U+D urbanform and design Reg. Trib. Roma N°149 del 17 giugno 2014 info@urbanform.it ISUFitaly_International Seminar on Urban Form Italian Network DiAP_Dipartimento di Architettura e Progetto LPA Lab_Lettura e Progetto dell’Architettura Direttore_Editor Giuseppe Strappa, Univ. di Roma “Sapienza” Vicedirezione_Co-Editors Paolo Carlotti, Univ. di Roma “Sapienza” Sede di Bari: Matteo Ieva, Polit. di Bari Sede di Parma: Marco Maretto, Univ. di Parma Sede di Firenze: Alessandro Merlo, Univ. di Firenze Caporedattore_Assistant Editor Giulia Annalinda Neglia, Polit. di Bari Redazione_Editorial Team Studi e Ricerche_Studies and Research: Mariangela Turchiarulo, Polit. di Bari Punti di Vista_Viewpoints: Nicola Scardigno, Polit. di Bari Recensioni e Notizie_Book Reviews & News: Giuseppe Francesco Rociola, Polit. di Bari Revisione testi inglese_English texts reviews: Giuseppe Francesco Rociola, Polit. di Bari Nicola Scardigno, Polit. di Bari Progetto grafico e composizione_Graphic design Antonio Camporeale, LPA Univ. di Roma “Sapienza” Francesca D. De Rosa, LPA Univ. di Roma “Sapienza” Collaboratori esteri _Collaborators abroad Youpei Hu, Univ. of Nanjing Sérgio Padrão Fernandes, Univ. of Lisboa François Gauthier, Univ. of Montreal Comitato Scientifico_ Scientific Committee Luis A. de Armiño Pérez, Univ. Polit. de Valencia; Giuseppe C. Arcidiacono, Univ. di R. Calabria; Eduard Bru, Univ. Polit. de Catalunya; Brenda Case Sheer, Univ. of Utah; Enrico Bordogna, Polit. di Milano; Giancarlo Cataldi, Univ. di Firenze; Michael P. Conzen, Univ. of Chicago; Carlos F. L. Dias Coelho, Univ. de Lisboa; Kai Gu, Univ. of Auckland; Pierre Larochelle, Univ. Laval; Vicente Mas Llorens, Univ. Polit. de Valencia; Nicola Marzot, TU Delft; Gianpiero Moretti, Univ. Laval Québec; Vitor Oliveira, Univ. de Porto; Attilio Petruccioli, Univ. di Roma “Sapienza”; Franco Purini, Univ. di Roma “Sapienza”; Carlo Quintelli, Univ. di Parma; Ivor Samuels, Univ. of Birmingham; Jeremy Whitehand, Univ. of Birmingham. Reg Trib. Roma n° 149 - 17 giugno 2014
Processo di pubblicazione degli articoli La rivista U+D urbanform and design adotta un processo di valutazione e revisione dei contributi presentati dagli autori in forma anonima avvalendosi della collaborazione di due revisori (double-blind peer review). Gli autori che intendono pubblicare i propri contributi sulla rivista, sono invitati a presentare una proposta secondo le forme indicate nella call. Le proposte sono valutate dalla direzione della rivista sulla base di criteri di qualità riferibili soprattutto alla congruenza con le finalità della rivista, originalità, innovatività e rilevanza dell’argomento trattato, rigore metodologico e chiarezza espositiva, impatto nella comunità scientifica. Per le proposte accettate, la redazione invita gli autori a presentare lo scritto completo in italiano e in inglese (per gli stranieri è obbligatoria la sola lingua inglese). La procedura di valutazione avviene attraverso il giudizio di due revisori, esterni al comitato di redazione. La direzione individua, per ciascun contributo presentato, i nomi dei due revisori in relazione alla loro specifica competenza. I riferimenti che possono attribuire la paternità all’autore non compaiono nei files inviati ai revisori. Nel caso di discordanza tra i due pareri, il contributo è inviato a un terzo revisore, la cui valutazione consente di ottenere la maggioranza del giudizio. La valutazione e le indicazioni dei Revisori vengono comunicate agli Autori che procedono alla stesura finale del contributo. La decisione finale sulla pubblicazione del contributo spetta comunque al Direttore. Ove dovesse verificarsi una sostanziale modifica allo scritto da parte dell’Autore, la Direzione può decidere di riattivare il processo di valutazione. Articles publishing process U+D urbanform and design journal adopts an anonymous process of evaluation and review of the contributions presented, with the collaboration of two reviewers (doubleblind peer review). Authors wishing to publish their contributions in the journal are invited to submit a proposal according to the forms indicated in the call. The proposals are evaluated by the direction of the journal considering quality criteria above all concerning the congruence with the aims of the journal, originality, innovation and relevance of the topic, methodological rigor and clarity of presentation, impact on the scientific community. The editorial board invites the authors of the accepted proposals to present the complete text in Italian and English (for foreigners only the English language is mandatory). The evaluation process takes place through the valuation of two reviewers external to the editorial board. The journal direction will choice, for each contribution submitted, the names of the two reviewers selected for their specific competence. References that can make authorship recognized by the reviewers will not appear in the files sent to them. In the event of a divergence between the two opinions, the contribution will be sent to a third reviewer, whose valuation allows to obtain the majority of the opinion. The evaluation and indications of the reviewers will be communicated to the authors who will proceed to the final writing. The final decision on the publication of the contribution rests, however, with the director. Should a substantial modification by the author to the written document occur, the editorial board may decide to activate the evaluation process again.
L’Editore è a disposizione degli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte nel caso in cui non si fosse riusciti a chiedere la debita autorizzazione. Chiuso in redazione nel luglio 2020. The publisher is available to any owners of the images rights in the event that it has not been possible to request due authorization. Closed by the editorial board in July 2020. Consultabile su/Available on https://www.urbanform.it/ Referees: Vitangelo Ardito Michele Beccu Lucina Caravaggi Renato Capozzi Ignazio Carabellese Santi Centineo Isotta Cortesi Giuseppe Fallacara Loredana Ficarelli Fabrizio Foti Santo Giunta Ayše Kubat
In copertina: restituzione dei piani terra della città di Roma, quartiere Trastevere. Rielaborazione delle planimetrie catastali.
ISSN 2384-9207 (Online) ISSN 2612-3754 (Print)
On the cover: assembly of the Trastevere district’s ground floors (Rome). New elaboration of cadastral plans.
ISBN 978-88-913-2088-9 (Print) ISBN 978-88-913-2091-9 (Pdf)
Anna Lambertini Manfredi Leone Giovanni Longobardi Roberta Lucente Mauro Marzo Anna Bruna Menghini Annalisa Metta Valerio Paolo Mosco Lorenzo Netti Vitor Oliveira Maurizio Oddo Valerio Palmieri Emanuele Palazzotto
Nicola Parisi Laura Pezzetti Enrico Prandi Sara Protasoni Ludovico Romagni Gabriele Rossi Antonello Russo Fabrizio Toppetti Tolga Ünlü Federica Visconti Michele Zampilli Iacopo Zetti
Indice_Index 2020_anno VII_n.13
Editoriale_Editorial 6
Riflessioni_Reflections
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R| Giuseppe Strappa Quattro domande a Jeremy W. R. Whitehand sulla morfologia urbana e la città storica Four questions to Jeremy W. R. Whitehand on urban morphology and historical cities
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E| Giuseppe Strappa La città del post pandemia e la riconquista del limite The post pandemic city and the recovery of the limit
Saggi e Progetti_Essays and Projects
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2| Luigi Franciosini Il paesaggio come sedimento storico. Il santuario rupestre di Macchia delle Valli tra Vetralla e Villa San Giovanni in Tuscia The landscape as a historical sediment. The rocky sanctuary of Macchia delle Valli between Vetralla and Villa San Giovanni in Tuscia
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3| Giulia Annalinda Neglia Riscrivere il sostrato. Rigenerazione post-trauma del paesaggio urbano di Beirut e Sarajevo Re-Writing the Substrata. Post-Trauma Landscape Regeneration in Beirut and Sarajevo
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4| Maria Grazia Cianci, Francesca Paola Mondelli L’immateriale che disegna lo spazio The immaterial as a mean of drawing the space
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1| Paolo Carafa Archeologia dell’architettura e archeologia del paesaggio. Ipotesi, storia e narrazione Archeology of Architecture and Landscape Archaeology. Scientific Hypotheses, History and Storytelling
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Studi e Ricerche_Studies and Research 60
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1| Maria Grazia Ercolino Rileggere le tracce. Vicende urbane e architettoniche dal Campo Carleo al quartiere Alessandrino Rediscovering the evidence. Urban and architectural events from Campo Carleo to the Alessandrino district
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2| Anna Rita Donatella Amato La città di Porto come processo. Lettura morfologica integrata della città The city of Porto as a process. Morphological reading of the urban organism
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3| Paolo Carlotti, Vitor Oliveira I concetti di percorso di ristrutturazione, fascia di pertinenza e fringe belt nell’analisi del tessuto urbano di Porto The concepts of breakthrough street, pertinence strip and fringe belt in the analysis of the urban fabric of Porto
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Punti di vista_Viewpoints
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2| Nicola Scardigno Renato Rizzi. Pensare architettura e la forma delle cose. Il potenziale estetico del substrato Renato Rizzi. Thinking architecture and the shape of things. Aesthetic potential of the substrate
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3| Renato Rizzi La quarantena di architettura Architecture quarantine
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4| Ivor Samuels Poundbury rivisitata Poundbury revisited
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5| Giuseppe Arcidiacono Esperienze SDS: una mostra e un libro su Livio Vacchini Esperienze SDS: an exhibition and a book on Livio Vacchini
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1| Matteo Ieva Renato Rizzi. Pensare architettura e la forma delle cose. Lo stupore del pensiero Renato Rizzi. Thinking architecture and the shape of things. The wounder of thought
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7| Benjamin N. Vis Transizioni e trasformazioni: relazioni evidenziali tra archeologia e morfologia urbana Transitions and Transformations: Evidential Relations between Archaeology and Urban Morphology
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6| Marco Maretto Architettura, Globalizzazione e Information Technology: “Back to the Future”? Architecture, Globalization and Information Technology: “Back to the Future”?
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8| Santi Centineo Architettura degli interni tra teoria, prassi e trasmissibilità. La necessità di ritrovare un dialogo Interior Architecture among theories, practices and transmissibility The need to retrieve a dialogue
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Recensioni e Notizie_Book Reviews & News
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R2| Nicola Scardigno, Landscape as forma mentis. Interpreting the integral dimension of the anthropic space. Mongolia, (Marco Trisciuoglio)
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N1| Vitor Oliveira PNUM: dieci anni dopo PNUM: ten years after
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N2| Paolo Carlotti Urban Substrata & City Regeneration. V ISUFitaly International Conference Rome 2020 Urban Substrata & City Regeneration. V ISUFitaly International Conference Rome 2020
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N3| Giancarlo Cataldi Gian Luigi Maffei, assai più che un amico… Gian Luigi, much more than a friend…
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N4| Enrico Bordogna Claudio D’Amato, un ricordo Claudio D’Amato, a memory
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R1| Fabrizio Toppetti, Architettura al presente. Moderno contiene contemporaneo, (Matteo Ieva)
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urbanform and design Editoriale
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Giuseppe Strappa
Dipartimento di Architettura e Progetto, Università degli Studi di Roma “Sapienza” E-mail: giuseppe.strappa@uniroma1.it
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Il momento che stiamo vivendo, con l’isolamento imposto dal Covid 19 e lo svuotamento della vita urbana, l’assenza dei trasporti, la crisi economica alle porte, provocherà, credo, un cambiamento antropologico nel modo di leggere e pensare la città. La vicenda tragica della pandemia è anche un laboratorio dove, in un quadro ancora incerto, la città storica, che sembrava esistere solo nel ricordo, riemerge come modello problematico e, per alcuni versi, ancora attuale. Un modello, tuttavia, “rivoluzionato”. Non perché stravolto nei fondamenti, ma perché sembra aver subito, piuttosto, una rotazione in senso astronomico, si direbbe, dove, dopo una rivoluzione completa, le cose tornano apparentemente come prima. E invece il tempo è passato e nulla rimane immutato. La città del lockdown, contemplata nel silenzio di strade e piazze vuote, in un paesaggio urbano irreale, è, certo, la rappresentazione concreta di un mondo opposto alla metropoli quotidiana. La sua distanza dalla città consueta ne costituisce però, in un certo senso, la critica, indicandone paradossi e contraddizioni. Ci si rende conto di come, ad esempio, nella città normale, a forza di parlarne, alcuni problemi sembravano scomparsi: la quantità enorme del tempo perduto negli spostamenti tra la casa e il posto di lavoro, o la realtà urgente di un traffico incontenibile. Si constatano cose di semplice evidenza: di come l’immagine della città delle auto onnipresenti e dello smog non sia l’unica possibile, come non sia inevitabile il turismo dissennato e privo di regole che sta trasformando le città europee in dormitori che erodono rapidamente le ultime forme di vita collettiva. Certamente il lockdown ha comportato un rapido scivolamento in una condizione patologica nella percezione dei rapporti tra spazio domestico e città. Una condizione estrema che come tale è, per citare Tafuri, “portatrice di conoscenza”. Perché la casa è divenuta, per qualche tempo, il centro stesso dell’universo urbano, trasformata in un microcosmo autonomo e autosufficiente, dove sono riemerse attività che sembravano scomparse, come fare il pane. La casa come luogo al cui interno tutto nuovamente si integra e riequilibra. Spazio autonomo nel quale si svolgono le attività domestiche del dormire, cucinare, mangiare, ma, allo stesso tempo, luogo di produzione e ambiente di lavoro, in modo per certi aspetti simile all’abitazione artigiana o con bottega in uso per secoli, dal tipo della domus solarata medievale, alla casa a schiera matura del XVII secolo. Una sorta di ritorno alle origini, prima che il capitale privato fosse estesamente investito nelle trasformazioni urbane, prima che rifusioni edilizie dessero vita alla casa plurifamiliare e agli appartamenti d’affitto. Sembrerebbe il risorgere dei tessuti preindustriali in un contesto nuovo. Forse il dato più rilevante di questa condizione “sperimentale” è lo spazio della casa divenuto di nuovo “luogo”, ambito circoscritto identificato da caratteri specifici. Le immagini terribili e nuove delle nostre città che abbiamo visto, hanno sostanzialmente messo in crisi la nostra nozione di limite, che ha anche a che fare con l’insopprimibile necessità dell’uomo di forma attraverso i cui limiti, appunto, percepiamo le cose. Riconosciamo gli spazi per mezzo dei loro confini secondo una nozione di luogo diametralmente opposta a quella di spazio informale, alla mancanza di limitazioni perseguita da tanta architettura moderna e contemporanea.
