma, Nottetempo, 2006, p. 12. Ivi, p. 5.
100
avrebbe svegliata e mi avrebbe fatto accendere la piccola abat-jour. Come prima cosa il respiro doveva calmarsi, poi riabituarsi alla stanza, riconoscerla, meglio pensare a cose gaie, c’era sempre il viso di una ragazzina che non era un’amica, ci limitavamo a scambiarci ogni tanto un saluto e niente più; ecco, quel viso non so perché mi rasserenava. Ogni volta che mi svegliavo col cuore all’impazzata, cercavo di ricomporre nel buio il faccino di Bardha. Non ho mai potuto spiegare il suo potere su di me, ma forse la giocondità che emanava mi procurava dei lampi di calma. Lei non l’ha mai saputo e lei non mi amava. Adesso che conosco la morte sono molto più tranquilla di quanto fossi in vita. La morte è pacifica, ti lascia l’animo in quiete e, se vuoi, puoi essere un ottimo osservatore. Da morti non si ha più paura di dire quello che si pensa. Il pensiero è oggettivo perché si è distaccati dal terrestre. Sono un perfetto spettatore. Niente fa male, contemplo solo come da bambini si contemplano i disegni luminosi e geometrici che crea il caleidoscopio nelle mani. Così faccio ruotare pianino i vetri colorati della mia esistenza. Preferisco quando la geometria dei disegni è bagnata dal colore rosa. Dai vetri rosa. In questo punto mi fermo sempre un po’ più a lungo. Ho l’eternità per scrutare, è vero, stato che non mi annoia perché è uno spettacolo che cambia di continuo.229
Nonostante l’io narrante, nel susseguirsi dei racconti, non accenni a migrazioni o spostamenti, l’influsso della forma mentis albanese sembra non appartenere alla mentalità della bambina che invece di considerare la morte un processo a sé estraneo ne è assorbita ancor prima di subirla; vedremo in seguito, ne La mano che non mordi, come solitamente la sensazione di fragilità e di precarietà del vivere, del tutto estranea a chi risiede nel «paese dove non si muore mai», sia avvertita solo da chi emigra. In realtà, nel dipanarsi disorganico degli episodi, è possibile rintracciare il momento esatto in cui la morte da incubo senza nome, tormento di tutte le sue notti, diventa una consapevolezza:
Cominciò ad accompagnarmi una cosa senza nome che mi accorciava il fiato. Non so dove avessi trovato questa cosa o dove questa cosa avesse trovato me. Avevo bisogno di luce la notte e di presenze umane. Stavo con gli occhi aperti, sveglia in tutto il mio essere per poter sentire i rumori fatti dagli zii o dai genitori. Quei rumori mi riportavano in vita. […] Avevo paura di una cosa senza nome che esisteva fortemente come me. […] Non so chi mi parlò della morte un giorno, non avevo mai sentito della morte prima, non conoscevo nemmeno la parola. Certo la vita mi aveva
229
Ivi, p. 7.
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risparmiato il suo commercio, ma il mio sotterraneo ne aveva l’esperienza. Capii che era la morte a accorciarmi il fiato. Senza sapere cosa fosse di preciso. Qualcuno pronunciò la parola morte perché mi rendessi conto che era lei la compagna ingombrante ma fedele. La sera, riunita a cena tutta la famiglia, si rumoreggiava tra piatti e bicchieri, risate e parlate, quando a un tratto la nonna cadde dalla sua sedia e morì. Oh! Brusio, oh! Si sfiorò appena il cranio avvolto dalla sciarpa bianca e il suo corpo schiattò rumor carne sul pavimento. I genitori e i parenti si misero a scuoterla spietatamente in tutti i modi. Lei restò inerte a quella violenza, perpetrata per amore. Le grandi cose non avvisano mai. [...] Presi il coltello, quello grande a denti affilati, per mettere fine alla mia vita. La nonna era morta e io potevo morire. Chi mi avrebbe salvato adesso dalle sberle? Dove avrei ritrovato il suo odore di riso e di latte? Il coltello non si decideva a incidere la mia carne. Dove doveva conficcarsi? Per morire meglio, morire del tutto. Aprire il torace? Le ossa avrebbero resistito, dure come sono. E la pancia? Troppo molle e informe per trafiggerla. Avrebbe schizzato sangue, le viscere avrebbero visto la notte, quella notte. Tenevo stretto tra le mani l’oggetto fatto di metallo e legno con la speranza che si animasse, si svegliasse per fare ciò che io non potevo: uccidermi. Il coltello stava inerte nelle mani, mi sdraiai sul cemento della veranda, le lucciole danzavano sempre intorno, mi accomodai in una posizione adatta, scelta per accogliere al meglio la morte. La lama avrebbe sicuramente trovato il punto ideale per aprirmi. Misi le braccia in croce, dischiusi le gambe, misi la testa di profilo cercando di morire più bellamente della nonna. Il coltello non si animò. Così per puro caso, rimasi in vita.230
Analogamente al romanzo d’esordio, in Vetri rosa la scrittrice filtra la realtà circostante attraverso lo sguardo infantile della protagonista, che si rapporta in maniera morbosamente curiosa sia con le sue coetanee che con gli adulti. La scoperta del sesso e dell’amore si manifesta precocemente, quando, da bambina, a un matrimonio, si rende conto di provare un sentimento nuovo e adulto verso un ragazzo, che ancora non la riconosce come donna:
La prima volta che mi innamorai avevo sei o sette anni. Lo incontrai a un matrimonio. Lui si chiamava, o si chiama ancora, Nardi. Nardi aveva circa trent’anni. […] In me era sceso il buio. Mi trovai seduta accanto a Nardi, la sua presenza mi faceva del bene, proprio come il viso di Bardha di notte. Anzi, per essere più precisa a calmarmi erano i bianchi denti di Nardi, quelli che vedevo 230
Ivi, pp. 25-26.
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mentre lui sorrideva. Quando lui era serio io ero ancora impadronita dal buio e da Ugolino. Comunque non potevo chiedergli di darmi un sorriso e poi spiegargli che la visione dei suoi denti mi calmava. Non dicevo niente e gli stavo a fianco ovunque andasse. Fu così che m’innamorai di Nardi. […] Nardi era fidanzato. Stringevo la sua mano, facevo di tutto per toccarlo. Anche a lui piaceva stare con me. Visto che ero una bambina, nessuno vedeva niente di male nel mio attaccamento per Nardi. Non so neppure se lui stesso capì il mio amore già da donna. L’idillio finì con il finire del matrimonio. Nardi se ne andò per la sua strada e io per la mia, la sposa verso l’allegria, il conte Ugolino continua a rodere il cranio nell’eternità. La sposa volò di sicuro in paradiso, il conte Ugolino rimane all’inferno, io e Nardi in purgatorio. A metà strada. Non so se potevamo scegliere. Non so se dovevo scegliere, ma mi andava bene così, un po’ d’inferno e un po’ di paradiso. Rividi Nardi quando avevo sedici anni. Lui era in bici ed era ingrassato. Era un uomo ormai, il ragazzo in lui era del tutto morto. Lo riconobbi dai suoi nei - li aveva su una guancia sola- poi il suo sguardo. Nardi, pensai, e osai guardarlo con il desiderio nascosto che mi riconoscesse. Nardi rallentò e sollecitato dal mio sguardo cominciò a seguirmi. Faceva quello che fanno gli uomini quando vogliono fermare una donna per strada e chiedere un po’ di sesso. Non mi aveva riconosciuta. Quel giorno Nardi per me morì.231
Nardi, così, si trasforma, da illusione infantile, a delusione dell’età matura, diventando un uomo come tutti gli altri: fa ciò che fanno tutti gli uomini dinanzi a una donna, la guarda come la guarderebbero tutti, con la stessa carica di ossessività erotica. Parte importante della sua infanzia è costituita anche in questo testo dai rapporti con le sue coetanee che se, nel Paese dove non si muore mai sono più che altro incentrati sulla condivisione di interessi ( «Elona ama Rudina, ma quest’amore si confonde con un’altra predilezione, e mai riuscirà a scoprire quale delle due sia più forte. Il soggiorno di Rudina è foderato di libri…solo libri, dappertutto libri»232), qui si basano su «giochi segreti», legati alla morbosa scoperta della reciproca sessualità: C’erano Bianca e Blerinda, poi. I nostri giochi segreti. Anche con Albana. Erano giochi che non si potevano fare con tutte le bambine. Solo certe amavano fare quel tipo di giochi. Poi, in strada, giocando a nascondino con gli altri bambini, li scordavamo quei giochi fatti prima. Dovevamo
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Ivi, p. 11. ID, Il paese dove non si muore mai, cit., p. 34.
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scordarli, dovevano restare segreti persino a noi. Provavamo un po’ di vergogna ma non riuscivamo a farne a meno. 233
È un mondo al femminile, quello descritto dalla Vorpsi, un mondo, appunto, di Vetri rosa, in cui la figura dell’uomo è un’ “assenza presente”, una lacuna che si cerca di colmare cercando il piacere tra persone dello stesso sesso, vagheggiando l’elemento maschile ancora lontano dalle loro vite:
I nostri corpi di bambine tutti lisci come fusti si strofinavano l’uno contro l’altro senza poter toccare qualcosa di più profondo, di più sottile che desideravamo e che non conoscevamo. Eravamo padrone di terre oscure che ci chiamavano, e seguivamo sottomesse le loro voci. Non sapevamo neppure se questo desiderio del più profondo, del più sottile, del più dolore, se questo sentire senza nome avesse veramente un luogo concreto nella vita. Quello che si produceva tra noi veniva trasmesso al nostro sangue, abitava i nostri corpi. Andava al di là di noi, della coscienza che avevamo in quel momento della vita e di noi stesse. Quella cosa senza nome, quel desiderio che intuivamo ci potesse colmare, riempire fino al dolore a noi ancora ignoto era l’uomo, la potenza dell’uomo, il suo penetrare le nostre anime, i nostri corpi.234
Si conferma quanto la “fisicità” e la “mascolinità” abbiano inciso sulla formazione personale della scrittrice, e, contemporaneamente, sull’infanzia e la crescita della protagonista; un conturbante sentimento, oscillante tra desiderio e repulsione, lega inesorabilmente la donna albanese all’uomo e la induce a cercare una presenza maschile anche in “giochi proibiti” di bambine. La figura maschile maggiormente delineata dell’opera è Vasco, oggetto di un amore diverso da quello che la bambina prova per Nardi. Se l’innamoramento per Nardi, infatti, è legato da un bisogno di rassicurazione infantile che la porta a attaccarsi morbosamente a lui, il sentimento che la lega a Vasco è connotato da una fisicità adulta e conturbante:
Lo vidi in un autobus. Di profilo. Aveva occhi neri che scendevano. Belli da far paura. E ne fui spaventata. La bellezza è una potenza cieca, ti prende, ti toglie il fiato, ti scava gli occhi perché
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ID., Vetri rosa, cit., p. 12. Ivi, p. 16.
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devono appartenere solo a lei, deve essere sbirciata solo lei, ti getta via nel dolore, ti riprende di nuovo, taglia la lingua, spezza le gambe, ti fa schiavo. La subisci contro la tua ragione. Il mio sangue scorse nel corpo con una velocità ignota. Guardavo solo quell’occhio di profilo. Il mondo era ridotto a quello, non c’erano più passato presente futuro. Era uno stato senza tempo sospeso nel nulla. Senza odori né rumori. C’era solo quell’occhio circondato da un flou eterno. Anche la mia compagna scura s’intimidì e in quella sospensione di tempo s’inchinò muta. Quegli occhi erano proprietà di una testa di ricci neri. La testa ricciuta sentì lo sguardo. Ci guardammo. Occhi mangiarono occhi, lui sorrise. Non pensai più che a questo; al sorriso senza inizio né fine, all’occhio che scendeva, alla maglietta blu, ancora all’occhio di profilo, ai suoi denti e l’occhio, e l’occhio. Col passare dei giorni le immagini cominciarono a sfuggirmi sbiadite perché le stancavo, le utilizzavo troppo, mi nutrivo di loro, ne abusavo, poi le inseguivo a perdifiato, le afferravo per i capelli, le strisciavo verso di me, le supplicavo di non abbandonarmi, le obbligavo a ripetersi e non-ripetersi ancora fino allo schermo bianco-giallo del niente.235
Il rapporto tra Vasco e la protagonista è fatto di sguardi che rimandano a una fisicità per ora solo immaginaria: da notare come ancora una volta la scrittrice metta in evidenza la “pesantezza” degli sguardi albanesi, quegli sguardi che « quando passi per la strada, […] t’incrociano penetrandoti fino al midollo, così a fondo che il tuo essere diventa trasparente»236. Il loro gioco di occhiate si protrae nel tempo finché non giungono a un contatto, che per la protagonista si rivela piuttosto deludente rispetto alle aspettative vagheggiate nel corso degli anni:
Ci siamo guardati io e Vasco per quasi un anno. Solamente guardati da lontano. Lui scendeva dagli autobus e aspettava che passassi. Erano sempre le sette e venti del mattino. Il risveglio mi portava come prima manifestazione del mondo Vasco. Ma il sonno mi lasciava sempre il gusto dei mondi della notte. Un dolore mattutino mi ripeteva a ogni alba che tutto è lontano, impossibile, inutile. Inutile. Non si stancava di ripetere appena aperti gli occhi che dovevo buttarmi dalla finestra presto, veloce, subito. Gettati, buttati, è amaro, così amaro. In quei momenti anche Vasco sfuggiva in altri mondi. Piano piano cominciavo a ritrovare la temperatura del vivere. Il sangue colorava di nuovo le mie guance, gli occhi gonfi tornavano alla loro forma di sempre, sciacquavo la bocca dall’aspro dei sogni, mi vestivo, la prima scossa della vita mi percorreva. Vasco sarebbe stato là contro il muro
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Ivi, pp. 27-28. ID.,Il paese dove non si muore mai, cit., p. 8.
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ad aspettarmi, solo perché ci vedessimo un attimo. Io da una parte del marciapiede, lui dall’altra lasciando passare gli innumerevoli autobus che lo portavano a scuola, e questo fino alla mia scomparsa. Qualche volta osò avvicinarsi; aspetta, ansimava, aspetta, non correre così, ti voglio parlare. Mi allontanavo fingendo di non volere, come potevo parlare con Vasco? Una brava ragazza non parla con gli sconosciuti, soprattutto quando sono uomini, soprattutto quando è tanto innamorata e ha paura di non essere bella da vicino, bella in quegli occhi che l’hanno sempre vista da lontano. Fuggivo pregando il mistero padrone di questo mondo che lui si facesse più vicino, che si precipitasse, che mi amasse di più. Volevo che morisse là sul marciapiede del mattino accanto all’autobus insieme a me, tutti e due dovevamo morire, o forse solo lui? Io l’avrei amato per sempre, non c’era bisogno della mia morte, il mio amore era eterno. Il suo suscitava dei dubbi. I suoi diciassette anni non mi piacevano, gli davano del tempo per conoscere altro. Volevo togliergli quel tempo. Era un anno che Vasco mi seguiva. Ne ero contenta, più tempo passava a seguirmi più il suo amore era forte. Aspetta, gridò un giorno mentre scappavo come sempre, ascoltami, perché altrimenti sarà troppo tardi! Mi chiamo Vasco Mula!, alzò la voce fiera, ricordati bene il mio nome, un giorno lo sentirai! Voleva dire che un giorno sarebbe diventato famoso, grande, un grand’uomo. Lasciai questo mondo all’età di diciassette anni, Vasco ormai ne ha sessantadue. È passato del tempo e lui non è diventato quello che voleva essere. La vita lo sta mangiando come fa da sempre con milioni di esseri umani, lo fa per sfamarsi, ogni tanto poi decide, per capriccio, di metterne uno nel vasto palmo della sua mano dove lo lascia riposare in vista della gloriosa luce del successo. Non fu il caso di Vasco. Baciai Vasco per la prima volta anni dopo la nostra storia d’amore fatta di sguardi. Non provai niente. C’era della rabbia nel mio baciare, stupore, Vasco l’amore non mi faceva più scorrere il sangue all’impazzata. Il bianco dei suoi occhi era percorso da capillari rossi. Carta insanguinata. Geografia della gioventù crudele. Fu il tempo che gli volevo togliere, quello che lui non doveva vivere a vendicarsi di me, prendendomi tutto.237
L’amore della protagonista è prettamente vagheggiato, si alimenta di sogni tormentati, mentre quello di Vasco è un sentimento che ha bisogno di contatto, di vicinanza; il contatto, per la donna, si rivela invece inappagante, utile solo a rivelarle la vanità delle costruzioni mentali che da anni la legavano a lui. Dal personaggio di Vasco, inoltre, emerge un’altra volta la “megalomania albanese”,
237
Ivi, p. 32.
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già ampiamente descritta nel romanzo antecedente e, in questo caso, ben esemplificata dalla presunzione che lo induce a prefigurare invano la notorietà del suo nome. L’io narrante trova ulteriore conferma del “lato oscuro” di Vasco, ben celato dalla sua avvenenza, dall’incontro con la sorella Arta. È un episodio sconcertante che si presta a svariate interpretazioni e che stupisce per la sua crudezza:
Sorella di Vasco. La incontrai andando al corso di danza. Una giovane donna che sedeva sul marciapiede cantando. Era inverno e faceva freddo. Lei vestiva d’estate, un abito sciupato e piedi scalzi. I suoi sandali si trovavano vicino a un albero due metri più in là. La carne delle cosce e delle braccia era livida, percorsa di giallo e magenta dal freddo. Cantava una canzone d’amore. Rallentai per sentire:
Mi eri primavera, mi eri odori, fiori e felicità, però sei svanito a precipizio, non so dove ti ho lasciato, nelle strade della solitudine, con me ci sono lacrime, non posso scordare te che amo tanto.
Tieni! Prendi la mia maglia, così hai freddo, le dissi, mentre lei continuava a cantare con la voce più bassa come se cercasse di nascondersi da me per poi all’improvviso alzare il vestito mostrandomi il suo sesso. Stette zitta, io anche, il crepuscolo scendeva in fretta e la strada si svuotava. Che fare? I piedi mi avevano incollata vicino a lei. Che faccio con questa donna, la porto a casa sua? All’ospedale? Le do da mangiare? Vado qui vicino e compro qualcosa? Chi posso chiamare? Lei mi prese il piede e lo teneva fra le sue mani. Feci per allontanarlo, ma lei lo strinse di più ed emise una voce per farmi capire che no, non dovevo togliere il mio piede dalle sue mani. Va bene, la rassicurai, va bene, ti lascio tenere il mio piede. Lei lo denudò e cominciò a leccarlo. Arta, smettila per favore! Il freddo mi congelava il piede tanto più che lei ci sbavava sopra bagnandomelo tutto. Non volevo più aiutarla, volevo darle una sberla e abbandonarla per terra dove l’avevo trovata, ma lei adesso grazie a uno stupido piede si era impossessata di me. Prese la mia scarpa e la lanciò verso l’orizzonte con una tale forza e rabbia mentre cercavo di capire come liberarmi. Ebbi il coraggio di pregare due o tre passanti di aiutarmi, aiutatemi, questa ragazza è pazza! Liberatemi , per favore! Io volevo darle solo una maglietta! Arta fece sorgere dal suo petto dei suoni feroci che fecero passare a tutti la voglia di tirarmi fuori dalle sue mani. Dalle mie parti si dice che
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all’ubriaco e al matto devi fare strada, ed ecco cosa fa la gente giusta! Arta, supplicai, per favore, devo tornare a casa, torna anche tu, devi rientrare, ormai è tardi, sai, i tuoi saranno preoccupati, poi fa freddo, lasciamo andare via sii brava. Allora vidi una cosa che mi fece orrore; lei piantò a un tratto un dito nel suo bell’occhio nero e cercò di farlo uscire dall’orbita. Con l’altra mano teneva fermo il piede piantandomi le unghie nella pelle. Mentre sprofondava sempre di più le dita nell’orbita e mormorava dolce: non fa mica male, non fa male, prova se vuoi. Ti toglie i pensieri, ecco, ti spiego meglio; se hai cose da scordare, e certamente ne avrai, questo è il metodo per scacciarle via. Così te ne libererai. Senza nessun grido di dolore e con una calma sconcertante, Arta cavò fuori il suo occhio e volle regalarmelo. La realtà cominciò a scivolare; case, strade, alberi correvano, fuggivano da noi, dal nostro luogo, da dove eravamo sedute. Non vivevo più, non ero più un essere umano, un animale si muoveva di fronte a me e mi voleva offrire un globo insanguinato. Ecco!, sentii la cosa chiamata Arta, ti do il mio occhio in segno d’amore, visto che mi hai lasciato leccare il piede. So che ami Vasco, continuò il suo viso sfigurato. In fondo ai tuoi occhi vedo la sua figura. Non mi stupisce, tutte le ragazze amano Vasco perché è bello. L’occhio di Arta giaceva nella mia mano. Nella confusione mentre volevo ridarglielo, il globo ruzzolò per terra. Con un rumore cristallino si aprì a metà. Due mezze sfere bianche. Alzai la testa. Arta sussurrò: non ti preoccupare, è un occhio di vetro, mi ero stancata di quel colore d’occhio, a casa ne ho altri. Di sicuro lo vuoi rosa no? So che ami i vetri rosa! Non mi puoi mentire! La palpebra che prima reggeva l’occhio di vetro era caduta come in un sipario di teatro. La scena era finita. È stato Vasco ad accecarmi, confessò la ragazza, giocando mi ha rotto l’occhio.238
La storia di Arta mette in luce un’altra volta i controversi rapporti tra donne che segnano tutta l’opera: l’inquietante sorella di Vasco prova verso la protagonista un sentimento ambiguo, che mescola istinto di protezione da un fratello di cui la giovane non conosce ancora la malvagità e una potente attrazione fisica che si manifesta con atti carichi di un erotismo malato, lo stesso che alimentava i giochi proibiti dell’infanzia della protagonista. L’occhio di vetro racchiude in sé elementi simbolici già presenti nello svolgimento: il vetro, innanzitutto, costante del romanzo, che fa pensare a una concezione deformata della realtà, vista attraverso uno specchio che ne altera le caratteristiche principali e il colore rosa, amato dalla protagonista, che rimanda alla dimensione femminile. Sul finale, l’accento è posto
238
Ivi, p. 36.
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sulla cattiveria di Vasco, che normalmente passa inosservata grazie al suo bell’aspetto che fa innamorare tutte le donne. La “disumanizzazione” di Arta rappresenta il culmine della tragicità del romanzo, concretizzando tutte le paure e le ossessioni della protagonista in questa figura di disperazione. A conclusione del libro, l’autrice accenna nuovamente a Blerinda e Albana, le amiche dei giochi infantili; contempla la distanza che ormai le divide, poiché «c’erano gli uomini adesso a giocare con noi», e le loro giovinezze differenti, apparentemente piene di una particolare bellezza da cui l’io narrante pare essere esclusa: Quando mi capitava di vederle da vicino, notavo il brillare della loro giovinezza uguale alla mia, sì, proprio uguale alla mia, solo che la mia non mi faceva commuovere come la loro. Com’era bella la loro gioventù. La gioventù vista da fuori, quella non vissuta dentro. Fuoriuscivano delle lacrime perché tanta bellezza mi spezzava il fiato, mi faceva dolere il cuore.239
Un punto di difficile analisi è la questione della morte dell’io narrante, anticipata nell’incipit del libro e ribadita durante l’episodio di Vasco, ma mai descritta nei dettagli, solo accennata e presa come dato di fatto nel resto della narrazione; è plausibile ricondurla non a una morte vera e propria ma a uno stacco dall’adolescenza albanese, inteso magari come uno spostamento. Nonostante nel racconto non ci sia nessun accenno specifico alla condizione di migranza, si potrebbe rintracciare un significato nascosto nelle espressioni relative alla lontananza tra lei e le sue vecchie amiche, contenute nel capitolo conclusivo: […] non eravamo in terre dove potevamo incontrarci, anzi, il luogo dove ci eravamo incontrate lo volevamo scordare.240
Le terre lontane potrebbero essere nuovo luoghi in cui le bambine cresciute sono approdate e, il luogo da scordare, l’Albania della loro infanzia e dei loro giochi proibiti.
239 240
Ivi, p. 37. Ivi, p. 37.
