Fondazione San Marino Cassa di Risparmio-SUMS Fondazione Claudio Buziol UNESCO-Delegazione Permanente della Repubblica di San Marino Università degli Studi della Repubblica di San Marino Università Iuav di Venezia presidenza e-mail: presidenzasudesign@unirsm.sm Contrada Omerelli 47890 San Marino Città – Repubblica di San Marino direzione e coordinamento e-mail: direzionesudesign@unirsm.sm ca’ Tron, Santa Croce 1957 Venezia, Italia sede operativa (MARCHIO) atelier Rwanda Laboratoire de recherche et de projets d’innovation de design en Afrique in collaborazione con il club Soroptimist di Kigali (SI-Kigali e SI-Kigali Etoile) e il club Soroptimist di San Marino c/o Centre d’accueil et de formation “San Marco” Kanombe Kigali, Rwanda
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Repubblica di San Marino Segreteria di Stato per gli Affari Esteri Segreteria di Stato per l'Istruzione e la Cultura, l'Università e gli Affari Sociali Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo
Repubblica di San Marino Segreteria di Stato per gli Affari Esteri Segreteria di Stato per l'Istruzione e la Cultura, l'Università e gli Affari Sociali Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo Fondazione San Marino Cassa di Risparmio-SUMS UNESCO - Delegazione Permanente della Repubblica di San Marino Università degli Studi della Repubblica di San Marino Università Iuav di Venezia Club Soroptimist di Kigali (SI-Kigali e SI-Kigali Etoile) e il club Soroptimist di San Marino Partecipazione ufficiale alla 11. Mostra Internazionale di Architettura: Out There. Architecture Beyond Building La Biennale di Venezia 14 settembre / 23 novembre 2008
SOUTH OUT THERE Progetti per il sud del mondo: acqua, igiene e salute.
Sedi espositive
UNESCO Regional Bureau for Science & Culture in Europe Palazzo Zorzi – 4930 Castello, Venezia, Italia LABORATORIO 2729 Calle lunga san Barnaba – 2729 Dorsoduro, Venezia, Italia
Commissario
Leo Marino Morganti
Curatore
Gaddo Morpurgo
Comitato organizzatore
Edith Tamagnini, Lorenza Mel, Maria Alessandra Albertini, Sabrina Zangoli
Comitato scientifico
Massimo Brignoni, Filippo Mastinu, Raul Pantaleo, Riccardo Varini, Marco Zito
Allestimento
Dario Scodeller
Grafica
Francesco Messina Carlo Rossolini
Organizzazione
Mauro Paialunga
Traduzioni di Alexander Sera Fotografie di Massimo Brignoni
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> È motivo di sincero orgoglio e di viva soddisfazione l’aver riportato la Repubblica di San Marino nell’ampia cornice di arte, cultura, ricerca e innovazione, propria della Biennale di Venezia. Far coincidere l’esordio di tale partecipazione con una autorevole rassegna di architettura, che dedica studi e progetti a quel sud del mondo che tanto fatica ad affrancarsi dalle piaghe endemiche della povertà e della carenza di strutture e servizi vitali per la sopravvivenza, è ancor più degno della miglior considerazione. San Marino affonda le sue radici nello spirito di solidarietà e di mutua comprensione ed è, oggi più che mai, promotrice e parte attiva di numerosi interventi di concreta solidarietà nei confronti di realtà sottosviluppate che richiedono con forza forme di cooperazione internazionale, legate non soltanto alla sussistenza, ma a precisi progetti di progressivo sviluppo economico e sociale. Ecco allora che i laboratori internazionali di design assumono un significato ed un valore che va ben oltre la stessa progettualità, per approdare sul terreno della vera cooperazione allo sviluppo, nel solco di quella matrice socio-umanitaria che tanto sta a cuore alla Repubblica di San Marino. L’Atelier Rwanda ne è una dimostrazione tangibile e le forme di interazione tra enti pubblici e privati sammarinesi e realtà locali sono la dimostrazione della volontà di esportare scienza e cultura in maniera non impositiva, ma compatibile e rispettosa dell’identità locale, delle sue peculiarità e capacità operative. Un ringraziamento speciale va a coloro che hanno compreso e tradotto in realtà questa opportunità per la Repubblica, che si apre ad una prestigiosa vetrina internazionale con un progetto di grande qualità e valore. > It is with sincere pride and great satisfaction that the Republic of San Marino participates once again in the ample venue of art, culture, research and innovation of the Biennial of Venice. The concurrence of this participation and its debut with the influential review of architecture, dedicating studies and projects to the world’s Southern Hemisphere, which struggles to free itself from the endemic afflictions of poverty and lack of structures and services that are necessary for survival, is a timely one deserving the utmost consideration. San Marino plants its roots in the spirit of solidarity and mutual understanding and is today, more than ever, a promoter and active part of numerous interventions of concrete solidarity towards underdeveloped realities that strongly require forms of international cooperation, tied not only to subsistence, but also to precise projects of progressive social and economic development. Now is the occasion for international laboratories of design to take on a significance and values that go beyond the project-design in order to achieve a true cooperation for development, as a social-humanitarian cause that the Republic of San Marino deems of imperative importance. The Atelier Rwanda is a tangible demonstration of such endeavours, and the forms of interaction between public and private offices in San Marino with local realities are the demonstration of that will to export science and culture, in a non-imposing manner, keeping compatible and respectful of local identities, its peculiarities and operative capabilities. A special thanks goes to those who have understood these endeavours and translated them into effective opportunities for the Republic, which is opening a prestigious international venue of great quality and value. Fiorenzo Stolfi Segretario di Stato per gli Affari Esteri Secretary of State for Foreign Affairs
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> Dopo ventidue anni di assenza la Repubblica di San Marino, con la mostra South out there, progetti per il sud del mondo: acqua, igiene e salute, torna alla Biennale di Venezia con una partecipazione carica di significati e soprattutto capace di rappresentare l’identità culturale del microstato, i suoi valori ideali, la sua capacità di misurarsi con i grandi dilemmi della contemporaneità. Nell’evento converge l’azione di molti soggetti coinvolti a vario titolo sul programma “atelier Rwanda”, presentato a questa edizione della Biennale veneziana come concreta prospettiva di cooperazione internazionale della quale la mostra costituisce la seconda tappa, dopo l’istituzione del Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo. Il programma si propone di realizzare un luogo di incontro tra le esigenze dell’Africa e le capacità progettuali dell’Europa, almeno per mitigare le intollerabili disparità indotte da una gestione egoistica e asimmetrica dei processi di globalizzazione. Nella mostra vengono illustrati anche i primi risultati di un lavoro condotto nel Corso di laurea in Industrial Design di San Marino, dove si sono incrociate ricerca e didattica, esperienza e idee dimostrando come, attraverso innovativi ed eccellenti modelli di formazione superiore, anche una giovane Università come la nostra possa diventare motore di importanti processi. La nostra presenza alla Biennale dell’Architettura è anche occasione per sviluppare ulteriormente il rapporto tra l’Università Iuav di Venezia e il nostro Ateneo; con il Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo si apre infatti una nuova stagione di ricerca e di ricognizione etica ed estetica che ci auguriamo possa essere utile per ridefinire una politica dell’innovazione capace, finalmente, di risolvere i problemi e cogliere le interdipendenze che intersecano lo sviluppo del Sud come quello del Nord. L’Iuav di Venezia ospiterà queste attività di ricerca a Ca’ Tron sul Canal Grande, che diverrà sede nei prossimi anni del primo “Fondaco di San Marino”. Nella tradizione veneziana i fondaci erano luoghi dove, come ci ricorda Ennio Concina, “Vi stanno roba e denaro, l’itinerare e la sosta del mercante, l’opulenza della città, l’argento del Settentrione e l’oro del Levante, insieme con le regole e le leggi della mercatura. E ancora i volti, le mani, i costumi d’uomini estranei e di paesi altrui…” Nel Fondaco di San Marino ci saranno idee e progetti di un piccolo Stato orgoglioso di una lunga storia.
> After twenty-two years of absence, the Republic of San Marino returns to the Venice Biennial with an active participation of great significance at the exhibition South out there, projects for countries of the world’s South: water, hygiene and health, representing the cultural identity of this small state, its ideal values, and its capacity to measure itself and confront the great dilemmas of our current times. The event presents a convergence of actions of the many people involved with the “atelier Rwanda” project, shown at this edition of the Venice Biennial as a concrete perspective of international cooperation, of which the exhibit constitutes the second phase, following the institution of the Centre for Studies and Projects of Innovation in Countries of the World’s South. The program proposes the realization of a place for European competencies in project-design to respond to the needs of African countries, attempting to mitigate the intolerable disparity caused by a selfish asymmetric management of the processes of globalization. The exhibit will show the first results of the work conducted during the courses of the Industrial Design department at San Marino, where teaching encounters research, experiences and ideas, demonstrating how even a newly formed University like ours can work as the driving force of important processes. Our presence at the Biennial of Architecture is also an occasion to develop relations between the IUAV University and our Campus in San Marino; the Centre for Studies and Projects of Innovation in Countries of the World’s South in fact opens a new season for research and for ethical and aesthetic recognition, which we hope can be useful for redefining policies that are finally capable of resolving problems and harvesting the interdependence of the South’s development along with the North’s. The IUAV of Venice will host this research activity at the palace of Ca’Tron, located on the Grand Canal, which will become the representational seat, as the “Fondaco of San Marino” over the coming years. In keeping with the Venetian tradition, as Ennio Concina reminds us, the fondaci were once places where “the movement and deposits of merchants with foreign faces and local cultural customs, who brought the wealth and opulence of their countries, with silver from the north and gold from the south, along with the rules and laws of their trade…” At the Fondaci of San Marino, we will present the ideas and projects from a small but proud State with a long and important history. Francesca Michelotti Segretario di Stato per l’Istruzione e la Cultura, l’Università e gli Affari Sociali Secretary of State for Education, Culture, University and Social Affairs of San Marino
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> La Fondazione San Marino Cassa di Risparmio-SUMS, ancora una volta, risponde con interesse alla richiesta di partecipare ad iniziative volte a promuovere la presenza della nostra Repubblica nello scenario internazionale della cultura. Nel caso specifico, siamo particolarmente orgogliosi d’essere parte significativa a sostegno di una manifestazione che vede il nostro Paese farsi portatore di conoscenze e di progetti che affrontano seri problemi quali quelli «della depurazione e del trasporto dell’acqua e del miglioramento delle condizioni igieniche» a favore dei popoli del Sud del mondo, ovvero di quelle moltitudini che soffrono quotidianamente della mancanza dei mezzi più elementari di sussistenza. Presentare, in una cornice internazionale di rilievo come la Biennale di Venezia, idee e progetti maturati a San Marino o pensati e realizzati da chi, in qualche modo, vede in San Marino un punto di riferimento per la divulgazione delle sue idee, è senza dubbio motivo di grande soddisfazione per il nostro Paese. > The SUMS San Marino ‘Cassa di Risparmio’ Bank Foundation, once again, responds to requests for participation with dutiful interest in initiatives that promote the presence of our Republic within an international scenario of culture. In this specific case, we are particularly proud to play a significant part in supporting an event that considers our country for bringing forth the knowledge and experience of projects that deal with serious problems, such as “the purification and transport of water and the improvement of hygienic conditions” for populations in the world’s Southern Hemisphere, and those multitudes of people who suffer daily due to a lack of elementary means of sustenance. Our presence at an international venue of great relevance such as the Biennial of Venice, with a presentation of ideas and projects developed in San Marino, or conceived of by people who view San Marino as a point of reference for the advancing of their ideas, is certainly an accomplishment that gives our country great satisfaction. Giovanni Galassi Presidente della Fondazione San Marino Cassa di Risparmio - SUMS President of the San Marino Cassa di Risparmio Foundation - SUMS
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South Out There. Progetti per il sud del mondo: acqua, igiene e salute Leo Marino Morganti
San Marino è parte di quel mondo che, grazie a vantaggiose condizioni di benessere, può mettere a disposizione conoscenze, finalizzate a realizzare strumenti atti a dare dignità alla vita, a favore di quei popoli che non ne dispongono a sufficienza, poiché, spesso, defraudati anche delle loro stesse risorse naturali e materiali. Tutto ciò nel solco di una tradizione di solidarietà di un Paese che, nonostante le sue modeste dimensioni, ha molte volte offerto ospitalità a perseguitati politici e a rifugiati; un Paese che, durante l’ultimo conflitto mondiale, ha aperto i suoi confini a decine di migliaia di sfollati, nutrendoli e condividendone le difficoltà. Un piccolo Stato che, già nel 1848, abolì la pena capitale dai suoi statuti e, negli anni ottanta del secolo scorso, fu artefice della prima promulgazione della carta dei “diritti di solidarietà”. Simili atti, nella cultura di un popolo, costituiscono la base di un diffuso sentimento umanitario, anche quando le emergenze sembrano insormontabili e si estendono molto al di là dei propri naturali confini. Di qui la scelta di un’«arte del fare» (idea, progetto, opera, oggetto) con finalità che tendano ad una più puntuale dimensione etica. Oggi i linguaggi globalizzati come l’architettura, ad esempio, (all’insegna dell’international style, gli architetti dello star system, dimentichi dei più autentici contenuti enunciati dal “movimento moderno”, fanno spesso lo “stesso” progetto a Dubai come a New York) o come l’industrial design (che sembra avere perduto i connotati dell’essenzialità, della riproducibilità, dell’accessibilità, messi a punto nell’arco di un trentennio, 1888-1919, dall’Art and Crafts al Bauhaus, da Morris a Gropius) tendono prevalentemente a soddisfare bisogni indotti o, al più, a creare oggetti per chi, in genere, possiede già tanto, e non sono, invece, protési a rispondere alle emergenze, ai bisogni dell’altra parte del mondo che costituisce la parte preponderante della popolazione del pianeta. Il lavoro che il corso di laurea in disegno industriale dell’Università di San Marino sta producendo vuole, al contrario, rispondere concretamente, con atti e strategie, il più possibile efficaci, alla domanda di riconoscimento di diritti elementari anche per quella parte di umanità. La presenza in uno scenario internazionale, come quello della Biennale di Venezia, consente al nostro Paese di mettere in luce progetti pensati per il Sud del mondo, frutto di collaborazioni e, nel contempo, di studi maturati durante il corso di laurea medesimo nonché scaturiti dalla prima conferenza sul “design oltre i confini dello sviluppo”, tenutasi nel 2007. Tutto ciò in linea con il tema proposto da Aaron Betsky, direttore della undicesima Biennale che si aprirà nel settembre di quest’anno, laddove l’architettura non è più (o non è più solamente) intesa come spazio definito, bensì come progetto in divenire;
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il pensare architettonico non si esaurisce nella costruzione, ma va oltre l’oggetto architettonico: Out There. Architecture Beyond Building. Il pensiero, l’analisi, la critica infine, consentono di ri-acquisire la dimensione etica dell’arte del fare, la ποίησις , come dicevano i greci, che racchiude il bello ed il buono e desta in noi il desiderio di porci la domanda sull’utilità dell’opera dell’uomo, ovvero ne recupera la natura estetica ed etica insieme. έθικός Fare architettura non può essere pura e semplice costruzione di oggetti più o meno grandi. Nel fare architettura si deve cogliere l’essenza e la ragione per αἰσθητικὁς cui gli oggetti vengono costruiti. Il progettare fuori dalle mode (quelle mode che inducono spesso a produrre oggetti effimeri per il mercato) richiama il pensiero ποίησις platonico che, nella disputa fra il bello ed il buono non vede contraddizione o negazione dell’una categoria nell’altra; richiama allaποίησις rilettura del rigore έθικός vitruviano che nei principi di base del fare architettura, nella confluenza di ratio firmitatis, utilitatis, venustatis, vede il risultato etico ( έθικός ), secondo la regola ed estetico ( αἰσθητικὁς ), percettibile del prodotto architettonico; o, ancora, richiama il pensiero occidentale, da Aristotele a Kant, αἰσθητικὁς laddove scienza e coscienza sono costanti inscindibili per la storia e per il futuro dell’umanità. Quindi il progettare fuori dalle mode effimere, di breve durata, rimanda quotidianamente all’éthos, alla regola di vita, ai bisogni, al riconoscimento dei diritti fondamentali di ciascun essere vivente. L’arte, la scienza, la tecnica e la tecnologia hanno una loro ragione d’essere in quanto strumenti al servizio dell’uomo. San Marino vuole fornire il suo contributo in tale direzione. La scuola di design, quale risposta al più generale tema scelto da Aaron Betsky, presenta la mostra South Out There. Progetti per il sud del mondo: acqua, igiene e salute. Recenti prodotti di pensiero rivolti all’«oltre», al «fuori», a coloro che non posseggono risorse sufficienti per pensarli e produrli del tutto autonomamente. Un nutrito gruppo di artisti, architetti, designer, attorno alla scuola di design dell’Università di San Marino, ha scelto di lavorare in questa direzione. Ora occorrono gli approfondimenti, le giuste economie, lo scambio culturale. Poiché idee, progetti, opere ed oggetti non si possono calare dall’alto, ma vanno fatti assieme a chi dovrà poi utilizzarli e, forse anche, talune volte, ancora verificarne i contenuti ed i risultati e, quindi, se necessario, ulteriormente svilupparli. Continuità con il passato Già nel 1986 la Repubblica di San Marino, in occasione della Biennale di Venezia, propose un progetto che denominò il Santachiara. Anche allora si trattò di riflettere sul proprio futuro, ovvero sul ruolo di un piccolo Stato con tutte le sue prerogative di autonomia ed indipendenza. Negli anni successivi il Santachiara ha preso corpo nell’Università di San Marino che, tramite la scuola di design, propone oggi nel 2008, sempre in occasione della Biennale veneziana, altri progetti, ma che, comunque, si inseriscono ancora in quel percorso di crescita e di sviluppo culturale di cui il nostro Paese ha un enorme bisogno. La presenza a Venezia, in occasione dell’undicesima mostra internazionale di architettura, della Repubblica di San Marino assume, quindi, un preciso significato che si spera possa contribuire ad un rilancio in positivo dell’immagine del Paese e delle sue potenzialità operative in ambito
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internazionale a favore di chi ancora non è in condizioni di uscire da difficili emergenze esistenziali. Un’ipotesi per il futuro Oltre a contribuire a rendere concreti i diritti di solidarietà, altro ruolo che il nostro Paese è legittimato ad esercitare è quello di mediatore di Pace. La creazione di un osservatorio per la Pace, potrebbe essere, infatti, il futuro tema di una possibile presenza di San Marino in un contesto internazionale simile a quello che la Biennale di Venezia offre quest’oggi. La Repubblica di San Marino ha evitato la guerra da molti secoli, vanta indubbi primati di civiltà, quali l’abolizione della pena di morte, compiuta nel lontano 1848 con lungimiranza e largo anticipo rispetto a molti altri piccoli Stati del contesto peninsulare (laddove San Marino era l’unica Repubblica rimasta) o rispetto agli Stati d’Europa e d’America. Nella Repubblica di San Marino già dal 1905 era attiva una società internazionale per la Pace. Lavorare in questa direzione potrebbe portare a risultati di alto valore morale. Fare di questo luogo un punto di riferimento da dove bandire violenza, aggressione e guerra quali strumenti per risolvere i conflitti, potrebbe costituire la chiave di lettura e di apertura al mondo per il futuro di un piccolo Stato che non merita di essere aggredito, con frequenza ormai quasi quotidiana, da chi ne vuole utilizzare solamente vantaggi e prerogative materiali. South Out There Projects for the world’s Southern Hemisphere: water, hygiene and health. San Marino is part of a world which, because of its advantageous conditions of wealth, can put forth its knowledge and experience to create tools providing a dignity of life to those populations that do not have such means, due to the fact that they are often defrauded of their own natural and material resources. This all occurs within a tradition of solidarity in a country that, despite its modest size, has oftentimes offered hospitality to persecuted politicians and refugees. It is a country that, during the Second World War, opened its borders to tens of thousands of evacuees, to nourish them and share in their difficulties. And it was this small country that, back in 1848, abolished capital punishment and, in the 1980’s, drafted the first promulgation for a ‘rights to solidarity’ charter. Similar acts in a country’s culture constitute the basis for a wide spread humanitarian sentiment, even when the emergencies seem insurmountable and extend themselves far beyond natural borders. From this background stems the “art of creating” (ideas, projects, works, objects) with aims that point more towards a prompt ethical dimension. Today globalized languages such as architecture (in the shadow of an international style, where architects of a star system, unmindful of the more authentic aspects enunciated by the ‘modern movement’ often create the ‘very same’ project for Dubai that they would for New York) or industrial design (which seems to have lost its features of essentiality, reproducibility, and accessibility, which were so well articulated at the turn of the 20th century, from the Arts and Crafts movement to Bauhaus and from Morris to Gropius) mainly tend to satisfy the needs that are instated