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The post pandemic city and the recovery of the limit
This time we are living in, with the isolation imposed by Covid 19 and the emptying of urban life, the absence of transport, the economic crisis at the door, will, I believe, cause an anthropological change in the way we think about the city. The tragic story of the pandemic is also a laboratory where, in a still uncertain context, the historic city which seemed to exist only in memory, re-emerges as a problematic, in some ways, but still real model. A model, however, “revolutionised” not because it is distorted in its foundations, but because it seems to have undergone a rotation in the astronomical sense, one would say, where, after a complete revolution, things apparently return as before. Instead, time has passed and nothing remains unchanged. The lockdown city, contemplated in the silence of empty streets and squares, in an unreal urban landscape, is certainly the concrete representation of a world opposite to the daily metropolis. However, in a certain sense, its difference from the usual city constitutes a critique, indicating its paradoxes and contradictions. One realises how, for example, in the normal city, by dint of talking about it, some problems seemed to have disappeared: the enormous amount of time lost in moving between home and work, or the urgent reality of uncontainable traffic. You can observe things of obvious truth: how the image of the omnipresent cars in the city is not the only possibility, how it is not inevitable that the senseless and unregulated tourism transforms European cities into dormitories quickly destroying the latest forms of collective life. Certainly the lockdown has led to a rapid slide into a pathological condition in the perception of the relationship between the domestic space and the city. An extreme condition which as such is, to quote Tafuri, “ is bearer of knowledge”. The house has for some time, in fact, become the very centre of the urban universe, transformed into an autonomous and self-sufficient microcosm, where activities that seemed to have disappeared, re-emerged, such as making bread: the house as the place where everything is integrated and rebalanced again. An autonomous space in which the domestic activities of sleeping, cooking, eating take place, but, at the same time, a production place and a work environment, in some ways similar to the artisanal or shopping house in use for centuries, from the type of the medieval domus solarata, to the rowhouse in use in the centuries from XIV to XVI. A kind of return to the origins, before private capital was extensively invested in urban trans-
La città del post pandemia e la riconquista del limite
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| Giuseppe Strappa | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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Fig. 1 - Piazza Navona deserta. Roma, 6 aprile 2020. Empty Piazza Navona. Rome, April 6, 2020.
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formations, before building melting gave rise to multi-family houses and rental apartments. It would seem as though there is a resurgence of the pre-industrial fabrics in a new context. Perhaps the most relevant datum of this “experimental” condition is the space of the house which has once again become “place”, a limited environment identified by specific characters. The terrible and new images that we have seen, have substantially challenged our notion of limit, which also has to do with the need of the man for through whose limits, in fact, we perceive things. We recognise spaces by means of their borders according to a notion of place diametrically opposite to that of “informal space”, to the lack of limitations, pursued by so much modern and contemporary architecture. It would seem the return to the conception of the Aristotelian τόπος as a “motionless limit that embraces the body” against the Cartesian, modern and dynamic sense of place as a relationship of one body with others, of connection with the context. Where, moreover, the space would be adapted to a sedentary life, against the image of the metropolitan nomad celebrated in literature for at least a couple of decades. But be careful, this is not a regression but a much more complex phenomenon. The condition of forced segregation enhances, making it in some respects close and achievable, a central aspect of the metropolitan dream, that of an entirely connected world, of the universal network that makes everything synchronic over time, everything coexisting in space. The interaction of the house with the outside world thus expands dramatically and follows new paths. Technically there are no big innovations in the media, but the quantitative problem affects on such a large scale that it presents radically new scenarios. Since February 2020, the tools that involved specialised networks suddenly became daily devices in millions of houses, while multiplied virtual communities, immaterial aggregations formed through Google meet or Zoom. You don’t go to the office but you can still work with colleagues, sometimes in better conditions; the same lessons are held in Buenos Aires and Tehran at the same time, as exams are to segregated Indian or Chinese students, also in the houses of Mumbai or Nanjing. Covid 19 seems to have changed perhaps irreversibly the relationship between housing and retail spaces. It is not foreseeable where the uncontrolled acceleration of e-commerce will lead. Certainly, according to an obvious criticism, it empties traditional trade. But will traditional trade still exist? For decades, the issue of declining materiality in relationships and exchanges between individuals has divided scholars. Maybe it’s time to start distinguishing, to understand that not all virtual is either good or bad. These new forms of communication can “collaborate” with the existing city by integrating physical relations, giving them new meaning and future. It would be possible to rediscover the historic city’s ability to give boundaries, solidarity rules: to aspire to a “concluded” form. That this form is continually questioned by history, that it is unstable and changeable, is part of the same nature of things. But there remains the need and desire to give a limit to the things (to the spaces, to the cities, to the resources employed) to which a new sense of duration is associated, the symptoms of which have been evident for some time. Against the
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Sembrerebbe il ritorno alla concezione del τόπος aristotelico come “limite immobile che abbraccia il corpo” contro l’accezione cartesiana, moderna e dinamica, di luogo come rapporto di un corpo con gli altri, di relazione col contesto. Dove, peraltro, lo spazio verrebbe riadattato a una vita sedentaria, contro l’immagine del nomade metropolitano celebrata in letteratura da almeno un paio di decenni. In realtà, è vero, si tratta di un processo rischioso come lo è la formazione di ogni recinto, per propria natura conflittuale. Ma attenzione, non siamo di fronte a una semplice regressione ma ad un fenomeno ben più complesso. Perché la condizione di segregazione forzata esalta, rendendolo sotto certi aspetti vicino e realizzabile, un aspetto centrale del sogno metropolitano, quello del mondo interamente connesso, della rete universale che rende tutto sincronico nel tempo, tutto coesistente nello spazio. La comunicazione della casa con l’esterno si amplia così a dismisura e segue nuove strade. Tecnicamente non ci sono grandi novità nei mezzi di comunicazione. Ma il problema quantitativo investe una scala talmente vasta da proporre scenari radicalmente nuovi. Strumenti informatici che interessavano fino al febbraio 2020 network specialistici, sono improvvisamente divenuti quotidiani in milioni di case, mentre si moltiplicano le comunità virtuali, le aggregazioni immateriali formate attraverso Google meet o Zoom. Non si va in ufficio ma si può lavorare ugualmente con i colleghi, a volte in condizioni migliori; si fanno da casa (esperienza affascinante e disumana) lezioni seguite a Buenos Aires o Teheran, esami a studenti indiani o cinesi segregati, anche loro, nelle case di Mumbai o Nanjing. Il Covid 19 sembra aver cambiato, forse in modo irreversibile, anche il rap-
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porto tra abitazione e spazi commerciali. Non è prevedibile dove porterà l’accelerazione incontrollata del e-commerce. Certamente essa svuota, secondo una critica ovvia, il commercio tradizionale, ma esiste ancora un commercio tradizionale? Da decenni il tema della caduta di materialità nelle relazioni e scambi tra individui divide gli studiosi. Forse è il momento di cominciare a distinguere, capire che non tutto il virtuale è buono o cattivo. Queste nuove forme di comunicazione potrebbero collaborare con la città esistente integrando le relazioni fisiche, dando loro nuovo senso e futuro. Si riscoprirebbe la capacità della città storica di dare confini, regole solidali: di aspirare ad una forma compiuta. Che poi questa forma sia di continuo messa in discussione dalla storia, che sia instabile e mutevole, fa parte della natura delle cose. Ma riemerge il bisogno e il desiderio di dare un limite alle cose (agli spazi, alle città, alle risorse impiegate) cui si associa un nuovo senso di durata, i cui sintomi sono evidenti da qualche tempo. Contro l’espansione esponenziale dei consumi, di un benessere fragile e costoso, i tessuti storici possono costituire un esempio di reimpiego frugale, di trasformazione continua di una materia (le case, i tessuti, lo stesso organismo urbano) che si adatta di continuo e senza sprechi a nuove esigenze mantenendo un nucleo profondo, un sostrato incontaminato che è il carattere e lo spirito della città. La quale, nonostante le profezie contrarie che proliferano in questi giorni, continuerà a vivere per molti secoli ancora. Credo, infatti, che alcune ipotesi di “ruralizzazione” del modo di abitare il territorio, rispuntate un po’ dovunque come innovative risposte al problema dei rischi di pandemia, siano francamente prive di fondamento. Le spinte antiurbane si sono succedute nella storia della città occidentale con risultati che, oggi, sembrano del tutto inattuali (e forse lo sono sempre stati). Nel 2050
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exponential consumption expansion, of a fragile and expensive well-being, historic fabrics could be an example of frugal reuse, of continuous transformation of a matter (houses, fabrics, the same urban organism) that adapts continuously and without waste to new needs while maintaining a deep core, an uncontaminated substratum which is the character and spirit of the city. Which, despite the contrary prophecies that proliferate in these days, will continue to live for many more centuries. I believe, in fact, that some hypotheses of “ruralization” of our way of living, reappeared as innovative answers to the problem of pandemic risks, are frankly without foundation. The antiurban thrusts have followed in the history of the western city with results that, today, seem completely out of date. In 2050 the world population will reach almost ten billion, increasing every year by a number of inhabitants equal to thirty times that of a city like Rome. If we only take into account the dizzying increase in the need for food resources that these data entail, how can we think of further consumption of the territory? In Europe the forecasts seem less worrying, but the countryside of many countries is actually a conurbation without form (without limits, in fact) now linking one city to another. It is necessary to think, realistically, of a rational, thrifty densification of our forms of settlement, a new structure of the existing cities and a regeneration of the huge planetary conurbations.
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Fig. 2 - Campo de Fiori deserto. Roma, 15 aprile 2020. Empty Campo de Fiori. Rome, April 15, 2020.
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Fig. 3 - Vicolo deserto nel quartiere Rinascimento. Roma, 3 maggio 2020. Deserted alley in the Rinascimento quarter. Rome, May 3, 2020.
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la popolazione mondiale raggiungerà quasi i dieci miliardi, aumentando ogni anno di un numero di abitanti pari a trenta volte quelli di una città come Roma (83 milioni l’anno, secondo le stime della World Population Division delle Nazioni Unite). Se solo si tiene conto del vertiginoso incremento nelle necessità di risorse alimentari che questi dati comportano, come si può pensare ad ulteriore consumo di territorio? In Europa, per il momento, le previsioni sembrano meno preoccupanti, ma solo perché da tempo le campagne di molti paesi sono in realtà una conurbazione senza forma (senza limiti, appunto) che, superata la fase dello sprawl, lega ormai una città all’altra senza soluzione di continuità. Altro che ruralizzazione! Occorre pensare, realisticamente, ad una razionale, parsimoniosa densificazione delle forme di insediamento da ottenere attraverso un nuovo assetto delle città esistenti e la rigenerazione delle grandi conurbazioni planetarie. In questo quadro appare, tra le strade silenziose della città storica deserta di vita, la prefigurazione di una nuovissima vita urbana, liberata dalle infinite contingenze attuali, che si avvolge fisicamente e ruota intorno ai poli e nodi che la strutturano in organismo, dove i percorsi urbani riconquistano il loro ruolo accentrante. E, insieme, nuove contrade digitali fanno da complemento quelle fisiche dando un inedito senso a quegli spazi tra le cose che per troppo tempo abbiamo considerato vuoti. Fenomeni che hanno una forma: limitata, riconoscibile, comunicabile. Sembra così per esaurirsi il mito della dissoluzione delle cose nell’informale, declinato e recitato da tempo come una litania, sostituito da una nuova nozione di forma intesa come aspetto visibile di strutture in continuo mutamento, attraverso la quale non solo vediamo, ma conosciamo la realtà costruita.
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Giuseppe Strappa | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
Within this framework appears, among the silent streets of the historic city empty of life, the prefiguration of a brand new urban life, freed from the infinite actual contingencies, which physically wraps itself and revolves around the urban nodes structuring it in to an organism and, together, new digital districts complement the physical ones giving an unprecedented sense to those spaces between things that we have considered empty for too long. Phenomena that have a shape: limited, recognisable, communicable. The myth of the dissolution of things in the informal, declined and recited for some time like a litany, is thus running out, replaced by a new notion of form intended as a visible aspect of constantly changing structures, through which we not only see, but we have knowledge of the built reality.
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urbanform and design Quattro domande a Jeremy W. R.
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Dipartimento di Architettura e Progetto, Università degli Studi di Roma “Sapienza” E-mail: giuseppe.strappa@uniroma1.it
Riflessioni | Reflections
Four questions to Jeremy W. R. Whitehand on urban morphology and historical cities
G. S. - Sia M.R.G. Conzen che S. Muratori hanno derivato parte delle loro prime teorizzazioni dall’analisi concreta di città storiche come Alnwick, Rathenow, Newcastle, Ludlow per il primo, Venezia e Roma per il secondo. Queste città sono molto diverse tra loro, anche nella fase moderna e critica dell’industrializzazione. Non credi che, a parte il diverso retroterra scientifico, il diverso oggetto di studio abbia condizionato il loro metodo? E, se alcuni principi riconosciuti nella formazione della città sono indubbiamente universali, una parte del loro metodo non sia sempre generalizzabile?
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Keywords: Historical city, M.R.G. Conzen, urban morphology methods
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J. W. - Un consiglio che ho avuto da M. R. G. Conzen, quando l’ho incontrato la prima volta nel 1963, è stato “Quando vedi il particolare, guarda sempre al generale!” Un consiglio che è rimasto con me per sempre. Conzen lo aveva ricevuto, a sua volta, durante gli anni della sua formazione universitaria presso l’Università di Berlino tra la fine degli anni ’20 e gli inizi degli anni ’30. A quel tempo egli ha avuto la fortuna di seguire le lezioni e i seminari, tra gli altri, di Albrecht Penck e Herbert Louis, entrambi studiosi di geografia fisica, ma con prospettive più ampie. I loro consigli e questo specifico in particolare, sono stati secondo me più importanti nell’influenzare i contributi e le prospettive di Conzen di quanto lo siano stati gli studi particolari di città. Comunque il vasto ambito storico-geografico delle sue indagini che si estendeva, negli ultimi anni, fino all’Estremo Oriente, hanno anche in parte costituito la base della fiducia nella validità del proprio metodo. Questo non significa, naturalmente, negare le differenze tra culture nelle forme delle città storiche, ma ha rinforzato la fiducia nella validità generale degli aspetti principali del metodo che impiegava. Importante, anche, nel sostenere il grado di generalità del suo metodo e delle sue scoperte, è stata la sua straordinaria capacità di integrazione all’interno di un’area di conoscenze interdisciplinari di tale ampiezza, che spaziava dall’architettura alla geografia, alla geomorfologia, alla storia e alla pianificazione.
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Abstract In an interview with Giuseppe Strappa, Jeremy Whitehand explains his ideas on the study of the historical city from the point of view of the method used by M.R.G. Conzen and continued by the English Historical Geographical School. The topics are: - the question of the generalization of the study methods used and the field of validity in different cultural contexts; - how individual building could be investigated inside a wider historical landscape and how urban morphology could contribute to guiding change; - the problem of the ancient patterns underlying the form of actual cities, which should cor rectly be posed as interdisciplinary but in fact has rarely led to collaboration between different disciplines; - the impact of the, modern retail structures in the transformation of historic centres.