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Dopo aver affrontato, nel Paese dove non si muore mai e in Vetri rosa, l’infanzia e l’adolescenza albanese, con La mano che non mordi241 Ornela Vorpsi racconta di un viaggio nel cuore dei Balcani, per incontrare e aiutare Mirsad, «l’amico che sta male, che è chiuso in casa da cinque mesi, che non mangia più e non beve più, che vuole e non vuole morire»242. La visita diventa lo spunto per una serie di considerazioni e di storie, nello stesso tempo personali e collettive; è l’occasione per parlare nuovamente la lingua dell'infanzia, per riassaporare i sapori balcanici, per sentire nuovamente gli odori conosciuti, per riflettere sulle differenze tra l’Europa occidentale e balcanica, in tutte le sue particolari caratteristiche e in tutte le sue contraddizioni più profonde. Paradossalmente, la narrazione si apre con una dichiarazione di malessere contro il viaggio in senso fisico: Con il pensiero ho sempre voluto viaggiare l'intero mondo e al di là, se possibile. Con il corpo mi riusciva difficile. 243
La sensazione descritta è apparentemente discorde dalla condizione di “migranza” a cui sappiamo essere assoggettata la scrittrice-protagonista. In realtà, questa repulsione fisica è indice di una fatica esistenziale legata allo spostamento dal mondo in cui si vive a quello da cui si proviene, mediata da momenti di vuoto e di angoscia, che rimangono nel sangue e colorano la pelle del «verde veleno [come recita il titolo originale del libro] verde della denutrizione, quello tipico di chi ha le radici per aria»244, il prezzo da pagare per gli slavi che hanno lasciato la patria. Questa antinomia tra una mai sopita volontà di spostarsi in cerca di un destino migliore e il doloroso allontanamento dal luogo natale rappresenta la costante del romanzo, che procede così per immagini contraddittorie e oscillanti tra queste due condizioni, incarnando infine la concezione dello sradicamento:
241
ID., La mano che non mordi, Torino, Einaudi, 2007. Ivi, p. 5. 243 Ivi, p. 3. 244 Ivi, p. 51. 242
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In generale ho visto che la gente ama molto viaggiare. Il viaggio spinge le persone a sperare che in un altro paese, in un altro clima, in un’altra lingua, troveranno quello che manca là dove sono. Spesso ho percepito gli amici che partono come gente che si libera da una prigione. Perché la libertà sta sempre dall’altra parte. Finchè l’altra parte non diventa la tua dimora. Allora il viaggio verso l’altrove che non esiste ricomincia. 245
La scrittrice, nel romanzo, dipinge svariati ritratti di migranti, di balcanici che fuggono verso l’occidente o di occidentali che si confrontano con la realtà dell’est. In primo luogo Mirsad, che ha provato la sensazione di spaesamento per poi rientrare in patria, a Sarajevo, «perché l’Occidente non capisce le verità di noialtri dell’Est.- Perché noi abbiamo delle verità ben diverse dalle loro». Mirsad è patologicamente afflitto da questa sensazione e dice:
Ho perso l’ovvio, l’ovvio di esistere. Soffro di questo. Tutto qui. La maggior parte della gente non ha questa coscienza. Poi ci sono quelli a cui piove addosso come a me ma non li fa ammalare. Che fortuna! Io invece non l’ho sopportato. Adesso sono un individuo che va avanti con il corpo messo a nudo, intendo senza pelle, mica nudo così! Nudo così è niente! I miei organi sono a vista d’occhio, fuori, come esposti a una mostra, tutti li possono toccare, curiosare, osservare, spostare, pizzicare. […] Non ho più nessuna difesa.246
Causa scatenante di questo malessere, il trasferimento nell’occidente capitalistico, che lo rende «verde malaticcio»:
Il male è cominciato quando sono andato a vivere a Milano. Senza capire che la città grigia mi stava scuoiando. Piano, mentre mangiavo la pizza da Spizzico, mentre guardavo le belle donne…mentre cercavo un lavoro e un monolocale a Cesano Boscone. Non mi sono reso conto di niente. Il colpo l’ho avuto dopo, dopo essere rientrato, riposato, riscaldato di nuovo dal sole di Sarajevo. Non mi ero reso conto che stavo morendo. […] Quello che ho visto nel lussuoso capitalismo l’ho trovato straziante[…] Almeno nella tua città natale le pietre ti conoscono, anche se di notte si radunano per ucciderti. Là niente si raduna su niente.247
245
Ivi, pp. 7-8. Ivi, p. 52. 247 Ivi, p. 53. 246
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Mirsad non è l’unico a soffrire della sindrome di «chi ha le radici in aria»; nel corso della narrazione, l’autrice lascia spazio anche a racconti di altri migranti, come Dušan che già nell’aspetto mostra «i dolori da emigrato» ed ha «un’assenza negli occhi» che lo rende apolide ormai ovunque o l’apatico Beni, che non trova più nulla degno di interesse, «né progetti, né donna, né vita», o le due amiche che, inebriate da una “sovraesposizione” alla libertà occidentale diventano ladre di fragole allo zucchero, e poi di telefonate, a casa di una benefattrice, poiché «Tanto qui siamo in Occidente! Tanto qui tutto è gratis! […] Telefono, fragole, fragole e telefono finchè stupite si sono trovate fuori dalla porta. Ladre fatte e finite»248. Nello stesso tempo l’autrice ricorda anche coloro che, dall’estero, si spostavano in Albania e il senso di riverenza che suscitava la loro diversità, una vera mitizzazione:
Torniamo ai rari e sceltissimi stranieri ( dovevano essere dei comunisti) che visitarono l’Albania nella sua provetta di alti ideali; li guardavamo, anzi li osservavamo con minuzia, quei diversi a cui non potevamo avvicinarci. Non erano umani. Non si poteva nemmeno rivolgere loro la parola! Erano un paesaggio di forma umana. Anche parlarne era rischioso, diventavi subito una spia. Cerchiamo di vivere tranquilli. Non facciamo sogni più lunghi della nostra vita.249
È, però, soprattutto l’io narrante a riflettere sul senso di spaesamento che le provoca il ritorno nei Balcani, sulla percezione dicotomica di lontananza e di appartenenza a uno stesso retroterra culturale e linguistico. Ornela è «una perfetta straniera» ma nello stesso tempo è «l’occidentale che scende nei Balcani! L’occidentale che li capisce!»250, che riconosce come propri i sapori e gli odori di Sarajevo, che comprende «l’esperanto balcanico»251 e le «occhiate balcaniche»252 degli uomini locali («So cosa vuol dire il loro silenzio.[…] So che il loro silenzio è finto, che sono orecchie drizzate, occhi aperti anche se lo sguardo sembra
248
Ivi, p. 15. Ivi, p. 47. 250 Ivi, p. 45. 251 Ivi, p. 28. 252 Ivi, p. 26. 249
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perdersi nella tovaglia.»253). Affrontare nuovamente il passato è troppo doloroso («L’odore dei Balcani risveglia il passato che fa male. Di nostalgia, d’amore, di rancore, di desolazione, d’impotenza, di lontananza, di vicinanza.»254) e la costringe alla fuga, non prima, però di essersi procurata un frammento di Balcani da portare via con sé, i byrek, che, con un meccanismo memoriale analogo a quello della madeleine proustiana, faranno emergere ricordi e sapori dell’infanzia. Comincia qui il proprio mito:
Vado a comprare del byrek. Lo voglio portare a casa, a Parigi. Questo cibo che mi ha nutrito per tutta l’infanzia lo amo ancora. Mastico mentre sono mangiata dai ricordi. […] Ho la sensazione di avere con me un alimento biblico. Una volta che i miei amici occidentali mangeranno la pasta dai Balcani saranno trafitti da una spiritualità che non conoscono.255
La mano che non mordi si configura come seguito ideale del Paese dove non si muore mai; se il romanzo d’esordio della Vorpsi si concludeva con l’espatrio delle protagoniste, ancora piene di speranza per un futuro lontano dall’Albania, in questo suo ultimo libro la scrittrice descrive lo spaesamento conseguente all’aver abbandonato la propria patria e le proprie radici, umane, linguistiche e culturali. Il richiamo al primo romanzo è evidente anche dalla ripresa di alcuni nuclei tematici già precedentemente approfonditi, come la superbia del popolo albanese, per cui «è indubbio, l’Albania è il centro del mondo, ma per adesso purtroppo lo sanno solo gli albanesi»256 o il sentimento morboso della protagonista nei confronti della madre, «un amore aguzzo» nel Paese dove non si muore mai, causa di dolore e solitudine in Vetri rosa, ma che, in questo romanzo, diventa quasi un istinto salvifico, taumaturgico, di protezione da parte di chi, essendo emigrata, ha conosciuto altri aspetti della realtà che nel proprio paese non sarebbe stata in grado di comprendere:
253
Ivi, p. 26. Ivi, p. 43. 255 Ivi, p. 86. 256 Ivi, p. 19. 254
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Quanto avrei voluto conoscere mia madre da piccola! Le avrei insegnato a essere meno severa con tutto! Con la vita, con se stessa! con me! Quanto avremmo potuto giocare! Le avrei insegnato a mentire! A prendere in giro gli uomini! A mangiarli!257
Il malessere legato al viaggio che l’autrice menziona all’inizio, introduce le tematiche della paura e della morte, elementi assenti dalla cultura albanese, secondo quanto letto nel Paese dove non si muore mai:
La morte rimane una cosa seria. Difficile prenderla alla leggera, sa imporre rispetto ed esige una considerazione assoluta. […] Ero fradicia di vergogna per essere così attaccata alla vita […]. Quando l’enorme macchina prendeva velocità sulla pista […] il mio corpo si riempiva di un liquido inesplorato fatto d’ebbrezza, mentre la paura seguiva fedele in parallelo.258
Il fatto che la protagonista del romanzo non sia immune dalla paura di morire e che, anzi, avverta questo evento come potenzialmente vicino, fa capire quanto la fuga dal proprio paese abbia influito nella creazione di nuovi parametri culturali e, in generale, di una differente forma mentis.
Analizziamo ora i principali elementi critici offerti dalla produzione italofona di Ornela Vorpsi, concernenti essenzialmente la particolarità linguistica, l’immagine della donna e il concetto di migranza, per poi metterla a confronto con altri autori albanofoni e individuare così alcuni nuclei tematici comuni.
4.1
Il linguaggio e lo stile: una contaminazione italo-albanese.
Abbiamo visto come la scrittura “translingue” derivi in primo luogo da necessità pratiche, legate a una volontà di integrazione nel paese ospitante. Ci sono casi più 257 258
Ivi, p. 41. Ivi, p. 10
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complessi, come quello della Vorpsi, in cui la necessità di un idioma differente non è legata a istanze di adattamento quanto piuttosto a una reale volontà di distacco dal proprio vissuto personale, poiché, come è stato rilevato da un punto di vista psichico:
[…] l’esprimersi in un nuovo idioma consente di sfuggire a un dolore intollerabile o, addirittura, di arginare la frammentazione e la psicosi, attuando così una sorta di scissione intrapsichica. Altre volte, in un registro assai meno traumatico, le scissioni difensive possono andare al servizio delle diverse aree delle relazioni e del pensiero. Talora, infine, può accadere che - a partire dal labirinto dei percorsi linguistici e delle “traduzioni” interne - si organizzino diverse, complesse integrazioni di comunicazione e di senso.259
È lei stessa ad affermare, in un’intervista ad Anita Pinzi, che «quando si cresce in una lingua si subisce il peso delle parole, mentre in un’altra lingua si subisce meno questa misura»; in questa sede, inoltre, ribadisce come l’impulso alla scrittura la condanni a un eterno ritorno alla sua infanzia albanese, ritorno mitigato dall’utilizzo di un idioma diverso dal proprio, in grado sì di rendere le sensazioni del paese d’origine ma nello stesso tempo di mantenere la giusta distanza da quel vissuto. In questo modo si alleggeriscono le parole dotate di maggiore «peso», che di solito sono da ricondursi al «linguaggio proibito»:
[…] in albanese ancora oggi non sono in grado di dire nessuna parola oscena perché le ho imparate con i loro significati e tutta la vita intorno, vita delle persone e loro espressioni. […] Quando le parole oscene arrivano in italiano o in francese sono svestite di tutte le loro connessioni; sono disgiunte dalla mia infanzia albanese, sono più magre e leggere. Di certo, conosco il loro significato ma posso usarle in un modo più distaccato. 260
259
J. AMATI MEHLER, S. ARGENTIERI, J. CANESTRI, La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicanalitica, Milano, Raffaello Cortini Editore, 2003, p. 232. 260 A. PINZI, Living among languages, writing in Italian. An interview with Ornela Vorpsi, in corso di pubblicazione, per gentile concessione dell’autrice, traduzione mia.
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La lingua albanese la rimanda a un passato dal quale non può separarsi ma a cui, nello stesso tempo, le è impedito di avvicinarsi, per colpa del disagio che le provoca; si è creata una sorta di barriera interiore poiché «nell’espressione 'Lingua materna' si dispiega un’esperienza affollata di voci e di gesti, di scoperte e di incantamenti, di malinconie prive di nome, di attese spaventate dai fantasmi dell’inaccaduto. Esperienza di un tempo che, in un certo senso, non è ancora tempo: al di qua, dunque, della scansione, del traguardo, del passaggio»261. Non è un caso, inoltre, che questo processo di allontanamento e rimozione si attui in prevalenza con il linguaggio osceno, un fenomeno, questo, molto ricorrente e problematico, affrontato da Sàndor Ferenczi, studioso del rapporto tra lingue e psicanalisi. Secondo Ferenczi «la rimozione [ di queste parole ] è legata al suono verbale dei pensieri sessuali», perciò «le parole oscene potrebbero provenire dal dialogo coi genitori» e «la pubertà provocherebbe una 'riedizione' delle impressioni riportate dall’ascolto infantile di veri e propri atti sessuali». Le parole oscene si presentano come un pericoloso «sottoinsieme linguistico» che costringe l’individuo «a immaginare concretamente l’oggetto, l’organo o l’atto sessuale» a cui ciascuna di esse rimanda:
Le velate allusioni ai processi sessuali o le denominazioni scientifiche degli stessi, come pure le espressioni straniere, non hanno questo potere, non nella stessa misura delle parole appartenenti al lessico erotico popolare, originario della lingua materna. Si potrebbe quindi supporre che queste parole abbiano, in quanto tali, la proprietà di costringere chi le ascolta a rievocare in modo regressivo-allucinatorio le immagini della memoria.262
L’individuo polilingue, quindi, dimostrerebbe una ritrosia patologica nei confronti di questi termini nella propria lingua madre, anche se «potrà benissimo pronunciare parole oscene in una lingua recentemente acquisita […] poiché esse
261
AA. VV., Stare tra le lingue, a c. di A. PRETE, S. DAL BIANCO, R. FRANCAVILLA, Lecce, Manni, 2003, p. 17. 262 J. AMATI MEHLER, S. ARGENTIERI, J. CANESTRI, La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicanalitica, Milano, Raffaello Cortini Editore, 2003, pp. 42-43.
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non portano con sé la carica emotiva della lingua madre», di conseguenza «la possibilità di attingere variamente ai sottoinsiemi in suo possesso di parole provenienti da lingue diverse consente una vantaggiosa possibilità di alternare e graduare difese e resistenze»263. L’analogia con il caso della Vorpsi, quindi, pare evidente; il suo rifugiarsi in una lingua diversa dalla propria le permette di affrontare argomenti scottanti, esprimendosi con un lessico che altrimenti risulterebbe censurabile. Un esempio per tutti è «la questione della puttaneria»264, al centro del romanzo d’esordio della scrittrice: utilizzando una lingua straniera le è possibile fare riferimento a atti e situazioni linguisticamente “pesanti” in albanese ma non percepiti come tali in italiano. Il diverso peso delle parole nelle due lingue è presente, in senso opposto, in un episodio della Mano che non mordi, in cui la protagonista, in vacanza a Roma da una cugina, si invaghisce di un giovane italiano e, durante la serata del loro primo appuntamento, non esita a dichiararsi con un «Ti amo, Michele»265 assolutamente fuori luogo e che condurrà a un esito disastroso una futura relazione tra i due. Il peso di questa espressione italiana non è per nulla percepito dalla ragazza albanese che ne fa uso con pericolosa superficialità. Rimane poco chiaro il motivo profondo per cui l’idioma d’elezione resti proprio il nostro quando anche il francese, lingua del suo paese di residenza, è dotato dello stesso potenziale di filtro emotivo. A proposito della scelta dell’italiano, la scrittrice parla di «qualcosa tra razionalità e irrazionalità», spiegando che:
È una scelta razionale poichè volevo scrivere in una lingua straniera perché non fa emergere il carico dell’infanzia, ma nello stesso tempo è qualcosa d’irrazionale, dato che non so perché proprio l’italiano. Avrei potuto scegliere un’altra lingua, francese per esempio. L’italiano è
263
Ivi, p. 137. O. VORPSI, Il paese dove non si muore mai, cit., p. 7. 265 ID., La mano che non mordi, cit., p. 61. 264
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eccezionale per me, in quanto ha la giusta distanza da ciò che sto scrivendo. Non so se sarà sempre così. Non so cosa sarà domani.266
Si tratta di una sorta di lingua dello “schermo”, derivata da una specie di “innamoramento” nei confronti della nostra lingua, un uso che però ora appare minacciato dalla lontananza “fisica” da questo idioma:
sento che la mia scrittura non ha bisogno del francese. L’italiano arriva e voglio restare con lui. È vero che sta diventando problematico, dato che non sto più vivendo la lingua italiana, ma per il momento sono in questa situazione, forse non logica, un poco assurda, ma è questa.267
E in un’altra intervista a Maria Cristina Mauceri ribadisce la natura del radicamento interiore di questa scelta:
Sicuramente il mio inconscio aveva bisogno di una distanza rispetto a quello che scrivevo e una lingua straniera crea una distanza perfetta, è un’altra cultura. Non mi sono messa a pensare in quale lingua scriverlo, albanese, italiano o francese, in maniera organica mi è venuto in italiano e scrivo tuttora in italiano. Vivo in Francia da otto anni, ho passato più tempo qui che in Italia, l’italiano è una lingua che appartiene al passato che magari si atrofizza per cui devo leggere sempre di più in italiano.268
Bisogna comunque precisare che la nostra lingua non è mai del tutto scomparsa dalla sfera personale della Vorpsi che, sposata con un italiano, non ha mai smesso di praticarlo; anzi, il fatto che sia la lingua del privato, del familiare, può essere un fattore determinante ai fini della sua scelta. Studi psicanalitici confermano che l’acquisizione di un idioma straniero da parte di un individuo adulto può essere facilitata da una situazione consona e rassicurante, come quella dell’avere accanto un parlante a cui si è legati da un rapporto affettivo.
266
A. PINZI, Living among languages, writing in Italian. An interview with Ornela Vorpsi, cit. Ibidem . 268 M. C. MAUCERI, Intervista a Ornela Vorpsi, in «Kuma, creolizzare l'Europa», N 11/2006, www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html. 267
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L’individuo adulto che deve avvicinarsi alla pratica di un’altra lingua, sarebbe, infatti, indotto per sua natura a cadere in una serie di problemi, diversamente dai bambini:
[…] la resistenza sarebbe maggiore laddove si tratti di rapporti con oggetti o situazioni affettivamente più investiti. Nei bambini non vi sarebbe ancora un rigido sistema di rapporti oggettuali da contrapporre a questi cambiamenti, e questo potrebbe essere uno dei motivi che rendono più facile l’acquisizione di nuove lingue nei primi anni di vita Ma vi è un altro aspetto degno di attenzione nella difficoltà di impossessarsi di una nuova lingua da adulti. Talvolta l’avvicinarsi agli aspetti più specifici di una lingua significa addentrarsi in certi costrutti idiomatici quali proverbi, scherzi, metafore, doppi sensi o espressioni vicine al linguaggio onirico, che comportano regressione e ravvicinamento al processo primario, alle fantasie e al mondo inconscio. […] Durante l’apprendimento della lingua straniera si ha spesso un senso di incertezza relativo al capire quanto una parola sia usata in modo soltanto figurato e metaforico. Si sospetta spesso che vi sia qualche idea latente dietro le parole o un pensiero latente dietro il discorso. […] É interessante ricordare come, talora, sia più facile imparare una lingua in situazioni che inducono spontaneamente dei movimenti regressivi, quali un rapporto d’amore o di analisi .269
Evidentemente gli schemi di riferimento affettivi che si formano durante l’età infantile, finiscono per impedire all’individuo adulto un uso dell’idioma materno privo di coinvolgimento emotivo. Si può ricondurre proprio a questo processo, l’impossibilità di raccontare fatti legati proprio a quel determinato momento della vita, come nel caso del Paese dove non si muore mai, dove si affronta il percorso formativo di una giovane donna nel proprio paese d’origine. L’elemento della migrazione, infatti, compare solo a conclusione del romanzo, quando tale processo formativo culmina con l’arrivo nella «terra promessa» italiana. La mano che non mordi, invece, si colloca a conclusione di questa tale fase di esperienza, quando ormai l’eroina ha rimosso o sta tentando di rimuovere il suo passato e la sua patria; la narrazione, però, è ricca di flashback e scarti temporali che rimandano a episodi lontani, vissuti con malessere e per questo temperati dall’uso di una lingua esterna, come quello in cui
269
Ivi., pp. 139-140.
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la protagonista, assaggiando il byrek appena comprato, si ricorda del sapore proibito dei chewing-gum nella sua infanzia albanese:
[…] la passione di noi bambine erano i chewing-gum. Il chewing-gum era vietato in Albania perché era un prodotto capitalista, e poi perché masticare a vuoto è da maleducati. Quindi, quando qualcuna di noi entrava in possesso di un chewing-gum scivolato di nascosto nella nostra terra rossa, era come toccare un pezzo di sogno. Odore di fragola e di ciliegia. Anche menta. […] Una volta levata la carta, resta da spogliare il chewing-gum del suo involucro d’argento. Appare il corpo della gomma verde pallido, che di solito è spolverato di bianco e disegnato a zigzag. Che scoperta sontuosa la gomma che si mastica all’infinito! Il gusto e il buon odore puoi farli vivere in bocca senza mandarli giù per ore! Per giorni! Quando ci addormentavamo ( ho visto mia cugina e anche le mie amiche fare la stessa cosa), riponevamo il chewing-gum masticato in un bicchiere d’acqua per poterlo mettere in bocca l’indomani. La carta che lo ricopriva a volte portava il disegno di un papero, che si chiamava zio Paperone. Quella carta era capace di profumare di chewing-gum per lungo tempo, meritava di essere poi custodita in mezzo alle pagine di un libro come un pezzo da museo da far vedere alle amiche: ecco! Ecco cosa ho mangiato un giorno! Una volta! Per amore dei chewing-gum ci lanciavamo a capofitto in bugie stravaganti; io, per esempio, avevo una stanza tutta, t-u-t-t-a riempita di gomma. Piena zeppa! Solo che la chiave era nelle mani di mia madre, la quale non mi lasciava neanche dare un’occhiata, figuriamoci poi prenderne un pezzetto! Giuravo e stragiuravo che la stanza ne era piena!270
Qui si comincia a notare la tematizzazione dell’idea che la lingua italiana si dimostrerebbe flessibile e malleabile al punto di rendere vive e vivide tutte le immagini relative all’infanzia albanese, pur mantenendo nello stesso tempo la giusta distanza emotiva: come lei stessa afferma, all’atto di scrivere non percepisce, in tal modo, la “pesantezza” delle parole, che invece nella sua lingua madre la schiaccerebbe, impedendole di esprimere le proprie sensazioni. Un simile fenomeno è peraltro piuttosto comune e compare in molte problematiche osservate dai linguisti quando hanno puntato ad evidenziare nelle loro recenti indagini linguistiche, proprio i processi di apprendimento di un idioma differente da parte degli immigrati. Ecco, ad esempio, quanto è stato portato alla luce dalle loro osservazioni sullo sforzo che deriva dalla ricerca di una 270
O. VORPSI, La mano che non mordi, cit., p. 82.
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nuova identità tramite l’acquisizione di una competenza linguistica diversa da quella originaria:
Per quanto riguarda gli immigrati, la lingua esalta la sua funzione di principio d’identità innescando processi su varie dimensioni: nella lingua si catalizzano i problemi di identità perduta (quando si lascia il proprio paese e si perde il contatto quotidiano con la propria lingua), cercata (nel tentativo di essere nel paese ospite, di esistere secondo una qualche identità capace di dare senso), scissa (quando le due identità culturali non si ricompongono e l’apprendimento linguistico si blocca e non consente l’integrazione), equilibrata (quando il migrante segnala nella adeguata competenza linguistica il successo migratorio che non rinnega le radici d’origine). In tutti questi processi, che riguardano sia gli adulti che i bambini, la lingua è strumento dei processi d’identità e segnale dello stato del processo. Si può parlare di “progetto migratorio”, infatti, solo se c’è libertà di scelta; quando il progetto migratorio è ormai avviato, cioè quando il migrante è giunto in Italia, si avvia anche il processo di apprendimento della nostra lingua, e a seconda di quanto e come questo si svilupperà ne risentirà la possibilità di adattare il progetto migratorio secondo scelte consapevoli e libere dell’immigrato. […] L’apprendimento linguistico di un immigrato non va visto, pertanto, solo nei termini riduttivi dell’imparare la grammatica, le strutture e le parole di una lingua, ma come il luogo di contatto fra lingue e culture: tale luogo (o meglio: tale confine) è un’area di miscuglio e di cambiamento.[…] 271
Questi studi, che si possono definire di “linguistica acquisizionale”, aprono quindi nuove prospettive, che rendono possibile l’osservazione di un aspetto inedito, quello della cosiddetta “interlingua di apprendimento”, dove si ricompongono tutte quelle operazioni di perdita, ricerca, scissione e riequilibrio elencati sopra:
[…] l’apprendimento linguistico dell’immigrato non va visto come la progressiva assimilazione di una lingua, in questo caso l’italiano, ma come la creazione di una nuova entità linguistica: l’interlingua di apprendimento, sistematico insieme di varietà linguistiche che, coincidenti con le tappe dell’acquisizione, vanno da quelle iniziali prebasiche e basiche, a quelle più evolute e vicine all’ambiente linguistico dove il processo si è svolto. Si tratta sempre, però, di varietà dove i tratti strutturali si costruiscono nella tensione fra le lingue che entrano in contatto: gli errori sistematici che fanno gli immigrati, allora, lungi dall’essere semplici sbagli linguistici e deviazioni dalla 271
M. VEDOVELLI, La questione della lingua per l’immigrazione straniera in Italia e a Roma, in AA. VV., La questione della lingua per gli immigrati stranieri, a c. di M. BARNI, A. VILLARINI, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 34-37.