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or to create objects for those who have it all, rather than people who need to respond to emergencies or needs of other parts of the world that make up the preponderant population of the planet. The work being produced at the Course of studies in Industrial Design at the University of San Marino instead aims to generate active and effective strategies in order to recognise and concretely respond to the requests for the fundamental and elementary rights for that part of humanity. Our presence in an international scenario, like the Venice Biennial, allows our country to present a number of projects that were envisaged for the world’s Southern Hemisphere, as the fruits of the collaborations and studies that developed during the course work at the University, following the first conference on ‘design beyond the borders of development’ held in 2007. This is all in line with the theme proposed posed by Aaron Betsky, director of the 11th Biennial which will open this September, where architecture is no longer (and not only) intended as a defined space, but as a project in becoming; conceiving of architecture does not exhaust itself with the construction, it goes beyond the architectonic object: Out There. Architecture Beyond Building. The theory, analysis and criticism ultimately allow for a re-acquiring of the ethical aspects of the art of creating, the , as the ancient greeks said, which include the beautiful and the good, while leading us to question the utility of man’s work, or else it recuperates the aesthetic and ethical nature together. To create architecture is not only a pure and simple construction of smaller or larger objects. In creating architecture, one must comprehend the essence and the reason for which objects are constructed. Developing design-plan that are outside the rules of fashion (those market-oriented fashions that push for the production of ephemeral objects) brings to mind the platonic precept which, in the dialectics between the beautiful and the good does not see any contradiction or negation of one category in the other. This calls for a re-reading of Vitruvian rigor, which establishes a series of basic principles of creating architecture as a convergence of ratio firmitatis, utilitatis, venustatis, and views the ethical result ( ), according to the rule, and the aesthetic ( ) that is perceivable in the architectural project. Furthermore, it also recalls the traditions of western thought, from Aristotle to Kant, where science and conscience are indissoluble constants for the history and future of humanity. Therefore, creating project-designs outside and beyond short-lived trends, involves a daily reference to the éthos, rules of life, needs, and recognition of the fundamental rights of each and every human being. Art, science, technique and technology find their reason for being as instruments to serve man. And San Marino aims to provide its contribution in this direction. The school of Design, as an answer to the theme selected by Aaron Betsky, presents the exhibit South Out There. Projects for the Southern Hemisphere: water, hygiene and health. Recent products were conceived and oriented towards the “beyond” and the “outside”, for those who do not have the sufficient resources to autonomously produce and conceive of such benefits. A solid group of artists, architects and designers,
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involved with the school of Design at the University of San Marino, has chosen to work for this objective. What is now needed are in-depth studies, ad adequate economy and cultural exchange. Since the ideas, the projects, the works and object will not come from above, they must be made together with those people who will later use them and perhaps eventually validate their contents and results, and therefore even further develop them if necessary. Continuity with the past Already in 1986, on the occasion of the Venice Biennial, the Republic of San Marino proposed a project called Santachiara. Even then, it was a matter of thinking about our future, and about the role of a small State with all its characteristics of autonomy and independence. In the following years, Santachiara took shape at the University of San Marino which, through the school of Design, in 2008, is once again proposing at the Venice Biennial, other projects that can still be included in that path of cultural growth and development that is greatly needed by out country. The presence in Venice of the Republic of San Marino at the 11th international exhibit of architecture, therefore takes on the precise meaning that will hopefully lead to a positive re-launching of the country’s image and its effective potential, within an international context, in favor of those who have not yet emerged from their state of difficulty and existential predicaments. An hypothesis for the future In addition to contributing to making the rights of solidarity more concrete, another role that our country is authorized to exercise is to act as mediators of Peace. The creation of an observatory for Peace, could in fact be a future theme for San Marino to develop in the case of its possible presence within an international context such as the one offered today by the Venice Biennial. The Republic of San Marino has banished war for many centuries; and it can proudly point out its sure signs of civilization, such as the abolition of capital punishment, established in 1848, having the ample foresight and preceding many other small States of the Italian peninsula (San Marino being the only remaining Republic) as well as other States of Europe or America. Furthermore, it was the Republic of San Marino that instituted an international society for Peace back in 1905. To work in this direction can bring about results of higher moral values. To make this place a reference point, from where violent aggressions and war as means to resolve international conflicts can be banished, can constitute the key future steps to opening up a small State that does not deserve to be frequently assailed by those who only use it for material advantages and supremacy.
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Atelier Rwanda Gaddo Morpurgo
Ritornare con uno sguardo più ampio. “Un centro di produzione della cultura nel cuore della parte storica di San Marino può costituire una meta importante, raggiungibile, per un micro Stato che vuole continuare la sua storia.” Così scriveva nel 1986 Fausta Morganti, l’allora Deputato alla cultura della Repubblica di San Marino, presentando il progetto Santachiara alla Biennale di Venezia. 22 anni dopo, la Repubblica di San Marino ritorna ad esporre alla Biennale di Venezia con una mostra concepita, e realizzata, proprio in quegli spazi del Monastero di Santa Chiara che nel frattempo sono diventati la sede del Corso di laurea in disegno industriale dell’Università degli Studi sammarinese. In questo lasso di tempo il Monastero è stato restaurato, con grande sensibilità e perizia progettuale, e, anche se non si è realizzato il progetto di Fondazione pensato da Giulio Carlo Argan ed Enzo Mari, oggi quel “cuore della parte storica di San Marino”, è quotidianamente frequentato da giovani che vi studiano e lavorano per costruire, ma anche sognare, un proprio futuro. Che le tavole di progetto, presentate alla Biennale del 1986, si siano concretizzate nel luogo che oggi produce una mostra il cui tema è una riflessione sulle condizioni delle popolazioni del sud del mondo, oltre a dimostrare che in quel posto una “meta” era realmente raggiungibile, dà anche il segno di una comunità che non si è chiusa in se stessa, a contemplare la propria storia, ma anzi trovando forza proprio nella specificità di quella storia, di autonomia e libertà, assume il senso di responsabilità di guardare ai problemi di altre comunità. Il ritorno della Repubblica di San Marino alla Biennale di Venezia è quindi segnato da una profonda analogia tra le due storie che allora, e oggi, si vogliono raccontare tramite l’occasione espositiva. In entrambi i casi l’attenzione è rivolta verso un obiettivo culturale, un “progetto”, e gli “oggetti esposti”, le “opere”, sono pura esemplificazione di un fare, che ha ragioni più estese e parametri che non possono essere ridotti a mere valutazioni estetiche. Allora, il progetto (il desiderio?) di un luogo dove persone si potessero incontrare per riflettere sulla cultura del territorio (parola simbolo di quegli anni). Non è secondario che, in quel progetto, la foresteria avesse un ruolo centrale, dimostrando una significativa attenzione verso la necessità di rallentare i nostri ritmi e investire sullo stare insieme, mangiare, dormire e condividere il proprio tempo… unico antidoto verso la bulimia consumistica che ci circonda. Oggi, presentiamo un luogo, l’atelier Rwanda, già esistente e funzionante dove ci siamo limitati a cogliere l’occasione di unire due, o forse più, storie che viaggiavano in parallelo. La prima storia Vicino a Kigali, capitale di quel Rwanda che il nord del mondo ormai ricorda (o dimentica) più per un genocidio, di cui è stato osservatore più o meno distratto, che per le verdi colline raccontate da Hemingway ; vicino a Kigali il Soroptmist ha realizzato il Centre d’accueil et de formation “San Marco”. Il termine realizzato questa volta ha tutta la ricchezza dei suoi significati. Comprato un terreno, fatto un progetto,
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costruiti gli edifici per insegnare ai bambini, le case per accogliere le vedove, altri edifici per ospitare futuri studenti e persone che godranno delle attività che si realizzeranno. Già oggi in quel posto quaranta bambini godono degli stessi diritti che hanno avuto i nostri figli quando, in attesa della scuola, giocavano nei pochi asili comunali, che la nostra ricca società ora non riesce ad estendere. Anche a San Marino esiste un club Soroptimist che non solo ha voluto, e ha contribuito a realizzare con i club di Kigali, il Centro San Marco, ma che continua ad impegnarsi perché quella realtà cresca e sprigioni tutte le sue potenzialità. Alcune delle “donne” del club di San Marino sono venute un giorno all’università per chiedermi se potevamo dar loro una mano al progetto ruandese. Il problema era: la lavorazione tradizionale di cestini-capanne tipo “agaseks k’uruhindu” rischia di perdersi perché troppo lenta da realizzare e quindi poco remunerativa. Conviene fare oggetti più semplici sulla strada ormai globalizzata dell’artigianato etnico. Cosa è possibile fare? La seconda storia Da quando la formazione del design, almeno in Italia, è uscita dalla marginalità che le Facoltà di architettura le assegnavano per svilupparsi, e moltiplicarsi, in piena “autonomia” nei Corsi di laurea in disegno industriale si è assistito ad una lenta, ma inesorabile, chiusura aproblematica nella difesa del “made in Italy”. Tutto ciò mentre l’università, nel suo insieme, si rassegnava alla riforma bipartisan del 3+2: formuletta burocratica finalizzata a dimostrare che aumenta la produzione annua di laureati, ed utile occasione accademica per moltiplicare corsi, insegnamenti, diversificando il non diversificabile e specializzando il non specializzabile. Il risultato? L’ insegnamento del design attuato come formazione professionale di presunti addetti all’industria reclutati con gli slogans : “se sei creativo da grande potrai firmare una lampada o rifare una seggiola” “diventerai un designer, vivrai di royalties, e in occasione del Salone del mobile di Milano il tuo nome, e il tuo volto, riempirà le riviste patinate del settore”. Un poco in contro tendenza a questa moda, da ormai venti anni ci occupiamo di altro, convinti che il progetto (di cui il design è, e rimarrà nonostante tutte le mode, una componente) possa anche occuparsi dei problemi che, nel frattempo, in giro per il mondo (ma anche più vicino a casa nostra), non sono scomparsi. Ci occupiamo di design per, e nel, sud del mondo, o meglio, di trasferimento delle tecnologie appropriate e di design per la valorizzazione dei materiali naturali. L’Atelier Rwanda Alcuni sostengono che è il “karma” che determina gli incontri. Altri, a cui mi sento più affine, ricordano invece che è la crescita nelle singole storie personali, che è il percorso culturale che compiamo, e stratifichiamo, quando abbiamo mete credibili, che determina gli incontri. L’ incontro delle due storie ha portato a realizzare l’atelier RWANDA un Laboratorio di trasferimento delle tecnologie appropriate e di design per la valorizzazione dei materiali naturali presenti nelle varie regioni dell’Africa, dove l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino tramite il Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo investirà le sue risorse culturali organizzando stage per studenti che seguono il Master in design per il sud del mondo e sperimentano possibili soluzioni a vecchi problemi come quello, non tanto banale, di avere una casa, acqua potabile. La mostra, organizzata in occasione dell'11 Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, presenta alcuni frammenti (progetti ? prototipi?) di questo percorso. C’entra tutto ciò con il tema lanciato da Aaron Betsky per questo appuntamento della Biennale: Out There:
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Architecture Beyond Building? Anche se sappiamo che i temi sono puri pretesti, e poi ognuno continua a mostrare se stesso, sì c’entra. Se architettura, come scrive Betsky è “tutto ciò che può farci sentire a casa nel mondo” c’entra moltissimo. Se “ci serve un’architettura che interroghi la realtà”, c’entra moltissimo. Se “la sfida dell'11. Mostra internazionale di Architettura” è “raccogliere e incoraggiare la sperimentazione: quella delle strutture effimere, delle visioni di altri mondi o di prove tangibili di un mondo migliore” possiamo, senza falsa modestia, sostenere che abbiamo raccolto la sfida. Se c'è qualche cosa di diverso, nella partecipazione della Repubblica di San Marino, rispetto al programma generale della Biennale non sta nel fatto che guardiamo più al design che all’architettura ma che in una mostra ancora nord centrica, dove non a caso, fatta eccezione per l'Egitto, nessuno Stato del continente africano è rappresentato, ci occupiamo anche dei loro (nostri) problemi. Le storie, per esistere, sono il frutto di incontri, persone, amicizie… idee. In questa storia sono infinite le persone incontrate per proseguire verso un obiettivo. Andrebbero ringraziate tutte ma per tutte ringrazio solo sei donne: Bettina, Francesca, Itala, Maria Grazia, Scolastica e, ovviamente, Cristina. Returning with a more ample vision. “A centre for cultural production at the heart of the San Marino can be an important and obtainable objective, for a micro-nation that wants to maintain its active role in history.” This was written in 1986 by Fausta Morganti, the appointed deputy of culture for the Republic of San Marino, in presenting the Santachiara project at the Venice Biennial. 22 years later, the Republic of San Marino returns to present an exposition at the Biennial of Venice with an exhibit conceived and realised in those very spaces of the Santa Chiara Monastery, which, in the meantime, has become the main seat for the Department of Industrial Design at the University of San Marino. In this time period, the Monastery underwent a full restoration, employing great attention and skills to the project, and even if the project for a Foundation, conceived by Giulio Carlo Argan and Enzo Mari, was not completed, the building is now frequented daily by young people who use its spaces to work and study and realise their dreams for the future. It is encouraging that the project work presented at the 1986 Biennial was developed in the same place that today produces an exhibit focusing on the condition of populations in the world’s Southern Hemisphere. In addition to demonstrating that a “goal” was effectively obtained, the place also indicates a community that, instead of closing itself off in contemplation of its own history, finds its own strengths in the specificity of its history; and through its autonomy and freedom, it assumes a sense of responsibility in directing attention to the problems of other communities. The return of the Republic of San Marino to the Venice Biennial is therefore marked by a strong analogy of the two cities, which is made manifest in this occasion for exposition. In both cases, attention is focused on a cultural objective, a “project”, and the “exhibited objects” or “works”, are the pure exemplification of a know-how, having extensive qualifications and parameters that cannot be reduced to mere aesthetic
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evaluations. This is how the project (or desire?) came about for a place where people could meet to reflect upon the ‘culture of a territory’ (an emblematic expression in those years). It is a no less important fact that the project for a boarding house had such a central role to the project, demonstrating significant attention towards the necessity to slow down the pace and invest more in spending time together, to eat, sleep and share experiences… as the sole antidote against the frenzied consumerism that surrounds us. Today, we can present a place that already exists and functions, atelier RWANDA, which gives us the occasion for unifying two, or maybe more, parallel stories that travel side by side. The first story Close to Kigali, the capital city of the Rwanda, which the Northern Hemisphere remembers (or has forgotten) for the genocide that took place, for which it acted as a more or less distracted observer, rather than for the green hills there described by Hemingway. Close to Kigali, the Soroptmist realised the “San Marco” Centre d’accueil et de formation. In this case, the term ‘realised’ takes on the full significance of its meaning. The land was purchased, a project completed, buildings built to teach children, homes to house widows, as well as other structures to host the future students and people who can benefit from the activities that are organised. Already today, there are forty children there who enjoy the same privileges that our children once had when, in waiting to start grade-school, they could attend some of the municipal pre-school kindergarten centres, which our wealthy society no longer provides. It is the Soroptimist club in San Marino that significantly contributed to realising the San Marco Centre along with the Kigali club, and it is through their continued efforts that such a reality can grow and attain its full potential. Some of the “women” of the San Marino club came to the University to ask me if we could help them with a project for Rwanda. The problem was this: the traditional “agaseks k’uruhindu” working style for basket weaving risked being lost due to its timeconsuming efforts with very little compensation. It was easier to make more simple objects in a globalized market of ethnic artisan goods. What was a possible solution? The second story From when the formation of Design, at least in Italy, started to break from the marginalisation that Architecture schools assigned to it and develop in full autonomy at the University departments of Industrial Design, there started to be a gradual but inexorable non-complicated closing of the protection of “made in Italy”. This all happened while the University conceded to a bipartisan reform for 3+2 year programs, a bureaucratic formula with the purpose of demonstrating that it was capable of producing more University graduates. It also proved to be a useful academic opportunity to multiply courses and departments, diversifying the nonexpandable and specializing beyond reason. The results? The teaching of Design as a field of study for the preparation of presumed professionals who were recruited with slogans such as: “if you’re creative, you’ll be able to design a lamp or a bench” – “you’ll become a designer, living off
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royalties, and during the trade fairs, your name and face will be printed all over the glossy pages of trendy magazines”. In opposition to this trend, for the past twenty years, we have worked on other things, convinced that our projects (for which design is, and remains, only one component) can also focus on problems that continue to be in need of solutions all over the world. We work with design in and for the world’s Southern Hemisphere, or more precisely for the transfer of appropriate technologies and design and the evaluation of natural materials. The Atelier Rwanda Some believe that it is “karma” which determines our encounters. Others, with whom I rather agree, remind us instead that it is the growth of singular personal histories, making up the cultural paths, which, through our travels and stratification of attainable goals, determines our encounters. The meeting of two stories brought about the realisation of atelier RWANDA, a Laboratory for the transfer of appropriate technologies and design and the valorisation of natural materials that are present in the various regions of Africa. The University of San Marino, through the Research Centre of Projects and Innovation in the Southern Hemisphere, is to invest its cultural resources in organising internships for students who will complete a Masters course in Design for the Southern Hemisphere and experiment possible solutions to old important problems like building stable homes and obtaining drinkable water. The exhibit, organised in occasion of the 11th International Exhibit of Architecture at the Venice Biennial, presents a few fragments (projects or prototypes?) from this active research path. This all has to do with the theme that Aaron Betsky set for this year’s appointment at the Biennial: Out There: Architecture Beyond Building? Even if the themes are generally just pretexts, for groups to consider while exhibiting themselves, our presentation pertains particularly to the theme. If architecture, as Betsky writes, “is everything that makes us feel ‘at home’ in the world”, then our presentation truly applies. If “we need an architecture that questions reality”, our work does just that. If the challenge of the 11th International Exhibit of Architecture is to “adopt and encourage experimentation regarding impermanent structures, visions of other worlds or tangible proof of a better world” we can affirm, without false pretension, that we have taken on this challenge. If there is something different, in the participation of the Republic of San Marino, regarding the Biennial’s program theme, it is not in the fact that we deal more with design than with architecture, but perhaps that we are facing problems of African countries in an exhibit that is still Northern-world-centric, where, except for the case of Egypt, no other nation of the African continent is represented. In order to exist, stories must be the fruits of encounters, people, friendships and ideas. In this story, there are a great number of people encountered to proceed on towards an objective. We should thank all of them, but for all of them, I thank these six women: Bettina, Francesca, Itala, Maria Grazia, Scolastica and, obviously, Cristina.