Whitehand sulla morfologia urbana e la città storica
G. S. - Both M.R.G. Conzen and S. Muratori have derived part of their early theories from the concrete analysis of historic cities such as Alnwick, Rathenow, Newcastle, Ludlow, the former, and Venice and Rome the latter. These cities are very different from each other, even in the critical phase of modern industrialization. Don’t you think that, apart from their different scientific background, the dissimilar object of study has conditioned their method? And that some principles they recognized in the formation of the city are undoubtedly universally valid, but a part of their methods is not always generalizable? J. W. - A piece of advice I received from M. R. G. Conzen soon after I first met him in 1963 was ‘When you see the particular, always look for the general!’. It has stayed with me ever since. It was advice that Conzen had received during his very formative undergraduate years in the University of Berlin in the mid-to-late 1920s and early 1930s. At that time he had the good fortune to attend the lectures and field seminars of among others Albrecht Penck and Herbert Louis, both primarily physical geographers but with
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G. S. - A volte hai ricordato, come nel Forum di Pechino nel 2007, il problema della conservazione del paesaggio storico come opposto a quello di proteggere il singolo edificio storico. Il modo nel quale il singolo edificio si lega al più generale contesto storico è un problema particolarmente sentito dalla scuola morfologica italiana. Ma come pensi sia possibile proteggere un intero tessuto storico quando, per continuare a vivere, esso ha bisogno di essere trasformato? La morfologia urbana può contribuire ad indicare un metodo di intervento? J. W. - È un equivoco concepire il ruolo di conservazione della morfologia urbana nelle città storiche come unicamente rivolto a proteggere le forme esistenti. La consapevolezza dell’esistenza dei caratteri storici non è sufficiente. In molte città è più importante guidare il cambiamento in modo congruente con l’eredità storica. Per fare questo in modo efficace è necessaria la comprensione dei processi connessi alla trasformazione urbana, soprattutto sotto l’aspetto | Giuseppe Strappa | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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Fig. 1 - Vagabond, disegno a matita dal quaderno di schizzi di M.R.G. Conzen, c. 1926. Vagabond, pencil drawing from M.R.G. Conzen’s sketchbook, c. 1926.
wide perspectives. Their advice, and this specific piece in particular, was in my view more important in influencing Conzen’s theoretical contributions and perspective than the particular cities he investigated. However, the large historicogeographical span of his enquiries, extending in later years to Eastern Asia, was also part of the basis for his confidence in the validity of his approach. This is not, of course, to deny cross-cultural differences in the forms of historical cities, but it has reinforced confidence in the generality of major aspects of the methods he employed. Also important in underpinning the degree of generality of his methods and findings has been his exceptional ability to integrate across such a large span of cross-disciplinary knowledge, ranging from architecture to geography, geomorphology, history and planning.
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G. S. - Sometime you recalled, as in the 2007 Beijing Forum, the problem of the historical landscape preservation as opposed to the idea of protecting individual historical buildings. How individual building fit into a wider historical landscape is a problem particularly felt also by the Italian Morphological School. But how we can protect a whole urban fabric when, in order to live, it needs to be transformed? Could Urban Morphology contribute in indicating a method of intervention?
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Fig. 2 - Strada Romana a Blackston Edge, Monti Pennini, Inghilterra, disegno di M.R.G. Conzen dal Notebook IV, p. 62, giugno 1942. Roman road in Blackston Edge, Pennines, England, drawing from M.R.G. Conzen’s Notebook IV, p. 62, June 1942.
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fisico. Come questi si relazionano tra loro e, in particolare, è fondamentale il modo in cui si integrano. Conzen non solo ha disaggregato il paesaggio urbano nelle sue parti componenti, ma ha anche riconosciuto assemblaggi unitari di parti in quelle che chiamava “morphological regions”. Scoprire in questo modo i processi di formazione e trasformazione del paesaggio è stato visto da Conzen come parte importante del riconoscimento di nuove possibilità per il futuro. G. S. - U+D sta dedicando molta attenzione ai substata, alle forme antiche che sottendono la configurazione della città reale. Mi sembra un argomento che interessa anche i morfologi inglesi, considerata la presenza di numerose città di antica origine nel paese, come quelle anglosassoni. Poiché l’approccio di geografi e architetti considera il sostrato come spiegazione del presente, mentre l’approccio archeologico valorizza il presente principalmente in quanto fornisce prove sulle strutture passate, il problema dovrebbe essere correttamente posto come interdisciplinare. Nei fatti, invece, in Italia il problema ha raramente portato alla collaborazione tra diverse discipline. Qual è la situazione in Gran Bretagna? J. W. - Al centro della tradizione conzeniana c’è un approccio evolutivo: lavorare in avanti attraverso sequenze storiche piuttosto verso l’indietro a partire dai resti presenti nel paesaggio attuale. Questo approccio può trarre grandi vantaggi dalla collaborazione tra diverse discipline: in particolare tra archeologia, architettura, geografia, storia e pianificazione. Inoltre la morfologia urbana può trarre maggiore vantaggio dall’integrazione di una pluralità di
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J. W. - It is a misunderstanding to conceive of the conservation role of urban morphology in historical cities as purely one of protecting existing forms. In many cities it is more importantly about how to guide change in ways consistent with historical legacies. To do this effectively requires understanding the processes involved in urban change, especially physical change. Awareness of the existence of historical features is not enough. How they relate to one another and particularly how they fit together is critical. Conzen not only disaggregated the urban landscape into its component parts, but recognized unitary assemblages of parts in what he termed morphological regions. Uncovering the processes of urban landscape formation and change in this way was seen by Conzen as an important part of discovering possibilities for the future. G. S. - Our magazine is devoting attention to the substrata, the ancient patterns underlying the form of actual cities. It seems to me a topic that interests English morphologists too, because of the presence of numerous cities of ancient origin in the country, as the many Anglo Saxon ones. As the approach of geographers and architects values the substratum insofar as it elucidates the present, while archaeological approach values the present primarily as it provides evidence about past structures, the problem should correctly be posed as interdisciplinary, In fact, instead, in Italy, the problem has rarely led to collaboration between different disciplines. What is the situation in Britain? J. W. - Central to the Conzenian tradition is a developmental approach: working forward through historical sequences rather than backward from survivals in the present landscape. This approach can benefit greatly from the bringing together of different disciplines: notably archaeology, architecture, geography, history and planning. Indeed, urban morphology more widely can benefit from integration of a variety of disciplines, as has been demonstrated recently for a wider readership (Kropf, 2017; Ol-
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discipline, come è stato recentemente dimostrato per un pubblico più vasto (Kropf, 2017; Oliveira, 2016). Tuttavia, la quantità di ricerche sulla morfologia urbana basate su più di una disciplina, o sulla collaborazione di ricercatori formati in diverse discipline, rimane modesta in modo deludente. Che le cose stiano così, nonostante l’approccio interdisciplinare mostrato da Conzen nei suoi pionieristici studi, è per buona parte la conseguenza del ruolo tutt’altro che ideale della morfologia urbana all’interno dei sistemi di insegnamento.
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Fig. 4 - Città Vecchia di Ludlow, individuazione delle “morphological regions”. M.R.G. Conzen, 1946. Ludlow Old town, identification of the “morphological regions”. M.R.G. Conzen, 1946.
G. S. - M.R.G. Conzen aveva chiaramente posto il problema della trasformazione dei centri storici causata dall’introduzione di grandi e moderne strutture di vendita. Nel suo saggio Historical townscape in Britain che tu hai edito nel 1981, M.R.G. Conzen ha affermato che, sotto la pressione delle catene di centri di vendita, le città storiche rischiano di perdere due caratteri fondamentali, la continuità e la diversità, diventando non più distinguibili dal resto dell’ambiente. Anche il trasferimento delle attività commerciali nei grandi centri commerciali nelle fringe belt della città, svuotando il tessuto storico di un’attività tradizionale, sembra non aver risolto il problema. Come pensi che la morfologia urbana possa contribuire a una possibile soluzione?
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Fig. 3 - Fukuy, Giappone, con le cinta concentriche dei quartieri dei samurai (yashiki) nel 1659. M.R.G. Conzen, 1981. Fukuy, Japon, with concentric ring of samurai quarters (yashiki) in 1659. M.R.G. Conzen, 1981.
J. W. - Non esiste una soluzione rapida al problema delle intrusioni incongrue nei paesaggi urbani storici. Conzen ha discusso il problema oltre mezzo secolo fa e negli anni ’90 era entusiasta della parte che ISUF e Urban Morphology avrebbero potuto svolgere non solo a questo proposito, ma anche in termini più generali. La crescita della morfologia urbana come campo di conoscenza negli ultimi tre
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iveira, 2016). Yet the amount of actual research in urban morphology that is grounded in more than one discipline, or indeed based on the collaboration of researchers trained in different disciplines, remains disappointingly small. That this is so, in spite of Conzen’s interdisciplinary approach in his path-breaking studies, is in significant part a reflection of the far from ideal position of urban morphology within educational systems.
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G. S. - M.R.G. Conzen had clearly posed the problem of the transformation of historical centres due to the introduction of large, modern retail structures. In an essay on the “Historical townscape in Britain” that you published in 1981, M.R.G. Conzen stated that, under the pressure of chain store organization, the historical towns risk losing two fundamental characters, continuity and diversity, becoming indistinguishable from the rest of the environment. Even the relocation of commercial activities to large retail centers in the city fringe belts, emptying the historical fabric of a traditional activity, seem not to have solved the problem. How do you think UM could contribute to a possible solution?
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decenni è fuori di dubbio. Ma parte di questa crescita è in qualche modo illusoria, riflettendo solo un uso maggiore, e spesso un cattivo uso, del termine “morfologia urbana”. Tuttavia, la rivista Urban Morphology ha aumentato in modo evidente la sua diffusione, sebbene i suoi contenuti abbiano compreso solo una quantità relativamente modesta del dibattito sui problemi dello sviluppo del paesaggio urbano nelle città storiche, sui problemi che riguardano la loro scala e il loro carattere. Una grande difficoltà che si riscontra è il ruolo poco rilevante della morfologia urbana sia in campo accademico che all’interno delle professioni. Questa situazione riflette la sua limitata diffusione nell’ambito dell’istruzione superiore. Molti, forse la maggior parte, dei ricercatori e professionisti che si riconoscono come studiosi di morfologia urbana, lo fanno attraverso contatti a più alto livello o dopo essersi già affermati in un campo correlato.
J. W. - There is no quick solution to the problem of misfit intrusions into historical townscapes. Conzen discussed the problem over half a century ago and in the 1990s was enthusiastic about the part that ISUF and Urban Morphology could play in this respect and more generally. The growth of urban morphology as a field of knowledge over the past 3 decades is undoubted. But part of this growth is somewhat illusory, reflecting no more than greater usage, and often misusage, of the term ‘urban morphology’. Nevertheless, the journal Urban Morphology has demonstrably increased its circulation, albeit that its contents have included only relatively modest amounts of discussion of the problems of the scale and character of townscape development in historical cities. A major difficulty is the small size of urban morphology both as an academic field and within the professions. This reflects its limited coverage within higher education. Many, perhaps most, researchers and practitioners who come to identify themselves as urban morphologists do so through contacts at higher degree level or after having already established themselves in a related field.
Riferimenti bibliografici Conzen M.R.G. (1960) Alnwick, Northumberland: a study in town-plan analysis, Institute of British Geographers Publication 27, George Philip, London. Conzen M.R.G. (2004) Thinking about urban form: papers on urban morphology, 1932-1998, edited by M.P. Conzen, Peter Lang, Oxford, Bern. Kropf K. (2017) The handbook of urban morphology, Wiley, Chichester, UK. Oliveira V. (2016) Urban morphology: an introduction to the study of the physical form of cities, Springer, Switzerland.
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Fig. 5 - Individuazione degli edifici storici della città di Ludlow, Shropshire, Inghilterra. M.R.G. Conzen, 1946. Identification of the historical buildings in the city of Ludlow, Shropshire, England. M.R.G. Conzen, 1946.
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urbanform and design Archeologia dell’architettura e
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Paolo Carafa
Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università degli Studi di Roma “Sapienza”, Italy E-mail: paolo.carafa@uniroma1.it
Premessa
Archeology of Architecture and Landscape Archaeology. Scientific Hypotheses, History and Storytelling
Gli archeologi hanno a che fare con le cose: manufatti o, comunque, entità materiali. Il nostro principale oggetto di interesse è la città antica con i suoi monumenti e il suo territorio. Questi elementi definiscono diversi contesti fisici e storici rappresentati da paesaggi, sia urbani che rurali, in costante cambiamento. Comunicare paesaggi e architetture costituisce uno degli obiettivi principali del nostro gruppo di ricerca. La premessa di tutto ciò è la nostra idea di Patrimonio culturale materiale. Definiamo “paesaggio” il più grande oggetto concepibile dalla mente umana. Esso – e anche il Patrimonio culturale – può essere rappresentato come una realtà materiale integrata che collega manufatti – come monumenti e reperti – e che esiste come rete di relazioni in continua trasformazione o ridefinizione nel tempo e nello spazio. Il paesaggio esprime la storia culturale di individui e comunità e può essere rappresentato come un flusso costante di cambiamenti e continuità. Questo è il motivo per cui le analisi scientifiche delle città – comprese le architetture che in esse si trovano – e dei territori devono essere basate su una narrazione scientifica. Data la diversa e disparata natura delle testimonianze di cui trattiamo, era necessario un nuovo strumento operativo che, di fatto, è stato sviluppato (il Sistema di Informazione Archeologica), per aiutarci a ricostruire le relazioni del sistema originale che ha espresso i mutevoli paesaggi dell’Antichità. Per raggiungere questo obiettivo, l’integrazione e la ricostruzione sono diventate una fase fondamentale della nostra ricerca in cui possono essere uniti e combinati i metodi, le tecniche e le procedure operative tradizionali tipiche della topografia antica e dell’archeologia classica. Per di più, da un più ampio punto di vista, dobbiamo considerare la comunicazione culturale, e quindi una forma narrativa, come un requisito essenziale della nostra ricerca.