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norma dell’italiano, sono i luoghi di tali tensioni, sono le vere regole della mista lingua dell’emigrato. E in quanto lingua mista, rimanda al miscuglio di identità culturali che si creano nel migrante. Tali nuove identità miste linguistiche e culturali sono sensibili alle motivazione all’apprendimento linguistico e all’inserimento sociale, sono condizionate dagli atteggiamenti verso la lingua e la cultura degli altri, appaiono sensibili agli effetti dei contesti sociali del migrante. La motivazione viene ad avere un ruolo importante forse quanto quello delle caratteristiche linguistiche di tipo strutturale sulla capacità di apprendere la nuova lingua e di sviluppare costantemente il processo di apprendimento spontaneo e/o guidato. Il sistema di atteggiamenti rappresenta un filtro capace di distorcere o di rendere correttamente la realtà della società ospite, i modi di comportarsi degli interlocutori nativi, le caratteristiche strutturali della lingua con cui gli apprendenti/immigrati entrano in contatto. 272
L’interlingua di apprendimento, che ristabilizza la poetica di lingua mista, è conseguenza della concezione di “identità equilibrata”, in cui, cioè, si realizza un equo bilanciamento tra identità originaria e identità acquisita; il risultato delle produzioni linguistiche di un qualsiasi apprendente si configurerà essenzialmente come un’«unica lingua condivisa»:
[…] nell’individuo bilingue si creerà una rete associativa che trascorrerà liberamente da una lingua all’altra per parole fonemi assonanze. Se un individuo parla più lingue, “non esiterà a introdurre una parola cosiddetta 'straniera' (ma straniera a chi, a che cosa?) nel mezzo di una frase”. Così come avviene ad esempio, per certe parole che inizialmente sono “straniere”, importate da un’altra lingua, ma finiscono poi con il diventare familiari. […] Con la conoscenza di una seconda lingua, non solo altri fonemi, altri suoni entrano a far parte del nostro patrimonio linguistico, ma di riflesso anche la prima lingua si modifica nel tessuto e nel significato.273
La contaminazione fra lingua madre e lingua ospitante diventa quindi inevitabile; anche la Vorpsi, consapevolmente o inconsapevolmente, attinge da quella riserva di matrice albanese in italiano, riproducendo, talvolta, sintassi, morfologia, lessico ed espressioni tipiche dell’uno nell’altro e approdando a nuove dimensioni
272
Ibidem. J. AMATI MEHLER, S. ARGENTIERI, J. CANESTRI, La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicanalitica, cit., pp. 73-74. 273
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simboliche. Un esempio è l’uso del colore “verde” a indicare situazioni di patologia esistenziale, presente in più occasioni nella Mano che non mordi:
Il capitalismo l’aveva schiacciato, lo aveva reso verde malaticcio, gli aveva preso il fiato, non era mica per lui, era diventato verde per i bruciori di stomaco. - Avevo la faccia verde,- ripeteva con rabbia. - Anch’io,- gli ho confessato,-sono verde, guardami bene! Ho messo un po’ di rosso sulle guance per nasconderlo, ma è puro inganno, mento, maschero,- insistevo- Guarda bene. […] - Tu,- dice inatteso e alzando la voce, cercando di avere un tono più convinto,- tu sei diventata verde. Fai attenzione! - Verde come? - Verde di migrazione, povera mia. Il verde della denutrizione, quello tipico di chi ha le radici in aria. Fai attenzione, perché la malattia di cui ti sto parlando comincia così.274
L’aspetto interessante, infatti, emerge in piena luce quando si constata che quel colore esistenziale assume una valenza non più soggettiva bensì sociale e collettiva. È la malattia dello stato di sradicamento e dell’emigrazione. Aldilà dell’insistenza su particolari gamme cromatiche, tipica della scrittura della Vorpsi, il rilevare come il verde nella lingua albanese sia da sempre associato a disagio e malessere implica che, dal suo punto di vista, certi colori assumono dimensioni simboliche, per così dire, di innesto. Un altro esempio di questi innesti semantici è rappresentato dall’uso del rosso, presente in svariate occasioni nell’opera d’esordio, accanto a tante altre parole legate al campo semantico del sangue, del calore, del fuoco, volte a connotare moltissimi aspetti della propria infanzia albanese:
Il rosso e il sangue sono un effetto della mia educazione in Albania, per esempio in Albania, quando ero una bambina che assorbiva tutto quello che le veniva raccontato, si diceva che il sangue dei partigiani era rosso ed io, nella mia fantasia infantile, sognavo allora di poter trovare un partigiano in strada. Perché volevo tagliarlo e vedere se il suo sangue era più rosso del mio. Avevo
274
O. VORPSI, La mano che non mordi, cit., p. 51-52.
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questa fantasia perché i nostri ideali erano rossi, il comunismo era rosso e la teoria di Marx ed Engels era rossa, la rivoluzione e il sangue degli eroi era rosso, la nostra bandiera era rossa. Un bambino quando vede che tutte le cose magnifiche sono rosse evidentemente tutto si tinge di rosso. Se mi chiedevo che colore mi piaceva quando ero piccola, vedevo tutto rosso. Rosso era il colore per eccellenza che ci portava verso il paradiso, era il colore degli ideali. Questo è una malformazione dovuta alla mia educazione. A proposito del bruciare, l’Albania mi brucia ancora, penso che mi brucerà tutta la vita.275
Analizzando la ricorsività delle voci lessicali afferenti a questo campo semantico, si possono fare interessanti valutazioni. In primo luogo, notiamo come esse si impongano maggiormente in situazioni legate all’ambito erotico, peccaminoso o più generalmente femminile, fin dalla prima ricorrenza dei colori, nel già citato riferimento a Bosch relativo alla visione angosciosa del ventre riempito,«tutto marrone e rosso scuro, pieno di piccole e affollate sporcizie viventi di cui io ero la dimora»276. Emblematico, poi, è il capitolo Macchie, in cui la presenza di una macchiolina rossa nel pavimento rinvia alla questione centrale del romanzo, la “questione della puttaneria”:
Una piastrella, vicino al divano, aveva una macchia piccola come un chicco di melograno, color sangue-rubino, che anche lavando e strofinando forte non andava via. Eppure l’ho tanto strofinato quel rossissimo chicco. Ogni giorno, facendo le pulizie, il granello mi domandava di passare un tempo indeterminato su di lui, su questa piccola chiazza rossa per me così triste. Mentre la lavavo, l’accarezzavo. Ero sicura e ne soffrivo: questa piccola goccia rossa era il sangue di lei, doveva essere il sangue di lei colato quando il papà la picchiava. Lui le aveva sbattuto la testa per terra, questo l’avevo visto…e così la macchiolina aveva conosciuto il giorno. Il chicco di sangue resisteva ostinato, non voleva andare via. Un giorno, con il coraggio in mano, chiesi a mia mamma: - Che cos’è questo chicco rosso , ma, non lo trovi strano questo chicco rosso sangue in mezzo alle piastrelle bianche? Poi la guardai bene in faccia, fissando i grandi occhi verdi, cercando di vedere se il suo volto la tradiva e se finalmente avrebbe ammesso la verità- che è sangue suo-, ma lei rispose con calma, mettendo fine al discorso: 275 276
M. C. MAUCERI, Intervista a Ornela Vorpsi, cit. O. VORPSI, La mano che non mordi, p. 10.
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- Penso che sia un difetto di fabbrica, un pezzettino di cemento colorato di rosso, tutto qua.277
La macchia rossa diventa il correlativo simbolico in una storia di violenza che la protagonista, ovvero la madre, censura; il puntino color sangue si contrappone al candore del pavimento bianco, una purezza solo apparente con cui si tenta di nascondere la sporcizia morale. Rosso come immoralità e bianco come purezza, l’impurità e l’indecenza delle visite della mamma alla nonna, visite che in realtà divenivano unicamente un pretesto per farsi ammirare dagli uomini:
La visita alla nonna si ripeteva ogni sera. Lei passava sotto gli sguardi ammirati degli uomini e quelli invidiosi delle donne. La mostruosa invidia delle donne l’ho vista in concreto dietro di lei. Sarebbe bastato uno sguardo fatto d’amaro - di quell’acido che corrode le vene e lo stomaco - a far bruciare castelli e paesi interi. L’avrebbero spolpata o mangiata viva, l’avrebbero gettata in pasto ai cani. […] Era questa la visita alla nonna, farsi vedere e desiderare.278
Il rosso assurge a simbolo di una femminilità violenta, che ingenera negli uomini un desiderio proibito, ma nello stesso tempo il rosso è dolore, sofferenza per i maltrattamenti subiti, tristezza per una vita costellata di angosce, come conferma, un’altra “macchia” di questo capitolo, quella incipiente del tempo, scoperta dalla bambina dinanzi a una foto del matrimonio dei suoi genitori:
La foto, col passare del tempo, si era coperta di una macchia marrone che nasceva sull’occhio destro e si allargava fino allo zigomo bagnandolo tutto. Era colpa dell’umidità, ma ciò non tolse mai la tristezza immensa di quella macchia scura che ammalava mia madre, la rendeva triste, e in preda a quei pensieri scoppiavo in lacrime immaginando il giorno in cui i suoi capelli sarebbero diventati grigi.279
Sicuramente non è un caso che il capitolo successivo si intitoli Tuorli d’uovo, legando così alla tassonomia cromatica del rosso, un’altra storia di carnalità, quale 277
Ivi, pp. 14-15. Ibidem.. 279 Ivi, p. 16. 278
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simbolo di una femminilità peccaminosa e violenta. Ciò è evidente fin dall’inizio, da quando, cioè, la bambina contempla, con un misto di orgoglio e vergogna, il proprio nome legato ad apprezzamenti pesanti scritto sulla porta del bagno della scuola «con un colore pastoso di marrone scuro»280. La temibile e punitiva maestra Dhoksi è descritta come una donna dalle «gambe molto storte, […], espressione dura», espressione che però acquista tratti di un’identità differente in vista del colore rosso del suo rossetto, “colore della femminilità” che la scrittrice associa con quello dell’ideologia «labbra carnose rosse di rossetto e gran comunista»281. Rosse, inoltre, sono anche le strisce lasciate dal righello della maestra sulle cosce della protagonista, costretta a subire le sue frustrazione e la sua rabbia:
Tante volte ho visto i cerchi di ferro ( la stessa legna che avevamo portato noi da casa per scaldarci in classe), diventavano rossi trasparenti, ferro incandescente. Il righello posato sopra faceva tutt’uno con il rosso. Quel righello in mano a Dhoksi ha baciato il mio corpo chissà quante volte, nel nome del Partito e dell’educazione, […] nel nome delle sue rabbie interiori perché era così sgraziata io ero là, pagavo l’ingiustizia del mondo a Dhoksi.282
Il rosso, inoltre, è il colore delle donne essendo il colore del sangue mestruale, simbolo di una femminilità misteriosa e poco accessibile, specie alle bambine in procinto di varcare la soglia della crescita:
In un libro (era Maupassant?) il personaggio principale, un’adolescente, un giorno si era ritrovata all’improvviso del sangue in mezzo alle cosce e si era messa a correre credendo di essere in punto di morte. Un uomo- un uomo maturo- le disse: «Non ti spaventare, stupida, queste sono cose normali per una donna. Sono le mestruazioni». Il sangue della ragazza dà loro alla testa. Il mistero del sangue delle donne impone il silenzio tra Elona e Rudina. Gli uomini sapevano che cos’era quel sangue.283
280
Ivi, p. 18. Ivi, p. 19. 282 Ivi, p. 20. 283 Ivi, p. 24. 281
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Ancora una volta l’immaginario legato al colore rosso riappare comparato con la purezza del bianco, sempre per raffigurare la sofferenza di una donna, in questo caso, Marguerite Gauthier, afflitta dalla stessa «nevrosa gravis», ovvero la tisi, di cui soffre la madre della protagonista:
Il respiro che manca a Marguerite Gauthier, le gocce rosse che segnano le sue labbra ormai aride, la musica tremante della sua tosse, ancora gocce rosse sulla pelle bianca, lei tocca quell’ardore sublime per renderlo ancora più bruciante e a quel punto sei condannato all’amore come alla morte.284
Rossa, inoltre, è la scritta «DIVIETO D’ACCESSO!» posta all’ingresso del carcere, come a simboleggiare l’immaginario delle cose proibite e la conseguente fascinazione che esercitano sulla bambina. Successivamente, diventa connotato di rosso tutto ciò che contraddistingue il sesso, l’ideologia ma soprattutto il padre, elemento da espellere e da rifiutare; dopo il divorzio la bambina continua ad appartenere al padre, portandone il cognome, e per questo scrive:
Adesso sentivo dire dalla nonna, dal nonno e dallo zio che i miei capelli erano rossi come i suoi e mi chiamavano con disprezzo «la rossa» o la «rossaccia» per avvicinarmi di più a mio padre. Non ero del loro sangue,ero razza di gambe storte come le sorelle di mio padre, sarei diventata schizofrenica come mio cugino: «Non puoi fare altrimenti, è scritto nel sangue».285
La fantasia della bambina crea immagini agghiaccianti legate al padre e connotate dall’ossessiva presenza di voci lessicali legate al rosso e al sangue:
Alla fine sarei diventata una troia come mio padre, anzi io ero già una troia, si vedeva dal mio sguardo furbo. Poi con lui avrei aperto un negozio di puttanerie. All’entrata del negozio avremmo messo una bandiera, tipo: PUTTANERIA E CULO VENDESI COMPAGNIA PADRE & FIGLIA.
284 285
Ivi, p. 36. Ivi, p. 41.
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Quanto insistevano su quella bandiera! «Quando tu alzerai la bandiera, quando voi due alzerete la bandiera… Non è lontano il giorno che vedremo alzata la bandiera». Io, non so perché, la vedevo rossa, una bandiera rossa che sventolava sul portone del negozio: PADRE & FIGLIA CULO VENDESI.
Per adesso devo aspettare. Ho dodici anni, il papà è ancora in prigione – sono progetti dell’avvenire.286
Come in un tragico climax ascendente, il rosso assurge a emblema della sofferenza insita nel romanzo, stemperata da una punta di amara ironia. Verso la fine, torna il confronto tra il candore del bianco e l’impurità del rosso, col capitolo dal titolo significativo Sangue rosso sulla neve bianca; il rosso diventa il colore del sangue dei partigiani che hanno onorato la patria, di Ion che ha dato il suo nome a un intero mare avendolo reso rosso del proprio nobile sangue. Come nel ritratto di Dhoksi, il partigiano diventa il tramite per raffigurare, nuovamente appaiate, femminilità e ideologia: diventa infatti inevitabile, per la bambina, confrontare il suo sangue mestruale con quello dei partigiani:
La mia desolazione fu che il sangue non era rossissimo come quello dei partigiani caduti per la patria. Non avevo degli ideali così grandi? O forse se ne metto tre o quattro gocce sulla neve bianca sarà più rosso?287
Il sangue delle donne è, però, sempre legato alla vergogna, vergogna per non possederne uno tanto puro e vivido come quello degli eroi albanesi, vergogna per il semplice fatto di appartenere al genere femminile. Se il rosso è il colore dell’Albania, il verde diventa, come si è visto, il colore della migrazione e la stessa protagonista della Mano che non mordi ammette questo “sbalzo cromatico”:
- Prima ero rossa, a Parigi sono verde, è solo questione di colori, non è poi così grave, non sono ancora diventata schiuma quindi parliamo di te.288
286 287
Ibidem. Ivi, p. 97.
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In Vetri rosa, la scrittura “pittorica” della Vorpsi si colora di un’altra tonalità, il blu dell’inchiostro in cui intinge la penna per scrivere, simbolo dell’abbandono quotidiano da parte della madre che l’accompagna a scuola:
Le mamme ci lasciarono davanti alla porta della scuola. Là conobbi la grande solitudine. Quella piccola la conoscevo già. Conobbi l’aguzza, la spietata che ti getta contro a un muro di cemento armato per poi farti giacere a terra dolore e sangue. Mamma, urlavo, mentre la sua cara visione cominciava a scomparire. Mamma, un bacio! Mamma, ti prego, per favore, ancora uno, uno solo poi vai. Lei, tornava sui suoi passi, e mi dava un bacio sbrigativo, adesso entra, diceva e se ne andava di nuovo. Di nuovo contro il muro di cemento armato. Di nuovo colavo sangue e le mie ossa si frantumavano. Mamma, per favore, ancora un bacio! Ti giuro, l’ultimo! L’ultima volta, però! Così lei tornava leitmotiv sui suoi passi offendomi un
altro bacio sbrigativo che però non
interrompeva il colare del mio sangue dopo lo scontro con la solitudine. Non capiva che ero straziata e per terra? Non lo vedeva? Certo che no, per questo se ne andava senza girarsi, neanche una volta. Il suo vestito a fiori scuri svaniva lungo la via e io restavo là ferma, sperando che lei tornasse di corsa a darmi un altro bacio. Questo finchè la maestra mi trascinava via per farmi sedere al banco di legno scuro. Là sostava fedele e muta la boccetta di plastica che conteneva il colore blu dove inzuppare la penna e scrivere. L’odore dell’inchiostro era la scuola. Le mie dita nello stringere la penna erano sempre macchiate di blu. […] La solitudine, la grande solitudine, a cui mia madre mi affidava, aveva la forma delle mie dita macchiate del blu dell’inchiostro. Aveva anche lo stesso odore. Ogni primo settembre mi abbandonava agli altri. Il mio stomaco, la notte prima del primo settembre, spasimava.289
Il colore blu è associato a quell’ «amore aguzzo» e doloroso nei confronti della madre a cui si è fatto accenno per quanto riguarda Il paese dove non si muore mai; la scuola, simboleggiata dal blu dell’inchiostro, è il luogo della solitudine in cui la madre la abbandona quotidianamente alla sua disperazione. Nel caso di Vetri rosa, comunque, la simbologia dei colori è già posta in evidenza dal titolo che rimanda sia alla frammentarietà del discorso narrativo, sia alla presenza di stralci disorganici di vite al femminile. 288 289
O. VORPSI, La mano che non mordi, cit., p. 52. Ivi, p. 22.
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Esportando aspetti e modi di dire della lingua materna nella lingua d’adozione, l’autrice realizza un’interlingua innovativa e variegata da un punto di vista semantico e psichico. Per definire questo processo, è utile rifarsi al concetto di «andirivieni della scrittura» utilizzato da Paola Zaccaria nella Lingua che ospita, a proposito di un passo della scrittrice algerina Assia Djebar:
[…] “una scrittura che non sarebbe stata solo di fuga (…). Scrittura di continuità, o almeno d’andirivieni, per conservar memoria degli avi che affabulavano, che inventavano. Senza scrivere”. La condizione di andirivieni produce la scrittura dell’andirivieni che si origina in una terra dell’andirivieni, o si potrebbe dire che, causa di una terra “dell’andirivieni dei morti, delle spoglie, delle ossa; patria che non cessa di negoziare i cadaveri…ciò che resta del corpo: uno scheletro, un’unghia, un capello, una reliquia, insomma, che consenta l’erezione delle statue, il fluire dei discorsi, ogni sorta di cerimonia”, una scrittrice decide di non risiedere più in una terra che tradisce il lascito spirituale e letterario dei padri, e che usa le reliquie solo per “erigere la statua” ossia patriotticamente instaurare immagini di eredità linguistica.290
La lingua di un autore migrante difficilmente resta priva di tale contaminazione, presentandosi sempre impura, ibridata e ricca di aspetti differenti: la peculiarità espressiva consiste proprio, come dice Bougleux, in questa « invenzione ad hoc di un linguaggio nuovo come combinazione e sintesi di un ampio numero di modalità simboliche, visive cromatiche acustiche sonore musicali linguisticonarrative, nello scopo ultimo di fare del codice stesso una forma di meta-scrittura e di creare modelli diversi di in/formazione».291 In sostanza, il fenomeno descritto prevede una sorta di modificazione delle sensazioni e delle risorse espressive. A questo proposito, è interessante la riflessione di Whorf sulla questione del rapporto tra lingua madre e visione del mondo: Analizziamo la natura secondo linee tracciate dalle nostre lingue. Le categorie e i tipi che isoliamo dal mondo dei fenomeni non vengono scoperti perché colpiscono ogni osservatore; ma, al contrario, il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere 290
P. ZACCARIA, La lingua che ospita, Roma, Meltemi, 2004, p. 127. E. BOUGLEUX, Singolarità dell’universo, in AA. VV., Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura, a c. di C. BARBARULLI e L. BORGHI, Cagliari, CUEC, 2003, p. 28.
291
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organizzato dalle nostre menti. Sezioniamo la natura, la organizziamo in concetti e le diamo determinati significati, in larga misura perché siamo partecipi di un accordo per organizzarla in questo modo, un accordo che vige in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato nelle configurazioni della nostra lingua. L’accordo è naturalmente implicito e non formulato, ma i suoi termini sono assolutamente tassativi; non possiamo parlare affatto se non accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula. Questo fatto è molto importante per la scienza moderna, perché significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero. La persona più libera da questo punto di vista sarebbe un linguista che avesse familiarità con moltissimi sistemi linguistici assai differenti. Ma ancora nessun linguista è in questa posizione. Siamo così indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati.292
Sicuramente gli scrittori poliglotti maturano una sensibilità differente, che permette loro di rapportarsi in maniera particolare con la lingua d’adozione, tracciandone significati altri e a volte lontani da quelli originali. Un calzante esempio di questa “iper-sensibilità linguistica” è costituito, ad esempio, da Nabokov, il quale oscillando tra diverse sfere linguistiche ha finito per sviluppare una sorta di «udito colorato», come si legge in Parla, ricordo:
Forse il termine “udito” non è del tutto esatto, dato che la sensazione del colore sembra essere causata dall’atto stesso del formare oralmente una determinata lettera, mentre ne immagino il contorno. La a dell’alfabeto inglese […] ha per me il valore del legno esposto alle intemperie, ma una a francese mi ricorda l’ebano lucidato. […] Questo gruppo nero comprende altresì la o dura (gormma vulcanizzata) e la r ( uno straccio fuligginoso che venga lacerato).293
Nabokov parla di un fenomeno che i linguisti hanno esaminato analizzando il meccanismo che mette in moto la rete associativa sensoriale, che «si eleva alla massima potenza nei polilingui, in infinite combinazioni»; tramite le neuroscienze moderne, si possono rilevare «mappe dinamiche di rappresentazioni e memorie
292 293
B. WHORF, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 169-170. V. NABOKOV, Parla, ricordo, Milano, Mondadori, 1962, pp. 31-32.
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[…] che si attivano contemporaneamente nei nostri emisferi cerebrali, in genere, sotto la leadership dell’immagine visiva e acquistano senso grazie al “collante” degli affetti»294. La mente, infatti, come sostiene il neurologo e neurobiologo Antonio Damasio, «va intesa come un insieme strutturale e funzionale, non di 'centri', ma di micro- e macro sistemi interconnessi neuralmente e chimicamente: 'mappe' dinamiche coordinate e interagenti, che possono rendere ragione di quel va e vieni dinamico tra regressione e integrazione, disorganizzazione e maturazione, processi distruttivi e riparativi […] che contraddistingue la vita umana in salute e in malattia.»; infatti, secondo Damasio, «non può esistere un processo cognitivo senza un concomitante movimento di emozioni e affetti, a loro volta vincolati a tutta una ragnatela di sensazioni e nessi associativi. Non solo l’acquisizione e l’uso del linguaggio, ma la salute psicofisica stessa dipendono dai processi di integrazione, in un costante mobile equilibrio»295. La descrizione tecnica di questi sviluppi cognitivi trova larga possibilità di verifica nel campo letterario delle interlingue che stiamo toccando. Ad esempio, anche la scrittrice Eva Hoffmann, nel suo romanzo Come si dice, esprime la complessità di questo processo e le sue connessioni con la sfera emotiva:
Ogni giorno imparo parole nuove, espressioni nuove. Le trovo nei compiti di scuola, nelle conversazioni e nei libri che prendo in prestito dalla biblioteca pubblica di Vancouver. Ci sono espressioni che mi danno l’allergia. Per esempio, “non c’è di che” mi sembra una volgarità e riesco a dirlo con difficoltà forse perché si dà per scontato che c’è qualcosa per cui si deve essere ringraziati, il che in Polonia sarebbe ritenuto una vera maleducazione. Proprio le frasi più convenzionali della lingua, quelle che dovrebbero essere ritenute scontate, mi feriscono per la loro artificiosità. Poi ci sono parole che mi suscitano passioni altrettanti irrazionali per il loro suono, o magari solo perché sono fiera di averne dedotto il significato. Per lo più sono parole che leggo sui libri, come enigmatico o insolente- parole che hanno solo un valore letterario, che esistono come puri segni sulla pagina. Ma il più delle volte il problema è che il significato è stato reciso dal significante, le parole che imparo adesso non rappresentano le cose in quel modo assoluto, caratteristico della mia lingua 294
J. AMATI MEHLER, S. ARGENTIERI, J. CANESTRI, La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicanalitica, cit., p. 153. 295 Ibidem.