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Design per il territorio Dario Scodeller
“I lavori più scadenti, prima o poi, verranno eseguiti dai popoli meno progrediti. Che fare? O saremo un popolo che saprà imporre al mondo il proprio gusto e il proprio stile, oppure se ci limiteremo a spremere dalla carne, dal sangue e dal ferro gli articoli di massa più economici, rivaleggeremo con i popoli orientali nel soffrire la fame.” Così, con sprezzante realismo, nel saggio L’arte nell’epoca delle macchine, Friedrich Naumann pone, nel 1904, una delle questioni chiave del rapporto tra progetto e industria del XX secolo. La frase è ancor più significativa se si pensa che, tre anni più tardi, a Monaco, Naumann è tra gli artefici della nascita del Werkbund, l’associazione che, con il suo dibattito e le sue iniziative, fornirà gran parte dei temi da cui si alimenterà l’utopia del Moderno. Per Naumann, in definitiva, il famoso “valore aggiunto” del progetto era l’unico mezzo di cui l’Occidente (la Germania dell’età guglielmina) disponeva per evitare la fame nella competizione economica mondiale: il nostro disegno industriale (anche quello del Bauhaus) nasce, non dimentichiamolo, con questo imprinting. Relegata per decenni nei bollettini della FAO o delle associazioni missionarie cattoliche, la parola fame è ricomparsa, in questi ultimi anni, nel glossario dei media. Povertà, impoverimento, fame. Dopo 35 anni in cui la parola petrolio ha dominato le code dei telegiornali, la parola grano riappare, e non è un bel segno. Tuttavia, essa ci ricorda che non esistono solo le città e le metropoli, ma, se lo avevamo scordato, ci sono vasti territori del pianeta fatti di campi coltivati e persone che vivono di agricoltura. Non l’agricoltura intensiva e meccanizzata, in dubbio tra il produrre materia prima per i corn flakes o per i biocarburanti. Si tratta, invece, spesso, di un’agricoltura di sussistenza, i cui prodotti non riescono a competere, se raggiungono il mercato, con quelli importati dai paesi occidentali, i cui prezzi sono “drogati” dai contributi statali. La maggior parte delle persone che non ha accesso al flusso globalizzato delle merci abita questi territori agricoli: i villaggi fuori dal villaggio globale. Disegnare per il resto del mondo, per il “Sud” del mondo, significa riprendere consapevolezza dell’esistenza del territorio, del fatto che la città ed i suoi oggetti non possono condizionare tutta la riflessione sul progetto. Significa sapere che esiste una grande area di territori e di popolazioni che, oltre a non avere accesso ai servizi e alle merci più comuni per l’Occidente e per l’Oriente metropolitano, non ha nessuno che pensa ad oggetti che migliorino queste condizioni. Mobilità e riuso. Dopo la Vespa, progettata alla fine del 1945 da Corradino D’Ascanio, nel 1947 la Piaggio mette in produzione un oggetto simbolo del design per il territorio: l’Ape. L’enorme utilizzo di questo piccolo motocarro, oltre che in Italia, anche nei paesi del sud-est asiatico (in India venne anche prodotto su licenza) SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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dimostra che il design, persino quello dei veicoli a motore, può diventare un elemento straordinario di trasformazione della vita economica di un paese. Ancor’oggi l’acquisto di una bicicletta (ma anche di una macchina per cucire) in molte di quelle regioni, è in grado di cambiare la vita di intere famiglie. La riflessione sui metodi di trasporto dell’acqua, sulla sua sanificazione, sui metodi di depurazione secca degli escrementi, (che sono, tuttavia, non bisogna dimenticarlo, dei palliativi all’inesistenza di acquedotti e fognature e quindi all’impotenza dell’economia politica) sono solo un assaggio di quello che il progetto può fare se sposta la sua attenzione ai problemi dell’”altro” mondo. La Vespa e l’Ape nacquero come prodotti per riconvertire la Piaggio da industria aeronautica ad industria civile e sarebbe utile capire se il nostro design per la ricostruzione (di quando anche l’Italia era un paese del sud del mondo, senza automobili e lavatrici) possa rappresentare un modello di riflessione per i problemi di cui stiamo parlando. Qualche mese fa, in una fattoria in Friuli, ho assistito a questa scena: un gruppo di indiani aveva smontato una grande trebbiatrice per il mais e la metteva pezzo per pezzo dentro ad un TIR. Ho chiesto informazioni. Gli indiani stavano acquistando da un contadino del luogo quel macchinario vecchio di più di vent’anni per riadattarlo, in India, alla mietitura di altri tipi di cereali. In quel momento mi sono ricordato che, alla fine degli anni ’60, i Benetton acquistarono dalla Cotton una notevole quantità di telai dismessi per la produzione di calze da donna e li trasformarono a basso costo in ottimi telai per la produzione di maglieria. La nascita di un nuovo modello industriale che ha cambiato l’economia di un territorio, prese l’avvio dal riuso di una macchina industriale desueta. Ma, al di là di questo stratagemma industriale, la Benetton ha evidentemente mediato il suo modello produttivo da quello agricolo, perché il sistema della produzione “diffusa” affidata alla rete dei terzisti sul territorio trevigiano è molto vicino a quello della latteria sociale col suo sistema di raccolta diffusa e lavorazione centralizzata o a quello dell’allevamento dei bachi da seta praticato storicamente nelle campagne venete. L’agricoltura e la sua dimensione territoriale, possono dunque rappresentare un modello per un sistema di produzione industriale. Uno degli aspetti più negativi della cosiddetta globalizzazione non è tanto negli effetti del flusso di merci extracontinentale, che esiste fin dai tempi di Marco Polo, quanto nella totale indifferenza nei confronti del territorio che il concetto di delocalizzazione comporta. Indifferenza per il territorio come eco-sistema produttivo. Oggi l’attenzione dell’architettura e del design è ancora rivolta verso la soluzione dei problemi materiali e di status delle aree metropolitane. Il tema dell’Expò di Shanghai 2010: Better city, better life, sembra confermare questa direzione. La città ed il suo mercato sono al centro dell’attenzione del mondo del progetto. Protesi. “12 aprile. Haider sta facendo la fisioterapia, gli abbiamo assicurato che in futuro cercheremo di dargli una protesi, che potrà ancora camminare. Ritornerà sulle montagne a pascolare capre, non ha altra scelta. Dovesse capitargli di nuovo, speriamo calpesti la mina con la gamba artificiale.” Chi ha letto Pappagalli verdi di Gino Strada sa che l’oggetto di design più esportato (come accessorio di guerra) dall’Occidente industrializzato nel Sud
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del mondo sono le mine antiuomo che privano di arti soprattutto bambini e ragazzi che dei “teatri di guerra”, a guerra finita, sono i primi a reimpossessarsi per giocare o per lavorare. La soluzione è nella messa al bando di questi dispositivi, ma tutti sanno che le aziende delocalizzano la produzione in paesi dove il bando non esiste. Così, la fine di ogni guerra, porta con sé un esercito di persone civili mutilate. Bisogna esportare nel Sud del mondo l’eccellenza, non le cose di seconda mano: il messaggio del centro di cardiochirurgia di Emergency è un indicatore chiaro. L’eccellenza, nel campo delle protesi è quella promossa dell’atleta sudafricano Oscar Pistorius che con delle protesi di gambe in fibra di carbonio (soprannominate cheetah ghepardo) riesce a competere con i più veloci corridori del mondo. La vicenda sportiva è nota. Alfred Nobel inventò la dinamite nel 1867: i suoi 350 brevetti lo fecero diventare ricchissimo. Durante un esperimento di esplosione in una delle fabbriche il fratello morì ed il padre perse le gambe. Nel 1890 Nobel cominciò a sostenere i movimenti pacifisti e nel 1896, all’apertura del suo testamento, si apprese dell’istituzione del premio da assegnare a coloro che operano per il bene dell’umanità. In attesa che i produttori di mine si adeguino alla statura e alle crisi di coscienza del loro fondatore, ecco un quesito per il mondo del design: le protesi di Pistorius costano 3000 euro, un paio di stampelle 30. Qualche designer ha un po’ di tempo da dedicare? Vimini. Al salone del mobile incontro i rappresentanti di una ditta di mobili da giardino. Sono mobili in filo di plastica intrecciato: è la stessa tecnica del rattan, solo che, invece del midollino, si usa la plastica. Dura di più. Li fanno produrre da qualche parte in Africa. Una persona, mi dicono, impiega una giornata e mezza per una poltrona. Penso che una giornata e mezza sono al massimo 6 dollari. Quattro euro. La materia prima ha un costo basso: un rocchettone di filo di plastica. Loro rivendono la poltrona a 150 – 200 euro. Questo è uno dei modi più diffusi in cui il nostro mercato del design si rapporta al Sud del mondo. Mio nonno costruiva dei bellissimi cesti in vimini. In primavera andava per i campi a tagliare i sottili rami gialli del giunco, li legava in un fascio e li teneva immersi nell’acqua del fosso per un po’ di tempo. In questo modo il legno rimaneva morbido fino a quando non decideva di lavorarlo. Poi con la sua roncola li spellava ad uno ad uno fino ad estrarre il midollo bianco ed elastico. A questo punto iniziava la costruzione dei cesti. Non ricordo quanto tempo impiegasse e del resto non era un lavoro continuo, perché avveniva nell’intervallo dei lavori sui campi. Nelle giornate di pioggia se ne stava seduto su dei sacchi di juta, sotto il portico del fienile, e lavorava ai suoi cesti che servivano poi per la vendemmia, per la raccolta del granoturco, per raccogliere l’erba per i conigli, per portare in casa i ceppi di legna da ardere. Non sto parlando di un’era mitica e lontana, ma gli anni ’60 del ‘900. Mio nonno non era un nostalgico di un’età bucolica: aveva lavorato, negli anni ’30, in Germania, nella zona industriale della Ruhr, e aveva provato sulla sua pelle come i tedeschi stessero ancora spremendo dalla carne, dal sangue e dal ferro gli articoli di massa. La plastica, negli anni ’60 era già abbastanza diffusa, ma nessun progettista della Kartell aveva mai disegnato qualcosa che funzionasse così bene come i suoi cesti, con la giusta ampiezza e profondità, leggerezza, elasticità, SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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solidità e resistenza del manico curvo. Il suo design era un design per il suo territorio, che lui faceva nascere dalla sua terra per i propri bisogni. Da bambino mi sedevo accanto a lui sotto il portico e provavo anch’io ad intrecciare i vimini: chissà se da qualche parte, nella memoria, qualcosa di quei gesti mi è rimasto. Design for the territory “The most menial of labour will sooner or later be done by less civilised populations. What should be done about this? Either we become a population that imposes its own preferences and style, or else, if we limit ourselves to squeezing out economical items of mass appeal from our blood, sweat and tears, we will end up suffering hunger along with the populations of the Orient.” It is with this contemptuous realism that Friedrich Naumann posited one of the key questions regarding the relationship between project and industry of the 20th century in his essay Art in the age of machines (1904). The sentence is today more meaningful if we think that three years later, in Munich, Naumann became one of the founders of ‘der Werkbund’, an association that, through its discussions and initiatives, brought forth many of the themes that fostered the utopia of Modernism. For Naumann, the famous “added value” of projects was the only means of which the West disposed to avoid hunger in a world economic competition: our traditions of industrial design, let us not forget (even Bauhaus), is born with this imprinting influence. Banished for decades in FAO’s reports and in other missionary catholic associations, the word ‘hunger’ has started to reappear frequently in the media. After 35 years of the word ‘oil’ dominating the airtime of televised news, the word ‘grain’ is reappearing, and this is not a good sign. If anything, it reminds that, beyond cities and metropolises, there are vast territories of the planet made up of cultivated fields and a great number of people who make their living in agriculture. They do not necessarily work for intensive or mechanical agriculture, but for subsistence agriculture, with products that have great difficulty in competing with those imported from western countries, whose prices are “drugged” by contributions of state funding. A majority of people who do not have access to the globalized flux of merchandise live in these agricultural territories: villages that are outside of the global village. To design for the rest of the world, for the world’s “South”, means to regain awareness regarding the territory, and about the fact that the city and its objects cannot influence all thinking and theory on project design. Designers should understand that a large part of the world’s territories and populations do not have access to the world’s more commonly attained services and merchandise, and it has no one to think of objects that can ameliorate such conditions. Mobility and Reuse. Two years after the Vespa, designed in 1945 by Corradino D’Ascanio, the Piaggio company started production on the Ape, an object that soon became the symbol of design for the territory. The enormous use of this small delivery tri-car, in Italy and in countries of south-eastern Asia (in India it was produced by license) demonstrated that motor-vehicle design could become effective in transforming the economic life of a country. Still today, the purchase of a bicycle or even a sewing machine in many remote regions, is capable of changing the life of
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entire families. Some reflections on different methods of transporting water, on its purification, or methods for the dry depuration of excrement, (which are an alleviation in the case of lacking aqueducts and sewage systems and hence also to the impotence of a political economy) are only a few examples of what the project itself can focus on if it moves its attention to problems of the “other side” of the world. The Vespa and the Ape were the products that converted the Piaggio company from an aeronautical industry to a civil one, and it might be useful to understand if our design for the country’s reconstruction (back when Italy was considered a country of the world’s South, without automobiles, and washing machines) can represent a model for reflection on the problems and issues in discussion. Some months ago, on a farm in Friuli, I witnessed the following scene: a group of Indian people was disassembling a large threshing machine for corn and they put it, piece by piece, into a transport truck. It turned out that the Indians were in the process of buying that 20 year-old piece of equipment from a farm worker so that they could re-adapt it, and use it in India for other types of grain. At that moment, I remembered that, at the end of the 1960’s, the Benetton family purchased a large quantity of disused power looms that produced women’s stockings from the Cotton company, and later transformed them at a very low cost into excellent looms for knitwear production. The birth of a new industrial model that has changed the economy of a territory was started with the reusage of outdated industrial machinery. In addition to this industrial stratagem, Benetton was also able to mediate and emulate its productive model from agricultural practices, as the system of “diffused” production entrusted to a network of tertiary services throughout the territory of Treviso is very close to that of a dairy co-operative, with its system of widespread delivery and collection and a centralised production unit. Agriculture and its territorial scale, can thus represent a true model for a system of industrial production. One of the negative aspects of so-called globalisation is not so much in the effects of extra-continental flux and exchange of merchandise, that has existed since the times of Marco Polo, as much as the total indifference towards the local territory that the concept of de-localisation implies; an indifference towards the territory intended as a productive eco-system. Today the attention of architecture and design still mainly focuses on the solution of material problems and the status of metropolitan areas. The theme of the Expo in Shanghai 2010: Better city, better life, seems to confirm this focus. The city and its market are again at the centre of attention in the world of project design. Prosthesis. “12 April. Haider was doing physiotherapy, and we assured him that we would try to give him a prosthesis which would allow him to continue walking. He could return to the mountains and pasture his goats. He didn’t have any other options. If it happens again, let’s hope that he steps on a mine with his artificial leg.” Whoever read Green Parrots by Gino Strada, knows that the most exported objects of design (as accessories of war) from developed countries to the rest of the World’s Southern Hemisphere are anti-personnel mines, which maim and kill mainly children who, are usually the first, once the battles are over in those wartorn areas, to repossess the grounds for play or for work. The solution is to SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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banish these devices, but everyone knows that the manufacturers de-localise their production into countries where the ban does not exist. Thus, the end of every war brings with it an army of mutilated civilians. Excellence needs to be exported to the world’s Southern Hemisphere, rather than used second-hand goods; and the message of the centre for heart-surgery of Emergency is a clear indicator. Such excellence, in the field of prosthesis development, is promoted by the South-African athlete Oscar Pistorius (nick-named cheetah) who, with the carbon-fibre leg prosthesis, succeeded in competing with the fastest of the world’s runners. This event in the world of sports is well known. Alfred Nobel, who invented dynamite in the year 1867 had 350 patents that made him very wealthy. During an explosion experiment in one of his factories, his brother was killed and his father lost both legs. In 1890 Nobel started to support a pacifist movement, and in 1896, with the reading of his testament, there was a request for the institution of a prize to be assigned to those who operate for the good of humanity. While waiting for mine producers to adapt to the stature and conscientious decisions of their founder, we pose this question to the world of design: If Pistorius’ prosthesis costs about 3000 Euros, and a pair of crutches about 30; do designers have any good ideas and time to dedicate to this problem? Wickerwork. At a recent furniture expo-fair, I met the representatives of a company that makes lawn furniture mostly out of interwoven plastic. They use the common rattan technique, except that, instead of natural reeds, they use plastic because it last longer. They produce these pieces somewhere in Africa. One person, they tell me, spends one day and a half to make an armchair. I think that a day and a half in that country pays almost 4 euros. The raw material, a huge spool of plastic filament, has a low cost. They ultimately sell the armchair at 150-200 Euros. This is one of the most widespread ways that our market of design relates with the world’s Southern Hemisphere. My grandfather built beautiful wicker baskets. During the spring he would go into the fields and cut yellow reeds, tie them into a bunch and keep them immerged in water for quite a while. This way, the wood remained malleable until he decided to work it. Then, with his billhook, he flayed them one by one, until he could extract the white and elastic pith. At this point he started to construct the baskets. I do not remember how long it took him, and it was not a continuous job, because he did it in his spare time while taking a break from his work in the fields. During rainy days, he sat there on burlap sacks, beneath the portico of the hayloft and worked his baskets, which were used for grape harvest, for gathering corn, to collect dry grass for the rabbits, and to bring home firewood. I am not talking about a mythical era of long ago, this was in the 1960’s. During the 1930’s, my grandfather worked in Germany, in the industrial area of Ruhr, and he knew very well that the Germans were starting to produce articles for the masses. Plastic in the 1960s was wide-spread enough, but no project designer from Kartell had ever designed anything that worked as well as his baskets, having just the right width, depth, elasticity and resistance of the curved handle. His design was a design for his territory, which he developed on his land for his own needs. When I was a child, I sat next to him under the portico and tried to interweave the reeds: who knows if somewhere in my memory some part of that skill remains?