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Keywords: Archeology, Rome, landscape, archaeological information system Abstract This essay addresses the problem of the representation of the landscape as an integrated reality connecting artefacts as a network of relations constantly changing or re-assessed through time and space. Based on this definition, a new operating tool has been developed (the Archaeological Information System), merging and combining new and traditional methods to help in recreating the missing relations of the original network expressing the changing archeological landscapes. In the information system they were stored bibliographic and cartographic data relating to all the monuments and buildings of Rome. This computer update of the knowledge tools related to ancient Rome is particularly valuable and innovative if one thinks that the best tool available to scholars is still the precious “Form” of Lanciani published between 1893 and 1901. The Archaeological Map of Rome (drawn up from 1947 onwards) on the initiative of the Italian state, unfortunately is in fact focused on the representation of the findings mainly through the use of symbols. Cultural Communication, and therefore Narrative, is considered as an essential requirement of the research developed within this framework (the author provides some examples in this regard). Reformulating the traces of the eras that preceded us in narrative form, it will be possible to completely integrate the historical reconstruction with descriptions and sequences of ‘small’ and defined events as the only way to bring the real flow of monuments, landscapes and people back to the historical di¬mension.
archeologia del paesaggio. Ipotesi, storia e narrazione
Premise Archaeologists deal with things: artefacts or material entities, anyway. Our main object of interest is the ancient city with is monuments and its territory. Such elements define several physical and historical contexts represented by the constantly changing landscapes, either urban or rural. Communicating landscapes and architectures is one of the main aims of our research
Negli ultimi anni la creazione di paesaggi urbani e rurali è diventata un tema assai rilevante nell’analisi storica. Il dibattito si è concentrato sui processi spaziali e sociali e su diverse questioni culturali come la gestione del patrimonio o la comprensione del passato. Secondo questo tipo di approccio, il paesaggio esprime la storia culturale – o “Storia della vita” – degli individui e delle comunità e, pertanto, deve essere considerato un’entità storica (Van Manen, Burgers, Sebastiani, de Kleijn, 2016). Questo è il motivo per cui le analisi scientifiche di città e territori devono basarsi su una “narrazione” o biografia scientifica, l’unico modo per definire e comunicare le dinamiche del passato come flusso costante e continuo di cambiamenti (Samuels, 1979; Kopytoff, 1986; Gomez, 1998; Bloemers, Kars, van der Valk, Wijnen, 2010; Kolen, Renes, Hermans, 2015). Fino ad ora la Biografia del paesaggio è stata principalmente dedicata alla ricostruzione dei paesaggi rurali e, per quanto mi è stato possibile verificare, principalmente nei Paesi Bassi (Gillings, Pollard, 1999; Roymans, Gerritsen, van der Heijden, Bosma, Kolen, 2009), con una minore applicazio-
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Biografia del paesaggio
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Fig. 1 - Roma. A, Terme di Agrippa. B, Chiesa dei Santi Luca e Martina. Rome. A. Baths of Agrippa. B, Church of Saints Luca and Martina.
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ne nel contesto urbano principalmente legato all’architettura storica (Kolen, Renes, Hermans 2015, capitoli 10-13. Ricerche di storia dell’architettura precedenti che trattano le città da una prospettiva biografica includono Wohl, Strauss, 1958; Lynch, 1960; Boyer, 1994). Paesaggi e architetture, come prodotti culturali, sono oggetto di interesse per storici e archeologi. Sfortunatamente, i paesaggi antichi sono in genere scomparsi, se non completamente distrutti, e le reti di relazioni che li definivano sono state cancellate. Abbiamo perso l’integrità dei personaggi principali delle biografie che vorremmo scrivere. Possiamo usare, tuttavia, nuovi strumenti e fonti diverse per rivelare ciò che è stato perso. Abbiamo cercato di raggiungere questo obiettivo analizzando l’antica Roma. Un sistema informativo per l’archeologia di Roma Dobbiamo ammettere che quando ci rivolgiamo a Roma, la nostra visione dell’antica città è ancora principalmente quella di Rodolfo Lanciani. L’archeologo italiano pubblicò tra il 1893 e il 1901 una pianta di Roma – la Forma Urbis Romae – suddivisa in quarantasei tavole in scala 1:1000 e dalla superficie totale di 25 metri quadrati. Lanciani iniziò a disegnare la sua Forma nel 1867 e continuò a lavorare su questo capolavoro per venticinque anni. I resti di età romana sono raffigurati in diversi colori – la Roma della Repubblica in bistro, la Roma dell’Impero in nero – e tracciati sopra la città post-antica e moderna, rappresentata in sanguigna (Roma medievale e rinascimentale) e blu chiaro (Roma del XIX secolo). Egli ha riunito reperti e documenti (compresi i riferimenti bibliografici) raccolti e prodotti nell’arco di quasi un millennio, dal
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team. Basic premise for this is our idea of material Cultural Heritage. We define “landscape” the largest artefact conceivable by the human mind. It – and Cultural Heritage as well – can be represented as an integrated material reality connecting artefacts – such as monuments and objects – and existing as a network of relations constantly changing or re-assessed through time and space. Landscape is a cultural artifact, it expresses cultural history of individuals and communities and can be represented as a constant flow of changes and continuity This is the reason why, scientific analyses of cities – including architectures – and territories must be based on a scientific narrative. Given the different and dispersed nature of the evidence we deal with, a new operating tool was needed and it has been in fact developed (the Archaeological Information System), to help us in recreating the missing relations of the original network expressing the changing landscapes of Antiquity. To achieve such a goal integration and reconstruction became a fundamental phase of our research where the traditional methods, techniques and operating procedures typical of Ancient Topography and Classical Archaeology can be merged and combined. More than this, from a broader cultural point of view, we must consider Cultural Communication, and therefore Narrative, as an essential requirement of our research.
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decimo al diciannovesimo secolo. Questa meravigliosa pianta dell’antica Roma ha un carattere soprattutto topografico, ma il suo obiettivo era quello di andare oltre la topografia. Lanciani voleva registrare qualsiasi testimonianza disponibile e ricostruire una documentazione straordinariamente vasta e dispersa. Ha anche mirato alla ricostruzione dell’architettura integrando i resti esistenti. Né le istituzioni italiane, né gli studiosi sono stati in grado di aggiornare la Forma di Lanciani. Molti anni dopo, dopo la Seconda guerra mondiale, fu creata la Carta archeologica di Roma (dal 1947 in poi). Contiene nove tavole (in scala 1:2500). La Carta è stata un’iniziativa dello Stato italiano che, sfortunatamente, si è allontanato dalla Forma di Lanciani per concentrarsi sulla rappresentazione dei ritrovamenti attraverso l’uso di simboli. Solo le tavole 1-3 di quell’opera – che illustrano l’area settentrionale di Roma dal Vaticano al Colle del Pincio – sono state pubblicate tra il 1962 e il 1977 e parte della tavola 1 è stata rivista e ripubblicata come supplemento al Lexicon Topographicum Urbis Romae nel 2005 (Liverani-Tomei, 2005). Quindi, a parte la pianta di Lanciani ancora da aggiornare e una “nuova” pianta piena di simboli per lo più inediti, a Roma mancava uno strumento tanto efficiente da gestire tutte le informazioni necessarie per comprendere e ricostruire il paesaggio urbano. Abbiamo così deciso di creare il primo Sistema Informativo Archeologico dell’antica Roma. La premessa metodologica di base di questo approccio è quella di considerare le immagini della città nelle diverse epoche, come il risultato dell’unione delle piante di fase relative agli scavi archeologici e agli edifici storici appartenenti a ciascuna epoca.
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Landscape Biography In recent years the making of both urban and rural landscapes has become a key historical issue. The debate focused on spatial and social processes and on different cultural questions such as heritage management or understanding of the past. According to this kind of approach, landscape expresses the cultural history – or “Life History” – of individuals and communities and, therefore, it has to be considered an historical entity (Van Manen, Burgers, Sebastiani, de Kleijn, 2016). This is the reason why, scientific analyses of cities and territories has to be based on a scientific “narrative” or biography, the only way to define and communicate the dynamics of the past as a constant flow of changes and continuity (Samuels 1979; Kopytoff 1986; Gomez 1998; Bloemers, Kars, van der Valk, Wijnen 2010; Kolen, Renes, Hermans, 2015). Until now Landscape Biography has been mainly devoted in reconstructing rural landscapes and, as far as I know, mainly in the Netherlands (see e.g., Gillings, Pollard 1999; Roymans, Gerritsen, van der Heijden, Bosma, Kolen, 2009), with fewer application in urban context mostly related to historical architecture (Kolen, Renes, Hermans 2015, chapters 10-13. Older architectural (history) research treating cities from a biographical perspective include Wohl, Strauss 1958; Lynch 1960; Boyer, 1994). Landscapes and architectures, as cultural products, are object of interest for historians and
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Fig. 2 - A, Forma Urbis Marmorea, fr. 40 (Carettoni 1960); B, Palladio A., RIBA vol. IX fol. 14 v, 1534-1550 (per gentile concessione dell’American Academy in Rome); C, Peruzzi B., GDSU 456, 1561 ca. (Bartoli 1919-1922, tav. CLXXV fig. 310). A, Forma Urbis Marmorea, fr. 40 (Carettoni 1960); B, Palladio A., RIBA vol. IX fol. 14 v, 1534-1550 (courtesy of American Academy in Rome); C, Peruzzi B., GDSU 456, 1561 ca. (Bartoli 1919-1922, tav. CLXXV fig. 310).
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Il sistema informativo archeologico dell’antica Roma
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Fig. 3 - Pianta e ricostruzione delle Terme di Agrippa secondo Ch. Hülsen (1910). Plan and reconstruction of the Baths of Agrippa according to Ch. Hülsen (1910).
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Il nostro interesse primario è stato – ed è tuttora – intendere l’antica città come realtà materiale, dalla fase immediatamente precedente alla sua nascita (fine del X secolo a.C.) fino alla sua destrutturazione (durante la seconda metà del VI secolo a.C.). Studiare una città antica, come medievale, moderna o contemporanea, significa definire il flusso dei suoi paesaggi in trasformazione. Questo implica raccontare la sua storia attraverso la ricostruzione della sua “struttura” urbana e la disposizione topografica in diverse fasi. Grazie al sostegno finanziario di diverse istituzioni pubbliche italiane (disponibile tra il 1998 e il 2005), è stato creato un sistema informativo in cui sono stati archiviati i dati bibliografici e cartografici relativi a tutti i monumenti e gli edifici di Roma. Utilizzando questo database, il sistema è in grado di generare una serie di immagini (“piante di fase” archeologiche e rappresentazioni tematiche di diverse fasi) che illustrano lo sviluppo della città e dei suoi distretti (Regiones) nel tempo. Dalla pubblicazione della Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani (18931901), non è stata pubblicata nessuna carta archeologica di Roma contenente informazioni topografiche e cartografiche dettagliate riguardo le scoperte effettuate dagli inizi del XX secolo fino ai giorni nostri. Oggi l’Archaeological Information System (AIS) dell’antica Roma è l’unico strumento computerizzato in grado di gestire tutte le informazioni necessarie per ricostruire l’evoluzione del paesaggio urbano di qualsiasi città del mondo classico. Inoltre, l’AIS è uno strumento che aiuta nello studio e nella comprensione, nella comunicazione e nella salvaguardia di ciò che è rimasto, o è noto oggi, dell’antica Roma. Non si trattava solo di aggiornare le conoscenze disponibili o, più semplicemente, la carta archeologica di Roma. Era necessario creare nuove immagini che avrebbero restituito l’aspetto fisico del paesaggio urbano e che lo avrebbero riportato in vita. Non ci accontentiamo solo di analizzare i molti elementi ancora visibili della città antica. Le connessioni interrotte nel tempo tra oggetti e architetture, edifici visibili e non visibili, sono state riunite per riconoscere il sistema di contesti dei paesaggi urbani del passato.
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Utilizzo di varie fonti per rivelare ciò che è stato perso
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L’AIS è uno strumento (protetto da un brevetto) che funziona come una sorta di cervello in grado di generare o suggerire associazioni, contesti o sistemi di contesti. Attraverso l’uso di un nuovo modello di gestione delle informazioni (che combina le più recenti tecnologie informatiche con metodi innovativi di ricerca scientifica), AIS consente di analizzare e ricostruire il paesaggio antico attraverso l’integrazione e il confronto di qualsiasi tipo di documento: materiale, archeologico, storico e culturale. Ovvero: strutture e tracce/manufatti archeologici direttamente correlati all’architettura come decorazioni architettoniche, pavimenti, pareti e soffitti, sculture; fonti letterarie/scritte; iscrizioni; immagini di monumenti rappresentati su oggetti antichi (come monete, mosaici, dipinti, rilievi e così via) o disegni e dipinti databili dal Rinascimento al XIX secolo; carte storiche. Tutti i “documenti” classificati, in tutti i contesti di indagine, contribuiscono all’identificazione e/o alla caratterizzazione di uno o più componenti del paesaggio antico (singoli edifici, monumenti, blocchi, quartieri, infrastrutture, ecc.). Poiché questi rappresentano un’area geografica determinata o determinabile, si è deciso di assegnare coordinate geografiche assolute a tutti gli elementi da classificare trasferendoli su cartografia georeferenziata in formato vettoriale. Ciò, al fine di scomporre l’oggetto grafico a livelli significativi e ottenere piante tematiche in base alle esigenze cognitive dell’utente del sistema. Lo scopo più ampio di questa ricerca, oltre agli obiettivi scientifici, è quello di attuare interventi volti a: protezione e conoscenza del patrimonio archeologico e culturale – visibile e invisibile – in campo nazionale e internazionale; conoscenza e gestione culturale dei territori e del patrimonio; formazione avanzata.
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archaeologists, at least. Unfortunately, ancient landscapes are mainly disappeared, if not totally destroyed in some cases, and the network relations have been cancelled. We have lost the integrity of the main subjects of the biographies we would like to write. Nonetheless we can use new tools and different sources to reveal what has been lost. We tried to achieve this goal analyzing ancient Rome. An information system for the archaeology of Rome When we turn to Rome, we have to admit that our vision of the ancient city is still mostly that of Rodolfo Lanciani. The Italian archaeologist published between 1893 and 1901 a plan of Rome in forty-six maps at 1:1000 scale: the Forma Urbis Romae. The total surface of the plan is 25 square meters. Lanciani began drawing his Forma in 1867 and kept on working on such a masterpiece for twenty-five years. The roman remains are depicted in different colours – the Rome of the Republic in bistre, the Rome of the Empire in black – and plotted over the post antique and modern city, represented in sanguine (Medieval and Renaissance Rome) and light blue (19th century Rome). He brought together findings and documents (including bibliographical references) produced and collected over almost a millennium, from the tenth to the nineteenth centuries. This marvelous plan of ancient Rome has a basic topographic character, but his aim was to go
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Fig. 4 - Terme di Agrippa, ricostruzione. Età augustea (Atlante di Roma antica, 2017, tav.226). Baths of Agrippa, reconstruction. Augustan age (Atlas of Ancient Rome 2017, tab. 226).