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madre. […] Non significa che sono libera di giocare con le parola a volontà, e comunque le parole nella loro nuda essenza sono certamente i giocattoli meno gratificanti. No, questo radicale distacco fra la parola e la cosa è un’alchimia che inaridisce, che toglie al mondo non solo il significato, ma anche i colori, le striature, le sfumature – la vita stessa. È la perdita della vita stessa.296
La scissione tra significante e significato provoca in Eva Hoffmann il sentimento di non sentirsi libera di giocare con la parola poiché non ha coscienza di non dominare del tutto questa nuova lingua. La Vorpsi esprime una sensazione analoga nell’episodio della Mano che non mordi menzionato precedentemente, in cui la protagonista-narratrice si invaghisce del giovane italiano. Infatti, giusto prima di pronunciare la “pesantissima” espressione «Ti amo, Michele» che abbiamo citato sopra, descrive come i “vuoti” della lingua che sta adoperando siano derivati da brandelli di frasi acquisite che stentano a ricomporsi logicamente:
Rodolfo Valentino accanto, la lingua italiana, Roma di sera, l’Albania dietro le spalle […] Accidenti, la lingua italiana che mi manca e che non posso parlare, «torno a casa e penso a te, io non dormo e penso a te».297
Dal punto di vista dello stile, la non totale padronanza dell’italiano e la diversa percezione del valore semantico delle sue parole produce una resa molto personalizzata; l’influenza di questi elementi è evidente sotto vari punti di vista. Sul piano sintattico, la Vorpsi predilige la coordinazione alla subordinazione, realizzando un periodare scarno e asciutto; frequenti le frasi nominali, soprattutto per focalizzare l’attenzione su un concetto che, in quanto unico elemento espresso, assume un valore evocativo fortissimo. Anche la punteggiatura è molto semplice; difficilmente incontriamo punti e virgola o due punti, piuttosto sono frequenti elenchi nominali, separati unicamente da virgole. Da un punto di vista prettamente grammaticale è da segnalare l’alternanza indistinta di diversi tempi verbali nella narrazione: nello stesso capitolo è possibile rintracciare verbi al
296 297
E. HOFFMANN, Come si dice, Roma, Donzelli, 1989, pp. 166-167. O. VORPSI, La mano che non mordi, cit., p. 60.
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passato interrotti da una sequenza al presente o viceversa. Il flusso dei ricordi sembra voler correre senza essere ostacolato da barriere formali. Al fine di rintracciare questi elementi, confrontiamo gli incipit del primo e dell’ultimo romanzo:
È il paese dove non si muore mai. Fortificati da interminabili ore passate a tavola, annaffiati dal rachi, disinfettati dal peperoncino delle immancabili olive untuose, qui i corpi raggiungono una robustezza che sfida tutte le prove. La colonna vertebrale è di ferro. La puoi utilizzare come ti pare. Se capita un guasto, ci si può sempre arrangiare. Il cuore, quanto a lui, può ingrassare, necrosarsi, può subire un infarto, una trombosi e non so cos’altro, ma tiene maestosamente. Siamo in Albania, qui non si scherza.298
Viaggiando, ho capito profondamente di non essere un viaggiatore. Non che prima non lo sapessi. Con il pensiero ho sempre voluto viaggiare l’intero mondo e al di là, se possibile. Con il corpo mi riusciva difficile. Mi sono detta poi che se sforzo un po’ la mia carne, forse lei può trovare piacere unendosi al pensiero che amo viaggiare. Magari era solo pigrizia. Così che mi sono mossa.299
Nel primo incipit, l’autrice scinde accuratamente i legami tra le proposizioni, mantenendole frante e evitando la subordinazione. La sintassi ellittica con cui è costruito il brano presuppone un preciso impegno del lettore, che è indotto a focalizzare la sua attenzione sull’immagine principale; l’Albania e il suo popolo assumono, in tal maniera, una posizione di rilievo drammaticamente importante e la sinteticità delle espressioni si colora di un’amara vena satirica, con cui l’autrice ironizza tristemente su un paese «arcaico e patriarcale» ma nello stesso tempo «fiero e selvaggio». L’ironia è una cifra stilistica portante del romanzo d’esordio della Vorpsi, proponendosi come ideale strumento d’analisi della difficile realtà albanese. Un ulteriore esempio di questo accorgimento, si colloca nel capitolo Giardino d’infanzia, quando le due bambine giocano alla «tragedia shakespeariana» con due misteriosi «oggetti spada», nascosti in un’anfora sepolta in giardino: 298 299
ID., Il paese dove non si muore mai, cit., p. 5. ID., La mano che non mordi, cit., p. 3.
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Il mistero vestì il giorno del nostro duello per anni interi. Ormai grandi, venimmo a sapere che avevamo giocato coi femori dello zio, uno zio che non avevamo mai conosciuto perché MadrePartito l’aveva fucilato all’età di diciassette anni (la sua politica se l’era giocata cercando di fuggire dall’Albania: si era innamorato di una slava che viveva dall’altra parte del confine che ormai era cinto di filo spinato e militari armati sino ai denti – ma come? Non sapeva il poveretto che non si ha il diritto di abbandonare il paradiso?)300
Anche l’ellissi torna di frequente nelle pagine della Vorpsi, sempre al fine dei enfatizzare particolari momenti o sensazioni, come nel caso della scomparsa della giovane Kristina:
La morta era giovane, non più di ventisei anni. Aveva fatto l’amore, quella puttana, mentre il marito giaceva in prigione. La pancia le si era gonfiata. Togliere aveva voluto.301
Nel secondo incipit la situazione che si vuole rappresentare è meno forte ma gli espedienti stilistici rimangono molto simili; le frasi sono secche e concise e ciò conferisce all’idea centrale del testo, quella del viaggio, una netta connotazione d’angoscia. Frammentarietà e stilizzazione, insomma, minano la compattezza del testo narrativo; ne emerge un linguaggio non standardizzato, con cui la scrittrice riesce a rendere nude cose e situazioni che, proprio in quanto spogliate e ridotte all'essenziale, diventano da un lato universali ed emblematiche, ma, dall’altro, si avvertono crudelmente vere e fanno riemergere la sua partecipazione sofferta a quanto va raccontando. Come conferma la stessa Vorpsi, l’editing sulle sue opere è stato volutamente minimale, caratterizzato da sporadici interventi sul testo. Restano intatte frasi apparentemente scorrette come «Io sto zitta aspettando che mi ammalo»302, oppure «Io e l’aereo non era una storia d’amore»303, al fine di preservare l’effetto
300
ID., Il paese dove non si muore mai, cit., p. 76. Ivi, p. 26. 302 ID., Il paese dove non si muore mai, cit., p. 12. 303 ID., La mano che non mordi, cit., p. 3. 301
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mimetico del suo linguaggio contaminato; probabilmente la stessa casa editrice ha intuito la portata innovativa di una lingua scabra, impura e a tratti innaturale, la cui particolarità avrebbe rappresentato un potenziale fattore di convincimento sul lettore e di successo sul pubblico. Altro aspetto da esaminare è l’assenza di vere e proprie metafore, compensata da frequenti “situazioni metaforiche”, in cui si danno per realistiche circostanze paradossali. Ne deriva un’interessante altalena tra verosimiglianza e fictio letteraria; è il caso delle situazioni tragicamente ironiche di cui è costellato Il paese dove non si muore mai o della repulsione fisica nei confronti del viaggio dichiarata dall’io narrante della Mano che non mordi e esemplificata da questo aneddoto:
Non mi era permesso dormire, se dormivo l’aereo sarebbe caduto. Era certo. Una provvidenza del tutto ignota e taciuta me lo ordinava: - Stai sveglia con tutti i sensi! Con tutti i sensi! Non avevo scelta; con le mie mani e la mia attenzione-concentrazione reggevo l’intero aereo. Quella volta in cui l’ho tenuto su dal Giappone a Parigi, c’è voluto più di un mese per rimettermi dai dolori della cervicale, musco letto spietato e testardo che si vendicava perché avevo approfittato di lui per quindici ore filare. Il fisioterapista mi chiese curioso cosa avessi mai fatto per bloccarmi a tal punto. Gli dissi la pura verità: avevo sostenuto con la mia attenzione, con le mie mani, braccia e muscoli l’aereo da Kyoto a Parigi. Ogni tanto qualcuno dei miei compagni di volo cercava di distrarmi con un giornale, con una domanda banale per far passare il tempo, ma la voce della provvidenza taciuta gridava: - Attenzione! Non abbassare la guardia, le cose arrivano quando meno te l’aspetti! Avevo notato alcuni beati che dormivano ( potevano stare tranquilli, tanto l’aereo lo reggevo io). Poi ogni tanto scorgevo dei volti divorati come il mio, che cercavano di appigliarsi con lo sguardo a qualunque cosa: maniglie di sicurezza, porte d’uscita, foglietti con le istruzioni di salvataggio, il bicchiere di vino, il cibo pessimo, le gambe della hostess, il suo rossetto impeccabile al cospetto della disgrazia così vicina, il suo coraggio. Così giovane.304
La drammatica ironia di questo esempio, come di tanti altri episodi rintracciabili nei testi della Vorpsi, assume la medesima funzione di “filtro emotivo” già 304
Ivi., p. 13.
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assunta dalla lingua italiana; ancora una volta la scelta dolorosa di abbandonare il proprio paese traspare nel linguaggio, con la predilezione per un tono volutamente tendente al comico, quasi a mitigare la sofferenza che deriva dal racconto. La secchezza della sua prosa e la successione di immagini dal forte valore evocativo, è, però, da ricollegarsi anche a un altro fattore importante: la Vorpsi è principalmente un’artista visuale e questo suo “andirivieni” tra le arti sicuramente influisce nella sua scrittura. Nel suo modo di descrivere, ad esempio, la sequenza delle immagini e il soffermarsi su particolari valori cromatici inducono il lettore a pensare a una successione di pannelli fotografici, com’è evidente in frammenti come questi:
C’è il muro che è colorato di rosa. Poi c’è il letto dove sono sdraiata e da dove vedo tutto; la stufa a legna, la luce rosa-viola-marrone creata dal fuoco che fa vacillare sul muro dei mostri mutevoli che non sanno darsi pace. C’è la legna, che quando è guadagnata interamente dal fuoco si lascia cadere in un ultimo movimento, con il suono di un sospiro sfibrato. Quel piccolo rumore, che di solito è accompagnato da un veloce e brevissimo abbaglio di luce, mi fa premere più strette le coperte già calde attorno al corpo. Il buio è stramazzato sul giorno, lui senza volere si ritira e là giunge la protagonista della mia stanzetta: la stufa a legna. […] L’ultima brace di legna si è arresa al fuoco. La luce diminuisce. Il buco guadagna una fiammata timida che ha la forma di piccole perle. Sembrano dei fagioli secchi, bianchi, in fila uno dopo l’altro. Una piccola forma bianca ripetuta che… Oh vedo…vedo…sono dei denti, tutta la dentiera senza la bocca e là dentro nel buco nero e mi sta spiando. Adesso li conosco. Sono i denti di mio padre che mi stanno spiando. La stanza è ormai quasi tutta nera. 305
Il padre di Aurel se l’è presa con sua moglie. Maledettamente è domenica, e la noia invade ogni cosa. Se l’è presa veramente. Aurel cerca con rabbia di sottrarre sua madre alle sberle violente del padre. L’uomo tiene una forbice aperta e la punta alla gola della donna. La scena sospesa; un dipinto di composizione perfetta. Se uno dei personaggi si muove, la pittura ridiventa vita e la forbice taglia la gola.
305
ID., Il paese dove non si muore mai, cit., p. 50.
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Io sono una spettatrice, ma anch’io non mi devo muovere. L’uomo si riprende, dà vita alla tela, allora io sono sempre dai vicini, il padre butta via la forbice, ci ha riflettuto.306
Si tratta di descrizioni caratterizzate da una scrittura densamente evocativa e iconografica, che dipinge luoghi e sensazioni mediante un linguaggio diretto, scabro e duro come uno schiaffo, tanto da farlo risaltare comunque viscerale, immaginifico e ironico fino al cinismo. Talvolta è la descrizione stessa a darsi un nome e una derivazione artistica; come in questa sorta di quadro, ad esempio:
Il ventre riempito era la visione più terrificante. Avete mai visto i quadri di Bosch? Quell’ansia carica di follia e le masse di gente schiacciata come anime all’inferno? Nella mia immaginazione, riuscivo a vederlo concretamente: tutto marrone e rosso scuro, pieno di piccole e affollate sporcizie viventi di cui io ero la dimora. Un ventre riempito che non puoi nascondere da nessuna parte, mica puoi saltar via da te stesso.307
Nella Mano che non mordi, invece, nel descrivere la fisionomia balcanica, è la pittura di Bruegel a fornire la cornice visiva di riferimento:
I volti dei vecchietti nei paesi dei Balcani sembrano usciti dalle tele di Bruegel, portano in sé l’odore del Medioevo. Il sole ha bruciato i loro tratti, la pelle è color terra e crepata, proprio come il suolo senz’acqua.308
Questo procedere per immagini distinte, che si riflette anche nella struttura frammentaria dei romanzi, rendendola inquieta, ecfrastica e mimetica, indubbiamente è da ricondurre alle sue capacità acquisite nelle arti plastiche, come l’autrice conferma nell’intervista a Maria Cristina Mauceri:
Io provengo dalle arti plastiche e sono di formazione frammentaria, la mia struttura mentale è fatta di immagini e avevo voglia di giocare con questo romanzo come fosse un puzzle, dunque un lettore lo poteva leggere come dei racconti e lo poteva vedere anche tutto insieme. Ma devo questo 306
ID., La mano che non mordi, cit., p. 37. Ivi, p. 10. 308 O. VORPSI, La mano che non mordi, cit., p. 16. 307
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all’influsso delle arti plastiche e all’arte contemporanea. Forse una persona che si interessa solo alla scrittura avrebbe scritto un libro più lineare e omogeneo, invece io ho scelto questa frammentazione dovuta a discipline diverse che ho praticato e che mi hanno formato per cui vedo le cose filtrate da questo punto di vista. 309
Non solo la discontinuità della lingua, ma anche la discontinuità della visione rendono difficile etichettare le sue opere, a metà tra romanzi e raccolte di racconti legati da un filo conduttore. Nel Paese dove non si muore mai, addirittura l’io narrante cambia nome a seconda dell’età e del momento storico, col risultato di una successione di episodi distinti che solo alla fine il lettore riconosce come rappresentazioni successive di un unico personaggio e di un’unica vicenda.
4.2
La scrittura “al femminile” di Ornela Vorpsi: ritratti di donne.
L’immagine di donna che la Vorpsi rappresenta nelle sue tre opere è un immagine ibrida, sospesa tra due culture differenti e, proprio per questa ragione, complessa e degna di essere analizzata. Innanzitutto, si nota la presenza di svariati ritratti femminili, utili a evidenziare particolari aspetti che, una volta uniti, creano questa immagine complessiva di donna; la sua scrittura a membri franti disloca ulteriormente le peculiarità che, volta per volta, l’autrice intende porre in rilievo. Nel Paese dove non si muore mai prevale un immagine di donna come vittima costante del regime oppressivo, della famelica curiosità della gente, degli appetiti sessuali violenti di uomini albanesi e non, di soprusi familiari e di punizioni corporali e morali; non vi è solo l’io narrante al centro di queste situazioni ma anche la madre e una serie di personaggi 309
M. C. MAUCERI, Intervista a Ornela Vorpsi, cit.
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femminili secondari, appena tratteggiati. Un esempio significativo di queste “donne in secondo piano” quasi sempre guardate dal punto di vista maschile della condanna sociale, è la madre di Kristina che, incinta di un altro mentre il marito è in carcere, muore dopo aver abortito, e che, proprio per quello sguardo, per la protagonista, non merita neppure le lacrime dei suoi cari:
Kristina non doveva soffrire per quella puttana. Quella notte Elona aspettò il sonno con impazienza, per far arrivare il giorno, per vedere Kristina. Sentiva un pianto lontano, una voce costante, bassa, cupa, ed era convinta che fosse Kristina quella cosa senza nome che piangeva. Oh gli uomini, maledizione… Le donne, l’amore, il sangue e il sesso nero. La morta aveva toccato questo. Il mistero del nascosto, fatto di rami scuri e di sangue che scorre. L’indomani Kristina arrivò. Toccava alla nonna insieme agli zii paterni occuparsi della sua educazione, adesso. Kristina arrivò e non era per niente pallida, né sofferente, né parlò di sua madre. Era come se la cosa non le appartenesse affatto. Non era successo niente. Elona guardava furtiva il viso di Kristina per scoprire tracce di dolore o di lacrime. Niente. Il fratello di Kristina venne più tardi e dichiarò: - Ben le sta, a quella puttana.310
La madre di Kristina, per la società in cui vive, appare come una vittima di sé stessa, che non merita alcuna compassione, in quanto colpevole delle sue stesse sciagure mentre gli uomini non appaiono mai responsabili di alcuna violenza; da parte di lei, non si manifesta alcuna consapevolezza o traccia di ribellione, c’è solo una rinuncia a combattere che si esplica nell’aborto improvvisato e nella conseguente morte. Ganimete e Bukuria, invece, appaiono come figure più forti: anticonformiste e ribelli, incarnano un tentativo di contrasto con la società che le circonda, destinato però a fallire in modo tragico perché le due donne, finite in prigione, chiudono la loro vicenda con il suicidio:
310
O. VORPSI, Il paese dove non si muore mai, cit., pp. 26-27.
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Ganimete viveva sola con sua madre. Suo padre era coperto di mistero. Alcuni assicuravano che avesse riempito la pancia di Bukuria, la madre di Ganimete, per poi abbandonarla, altri affermavano che Bukuria lo tradiva; tornando a casa aveva colto la moglie in flagrante, vedendo quello che più fa male a un uomo: sua moglie che apriva cosce e cuore a un altro nel loro letto nuziale. Ganimete, bimbetta, giocava ai piedi del letto mentre la mamma faceva godere il signore. Da quel giorno – seguendo la seconda versione – Spiro non tornò più a casa, anche se era di sua proprietà. Non fece niente per averla o per avere qualcosa, sparì. Una terza versione vuole che Bukuria avesse accoltellato un uomo, l’uomo era il suo amante. Bukuria fu imprigionata – sempre secondo le voci- per cinque anni e mezzo ( lei se ne infischiò della condanna; uscì più bella che mai, abbronzata da far invidia; nel cortile della prigione stava delle ore a prendere il sole). La liberarono a causa di Ganimete, che cresceva in mezzo alla strada perché Spiro si era dato ai bar e all’alcol senza freni. Così crebbe la piccola Ganimete, dicevano, in grembo agli uomini del quartiere che la facevano giocare sulle loro cosce. Alcuni strofinavano forte il suo piccolo corpo dalle gambe nude sul loro bassoventre.
Tornata a casa Bukuria, la vita di Ganimete smise di svolgersi per le strade. Bukuria diventò muta con tutti, apriva bocca solo per un buongiorno e un buonasera, tutto finiva lì, non aveva da aggiungere altro. Camminava per strada con la testa alta, lo sguardo indurito come per mettere una barriera contro la gente e le chiacchiere. Nella loro casa non entrava piede di donna: per questo le abitanti del quartiere fremevano di curiosità per vedere com’era il paesaggio di queste due solitarie figlie di Eva, che accoglievano solamente visite maschili, e di nascosto. Prima si accertavano dell’identità della persona dalla finestrella, poi davano un’occhiata attorno per vedere se c’erano occhi cattivi che spiavano. A quel punto, Ganimete o Bukuria aprivano e chiudevano la porta con una tale velocità che non c’era mai modo di allargare ulteriormente lo scenario. […] Dall’altra parte del mio giardino, sotto le altre lenzuola e cuscini stesi sui soliti fili elettrici, scorgo dei pezzi bianchi del corpo di Ganimete che sta leggendo i suoi soliti romanzi d’amore. D’estate tirava fuori una sorta di sedia a sdraio che scricchiolava sotto i movimenti del suo corpo ben arrotondato, e consumava romanzi; Carmen, Bel-Ami, Une vie, Guerra e pace, mentre il sole stuprava ogni poro della sua pelle scaldandola tutta fino al calar della sera, quando era costretta a interrompere la lettura per andare a vegliare al solito posto, affacciata alla finestrella.
Spiare Ganimete era per me intravedere da una fessura i misteri che avvolgono la donna. Lei osservava il cerchio che io disegnavo attorno alla sua persona, ma non c’era disagio; tra noi aveva
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messo radici leggere un patto silenzioso, una solidarietà senza nome…Ganimete per me era Carmen. […]
Sono rimasta vicino alla loro porta per tre, quattro giorni, normalmente avrei visto Bukuria uscire per comprare il latte o il pane, invece nessuno sfiora più la porta di quella casa. - Nonna, - ho gridato una volta entrata a casa, - sai che non vedo più Ganimete e neanche sua mamma, non è che hanno traslocato? - Ma no, - mi ha risposto, - poverino, le hanno prese una settimana fa e le hanno internate. Il mio sangue cessò di scorrere, i piedi e le mani diventarono freddi, l’unica cosa che riuscii a fare fu appoggiarmi alla porta d’entrata. Sapevo cosa voleva dire «internato», sapevo cosa significava vivere fuori Tirana in Albania. Sapevo cosa poteva essere per una che, come Ganimete, si era nutrita di Bel-Ami e di Sonata a Kreutzer. - Perché hanno fatto questo nonna, tu ne sai qualcosa? - Non tenevano una buona condotta, le hanno punite per immoralità. Povere donne, - proseguì, - la valigia che hanno portato per il viaggio era mezza vuota, indossavano il vestito di tutti i giorni, erano livide, sono entrate nel camioncino senza neanche alzare lo sguardo.
Dalla finestra della mia camera vedo il giardino di Ganimete spezzato dai fili elettrici che tracciano disegni geometrici per terra. Lei e Bukuria adesso staranno lavorando nei campi, zappando la terra, raccogliendo il mais, rieducandosi. Con il divieto assoluto di allontanarsi da casa – l’internato è una mezza prigione – lavoreranno senza essere pagate, controllate a ogni passo, vivranno in una baracca di fango, odiate dalla gente del villaggio perché sono puttane e per di più vengono dalla capitale. […]
Nessuna novità su Ganimete. Una volta sentii dire a casa che si vendeva ai camionisti per un tozzo di pane, che si era ridotta a uno straccio. Ma non vidi mai più il suo viso a Tirana, anche se ho vissuto a lungo con la speranza che, finito l’internato, l’avrei vista tornare a vivere da qualche parte. La mia attesa finì in un giorno ordinario, uno di quei giorni che non hanno niente di speciale, in cui non ti aspetti niente. Una pioggia breve di primavera diroccava Tirana, mentre il sole brillava forte sull’asfalto bagnato – in quel momento preciso venni a sapere che Ganimete e Bukuria erano morte. Si erano impiccate tutt’e due con lo stesso filo elettrico che scendeva in mezzo alla loro stanza nell’internato.
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La baracca era fatta di mattoni di fango asciugati al sole, dove mancava il vetro e le finestre erano coperte da un nastro adesivo marrone. Che questa baracca abbia avuto un filo elettrico piantato così forte da tenere appesi i corpi magri delle due puttane, intrecciati gola a gola.311
La vicenda di Ganimete e Bukuria è emblematica per il modo con cui lo sguardo di chi narra la loro storia ricostruisce la loro lotta per acquisire una posizione diversa all’interno della gretta realtà che le circonda, usando le armi della bellezza e della cultura, che, inevitabilmente, si conclude con la sconfitta e la morte, per colpa dei meccanismi maschili di sopraffazione messi in atto dal sistema sociale in cui vivono. Quello che conta è il giudizio altrui, che decreta i loro atteggiamenti “immorali” e passibili di una punizione da cui non possono scappare; il suicidio è l’estremo tentativo di ribellione con cui fuggono dalla disumanizzazione che riserva loro l’internato. La donna appare, quindi, schiacciata da un sistema repressivo e maschilista, senza possibilità di rivendicazione alcuna e nella scrittura della Vorpsi, la denuncia appare proprio nel modo indiretto di guardare a queste figure di donne ribelli e inclini a reclamare una propria identità e destinate a fallire, perché vige solo il potere al maschile. Non a caso, l’unica figura femminile libera da queste dinamiche e che, anzi, detiene una discreta dose di potere, è la maestra Dhoksi, la quale, però, ottiene la sua posizione attraverso strumenti di dominio del tutto “maschili”; combatte e punisce violentemente, non possedendole, le armi di bellezza e cultura che la società albanese descritta dal romanzo osteggia con la violenza, mal celando una malsana invidia verso coloro che al contrario ne sono dotate, come notiamo dalle domande incalzanti che rivolge alla protagonista riguardo alla madre:
La bellezza che avvolgeva mia madre la rendeva molto intrigante. Una donna così bella non può fare i mestieri di casa ( si sa che i lavori domestici rovinano la bellezza dentro e fuori). Era precisamente la bellezza, questa tara originaria, che rendeva Dhoksi insidiosa e perfida. Improvvisamente diventava amorevole – una preghiera nascosta. Prendeva una sedia e si metteva accanto a me: « Dimmi un po’, - mi chiedeva in un respiro bollente che mi bruciava il padiglione 311
Ivi, pp. 43, 45-46, 48-49.