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La Questione Etica nel Design Lorenzo Imbesi
Già nel 1969 Victor Papanek avvertiva sulle responsabilità sociali e morali del design verso un “mondo reale” fatto di persone di carne che abitano, lavorano, viaggiano, giocano, vanno a scuola, invecchiano, si ammalano. Dalle pagine storiche di chi è considerato l’avanguardia del design a scala umana, emerge la considerazione etica che il progetto non è un lusso per strette élite tecnologiche, ma si deve interfacciare con le urgenze di un’umanità in eccesso ai limiti della sopravvivenza che affolla gli slum e i ghetti delle metropoli, riempie i campi profughi delle vecchie e delle nuove guerre, abita i centri di permanenza temporanea dell’emigrazione, è vittima in fuga da disastri naturali. La consapevolezza cioè dei bisogni e dei desideri della moltitudine degli uomini e delle donne che affollano il pianeta, quel 90% finalmente celebrato nei circuiti ufficiali del design, investe il progettista di una forma di responsabilità etica oltre la comune deontologia professionale. Così, se la variabile ambientale ha costituito per molto tempo uno dei cardini del progetto sostenibile e l’ecodesign ne ha fissato i principi strumentali, più recentemente la riconsiderazione della dimensione etica oltre il profitto economico, apre al contempo ad un ventaglio di temi più sociali che ne complessificano l’analisi, ma anche gli strumenti e le opportunità. La consapevolezza di vivere in un mondo più piccolo, la diffusività e la permeabilità delle nuove tecnologie dell’informazione e della conoscenza, l’elaborazione di nuovi stili di vita insieme alla consapevolezza problematica del ruolo del consumo, muovono nella direzione di una riconsiderazione critica di alcune delle categorie legate alla sostenibilità su cui si è basato per molto tempo il pensiero ecologista, unitamente ad alcuni refusi di stampo colonialista. Come il rapporto Nord-Sud del mondo, la questione tecnologica, la cultura del limite e il valore culturale dell’estetica. Quanti Sud ci sono nel Mondo? La mappatura geopolitica di stampo colonialista che ha costruito nel tempo il paradigma Nord-Sud, tagliando il globo in due come una mela, ha colorato allo stesso tempo gli archetipi binari in cui si riflettono centralità e marginalità, oppure sviluppo e sottosviluppo. Questo, che appare come una geografia statica, è il modello su cui si sono riferite per molto tempo le analisi sulle differenze e le disuguaglianze: i contrasti tra bianco e nero, civilizzato e selvaggio, sviluppato e sottosviluppato, occidentale e non occidentale sono i sistemi di esclusione che hanno informato nel tempo, se non legittimato, le pratiche di segregazione e subordinazione coloniali. Ma qualsiasi analisi non può prescindere dal passaggio storico che ormai abbiamo vissuto dall’economia cosiddetta fordista: quella della fabbrica pesante e fortemente territorializzata e che organizzava il lavoro in strutture piramidali e gerarchizzate, l’economia che ha costruito le metropoli della modernità secondo diagrammi concentrici, SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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polarizzando le decisioni e rendendo periferica la componente più subalterna. Questo movimento nella direzione del modello di sviluppo postindustriale, lascia emergere le nuove geografie economiche e produttive: in un mondo in cui la vecchia industria della catena di montaggio lascia il posto a nuove forme di organizzazione del lavoro più flessibili, permettendo alla produzione di svincolarsi dal territorio e decentrarsi, i vecchi paradigmi binari Nord-Sud e centro-periferia non funzionano più e la vecchia mappa del colonialismo non ce la fa a raccontare la complessità della contemporaneità. La nuova geografia economica taglia trasversalmente i confini del mondo e la vecchia linea di demarcazione fra Nord e Sud, segnalando al contempo nuovi fenomeni transnazionali di disuguaglianza estrema e marginalità. L’immigrazione è uno dei processi fondativi di questa geografia mobile delle differenze che interessa soprattutto le grandi città con-dividendo nello stesso spazio produzione fisica e riproduzione sociale, potere finanziario e povertà. Infatti, la globalizzazione del mercato del lavoro coincide ed è da inscrivere come parte dello stesso processo di circolazione del capitale fuori da confini territoriali: flussi migratori e finanza globale concorrono insieme a ridisegnare attualizzando il progetto coloniale attraverso le nuove forme di disuguaglianza. Questi movimenti di fatto sconfinano il sistema delle differenze coloniali archetipiche, creando reti di nodi interconnessi che non si riconoscono più in un centro e che sono a loro volta legati alle rotte della mobilità di uomini e donne come dei soldi. Altro fenomeno critico inedito, tra le metropoli globali che sono attraversate dai flussi dei mercati transnazionali che concentrano tecnologie e finanza, e quindi anche decisioni strategiche e scelte per lo sviluppo, oltre alle consolidate Tokyo, New York e Londra, è l’emergenza di altre città finora considerate colonie come Hong Kong, San Paolo, Città del Messico, Nuova Delhi, Città del Capo. Queste città emergono per la loro estensione incredibile in cui si accumulano infrastrutture e tecnologia, ma anche una straordinaria quantità di umanità che definisce la nuova geografia di centralità e marginalità, accentuando le differenze e le disuguaglianze e accendendo spesso il conflitto (Sassen, 1998). Se la stragrande maggioranza degli abitanti del Pianeta vivrà molto presto nelle grandi metropoli globali, e il trend non sembra essere destinato a diminuire, questi saranno gli scenari dell’emergenza su cui la produzione e il progetto si dovranno misurare. Insomma, se è vero che il globale è ormai diventato il modo d’essere del locale, e sembra un processo irreversibile, la domanda è: ha ancora una qualche importanza parlare di Nord e Sud del mondo? O piuttosto, non è vero che possiamo rintracciare tanti Sud nel Nord come tanti Nord nei vari Sud del mondo? O anche tante periferie nel centro e tanti centri nelle periferie? Tecnologie Critiche In questi scenari, il tema delle nuove forme di centralità e marginalità incrocia un’altra delle categorie critiche rispetto alla sostenibilità, e cioè quello dell’accessibilità e dello sviluppo tecnologico. Qui, il problema non sembra più essere unicamente il trasferimento delle tecnologie nei Paesi in via di sviluppo, piuttosto il rischio è proprio la costruzione di una forma di “fordismo periferico” dovuto al decentramento nei paesi di nuova industrializzazione soprattutto delle lavorazioni più inquinanti; bensì riuscire a creare nuovi modelli di sviluppo che
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sappiano incrociare insieme innovazione tecnologica con intelligenze e capacità nella gestione dei processi, coinvolgendo così quel capitale immateriale in termini di conoscenze scientifiche e tecniche che nell’attuale società della conoscenza diventano un fattore competitivo importante. A prova di ciò sono da sottolineare i progressi nell’innovazione tecnologica al servizio della gestione dei flussi di informazione ottenuti attraverso l’investimento nelle risorse umane che hanno significato una possibilità di riscatto in molti paesi emergenti come nel caso dell’industria del software in India. Se il cambiamento paradigmatico che stiamo vivendo ci conduce verso quella che è stata chiamata la società della conoscenza, allora saranno sempre più le capacità di accesso, ovvero il potere di accesso, e l’inclusione alle tecnologie e alla comunicazione a misurare le capacità delle società a svilupparsi autonomamente. Sarà quindi sempre più l’intelligenza e le capacità di gestire i processi a creare valore competitivo, piuttosto che il capitale immobile, e quindi sarà fattore discriminante l’inclusione a quel capitale immateriale consistente in conoscenze scientifiche e tecniche (Rifkin, 2001). Le povertà, quindi, non si misurano più solo sui bisogni primari, ma anche sul potere di accesso a tutte le opportunità educative, culturali, informative ed economiche che la rete può offrire a costi minimi. Anche qui si misurano le nuove disparità e le differenze ingigantendo la sproporzione economica e sociale nel mondo. Su questo tema, il pensiero ecologico ha una responsabilità storica nei confronti dell’innovazione tecnologica dei paesi meno sviluppati, considerandola spesso tout court l’unica artefice degli odierni disastri ambientali, a cui opporre la “soluzione finale” di un romantico ritorno allo stato naturale per ripristinare l’ecosfera. In questo, anche il Papanek d’annata che aveva scritto come “progettare per il mondo reale”, in alcuni punti non è esente da giudizi un po’ ideologici. La stessa vicenda delle tecnologie intermedie, poi maturate in appropriate e sviluppate negli anni Sessanta e Settanta per i Paesi in Via di Sviluppo, ripropone una versione più povera e arretrata delle tecnologie provenienti dai paesi a capitalismo maturo, condannando così quello che era chiamato il mondo terzo ad una forma di subalternità ed all’eterno sottosviluppo, oltre a non disegnare un reale modello di sviluppo alternativo. Si è interpretata cioè per molto tempo la mancanza di risorse e la distanza dai paesi industrializzati, proponendo fasi transitorie che mediano le tradizioni indigene locali e gli impatti dei processi più avanzati nella direzione dell’adeguamento delle prospettive di crescita. È evidente, nell’analisi dell’appropriatezza delle soluzioni, il condizionamento riferito all’industria e alle tecnologie pesanti a cui si sottopone un processo di downgrading misto ad una riscoperta delle risorse e delle manualità locali per limitarne gli impatti energetici e ambientali. L’avanzamento delle nuove tecnologie legate all’informazione ed alla conoscenza nella contemporanea economia dei servizi post-industriale, propone una condizione inedita, per le capacità che contengono di creare, attraverso la gestione dei flussi di informazione, nuove opportunità di sviluppo socialmente più sostenibili, conciliando al contempo produzione immateriale con intelligenza. In questo senso, sono interessanti per il portato di innovazione tutti quei progetti di inclusione tecnologica e digitale, come ad esempio la dotazione di reti wireless gratuite in zone dove a volte è assente anche l’elettricità o la diffusione SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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di computer che sappiano unire economicità e innovazione. Altrettanto, la diffusione massiva di tecnologie distribuite liberamente come sistemi operativi e software open-source, può essere in grado di rompere le logiche dei monopoli e delle multinazionali legate al digitale e propone di fatto un modello di sviluppo alternativo anche per le società più sviluppate. Insomma: se nel prossimo futuro milioni di uomini e donne nei luoghi più deboli del mondo utilizzeranno queste tecnologie così da fare “massa critica”, utilizzandone i linguaggi, non si dovranno per una volta adeguare le società più sviluppate a questi protocolli più diffusi e comuni, per lavorare, comunicare, essere presenti nel mondo? Desideri Politici La terza categoria critica coinvolge direttamente la questione estetica che trova connessioni soprattutto con il concetto di desiderio. Uno dei teoremi che hanno segnato a lungo la filosofia ecologica è il concetto di limite che Hans Jonas ha sviluppato attraverso l’etica della responsabilità verso le generazioni future, fornendo anche alla cultura del progetto una metafora straordinariamente efficace (Jonas, 1984). Insomma: la scomparsa definitiva del globo e la salvezza della vita naturale può essere evitata in extremis soltanto accettando ancora più che un’etica, una vera morale del sacrificio, la cui risposta estetica si configura come una forma di minimalismo programmatico di stampo calvinista, quando non si afferma una forma di cautela progettuale che spesso confluisce in una politica del “non fare” ed all’assenza di progetto. Non è forse un caso che molti dei filoni di ricerca sviluppati negli ultimi anni, sia stato legato alla normativa ambientale che spesso ha creato una forma di distanza dalla cultura del progetto. Contestualmente, la risposta è stata spesso la diffusione di un’“estetica del rottame”, come la chiama Ave Appiano, diretta erede dell’arte povera e minimal, sfiorando spesso anche il trash, che ha privilegiato una forma ed un’espressione tra il dimesso e il pauperismo che, nella sua debolezza, ha lasciato un segno forte di pulizia morale ed estetica. In ciò, il desiderio non di rado è trattato come una minaccia da esorcizzare perché causa di spreco improduttivo, oltre la pura conservazione della vita. Sulla stessa linea, Georges Bataille aveva chiamato lo spreco “la part maudit”, la parte maledetta, connettendola al concetto di dépense, interpretando così lo scarto improduttivo ottenuto da un’azione di consumo e vissuto come un atto di sacrificio e quindi di perdita, ma che contemporaneamente svolge una funzione sociale nei riti tribali (Bataille, 1967). In cambio della salvezza e della redenzione, i culti sacrificali/sacrali impongono cioè una perdita, spesso sanguinosa, che ha un alto valore simbolico e collettivo. La religione dell’utile sembra porsi come l’unica sfida possibile ad una civiltà centrata sull’abbondanza e il lusso che non possono che provocare spreco e distruzione. Al contempo, una delle manifestazioni con cui la cultura del progetto si deve confrontare, è la centralità dei fenomeni di consumo nelle società contemporanee e dei nuovi significati critici che assumono, segno del superamento delle teorie utilitaristiche del bisogno. Il consumo smette di essere un’attività secondaria alla produzione e al mercato, lasciandone emergere le valenze più cognitive e produttrici di significato. Si parla in questo senso di consumo produttivo e della consapevolezza critica dei valori sociali, relazionali, cognitivi e comunicativi
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delle merci nella convergenza tra produzione e consumo e nella prospettiva di nuove forme di partecipazione, stili di vita, responsabilità, autoproduzione. L’estetica quindi entra in ambito politico per rivendicare un “diritto all’estetica” che includa anche valori etici e di solidarietà e non condannare ad un sottosviluppo strutturale tutti gli uomini e le donne che vivono nell’esclusione e nell’indigenza. La “cultura del limite” e l’“estetica del sacrificio” dovrebbero in questo senso essere riconsiderati alla luce degli effetti della globalizzazione e della penetrazione dei media intorno al mondo che hanno prodotto di riflesso la diffusione degli stili di vita ed al contempo una forma di consapevolezza e di educazione estetica anche attraverso i luoghi e gli strati sociali più remoti. Perfino nelle favelas più nascoste spuntano le antenne paraboliche che spesso da sole svolgono il ruolo di informare ed educare connettendo a distanza persone e luoghi, ma altrettanto promuovendo nuovi status di consumatori insieme all’aspirazione verso gli standard occidentali. Sedotti eppoi abbandonati! Sarà proprio l’estetica, intesa come interpretazione cognitiva di sensibilità e culture condivise, che si concentrerà la sfida per il progetto etico, fornendo scenari del quotidiano ed immaginari formali per un nuovo modello di sviluppo che integri anche una forma di seduzione. Creare un’estetica per l’etica in questo senso renderà accettabili e riconoscibili le “buone” scelte anche come scelte “belle”. Insomma: quale forma per l’etica? Il diritto all’estetica si connette così al concetto di desiderio che può essere liberato dalla teoria lacaniana della mancanza che nasce dallo scarto tra bisogno e domanda. Rileggere il desiderio come energia liberata dall’idea di assenza costruita tra privazione e bisogno, affranca anche le pratiche di consumo dal dominio del mercato. Il consumo cioè può assumere le valenze di un atto creativo in grado di rielaborare attivamente forme e significati, superandone la logica comune di accettazione passiva del bisogno indotto. Il desiderio si connette così all’idea di progetto, un atto creativo cioè capace di produrre realtà e felicità nel realizzarlo: una volontà di potenza, pulsione irriducibile nel colmare lo scarto tra pensiero e realtà e nella capacità di sognare svincolata dalla necessità: “se il desiderio è mancanza, è anche tristezza. Al contrario, la potenza piena del desiderio è virtù e saggezza.” (Deleuze, Guattari, 1975) L’estetica entra in ambito politico. The Ethical Question in Design Already in 1969, Victor Papanek observed and recognised that there were social and moral responsibilities for the world of design to take on in the “real world”, made up of real people who live, work, travel, play, go to school, get old and get sick. So from the historic experience of the avant-garde of design at a human scale, what emerges is the ethical consideration that projects of design are not to be a luxury for a close-net technological elite; they must instead interface with the urgencies of a humanity in excess, barely surviving, crowding the slums and ghettos of our metropolises, filling the refugee camps of old and new wars, inhabiting temporary housing shelters of emigration, and fleeing natural disasters. This awareness regards the needs and desires of the multitudes of men and women that populate the planet, who are finally SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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receiving attention from the world of design’s official circuits, and giving the project designer an ethical responsibility that exceeds any common professional work ethic. So, while the environmental variable has long constituted one of the main pivots for projects of ‘sustainability’ and ‘eco-design’ established their instrumental principles, more recently, there have been ethical reconsiderations, going beyond economic gains, which started to open up a new range of more social themes. This naturally tends to make the aforementioned projects more complex, along with their instruments and opportunities. The awareness of living in an ever smaller world, the diffusivity and permeability of new information technologies and knowledge, the elaboration of new life styles, as well as a problematic awareness of new roles of consumption, all move in the direction of a critical reconsideration of certain categories connected to ‘sustainability’ on which a large part of ecological theory has long been based; moreover there must also be a correction of certain colonialist misreadings, such as the relationship between the north and south of the world, the issues of technology, the culture of constraint and the cultural value of aesthetics. How many Souths are there in the World? The colonialist-style geopolitical mapping, which long constituted the NorthSouth paradigm, cutting the globe in half like an apple, has concurrently defined the binary archetypes in which emblems of centrality and marginality (or development and under-development) are manifested. This seemingly static geography is the model on which many analyses have long been based, especially in reference to differences and inequality. The contrasts between black and white, civilised and uncivilized, developed and underdeveloped, western and non-western are systems of exclusion, which have in time brought forth, if not legitimised, certain practices of segregation and colonial subordination. No analysis, however, should set aside the historic passage that was experienced with Fordist economics: factory industries, connected to the territory, organising work in a hierarchy of structural pyramids, an economy that has constructed the modern metropolis according to concentric diagrams, polarising decision processes and subordinating any marginal component. Movements towards models of post-industrial development can instead allow for new economic and productive geographies to emerge in a world where the old industries of assembly lines give way to new forms of more flexible work organisation. This can in turn allow for production to free itself from the territory and decentralise itself, as the old north-south and centre-periphery paradigms will no longer apply, and because the old maps of colonialism can no longer convey the complexities of the contemporary world. A new economic geography will transversally cut the boundaries of the world and the old lines that separated North and South, while also signalling a new trans-national phenomena of extreme inequality and marginality. Immigration is one of the foundational processes of this mobile geography of differences that mainly affects large cities, as it generates physical production, social reproduction, financial power and poverty all in the same place. As a matter of fact, the globalisation of the work market coincides with processes of circulation of capital outside national boundaries, just as migration flow and global finance are converging to rewrite and update a colonial project through