Il paesaggio urbano, i suoi elementi costitutivi e la struttura logica del Sistema
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The Archeological Information System of Ancient Rome Our primary interest has been – and still is – the ancient city as a material reality, from the phase immediately prior to its birth (end of the tenth century b.c.e.) to its dismantling (during the second half of the sixth century c.e.). To study either an ancient city, or medieval, modern, or contemporary ones as well, means defining the flow of its changing landscapes. This means, to tell its story through the reconstruction of its urban “structure” and topographical lay-out in different phases. Thanks to the financial support of different Italian Public Institution (available between 1998 and 2005), an information system was created in which the bibliographic and cartographic data relating to all the monuments and buildings of Rome have been stored. Using this database, the system can generate a series of images (archaeological “phase plans” and thematic depictions of different phases) which illustrate the development of the city and of its districts (Regiones) over time. Since the publication of Forma Urbis Romae by Rodolfo Lanciani (1893-1901), no archaeological map of Rome has been published containing detailed topographic and cartographic evidence of the discoveries made from the beginning of the 20th century up to the present day. Today, the Archaeological Information System (AIS) of Ancient Rome is the only computerized instrument able to handle all the information needed to reconstruct the evolution of the urban landscape of any city in the classical world. More than this, the AIS has created an instrument which helps in the study and understanding, relating, enhancing, communicating and safeguarding the ancient city of Rome and what is left or known of it today. It hasn’t been only about updating the available knowledge or, more simply, the archaeological map of Rome. It was necessary to create new images that would give back the physical aspect of the urban landscape and that would bring it to life again. We are not just con-
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beyond topography. Lanciani wanted to record any available evidence and to reconstruct an extraordinarily vast and dispersed documentation. It also aimed at reconstruction of architecture, integrating existing remains. Neither Italian Institution nor scholar has been able to update the Forma of Lanciani. Many years later, after II World War, the Carta archeologica di Roma (Archeological Map of Rome) had been created (since 1947 on). It contains nine tables (1:2500 scale). The Carta was an initiative by the Italian state that, unfortunately, moved away from Lanciani’s Forma and focused on representing findings through the use of symbols. Just Tables 1–3 of that work – illustrating the northern area of Rome from the Vatican to Pincio Hill – were published between 1962 and 1977 and part of Table 1 was reviewed and republished as a supplement to the Lexicon Topographicum Urbis Romae in 2005 (Liverani-Tomei, 2005). So, apart from Lanciani’s plan still to be updated and a “new” plan full of symbols mostly unpublished, Rome was lacking an efficient instrument to manage all the information needed to understand and reconstruct the urban landscape and we decided to create the first Archaeological Information System of Ancient Rome. Basic methodological premise of this approach is to consider the images of the city in different periods the result of the join of the phase plans of any archaeological excavations or historical building belonging to that period.
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Poiché il paesaggio antico era una realtà fisica integrata composta da elementi completi, cioè “edifici” nel senso più ampio, l’elemento costitutivo base della struttura logica del sistema è una costruzione o un indizio di essa. Non importa quanto sia grande o piccolo, complesso o semplice, ricco o povero. Qualsiasi oggetto reale può essere classificato come elemento costitutivo del paesaggio. Abbiamo definito questi elementi “Unità topografiche”. Il paesaggio – urbano o rurale – è strutturato come una serie di scatole poste l’una nell’altra, che creano agglomerati sempre più estesi e complessi, a partire dall’unità topografica. Da un lato, le unità possono essere analizzate stratigraficamente per ricostruire la storia di singoli edifici e luoghi. Dall’altro, le unità possono essere aggregate per analizzare il paesaggio. Più di una unità formano un “Complesso monumentale”. Più complessi formano un “Blocco”. Più blocchi formano un “Distretto”. Tutti i distretti formano una città. Ricerca nel Sistema e ricostruzione I database del sistema possono essere interrogati per fasi cronologiche o tipologie e per una serie di altre possibili chiavi correlate a diversi metadati e documenti (nomi di luoghi ed edifici, autori antichi e così via). Pertanto, i risultati possono essere aggregati in contesti significativi e, sulla base di tutte le informazioni disponibili, i paesaggi urbani e le architetture possono essere integrati e ricostruiti. In questo modo, passo dopo passo e dove la ricerca lo consente, la città antica torna in vita con i suoi paesaggi e con le relazioni tra | Paolo Carafa | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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Fig. 5 - Terme di Agrippa, ricostruzione. Età adrianea (Atlante di Roma Antica, 2017, tav. 243). Baths of Agrippa, reconstruction. Age of Hadrian (Atlas of Ancient Rome 2017, tab. 243).
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le architetture, non solo ricostruite ma anche ricontestualizzate. Tutto ciò ha portato all’edizione dell’Atlante dell’antica Roma (A. Carandini con P. Carafa, a cura di, Atlante di Roma Antica, Electa, Milano 2017), il primo e unico (al momento) “racconto del paesaggio” di una città del mondo antico. Nell’Atlante abbiamo proposto una ricostruzione di 260 edifici o complessi monumentali (11 archi, 7 basiliche, 8 chiese, 3 colonne onorarie, 41 domus, 12 horrea, 11 insulae, 2 macella, 3 mitrei, 2 naumachie, 5 ninfei o fontane monumentali, 5 ponti, 10 portici, 69 templi e santuari, 3 teatri, 12 terme e balneae, 10 tombe e mausolei, la Regia, i rostri di Augusto e Diocleziano, i Fori Imperiali, i palazzi imperiali del monte Palatino e del Sessorium, il Circo Massimo, il Colosseo, il Ludus Magnus, il Pantheon, lo Stadio di Domiziano e sezioni delle mura urbane, porte (13), e torri delle epoche serviane e aurelianee, sezioni di acquedotti e cisterne (8) e 10 edifici pubblici di vario tipo). I dettagli inseriti nei disegni che abbiamo pubblicato sono rappresentati trasferendo “scelte scientifiche…nel disegno”, poiché le prove intese a sostenere tali ricostruzioni dovrebbero essere considerate uno “strumento scientifico valido come una teoria e come tale, per natura…soggetto a falsificazione” (Viscogliosi, 1999, p. 613). Nuove immagini per la biografia dell’antica Roma Alcuni esempi mostreranno come i documenti e le informazioni sui singoli monumenti inseriti nel Sistema possono essere valutati e come questi nuovi “dati” possono aiutarci a ricostruire la storia dei monumenti selezionati e, alla fine, a disegnare piante di fase aggiornate e corrette del paesaggio della città.
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tent with analysing the many elements still visible of the ancient city. The connections between objects and architectures, visible and non-visible buildings, which have been broken through time, have been re-joined to acknowledge the elements that compose the original system of contexts of the past urban landscapes. Using various sources to reveal that which has been lost The AIS is a tool (protected by a patent) which works as a kind of brain able to generate or suggest associations, contexts, or systems of contexts. Through the use of a new model of information management (which combines the latest computer technology with innovative methods of scientific collection and analysis of data), AIS allows to analyse and reconstruct the ancient landscape through the integration and comparison of any type of material, archaeological, historical and cultural “document”. That is: structures and archaeological features/artefacts directly related to architecture such as architectural, floors, walls and ceilings decorations, sculptures; literary/written sources; inscriptions; images of monuments represented on either ancient objects (such as coins, mosaics, paintings, reliefs and so forth) or drawings or paintings since the Renaissance to 19th century, historical charts. All the classified “documents”, in all investigated contexts, contribute to the identification and/or
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characterization of one or more of the components of the ancient landscape (individual buildings, monuments, blocks, neighbourhoods, infrastructure, etc.). Since these latter represent a determined or determinable geographical area, it was decided to assign absolute geographical coordinates to all the elements to be classified transferring and linking them to a current map in a vector format. This, in order to break down the graphic object in significant levels and obtain thematic plants based on the cognitive needs of the system’s user. The broader target of this research, apart from scientific goals, is to implement interventions aiming at: protection and knowledge of the archaeological and cultural heritage – visible and invisible – in the national and international field; knowledge and cultural management of territories and heritage; advanced training.
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Fig. 6 - Terme di Agrippa, ricostruzione. IV secolo D.C. (Atlante di Roma Antica, 2017, tav. f.t. 14). Baths of Agrippa, reconstruction. IV century AD (Atlas of Ancient Rome 2017, tab. a.t. 14).
The urban landscape, its constitutive elements and the logical structure of the System As the ancient landscape was an integrated physical reality composed by complete elements, that is “buildings” in the broadest sense, the logical core of the system is a construction or a clue of it. It doesn’t matter how large or small, complex or simple, rich or poor it was. Any real objects can be classified as constitutive elements of the landscape. We have defined such elements: Topographical Units. The landscape – either urban or rural – is structured like a series of boxes
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Le Terme di Agrippa sono tra i monumenti più famosi del Campus Martius, costruite dall’amico di Augusto tra il 25 e il 19 a.C. nelle sue proprietà tra l’Area Sacra di Largo Argentina e il Pantheon. Grazie alle fonti letterarie sappiamo che erano le terme pubbliche più antiche di Roma. Furono restaurate dopo l’incendio dell’80 d.C., da Adriano, da Settimio Severo e, ancora più tardi, verso la metà del IV secolo. Come molti altri famosi complessi monumentali di Roma, le Terme di Agrippa sono ancora in attesa di una corretta definizione topografica e architettonica. L’elemento più caratteristico dell’edificio era l’enorme sala rotonda, parzialmente conservata e ancora visibile in via dell’Arco della Ciambella, con un diametro di circa 25 metri. La prima ricostruzione di queste terme è stata proposta dal Ch. Hülsen nel 1910 ed accolta dagli studiosi ancora oggi. Poche pareti in opera laterizia, risalenti al periodo tardo imperiale (tra il III e il IV secolo d.C.) e appartenenti alle Terme, sono visibili nei piani sotterranei e superiori delle costruzioni moderne della zona. La pianta di questi resti, situati su entrambi i lati di via dell’Arco della Ciambella, mostra gran parte di un’enorme sala rotonda, un lato di una stanza quadrata, forse coperta da una volta a crociera e con un’abside (Ten e Migliorati, 2016). Questo è quanto possiamo apprezzare dai resti ancora visibili. Ma le informazioni più rilevanti riguardo la pianta delle terme provengono da tre “immagini”: (fig. 2) 1. un frammento di una pianta marmorea di Roma, antecedente alla Forma Urbis Marmorea di età severiana e probabilmente risalente all’età flavia (Carettoni, 1960 fr. 40); | Paolo Carafa | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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put one into the other, creating more and more extended and complex agglomerates, beginning from the Topographical Unit. On the one hand, Units can be analysed stratigraphically to rebuild history of single buildings and places. On the other hand, Units can be aggregated to analyse the landscape. Many Units form a “monumental complex”. Many complexes form a “block”. Many blocks form a “district”. All the districts form a city.
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Fig. 7 - I cosiddetti Bassorilievi Capitolini. The so called Capitolini Reliefs.
Search the System and reconstruct The system databases can be queried for chronological phases or typologies and for a number of other possible key related to different documents meta-data (names of places and buildings, ancient authors and so forth). Therefore, results can be aggregated in significant contexts and, on the basis of all the available information, the urban landscapes and the architectures can be integrated and reconstructed. In this way, step by step and where the research allows it, the ancient city comes back to life, with its landscapes and with the relations among the architectures, not only reconstructed but also recontextualized. All this led to the edition of the Atlas of ancient Rome (A. Carandini with P. Carafa (eds.), The Atlas of Ancient Rome, Princeton University Press, 2017), the first and one (at the moment) “tale of the landscape” of a city of the ancient world. In the Atlas, we have proposed a reconstruction for 260 buildings or monumental complexes (11 arches, 7 basilicas, 8 churches, 3 honorary columns, 41 domūs, 12 horrea, 11 insulae, 2 macella, 3 mithraea, 2 naumachias, 5 nymphaea or monumental fountains, 5 bridges, 10 porticūs, 69 temples and sanctuaries, 3 theaters, 12 thermae and balneae, 10 tombs and mausolea, the Regia, the rostra Augustan and Diocletian, the Imperial Forums, the imperial palaces of Palatine Hill and Sessorium, Circus Maximus, the Colosseum, the ludus Magnus, the Pantheon, the Stadium of Domitian, and sections of the city walls, gates (13), and towers from the eras of Servianus and Aurelian, sections of aqueducts and cisterns (8), and 10 public buildings of various types) . The details inserted in the drawings we published are represented by transferring “scientific choices... into drawing,” because the evidence intended to support such reconstructions should be considered a “scientific tool as valid as a theory, and as such, by nature...subject to falsification.” (Viscogliosi 1999, page 613).
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Fig. 8 - A. da Sangallo il Giovane, Firenze GDSU A 896, prima del 1594. A. da Sangallo il Giovane, Firenze GDSU A 896, before 1594.
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2. un disegno di Andrea Palladio datato forse tra il 1534 e il 1550, e sicuramente prima del 1579, ora nella collezione del Royal Institut of British Architecture di Londra (RIBA vol. IX fol. 14 v) (Zorzi, 1959); 3. un disegno di Baldassarre Peruzzi risalente al 1561 circa ora agli Uffizi di Firenze (GDSU 456) (Bartoli 1919-1922, tav. CLXXV fig. 310. Per l’importanza dei disegni di Palladio e Peruzzi come documenti affidabili delle strutture di età romana vedi http://www.map.archi.fr/cst/documents/tesicompleta.pdf (checked May 16th 2016): Chiara Stefani, Tesi di Laurea I disegni palladiani delle Terme di Agrippa a Roma. Ricostruzione geometrica del progetto e analisi configurative. Relatore: prof. arch. Alberto Sdegno. correlatore: prof. arch. Agostino de Rosa, Università I.U.A.V. di Venezia, Facoltà di Architettura, Anno Accademico 2003/2004). Queste planimetrie possono essere facilmente georeferenziate e trasformate in formato vettoriale grazie alla presenza della sala rotonda (fig. 2 numeri 1, 2 e 3) e della cosiddetta basilica Neptuni, una grande sala rettangolare addossata sul retro del Pantheon (fig. 2 numero 2). In particolare, le misure indicate da Palladio (fig. 2 numero 2) corrispondono alle misure ricavate dopo la deformazione effettuata dal sistema una volta ancorata la pianta a coordinate geografiche assolute, indicando probabilmente la correttezza dei calcoli su cui si basa lo schizzo architettonico. Le immagini riprodotte nei tre documenti sono diverse l’una dall’altra e nessuna di loro sembra avere corrispondenze con la ricostruzione proposta da Hülsen (fig. 3). La situazione cambia se consideriamo le immagini in termini di fasi diverse dello stesso monumento. La cronologia del frammento di marmo – età flavia – può indicare il terminus ante quem per l’immagine scolpita sulla sua superficie. Pertanto, potrebbe
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New images for the biography of Ancient Rome Some examples will show how documents and information about single monuments entered into the System can be assessed and how these new statements can help us in reconstructing the history of selected monuments and, in the end, in drawing updated and correct phase plans of the city’s landscape. The Baths of Agrippa The Baths of Agrippa are among the most famous monuments in Campus Martius, built by the Augustus’ friend between 25 and 19 b.c.e. in his properties between the Sacred Area of Largo Argentina and the Pantheon. Thank to literary sources we know they were the most ancient public baths in Rome. Restored after the 80 c.e. fire, by Hadrian, by Septimius Severus and once again later on around mid 4th century. Like many other famous monumental complexes in Rome, the Baths of Agrippa are still waiting for a proper topographical and architectural definition. Most substantial feature of the building was the huge
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Fig. 9 - Arcus Marci Aurelii, ricostruzione (Atlante di Roma Antica, 2017, tav. 270). 1. Profectio (Arco di Costantino); 2. Lustratio (Arco di Costantino); 3. Adlocutio (Arco di Costantino); 4. Captivi (Arco di Costantino); 5. Clementia (Arco di Costantino); 6. Rex datus (Arco di Costantino); 7. Adventus (Arco di Costantino); 8. Liberalitas (Arco di Costantino); 9. Deditio (Musei Capitolini); 10. Triumphus (Musei Capitolini); 11. Sacrificium (Musei Capitolini); 12. Adlocutio? (frammento di bassorilievo, Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen). Arcus Marci Aurelii, reconstruction (Atlas of Ancient Rome 2017, tab. 270). 1. Profectio (Arch of Costantine); 2. Lustratio (Arch of Costantine); 3. Adlocutio (Arch of Costantine); 4. Captivi (Arch of Costantine); 5. Clementia (Arch of Costantine); 6. Rex datus (Arch of Costantine); 7. Adventus (Arch of Costantine); 8. Liberalitas (Arch of Costantine); 9. Deditio (Musei Capitolini); 10. Triumphus (Musei Capitolini); 11. Sacrificium (Musei Capitolini); 12. Adlocutio? (fragment of relief, Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen).
forse rappresentare la pianta “originale” delle Terme o almeno la sua fase successiva al cosiddetto incendio di Tito nell’anno 80 (fase 1). Il disegno di Palladio include la cosiddetta Basilica Neptuni, unita al Pantheon di Adriano e saldamente datata al II secolo d.C. grazie alla tecnica costruttiva e allo stile della decorazione architettonica (fase 2). Il disegno degli Uffizi, infine, ci consente di integrare la parte meridionale del disegno del Palladio. Tracciando il disegno sulla carta archeologica dei pochi resti che abbiamo menzionato sopra, è possibile notare che un certo numero di stanze si estendeva oltre il limite originale del Saepta, indicando quindi eventualmente una fase di sviluppo dell’edificio ancora più recente, sia essa correlata al restauro del IV secolo o meno (fase 3). Considerando tutto ciò, proponiamo di inserire le diverse immagini in tre diversi piante di fase, integrate in tre diversi livelli topografici e che suggeriscono diverse ricostruzioni architettoniche (figure 4-6).