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auricolare, - tua mamma lava i piatti e il pavimento? Le garze sporche di mestruazioni? Chi si occupa di tutto questo, eh? Non penso che sia lei, ho ragione, no? Questo fiorellino che stai cucendo è lei che te l’ha disegnato?» Poi il tono della sua voce diventava più supplichevole, più rauco, e più tremanti le sue inflessioni. Voleva sapere se la potevo aiutare: « Tua madre si stende sul viso del tuorlo d’uovo per renderlo più bello? O magari ci mette delle fettine di cetriolo?» Cosa faceva ai capelli per averli così ondulati? Dove cuciva i vestiti? Vedeva degli amici-uomini? Doveva vederli, no? E magari sono in tanti a darle dei consigli amichevoli, che ne dici?312
È proprio l’aspetto sgraziato a rendere la maestra così feroce nei confronti delle altre donne e anche qui lo sguardo di chi racconta non manca di sottolinearne ironicamente i tratti negativi:
Ma Dhoksi non può smettere. La sua mano vola, come in un ballo sognato da lungo tempo. Dài, Dhoksi, insegnami il Partito, perché se no divento puttana. Salvami Dhoksi, con le tue gambe storte e oneste. Tu sei già salva, perché nessuno vuole scoparti.313
Vetri rosa ritrae, invece, un mondo totalmente al femminile, dal quale questi meccanismi repressivi sono a prima vista lontani ma con i quali alla fine l’io narrante viene a contatto violentemente, attraverso la struggente visione della «cosa chiamata Arta»314, incarnazione del soggetto femminile disumanizzato. Il corpo di donna, contrariamente a tutti gli stereotipi che lo riguardano, assume connotati brutali che rasentano la mostruosità, un capovolgimento riscontrabile in non poche figurazioni femminili, come evidenziano molte teorie post-femministe:
[…] il corpo femminile, che pur si suppone occupi lo spazio dell’armonia, della bellezza, dell’accordo e del concorde, appare spesso come mostruosità ibrida. La narrativa delle donne anche in reazione agli stereotipi del femminile si è appropriata di ambigue figurazioni e le ha riprodotte in molte figure dell’universo contemporaneo: il ragno-donna di Louise Bourgeois o di Leslie Silko, la donna-cane di Jeanette Winterson, la donna-uccello di Angela Carter, le donnevampiro e quelle cibernetiche di molta fantasy narrativa e cinematografica. Si elabora così
312 313 314
Ivi, p. 20. Ivi, p. 22. O. VORPSI, Vetri rosa, cit., p. 35.
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l’estetica del discontinuo, dell’interruzione, del discorde, dell’asimmetrico, capovolgendo i canoni del bello o del brutto, corteggiando l’eccesso e il mostruoso, imponendo diverse logiche e sguardi disparati. […] La letteratura femminile si è popolata di strane mostruosità – corpi deformi, creature ibride, forme inquietanti – che mettono in questione la frontiera tra brutto e bello, umano e animale, me e te, femminile e maschile… Molto più indietro, nei tempi prima del tempo, la mitologia ha esibito figurazioni ibride al femminile: le Gorgoni alate e anguicrinite tra cui Medusa che pietrifica chiunque la guardi – “tempestosa bellezza del terrore” sono le parole del poeta romantico Percy B. Shelley nella poesia a lei dedicata – e poi Chimera, la Sfinge, sirene, arpie e simili, inquiete portatrici di morte, assai più sinistre di satiri e centauri miti e dediti alla libidine. Il grottesco femminile è stato sempre riferito, come la stessa parola evoca e la sua etimologia indica, al vuoto, al cavo, al cavernoso. È legato al sublime primigenio di cui “la mente è incapace di ravvisare il nome, se dolore, piacere o terrore” (Burke). Freud riferisce il perturbante alla stessa immagine, al grembo femminile, “il luogo dove ciascuno di noi ha vissuto una volta e in principio”; come il perturbante, questi corpi sono a un tempo familiari – il ritorno a qualcosa dove siamo già stati – e misteriosi poiché rappresentano ciò che non può essere conosciuto e nemmeno osservato. L’incontro con il corpo femminile avvita lo sguardo all’indietro, verso la regione misteriosa e ineffabile legata all’inconscio e al sogno, alla morte e all’origine della vita in un
nodo
inscindibile. […] Più indietro nel tempo, l’elaborazione letteraria e filosofica del concetto di sublime ha trovato nel femminile uno dei suoi referenti: dalla bella e misteriosa Geraldine in Chrystabel di Samuel Coleridge e dalla “belle dame sans merci” della poesia omonima di John Keats agli inizi dell’Ottocento, fino alle donne vampiro di Sheridan Le Fanu, Bram Stoker, Anne Rice: Carmilla, Lucy, Claudia…315
Lo stravolgimento della figurazione della donna, illustrato nella riflessione di Lidia Curti e che rappresenta la consapevole ossessione nel “lato oscuro” è presente nella fisicità espressa dalla scrittura della Vorpsi, materica, corposa e esplicita fino a sfiorare l’oscenità: una fisicità che è solita essere elemento propulsivo del processo creativo letterario al femminile, come avvalorano le varie teorie femministe ben esemplificate dallo “scrivere con il corpo” che Helene Cixous esprime a proposito della struttura del romanzo:
315
L. CURTI, La voce dell’altra, Roma, Meltemi, 2006, pp. 10, 13-14.
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Ci sono diversi tipi di scrittura o approcci alla scrittura. personalmente, quando scrivo romanzi, scrivo con il corpo. Il mio corpo è attivo, non c’è interruzione tra il lavoro che il mio corpo sta facendo e quello che sta per succedere alla pagina. Scrivo molto vicino al mio corpo e alle mie pulsioni. […] Quando scrivi per il teatro e crei i personaggi, la tua posizione di scrittrice è completamente diversa da quella di una scrittrice di romanzi. Devi al contrario sospenderti e sospendere il tuo corpo, perché è l’altro che deve esserci completamente e così tu sperimenti la sparizione, la tua sparizione totale. Cosa succede? È molto difficile a dirsi. Se sei il tipo che è abituato ad avere quel compagno, il corpo, sparire è difficile da realizzare, ed è estremamente doloroso.316
L’insistenza sulla componente fisico-sessuale, che qui appare esorcizzata dal teatro, rispecchia una condizione psicologica di subordinazione che la donna tenta di capovolgere utilizzando le stesse armi di cui l’Occidente si è servito per costruire una figura dominante di uomo, in quanto «nell’Occidente la sessualità è il discorso di potere dominante», come scrive la teorica del femminismo Rosi Braidotti, spiegando:
A questo proposito la ridefinizione femminista del soggetto come altrettanto sottoposto, sebbene in maniera discontinua, all’effetto normativo di molte variabili complesse e sovrapposte (sesso, razza, classe età, e così via) da un lato perpetua la consuetudine del pensiero occidentale di assegnare un primato alla sessualità e dall’altro la critica come uno dei tratti principali del potere discorsivo dell’Occidente. La sessualità come potere, ossia come intuizione, è anche un codice semiotico che organizza la nostra percezione delle differenze morfologiche tra i sessi. È, ovviamente, l’essere inscritto nel linguaggio che fa del soggetto incarnato un «io» dotato di parola, cioè un’entità sessuata funzionale, socializzata. Ritengo che non possa esserci soggettività al di fuori della sessuazione o del linguaggio. Il soggetto, insomma, è sempre sessuato: è una «lei-io» o un « lui-io». Che l’«io» così marcato dal genere, non sia un’essenza nominale, ma semplicemente una comoda finzione, una necessità grammaticale che tiene insieme i molteplici livelli di esperienza che strutturano il soggetto incarnato, come sostiene in maniera convincente il post-strutturalismo, non modifica il fatto che esso abbia una genere, vale a dire, sia sessualmente differenziato. Ciò che voglio affermare è che il punto di partenza delle ridefinizioni della soggettività femminile è una nuova forma di ,materialismo […] che pone l’accento sulla struttura incarnata, e perciò 316
H. CIXOUS, Difficult joys, in AA. VV., The body and the text. Helene Cixous, Reading and Teaching, a c. di H. WILCOX, K. MCWATTERS, A. THOMPSON, L. R. WILLIAMS, Harvester Wheatsheaf, New York, 1990, pp. 27-28.
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sessualmente differenziata, del soggetto di parola. Nell’ambito di questo tipo di materialismo corporeo la variabile della sessualità ha un forte rilievo. Nella teoria femminista una donna parla in quanto tale, sebbene il soggetto «donna» non sia un’essenza monolitica definita una volta per tutte ma, piuttosto, il luogo di una serie di esperienze multiple, complesse e potenzialmente contraddittorie, definite da variabili sovrapposte.[…] il soggetto femminile femminista cui mi riferirò chiamandolo «lei-sè» o «io-donna» va definito mediante una ricerca collettiva che riesamini politicamente la sessualità come sistema sociale e simbolico.317
Inevitabile, quindi, che molte autrici ricorrano a un linguaggio forte e dalle marcate connotazioni erotiche per enfatizzare la propria soggettività femminile. Se nel precedente paragrafo è già ampiamente emersa la fisicità del linguaggio della Vorpsi, espressa da assidui riferimenti alla sfera sessuale e dall’uso di un lessico forte, dalle venature spesso oscene, in questa sede occorre porre l’accento sui ricorrenti dettagli di vita femminile che scandiscono la narrazione. In primo luogo, la frequenza con cui inserisce il fenomeno del ciclo mestruale, dettata non solo dall’elemento del sangue, su cui ci si è soffermati in precedenza, ma anche dalla volontà di rappresentare il corpo della donna mentre sta assumendo i suoi tratti più caratteristici: evento sconosciuto e mitizzato dalla lettura dei libri, al suo comparire diventa immediatamente consueto, nonostante l’iniziale delusione nel non vedere un «sangue rossissimo come quello dei partigiani»318. È assente dall’immaginario costruito dalla Vorpsi, il fattore della ripugnanza per il proprio corpo che cambia, sofferenza che affligge molte ragazze alla soglia della pubertà319. La fisicità sfiora il proibito e l’osceno nella descrizione dei «giochi segreti» delle bambine in Vetri rosa, giochi che, apparentemente, rendono estranei gli uomini a
317
R. BRAIDOTTI, Soggetto nomade. Femminismo e critica della modernità, Roma, Donzelli Editore 1995, pp. 57-58. 318 O. VORPSI, Il paese dove non si muore mai, cit., p. 96. 319 «Talvolta, nel periodo che può chiamarsi periodo di prepubertà e che precede l’apparizione dei mestrui, la bambina non prova ancora ripugnanza per il suo corpo; è fiera di diventare donna, osserva con soddisfazione il maturare del seno, imbottisce il giubbotto di fazzoletti e si vanta con le più grandi; non coglie ancora il significato dei fenomeni che si producono in lei. La prima mestruazione glielo rivela e appare la vergogna. Se esisteva già, da questo momento si stabilizza e aumenta. Tutte le testimonianze concordano: anche se è stata informata prima, l’avvenimento è per la bambina una cosa che la ripugna e la umilia.» S. DE BEAUVOIR, Il secondo sesso, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 305.
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quest’universo, ma, in realtà, come già anticipato, trasformano l’“assenza presente” dell’elemento maschile nel leit-motiv dei loro incontri, come una sorta di implicito richiamo al freudiano «complesso di castrazione» delle donne e alla conseguente «invidia del pene»320. Le bambine sono coscienti di fare qualcosa di “immorale”, “scorretto”, per questo mantengono la segretezza di questi incontri. A questo proposito vale la pena ricordare un passo di Simone De Beauvoir:
[…] la vita sessuale della bambina è sempre stata clandestina; quando il suo erotismo si evolve e invade tutta la sua carne, il suo mistero diventa motivo d’angoscia; subisce il turbamento come una malattia vergognosa; non è attivo; è uno stato in cui si trova e anche con l’immaginazione non può liberarsene mediante una decisione autonoma; non sogna di prendere, di penetrare, di violare: essa è solo attesa e richiamo; è in condizione di dipendenza, si sente in pericolo con la sua carne alienata. Perché la sua speranza diffusa, il suo sogno di tranquilla passività le mostrano con chiarezza il suo corpo destinato a un altro; essa vuol conoscere l’esperienza sessuale solo nella sua immanenza; è il contatto della mano, della bocca, di un’altra carne che chiede e non la mano, la bocca , la carne estranea; lascia nell’ombra l’immagine del compagno o la circonda di veli fantastici; tuttavia non può impedire che la sua presenza la tormenti. I suoi terrori, la sua ripugnanza giovanile nei riguardi dell’uomo hanno preso un carattere più equivoco di prima e perciò più angoscioso. Nascevano un tempo da un profondo contrasto tra l’organismo infantile e il suo avvenire da adulta; adesso hanno origine dalla stessa complessità che la fanciulla prova nella carne. Capisce di essere destinata al possesso perché ne ha bisogno: e si ribella ai suoi desideri. Desidera e nello stesso tempo teme la vergognosa passività della sua preda consenziente.321
Talvolta, nell’opera della Vorpsi fin qui pubblicata, la sua scrittura femminile pare essere sottratta delle sue componenti più strettamente “tangibili” e “corporali”. Ancora nella Mano che non mordi, ad esempio, l’apparente allontanamento deriva da una situazione di effetto di distanza, dato dal tema dell’emigrazione, che ha reso l’io narrante esente, per un lungo lasso di tempo, dalle dinamiche repressive di una società “androcentrica”, permettendole, probabilmente, di vivere con maggior serenità la propria condizione di donna. Ma l’io narrante si renderà conto 320
S. FREUD, Tre saggi sulla sessualità, in ID., Sessualità e vita amorosa, Roma, Newton and Compton, 1997, pp. 62-63. 321 S. DE BEAUVOIR, Il secondo sesso, cit., p. 315.
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lei stessa, una volta tornata nei Balcani, ad una cena, di come non le sarà mai possibile fuggire da certi modi di pensare, che si traducono in sguardi: Comincia così la serie degli sguardi maliziosi, dei sorrisi di varie sfumature. Parole sotto i denti soffocate dalle lingue anestetizzate dall’alcol. […] Le occhiate balcaniche raggiungono l’apice. Nel frattempo i petti di pollo si lacerano sotto dita robuste. Dopo un po’, mentre li vedo sghignazzare a più non posso, oso chiedere che la smettano perché capisco cosa stanno mormorando mentre mi guardano come bambini che nascondono un giocattolo. - Cosa stiamo dicendo, allora? Non so come dir loro che parlano di sesso, di sesso volgare, perché a tavola si deve star composti; non so come tradurre quello che leggo nel loro sfrenato dire malizioso e glielo butto lì senza tanto coraggio: - Pornografia. - Ah tu, tu si vede che sei il diavolo! Vuol dire che capisci la lingua bosniaca! Ci hai mentito! E ci parlavi in inglese! Invece capisci tutto, eh? - Non capisco un accidente, - mi affretto a dire, - ma mi bastano i vostri sguardi, le vostre risate. Il brandy inglese continua a salire nelle loro vene. - Sì, sì, - ride di gusto il bell’Ahmed, - tu capisci l’esperanto balcanico! - Sì, è proprio questo che ho capito, l’esperanto balcanico. Sono colta dal terrore.322
Le “occhiate balcaniche”, insomma, hanno la funzione di ripristinare il contesto della vita albanese in primo piano, dove campeggiano ritratti di donne oggetto di violenza; l’esempio lo troviamo nella Mano che non mordi, nella madre del suo amico Aurel:
Il padre di Aurel se l’è presa con sua moglie. Maledettamente è domenica, e la noia invade ogni cosa. Se l’è presa veramente. Aurel cerca con rabbia di sottrarre sua madre alle sberle violente del padre. L’uomo tiene una forbice aperta e la punta alla gola della donna. […] La moglie si rialza, ha il viso tumefatto e spento, sussurra: - Non so dove andare, voglio andarmene ma non so dove posso andare.
322
ID., La mano che non mordi, cit., pp. 27-28.
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Aurel la rassicura: - Non ti preoccupare mamma, appena sarò grande ti sposo io. Non disperarti così. - Vieni, - mi fa segno da lontano, visto che sono rimasta immobile, - passerà, sposerò io la mamma. Lo seguo. Ed è così che ci troviamo tutti e tre nella cucina a bere uno sciroppo caldo di prugne. Lo sciroppo è molto, ma molto zuccherato.323
La dolcezza dello sciroppo contrasta nettamente con la tragicità della scena, apparentemente stemperandola ma in realtà alimentandone la carica drammatica; i tre che si ritrovano in cucina come se nulla fosse accaduto descrivono un’assuefazione alla violenza, tipica di chi è abituato a patirla sulla propria pelle quotidianamente, senza opporre alcuna resistenza. Nei testi della Vorpsi è interessante provare a ricomporre i vari aspetti dell’io narrante disseminati nelle varie opere: aspetti di un’infanzia e di un’adolescenza albanese, nelle prime due, in cui una maggiore consapevolezza della realtà circostante si manifesta solo alle soglie dell’età adulta, ossia a conclusione di entrambi i romanzi; il carattere formato ma nello stesso tempo ancora contraddistinto dalle fragilità di un tempo, nella Mano che non mordi, in cui l’emigrazione ha consentito di creare un filtro emotivo per sopperire alle debolezze maturate dalla protagonista durante la propria crescita. Ma per la sua complessità, è il personaggio della madre che merita alcune riflessioni specifiche, proprio per l’ambiguità del rapporto che la lega alla protagonista. Tutte le tre opere sono attraversate da questo «amore aguzzo» che la bambina prova nei confronti della figura materna: ogni seppur minima separazione da lei le reca dolore, la segrega nel baratro buio della solitudine e nello stesso tempo è il saperla sola che spaventa la protagonista: ogni volta è lei a temere che la bellezza della madre la renda fragile e troppo esposta alla brutalità del mondo circostante. Questa paura è ben evidente nelle quotidiane visite alla nonna del Paese dove non si muore mai, dove si notano gli sguardi sulla madre quando «passava sotto gli sguardi ammirati degli uomini e quelli invidiosi delle donne». La bambina qui la 323
Ivi, pp. 37-38.
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osserva ancora da spettatrice e ne fa l’oggetto di una sorta di venerazione, ancora immune, per la giovane età, dall’invidia femminile, mentre le altre donne, proprio per la sua avvenenza «l’avrebbero spolpata o mangiata viva, l’avrebbero gettata in pasto ai cani»324. Il senso di abbandono che coglie la bambina ad ogni allontanamento materno è ben esplicato in Vetri rosa, esattamente nel capitolo Il colore blu, quando la piccola, andando a scuola, scopre la «grande solitudine […] l’aguzza, la spietata che ti getta contro a un muro di cemento armato per poi farti giacere a terra dolore e sangue»325(ancora una volta è l’aggettivo “aguzzo” ad indicare i sentimenti legati alla figura materna). Abbiamo visto, invece, come, nella Mano che non mordi, sia ancora più accentuato l’istinto taumaturgico di protezione nei confronti della madre: non si tratta più dell’ingenuo desiderio della bambina di “salvare” la madre dal mondo esterno, desiderio che nasconde più che altro un affetto esclusivo e morboso, bensì di un ragionamento a posteriori della figlia emigrata, che riconosce quanto certi modelli, da lei appresi solo al di fuori dell’Albania, avrebbero potuto giovare alla madre nel suo rapportarsi con gli altri, specialmente con gli uomini. Ma sulla rappresentazione dei rapporti madre-figlia nella narrativa femminile contemporanea, estendendo il campo di indagine, si finirebbe per provare che il caso della Vorpsi troverebbe molte conferme anche in ambito italiano. Ad esempio, tra le autrici italiane contemporanee, riscontriamo un’affettività analoga a quella della Vorpsi nelle opere di Elena Ferrante, in particolare ne L’amore molesto326, in cui il rapporto madre-figlia è indagato e scavato nei suoi aspetti più dolorosi e profondi. Nei confronti della madre Amalia, la protagonista del romanzo, Delia, da bambina pare essere afflitta da un’ansia da separazione simile a quella che troviamo nel Paese dove non si muore mai o in Vetri rosa:
Mi ero sempre figurata una trama di agguati tessuta apposta per farla sparire dal mondo. Quand’ero piccola trascorrevo il tempo delle sue assenze ad aspettarla in cucina, dietro i vetri della finestra. Smaniavo perché riapparisse in fondo alla via come una figura in una sfera di cristallo.
324
Ivi, p. 15. O. VORPSI, Vetri rosa, cit., p. 21. 326 E. FERRANTE, L’amore molesto, Roma, e/o, 2006. 325
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Respiravo sul vetro appannandolo, per non vedere la strada senza di lei. Se tardava, l’ansia diventava così incontenibile che debordava in tremiti del corpo. Allora scappavo in un ripostiglio senza finestre e senza luce elettrica, proprio accanto alla camera sua e di mio padre. Chiudevo la porta e me ne stavo al buio, a piangere in silenzio. Lo stanzino era un antidoto efficace. Mi ispirava un terrore che teneva a bada l’ansia per la sorte di mia madre. Nel buio pesto, soffocante per il ddt, ero aggredita da forme colorate che mi lambivano per pochi secondi le pupille lasciandomi senza fiato. «Quando torni ti ucciderò» pensavo, come se fosse stata lei a lasciarmi chiusa lì dentro. Ma poi, appena sentivo la sua voce nel corridoio, sgattaiolavo fuori in fretta per andare a girarle intorno con indifferenza.327
Il senso d’angoscia che induce la figlia a vedere pericoli ovunque è sintomatico di un amore doloroso, che l’io narrante de L’amore molesto fatica a esplicitare. Solo in età adulta si rende conto dell’entità di tale sentimento, che ha tentato di allontanare ed estirpare in ogni modo durante l’infanzia, com’è ben avvalorato da un flashback in cui la stessa protagonista ricorda un episodio infantile:
Quel dito ferito di mia madre, forato dall’ago quando non aveva nemmeno dieci anni, mi era noto più delle mie dita proprio grazie a quel dettaglio. Era viola e alla lunetta l’unghia pareva sprofondare. Avevo desiderato a lungo di leccarlo e succhiarlo, più dei suoi capezzoli. Forse me l’aveva lasciato fare quando ero ancora molto piccola, senza sottrarsi. Sul polpastrello c’era una cicatrice bianca: la ferita s’era infettata, gliel’avevano incisa. Io ci sentivo intorno l’odore della sua vecchia Singer, con quella forma d’animale elegante mezzo cane mezzo gatto, l’odore della corda di cuoio screpolato che trasmetteva il movimento del pedale dal volano grande a quello piccolo, l’ago che andava su e giù dal muso, il filo che correva per le nari e le orecchie, il rocchetto che ruotava sul perno conficcato nella groppa. Ci sentivo il sapore dell’olio che serviva a ingrassarla, la pasta nera del grasso mista a polvere che grattavo via con l’unghia e mangiavo di nascosto. Progettavo di bucarmi anch’io l’unghia, per farle capire che era rischioso negarmi quello che non avevo. Erano troppe le storie delle sue infinite, minuscole diversità che la rendevano irraggiungibile, e che tutte insieme la facevano diventare un essere desiderato, nel mondo esterno, almeno quanto la desideravo io. C’era stato un tempo in cui mi ero immaginata di staccarle quel dito eccezionale con un morso, perché non riuscivo a trovare quel coraggio di offrire il mio alla bocca della Singer. Ciò
327
Ivi, p. 11.
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che di lei non mi era stato concesso volevo cancellarglielo dal corpo. Così niente più si sarebbe perso o disperso lontano da me, perché finalmente tutto era già stato perduto.328
Nella Ferrante, l’impossibilità di “possederla” induce l’io narrante a capovolgere il suo amore in un opposto impulso di risentimento verso la madre, diventata per lei oggetto di recriminazioni e fantasie rancorose di attribuzione e di annientamento del proprio io:
Accadeva dopo che negli anni, per odio, per paura, avevo desiderato di perdere ogni radice in lei, fino alle più profonde: i suoi gesti, le sue inflessioni di voce, il modo di prendere un bicchiere o bere da una tazza, come ci si infila una gonna, come un vestito, l’ordine degli oggetti in cucina, nei cassetti, le modalità dei lavaggi più intimi, i gusti alimentari, le repulsioni, gli entusiasmi, e poi la lingua, la città, i ritmi del respiro. Tutto rifatto, per diventare io e staccarmi da lei. D’altro canto non avevo voluto o non ero riuscita a radicare in me nessuno. Tra qualche tempo avrei perso anche la possibilità di avere figli. Nessun essere umano si sarebbe staccato da me con l’angoscia con cui io mi ero staccata da mia madre soltanto perché non ero riuscita mai ad attaccarmi a lei definitivamente. Non ci sarebbe stato nessun più e nessun meno tra me e un altro fatto di me. Sarei rimasta io alla fine, infelice, scontenta di quello che avevo trascinato furtivamente fuori dal corpo di Amalia. Poco, troppo poco, il bottino che ero riuscita a rapirle strappandolo al suo sangue, al suo ventre e alla misura del suo fiato, per nasconderlo nella materia bizzosa del cervello. Insufficiente. Che fard ingenuo e sbadato era stato cercar di definire «io» questa fuga obbligata da un corpo di donna, sebbene ne avessi portato via meno che niente! Non ero alcun io.329
La figlia attribuisce, inoltre, alla madre, atteggiamenti sensuali e scandalosi che in realtà la donna si è sempre curata di evitare, reprimendo ogni minimo accenno di femminilità, per colpa di un marito violento e sospettoso: questo è un altro effetto accostabile alla figura materna dipinta dalla Vorpsi, che però si libera di questa costrizione con la scomparsa del marito. Ma in Ornela Vorpsi, siamo lontani dall’archetipo della «donna spezzata», nato dalla penna della De Beauvoir e ripreso con dinamiche analoghe dalla Ferrante nei
328 329
Ivi, p. 75-76. Ivi, p. 77.