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these newly emerging forms of inequality. These movements in fact go beyond the archetypical systems of colonial differences to create networks of more interconnected and decentralised nodes, tied to the mobility flows of men and women, treated as if they were capital. Beyond the consolidated cities of Tokyo, New York and London, another critical phenomenon within the global metropolis that is crossed by the flux of trans-national markets that concentrate technology and finance, including strategic decisions and choices for development, is the emergence of other previously considered colonial cities like Hong Kong, San Paolo, Mexico City, New Delhi, and Cape Town. These cities emerge with incredible extensions in which infrastructure and technology is accumulated along with an extraordinary quantity of humanity that defines the new geographies of centrality and marginality, accentuating differences and inequalities, and often igniting conflict (Sassen, 1998). If a major part of the world’s population is destined (as trends indicate) to live in these global metropolises, these cities will soon present scenarios of emergency, which will have to be seriously taken into consideration by all processes and projects of production. Ultimately, if “global” is truly becoming the way of being “local”, and this seems to be an irreversible process, one might ask the following questions: what distinctions can still be made between the world’s North and South? or, Can we find as many Souths in the North as there are Norths in the various Souths of the world? and, What about the many peripheries in the centre or the numerous centres in the periphery? Critical Technologies In these scenarios, the theme of new forms of centrality and marginality encounters another critical category in regard to sustainability, and that regards accessibility and technological development. The problem, in this case, is no longer only the transfer of technologies to developing countries, there is also the risk in building a form of “peripheral Fordism” caused by decentralisation in countries of new industrialisation, especially in those that produce high levels of pollution. Therefore, the goal is to succeed in creating new models of development that can join technological innovation with know-how and experience in process management, thus involving an immaterial capital of scientific and technical knowledge that, in today’s society of knowledge, have become a competitive factor of great importance. Proof of this can be found in highlighting the progressions in technological innovation regarding information flux management, obtained through investing in human resources, which often translated into prospects of development for many emerging countries, such as the case of software industry in India. If the paradigm shift that we are living leads us towards a so-called society of knowledge, then there will be an increasing number of access capabilities, that is more power of access, and inclusion into technologies of communications will be the measures of societies’ capacity to develop autonomously. Therefore, creating competitive value will increasingly depend on intelligence and the capability of managing processes, rather than fixed capital; so the new discriminating factor will be the inclusion into that immaterial capital consisting in scientific and technical knowledge (Rifkin, 2001). Poverty, therefore, will no longer be measured according to primary needs, but also on the power of access to all educational, SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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cultural, informative, and economic opportunities that the network can offer at minimum costs. New disparities and differences will also be measured by magnifying the economic and social disproportion in the world. On this theme, the ecological movement has a historic responsibility towards technological innovation in less developed countries, by simply blaming it for being the main cause of today’s environmental disasters. The “final solution” often proposed by the movement is a romantic return to the natural state of a recovered “eco-sphere”. In regard to this, even Papanek, who long ago wrote “Design for the real world”, is often accountable for rather idealized ideological judgements. The same dynamic of intermediate technologies, which matured and developed during the 1960’s and 70’s for developing countries, is currently proposing a weaker, more backward version of technology originating in countries of advanced capitalism. This not only condemns the so-called third world to a form of subordination and to perennial underdevelopment, it also avoids the planning of real models of alternative development. For much time, the lack of resources and distance from industrialised countries were dealt with by proposing transitional phases that would mediate indigenous traditions and the impacts of more advanced processes towards an adaptation to prospectives for growth. In the analysis of the correctness of solutions regarding industry and technology, what becomes evident is a process of downgrading mixed in with a rediscovery of local resources and know-how in order to limit excessive environmental impact and energy consumption. The advancement of new technologies tied to information and knowledge in a contemporary postindustrial economy of services, proposes new conditions, for its inherent capabilities to create opportunities for a more socially sustainable development through the management of information fluxes, thus concurrently reconciling immaterial production with intelligence. In this sense, one should note the projects of innovative technological and digital inclusion, like the employment of free wireless networks in areas where even electricity or the use of computers is lacking. Equally important is the wide-spread diffusion of freely distributed technologies, such as operating systems and open-source software, that could break the logic of multi-national monopolies tied to the digital world, while effectively proposing alternative development models even for more developed societies. In summary, if, in the near future, millions of men and women in developing parts of the world start to use these technologies and effectively use its languages to create a “critical mass”, the previously established assimilation or adaptation processes will no longer be necessary for them to work, communicate and be actively present in the world. Political Desires The third critical category directly involves the aesthetic issue, which connects above all with the concept of desire. One of the main ideas that have long marked ecological thinking is the concept of limit, which Hans Jonas developed through an ethics of responsibility towards future generations, thus also providing an extraordinarily effective metaphor (Jonas, 1984) particularly in terms of project designs. In short: the definitive disappearance of natural life can be avoided only through the acceptance of something more than ethics, i.e. a true principle of sacrifice that could provide an aesthetic answer with an
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almost Calvinist style programmed minimalism, which often establishes a policy of “not doing” or the decision to eliminate any and all project interventions when projectual caution is lacking. It is not by chance that many recently developed lines of research are tied to environmental code and regulations, which have often created a rift with the culture of project planning. In this context, the response has often been a wide-spread “aesthetics of the ruin” as Ava Appiano called it, taking directly from the arte povera and minimalism in Italian conceptual art movements, privileging a form and expression in between the dilapidated and pauperism that, in its demise, has left the strong mark of a moral and aesthetic cleansing. In this, desire is often treated as a threat to be exorcised because, beyond the mere conservation of life, it is the cause of unproductive waste. Along the same line, Georges Bataille called this waste “la part maudit” the cursed part, connecting it to the concept of dépense, thus interpreting the unproductive waste discharge obtained through consumption as an act of sacrifice and therefore of loss, while at the same time recognising that it plays a social function in tribal rituals, (Bataille, 1967). In exchange for salvation and redemption, sacrificial/sacred rights impose a loss, which often involves bloodshed, having a significant collective symbolic value. It seems that the ‘religion of the useful’ posits itself as the only possible challenge to a civilization centred on abundance and luxury, which will only end up generating waste and destruction. At the same time, some important factors that the culture of project planning must confront regards the centrality of the phenomena of consumption in contemporary societies and the new critical significance that they adopt as an indication that they are gradually overcoming utilitarian theories of need. Consumption ceases to be a secondary activity in relation to production and the market, as it lets the more cognitive and productive aspects of meaning emerge. In this sense, we are speaking of productive consumption and the critical awareness of social, relational, cognitive, and communicative values of merchandise in the convergence of production and consumption and with the prospect of new forms of participation, life-styles, responsibilities, and self-production. Therefore, aesthetics enters a political realm in order to affirm a “right to aesthetics” that also includes ethical values and solidarity, and does not condemn all of the men and women who live in situations of exclusion and poverty to forms of structural underdevelopment. In this sense, the “culture of the limit” and the “aesthetics of sacrifice” should be reconsidered in light of the effects of globalisation and media’s penetration around the world, which have in turn produced a diffusion of life-styles as well as a form of awareness and aesthetic education even into the most remote places and social strata. Even in the most hidden favelas, satellite dishes are appearing that, through distant connections of persons and places, often have the role of informing and educating, as well as promoting a new status of consumers along with their aspirations for Western standards. (Seduced, to later be abandoned!) It is ultimately aesthetics, understood as a cognitive interpretation of sensitivity and shared culture, on which the challenge for the ethical project will be centred. Such projects can provide scenarios of day-to-day life and formal images of new models of development that even include aspects of seduction. SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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Creating an aesthetic of ethics in this sense can make “good” choices into “beautiful” ones, which are both acceptable and recognisable. In summary, the question remains: what form should ethics take on? The right to aesthetics is thus connected to a concept of desire that is different from Lacan’s theory of a lacking, which stems from the gap between need and demand. To re-read desire as an energy which is freed from the idea of a lacking based on privations and need, also liberates practices of consumerism from the market’s prevailing domain. Consumerism can therefore start to become a creative act that is capable of actively re-elaborating form and meaning, thus overcoming the established logic of a passive acceptance of induced needs. Desire is thus connected to the idea of project design; it is a creative act that is capable of producing concreteness and happiness through its realisation: it is a will to power, an irreducible drive filling the gap between thought and reality and allowing one to dream while freed from necessity. If “desire caused by want and need is sadness”, quite on the contrary, “any power filled with desire is virtue and wisdom” (Deleuze and Guattari,1975). Aesthetics thus plays a significant role in entering the political realm.
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Del carattere e della lentezza Tracce per una ricerca integrata Riccardo Varini
“Un tronco appare leggero sull'acqua, e una pietra leggera su un tronco” Proverbio tibetano Apro questo mio contributo con un rimando a quanto ebbe a dire nel 2007 all’Università di San Marino il rettore dello IUAV Carlo Magnani in occasione dell'apertura del convegno Design oltre i confini dello sviluppo: questo è il luogo per eccellenza del "pensiero libero e del pensiero critico". Un richiamo al fatto che i principali soggetti coinvolti, nei vari ruoli, a qualunque livello, dovrebbero prima di tutto interrogarsi, volere e sapere riflettere su significati e valori della nostra professione nella sua globalità di aspetti e sfaccettature, nelle macro e micro componenti e nelle implicazioni culturali, sociali, umane ed economiche che sottendono. Out There: Architecture Beyond Building. Aaron Betsky quest'anno ci viene incontro e rivolgendosi a tutti noi, specialmente, a noi del settore, tecnici, promotori culturali, docenti, stimola la necessità di interrogarsi sulla realtà che ci circonda, in maniera non scontata e non consueta, stimolante e intrigante proprio in quanto legata ad un'idea di architettura che non si esaurisca nel solo “costruire” case ed uffici in cui siamo abituati a vivere e lavorare... I materiali proposti per l'Esposizione South out there. Progetti per il sud del mondo: acqua igiene e salute orientano precisamente la nostra risposta al tema. Se all'interno del Corso di Laurea in disegno industriale dell'Università di San Marino, si è delineata una sensibilità alta ai temi oggetto di South out there, lo si deve, ritengo, ad una matura consapevolezza di quello che la struttura in cui operiamo possa offrire. Nell'ottica di definire la scatola, il contesto, che ha traguardato la nostra ricerca sino a questa importante iniziativa internazionale, ritengo non si possa prescindere dal definire l'insieme dei valori sui quali si sia fondato il nostro percorso e alcuni progetti-approcci con i quali sia possibile confrontarsi per poter sviluppare ulteriormente ragionamenti sulle tipologie d'intervento. Di contorno ai materiali esposti, quanto segue vuole proporre alcuni elementi di riflessione, fissare alcune idee e disegnare alcune tracce metodologiche approfondimenti tematici, che contribuiscano a definire un protocollo d'intervento in e per contesti altri dal “luogo consueto” del nostro agire e vivere quotidiano. Per quanto concerne la struttura didattica, al fine di adottare un nuovo assetto del nostro contesto universitario di riferimento (San Marino), tale che si possa adeguare alle riforme in atto a livello internazionale, mi convince la proposta attualmente in esame, che concepisce il Piano di studi in tre periodi: uno di ambientamento, uno di formazione tecnica e crescita culturale, uno di approfondimento. Tecnologia, scienza e tecnica accelerano esponenzialmente i processi produttivi, e verosimilmente le nostre capacità e possibilità di SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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apprendimento che, purtroppo, sembrano destinate sempre più ad assumere carattere didascalico ed enciclopedico. I processi di maturazione profonda, assimilazione di concetti complessi e più in generale di acculturamento rimangono lenti. Ne deriva come condizione necessaria, pur in un contesto sociale, produttivo, economico estremamente frenetico, ammettere, difendere e sostenere la lentezza dei processi progettuali, intellettivi, culturali, di produzione, di controllo, verifica, maturazione, assimilazione in buona parte dei campi o ambiti di applicazione delle nostre energie. La dilatazione dei processi logici e temporali deve divenire un valore imprescindibile. Se questo è vero, mi convince consentire agli studenti di prolungare di qualche tempo (uno, due, tre semestri) la permanenza attiva all'Università, perché questa visione deriva da un riesame e recupero del ruolo della docenza, dei termini e modi in cui l’università può porsi nella società, rispondendo dal punto di vista formativo, disciplinare, metodologico e soprattutto culturale. Per questo trovo coerente e non contraddittoria la proposta al corpo docente di maggior frequentazione lungo l’intero anno accademico del “luogo”. Anzi questo principio dovrebbe riguardare sia la didattica che la ricerca. Non penso però che questa “presenza” debba essere per forza solo fisica. Ritengo invece debba necessariamente essere alternata ad un’equivalente “assenza”. In questo senso, dal punto di vista della formazione, mi convince la dilatazione da tre a cinque mesi dei tempi dei corsi intesi come Atelier – Seminari. Dovrebbe consentire a studenti e docenti momenti di approfondimento, riflessione e sospensione. Incontri in separata sede, scontri, moti carbonari... Workshop, viaggi studio, conferenze dovrebbero consentire, per contro, di intrecciare didattica, libera professione e ricerca. Talora, potrebbero costituire occasione di confronto a largo spettro della produzione e sperimentazione accademica ma anche privata. Mi convince in questo senso che ritorni nodale la dicotomia insegnamento e ricerca. Il soggetto, insieme al docente, su cui catalizzare energie e attenzioni di tutti gli attori dell'apparato universitario non è più solo, o prevalentemente, lo studente. E quest’ultimo non deve solo esser formato ad una disciplina e al lavoro, ma deve maturare intellettualmente. L'altro soggetto che riprende finalmente quota, dopo anni in sordina, almeno nel nostro ateneo (quello di Venezia cui l'Università di San Marino lega alcune suoi piani e programmi), è la ricerca. Ricerca intesa nel senso più alto e vasto del termine. Ricerca, che proprio per definizione richiede tempi lunghi. Ricerca a tutti i livelli e aperta a tutti, non ristretta ad una élite isolata dal contesto. Ricerca quindi dal carattere inclusivo. Nel senso di catalizzatrice di interessi e contributi da parte di soggetti “altri”, estranei all'ambiente in cui la stessa si svolge, ma attenti alle tematiche rispetto alle quali focalizza le sue energie, contributi e risorse. Questa duplice valore e, insieme, concezione dell'Università è confortata e rafforzata fortunatamente, anche se solo in parte, in questi ultimi 18 mesi da analoghe esperienze di organizzazione della ricerca allo IUAV di Venezia. Didattica e ricerca: pari peso, pari grado e pari diritti? Se ho inteso nel giusto senso questa visione, per quanto mi riguarda, sembra un segno di continuità nel percorso che ha accomunato in questi ultimi 10 anni il nostro lavorare, con la centrale, piacevole e stimolante novità che questa
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ricerca abbia un organismo di riferimento: il Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo. Uno degli obiettivi di questo giovane organismo consiste proprio nel raccogliere e incoraggiare la sperimentazione di approcci e metodi, forse inconsueti all'interno del nostro usuale contesto universitario. Coordinando e promuovendo laboratori e seminari nazionali ed internazionali, collaborando con Enti pubblici e privati e Istituzioni preposte agli aiuti umanitari, alla formazione e allo sviluppo economico dei paesi del sud del mondo, questa struttura si occuperà di trasferimento di tecnologie appropriate e di design per la valorizzazione dei materiali naturali, con particolare attenzione e sensibilità verso l'impatto sociale delle stesse scelte tecnologiche innovative o tradizionali, nei confronti della crescita economica e dello sviluppo umano. Svolgerà attività di ricerca, formazione e aggiornamento professionale nei settori dell’innovazione, incentivando il recupero di tecniche di costruzione e produzione tradizionali altrimenti in via di estinzione, dimenticate perché interrotte dal progresso tecnologico e dai processi di omologazione e assimilazione culturale. Tale impostazione della ricerca appare profondamente attuale, se guardiamo ad esperienze similari in campo internazionale, una fra le tante, Aid to Artisans, di cui segnalo più gli approcci che i risultati, ed è obiettivamente supportata da percorsi anche a livello italiano, quali il recente ciclo di seminari promossi da "Ingegneria senza frontiere" e dalla Facoltà di Ingegneria di Ferrara che si poneva quale “obiettivo fornire le conoscenze di base per intraprendere un percorso formativo finalizzato ad affrontare gli aspetti e principi della cooperazione decentrata, acquisendo dimestichezza con gli strumenti necessari a realizzare dei progetti nei paesi in via di sviluppo (PVS), rivolgendo particolare attenzione al problema relativo alla scelta delle tecnologie più appropriate in questi paesi , ossia quelle “tecnologie per l’autonomia” in grado di favorire l’innestarsi di uno sviluppo endogeno delle comunità disagiate.” È In quest’ottica di confronto per il tracciamento di un sistema metodologico su più fronti, incrociando le energie in un complesso di iniziative legate da un unico piano che si concretizza la pluralità di interventi organizzati nell'autunno di quest'anno sia a San Marino che a Venezia nell'ambito della Biennale. Definire quale debba essere effettivamente il “giusto” approccio? Quali i “corretti” filoni di ricerca? Quale il contesto di valori all'interno dei quali contiamo di muoverci per introdurre gli studenti alle problematiche della progettazione e fornire loro gli strumenti di base teorici, metodologici e operativi per analizzare, progettare e pianificare singoli prodotti e sistemi di prodotti in contesti cosi` differenti e talora distanti, costituisce una sfida ambiziosa e tormentata. Ritengo che altri, meglio di me, anche in questa sede (penso in particolare ai contributi del Commissario Leo Marino Morganti o a quello di Lorenzo Imbesi) abbiano saputo offrire un corretto registro di valori, che assuma come centrale quello dell'etica, che consenta di impostare e muovere il proprio operato programmatico e progettuale per il sud del mondo. Intorno alla riflessione sul senso e significato profondo del termine etica sento di poter affiancare un estratto dall'intervento di Matthieu Ricard al convegno di Napoli dell'aprile di quest'anno intitolato “L'arte della felicità”: "L'etica non è una scienza come le altre: deve sbocciare dalla più profonda comprensione delle qualità umane e a simile comprensione si perviene soltanto SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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intraprendendo il viaggio della scoperta personale interiore. Un'etica che si basi esclusivamente su idee razionali, che non sia puntellata in ogni istante dalla virtù, da una saggezza autentica e dalla compassione non può avere fondamenta solide. In questo meccanismo entrano in gioco due fattori decisivi: la motivazione e le conseguenze delle nostre azioni... Un essere umano dotato di amorevole gentilezza, compassione e saggezza agirà naturalmente in modo etico, perché è "buono di cuore". Nel buddismo, un'azione è considerata fondamentalmente non etica allorché è sua finalità procurare sofferenza, mentre è etica se è mirata ad arrecare un autentico benessere al prossimo.” Non si tratta, penso, di guardare ai molti processi di sviluppo nei paesi del sud del mondo, che assumono come motore la globalizzazione con atteggiamenti da anticonformisti, snobbandola e negativizzandola. Non si tratta di considerare il nostro come contesto negativo, perché sempre più omologato e gli altri come contesti da salvaguardare e rispettare perché profondamente differenti dal nostro e tra loro e quindi ricchi, ultimi detentori, di significati e valori tecnici e culturali . Forse è possibile saper riflettere sui significati e valori delle componenti della nostra civiltà sapendone riconoscere i limiti. Alcuni suggerimenti possiamo trovarli nella sola lettura di testi e documenti recentemente pubblicati. “Design Like You Give A Damn” un testo edito da Architecture for Humanity, racchiude nel titolo il proprio messaggio: il buon design non risiede nel lusso ma nella necessità. Nella “civiltà del rumore” come la definisce Gillo Dorfles, “oggi la scoria, la prevalenza del corto-circuito massmediatico, ha completamente soppiantato le attività culturali. La moltiplicazione inarrestabile degli oggetti, delle informazioni, delle sollecitazioni sensoriali - visive, auditive, tattili - ci fa parlare di Horror Pleni.” La lentezza come qualità del processo costruttivo e pianificatorio si evince dalla visione del testo a cura di Bill and Athena Steen Built by hand. Vernacular buildings around the World,straordinario excursus di esempi di tecniche di realizzazione e di trasformazione di materiali come terra, pietra, legno o bambù in edifici esemplari, tanto unici e diversificati, quanto simili e comuni pur in differenti luoghi e contesti del mondo. Per chiudere questo contributo, in questo complesso e articolato scenario di programmazione e confronto atto a costituire il Centro studi e progetti per il sud del mondo, segnalo alcuni approcci teorici e pratici, che esprimono, a mio modo di vedere, un concetto alla base di ogni buon piano d'intervento: il carattere del progetto inteso in senso illuminista, come capace di far parlare l'opera della sua funzione e del suo significato (Architettura parlante di Boullée). Talvolta basterebbe saper guardare! Un esempio da studiare per misurare l'effettivo interesse e livello di avanzamento internazionale della ricerca su di un materiale da costruzione è quello che l'International Bamboo Foundation e l'EBF, Organismi fondati dalla designer australiana Linda Garland, hanno promosso nel 2007 insieme ad alcune Società di produzione con il Concorso sul bamboo. I risultati di questo originale e ambizioso concorso sono eclatanti e ineriscono al contempo visioni utopiche del mondo, progetti e soluzioni di dettaglio molto innovative e realizzazioni alle varie scale di intervento. Nell'analisi di alcuni dei progetti che seguono intravedo principi e concetti dal grande fascino, nella forte ispirazione scultorea, nella