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round hall, partially preserved and still visible in via dell’Arco della Ciambella, with a diameter of about 25 meters. The first reconstruction has been proposed by Ch. Hülsen in 1910 and maintained until today. Few walls in bricks, dating to late imperial period (between 3rd and 4th century AD) and belonging to the baths can still be seen in the underground and upper floors of modern constructions in the area. The chart of these remains, located on both sides of via dell’Arco della Ciambella, shows large part of a huge round hall, one side of a square room, possibly covered with a cross vault and an apse (Ten e Migliorati, 2016). This is as far as we can go according to the visible remains. But more relevant information about the lay out of the thermae comes from three “illustrations”: (fig. 2) 1. a fragment of a marble plan of Rome, earlier than the Forma Urbis Marmorea of Severan age and probably dating to Flavian age (Carettoni, 1960, fr. 40); 2. a drawing by Andrea Palladio dated possibly between 1534 and 1550 and surely before 1579, now in the collection of the Royal Institut of British Architecture in London (RIBA vol. IX fol. 14 v) (Zorzi, 1959); 3. a drawing by Baldassarre Peruzzi dated circa 1561 now in the Uffizi in Florence (GDSU 456) (Bartoli 1919-1922, tav. CLXXV fig. 310. For the relevance of Palladio’s and Peruzzi’s drawing as reliable documents of the roman structures see http://www.map.archi.fr/cst/documents/tesicompleta.pdf (checked May 16th 2016): Chiara Stefani, Tesi di Laurea I disegni palladiani delle Terme di Agrippa a Roma. Ricostruzione geometrica del progetto e analisi configurative. Relatore: prof. arch. Alberto Sdegno. correlatore: prof. arch. Agostino de Rosa, Università I.U.A.V. di Venezia, Facoltà di Architettura, Anno Accademico 2003/2004). These figures can be easily geo-referenced and transformed in vector format due to the presence of the round hall (fig. 2 numbers 1, 2 and 3) and the so called basilica Neptuni, a large rectangular hall attached to the Pantheon and placed at its back (fig. 2 number 2). In particular, the measures indicated by Palladio (fig. 2 number 2) correspond to measure obtained once the drawing has been geo-referenced, probably indicating the correctness of the calculations which the architectural sketch is based on. The images reproduced in the three documents are different from one another and no one of them seems to have parallels with the proposed reconstruction proposed by Hülsen (fig. 3). Things may look different if we consider the images in terms of different phases of the same monument. The chronology of the marble fragment – Flavian age – may indicate the terminus ante quem for the image carved on its surface. Therefore, it could possibly represent the “original” plan of the baths or at least its lay-out after the socalled Titus fire in year 80 (Phase 1). Palladio’s drawing includes the so-called Basilica Neptuni, joined to Hadrian’s Pantheon and firmly dated to 2nd century c.e. thanks to building technique and style of architectural decoration (Phase 2?). The Uffizi drawing, at last, allows us to integrate the southern part of Palladio’s drawing. Plotting the drawing over the archaeological chart of the few remains we mentioned above, it is possible to note that a number of rooms extended across the original limit of the Saepta, thus possibly indicating an even later stage of development of the building, be it related to the 4th century res-
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L’arcus Marci Aurelii Nel 1515 tre rilievi di marmo noti come rilievi di Marco Aurelio furono trasportati nel Palazzo dei Conservatori sul Campidoglio (fig.7). Queste famose sculture rappresentano l’imperatore che agisce in diverse scene: una deditio, un trionfo e la celebrazione di un sacrificio, probabilmente al termine di un trionfo, di fronte al Tempio di Giove Ottone Massimo. Nei documenti rinascimentali, i rilievi sono chiamati tabulae triumphales e facevano parte della decorazione della Chiesa dei Santi Luca e Martina (vista nel 1510 e nel 1513), collocata ai piedi del Campidoglio presso la Curia Iulia. La chiesa fu poi distrut| Paolo Carafa | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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toration or not (phase 3?). Considering all this, we propose to insert the different images in three different phase plans, integrated in three different topographical layouts and suggesting different architectural reconstructions (figures 4-6).
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The arcus Marci Aurelii In 1515 three marble reliefs known as the Marcus Aurelius’ reliefs were transported in the Palazzo dei Conservatori on the Capitol (fig. 7). These famous sculptures represent the emperor acting in different scenes: a deditio, a triumph and the celebration of a sacrifice, possibly at the end of a triumph, in front of the Temple of Jupiter Optimus Maximus. In Renaissance documents, the reliefs are called tabulae triumphales and they were part of the decoration of the Church of Santi Luca e Martina (seen in 1510 and 1513), placed at the foot of the Capitol right above the Curia Iulia. The Church was then destroyed between 1594 and 1595 to be rebuilt in different form. The reliefs are very similar in dimension and style to the eight panel of the same age placed on the attic of the Arch of Constantine. Also, the fragment of a marble head of Marcus Aurelius of unknown provenance, now in Copenhagen Ny Carlsberg Glyptothek, has been attributed to the same group for stylistic reason. It has been long debated whether the two groups of reliefs may be attributed to the same monument, probably a triumphal arch and this possibility is now largely accepted. Moreover, the Codex of Einsiedeln mentions a monumental inscription commemorating Marcus Aurelius’ triumph in year 176, now included in the Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL VI 1014), located in the same area. For these reasons it has been proposed to identify this possible arch with the arcus Aureus or Panis Aurei mentioned in the Mirabilia Urbis Romae (paragraph 3), the medieval text written in 1140s (Tortorella, 2013, pp. 642-649). Recently, Alessandro Viscogliosi identified a map of the area between the Curia and the Church of Santi Luca e Martina drawn by Antonio da Sangallo il Giovane before 1594 (Firenze GDSU A 896), illustrating the earlier plan of the church (fig. 8). Here are clearly visible two pillars – m. 3,13 x 5,03 – included in the building façade. Once we plot the Sangallo’s plan over the archaeological chart, we see that the central axe of the two pillars is perfectly in line with the axe of the Temple of Mars Ultor in the Forum of Augustus. Viscogliosi himself suggests to identify these pillars with the arcus, or part of the arcus, originally decorated by the Capitolini reliefs and the panels on the Arcus of Constatine, be it the same of aurcus Aureus or not. From an architectural point of view, he envisions two possibilities: a “simple” arch with just one fornix, like the Arches of Trajan in Benevento and in Ancona, or a tetrapylon with a gate on each of the four sides (Viscogliosi, 2000, pp. 29-40). If we try to imagine how the missing part of this monument could have looked like on the base of possible archaeological comparisons, we realize that the pillars and the attic of such an arch would be narrow compared to the dimensions of the Capitolini reliefs (see table below).
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ta tra il 1594 e il 1595 per essere ricostruita in diverse forme. I rilievi sono molto simili per dimensione e stile agli otto pannelli della stessa epoca collocati sull’attico dell’Arco di Costantino. Anche il frammento di una testa marmorea di Marco Aurelio, di provenienza sconosciuta e ora conservata presso la Ny Carlsberg Glyptothek di Copenaghen, è stato attribuito allo stesso gruppo per motivi stilistici. Si è dibattuto a lungo se i due gruppi di rilievi potessero essere attribuiti allo stesso monumento, probabilmente un arco trionfale: possibilità ora ampiamente accettata. Inoltre, il Codice di Einsiedeln menziona un’iscrizione monumentale che commemora il trionfo di Marco Aurelio nell’anno 176, ora inclusa nel Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL VI 1014), vista e documentata nella stessa area. Per questi motivi è stato proposto di identificare questo possibile arco con l’arco Aureus o Panis Aurei menzionato nei Mirabilia Urbis Romae (paragrafo 3), un testo medievale databile al 1140 (Tortorella, 2013, pp. 642-649). Di recente, Alessandro Viscogliosi, ha identificato una pianta dell’area tra la Curia e la Chiesa dei Santi Luca e Martina, disegnata da Antonio da Sangallo il Giovane prima del 1594 (Firenze GDSU A 896), che illustra la planimetria della chiesa prima della distruzione (fig. 8). Qui sono chiaramente visibili due pilastri – m. 3,13 x 5,03 – inclusi nella facciata dell’edificio. Una volta posizionata la pianta di Sangallo sulla carta archeologica, vediamo che l’asse centrale dei due pilastri è perfettamente in linea con l’asse del Tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto. Lo stesso Viscogliosi suggerisce di identificare questi pilastri con l’arco, o parte dell’arco, originariamente decorato dai rilievi Capitolini e dai pannelli sull’Arco di Costantino. È più difficile, invece, stabilire se questo possibile arco sia l’Arcus Aureus o no. Da un punto di vista architettonico, egli prevede due possibilità: un arco “semplice” con un solo fornice, come gli archi di Traiano a Benevento e ad Ancona, o un tetrapylon con un fornice su ciascuno dei quattro lati (Viscogliosi, 2000, pp. 29-40). Ma se proviamo a immaginare come potrebbe apparire la parte mancante di questo monumento sulla base dei possibili confronti archeologici, ci rendiamo conto che i pilastri e l’attico di un tale arco sarebbero troppo piccoli rispetto alle dimensioni dei rilievi Capitolini (vedi tabella sotto). Rilievi Capitolini
Ampiezza del pilastro m. 3,13
Ampiezza m. 3,24
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Possibile Arco
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L’arco non sarebbe paragonabile né con l’Arco di Tito né con il cosiddetto Arco di Giano nel Foro Boario. Tuttavia, la larghezza del fornice e la dimensione dei pilastri possono essere confrontate con i fornici minori del vicino dall’Arco di Settimio Severo e dell’Arco di Costantino. Pertanto, è possibile associare i pilastri visti nella Chiesa dei Santi Luca e Martina a un diverso tipo di monumento sulla base di diversi confronti archeologici: un arco a tre fornici. Si acquisisce così lo spazio sufficiente per collocarvi i 12 rilievi e l’iscrizione monumentale menzionata dal Codice di Einsiedeln (fig. 9). Secondo questa nuova possibilità, le piante di fase dell’area tra la pendice dell’Arx e l’angolo nord-ovest del Foro Romano potrebbero essere aggiornate, inserendo un possibile arco, molto simile al successivo Arcus Septimi Severi e all’Arcus Constantini su un lato del Curia (fig.10). La storia del paesaggio In conclusione. Dobbiamo recuperare l’aspetto fisico, l’estensione e possibilmente l’ambiente dei paesaggi antichi scomparsi, sia urbani che rurali, prima di procedere verso interpretazioni e narrazioni culturali e storiche. Data la diversa e dispersa natura della documentazione che dobbiamo gestire, abbiamo bisogno di uno strumento operativo che ci aiuti a ricreare le relazioni mancanti del sistema originario. Noi abbiamo creato il Sistema Informativo
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Possible Arch
Capitolini reliefs
Width of the pillar m. Width m. 3,24 3,13
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Fig. 10 - L’angolo nord ovest del Foro Romano alla fine del II secolo D.C. con la possibile posizione dell’arco di Marco Aurelio (lettera A numero 3; Atlante di Roma Antica, 2017, tav. 270). The north west corner of the Roman Forum in late 2nd century AD with the possible location of the arcus Marci Aurelii (letter A, number 3; Atlas of Ancient Rome 2017, tab. 270)
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| Paolo Carafa | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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The tale of the landscape To conclude. We have to recover physical lay-out, extent and possibly environment of disappeared ancient landscapes, whether urban or rural, before trying to move towards cultural and historical interpretation and narrative. Given the different and dispersed nature of the evidence we have to deal with, we need an operating tool to help us in recreating the missing relations of the
Archeologico. Inoltre, lo stato di conservazione dei manufatti conservati è frammentario. Anche un monumento imponente e “comprensibile”, come il Pantheon, rivela parti mancanti o fasi sconosciute e nascoste, testimoniate da scarsi indizi. L’integrazione e la ricostruzione dovrebbero diventare una fase fondamentale della nostra ricerca in cui i metodi, le tecniche e le procedure operative tradizionali tipiche della topografia antica e dell’archeologia classica possano essere uniti e combinati. Il risultato principale di questo approccio è la possibilità di considerare il nostro oggetto di interesse – il paesaggio come un manufatto culturale – a diverse scale, da tutta la città alla singola unità topografica, e nella sua evoluzione nel tempo. Ciò ci consente di estrarre dalle testimonianze che raccogliamo ciò che definisco il “racconto del paesaggio”, ovvero le serie di cambiamenti documentati da testimonianze materiali connesse o riconnesse ad altre informazioni. Come abbiamo visto, possiamo recuperare queste informazioni aggiuntive grazie a diverse fonti correlate a tempi e luoghi specifici. Facendo riferimento alle procedure filologiche, qualsiasi luogo o monumento potrebbe essere trasformato in un’edizione critica: un tentativo di stabilire un “miglior testo” (il più vicino possibile al “testo originale” o “Ur-Text” dell’autore) attraverso il confronto di varie versioni possibili (Bidez e Drachmann, 1932). Inutile dire che dobbiamo essere ben consapevoli dell’affidabilità di fonti o documenti che assumiamo come prova di parti del paesaggio antico. I casi di studio che abbiamo discusso, in particolare le Terme di Agrippa, mostrano che anche le immagini condivise dalla comunità scientifica possono rivelarsi ricostruzioni molto discutibili piuttosto che edizioni critiche di monumenti basate sulla reale consistenza dei dati.