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Giorni dell’abbandono330: la donna della Vorpsi, per quanto soggiogata da un immaginario maschilista, non si fa sconfiggere dalla fuga di un uomo, specie, poi, se è lui a perdere la dignità in questo allontanamento, come nel caso dell’incarcerazione del padre nel Paese dove non si muore mai. È affine, invece, nelle due autrici, l’istinto di repulsione nei confronti della figura paterna da parte della figlia, che, nel caso dell’ Amore molesto, desidera unicamente che lui scompaia dalla propria vita e da quella di madre e sorelle:
Ma noi pensavamo, invece, che nostro padre, per tutto quello ce faceva, dovesse uscire di casa un mattino e morire bruciato o schiacciato o affogato. Lo pensavamo e la odiavamo, perché era la molla di quei pensieri. Su questo non avevamo dubbi e non me l’ero dimenticato.331
L’universo maschile, in ogni caso, appare sempre accompagnato dal desiderio sessuale, dalla conoscenza di quello maneggiato dagli altri uomini e soprattutto da una violenza immotivata che spesso è all’origine del non amore nei confronti del padre, nel Paese dove non si muore mai:
Un giorno, mentre mi portava svogliatamente all’asilo, gli chiesi delle cicche che vendevano lì davanti e che sembravano vere caramelle. Che meraviglia questi bonbon che si trasformano in cicche…tenendoli nella bocca per un bel po’, la corazza rigida si dissolve lasciandoti sentire la carne dolce e già tiepida della gomma. Lui mi rispose di no ma io insistevo – li voglio, per favore, almeno uno: a quel punto mi tirò giù dalla bicicletta assestandomi delle sberle così violente che per giorni le mie cosce sono rimaste striate di sangue coagulato. Mi domando se sia stato in quel giorno che ho smesso di amarlo.332
Al ritorno del padre, anni dopo, capisce ben presto che il tentativo di avvicinarsi da parte di lui è solamente dettato dalla volontà di riunirsi con la madre, alla quale questi è ancora ossessivamente legato. Il “non-amore” si fa ancora più esplicito:
330
E. FERRANTE, I giorni dell’abbandono, Roma, e/o, 2007. Ivi, p. 64. 332 O. VORPSI, Il paese dove non si muore mai, cit., pp. 31-32. 331
154
Mi rendo conto che piango per lo stupore del sentimento che provo: io non amo quest’uomo, il fatto mi provoca amarezza, mi duole, perché normalmente lo dovrei amare. Spontaneamente mi chiedo se le sue lacrime sono d’amore, mi domando questo vedendo quello che verso io; non sono d’amore, sono fatte di colpevolezza di non amare, di disillusione sulla fedeltà dei sentimenti, di dispiacere profondo perché questo signore di fronte a me - mio padre biologico – è tutto coperto di capelli bianchi, l’ultima volta che l’ho visto erano ancora scuri. Il tempo ci ha divisi rubandomi ( rubandoci) tutto; amore, memoria, complicità, nel caso in cui fossero mai stati. Subito mi chiede della mamma. Vuole sapere come sta. Io rispondo, poi un silenzio rigido ci piomba addosso. La lacuna degli anni di separazione impone un distacco severo. - Ci vedremo spesso ora, - dice, guardandomi contento. Sì.
Non so quanto tempo passammo insieme, ma rientrando a casa mi buttai nelle braccia della mamma. È lei che conosco, che amo: la mamma.333
L’analisi dei rapporti familiari che emerge sia dai romanzi della Vorpsi che da quelli della Ferrante, pare presentare, quindi, non poche similitudini. Una di queste consiste proprio nel sentimento di un’ossessione nei confronti della figura materna, che giustifica l’interpretazione della recente critica femminista circa l’importanza della “matrilinearità” del processo creativo, in contrapposizione alla patrilinearità dominante, che riserva alle donne, nella tradizione letteraria, unicamente il ruolo di muse ispiratrici. Ne deriva una concezione della storia letteraria come «costruita sulla base della relazione tra madre e figlia, intesa come una relazione di empowerment e nutrimento reciproco, piuttosto che di competizione e rivalità»334, come scrive Sonia Sabelli:
[…] è necessario indagare le ragioni dell’importanza attribuita alla relazione matrilineare, e svelare quali pratici ed emozionali essa giochi nelle vite delle singole scrittrici, senza dimenticare gli aspetti più problematici, come il rischio di presentare la relazione materna in termini idealizzati. 333
Ivi, pp. 98-99. S. SABELLI, Scrittrici eccentriche: generi e genalogie nella letteratura della migrazione, in AA. VV., Dentro/Fuori/ Sopra/Sotto. Critica femminista e canone letterario negli studi di italianistica, cit., p. 174. 334
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Infatti le interconnessioni tra le scrittrici non sempre si rivelano positive come la metafora materna potrebbe far credere: anzi, sia la possibilità di posizionarsi all’interno di una genealogia femminile, sia la relazione delle singole autrici con la tradizione letteraria, può essere vissuta in maniera altamente problematica. Inoltre, nonostante sia necessario pensare nei termini della “donna poeta” o della “donna scrittrice” nello stadio iniziale della costruzione di una critica femminista, essa è un personaggio mitico, che non esiste nella vita reale, al pari dell’archetipo del “poeta maschio”. Nella realtà esistono un’immensa varietà di autrici e una molteplicità di discorsi, caratterizzati da differenze e divisioni, da cui non si può trascendere se si vuole rendere conto di una tradizione femminile Quando Virginia Woolf scrive: « Perché, se siamo donne, dobbiamo pensare il passato attraverso le nostre madri», anticipa la questione di una genealogia femminile che riconosca il ruolo propulsivo della relazione madre-figlia e suggerisce la possibilità della trasmissione di una eredità femminile. Grazie all’instancabile lavoro di ricerca e di riscoperta compiuto dalla critica femminista negli ultimi decenni, alcune scrittrici sono entrate ormai a far parte dell’establishment letterario.335
Tuttavia, e proprio il caso della Vorpsi lo dimostra, il tentativo di «pensare il passato attraverso le nostre madri», come dichiara la Woolf, non sempre appare un esercizio indolore e pacificato: si può dire infatti che, in tal caso, è «come se il corpo si facesse [doppiamente] portatore di parole»336.
4.3
Raccontare lo spaesamento: la “scrittura migrante”.
Da un punto di vista prettamente linguistico, abbiamo rilevato come la scrittura di Ornela Vorpsi sia da ritenersi “migrante” per le sue caratteristiche intrinseche di contaminazione e ibridazione. Da un punto di vista contenutistico, la migranza è la tappa finale della formazione della protagonista, nel Paese dove non si muore
335 336
Ivi, pp. 174-175. E. FERRANTE, La frantumaglia, Roma, e/o, 2003, p. 101.
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mai, è presente, invece, solo allegoricamente in Vetri rosa ed è, infine, il nucleo tematico portante della Mano che non mordi. Nel romanzo d’esordio, l’emigrazione compare inaspettatamente nell’epilogo, preannunciata velatamente solo da alcuni vagheggiamenti a un’Italia «terra promessa»; la constatazione che “tutto il mondo è paese” traspare, ironicamente, dall’incoscienza di madre e figlia, ingenue e inconsapevoli di fronte a una proposta sconcia, sintomatica di un maschilismo dal quale non è libera neppure la «terra tanto sognata, scenografia di ogni amore nascosto in fondo al cuore»337. A proposito della globalizzazione dell’ideologia al maschile, la stessa Vorpsi dichiara come l’emigrazione sia sentita in quanto presa di coscienza di un atteggiamento comune da parte dei popoli mediterranei nei confronti del sesso femminile. Qui tocchiamo un altro tema che è corrispettivo di quello della cosiddetta “interlingua” e che consiste nel vivere in un’area intermedia tra quello che si vede e quello che si è sperato o si sarebbe voluto vedere. Significativa la visione ingenua della bambina, che si stupisce nel contemplare dettagli paesaggistici comuni, propri anche al suo paese:
I primi segni di terra cominciarono a disegnarsi in mosaici di campi coltivati di vari colori. Anche qui l’erba è verde, pensò, la gente cammina utilizzando i piedi, come noi, disse alla mamma, come noi, che ci dividono galassie!338
È frequente riscontrare in scritture migranti una visione del paese d’approdo come luogo edenico, differente da quello d’origine e, per questo, privo di qualsivoglia asperità, un tipico processo di illusione-delusione da cui ben pochi immigrati sono immuni, la cosiddetta «doppia assenza» di cui parla Sayad nel saggio omonimo in cui ricostruisce efficacemente le aspettative dei migranti, costruite con gli stereotipi standardizzati e interiorizzati nel paese d’origine e puntualmente disattese una volta a destinazione. Efficace la resa narrativa di questa concezione, costruita con la testimonianza di un emigrato cabilo in Francia: 337 338
O. VORPSI, Il paese dove non si muore mai, cit., p. 108. Ibidem.
157
È così che la Francia ci entra fin dentro le ossa. Una volta che te lo sei messo in testa è finita, non ti esce più dalla mente. Finiti i lavori per conto tuo, finita la voglia di fare qualcosa d’altro, non si vede altra soluzione che partire. A partire da quel momento la Francia è entrata dentro di te, non ti lascia più. Ce l’hai sempre davanti agli occhi. Diventiamo dei posseduti. […] Quando penso adesso a tutto quello cui sono andato incontro, a tutto quello che ho aspettato, a tutti i viaggi che ho fatto, a tutte le persone che ho supplicato, bisogna proprio essere arrabbiati per accettarlo, solo per potere arrivare in Francia.[…] Anch’io, come tutti, ho detto le stesse cose sulla Francia, e questo per dei giorni, delle notti, degli anni interi: “ Che Dio mi faccia sparire da questo paese!”. Il paese della “ristrettezza”, il paese della povertà, il paese della miseria, il paese “storto”, “rovesciato”, il paese “del contrario”, il paese del declino, il paese che suscita disprezzo per la sua gente, il paese incapace di trattenere la sua gente, il paese dimenticato da Dio… E si giura, si promette: “Il giorno in cui uscirò da qui [ dal mio paese], non pronuncerò mai più il tuo nome, non mi volterò verso di te, non ritornerò da te”. Io stesso mi ricordo quante volte mi sono appellato non alla “facilità” e a tutti gli auguri che si fanno a chi intraprende il cammino ma alla forza dei demoni. “ Che io sia portato via, rapito da qui”, era a casa mia un’espressione più consueta di quella con cui si invoca la buona grazia: “Che Dio apra o “faciliti” il cammino”. In realtà tutto questo è solo menzogna, come si dice, “ una menzogna sopra l’altra”. Quanto sei amara, o patria, quando pensiamo di lasciarti! E quanto ti desideriamo, o Francia, prima di conoscerti!... Tutto questo perché nel nostro villaggio si parla solo della Francia. Le persone hanno solo la Francia sulle labbra. […] In realtà nessuno sa nulla [della Francia]. La gente ne parla facilmente e la Francia sembra luminosa per tutti. È così. La Francia piace a tutti, è bella agli occhi di tutti […]. Ma che cosa vuoi che si dica veramente della Francia? Non la si conosce. Si dice… si dice che è “il paese della felicità”, tutto qui! […] Che Francia ho scoperto! Non era proprio quello che mi aspettavo di trovare […]. Io credevo che la Francia non fosse l’esilio. Bisogna invece arrivare qui in Francia per conoscere la verità. Qui senti dire le cose che non vengono mai dette laggiù, in patria. Si sente dire di tutto. “ Non è una vita da esseri uani, è una vita che non possiamo amare. Da noi la vita dei cani è migliore di questa…” . Mi ricorderò sempre l’immagine del mio arrivo in Francia, è stata la prima cosa che ho visto, la prima cosa che ho sentito: qualcuno bussa a una porta, che si apre su una camera piccola, da cui escono degli odori mescolati, l’umidità, l’aria viziata, il sudore di uomini addormentati. Che tristezza! Quanta infelicità nel loro sguardo, nella loro voce – parlavano a voce bassa-, nei loro discorsi. Da quel momento ho potuto vedere che cos’è la solitudine, che cos’è la tristezza:
158
l’oscurità della camera, l’oscurità nella camera[…], l’oscurità nella strada… l’oscurità di tutta la Francia, perché nella nostra Francia ci sono solo tenebre. […] No, nessuno ci ha mai spiegato com’è la Francia, prima di conoscerla. Li vedi ritornare, sono ben vestiti, hanno valigie piene, soldi in tasca, li vedi spendere soldi che non guardano neppure. sono belli, sono grassi. E quando parlano, che cosa dicono? Parlano del loro lavoro. Li si ammira quando dicono: “Faccio un lavoro difficile”. Qualcuno sospetta che mentano perché si vantano di fare un lavoro difficile, un lavoro duro. Il lavoro è sempre duro, bisogna essere forti per svolgerlo, e questo vuol dire che guadagnano molti soldi. Ecco che cosa si capisce quando non si vede con i propri occhi… Di tutto il resto, nessuno ne parla.339
Ma la verità è destinata ad emergere e si capirà che solo con l’arrivo del diffondersi di un relativismo culturale si potrà realizzare l’auspicio di una concreta integrazione tra immigrati e autoctoni, nella futura “società globale”, come suggerisce Sayad:
[…] immigrare è immigrare con la propria storia ( perché l’immigrazione è essa stessa parte integrante di quella storia), con le proprie tradizioni, i propri modi di vivere, di sentire, di agire e di pensare, con la propria lingua, la propria religione così come con tutte le altre strutture sociali, politiche, mentali della propria società, strutture caratteristiche della persona e indissolubilmente della società, poiché le prime non sono che l’incorporazione delle seconde, in breve della propria cultura. Oggi lo si scopre e ci si stupisce ( per non dire che ci si scandalizza), quando la cosa era prevedibile fin dal primo atto dell’immigrazione, cioè fin dall’arrivo del primo immigrato: prevedibile di diritto, ma imprevista di fatto, perché era necessario rifiutarsi di fare delle previsioni affinchè l’immigrazione nascesse e continuasse nella forma conosciuta. In particolare è questo il senso di una parte del discorso attuale sugli apporti culturali o sugli effetti culturali dell’immigrazione, che li si apprezzi o li si deplori, che li si lodi o li si denunci, che è sempre un modo di riconoscerli, un modo di ammetterli e anche un modo di far figurare questi apporti nella colonna ora dei “profitti” ora dei “costi” in quella grande contabilità cui dà luogo la presenza degli immigrati e che qui, integra ciò che non dipende dall’ordine del contabile ( per esempio dell’economia in senso stretto). Sebbene non bastino, per arrivare a questo punto, i soli cambiamenti interni al fenomeno dell’immigrazione e alla popolazione immigrata e le trasformazioni connesse che si sono prodotte nella relazione con l’immigrazione. È stato necessario aggiungere quella specie di disposizione culturale generale ( cioè trasponi bile, negli 339
A. SAYAD, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Cortina Editore, 2002, pp. 23-24, 27, 31.
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stessi individui o gruppi d’individui che ne sono detentori, a tutte le sfere dell’esistenza) e largamente condivisa, almeno in quanto affermazione di principio da cui non è possibile trarre conseguenze pratiche, nota con il nome di relativismo culturale. È un atteggiamento colto – di persone che hanno un rapporto colto con la propria cultura – verso la cultura degli altri, che essi considerano in modo da farne un oggetto di cultura di cui possono appropriarsi e che possono aggiungere alla propria cultura. “Una cultura vale l’altra”, come una lingua vale l’altra o, ancora (ma con maggiore riserva, salvo che per qualche scettico o qualche agnostico che tenderebbe a confonderle nella stessa indifferenza o nella stessa negazione), come una religione vale l’altra. Ma questo è possibile soltanto in un qualche “cielo puro delle culture” (o delle lingue o delle religioni). Questa professione di fede relativistica, generalizzandosi e volgarizzandosi o, in un certo modo, secolarizzandosi (cioè abbandonando il territorio che le è proprio o per il quale fu inventata, la sfera epistemologica) ha finito per elevarsi in una specie di assoluto ( o di dogma) che non teme alcuna relativizzazione, in contraddizione con il realismo sociologico.340
Questo processo di illusione-delusione è rilevabile soprattutto in autori che sono stati configurati come appartenenti alla cosiddetta “fase esotica”, in cui maggiore è la componente autobiografica, legata, appunto, a un recente spostamento a una realtà ritenuta portatrice di benessere. Immigrato di Salah Methnani, rappresenta un esempio calzante di questa sensazione tipica del migrante, che veste la situazione narrata, a partire dal materiale autobiografico rielaborato, per inserirsi appieno nelle caratteristiche già elencate di questo neonato filone letterario ma portando alla luce, nello stesso tempo, anche immagini che verranno riprese da testi successivi, più elaborati e stilisticamente complessi. Sull’importanza di questo testo ai fini della creazione di una “poetica della migranza” è utile leggere alcuni punti delle recensione a Immigrato pubblicata da «Kumà»:
Il protagonista, in effetti, non lascia la propria terra per necessità economiche. E’, almeno all’inizio, un viaggiatore, se non proprio un turista, un laureato in lingue che, nel gioco spaziale della vicinanza-distanza che unisce e separa nella realtà mediterranea la Tunisia e l’Italia, vuol verificare, come lo stesso scrittore ha dichiarato, di “essere in grado di viaggiare dovunque nel mondo e comunicare con i vari popoli del pianeta”. La prima motivazione al viaggio, seppur della durata di qualche giorno, è anzi perfettamente in linea con il mirage culturale e letterario della civiltà italiana conosciuta sui libri di studio, tant’è vero che al ritorno da Trapani e Palermo gli 340
Ivi, p. 13.
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amici si stupiscono che il protagonista si sia limitato a visitare musei e chiese e ad andare al cinema e sia rimasto refrattario al richiamo della società dei consumi e al mito delle griffes alla moda. L’incertezza della condizione psicologica, tra espatrio e nomadismo, prevale invece in occasione della partenza definitiva, sollecitata dal desiderio di realizzare il sogno di andarsene dalla Tunisia, sotto la suggestione delle images dell’Italia e dell’Occidente proiettate dalla televisione e recepite anche come stereotipi standardizzati dal racconto degli amici tornati in patria. La testualità conferma tale stato d’animo attraverso l’adozione di formule oppositive (“poi, senza deciderlo veramente, decisi di partire”7) o interrogative (“Mi domandavo: “Sto partendo come un emigrante nordafricano o come un qualsiasi ragazzo che vuole conoscere il mondo?”. Quel giorno, non sapevo rispondermi”). La risposta arriverà quando il soggetto prenderà atto che la migrazione comporta un cambiamento nell’identità individuale e culturale e che agli spostamenti nello spazio corrispondono degli spostamenti psicologici. Costretto ad affrontare una vita diversa, il migrante subisce condizionamenti sociali che revocano in dubbio l’immagine di sé e che determinano una revisione della identità, ridefinita dalle difficoltà di rapporto con l’altro, dal tentativo di superare i pregiudizi e la diffidenza che l’io incontra nella dinamica relazionale con la collettività degli indigeni o di altri paesi. E’ dunque lo scontro tra il mito introiettato dell’Italia come paese fortunato, luogo di delizie sessuali e di libertà, e la constatazione di una realtà che assume i contorni di una bolgia dantesca, fatta di povertà, droga, violenza, emarginazione, prostituzione, a definire la condizione di immigrato del protagonista che non può, in un consapevole processo speculare di autoriconoscimento, non prendere atto della perdita di una identità individuale compatta, progressivamente intaccata dalle relazioni con l’ambiente, fino a divenire una identità altra, in qualche modo intrasoggettiva e collettiva (“Sono costretto a non vedermi più, in così poco tempo, come un giovane laureato all’estero. Non sono già più un ragazzo che vuole viaggiare e conoscere. No: di colpo mi scopro a essere in tutto e per tutto un immigrato nordafricano, senza lavoro, senza casa, clandestino. Un individuo di ventisette anni venuto qui alla ricerca di qualcosa di confuso: il mito dell’Occidente, del benessere, di una specie di libertà. Tutte parole che già stanno cominciando a sfaldarsi nella mia testa”). Narrando le varie tappe della sua peregrinazione, gli incontri con le comunità di emarginati di altre nazionalità, le difficoltà di adeguamento alla burocrazia del paese ospitante, la deprivazione verbale e la babele linguistica, causa prima dello straniamento psicologico, il personaggio primario avvia il processo di costituzione di una nuova identità culturale dell’immigrato, precaria e deperibile, voluta e perduta, ma certo libera dagli schemi imposti dalla civiltà di origine o dagli stereotipi e pregiudizi della società d’arrivo.341
341
A. LUZI, Migrazione e identità: Immigrato di Methnani http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/intercultura/kuma15luzi.pdf.
161
Nella narrativa della Vorpsi questa “poetica della migranza” traspare tra le righe attorno alle ragioni per cui le protagoniste del romanzo della Vorpsi motivano l’abbandono del paese natale. Tali ragioni non sono del tutto esplicitate ma è sottintesa l’aspirazione a raggiungere una nazione prospera e felice, come nelle immagini dell’Italia che si sono costruite: analoga, quindi, la presenza di stereotipi sul paese d’arrivo. Non possiamo constatare, invece, la scissione dell’individualità del migrante efficacemente resa dal testo di Methnani, poiché la narrazione si arresta quando le due donne hanno appena iniziato il percorso d’adattamento alla nuova realtà. Questo procedimento emergerà, invece nella Mano che non mordi, dove si renderanno più esplicite queste sensazioni, in primo luogo il vagheggiamento di un altrove perfetto e vivibile e, soprattutto, in seguito, la condizione di spaesamento dell’immigrato, sospeso tra due lingue e due culture differenti. In ogni caso, la “poetica della migranza” prende forma da questi primi testi e, pur evolvendosi, sta delineando chiaramente aspetti dell’immaginario che la caratterizza anche in scrittori più complessi, come la Vorpsi: cambia, senza dubbio, l’approccio alla scrittura, autobiografico in toto quello di Methnani e gli altri, trasfigurato e metaforico quello della Vorpsi. Maggiori affinità legate alla stesura del testo sono individuabili, invece, con i primi testi della letteratura migrante al femminile. Il percorso di crescita dell’io narrante nel Paese dove non si muore mai appare infatti assimilabile a quello trattato dalle varie scrittrici italofone dei primi anni Novanta, poiché, nei vari casi, è da notare come quasi tutte tendano a ripercorrere le tappe della propria formazione nel paese d’origine fino all’emigrazione; le differenze consistono nella rielaborazione del materiale narrativo, inserito in un’ottica romanzesca nel caso della Vorpsi, volto prettamente a un’istanza testimoniale nel caso di Salwa Salem o Nassera Chora. Si distacca da questa tendenza il testo di Shirin Ramzanali Fazel, Lontano da Mogadiscio, la cui narrazione a inserti e accenni, pare aprire le porte a uno sperimentalismo ancora sconosciuto a questa neonata letteratura e che ritroveremo
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appieno nel Paese dove non si muore mai. A tal proposito si vedano le osservazioni di Raffaele Taddeo :
L'apparizione nel 1994 di Lontano da Mogadiscio fu una novità all'interno della primissima produzione letteraria perché non si poneva come un racconto di vita, un racconto autobiografico, così come era avvenuto per Io, venditore di elefanti, Immigrato e Chiamatemi Alì. Gli elementi autobiografici erano pochi e appena accennati. Il libro è diviso in sei parti con l'intenzione di raggruppare gli argomenti su elementi omogenei. La prima parte è centrata sulla Somalia di una volta. E' vissuta ancora come un paese mitico, da fiaba. "Il mio Paese un tempo era il paese delle favole", è l'attacco con cui Shirin Fazel Ramzanali inizia il suo elaborato. […] Data questa prima immagine della percezione della Somalia, il testo, in questa prima parte, si sofferma a raccontare il quotidiano di un paese in pace, non ancora sconvolto dalla dittatura e dalla guerra. E' uno spaccato che persiste nel rappresentare un territorio da sogno. Quasi di soppiatto ad un certo punto fa capolino la descrizione di una presenza diffusa di italiani, che, in questo quadro, non sono visti come colonialisti.342
Shirin Ramzanali Fazel ubica la descrizione del suo luogo natale in un’atmosfera apparentemente immaginaria e ovattata, che lascerà spazio solo in seguito, nel corso della narrazione, ad amare constatazioni sulla realtà: si tratta di un espediente che riprenderanno autori posteriori, tra cui la Vorpsi nel suo romanzo d’esordio che, con un meccanismo analogo, situa il suo iter formativo in un’Albania che sfiora il mitologico e, nonostante le valutazioni realistiche compiute con un linguaggio schietto e diretto, attutisce l’impatto con la cruda realtà filtrandola con gli occhi della bambina. I punti di contatto sono evidenti ma è anche visibile la maggiore maturità di un’autrice come la Vorpsi che si sofferma con precisione sui meccanismi sociali dell’Albania, pur mantenendo un alto grado di narratività. Nella recensione al Paese dove non si muore mai, Taddeo rileva le analogie con questi primi autori migranti:
342
R. TADDEO, Lontano da Mogadiscio: considerazioni generali, in «El-ghibli, rivista online di letteratura della migrazione» (anche in www.el-ghibli.provincia.bologna.it/).