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reinterpretazione di forme naturali o legate al contesto, nella loro apparente semplicità, progetti che talora esprimono grande senso di umiltà da parte dei progettisti, atti significativi di rinuncia a volersi “mostrare” quali star dell'architettura, proprio perché attenti all'applicazione di tecnologie locali appropriate, nell'uso di materiali facilmente reperibili in situ, nel non voler applicare linguaggi tipici dell'International style. Segnalo quali filoni possibili di ricerca qui di seguito rappresentati e rappresentabili con progetti: come segno tangibile di contestualizzazione critica l'Ospedale di Koedi in Mauritania del 1981, un'opera pubblica dell’architetto Fabrizio Carola (vincitore nel 1995 dell’Aga Kahn Award for Architecture, per progetti di architettura realizzati in paesi islamici) realizzata mediante il recupero e la reinterpretazione di tecniche tradizionali in terra cruda e cotta. Come elemento di design positivamente impattante nel contesto paesaggistico alla scala territoriale, ad alto valore tecnologico, che affronta il tema dell'emergenza idrica – la Fog Tower in Cile. Come sapiente ed efficace trasposizione alla macro scala di un prodotto industriale appartenente alla microscala frutto di decennale ricerca sulla depurazione dell'acqua da parte del designer Stephan Augustin (di cui esponiamo il Watercone in questa mostra) – e la Water Pyramid realizzata in Africa. Queste opere, ognuna ad una differente scala, esprimono quello che Boulée definiva carattere del progetto e dell'architettura. Esprimono il carattere del contesto in cui si collocano ed insieme assumono un valore di “senza tempo”, di forme per le quali proprio la lentezza del processo progettuale di reinterpretazione ed assimilazione di culture, valori e significati, consente una verosimile conservazione nel tempo, anche da parte del popolo che le possa riconoscere come proprie. In regard to characterand to slow pace An outline for supplemented research “A tree trunk appears light on the water, and a stone seems light on the tree trunk” Tibetan Proverb I open this contribution in recalling what was stated in 2007 at the University of San Marino by Carlo Magnani, the Head Rector of the IUAV University in Venice, at the opening presentation of the Design, beyond the borders of development exhibition, where he said “this is truly a place for both free and critical thinking”. This appeal was aimed at the foremost people involved, in their various roles and at all levels, for them to reflect upon the significance and value of our profession with its many facets, and the cultural, social and human implications that are at its basis. Out There: Architecture Beyond Building. This year, Aaron Betsky addresses us in this field, as cultural promoters and university professors, inciting us to question ourselves about the reality that surrounds us. We are to do so in exceptional, stimulating and intriguing ways, while exploring ideas of architecture that are not exhausted by the “building” of homes and offices in which we are accustomed to living and working… The materials presented for South out there. Exposition: Projects for the World’s Southern Hemisphere: Water, Hygiene and Health, have specifically oriented our response to the proposed theme. If, within the Industrial Design Department at the University of San Marino, there has emerged a heightened sensibility SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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regarding the themes of South out there, it is due, I believe, to a mature awareness regarding what the structure in which we operate can offer. With the objective of classifying the context that has characterised our research up until this important international initiative, we must define and establish a set of values on which our path has been founded, and elaborate some project-approaches, which can make it possible to encounter one another to further develop our reasoning and understanding on various methods of project intervention. With the presented materials, we also intend to propose some elements of reflection in order to establish certain ideas and design a methodological outline on the proposed themes, which will help define a protocol for intervention within places that are very different from the ones that we are used to in our daily lives. In regard to our didactic structure, with the purpose of adopting a new order in our Universities and in adapting to the ongoing reforms at an international level, I’m personally convinced by the currently examined proposal that foresees an approach to studies in 3 phases: one for adaption, one for technical formation and experience, and one for indepth study and research. Technology, science and technique exponentially accelerate productive processes and also our capabilities for learning, which is unfortunately starting to take on characteristics that are more and more encyclopaedic. The processes of more in-depth development, assimilation of complex concepts and more in general of understanding remain slow paced processes. In light of this, a necessary condition will be to admit, defend and support the slow pace of processes, even in an extremely frenetic social, productive and economic context, when dealing with endeavours that are projectual, intellectual, cultural, productive, of control, verification, maturity and assimilation, as they apply to the work and energy employed in our professional fields. The dilation of logical and temporal processes must therefore become an indispensable value. With this in mind, I’m convinced in allowing students to lengthen their studies (by one, two, or three semesters) and their active permanence at the University; and this view derives from a re-examination and recovery of the role of professors, and the ways that Universities can present themselves within society to respond effectively in a disciplinary, methodological and above all cultural sense. In line with this reasoning, I feel there should be a proposal to faculty professors to spend more time ‘on campus’ at the universities during the entire academic year, and this should apply to both their didactic activities as well as their research. However, I feel that this “presence” could actually be alternated by an equivalent “absence”. In this sense, I’m convinced that the educational formation formula can be changed, and the duration of university course work could undergo a dilation of three to five months, intended for seminars or workshops. This should allow students and professors the time for in-depth study, reflection and adjournment, in addition to giving them the chance to engage in different departments and exchange ideas. Such workshops, study trips, and conferences should allow for there to be more of an interweaving of didactic activities, free lance work and research. And this could create the occasions for a large-scale spectrum of production and academic experimentation also in the private realm. In this sense, I’m convinced that the dichotomy between teaching and research
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will come back to being a central theme. The subject, along with the professors, on whom to catalyse the energy and attention of all who are involved at the university, is no longer exclusively or prevalently the student body. And this subject should not only be formed to one discipline or field of study, but they must also mature intellectually. The other subject that is finally starting to emerge, after years of silence, at least on our campus (in Venice, and thus also with many of the programs of the University of San Marino) is research. In this case research is intended in the highest sense of the term, and by its very definition it is a process that requires long periods of time. We are referring to research that exists on multiple levels, one that is open to everyone, rather than being restricted to the isolated elite of a given context. This research of an inclusive character acts as a catalyser of interests and contributions on behalf of “other” subjects who are outside of the shared environment in which that research is carried out, while remaining attentive to the themes that attract a strong focus of energy, contribution, and resources. This dual value, as part of the University’s concept, has fortunately been reinforced over the past 18 months, even if only partially, by analogous experiences of organising research programs at the IUAV of Venice. Didactics and research: equal weight, equal degree and equal rights? In sustaining this view, I feel that a sign of continuity characterising our work over the past 10 years, can be noted with the enticing and interesting novelty that this line of research has a central organisational body of reference: the Study Centre for Projects and Innovation in Countries of the World’s Southern Hemisphere. One of the objectives of this newly formed organisation consists in encouraging and gathering experiences of experimentation, approaches and methods, which are perhaps atypical within our usual university context. Through the coordinating and promotion of laboratories as well as national and international seminars, and in collaborating with both public and private offices and institutions engaged in humanitarian aid for the economic formation and development of countries of the southern hemisphere, this entity intends to work on the transfer of appropriate technologies and design for the valorization of natural materials, with particular attention and sensibility on the social impact of the choices for innovative or traditional technologies in regard to economic growth and human development. It will partake in activities of research, education and professional adjournment in the sectors of innovation as to motivate the recovery of construction techniques and traditional production, which are otherwise becoming extinguished or forgotten because interrupted by technological progress, processes of homologation and cultural assimilation. This research system appears pertinent to the times if we look at similar international experiences, such as ‘Aid to Artisans’, and it is objectively supported by experiences in Italy, such as the recent cycle of seminars promoted by “Engineers without borders” and by the faculty of engineering in Ferrara which established “objectives to provide the basic knowledge to start up an educational course with the purpose of dealing with the main aspects and principles of decentralised cooperation, acquiring experience and knowledge of the necessary instruments for the realisation of projects in developing countries, giving particular attention to the issue of what appropriate SOUTH OUT THERE : ACQUA , IGIENE E SALUTE
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technologies to adopt in these countries, or what “technologies for autonomy” can favour the onset of an endogenous development in distressed communities”. It is with this view of exchange that a methodological system was outlined on multiple fronts; one that intersects energies in a series of initiatives tied to one plan, which makes the various interventions more concrete through their organisation during the autumn of this academic year, both in San Marino and in Venice, for the Biennial of Architecture. Should we in effect define what the “right” approach is? And which are the “correct” lines of research? The value system within which we operate to introduce students to questions of project design and provide them with the basic theoretic tools and methodologies to analyse, design and plan for single products or systems of products for contexts that are so different and at times so distant, constitutes an ambitious and tormenting challenge. I feel that others, better than me, in this experience (with particular reference to the contributions of Leo Marino Morganti and Lorenzo Imbesi) were able to confer a correct listing of values, making ethics a central focus while allowing for the arrangement and planning of a specific program and an effective projectual operation for the world’s southern hemisphere. In reflecting on the profound sense and significance of the term ‘ethics’, I might add an extract from the contribution by Matthieu Ricard at the convention in Naples, held in April of this year, entitled ‘The Art of Happiness’, where he stated: “Ethics is not like other sciences: it must flourish from an in-depth understanding of human qualities – it will emerge only in undertaking an introspection of personal discovery. Ethics that is based exclusively on rationality or one that is not defined in every instant by ideas of virtue, authentic wisdom and compassion cannot have solid foundations. In this mechanism, two decisive factors come into play: the motivation and the consequences of our actions... A human being endowed with loving kindness, compassion and wisdom will act naturally in an ethical manner, because they are “good at heart”. In Buddhism, an action is considered fundamentally nonethical when it ultimately procures suffering, while it is ethical if aimed at bringing about an authentic well-being towards others.” This does not have to do with disdainfully viewing the many processes of development in countries of the Southern Hemisphere, which have taken on globalisation as their driving force. It is not a matter of considering our context as negative because of its increasing homologation and viewing the others as cultural contexts to be safeguarded and respected because of their profound differences and significant cultural values. Perhaps we should understand how to reflect upon the meanings and values of the components of our civilization, while understanding how to recognise its limits. We may find a few useful suggestions in reading some recently published texts and documents. “Design Like You Give A Damn”, a text published by Architecture for Humanity, explains its very message in the title: good design responds to necessity, not luxury. In the “civilization of noise” by Gillo Dorfles, he states that “today it is waste and the prevailing short-circuits of mass-media that have completely overtaken cultural activities. The unstoppable multiplication of objects, information, sensorial soliciting – visual – audible –and tactile- leads us to consider a Horror
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Pleni.” The slow pace, as a quality of the constructive and planning process, can also be inferred by the views expressed in a book by Bill and Athena Steen ‘Built by hand. Vernacular buildings around the World’, an extraordinary excursion of examples and techniques of realisation and transformation of materials like soil, brick, wood or bamboo into exemplary buildings, as uniquely diverse as they are similar and akin in different places and contexts throughout the world. To close this contribution, within this complex and articulated scenario of programming for the constitution of the Study Centre for Projects and Innovation in Countries of the World’s Southern Hemisphere, I wish to signal some theoretic and practical approaches that I personally believe can be a basic concept for every effective plan of intervention. The project’s character, in an illuminist sense, should itself be able to raise discussion regarding its functions and meanings (speaking architecture by Boullée). Sometimes it only depends on how you look at things! To understand real interests and levels of international advancement of research on construction materials, one should look into the International Bamboo Foundation and the EBF Organisations, founded by the Australian designer Linda Garland. Along with some productions companies, they founded the international Bamboo Competition, promoted in 2007, which generated surprisingly original results and produced utopian visions of the world with detailed projects and innovatively proposed intervention solutions. In the analysis of certain projects that follow, I’ve come to note some greatly fascinating principles and concepts. A strong clear-cut inspiration emerges in the reinterpretation of natural forms tied to the context and their apparent simplicity, as the projects also express a true sense of project designers’ humility in renouncing their “exhibition” as stars of architecture. They have attentively proposed appropriate local technologies, using easily obtainable local materials, while aiming to apply a common language of international style. In the following, I wish to signal a few of our possible research directions that can be represented with this list of projects: - As a tangible sign of an effective contextualisation, the Hospital of Koedi in Mauritania, (1981), a public works project by the architect Fabrizio Carola (winner in 1995 of the Aga Kahn Award, for projects of architecture in Islamic countries) realised through the recovery and reinterpretation of traditional techniques using earth and brick. As an high-tech element of design having a positive impact within a landscaped context at a territorial scale, the Fog Tower in Chile, which deals with the theme of the water scarcity. As a knowledgeable and efficient transposition of an industrial product to local communities for the depuration of water, the Water Pyramid, realised in Africa by the designer Stephan Augustin (see also the Watercone in this exhibit). These works, each at a different scale, express that which Boullée defined as the character of a project in architecture. They express the character of the context in which they are needed, taking on an atemporal value and assuming forms that are characterised by the slow pace of a projectual process. The reinterpretation and assimilation of culture, values and meanings can allow for the conservation of these works in time and the preservation of populations that can recognise them as their own.
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Architettura dei diritti - diritti all’architettura Il Centro “Salam” di cardiochirurgia di Emergency in Sudan Raul Pantaleo
Condividere con i paesi del sud del mondo una parte delle ricchezze che nel tempo sono state loro sottratte (e continuano a essere loro sottratte) non ha nulla di “umanitario”: è semplicemente un atto di giustizia, nulla di più. Costruire un ospedale d’eccellenza nel cuore dell'Africa ha significato, quindi, riflettere sul senso profondo della parola diritto, a cominciare dal diritto alla salute come luogo privilegiato ove costruire una cultura d’uguaglianza e giustizia, ma anche aprire una riflessione sul fronte più ampio dei diritti, in particolare il diritto all'ambiente, al bello, alla memoria come premesse necessarie per una convivenza sostenibile e pacifica su scala locale e globale. Il centro di Emergency denominato “Salam” (pace in arabo), situato alla periferia di Khartoum in prossimità del fiume Nilo, è diventato così l’unico ospedale di cardiochirurgia africano in grado di garantire assistenza gratuita e di eccellenza in un’area di dieci milioni di chilometri quadrati e trecento milioni di abitanti, ed è al contempo diventato anche l’esempio tangibile di una nuova strategia di cooperazione ispirata all’eccellenza come catalizzatrice di nuove risorse e di processi rivolti a una trasformazione sociale responsabile. A partire da questi princìpi, abbiamo immaginato il centro “Salam” come un luogo ospitale, domestico e bello, dove il paziente, quasi sempre vittima della povertà e della guerra, potesse percepire di non essere soltanto "oggetto di cura" ma anche "soggetto" portatore di quei diritti fondamentali che in questo continente troppo spesso gli sono stati negati. L'edificio - poco invasivo, “silenzioso”, “amico”- si è sviluppato su un unico piano a corte, abbracciando il vuoto generato da due enormi alberi di mango situati al centro dell'area d’intervento. L'uso del verde come premessa generatrice dell'architettura è divenuto, poi, parte integrante della “macchina termica” sfruttando il potenziale di schermatura e di mitigazione ambientale offerto da grandi superfici alberate e da piantumazioni lineari a siepe. Le scelte strategiche di carattere tipologico e compositivo hanno dovuto confrontarsi con le difficili condizioni climatiche sudanesi dovute, sia alle elevate temperature (capaci di superare anche i 50°centigradi), sia alla presenza di polveri sottili generata dai forti venti del deserto denominati “aboub”. La prima risposta data a queste problematiche è stata ispirata a princìpi di mitigazione passiva dell'involucro. Attraverso la posa in opera di un pacchetto murario altamente performante, la realizzazione di una copertura con doppio livello d'isolamento e l'uso di schermi solari posti a protezione dei camminamenti e delle zone di sosta, si è voluta conferire una forte inerzia termica all’ospedale al fine di limitare la potenza frigorifere da installare. Gli schermi solari sono stati realizzati con una tecnica mutuata dal sistema tradizionale di fabbricazione dei letti in uso in Darfur, che utilizza una corda di fibra naturale (ricavata da una pianta denominata “saf”),
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intrecciata su un telaio di legno grezzo. I frangisole, oltre a essere un sistema efficiente ed economico di schermatura dai raggi solari, hanno permesso di conservare e sviluppare le tecniche e le conoscenze artigianali ancora disponibili in loco. Quest’insieme d’azioni ha consentito un notevole risparmio nei costi di installazione e gestione dell’impianto, in gran parte attribuibile all’efficienza del sistema di solar cooling, tra i più grandi al mondo. L’impianto sfrutta un campo solare di mille metri quadrati (pari a 288 collettori solari sottovuoto), installato in prossimità dell’ospedale per la produzione di acqua calda da scambiare nei due ciller ad assorbimento dell’impianto di refrigerazione. Anche per filtrare l'ingente quantità di sabbia e polveri presenti nell'aria si è optato per l'utilizzo di un sistema passivo basato sul principio della trappola di sabbia. L'aria, prelevata dall'esterno attraverso una delle testate a camino dell'edificio, viene convogliata nell’interrato tramite una sorta di labirinto dove l'urto meccanico provocato dall'impatto contro le pareti del percorso rallenta la velocità dell'aria raffrescandola, sedimentando gran parte della sabbia e delle polveri in essa contenuta. In fondo al percorso, un nebulizzatore d'acqua prelevata dal Nilo “lava” l'aria dalle particelle più sottili, abbassandone ulteriormente la temperatura (nelle stagioni più calde fino 9° centigradi). Il complesso sistema di azioni tecnologiche messe in essere nel Centro Salam risponde all'idea originaria di realizzare un edificio “ecologico” che rappresenti l'eccellenza intesa come strumento di rinnovamento delle politiche sanitarie e ambientali nei paesi del sud del mondo. Guardando all’impatto sociale e ambientale di questo progetto, si potrebbe parlare di un’architettura che intende interpretare una visione di un futuro dove i diritti possano radicarsi come patrimonio condiviso dell’umanità. Di fatto, una nuova globalizzazione.