Height of the attic m. Height m. 3,90 2,70
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The arch would also be comparable neither with the Arch of Titus nor with the so-called Arch of Janus in the Forum Boarium. However, the width of the fornix and the dimension of the pillars can be easily compared with the fornices minores of the near by Arch of Septimius Severus and of the Arch of Constantine. Therefore, it could be possible to refer the pillars seen in the Church of Santi Luca e Martina to a different kind of monument, related to different archaeological comparisons and acquiring enough space to locate the 12 reliefs and the monumental inscription mentioned by the Codex of Einsiedeln (fig. 9). According to this new possibility, the phase plans of the area between the Arx slope and the north west corner of the Roman Forum could be updated, including a possible arch, very similar to the later arcus Septimi Severi and arcus Constantini on one side of the Curia (fig. 10).
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original network. We have given ourselves the Archaeological Information System. Moreover, the state of preservation of the surviving artifacts is fragmentary. Even imposing and comprehensible monument, such as the Pantheon, have missing parts or hidden unknown phases, witnessed by scanty clues. Integration and reconstruction should become a fundamental phase of our research where the traditional methods, techniques and operating procedures typical of Ancient Topography and Classical Archaeology can be merged and combined. The main result of this approach is the possibility of considering our object of interest – the landscape as a cultural artifact – at different scales, from the whole city to the single Topographic Unit, and in its evolution through the time. This would allow us to extract from the evidence we collect what I call the “tale of the landscape”, that is the series of changing testified by material remains connected – or re-connected – to other information. As we have seen, we can recover this additional information thanks to different sources related to specific times and places. Referring to philological procedures, any place or monument could be turned into a critical edition: an attempt to establish a “best text” (as close as possible to the author’s “Ur-Text”) through comparison of various possible versions (Bidez and Drachmann, 1932). It goes without saying that we have to be well aware of the reliability of sources or documents we assume as evidence of parts of the ancient landscape. The case studies we have discussed, the Baths of Agrippa in particular, show that also images shared by the scientific community can turn out to be very questionable reconstructions rather than critical editions of monuments based on the real consistency of evidence. During centuries of discoveries and excavations, in Rome as well as in any place on the World, an impressive collection of traces, finds, stratifications and structures have been unearthed or documented, dating from Antiquity to Middle Ages and beyond. Thanks to our research methodologies, this conspicuous and varied mass of ‘fragments’ can be recomposed, classified, ordered in time and space and, finally, transformed into structured documents that testify to pieces of a single story: in our case the history of ancient Rome. This story can, and should, be told. This need derives from the obvious consideration that narrative form is the only way to communicate a becoming. But there is an additional reason to merge our research into a story (G. Van Straten, Narrare il passato è arte e scienza. Così storia e romanzo sono alleati, Corriere della Sera 27/12/2019). Only by reformulating the traces of the eras that preceded us in narrative form, it will be possible to completely integrate the historical reconstruction with descriptions and sequences of ‘small’ and defined events. This is the only way to bring the real flow of monuments, landscapes and people back to the historical dimension.
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Nel corso di secoli di scoperte e scavi, a Roma e in qualsiasi parte del mondo, è stata rinvenuta o documentata un’impressionante congerie di tracce, reperti, stratificazioni e strutture, risalenti dall’antichità fino al Medioevo e oltre. Grazie alle nostre metodologie di ricerca, questa cospicua e variegata massa di “frammenti” può essere ricomposta, classificata, ordinata nel tempo e nello spazio e, infine, trasformata in documenti strutturati che testimoniano pezzi di una singola storia: nel nostro caso la storia dell’antica Roma. Questa storia può e dovrebbe essere raccontata. Tale necessità deriva dall’ovvia considerazione che la forma narrativa è l’unico modo per comunicare un divenire. Ma c’è un motivo in più per fondere la nostra ricerca in una storia (G. Van Straten, Narrare il passato è arte e scienza. Così storia e romanzo sono alleati, Corriere della Sera 27/12/2019). Solo riformulando le tracce delle epoche che ci hanno preceduto in forma narrativa, sarà possibile integrare completamente la ricostruzione storica con descrizioni e sequenze di eventi “piccoli” e definiti. Questo è l’unico modo per riportare il flusso reale di monumenti, paesaggi e persone alla loro dimensione storica.
Riferimenti bibliografici
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urbanform and design Il paesaggio come sedimento storico.
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Il santuario rupestre di Macchia delle Valli tra Vetralla e Villa San Giovanni in Tuscia Luigi Franciosini
Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Roma 3 E-mail: luigi.franciosini@uniroma3.it
The landscape as a historical sediment. The rocky sanctuary of Macchia delle Valli between Vetralla and Villa San Giovanni in Tuscia
During the long and not yet completed research on funerary architecture – a historical observation faced with the critical tools of a designer on ritual practices and burial techniques – I immediately noticed how that study would bring me towards a new state of awareness: i.e. to the origins of architecture (Giedion, 1965), as a spiritual manifestation, as a visible manifestation of beauty. As Hegel reminds us, “... as agriculture fixes the wandering of nomads to properties of stable sites, so graves, sepulchral monuments and the dead cult of link men in general and also damage those who have no fixed abode, nor property enclosure, a place of reunion, holy places, which they defend and which do not want to be torn off”. In this sentence, values on which we intensely debate are highlighted: identity and recognition of places, persistence and duration, representation of feelings, recognition and memory. In other terms, along this research, I noticed contents that set criteria and categories for an aesthetic of architecture. In the study of funerary architecture I have experimented the relationship between the soil
Durante la lunga e non ancora terminata ricerca sull’architettura funeraria, un’osservazione storica affrontata con gli strumenti critici di un progettista sulle pratiche rituali e tecniche di sepoltura, avvertii, fin da subito, che quello studio mi avrebbe condotto verso un nuovo stato di consapevolezza: mi avrebbe portato alle origini dell’architettura (Giedion, 1965), come manifestazione spirituale, come manifestazione visibile del bello. Così ci ricorda Hegel “…come l’agricoltura fissa il vagare nomade a proprietà di siti stabili, così le tombe, i monumenti sepolcrali e il culto dei morti uniscono in generale gli uomini e danno anche a coloro che non hanno fissa dimora, né proprietà recinta, un luogo di riunione, dei luoghi santi, che essi difendono e che non vogliono farsi strappare”. In questo pronunciamento si evidenziano valori sui quali si dibatte intensamente: identità e riconoscimento dei luoghi, persistenza e durata, rappresentazione dei sentimenti, riconoscimento e memoria. In altri termini, lungo questa ricerca, ho incontrato contenuti che fissano criteri e categorie per un’estetica dell’architettura. Nello studio dell’architettura funeraria ho sperimentato il rapporto tra il suolo e il sottosuolo, tra la materia intesa come risorsa concreta e come deposito volatile di memoria; ho incontrato concezioni mitiche religiose, liturgie, luoghi e spazialità, tecniche e rappresentazioni simboliche: nient’altro che narrazioni. Tra tanti monumenti e siti di cui mi sono interessato (tra quelli che ricadono nel territorio dell’Etruria Meridionale), vorrei soffermarmi su uno che, a mio avviso, riassume in modo rappresentativo alcune atmosfere, alcune dimensioni spirituali e materiali profondamente connesse al senso antico dell’abitare la terra. Il tema di questo racconto (di cui non potrebbero essere viste la complessità e profondità dei temi) è la forma e la natura del suolo e le conseguenze e interrelazioni che esse producono con l’abitare, con i comportamenti religiosi, rituali e produttivi, con i risvolti simbolici e terreni. Questo interesse è nell’aver considerato indispensabile comprendere (nell’agire come artefice nell’esperienza di architetto e di docente universitario), il rapporto complesso e vitale che lega tenacemente l’uomo alla terra, l’uomo alla materia, allo scopo di conformarla e adattarla alle proprie immagini e rappresentazioni: un’attività attenta e coraggiosa e che, nel compiersi, adotta un sito, una materia, una topografia, con l’obiettivo di qualificarli attraverso la forma che in essi prenderà corpo. Anzi, per rafforzare questo incontro potremo provare a dire che la nascita dell’idea (l’immagine della cosa che si va pensando e che precede il suo essere cosa concreta) non si compie come azione astratta, autonoma e indipendente, che procede dal fuori fino a incontrare la massa indeterminata e passiva del suolo, della materia, ma al contrario essa si compie riconoscendo i tratti specifici (le caratteristiche, le resistenze, le duttilità), così che l’immagine ideale che ci siamo formati prende forma in un contesto che le corrisponde e che non può che essere il suo (“…l’intenzione formativa sorge solo quando cerca e reclama, anzi sceglie e adotta la sua materia, e tende a prender corpo in quella determinatissima materia”, Pareyson, 1998). Mentre s’immagina, si pensa al come la forma dovrà esser fatta. Eppure lo spessore e il peso della nostra esperienza di esseri umani, in que-
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Abstract The landscape flows before us indeterminate, neither ugly nor beautiful; it waits for our sensitivity and awareness to learn and read it, interpret it, evoke it: we must go towards it, removing layer by layer, the misunderstandings thickened in the folds of time and space. The site object of this short narration (almost a travel report signed by impressions and personal visions) goes into the depth of the Tuscia’s rock area, where an ancient sanctuary dedicated to the Demeter divinity takes place into the sculptural context of an ancient peperino stone quarry. In its structure, the writing tries to descend the primary reasons for the appearance of the form by sensing the complexity of meaning of that appearance. That place would gradually reveal itself for what it is physically, for its extraordinary historical identity, for the memory it continues to preserve.
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Keywords: historical landscape, archetype, archeology, architecture, matter
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and the substratum, between matter understood as a concrete resource and as deposit of a volatile memory; I met mythical religious conceptions, liturgies, places and spatialities, symbolic techniques and representations: nothing but narratives. Among many monuments and sites I have been interested in (among those that fall within the territory of Southern Etruria), I would like to focus my attention on one of those that, in my opinion, summarizes in a representative way some atmospheres, some spiritual dimensions and materials deeply connected to the ancient sense of inhabiting the earth. The theme of this story (of which the complexity and depth of the theme could not be seen) is the shape and nature of the soil and the consequences and interrelations that they produce with the living, with religious, ritual and productive behaviors, with symbolic and land implications. Such an interest consists to have considered particularly essential to understand (by acting as an architect and university lecturer), the complex and vital relationship that tenaciously links man to the earth, man to matter, in order to conform it and adapt it to own images and representations: a careful and courageous activity that, in fulfilling itself, adopts a site, a material, a topography, with the aim of qualifying it through the form that will take shape in them. Indeed, to reinforce such a meeting we can try to say that the birth of the idea (the image of the thing that is being thought and that precedes its being a concrete thing) does not take place as an abstract, autonomous and independent action, which proceeds from the outside to the point of encountering the indeterminate and passive mass of the soil, of matter, but on the contrary it is accomplished by recognizing the specific features (characteristics, resistances, ductility), so that the ideal image we have formed takes shape in a context that corresponds to it and that can only be the own (“…the formative intention arises only when it seeks and claims, indeed chooses and adopts its subject, and tends to take shape in that very determined materia.” L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Milano, 1998). As you imagine, you think about how the form should be made. And yet the thickness and weight of our experience as human beings, in this comparison with the totality and incommensurability of the soil and above all of the substratum, are assimilable, to use a metaphor, to a micrometric biological formation dangerously clinging to the outcrops of a giant, primordial nature, whose strength remains imprisoned (for the most part of human experiences) in the darkness of the invisible or of the just intuitable, on the borders of the nobody’s land.
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Fig. 1 - La tagliata etrusca che conduce alla cava/santuario. The Etruscan “cut” that leads to the quarry/sanctuary.
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sto confronto con la totalità e incommensurabilità del suolo e soprattutto del sottosuolo, sono assimilabili, per utilizzare una metafora, a una micrometrica formazione biologica pericolosamente aggrappata sugli affioramenti di un gigante, natura primordiale, la cui forza rimane imprigionata (per la maggior parte delle umane esperienze) nell’oscurità dell’invisibile o dell’appena intuibile, ai confini della terra di nessuno. Dove affiorano le rocce “...In realtà un luogo non è mai scelto dall’uomo è soltanto scoperto. Lo spazio sacro si rivela a lui in un modo o nell’altro…” (Eliade, 1976) “…Il territorio sotto i nostri occhi è come un libro aperto che narra la sua storia e che occorre imparare a leggere e interpretare. Si tratterà sempre d’informazioni lacunose e frammentarie, ma in grado di fornire gli elementi di base per tracciare dei quadri complessivi. Il metodo di ricerca si caratterizza per essere un metodo regressivo, che consiste nel partire dalla configurazione odierna per risalire alle forme del territorio più antiche, con la finalità di comprendere come si è giunti all’assetto attuale, ultimo anello di una lunga catena. L’idea di base è che i paesaggi del passato continuino ad agire sul presente. La loro capacità di azione è dovuta al valore delle rimanenze, all’importanza che le testimonianze antiche continuano a mantenere…” (Tosco, 2009) La visita al tempio di Demetra nell’entroterra del territorio di Vetralla, nel distretto del Monte Cimino, propone in sintesi il confronto tra due paesaggi:
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Where rocks emerge “...In reality, a place is never chosen by man, it is only discovered. The sacred space is revealed to him in one way or another...” (Eliade, 1976) “...The territory under our eyes is like an open book that tells its story and that we must learn to read and interpret. It will always be a question of incomplete and fragmentary information, but able to provide the basic elements to draw overall pictures. The research method is characterized by being a regressive method which consists in starting from today’s configuration to go back to the most ancient forms of the territory, with the aim of understanding how we arrived at the current structure, the last link in a long chain.