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La prima impressione è quella di rileggere testi della letteratura della migrazione apparsi nella prima fase della nascita di questo genere, e cioè scritti pubblicati nella prima metà degli anni ’90. Libri come Lontano da Mogadiscio, oppure Volevo diventare bianca, (per citare solo due libri) propongono la situazione di un percorso formativo, che va dalla prima infanzia alla giovinezza, vissuto nel paese d’origine e culminato con l’arrivo in Italia, considerata quasi una “terra promessa”. Una riflessione più attenta sullo scritto di Ornela Vorpsi fa emergere altri elementi che distanziano questo testo da quelli apparsi nell’epoca pionieristica e che vale la pena considerare attentamente.343
Lo stesso Taddeo, però, evidenzia, successivamente, la presenza di numerosi elementi che differenziano questo testo da quelli apparsi nell’epoca pionieristica; in primis, l’insistenza con cui la scrittrice descrive il particolare contesto socioambientale in cui si situano le vicende, più importante del percorso formativo della protagonista in sé. È questa, sostanzialmente, l’evoluzione più marcata della scrittura migrante italofona che registriamo con la Vorpsi. In Vetri rosa, non c’è alcun riferimento a una migrazione della protagonista; le vicende narrate sono totalmente sospese in un non-luogo da ricondurre all’Albania dell’infanzia della scrittrice, per la presenza di dinamiche analoghe a quelle del romanzo d’esordio. Si può interpretare tutto questo procedimento come un’allusione allegorica all’emigrazione, la questione della morte precoce dell’io narrante, che già a inizio narrazione, dichiara il suo decesso a diciassette anni, forse l’età a cui è attribuita la sua fuga dal paese natale: se l’Albania è davvero «il paese dove non si muore mai», è probabile che la consapevolezza dell’esistenza della morte si verifichi solo al momento della migrazione. Si tratta però, unicamente di un’ipotesi, non avvalorata da cenni su un’eventuale “nuova vita” in un paese straniero: Vetri rosa è ancora schiettamente albanese in tutti i suoi aspetti. La consapevolezza piena appare dunque con la terza opera, La mano che non mordi, in cui siamo chiaramente di fronte al romanzo di una migrante sulla
343
ID., Il paese dove non si muore mai - Ornela Vorpsi, in «El-ghibli, rivista online di letteratura della migrazione» (anche in www.el-ghibli.provincia.bologna.it/).
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migranza, una storia che racconta le angosce e i tormenti di chi è stato costretto a fuggire dal proprio paese natale, poiché incapace di vivervi, e che non trova la forza di rapportarsi in maniera naturale con il suo passato. Il romanzo incarna il concetto di migrazione come «fatto sociale totale», simile a quello teorizzato da Sayad nella Doppia assenza, dove si dimostra che:
[…] il migrante è atopos, un curioso ibrido privo di posto, uno “spostato” nel duplice senso di incongruente e inopportuno, intrappolato in quel settore ibrido dello spazio sociale in posizione intermedia tra essere sociale e non-essere. Né cittadino né straniero, né dalla parte dello Stesso né dalla parte dell’Altro, l’immigrato esiste solo per difetto nella comunità d’origine e per eccesso nella società ricevente, generando periodicamente in entrambe recriminazione e risentimento. Fuori posto nei due sistemi sociali che definiscono la sua non-esistenza, il migrante, attraverso l’inesorabile vessazione sociale e l’imbarazzo mentale che provoca, ci costringe a riconsiderare da cima a fondo la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza e del rapporto tra cittadino, stato e nazione.344
La distanza è il rimedio alla sintomatologia da spaesamento che affligge la maggioranza degli immigrati, in taluni casi una vera e propria patologia che richiede un approccio psichiatrico, come afferma Elisa Scaringi:
Per il migrante infatti l’Italia “non è soltanto la terra dove si può trovare un lavoro che non ha trovato in patria, una casa che non riusciva ad avere in patria, è anche la terra dove ci sono donne incredibilmente belle, dove c’è una straordinaria abbondanza”. Lo straniero, sapendo in anticipo che “prima o poi se ne dovrà andare”, sente una nostalgia anticipata per ciò che dovrà lasciare: “nostalgia per la patria, nostalgia per i luoghi che dovrà lasciare, per i modi di vita, per donne che dovrà tradire”. Quindi “nel migrante viene a determinarsi un duplice spaesamento: uno spaesamento materiale, evidente, ma anche e soprattutto uno spaesamento interiore”. Egli “lascia le proprie radici, ma una volta entrato in quella specie di inferno paradisiaco che sarebbe l’Italia, ne recide delle altre”. La sua esperienza viene accostata alle peripezie di Ulisse: l’eroe omerico “ci impiega letteralmente una vita a ritornare ad Itaca e nel poema ci fa capire che in realtà non sono tanto gli dei perversi che impediscono all’eroe di tornare dalla moglie, dal figlio e dai suoi sudditi, ma è la sua voglia di nuove terre e di nuove donne. In realtà sembra che Ulisse faccia di tutto per irritare gli dei ed impedirne il ritorno”. Di fronte a questa sempre più comune 344
A. SAYAD, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, cit., p. XI.
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patologia dell’infelicità da spaesamento lo psichiatra deve intervenire: anche se non “può fare tutto quello che vorrebbe e che potrebbe fare per i suoi pazienti, per i migranti”, deve cercare di evitare che tale confusione degeneri in un disagio sociale irrimediabile. Ciò è reso possibile solo da un approccio transculturale capace di rivoluzionare i rapporti umani: “io posso apprendere da te paziente molto più di quanto tu possa apprendere da me”.345
Il «disagio sociale irrimediabile» è sicuramente quello che affligge Mirsad nella Mano che non mordi, schiacciato dall’incapacità a relazionarsi con l’ambiente circostante, dal disagio di chi ha deciso di non emigrare più e di tornare indietro lasciando l’opulenta Europa dell’Ovest per quella povera dell’Est, in cui «la gente è calorosa» e «si diventa amici in una frazione di secondo», certo più caotica e contraddittoria ma umanamente più ospitale, poichè «l’Occidente non capisce la verità di noialtri dell’Est»346. Mirsad, Beni e Dusan sono ritratti schizzati di volti, emozioni e soprattutto smarrimenti di persone ormai divenute straniere persino in patria. Anche la scrittrice-narratrice è afflitta dalla stessa sindrome: albanese quando sta in Francia e parigina agli occhi dei conoscenti, a Tirana. Dunque il ritorno alle origini nel Paese natio, idealizzato e ormai “fantasmatico”, risulta inattuabile; persiste il ricordo che a volte, improvvisamente, torna ad affacciarsi al presente attraverso un aroma, un profumo di altri tempi e di un altrove originario, che attiva in lei un meccanismo memoriale, analogo a quello della madeleine proustiana, grazie al quale rivive un passato allontanato e rimosso:
[…] io voglio andarmene, non posso più stare qui, mi fa male, non dormo. L’odore dei peperoni fritti, la feta, le olive…pure mia nonna è uscita dalla tomba e non so che farmene…[…] Sono diventata molto straniera. […] sopravvivo solo con e tramite la distanza… […] oggi per vivere ho bisogno di distanza.347
La migranza, nel romanzo della Vorpsi, assume anche il volto dei «rari e sceltissimi stranieri» di passaggio in Albania, visti come entità “aliene” portatrici
345
E. SCARINGI, Psichiatria Transculturale, in «Kumà», http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/decolonizziamoci/kuma15scaringi.pdf 346 O. VORPSI, La mano che non mordi, cit., 347 Ivi., pp. 65-66.
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di un benessere sconosciuto: ne deriva una maniera errata e patologica di concepire il rapporto con l’altro, che, da una parte, rende gli autoctoni necessariamente subalterni e destinati a peggiori condizioni di vita, dall’altra li relega in una condizione di estraneità che li svincola da ogni legame con la realtà comune. Strumento d’analisi è ora lo sguardo, che, nel Paese dove non si muore mai, si concretizzava nelle occhiate tipicamente “albanesi” che gli uomini rivolgevano languidamente alle donne e che qui, nel romanzo dello “spaesamento”, diventa, invece, mezzo con cui confrontarsi con chi sta “al di fuori”; è interessante rilevare come cambiano le percezioni dei medesimi espedienti letterari e come questi stessi assumano differenti ruoli e funzioni. Il confronto tra “sguardo autoctono” e “sguardo dell’altro” è una costante nel panorama della letteratura migrante e ne è la dimostrazione più evidente il romanzo-saggio di Genevieve Makapìng, intitolato appunto Traiettorie di sguardi348, in cui l’autrice smaschera stereotipi e luoghi comuni con cui gli europei, e in particolar modo gli italiani, hanno alimentato la coscienza di una diversità solo apparente:
Osservare gli “altri” e parlare di loro e, in un certo qual modo, ritrarli (marchiarli, a volte temo), per me significa osservare, prestare attenzione più di quanto non abbia mai fatto. Significa sforzarsi e tirare fuori dalla propria memoria dei ricordi, non sempre piacevoli, perché, purtroppo, accanto a quelli belli bisogna lasciare che emergano anche quelli brutti. Osservare significa guardare, vedere, scrutare e cercare di capire. Sforzarsi di guardare è molto faticoso, significa “essere implicata”, quindi, in un certo senso, essere costrette a trattenere, laddove una volta lasciavo che tutto mi scivolasse sulla pelle come una pioggia estiva. Fare tutto ciò per me, vuole dire osservare e ascoltare me stessa. […] Come faccio ad avere la certezza che il mio sguardo sia nel giusto? Certamente i miei ex colonizzatori e quelli nuovi non si sono posti questa domanda o, comunque, lo hanno fatto in modo da non crucciarsene. Come faccio a sapere che il mio sia un guardare corretto, senza speculazioni di sorta, perché sono una minoranza? Io appartengo a quella minoranza spesse volte offesa, quindi anche arrabbiata e spesse volte disgustata, ma che si ostina a non disperare. Però sto zitta e penso. Penso e sto zitta, convinta che un giorno prenderò la parola. Dove? Ora e qui adesso. La parola prima a me stessa: adesso parlo io.
348
G.MAKAPING, Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi?, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2001.
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[…] Il mio sguardo si sposta da un luogo all’altro e devo ricordarmi che ci sono anche io su cui farlo scorrere e posare. Il privilegio di questo tipo di atteggiamento può essere qualcosa di molto vicino all’ubiquità. Essere al margine e al centro di volta in volta. Essere il margine e il centro quasi contemporaneamente. Prima, semplicemente, non guardavo o guardavo, ma vedevo poco; non riuscivo a mettere bene a fuoco o, forse, non volevo. Non era neanche un atteggiamento del tipo: “pensino e dicano quello che vogliono, tanto chi se ne frega”. Non credo fosse neanche una forma di complesso di superiorità ( “sono ignoranti loro…”). Era soltanto un non-sguardo. Se non osservavo gli altri, i bianchi, forse dipendeva dal fatto che non ero cosciente che loro osservassero me, anzi che mi avevano già osservata e catalogata attraverso i viaggi, i racconti e le ricerche etnografiche dei loro padri. Se non osservavo gli altri, non era perché il mio sguardo fosse volto altrove, neanche su di me. Era uno sguardo disinteressato, perché gli altri non destavano il mio interesse. O, forse, facevo in modo che non lo destassero […] Ora ho 42 anni; devo e voglio scrivere, annotare le mie osservazioni. Ma dove osservo? Dove prendo il materiale da osservare? Guardo indietro, guardo il presente, guardo chi ha fatto della mia diversità una colpa, dimenticando la propria; le diversità sono sempre almeno due. Guardo chi ha fatto del colore della mia pelle una malattia; guardo chi, con convinzione, pensa che io debba e possa solo servire. Voglio guardare chi mi scommette contro, come se fossi solo una posta in gioco. Guardo me che guardo loro che da sempre mi guardano.349
I meccanismi di illusione-delusione precedentemente illustrati, sono presenti anche nella Mano che non mordi, per esempio nella scena in cui, l’opulenza della società occidentale, stavolta rappresentata dal pasto abbondante di un cane, convince una coppia di migranti in crisi, desiderosa di tornare sconfitta a casa, a restare in Italia:
-
Vedi anche tu quello che vedo io? I pezzettoni di carne che mangia questa bestia? Labestia-che-mangia-della-carne? Ma tu vedi o no quello che vedo io?
La donna rimane silenziosa. Guarda la-bestia-che-mangia-della-carne. -
E tu vuoi tornare in Albania, - riprende l’uomo con voce da cospiratore.- Qui, Luchino mangia polpette.
349
Ivi, pp. 36-37-38, 40.
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[…] -
Io non torno, - decide l’uomo senza staccare gli occhi dal cane.
-
Vedo, vedo… - sospira la moglie. – Sì, non torniamoci più in Albania. Non ci torniamo più, ecco. Sì sì! In effetti…
Fu così che Luchino cambiò il destino di una coppia d’oltremare.350
Se, in questo caso, all’illusione non segue la conseguente descrizione del processo di delusione, entrambe queste due fasi sono ben evidenti nell’episodio romano di Ornela in visita alla cugina; la vita in città che abbaglia la giovane, l’amico italiano della cugina, Michele, e al quale sussurra, dopo un giro in auto, con una canzone di Battisti in sottofondo, le uniche parole italiane che sa, con l'effetto di uno stupore indignato, simboleggiano tutto il nuovo che l’attrae e che la rifiuta subito dopo, tramite l'allontanamento del suo Rodolfo Valentino e l'esposizione alla rabbia e alla vergogna. Altra immagine relativa alla migranza è costituita dalle code senza fine degli immigrati alla questura di via Montebello, a Milano, «un mosaico scuro nel cuore della Milano bene» a cui la protagonista è sottratta grazie alla borsa che la qualifica come modella: Se passate in via Montebello a Milano non dovete sorprendervi dello spettacolo che offre la coda lunga e scura degli stranieri che aspettano di entrare in Questura. I milanesi non ci fanno più caso. Un fastidio, sì, ogni tanto percuote il loro viso mentre vanno di fretta la lavoro. […] Della coda, che è di colore marrone-nero, a volte non si vede la fine. La speranza di entrare negli uffici della Questura spesso rimane solo una speranza. Quei visi scarni e persi che ho visto fare la fila senza rendersene conto mi hanno violentato l’anima. Mi facevano venir voglia di morire perché non c’era via di uscita. Non potendo fare niente perché ero una di loro, avevo voglia di prenderli a schiaffi. Due schiaffi a uno, tre all’altro. Su la testa! Sguardo vivo! Vigore al tuo corpo, accidenti! Conoscevo bene le loro notti, il loro smarrimento. Per non farci straripare, visto che siamo gente senza ordine e veniamo da paesi altrettanto mal ordinati, ci mettono attorno dei cancelli di metallo. Dobbiamo starci dentro – entro questa geometria. Così creiamo un mosaico scuro nel cuore della Milano bene. I carabinieri con quelle facce da bambini e la pelle di burro non sono credibili nelle 350
Ivi, p. 57.
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loro uniformi. La cura che hanno prodigato di mattina ai capelli, il profumo forte, gli abiti, i loro occhi insonnoliti da notti di discoteche fanno sì che io creda poco alla loro carabinieria. Vengo invasa da una scena di guerra; ecco come corrono spaventati gridando Mamma mia! Mamma mia! Ho sicuramente torto, lo so. Sono i rimasugli di un’educazione severa queste speculazioni che fanno testa in me. Freddo, caldo, malati, lavoro o no, si deve stare in fila pazienti e obbedienti. Meglio non fare domande, perché la gente di qui è stanca di queste code che non portano a niente di buono. Qualche giovane carabiniere gironzola attorno. Sta recuperando le ragazze carine. Gli italiani hanno un animo sensibile, la bellezza non li lascia indifferenti. La bellezza non deve patire. La natura stessa è stata gentile con la bella creatura, come può l’uomo non inchinarsi? Così le più graziose sono estratte dalla massa degli scoraggiati e smettono di fare la fila. Il carabiniere offre loro un caffè oppure si fuma una sigaretta assieme, si parla del più e del meno, si chiede il numero di telefono, poi la ragazza può andare dritta allo sportello dei permessi di soggiorno. Brucia la fila. Io sono stata una di quelle ragazze. Quel giorno portavo a tracolla la borsa di un’agenzia di modelle. Il nome dell’agenzia era scritto in bianco sparato sulla tela nera: «Flash model management» ed era (è) la garanzia di un sogno. Facevo la fila da quasi mezz’ora prima di essere recuperata da un gentile carabiniere. Uno dal viso di burro. – Vieni qui, - mi dice. Vado, lascio dietro di me la folla dei disperati, dei vecchi, dei disgraziati: io, perché sono giovane e piacente e di sicuro perché ho questa borsa a tracolla, sono già nel vasto atrio della Questura. Qui fa caldo e si sta bene. La vita, allora! Daniele mi offre un caffè istantaneo. Lo prendo. La fila mi segue con lo sguardo, odiandomi. Mi uccisero. Incassai le loro parole mute.351
La figurazione realizzata raccoglie stereotipi prettamente legati al nostro paese, quello del migrante costretto a lunghe trafile burocratiche e quello del carabiniere che occhieggia la bella ragazza, immagine simbolo di un’italianità maschile inebetita da corpi di donne. È significativa anche la storia di Majlinda, ragazza albanese che ha sposato un olandese, di cui adora quei piedi che a differenza dei suoi non portano i segni deformanti della fatica:
351
Ivi, pp. 62-63.
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È una pianta intatta. Sembra che lui non abbia mai messo piede sulla terra per camminare. Qualcosa d’infantile e di candido è rimasto sotto ai piedi. E se ha questo candore sotto i piedi, di sicuro ce l’avrà nell’anima. Questi piedi sono lisci, morbidi, qualcosa che ha a che fare con il burro bianco. Lei non possiede più questa perfezione. I suoi piedi sono rovinati da cattive, scarpe, cattive strade e soprattutto cattivi pensieri. Il piede di lui ha sempre riposato su suole morbide, strade pulite, i pensieri non sono mai stati così devastatori. Lei si vergogna di aver perso quella purezza, i piedi che ha adesso quasi non le appartengono, così cerca di nasconderli a lui. I piedi di Majilinda hanno perso tutta l’innocenza che può avere un piede, ecco cosa pensa lei. Mentre li scruta, legge gli arti disperati di sua nonna, quelli operai di sua madre e falangi infedeli come quelle di suo padre. Vede che la vita glieli ha calpestati per bene, anche se lei nasconde le tracce e si fa bella e forte. Sui piedi di Vincent ha colto se stessa in lacrime. Lui non l’ha mai saputo. L’osservazione le fa fare notti insonni. Al mattino, quando lui si sveglia, lei ringrazia Dio che i piedi siano un organo muto, non come la bocca che racconta di tutto.
Sono proprio quei suoi piedi che rendono Majlinda male accetta alla suocera:
La madre di lui non la voleva come sposa per suo figlio. Perché era straniera. Lei capiva sua madre, la capiva al di là di quella scusa; a disturbare la madre non era tanto il fatto della straniera; in realtà, nessuno vuole avere accanto qualcuno che, pur ridendo di gioia intatta, lascia trasparire dietro di sé un passato di vita dura. La stessa Majilinda non avrebbe potuto amare qualcuno i cui piedi non portassero un po’ d’allegria. La madre di Vincent, senza mai vedere i suoi piedi, aveva sentito l’usura che la vita le aveva imposto.352
Anche Majlinda, a modo suo, è afflitta dal malessere dello spaesamento: ne avverte i sintomi specialmente confrontandosi con l’ “altro”, incarnatosi, in questo caso, nella persona amata, forse amata proprio perché “altra”.
Raccogliendo gli spunti emersi dalla scrittura migrante della Vorpsi, si può facilmente notare come certi elementi ricorrenti contribuiscano alla creazione di quella “poetica della migranza” che si è evoluta, nel corso degli anni, a partire dalla produzione dei primi autori stranieri italofoni fino ad oggi. I nuclei tematici 352
Ivi, pp. 84-85.
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più in evidenza sono quelli legati alla nostalgia della patria, al confronto con il paese d’arrivo e all’inevitabile dissoluzione delle illusioni ad esso legate, approdando, infine, all’impossibilità di conciliare le due differenti identità, col risultato di una perenne sensazione di sdoppiamento che ogni scrittore migrante tende ad esprimere nella propria letteratura, seppur con differente intensità e svariate modalità. L’opera della Vorpsi, in particolare La mano che non mordi, è da annoverarsi tra gli esiti più riusciti dell’evoluzione stilistica che ha visto protagonisti i vari autori migranti negli ultimi anni. La condizione dell’immigrato è infatti sviscerata e analizzata nelle sue sfaccettature più dolorose. L’impossibilità di conciliare una doppia identità, avvertita massimamente al momento del ritorno in patria, è stato già tema centrale nell’opera antecedente Neyla di Komla Ebri. Lo scrittore africano, trova, nella descrizione di una storia d’amore, il pretesto per descrivere la sua incapacità di percepire come prima la sua nazionalità ma nello stesso tempo senza sentirsi occidentale del tutto: il processo narrativo con cui l’autore delinea questa impressione è, senza dubbio, molto più lineare e omogeneo di quello compiuto dalla Vorpsi nella Mano che non mordi, ma nonostante la differente modalità espressiva, risulta analoga la sensazione che si vuol porre in rilievo. Così scrive l’autore a proposito del romanzo: Questo romanzo vuole essere un tentativo di affrontare alcune tematiche del continente africano, partendo dall'intimistica, da ciò che accomuna ogni essere umano: dalla difficoltà di vivere, dall'amore, dai sogni, dal vissuto quotidiano, senza la pretesa di fare l'antropologo, lo storico o il sociologo. Mi piace innanzi tutto raccontare, suscitare emozioni, fare sognare, ma dietro questa storia d'amore si celano significati o simboli più o meno velati. La tematica ruota sempre attorno all'Africa, perché penso che uno deve scrivere ciò che "conosce", ciò che "sente", ciò che gli sta al cuore: "1a lingua batte dove il dente duole". Per me il romanzo Neyla, al di là di quello che sembra, cioè un romanzo d'amore, la rievocazione di un amore, è soprattutto la rappresentazione schematica di un mio rapporto d'amore con l'Africa e una visione dell'Africa odierna.