Architecture of rights – rights to architecture The “Salam” centre of heart surgery for Emergency in Sudan To share with countries of the world’s Southern Hemisphere a part of the wealth that in time has been taken (and continues to be taken) from it is not really “humanitarian” at all: it is simply an act of justice, nothing more. To build an outstanding hospital in the heart of Africa has a meaning, and that is to reflect on the profound sense of the word right, starting with the right to health, as a privileged place to construct a culture of equality and justice; but there should also be a reflection on the more ample front of rights, and particularly to the right to the environment, to what is beautiful, and to memory, as the necessary premises for a sustainable and pacific coexistence at local and global scales. The Emergency Centre named “Salam” (‘peace' in Arabic), located at the periphery of Khartoum close to the Nile rivers, has hence become the only hospital of African heart-surgery that is capable of guaranteeing free qualified assistance in an area of 10 million square kilometres and three hundred million inhabitants. At the same time, it has also become a concrete example of new strategies of cooperation inspired by excellence and a catalyst of new resources and processes aimed at responsible forms of social transformation. Starting with these principles, we imagined the “Salam” centre as a place that is hospitable, domestic and beautiful, where the convalescent patient, almost always a victim of poverty and war, could perceive what its like to receive care as a true “subject” entitled to those fundamental rights that are too often denied in this continent. The building, non-invasive, “silent” and “friendly”, was developed on a single ground floor surrounding a court-yard, embracing a large open space between two enormous mango trees situated at the centre of the hospital site. The use of plant life as a generating premise of the architecture, soon became an integral part of the building’s “thermal apparatus” making use of its potential for screening and environmental mitigation, provided by the large tree-filled areas and by the planted lines of shrubbery. The strategic decisions regarding the building’s typological and compositional features had to seriously consider the difficult climatic conditions of Sudan, caused by both high temperatures (reaching even 50°centigrade) and the presence of dust particulates generated by the strong “aboub” winds of the desert. The first response given to these problems was inspired by principles of passive mitigation of coverings. Through the building of quality wall structures, the realisation of coverings with double-insulation layers and the use of solar shield-screens positioned to shade the walkways and the rest-area, the idea was to create an effective thermal inertia to the hospital in order to also limit the energy used for the installed cooling systems. The solar screens were realised with a technique that was inspired by traditional system of roofbuilding that is used in Darfur, which uses a natural fibre rope (taken from a plant called “saf”), that is woven on to a frame of wood branches. These sunbreakers, in addition to being an efficient and effective system for shielding against the sun’s rays, allow for the conservation and employment of knowledge and techniques that are still locally practiced. This series of actions allowed for significant savings in the costs of installation and management of the instalment systems, in large part attributed to the efficiency of one of
the largest solar cooling systems in the world. The instalment makes use of a solar panel block measuring one thousand square metres (equal to 288 condensed solar collectors), which is installed close to the hospital in order to provide hot water to be exchanged in the two absorption chillers of the building’s cooling system. In order to filter the huge quantities of sand and dust in the air, a passive system based on the sand trap principle was selected. With this system, the air, taken in from outside through one of the building’s chimney heads, is carried below ground-level through a labyrinth where the mechanical push, caused by the impact against the wall-ways of the air-duct, slows the momentum of the air to cool it down, causing a deposit of a large part of the air’s sand and particulates. At the end of the air-duct, there is a water vaporiser that uses water from the Nile, which “washes” the air of its more subtle particulates, hence lowering the temperature even more (in the hotter seasons – to about 9° centigrade). The complex system of technological actions that were implemented at the Salam Centre respond directly to the original idea of realising an “ecological” building that represents excellence in quality, intended as an instrument for the renewal of health and environmental policies in countries of the world’s Southern Hemisphere. In observing the social and environmental impact of this project, one might see architecture that intends to interpret a vision of the future where rights start to take root as a shared legacy of humanity, perhaps leading to new forms of globalisation.
Credits Centro di cardiochirurgia Salam di Emergency in Sudan, Soba, Khartoum, Sudan Emergency ngo
Credits The Emergency ‘Salam’ centre for heart surgery in Sudan, Soba, Khartoum, Sudan Emergency ngo
Progetto architettonico ed esecutivo: tamassociati- Raul Pantaleo, Massimo Lepore, Simone Sfriso, Sebastiano Crescini con Pietro Parrino e Gino Strada Responsabile del progetto: Pietro Parrino. Coordinamento: Rossella Miccio, Pietro Parrino. Studio di fattibilità: Gino Strada, Emiliano Cinelli, Fabrizio Fasano, Andrea Cioffi. Progetto Impiantistico: Studio Pasqualini, Jean Paul Riviere con Nicola Zoppi Consulente strutturale: Francesco Steffinlongo Consulente per le sale operatorie: Franco Binetti Responsabili di cantiere: Roberto Crestan con Alessandro Giacomello. Impresa costituita da personale di Emergency Superficie totale: 11.000mq Tempi di Progetto: 2005-2006 Inizio lavori 2005, fine lavori maggio 2007 Costo costruzione ed allestimento: 12.000.000€
Architecture project and design: tamassociati- Raul Pantaleo, Massimo Lepore, Simone Sfriso, Sebastiano Crescini with Pietro Parrino and Gino Strada Project manager: Pietro Parrino. Coordination: Rossella Miccio, Pietro Parrino. Project feasibility assessment: Gino Strada, Emiliano Cinelli, Fabrizio Fasano, Andrea Cioffi. Instalment Systems: Studio Pasqualini, Jean Paul Riviere with Nicola Zoppi Structural consultant: Francesco Steffinlongo Operating Room consultant: Franco Binetti Work Site manager: Roberto Crestan with Alessandro Giacomello. Enterprise constituted by the people working for Emergency Total surface area: 11.000 sq. metres Project completion time-frame: 2005-2006 Beginning of work 2005, end of project May 2007 Total cost of construction: 12.000.000€
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What's new? Ricerca, innovazione e design. Mauro O. Paialunga
Un campo d'azione difficile, lontano da noi geograficamente e culturalmente ma così vicino se si pensa alle dinamiche di sviluppo del pianeta: progettare per il Sud del mondo non significa guardare così lontano ma guardare meglio. Ragionare su problemi che oggi da noi non si pongono, pensando alle possibili soluzioni, porta a ragionare anche in maniera più cosciente riguardo i dibattiti su concetti di sostenibilità, ecologia, dinamiche geopolitiche e, perché no, anche valori etici e morali. La ricerca si è sviluppata in due diversi ambiti, in uno stesso contesto, l'Africa, abbracciando però le possibili applicazioni dei risultati a tutte le regioni definibili come sud del mondo. Secondo il Rapporto 2006 dell’Undp (programma di sviluppo delle Nazioni Unite), nel mondo 1,1 miliardi di persone non hanno possibilità di accedere in modo regolare ad acqua pulita e in 2,6 miliardi non hanno accesso a servizi igienico-sanitari adeguati: partendo da questi dati abbiamo iniziato a lavorare. Il tema dell'acqua è stato approfondito negli anni, sia durante laboratori sia durante workshop a Venezia e San Marino: questo ha permesso di progettare con una base forte, con studi da consultare, progetti e prototipi da criticare. L'esperienza fatta negli anni ha infatti permesso di non partire da zero ma imparare dagli errori fatti da altri, apportando miglioramenti e procedendo in direzioni inaspettate, con risultati particolarmente interessanti in quanto non figli di una singola idea ma di un percorso trasversale di ricerca. Presentiamo infatti oggetti che spaziano il tema in molte sue declinazioni, dalla depurazione dell'acqua al trasporto, dalla desalinizzazione al recupero durante la cottura dei cibi, fino alla raccolta per condensa, evaporazione o rugiada. Il tema dell'igiene è stato invece sviluppato nell'ambito di una convenzione tra l'Università Iuav di Venezia e Area s.r.l. di Copparo (FE), azienda che svolge raccolta e differenziazione di rifiuti, impegnata nella ricerca, con fini produttivi e non, in diversi ambiti: plastica rigenerata, fornitura di bagni chimici in Senegal e, nel campo dei pannelli solari, cercando di mantenere il silicio come materiale base lavorando per massimizzarne l'efficienza. Lavorare sul tema dell'igiene, inteso sia come sistemi bagno sia, in una visione più ampia, come ricerca di miglioramento delle condizioni igieniche nei paesi del Sud del mondo, è stato scomodo e difficile: da un lato la mancanza di letteratura progettuale alle spalle non ha consentito una ricerca ad hoc per trovare elementi con i quali confrontarsi; dall'altro lato, invece, la sensibilità necessaria alla progettazione di certe tipologie di oggetti ha reso indispensabile valutare aspetti umani e culturali con i quali il design non sempre si rapporta. La condizione in cui abbiamo operato pur povera di approfondimenti e di lavori con i quali confrontarsi, si è dimostrata ricchissima dal punto di vista degli spunti progettuali possibili. Tutto era nuovo, tutto da capire, tutto da far proprio per
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poi essere rielaborato: questo ha portato a trovare un continuum nel lavoro di tesi e ricerca, tuttora in fase di svolgimento, da parte di due laureandi nella laurea specialistica in disegno industriale coordinati dal Centro Studi e progetti per l'innovazione nei paesi del Sud del mondo. Un progetto di ampio respiro, tanto che la ricerca sullo sviluppo di bagni, inizialmente chimici, è giunta a lavorare da una parte a sistemi di costruzione basati sulla prefabbricazione locale delle componenti e, dall'altra, al progetto di automazione per un sistema bagno autonomo a secco, che può cioè fare a meno della presenza d'acqua. Le ricerche sui due temi si sono incrociate non solo per l'ovvio presupposto del legame esistente fra acqua ed igiene, ma anche per l'impostazione progettuale intrapresa che, nella sua semplicità, si distacca notevolmente dal modo “comune” di far design oggi, in ambito accademico e non. Da un lato possiamo dire che ci sia la voglia, nel design, di inventare continuamente qualcosa di nuovo, in un'accezione perversa, una sorta di sindrome della fumettistica “idea-lampadina”. Dall'altro lato troviamo il rinnovare, il restyling, peculiarità che permette di produrre cose diverse ma allo stesso tempo identiche, oggetti trendy, il tipo di progettazione che apporta cambiamenti non fondamentali atti solo a giustificare la “novità”. Schiacciato fra le due cose troviamo il concetto di innovazione, intesa come mutare un sistema introducendo qualcosa di nuovo, di cambiamento più profondo rispetto al rinnovare, il lavoro di ricerca approfondita di quanto già scoperto ed inventato, la comprensione delle conoscenze acquisite in maniera così completa da poter apportare modifiche atte al miglioramento. Dietro questo processo si cela un lavoro che difficilmente emerge ad un'indagine superficiale e che spesso non viene notato o riconosciuto per il peso che investe, quando innovare si presenta forse come risoluzione alla dicotomia inventare – rinnovare. Questo appare tanto più ovvio se pensiamo alla progettazione per i paesi del sud del mondo, all'appellativo “paesi in via di sviluppo”, ormai desueto anche per il significato del concetto di sviluppo e per il dibattito sulle modalità con il quale esso dovrebbe avvenire, di che tipo di innovazione sia necessaria. L'evoluzione informatica e tecnologica, avanzando così velocemente, si è impossessata del significato di “innovazione” rendendolo sinonimo di high-tech, schiavo quindi del modello di sviluppo del Nord del mondo. Penso invece che innovazione sia anche semplificazione, downgrade e low tech, accessibilità, sviluppo alla portata di tutti e non imposto ma suggerito, in una trasposizione di un ruolo, quello del designer, non più divo applaudito da un pubblico pagante ma anche eticamente sostenibile e responsabile, che lavora sul campo per le persone ma anche insieme alle persone, senza dimenticarci che rimarrà sempre, in tutto quello che facciamo, qualcosa da capire. E che chiunque può insegnarcelo. What's new? Research, innovation and design. A difficult endeavour lies before us; one that is geographically and culturally distant from us, but at the same time so close if we think of the dynamics of development on this planet: to design for the World’s Southern Hemisphere does not mean to look so far away, but to observe better. To reflect on problems that are not typically asked of us and to think of possible
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solutions, leads to a more conscientious reasoning regarding the concepts and issues of sustainability, ecology, geopolitical dynamics and even ethical-moral values. This research was developed in two different places, and focused on one specific context, Africa, without excluding every possible application of results in other world regions of the Southern Hemisphere. According to a Report of the UNDP (the United Nation’s Development Program), there are 1.1 billion people in the world who have no access to clean water, and 2.6 billion have no access to adequate health services: it is with this data that we started work. The theme of water was developed over the past years, during the workshops held in Venice and San Marino: this let us design with a strong basis, having previous studies, projects and prototypes to consult and critique. The experience conducted over the years, has in fact allowed us to learn from our and others’ mistakes and bring about improvements. Proceeding in unexpected directions, with the accumulation of more than one single idea, and having a transversal path of research, we have ultimately been able to obtain effective results. We in fact present objects that focus on many of the theme’s subcategories, from the purification of water to its transportation, from its desalination to its recovery during the cooking of foods, and even its collection through condensation, evaporation or dew accumulation. The theme of hygiene was instead developed by accord between the IUAV University of Venice and Area s.r.l. of Copparo, a company that deals with the collection and recycling of trash, while working in various areas of research, such as: plastic regeneration, providing portable toilets in Senegal, solar panelling, and the use of silicon as the basic maximum efficiency working material. Working on the theme of hygiene as a theme of research for the improving of conditions in countries of the Southern Hemisphere has represented a significant challenge. On one hand, there is a lack of literature on the subject, which makes any specific research or comparison with other projects rather difficult; on the other hand, there is a sensibility that is needed for the design of certain types of objects, which calls for the indispensable evaluation of human and cultural factors (to which design does not always relate). The condition in which we operated, although lacking in know-how and experience, instead proved to be wealthy from the viewpoint of possible project ideas: everything was new, everything was to be understood, everything needed to be re-elaborated. It is this condition that lead to the discovery of a continuity in research, which is currently being developed by two graduating students in the industrial design department at the Study Centre for projects and innovation in Countries of the World’s Southern Hemisphere. This wide-reaching project went from the initial research on the development of portable chemical-based toilets to the additional work and studies regarding construction systems based on the local pre-fabrication of components, and projects for the automation of autonomous cleaning systems in bathrooms that can work without the use of water. The research on these two themes intersected because of the obvious assumption regarding the existing link between water and hygiene, and also because of the projectual formulation that, in its simplicity, considerably detaches itself from the “common” ways of effecting design today, both in
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academic and professional realms. On one side, there is the will in design to continuously invent something new, and to come up with “light-bulb” ideas. On the other side, there is renewal and re-styling, as peculiarities that allow us to produce things differently but at the same time identically – as trendy objects. This kind of design often brings forth irrelevant changes with the purpose of generating simple novelties. Stuck between these two realities, we find the concept of innovation, intended as the variation of a system through the introduction of something new, to be a more profound kind of change compared to renewal. The work of in-depth research is more reflective than that which has already discovered and invented, and the comprehension of completely acquired knowledge can effectively bring about the necessary modifications for amelioration. Behind this process, there is the unseen work, which is often not acknowledged for its applied efforts, when innovation is presented as a solution to the invention-renovation dichotomy. This appears all the more obvious if we think of project-design for countries in the world’s southern hemisphere, or ‘developing countries’, especially if we focus on the concept and meaning of development and the issues it raises regarding the correct methods to adopt in order to obtain it, while determining what type of innovation is in effect necessary. The rapidly advancing evolution of information and technology has taken possession of the meaning “innovation”, making it a synonym of ‘high-tech’, thus becoming a slave to the models of development of the world’s north. I believe instead that innovation can also be simplification, downgrade and low-tech, accessibility, and development that is available to all, suggested rather than imposed. Working in the field of design for people, but also together with people can bring forth a transposition of roles, allowing for the designer to step down from the podium and act ethically sustainable and responsible, without forgetting that there is always something more to understand, and that we can learn it from anyone.
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Progetti Stephan Augustin Imvubu Project Pieter Hendrikse Hans Hendrikse Francesco Anderlini Stefano Giunta Vestergaard Frandsen Alberto Meda Francisco Gomez Paz
Watercone
Hippo Water Roller
Stephan Augustin
Imvubu projects
Desalinizzatore e depuratore d'acqua funzionante tramite evaporazione: l'acqua evaporata dalla ciotola nera si raccoglie nella canalina periferica del cono in policarbonato e può essere versata come da una bottiglia evitando il contatto con fonti di sporcizia. A desalinator and water purifier that functions through evaporation: the evaporated water from a recipient is collected in the peripheral tubing of the cone, made from polycarbonate, and can be poured out avoiding contact with unclean sources.
Un barile, utilizzabile sia a spinta che a traino, che consente di trasportare fino a 90L d'acqua per rotolamento, con uno sforzo di gran lunga minore rispetto ad altri sistemi di trasporto. Spinto davanti a sĂŠ ha anche funzione protettiva in caso di mine antiuomo. A barrel that can be pushed or pulled, allowing for the transportation of up to 90 litres of water. Rolling the barrel, there is much less physical exertion compared to other systems of transportation. When pushed ahead, it also functions as protection against landmines.
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Q Drum
Rototanica
Pieter & Hans Hendrikse
Francesco Anderlini & Stefano Giunta
Tanica in plastica a basso costo che tramite una corda può essere trainata facendola rotolare, diminuendo lo sforzo necessario al trasporto di 50L d'acqua. A low-cost plastic container, which can be pulled using a rope, reducing the necessary strain in transporting 50 litres of water.
Recuperando dei copertoni ed inserendovi una tanica da 30L si ottiene un mezzo per trasportare agevolmente l'acqua anche lungo percorsi dissestati e con la minima fatica.
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Through the recovery of large lid-covers and the insertion of 30-litre containers, an easy means for transportation over long uneven distances with less fatigue and effort.
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Lifestraw
Lifestraw family
Vestergaard Frandsen
Vestergaard Frandsen
Depuratore portatile d'acqua, lungo appena 25cm può depurare fino a 700L d'acqua, costa 2 – 3 $, rende innocui più del 99% dei batteri ed il 98% dei virus mortali presenti nell'acqua infetta.
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A portable water purifier, 25 cm long. It can purify up to 700 litres of water, and costs 2 – 3 $. It makes 99% of bacteria harmless and eliminates 98% of mortal viruses present in infected water.
Versione fissa ad utenza ampliata del progetto precedente: versando acqua nell'imbuto superiore è possibile ottenere acqua pulita da un apposito rubinetto.
The fixed ample-usage version of the previous project: pouring water into the upper funnel, it is possible to obtain clean water from an apposite faucet.
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Solar Bottle Alberto Meda & Francisco Gomez Paz
Set per la depurazione dell’acqua tramite metodo SoDis, composto da due bottiglie da 4lt ciascuna, larghe e sottili per aumentare la superficie esposta al sole. All’interno un rivestimento in alluminio contribuisce all’aumento di temperatura del liquido distruggendo i microrganismi patogeni presenti nell’acqua. La maniglia permette di inclinarle bottiglie, a seconda dell’incidenza del sole. A set for the depuration of water using SoDis method, composed by two 4 litre bottles, built wide and slender to increase their exposure to the sun. Inside the bottles, an aluminium lining contributes to increasing the temperature of the liquid, eliminating most of the pathogenic micro-organisms in the water. The handle allows for the bottles to be inclined according to the sun’s position.