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L'Africa è Neyla e Neyla è l'Africa. Ed è quest'amore "coinvolgente", sfortunato, sofferto, "bello". Neyla muore, e l'Africa sta morendo, dopo aver cercato di "prostituirsi" con l' Occidente. Dopo "1'attrazione fatale", il sogno incompiuto, cerca di ricompattarsi con se stessa in un amore "africano", ma finisce per dare alla luce un "figlio" d'incerta natura (nero o bianco?), che ormai siamo pronti (noi africani) ad accettare. Quel "figlio" immaturo della simbiosi, in questo travaglio sfortunato di una democrazia che l'Africa finisce per "abortire", suo malgrado, perché non pronta ad accettarne la paternità, ma è davvero una sua scelta? In fondo, l'Africa, costretta fra sistemi coercitivi e un'oppressione latente del presente e del passato, immersa nel dualismo del determinismo scientifico e della superstizione, al bivio fra modernità e tradizioni ancestrali, sempre attratta dall'Europa nel fenomeno "immigrazione", è ancora se stessa? No, eppure dobbiamo imparare ad amarla per quello che è. Neyla muore, ma rimangono "gli occhi della sua anima". Neyla-Africa muore, ma partorisce una presa di coscienza di se stessa, premessa per un rinascere, perché è un amore che "pota" per accrescere. Ed è già molto se l'Africa impara a "farsi latitante alla vendemmia dei grappoli di false promesse", per ritrovare se stessa "nell'anima" e trovare nella "morte" una rinascita alla "felicità", per potersi dare totalmente all'universale.353
La vicenda di Neyla presenta risvolti sentimentali più marcati nei confronti del proprio paese d’origine: si tratta di un elemento comune a molti scrittori italofoni provenienti dal continente africano, evidentemente maggiormente radicato nella coscienza e nella mentalità di coloro che ne fuggono. Per lo stesso motivo, i migranti africani esprimono massimamente quanto sia dolorosa la contaminazione con una cultura diversa e la conseguente perdita delle proprie origini; a questo proposito, è calzante un passo del romanzo Il latte è buono, di Garane Garane, in cui uno dei personaggi principali osserva i cambiamenti di Mogadiscio, resasi una fotocopia sbiadita di una metropoli italiana:
Tutto era diverso in Somalia. Troppi semafori, di fronte al Cinema Missione. Il capo anche era diverso da Iman Omar. Nessun carisma. Si può avere del carisma vestiti di caki? Come può essere qualcuno con certe qualità con questo strano fazzoletto chiamato cravatta che rende la tua voce un po’ sibillina? Come si può vivere avendo il fuoco in bocca? L’unica cosa che lei riconosceva a Mogadiscio era la lingua. Tutti i somali a Mogadiscio parlavano una lingua perfetta, la sua. Lei non capiva il perché. Il resto era diverso. Da guerrieri i somali si erano trasformati in operai, architetti, professori… Ma lei, saggia, intravedeva un bagliore che le 353
K. KOMLA-EBRI, A proposito di Neyla, http://www.comune.fe.it/vocidalsilenzio/neyla.htm.
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diceva tutto su questi nuovi somali: l’ambiente era diverso, ma la mentalità era la stessa, clanica e settaria, che aspettava soltanto il momento opportuno per plasmare Mogadiscio e la costa all’immagine dell’interno, all’immagine della boscaglia. Per adesso vedeva che suo figlio, che da guerriero si era tramutato in cittadino, pensava più all’unità dei somali che alla spada dell’Iman. I tempi lavoravano per il clan, soprattutto in caso di crisi. Il latte è buono… Mogadiscio era una «Little Italy». Le vie, i negozi, le scuole, i cinema erano all’italiana. Molti nuovi nomi erano diventati parte della cultura somala: Via Roma, Corso Italia, Cinema Centrale, Liceo Scientifico Leonardo Da Vinci… Garibaldi era più importante dell’Iman, anche se tutti e due avevano avuto la stessa ideologia di tutti i capi. Shakhlan Iman intravedeva il futuro, pieno di morte e catastrofe. A Mogadiscio, ogni casa, ogni filo elettrico, ogni persona, ogni albero faceva parte di un linguaggio di un popolo, che riportava Shakhlan alla gloria del passato. La differenza stava nel fatto che qui, a Mogadiscio, agli antenati si erano aggiunte le luci elettriche, il chiasso delle Fiat e il climatiseur: la pelle nera voleva trasformarsi in pelle bianca, l’africano in europeo. Vedevo facce imbiancate con una maschera nera.354
In Garane Garane, troviamo anche, ben esplicata, l’attuazione del processo di illusione-delusione, così importante nelle dinamiche che riguardano gli immigrati. Gashan si trasferisce in Italia, dopo aver studiato in scuole italiane e aver appreso ottimamente lingua, cultura e tradizioni del nostro paese. Ma appena giunto a destinazione, si accorge di come la patria di Dante e di Giulio Cesare sia ben diversa dalle sue aspettative:
Pensava all’Italia. La conosceva attraverso i libri, i film, i nomi delle vie. Frequentava a Mogadiscio le ragazze Ciyaal Missioni, le meticce, perché erano alla moda e poi era un modo per sfuggire alla cultura somale, da lui considerata retrograda. Amava Totò, Sordi e altri. Ascoltava la musica di Morandi e di Mina. Finalmente si sarebbe divertito! Lontano dal velo e dalla linea sottile. Si sentiva emarginato in Somalia. Sarebbe andato a vedere i suoi simili! […] Ma già nell’aeroporto si sentiva solo, in un posto chiuso e inospitale. C’erano face che assomigliavano più agli arabi che ai Romani che lui s’era immaginato attraverso letture storiche. Aveva sempre creduto che gli italiani fossero bianchissimi, lunghi. “ Forse in Somalia sono bianchissimi perché noi somali siamo neri!” era la sua conclusione. 354
G. GARANE, Il latte è buono, cit., pp. 44-45.
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[…] Di colpo, all’aeroporto, sentì la linea sottile impossessarsi di lui. Era africano. Era della stirpe dei nomadi. Sentiva come sua nonna gli sussurrasse qualcosa: “ Sei un nobile. Sei Gareen.” Cominciò a camminare col passo svelto e in un modo pomposo. “Sapranno chi sono”, si diceva. “Sono somalo, il più intelligente, il più bello in Africa e nel mondo. Siamo conosciutissimi.” Per lui tutti gli italiani dell’aeroporto si assomigliavano. Non riusciva a fare distinzioni. Era cresciuto in una società dove il multietnicismo era di norma: a Mogadiscio ce n’erano di tutti i colori, dall’indiano al cinese, dall’egiziano al siriano allo yemenita. Eppoi c’erano i cenci bianchi, gli italiani. C’erano, anche se in minor numero, americani, sovietici, canadesi, francesi […] Ma qui era diverso: tutti avevano la pelle come quella degli arabi. Tutti uguali. Si sente che si è diversi, che si viene da un’altra galassia.355
L’impatto con la nuova realtà è immediato, le differenze saltano subito agli occhi: è lo sfaldarsi di un sogno coltivato negli anni. Per un giovane somalo l’Italia è un mito da raggiungere, un paese incantato: in un certo senso, è avvenuto lo stesso per l’Albania, che ha scelto proprio la nostra nazione come meta prediletta. Le maggiori analogie, in termini di resa della “poetica della migranza”, le troviamo però tra autori della medesima provenienza, ad indicare quanto la condivisione della stessa cultura incida nella creazione letteraria. Osservando la produzione del poeta albanese Gezim Hajdari, notiamo quanto siano in luce i nuclei tematici finora individuati nel percorso romanzesco della Vorpsi, pur con l’utilizzo di una differente modalità espressiva, il verso, mezzo, forse, più schietto e diretto per esprimere l’intensità di certi sentimenti. Se abbiamo già citato in precedenza l’emblematico componimento di Ombra di Cane «Piove sempre/In questo paese/forse perché sono/ straniero»356, con cui Hajdari esprime il cupo senso del vivere che adombra l’esistenza dell’immigrato, vale la pena soffermarsi su alcuni aspetti che caratterizzano la “poetica migrante” da lui espressa nelle varie raccolte. Negli altri componimenti della raccolta
355 356
Ivi, pp. 63-64. G. HAJDARI, Ombra di cane, Frosinone, Dismisuratesti, 1993, p. 47.
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emerge una malinconia generalizzata, non sempre riconducibile allo spaesamento del migrante se non in alcuni casi emblematici in cui la desolazione della meta agognata e il dissolvimento delle speranze in essa riposte inducono l’autore a meste riflessioni: Dov’è la tua santità Roma dov’è il tuo mare anche i fiumi sono scomparsi il dolore si sente solo nell’acqua (delle fontane)
queste cose visibili (innocenti) questo cielo di segni Come gli occhi delle donne di via (del Corso)
I giorni uguali mi fanno paura tutti sono in fuga attraverso un destino scabro verso i deserti dei mostri i deserti al di là degli altri deserti.357
La miserabile «santità» di Roma è sintomatica di un senso di delusione legato alle inevitabili illusioni del migrante; come per il protagonista del romanzo di Garane, l’Italia è un sogno da raggiungere, per le sue bellezze artistiche e culturali, la cui decadenza, però, smentisce immediatamente le grandi aspettative di chi si allontana dalla propria patria. È nella raccolta Stigmate che il poeta si cimenta con una poesia più elaborata e maggiormente ricca di spunti tematici. Un aspetto che, in questo caso, Hajdari
357
Ivi, p. 49.
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tende a enfatizzare è il senso di non-appartenenza a una lingua e a una cultura, da cui tenta di fuggire rifugiandosi nel linguaggio universale della poesia: Ascolto il mio silenzio: è la paura di morire in un’altra lingua non in questo freddo che non mi appartiene
sprofonderò negli abissi dei miei versi che mi concedono segni e forma torturato dalla tua pioggia358
C’è spazio anche per una riflessione sulla condizione economica precaria in cui da migrante egli è costretto a vivere, pur consapevole di non esserne immune neppure in patria, come è evidente dal confronto con l’amata, ancora in Albania:
Quanto siamo poveri. Io in Italia vivo alla giornata tu in patria non riesci a bere un caffè nero
la nostra colpa: amiamo la nostra condanna: vivere soli divisi dall’acqua buia
ritornerò in autunno come Costantino tu nelle colline natali hai già raccolto l’origano che porterò con me nella stanza ancora sgombra
ora vivo al posto di me stesso lontano da quella terra che impietosamente divora i propri figli.359
358 359
G. HAJDARI, Stigmate. Vragë, Nardò, Besa, p. 27. Ivi, p. 35.
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La vena autobiografica è particolarmente accentuata nella scrittura poetica di Hajdari, il quale recupera direttamente accadimenti e questioni personali, trasfigurandoli in versi: Come posso dimenticare quel mattino quel giorno quell’ora del ’96 a Tirana di fronte al cancello del ministero degli Esteri quando i giornalisti della tua televisione mi chiamarono traditore cosmopolita perché nelle postfazioni dei miei libri Ombra di cane e Sassi controvento avevo criticato il presidente della Repubblica e il suo regime e avevo scritto: l’Albania deve “unirsi” all’Italia per salvare sé stessa e il Kosovo aspettavano che io rientrassi in patria per denunciarmi pubblicamente così mi dissero anche gli intellettuali amareggiati che quel che avevo scritto aveva causato una crepa nell’onore della nazione senza onore disonorata per cinquant’anni proprio da loro solo dopo quel che è successo dal ’97 in poi hanno comunicato all’addetto culturale albanese a Roma che Hajdari aveva ragione la lettera portava la firma di un giovane scrittore del nord e veniva dalla patria360
È pur vero che ogni autore migrante non si può dichiarare immune alla riproduzione di vicende personali; quello che è mutato, con l’evolversi della letteratura della migrazione, è il grado di narratività e letterarietà con cui i vari scrittori propongono episodi legati alla loro sfera più intima. Di un inevitabile autobiografismo parla infatti anche Garane Garane in un’intervista, sostenendo che «uno scrittore africano non scrive solo perchè sceglie di scrivere; non è una cosa estetica soltanto, c’è sempre qualcosa che ci coinvolge e fa parte anche delle 360
Ivi, p. 49.
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nostre vite»361: ripercorrere il proprio vissuto, pur liberamente e pur assecondando esigenze letterarie, rappresenta, insomma, una reale esigenza per qualsiasi scrittore migrante. Tornando a Hajdari, il sentimento di non-appartenenza, prima menzionato, sfocia in una percezione cosmopolita della realtà e del proprio vivere, secondo cui la patria del poeta diventa il mondo, la sua lingua la poesia: Ogni giorno creo una nuova patria in cui muoio e rinasco una patria senza mappe né bandiere celebrata dai tuoi occhi profondi che mi inseguono per tutto il tempo nel viaggio verso cieli fragili in tutte le terre io dormo innamorato in tutte le dimore mi sveglio bambino la mia chiave può aprire ogni confine e le porte di ogni prigione nera ritorni e partenze eterne il mio essere da fuoco a fuoco da acqua a acqua l’inno delle mie patrie il canto del merlo che io canto in ogni stagione di luna calante sorta dalla tua fronte di buio e di stelle con la volontà eterna del sole.362
Se, qui, una visione della realtà di questo tipo comporta una vena ottimistica di fondo, persiste comunque il tarlo della costante estraneità che affligge il poeta, non legato a nessuna patria, solo, privo di una propria lingua o cultura, come è ben evidente dai seguenti versi:
È scritto che non avrò mai un punto fermo né una porta da varcare sera e mattina né una soglia dove poggiarmi con la mia follia
361 362
Intervista a Garane Garane. Ivi, p. 67.
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quanto ho sognato che qualcuno mi svegliasse di buon’ora mi accompagnasse con lo sguardo alla partenza e mi aspettasse con impazienza al rientro dall’immenso mai un dolce sussurro all’orecchio da piccolo mio padre mi mordeva la testa quando perdevo una pecora al pascolo dormivo nel pagliaio la notte chi veglierà su di me un giorno in mezzo alla stanza sgombra chi mi butterà un pugno di terra fresca chi scriverà sulla mia pietra grezza due parole semplici chi dirà per me una preghiera dopo l’addio con me sempre il sibilo del vento dei viaggi e l’insicurezza dell’indomani perché sono nato? Perché sono vissuto? Perché ho cantato? I miei laggiù se ne fregano dei miei libri da me aspettano solo belle macchine e milioni! Brutta sorte la mia, terribile la pena: fuori da te e dalla tua lingua.363
Nella definizione di una “poetica della migranza”, è possibile trovare punti in comune tra autori albanofoni anche sul piano stilistico; si tratta, chiaramente, di valutazioni da effettuare nell’ambito di una produzione prettamente romanzesca, escludendo, quindi, Hajdari, che, invece, abbiamo visto mettere in rilievo i nuclei tematici portanti della questione, trasfigurandoli in versi. Un esempio è rintracciabile nel romanzo di Ron Kubati, Va e non torna364, caratterizzato da una struttura in sequenze legate sia a episodi dell’infanzia albanese del protagonista sia a momenti della sua nuova vita in Italia, da studente-lavoratore; la sua scrittura, similmente alla Vorpsi, si presenta “a istantanee”, ritraendo differenti situazioni con sbalzi cronologici. Gli stralci di vita albanese, inoltre, vedono il protagonista bambino e, come tale, non perfettamente consapevole della gravità
363 364
Ivi, p. 87. R. KUBATI, Va e non torna, Nardò, Besa, 2003.
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del frangente in cui sta vivendo, in maniera analoga a Ina-Eva-Ornela nel Paese dove non si muore mai :
[…] mi serviva un po’ di tempo per prendere le distanze dalla situazione e comprendere cosa significasse in termini reali[…] La gravità dell’accaduto mi arrivava di riflesso. Le facce di mia madre e di mia nonna erano preoccupate e tutto ciò che accadeva dentro di me era legato al loro umore. Cominciai a correre fingendo con me stesso di aver capito la gravità del momento. La solennità della circostanza mi faceva sentire un po’ importante.365
Per il resto, il ritmo della narrazione, nel romanzo di Kubati, è incalzante, gli episodi si susseguono, concedendo poco spazio a espliciti riferimenti alla condizione del migrante ma lasciando che determinati sentimenti vengano alla luce attraverso il semplice svolgersi degli eventi. È il finale ad essere particolarmente evocativo e a suggerire una valutazione complessiva della situazione di chi scappa dal proprio paese:
Il mattino dopo, quando ci siamo tutti e siamo in migliaia, la nave si muove. Il mare la trascina verso non si sa dove. Non siamo noi ad attraversare il mare. È il mare che si fa attraversare. L’alba è grigia, fredda e ventosa. Già in partenza, siamo digiuni da più di ventiquattr’ore. Non capiamo più niente. Il nostro sguardo registra tutto ciò che succede per ritrasmetterlo solo ad avventura finita, in forma di memorie. Ognuno s’è aggrappato a qualcosa per poter affrontare meglio le onde e la pioggia che si confondono sopra di noi. La città alle nostre spalle diventa sempre più piccola, ma davanti a noi non si vede niente.366
in sostanza, le varie analogie che si possono registrare tra gli autori migranti, in maniera più accentuata tra autori della stessa provenienza ma in generale onnipresenti nelle varie produzioni, implicano il sorgere di una vera e propria tipologia di “scrittura migrante”, tesa a evidenziare le sensazioni più evidenti di chi fugge dal proprio paese in cerca di migliori condizioni di vita. Al giorno d’oggi, insomma, la letteratura italiana della migrazione:
365 366
Ivi, pp. 8-9. Ivi, p. 193.
181
[…] presenta e propone al nostro pensiero tutti gli aspetti della cultura migratoria mondiale. In primo luogo, l’avventura e l’esperienza della venuta, del pellegrinaggio e dell’impatto con il nostro paese. In secondo luogo, il richiamo, più o meno nostalgico, dei caratteri e dei valori delle culture di provenienza, visti e raccontati, ora, dall’esilio, che può essere anche cuna della rinascita[…]. Infine, il giudizio, in corso d’opera, sull’incontro delle culture. Un incontro, non solo episodico e singolare, che sta accadendo tra di noi: noi che li riceviamo, più o meno coscienti e capaci dell’arte ospitale, e tutti loro confusamente che vengono a trovarci e che si distinguono e incontrano tra loro e con noi in mezzo a noi. In questi modi, intessuti dalla foschia della confusione e dalla chiarezza della distinzione, dalla mischia fortunata e dall’ospitalità della differenza, si va creando una nuova comunità interculturale nei vissuti, come dicono i sociologi, personali e nella trama sociale, fino al livello delle istituzioni.367
Per concludere, mi sembra che le problematiche illustrate dalla riflessione di Gnisci abbiano trovato conferma nel caso della scrittrice a cui abbiamo dedicato un’attenzione più ravvicinata. Mi pare, inoltre, che il tenore delle risposte che la Vorpsi stessa ha gentilmente fornito al mio breve questionario, avvalori ulteriormente il quadro emerso dall’affermarsi degli scrittori migranti, che presenta aperture di prospettive feconde e innovative.
367
A. GNISCI, La letteratura italiana della migrazione, in Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, cit., p. 116.
182
INTERVISTA A ORNELA VORPSI.
-
Partiamo dalla caratteristica più evidente della tua scrittura: sei
albanese, vivi in Francia, scrivi in italiano. Potresti parlarmi, ancora una volta, delle principali ragioni della tua scelta? È possibile dire che la nostra lingua in un certo senso “filtri” il tuo vissuto e i tuoi ricordi, permettendoti di avvicinarti alla scrittura con la dovuta “distanza emotiva”? E inoltre, perché proprio l’italiano e non il francese?
Non penso di poter dire e dare tutte le ragioni di questa scelta organica. Posso affermare di aver sentito la necessità di utilizzare una lingua straniera in quanto, così, mi era più facile raccontare: una lingua straniera mi era più salutare, meno dolorosa, mi dava una distanza di cui avevo (ho) bisogno. La scelta dell’italiano dipende, forse, dal fatto che sia stata la prima lingua a “rimpiazzare” la mia lingua madre e dal fatto di parlarlo abitualmente in casa, essendo sposata ad un italiano. Il francese mi sembra una lingua più rigida per ciò che ho ancora voglia di fare o, più semplicemente, non saprei maneggiarlo come l’italiano. Non so in che lingua sarà il mio domani, visto che la mia vita (ampia) si svolge in francese.
-
Sempre rimanendo nell’ambito linguistico, si può dire, però, che il tuo
è un italiano contaminato da “albanismi”; un esempio, il “verde di migrazione” di cui parla Mirsad ne La mano che non mordi, colore che, se non erro, in albanese indica una condizione di malattia. Sai citarmi altri casi di una simile contaminazione? Ti capita mai di contaminare il tuo italiano
183
con “francesismi” o “anglismi”, essendo l’inglese e il francese altre due lingue che possiedi e utilizzi abitualmente?
Il “verde di migrazione”, effettivamente, si riferisce ad uno modo di dire albanese, “ viso verde veleno”, usato, solitamente, per indicare il volto di una persona molto malata. Certo, trasporto nel mio italiano tutto ciò che mi rende come sono, le lingue che mi percorrono, i miei sbagli, frasi o detti di diverse culture che riescono a conquistarmi, poiché li sento giusti, accattivanti, perspicaci, che siano di matrice italiana, albanese, francese o inglese. Fondamentalmente, porto con me tutto ciò che mi colpisce e di sicuro questa mia attitudine si rispecchia in quello che faccio, proprio perché è difficile guardarmi oggettivamente.
-
Più volte, nei tuoi romanzi, ti soffermi su particolari colori; se un
esempio è stato il verde della precedente domanda, relativamente a Il paese dove non si muore mai non si può evitare di notare l’uso ripetuto del rosso. Anche qui si tratta di un retaggio albanese? Il tuo secondo libro, la raccolta di racconti Vetri rosa, preannuncia già nel titolo la sfera cromatica dominante: forse, allora l’uso dei colori è semplicemente da ricollegarsi alla tua natura di artista visiva?
Di sicuro. La mia educazione è visuale; direi quasi che la mia scrittura sia rapportabile alla composizione di un quadro, con un proprio ritmo, armonia, disarmonia (voluta), contrasti, musicalità. La pittura rimane una dimensione molto importante del mio cammino quindi il riferimento è ovvio.
-
Ne Il paese dove non si muore mai, la bambina ha tre nomi diversi, Ina,
Eva e Ornela, quasi a mettere in evidenza diverse fasi che compongono la formazione di ogni giovane donna albanese. La scelta è casuale o rispecchia una tua volontà di porre l’accento volta per volta su situazioni differenti?
184
No, la scelta non è casuale, sentivo il bisogno di offrire la storia a più destini, mi sembrava un po’ “disonesto” regalare tutto ad un solo personaggio; nello stesso tempo, inoltre, mi piaceva l’idea di confondere le piste, evitare che il lettore percepisca che si tratti dello stesso personaggio. Penso che anche questa forma di “gioco” sia legato alla mia formazione figurativa.
-
Il paese dove non si muore mai ha una storia editoriale piuttosto
particolare; scritto in italiano, pubblicato in traduzione francese e, successivamente, in italiano.
Alla fine, se non sbaglio, hai ottenuto due
stesure diverse; quali sono e a cosa sono dovute le differenze tra la versione francese e la versione italiana?
L’italiana è più “me”, è scritta esattamente nella lingua che io stessa ho utilizzato, una lingua non ortodossa e magari imprecisa. In francese, invece, era opportuno tradurre il testo solamente in una lingua corretta.
-
Vetri rosa non si può definire né un romanzo né una serie di racconti:
se i tuoi romanzi sono comunque l’insieme di varie storie unite da un filo comune, si può dire che la tua raccolta di racconti sia un romanzo frammentato. Come lo definiresti, se è possibile definirlo?
A questo proposito, utilizzerei la definizione di Kundera di “romanzo pensante”. Sì, certo, vorrei una forma elegante ma preferisco dare la priorità al bisogno di organicità. Mi piace raccontare bussando altrove, approdando a riflessioni innovative, a un vero incontro con lettore, direi, che consiste in uno scambio di pezzi di vita. Il racconto o il narrare, senza questo elemento “pensante”, che rimanda a un “al di là della narrazione”, oggigiorno, in questo punto della mia
185
vita, non mi interessa tanto. Come dire: la storia non m’interessa tanto, m’interessa, piuttosto, la riflessione e l’incontro.
-
A Venezia, in occasione del convegno «Incontri di civiltà», quando ti è
stato chiesto se è necessaria una distanza fisica per poter guardare al passato hai affermato che «precipitarsi nei ricordi è un lusso»; a cosa ti riferisci con esattezza?
Mi riferivo al fatto che non amo tanto guardare al “passato”. Trovo che sia necessaria una buona dose di “antidolorifico”, di “antinostalgico”. Chi si precipita nei ricordi se lo può permettere per varie ragioni: infanzie splendide o nature forti, mi sembra che siano in una forma di lusso.
-
Si può dire che questa affermazione rappresenti l’elemento chiave de
La mano che non mordi? Secondo la tua esperienza personale, la migrazione è e resta nella vita un fatto doloroso, una separazione violenta dal passato e dai luoghi nativi?
Doloroso e no. Perché posso affermare che questo cammino fuori Albania mi ha dato tanto (come l’Albania stessa). Se tornassi indietro lo rifarei, ma una cosa è certa: il prezzo è la vita, la tua carne, i tuoi nervi.
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Perché l’Albania è il paese dove non si muore mai lo spieghi nelle
prime pagine del tuo romanzo, mentre i vetri rosa del tuo secondo libro sono, chiaramente, i pezzetti di vetro attraverso cui racconti i vari aspetti dell’infanzia e dell'adolescenza albanese, dalle amiche, ai giochi sessuali, alla solitudine infantile, all'amore, alla rivalità, alla morte. Mi potresti spiegare invece le ragioni del titolo La mano che non mordi?
La mano che non mordi? Deriva da un proverbio cinese che dice: “la mano che non mordi la baci”. Mi riferivo al fatto che molte volte, quando mancano le
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possibilità per poter fare ciò che si vuole, si è portati ad allontanarsi dal proprio obiettivo, raggiungendo, magari, l’effetto opposto.
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La protagonista de La mano che non mordi dimostra, sin dal principio
del romanzo, poca tolleranza per gli spostamenti e i viaggi, nonostante la sua condizione di migrante; come spieghi questa apparente antitesi?
Un personaggio, in quanto umano, può essere contradditorio, no? In fin dei conti si tratta di una protagonista che non ama l’atto del viaggio ma che cerca comunque di oltrepassare i suoi limiti; probabilmente la sua idiosincrasia per il viaggiare deriva dall’aver compiuto uno spostamento “dovuto” e “obbligato”, quello della migrazione. Adesso che ha ricostruito una sorta di “habitat”, vi vuole restare: le costa fatica spostarsi da quell’ appartamento che ora le fa da “casa”, poiché il “fuori” le fa male.
-
«Il viaggio spinge le persone a sperare che in un altro paese, in un
altro clima, in un’altra lingua, troveranno quello che manca là dove sono. […] Perché la libertà sta sempre dall’altra parte. Finchè l’altra parte non diventa la tua dimora. Allora il viaggio verso l’altrove che non esiste ricomincia.» Pensi che ogni migrazione in realtà sia un viaggio verso un altrove che non esiste e che, in quanto diverso dal proprio luogo, è costantemente vagheggiato come migliore?
Per certa gente può essere un altrove che esiste, dipende da cosa si vuole, ma ho la sensazione che ogni essere umano sia sempre in cerca di qualcosa che gli manca, che non afferra, appunto di un altrove che non esiste, se non in quel mondo che si chiama “ideale”.
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-
Ci sono delle scrittrici italiane o italofone a cui ti senti particolarmente
vicina nella scrittura? E per quanto riguarda le tue “colleghe” albanesi, come Ibrahimi e Dones, ti senti vicina al loro modo di scrivere, percepisci un comune influsso del paese di provenienza?
Pur apprezzando le mie compatriote non mi sento totalmente vicina alla loro scrittura. Ho la sensazione che si è vicini per il colore del sangue, per il metabolismo della sensibilità e non perché si proviene dalla stessa storia: si è vicini per amore. Mi sento vicina a Josif Brodskij, Robert Valser, Enrique Vila-matas, Sylvia Plath, Ginevra Bompiani, Yann Apperry, Magritte, Hopper e altri: nessuno di loro è albanese. Sono umani è questo è il mio criterio, “umani troppo umani” (con un riferimento a Nietszche). Non so se loro si sentono vicino a me, però.
188
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