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Laboratori didattici Tommaso D’Olivo Lorenzo Antonini Lanfranco Pignatta Tiziano Maffione Caterina Barp Cristian Cicchinè Alessio De Luca Elena Ferrato Chiara Bertolin Giulia Orlando Andrea Chiurato Martino Guadalupi Mario Mastropietro Claudia Ponchia Mauro O. Paialunga
RugiaPET
Amplificatore UV
Tommaso D’Olivo
Lorenzo Antonini e Lanfranco Pignatta
Sistema di recupero di acqua potabile dalla rugiada tramite riuso di bottiglie in PET: il liquido condensato viene raccolto in fondo alla catena in un qualsiasi recipiente. A system for the recovery of drinkable water from dew condensation through the reuse of bottles made from PET: the condensed fluid can be collected at the bottom of chain lines into any recipient.
Elementi fustellati molto economici formano una sorta di forno solare per velocizzare la purificazione dell'acqua tramite metodo SoDis. Si adatta a qualsiasi bottiglia da 1,5L e 2L.
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Economical malleable elements make up a kind of solar cooker oven to speed up the purification of water using the SoDis (solar heating) method. It adapts to any bottle form, from 1.5 to 2 litres.
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Revolution Q
Radius
Tiziano Maffione
Caterina Barp
Estruso in plastica, di diverse misure, permette di far rotolare taniche di differenti misure facilitandone il trasporto. Extruded in plastic of various sizes, it allows for the rolling of different sized containers to facilitate their transportation.
Elementi fustellati in cartone argentato vengono montati a corona intorno al WaterconeŠ velocizzandone la funzione, grazie ad un sistema di convezione simile a quella dei forni solari. Malleable elements with reflective surfaces are mounted around the WaterconeŠ to accelerate its function, due to a conventional system that is similar to solar cookers.
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Rolli
Tank U
Cristian Cicchinè
Alessio De Luca e Elena Ferrato
Questo mezzo di trasporto è ottenuto riutilizzando comuni basi per ombrelloni montate su una struttura realizzata con tecniche e materiali locali.
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This means of transportation is obtained in re-using the bases of sun-umbrellas that are mounted onto a structure made from local materials and techniques.
Tanica per il trasporto di 20L d'acqua, si adatta a qualsiasi tipo di bicicletta. A tank-container for the transportation of 20 litres of water, which can be adapted to any kind of bicycle.
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Steampot
Water Plus
Chiara Bertolin e Giulia Orlando
Andrea Chiurato e Martino Guadalupi
Coperchio universale realizzato in loco in ceramica permette di recuperare l'acqua evaporata dai cibi durante la cottura: l’acqua condensatasi internamente viene infatti raccolta nella canalina esterna e versata come da una teiera. A universal ceramic pot cover, made on location, that allows for the recovery of evaporated water from cooked foods during the cooking process: the inner condensation is collected in an external tube, where it can then be poured out, like with a tea kettle.
Lavandino autonomo realizzato con due elementi identici: la parte superiore viene riempita con acqua pulita mentre l'acqua raccolta nella parte inferiore può essere riutilizzata come acqua di scarico per bagni.
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An autonomous washer sink made from two identical elements, the upper part is filled with clean water while the collected water in the lower part can be re-used for flushing in bathrooms.
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Sistema bagno con utilizzo di materiali locali Mario Mastropietro con Mauro Paialunga
Sistema bagno adibito a fermate di mezzi pubblici nei paesi del sud del mondo, realizzato con sistema di prefabbricazione utilizzando materiali e tecnologie locali, si adatta sia ad utilizzo chimico che a secco, senza cioè fornitura idrica o presenza d'acqua.
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A bathroom facility built for public transportation stops, made from prefabricated elements using local materials and technology. They can be adapted to a chemical usage, or else be operated without the use of water.
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Sistema bagno a secco Claudia Ponchia con Mauro Paialunga
Sistema bagno a secco automatizzato: il sistema a secco non prevede presenza di acqua ma sfrutta le proprietĂ di un compost di terra e paglia. Il meccanismo di scarico è azionato automaticamente dalla pedana al momento dell'ingresso e dell'uscita. Ăˆ realizzato con tecniche e materiali locali.
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An automated dry bathroom system: the dry system does not foresee the presence or use of water, making use of the properties of earth compost and hay. The flushing mechanism is automatically activated by a footboard at entrance and exit from the bathroom unit. It is realised with local techniques and materials.
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TrentaValmara per ricordare ThirtyValmara to remember Gaddo Morpurgo
realizzata con la collaborazione di fondar s.p.a. - ostra vetere (an)
Una riflessione sul rapporto tra design e sud del mondo non può evitare il confronto con quei “prodotti” che caratterizzano la presenza delle capacità produttive dell’innovativo nord in molte aree del sud: le mine antiuomo. TrentaValmara sono trenta elementi in ghisa. TrentaValmara sono trenta elementi in ghisa che hanno mutuato la loro forma dalla Valmara, una delle mine antiuomo più evolute, frutto dell’ingegnosità del made in Italy. TrentaValmara non sono prototipi di un possibile oggetto di design ma un segno, forse un intervento estetico, per ricordarci come la nostra progettualità nei confronti dell’uomo dà anche questi risultati.
One reflection on the relationship between design and the world’s Southern Hemisphere cannot avoid dealing with those “products” that characterise the presence of productive capacities of the Northern Hemisphere’s innovation in many areas of the world’s South: anti-personnel mines ThirtyValmara are thirty cast iron elements. ThirtyValmara are thirty cast iron elements that take their form from Valmara anti-personnel mines, one of the most highly advanced products of ‘made in Italy’ ingenuity. ThirtyValmara are not the prototypes of a possible object of design, but rather a sign, perhaps an aesthetic intervention, to remember that our approaches to project design for mankind, also produces such results.
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Partendo dai risultati della ricerca che dal 1999 è stata avviata sui temi del Design per i paesi del sud del mondo, con laboratori e workshop didattici riferiti ai problemi della Colombia, Ecuador e Vietnam, all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino è stato avviato un programma di laboratori internazionali di design che, coordinati dal Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo, verranno realizzati in diversi paesi di queste aree geografiche. Il primo laboratorio, l’atelier RWANDA, “Laboratoire de recherche et de projets d’innovation de design en Afrique” è stato costituito presso il Centre d’accueil et de formation “San Marco” a Kanombe (Kigali) in Rwanda in collaborazione con i club Soroptimist di Kigali e di San Marino. L’ atelier RWANDA si occupa di trasferimento delle tecnologie appropriate e di design per la valorizzazione dei materiali naturali presenti nelle varie regioni dell’Africa.
Programma 2008 - 2010 Temi di lavoro 1. Applicazione delle lavorazioni tradizionali, tipo Agaseks K’uruhindu, per prodotti ad alto valore commerciale Una delle lavorazioni artigianali più interessanti della cultura Ruandese e dei paesi confinanti come il Congo ed il Burundi usa la tecnica dell’intreccio di erbe locali per la creazione di oggetti. La particolare tecnica di intreccio, che usa lunghi e sottili fili d’erba e letteralmente li cuce insieme, richiede sapienza nella lavorazione e moltissimo tempo nella realizzazione; a titolo esemplificativo mediamente un contenitore con relativo coperchio dell’altezza di 15 centimetri richiede una settimana di dedizione e lavoro. Ne risultano opere dalla straordinaria fattura e dai raffinati intrecci che ricordano più degli oggetti preziosi che non oggetti di uso quotidiano. Da queste considerazioni emerge che la creazione di prodotti con un alto valore commerciale renderebbe più congruo e redditizio il lavoro svolto dalle cooperative di donne Ruandesi che attualmente si dedicano a questa produzione artigianale. Lo scopo del lavoro che coinvolgerà Professori, Studenti e Cooperative
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locali è volto quindi alla progettazione di prodotti e linee che si rivolgano ai canali commerciali del gioiello, della cura della persona e del fashion in generale. 2. Utilizzo delle foglie di banano per oggettistica e componenti edilizie La foglia di banano, pianta presente in abbondanza in tutta la fascia tropicale, è caratterizzata da una fibra estremamente resistente alla trazione e si presta nella tradizione locale ai più svariati usi, dalla creazione di cesti per uso quotidiano all’uso nella costruzione di capanne locali. Lo scopo del lavoro è di indagare a fondo le caratteristiche meccaniche e fisiche di questo elemento vegetale per sfruttarne al meglio le caratteristiche meccaniche nell’ambito della componentistica edilizia e le caratteristiche estetiche in quello dell’oggettistica. 3. Valorizzazione della risorsa bamboo nella realizzazione di oggettistica e componenti edilizie La tradizione orientale nell’uso del bamboo ci ha trasmesso, attraverso un uso trasversale in tutti gli ambiti, le incredibili potenzialità di questa erba infestante. Caratteristiche meccaniche da profilato industriale e potenzialità estetiche nella produzione di oggettistica dei più svariati generi, fanno del bamboo un materiale naturale unico ed estremamente versatile. Tutta la fascia tropicale africana dispone in abbondanza di questa erba anche se attualmente non viene usato per particolari lavorazioni o produzioni. L’intento del lavoro è quello di trasferire a cooperative locali le necessarie conoscenze per la lavorazione ed il trattamento del bamboo ed approfondirne le potenzialità tecniche e di applicazione. 4. Miglioramento dei mezzi di trasporto delle merci La difficile configurazione morfologica del suolo, l’assenza di infrastrutture di collegamento e le notevoli distanze da coprire, fanno dello spostamento privato delle piccole quantità di merci uno dei problemi principali dell’Africa. Attualmente i mezzi di trasporto merci sono dei più svariati e fanno capo alla casualità della cosa da trasportare. Il lavoro di ricerca si propone di razionalizzare e progettare, attraverso lo studio dei materiali reperibili sul posto, mezzi che rendano efficiente, economico e agile il sistema di trasporto privato di beni. 5. Prefabbricazione di componenti edilizie in terra secca per la realizzazione di servizi igienici Uno dei problemi più impellenti nei paesi in via di sviluppo è garantire uno standard accettabile di igiene che limiti la diffusione di malattie. Il lavoro di ricerca si propone di far proprie tecniche costruttive locali che usano la terra secca come elemento principale per implementarle ed applicarle alla costruzione di nuove tipologie di servizi igienici privati e pubblici. 6. Pompaggio, trasporto e trattamento dell’acqua potabile Una delle questioni determinanti nella salute, igiene e sussistenza delle popolazioni africane è legato all’elemento acqua. Estrarre, trasportare ed immagazzinare acqua potabile è uno dei temi progettuali più importanti e dibattuti; attualmente in Africa tali operazioni per la maggior parte dei casi vengono eseguite nella più totale insalubrità. Scopo del lavoro è affrontare tali problematiche razionalizzando le metodologie e progettando sistemi che contribuiscano, attraverso tecnologie esistenti a migliorare le procedure di estrazione, trasporto e igiene legate all’acqua. 7. Valorizzazione delle capacità produttive dei Batwa nel settore della terracotta e della ceramica La minoranza etnica dei Batwa in Rwanda si occupa da sempre della lavorazione
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della terracotta. Attualmente la loro produzione è legata essenzialmente ad oggetti di uso quotidiano, dai piccoli fornelli a legna per cucinare ai vasi contenitori dei generi più vari. Scopo del lavoro è diversificare e migliorare le tecniche di lavorazione, attraverso la progettazione di nuove linee di prodotti che aprano nuove possibilità commerciali. 8. Materiali naturali e giochi didattici Scopo principale del lavoro di ricerca è la progettazione, attraverso l’uso di materiali naturali reperibili sul posto, quali il bamboo, fibre vegetali, legno e terracotta, di giochi didattici per i numerosi asili sparsi sul territorio. 9. Sostenibilità e sviluppo. Produzione di energia e sistemi per il controllo del consumo energetico In aree dove la produzione e la distribuzione di energia elettrica sono ancora in una fase embrionale diventa di vitale importanza garantire uno sviluppo sostenibile che si affidi a fonti energetiche alternative e rinnovabili. La distribuzione dell’energia, data la complessità morfologica dei paesi rende inoltre necessario lo studio e la progettazione di tecnologie che rendano autosufficienti le piccole comunità periferiche.
Starting with the results of a research project that began in 1999 on themes of Design in countries of the world’s southern hemisphere, the University of the Republic of San Marino set fort a program with laboratories and didactic workshops that focused on problems in Columbia, Ecuador and Vietnam, bringing about an international design laboratory which, in coordination with the Centre of studies and projects on innovation in the Southern Hemisphere, is to be realised in different countries of this geographic area. The first laboratory, atelier RWANDA, “Laboratoire de recherche et de projets d’innovation de design en Afrique” was constituted at the Centre d’accueil et de formation “San Marco” a Kanombe (Kigali) Rwanda, in collaboration with the Soroptimist club of Kigali and San Marino. The atelier RWANDA focuses on the transfer of effective technology and design, for a valorization of natural materials that are available in the various regions of Africa.
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Program 2008 – 2010 Work Themes 1 - Application of traditional craft techniques, like Agaseks k’uruhindu, for products with high commercial value. One of the more interesting artisan crafts of Rwandan culture and nearby countries like Congo and Burundi use the technique of interweaving local grass leaves for the creation of objects. The particular technique of weaving, which uses long subtle blades of grass and literally sews them together, requires knowledge of the handwork and lots of time for their realization. A container, 15 cm. in depth, with its cover requires a week of dedicated work. The results are works of extraordinary craftsmanship with refined weavings that resemble precious objects rather than objects for everyday use. From these considerations, it became apparent that the work of the women who dedicate their time and skill to this artisan production could be made more remunerative and worth-while if it was given a higher commercial value. The objective of the project involves professors, students, local co-ops and the products are is commercially categorized as items of personal care and general fashion. 2. Use of banana leaves as household items and for use as building materials The banana leaf, abundantly present throughout most tropical climates, is characterized by extremely resistant fibers, and in local traditions it is used for a wide variety of functions, from basket weaving for every day use to the construction of local huts. The objective of this project is to investigate the mechanic and physical features of this vegetable matter in order to make the best use of it as a building material while taking advantage of its aesthetic aspects to make it in to house-hold items. 3. Valorization of bamboo as a resource in the realization of household items and building materials The oriental traditions of using bamboo has reached us transversally in many ambits. The incredible potential of this infestant plant has mechanical features for industrial usage, as well as aesthetic potential for house-hold items of all kinds, making bamboo a uniquely natural, and extremely versatile material. Most African tropical climates have this plant in abundance, although it is currently not widely used for any specific production. The aim of this project is to transfer the necessary knowledge to work and use bamboo to local cooperatives and to enhance its technical potential for application. 4. Efficiency in transportation of goods The uneven ground surfaces of the terrain and the lack of infrastructure for connecting long distances make private travel and transport of small quantities of merchandise one of the main problems in Africa. Currently, means for merchandise transportation are rather varied and are determined by the circumstances of what is to be transported. The research work intends to rationalize and design, through a study of available materials, devices that can make the private transportation of goods efficient, economic and agile. 5. Prefabrication of building components using dry earth for hygienic services One of the more pressing problems in developing countries is to guarantee an acceptable standard of hygiene that limits the spread of disease. The research project proposes to examine local construction techniques that use dry earth as
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a main element and implement them in the construction of new types of private and public hygienic services. 6. Pumping, transportation and treatment of drinkable water One of the determining questions in health, hygiene and subsistence of African populations is tied to the element of water. To extract, transport and store drinkable water is one of the most important and discussed project themes. Currently in Africa, such operations are mostly carried out under very poor health conditions. The goal of this project is to face such problems in reasoning on the methodologies and design of systems that can contribute, through existing technologies, to ameliorating the procedures that deal with the extraction, transport and hygiene of water. 7. Valorization of the productive capacities of the Batwa in the production of clay and ceramics The ethnic minority of the Batwa in Rwanda, has always worked with clay. Currently their production is essentially tied to objects of every day use, from small wood-burning ovens to vases and containers of different foods. The goal of this project is to diversify and enhance the craft’s techniques through the planning of new lines of production that can open new possibilities of commercial goods. 8. Natural materials and educational games The primary goal of this project is research and design development, making use of natural and locally available materials, such as bamboo, vegetable fibers, wood and clay to produce educational games for the numerous kindergartens that are located throughout the territory. 9. Sustainability and development. Energy production and systems for the control of energy consumption In areas where the production and distribution of electrical energy are still at their beginning stages, it becomes of vital importance to guarantee a sustainable development that is based on renewable and alternative energetic resources. The energy distribution, given the topographical complexity of the country, makes it necessary to study and design technologies that can make small peripheral communities self-sufficient.
atelier RWANDA 91
Fondazione San Marino Cassa di Risparmio-SUMS Fondazione Claudio Buziol UNESCO-Delegazione Permanente della Repubblica di San Marino Università degli Studi della Repubblica di San Marino Università Iuav di Venezia presidenza e-mail: presidenzasudesign@unirsm.sm Contrada Omerelli 47890 San Marino Città – Repubblica di San Marino direzione e coordinamento e-mail: direzionesudesign@unirsm.sm ca’ Tron, Santa Croce 1957 Venezia, Italia sede operativa (MARCHIO) atelier Rwanda Laboratoire de recherche et de projets d’innovation de design en Afrique in collaborazione con il club Soroptimist di Kigali (SI-Kigali e SI-Kigali Etoile) e il club Soroptimist di San Marino c/o Centre d’accueil et de formation “San Marco” Kanombe Kigali, Rwanda
San Marino University Design 04
Repubblica di San Marino Segreteria di Stato per gli Affari Esteri Segreteria di Stato per l'Istruzione e la Cultura, l'Università e gli Affari Sociali Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo
Repubblica di San Marino Segreteria di Stato per gli Affari Esteri Segreteria di Stato per l'Istruzione e la Cultura, l'Università e gli Affari Sociali Centro studi e progetti per l’innovazione nei paesi del sud del mondo Fondazione San Marino Cassa di Risparmio-SUMS UNESCO - Delegazione Permanente della Repubblica di San Marino Università degli Studi della Repubblica di San Marino Università Iuav di Venezia Club Soroptimist di Kigali (SI-Kigali e SI-Kigali Etoile) e il club Soroptimist di San Marino Partecipazione ufficiale alla 11. Mostra Internazionale di Architettura: Out There. Architecture Beyond Building La Biennale di Venezia 14 settembre / 23 novembre 2008
SOUTH OUT THERE Progetti per il sud del mondo: acqua, igiene e salute.
Sedi espositive
UNESCO Regional Bureau for Science & Culture in Europe Palazzo Zorzi – 4930 Castello, Venezia, Italia LABORATORIO 2729 Calle lunga san Barnaba – 2729 Dorsoduro, Venezia, Italia
Commissario
Leo Marino Morganti
Curatore
Gaddo Morpurgo
Comitato organizzatore
Edith Tamagnini, Lorenza Mel, Maria Alessandra Albertini, Sabrina Zangoli
Comitato scientifico
Massimo Brignoni, Filippo Mastinu, Raul Pantaleo, Riccardo Varini, Marco Zito
Allestimento
Dario Scodeller
Grafica
Francesco Messina Carlo Rossolini
Organizzazione
Mauro Paialunga
Traduzioni di Alexander Sera Fotografie di Massimo Brignoni