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quello prodotto dal lavoro materiale e concreto dell’attività estrattiva e quello del sacro materializzato nella forma di un santuario. Un confronto che ci aiuta a considerare (ma non a dimostrare) l’inseparabilità nel mondo antico tra manifestazioni rituali riguardanti la sfera religiosa indotte dall’apparizione (presentazione) sulla terra di elementi naturali inspiegabili e oscuri (una pietra, un antro, una voragine, un bosco, una sorgente ecc.), e l’uso con finalità pratiche che quegli stessi elementi inducono se avvertiti come risorse materiali da sfruttare. Una situazione spirituale e una materiale scaturiscono dalla stessa manifestazione naturale; convivono nello stesso tempo, nello stesso luogo, sia la dimensione magico-religiosa rappresentata dalla presenza di un santuario dedicato alla dea Demetra (che domina l’immaginario mitologico delle civiltà antiche), sia quella connessa allo sfruttamento produttivo rappresentata dall’attività estrattiva intensamente praticata in quel luogo fin dall’antico per la presenza di un affioramento di lapis piperinus. Nel medesimo luogo il paesaggio del sacro incontra quello profano; il paesaggio del rito religioso incontra quello del lavoro dell’azione umana. Un interessante confronto generato dall’apparizione visibile della materia prima, dell’incorruttibile pietra, della pietra fecondatrice. In altre parole di un segno o di un insieme di segni provenienti dal mondo inaccessibile e animato del soprannaturale (“…il culto non è rivolto alla pietra in quanto sostanza materiale, bensì allo spirito che l’anima al simbolo che la consacra. La pietra, la roccia, il monolito, il dolmen, il menhir, ecc. diventano sacri grazie alla forza spirituale di cui portano il segno”; Eliade, 1976). Nel mondo antico non tutte le pietre sono considerate sacre: è la singolarità della sua ubicazione, della sua forma, dei nessi con altri fenomeni naturali vicini ad assegnarne un valore speciale, a elevarle a manifestazioni del sacro (irofanie). La pietra del Santuario/Cava infatti s’innalza ai margini del bosco sacro e nasconde tra le profondità ctonie delle sue viscere una sorgente d’acqua, la matrice di ogni esistenza, il simbolo del fondamento del mondo. Se da un lato il sito prende identità, riconoscibilità e carattere, nella forma della cava di superficie, un luogo straordinariamente duro, severo, dove ricavare materiali da costruzione (da queste riflessioni potrebbe scaturire l’interesse ad analizzare l’architettura, al fine di ottenere un quadro delle caratteristiche “tecniche” degli edifici antichi, nonché di comprendere le relazioni esistenti tra la città e le risorse presenti nel suo territorio), abitato da maestranze dall’aspetto sofferente (scalpellini e cavatori sono descritti nella storia come i lavoratori posti ai margini della rispettabilità umana, per la durezza delle condizioni di lavoro e durezza dei siti; Camporesi, 1995), dall’altro esso si svela come manifestazione del sacro, che rivela, attraverso le forme della rappresentazione simbolica, i sedimenti del tempo, gli antefatti, i misteri delle origini.
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The basic idea is that the landscapes of the past continue to act on the present. Their capacity for action is due to the value of the inventories, to the importance that ancient testimonies continue to maintain...” (Tosco, 2009) The visit to the temple of Demeter in the hinterland of the territory of Vetralla, in the district of Monte Cimino, offers a summary of the comparison between two landscapes: the first produced by the material and concrete work of the mining activity and the second of the sacred materialized in the form of a sanctuary. A comparison that helps us to consider (but not to demonstrate), the inseparability in the ancient world between ritual manifestations concerning the religious sphere induced by the appearance (presentation) on earth of unexplained and obscure natural elements (a stone, a cavern, a chasm, a wood, a spring etc.), and the use with practical purposes that those same elements induce if perceived as material resources to be exploited. A spiritual and a material situation arise from the same natural manifestation; live together at the same time, in the same place, both the magicalreligious dimension represented by the presence of a sanctuary dedicated to the goddess Demeter (which dominates the mythological imagery of ancient civilizations) and that connected to the productive exploitation represented by the extraction activity intensively practiced in that place since ancient times due to the presence of an outcrop of lapis piperinus. In the same place the sacred landscape meets the profane one; the landscape of the religious rite, meets that of the human action work. An interesting comparison generated by the visible appearance of the raw material, of the incorruptible stone, of the fertilizing stone. In other words, a sign or set of signs coming from the inaccessible and animated world of the supernatural (“…worship is not directed to stone as a material substance, but to the spirit that animates the symbol that consecrates it. The stone, the rock, the monolith, the dolmen, the menhir, etc. they become sacred thanks to the spiritual strength of which they bear the sign.”, M. Eliade). In the ancient world not all stones are considered sacred: it is the singularity of its location, of its form, of connections with other natural phenomena close to assigning a special value, to elevate them to manifestations of the sacred (irofanie). The stone of the Sanctuary/Quarry in fact rises at the edge of the sacred wood and hides – between the chthonic depths of its bowels – a spring of water, the matrix of every existence, the symbol of the foundation of the world. If on the one hand the site takes identity, recognizability and character, in the shape of the quarry surface, an extraordinarily hard and severe place, where to derive building materials (from these thinking could emerge the interest to analyse the architecture, with the aim to obtain a frame of “technical” carachteristics of ancient buildings), inhabited by workers with a suffering aspect (stonecutters and quarrymen are described in history as the workers placed on the margins of human respectability, due to the harshness of the working conditions and the hardness of the sites; Camporesi 1995), on the other it is revealed as a manifestation of the sacred, which reveals, through the forms of symbolic representation, the sediments of time, the antecedents, the mysteries of the origins.
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Occhi che vedono Antefatto Negli anni 2006 la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale eseguì una campagna di scavo rinvenendo un santuario rupestre dedicato alla divinità Demetra inserito nel contesto di un’antica cava di peperino a cielo aperto. Testimonianze del culto (probabilmente precedente al periodo etrusco), partono dal VI secolo a.C. fino all’epoca medio-ellenistica (“…La dea, il cui culto è attestato archeologicamente soprattutto nell’Etruria Meridionale dalla metà del VI sec. a.C. fino ad epoca ellenistica è sicuramente più antico e entro certi limiti pan etrusco”; Scapaticci, 2014). Sono passati più di due millenni da allora: tra le pieghe di quel territorio, ai margini dell’antica selva, ora come allora si presenta ai nostri occhi quest’antico sito, intrappolato nella magia del paesaggio selvaggio dell’Etruria meridionale.
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Fig. 2/3 - L’antica cava di peperino ricavata sugli affioramenti dei massi lapidei. The ancient peperino quarry carved out on the outcrops of the stone boulders.
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Una roccia grigia affiorante lungo il limite settentrionale di un fitto bosco di querce, roverelle e castagni, sull’ultimo residuo di quella che fu la grande Selva Cimina, (che tanto terrore produsse ai legionari romani secondo le leggendarie descrizioni riportate da Tito Livio), che dal Monte Venere, che domina l’antico cratere vulcanico, oggi bacino lacustre di Vico, discende verso Ovest, fino a raggiungere il cuore dell’Etruria rupestre. Quell’Etruria mummificata, selvaggia e solenne, dalle profonde forre e dalle maestose ed evocanti architetture rupestri scolpite lungo le pareti tufacee: quella terra d’antiche città e necropoli, una costellazione di luoghi riservati e schivi che s’allineano lungo la romana via Clodia. Ero venuto da poco a conoscenza che si erano conclusi i lavori di scavo e messa in sicurezza di un santuario rupestre in località Macchia delle Valli nel territorio di Vetralla (Scapaticci, 2014). Cercai, ma senza successo, d’identificare il sito. A nulla valse la familiarità e la dimestichezza a muovermi in quei territori, a riconoscere impercettibili indizi topografici, a interpretare il contorno dei rilievi. Ci fu bisogno di analizzare un’immagine su google-earth; ci volle uno sguardo dall’alto, una visione satellitare. Sulla schermata (che man mano si concentrò sempre più sul dettaglio disvelando i caratteri del sito), apparve subito chiara la presenza lungo il limite del bosco, tra una valle stretta e il serpeggiare d’un tratturo, di una grande massa lapidea grigia: un insieme di blocchi di peperino affioravano dalla valle appoggiandosi pesantemente sul fianco del pendio, tra valle e bosco. Una presenza non estranea alla geo-morfologia del distretto vulcanico dei Cimini, ma più normalmente diffusa e visibile lungo le pendici a Est del mon-
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Eyes that see Background In the year 2006 the Archaeological Superintendence for Southern Etruria carried out an excavation campaign finding a rupestrian sanctuary dedicated to the divinity Demeter inserted in the context of an ancient open-pit peperino quarry. Evidence of the cult (probably prior to the Etruscan period), start from the 6th century BC until the middle-Hellenistic period (“…The goddess, whose cult is archeologically attested especially in Southern Etruria from the mid-sixth century. B.C. up to the Hellenistic era, it is certainly more ancient and within certain limits pan Etruscan”; M. G. Scapaticci, 2014). More than two millennia have passed since then: among the folds of that territory, on the edge of the ancient forest, now as then this ancient site appears to our eyes, trapped in the magic of the wild landscape of southern Etruria. Report A gray rock outcropping along the northern edge of a dense wood of oaks, downy and chestnut trees, on the last remnant of what was the great Selva Cimina, (who produced so much terror to the Roman legionaries according to the legendary descriptions reported by Tito Livio), that from Monte Venere, which dominates the ancient volcanic crater – today Vico’s lake basin – descends
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te, per il continuo affiorare, nel folto delle faggete, di semisommerse masse erratiche di peperino, disperse nei territori di Bomarzo, Bagnaia, Soriano e Vitorchiano (molto di quel materiale fu ridotto in blocchi e bugne, paraste e cornici e molto contribuì per dar forma alle architetture e ai giardini disegnati da Jacopo Barozzi e di Pirro Ligorio). Era quello il luogo consacrato al culto di Demetra, la dea materna della terra, la divinità ctonia, protettrice della terra coltivata, del grano, della fertilità, nella leggenda e nel mito strettamente unita alla figlia Persefone, regina dell’oltretomba, del sottosuolo, la ninfa del fiume sepolcrale, che avrebbe diviso la sua anima tra il mondo del sotterraneo e il mondo terrestre. La divinità greca Demetra – corrispondente alla Vei etrusca e la Cerere romana – rappresenta una divinità legata alla fertilità e all’agricoltura, alla terra e dunque alla vita, alla forza vitale del tempo, ma è anche una figura connessa al mondo ctonio del sottosuolo attraverso la figlia Persefone, rapita e trascinata dal suo compagno e rapitore Ade, nelle profondità del sottosuolo, titolare di un culto che rimanda al modo degli inferi. Non fu facile scovarla quell’immensa roccia grigia, apparizione del sacro, densa concentrazione di bellezza e mistero in cui gli uomini avevano scorto qualcosa d’altro. Ciò mi sembrò comprensibile, perfino spiegabile, se ci fossimo riportati a immaginare, lontano nel tempo, le capacità cognitive di quella comunità agricola che alle soglie del VI secolo a.C., su quella roccia affiorante dal suolo nel contesto rosso-giallastro del tufo, del bosco e delle acque sorgive, non poteva che aver riconosciute virtù trascendenti: risorsa materiale e spirituale, pietra e sedimento divino, cava e santuario. Raggiunsi il sito in macchina percorrendo un diverticolo della statale Cassia: la via blerana, che da Est s’inoltra, dirigendosi verso la costa tirrenica, nei territori dell’Etruria interna: dell’Etruria rupestre, di Norchia, San Giuliano, del Biedano, del Mignone della via Clodia e di Tuscania. Parcheggiai sul bordo della strada e m’inoltrai a piedi nel fitto del bosco seguendo un tratturo in direzione di ponente, in direzione del mare. Dopo un breve tragitto che si snodava nel bosco, in un tardo pomeriggio, abbagliato dalla luce autunnale, zigzagando tra vallecole e pianori, ben presto cominciai ad avvertire l’approssimarsi a un luogo di lunga durata: un luogo in cui le cose e gli eventi si sono susseguiti con lievi cambiamenti nel tempo e che permangono in una prospettiva plurisecolare: un paesaggio quasi immobile, un paesaggio antico. Piccoli segni intagliati nel banco tufaceo qua e là affiorante dal sottobosco, apparvero rafforzando la mia convinzione che stavo procedendo nella direzione giusta. Affioramenti, incisioni, solchi, scalfitture, incavi (tutte azioni umane a sottrarre materia alla materia, impalpabili indizi della presenza dell’uomo operante, artefice sulla natura), man mano comparvero sempre con più frequenza preannunciando la comparsa di un evento, di una straordinaria apparizione. Superato un ultimo dosso, si mostrò sulla destra, verso monte, un segno inequivocabilmente connesso al paesaggio antico dell’Etruria: una tomba rupestre, ormai ridotta ad antro manomesso e dissacrato da continue frequentazioni, e poi, poco oltre, aggredita dalla vegetazione del sottobosco, l’invaso di una tagliata: un’antica strada, una via cava, scavata nel masso tufaceo secondo le tecniche di tracciamento etrusche, che preferivano scavare, intagliare piuttosto che aggirare gli incidenti orografici. Un’apparizione evocante tra le querce, le roverelle e le felci gialle fiorite. Una via retta, un segno deciso, chiaro, a rimodellare l’irregolarità del suolo, ad addolcire pendenze e asperità topografiche. Apparve un invaso, una spazialità misurabile, espressione tecnica e strumentale dell’azione dell’uomo nel contesto scompigliato del sottobosco: un segno nettamente distinguibile prodotto dall’azione umana. Apparve l’architettura nel contesto naturale. Il dialogo tra le forme è sempre più importante delle forme stesse, così come la pietra tagliata, levigata, incisa, prende densità e identità tra la pietra grezza. Il limite, il luogo della separazione tra gli opposti caratteri (scabro/levigato, naturale/artificiale) è il vero protagonista che annuncia l’apparizione dello spazio pensato, dello spazio architettonico sullo sfondo di natura.
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towards the west, until it reaches the heart of the rocky Etruria. That mummified Etruria, wild and solemn, with its deep ravines and majestic and evocative rocky architecture sculpted along the tuff walls: that land of ancient cities and necropolis, a constellation of reserved and shy places that align along the Roman Via Clodia. I had recently come to know that the excavation and securing works of a rock sanctuary in the area of Macchia delle Valli in the territory of Vetralla had been completed (Scapaticci, 2014). I tried – without succeeding – to identify the site. It was worthless the familiarity to move in those territories, to recognize imperceptible topographic clues, to interpret the outline of the reliefs. It was useful to analyze an image on google-earth; a look from above, a satellite vision was needed. On the screen (which gradually focused more and more on the detail, unveiling the features of the site), the presence along the edge of the forest of a large gray stone mass – between a narrow valley and the winding of a sheep track – immediately appeared: a set of blocks of peperino outcrops from the valley leaning heavily on the slope side, between the valley and the wood. A presence which was not unrelated to the geomorphology of the Cimini volcanic district, but more normally diffused and visible along the slopes to the east of the mountain, due to the continuous emergence, in the thick of the beechwoods, of semi-submerged erratic masses of peperino, dispersed in the territories of Bomarzo, Bagnaia, Soriano and Vitorchiano (much of that material was reduced to blocks and ashlars, pilasters and cornices, and much contributed to shaping the architecture and gardens designed by Jacopo Barozzi and Pirro Ligorio). That was the place consecrated to the cult of Demeter, the maternal goddess of the earth, the chthonic deity, protector of the cultivated land, of wheat, of fertility, in legend and in the myth closely united to her daughter Persephone, queen of the underworld, of the underground, the nymph of the sepulchral river, which would have divided its soul between the world of the underground and the terrestrial world. The Greek divinity Demeter, – corresponding to the Etruscan Vei and the Roman Ceres –, represents a divinity linked to fertility and agriculture, to the land and therefore to life, to the life force of time, but it is also a figure connected to the chthonic world of underground through his daughter Persephone, kidnapped and dragged by her companion and kidnapper Hades, into the depths of the underground, owner of a cult that refers to the way of the underworld. It was not easy to find that immense gray rock, the appearance of the sacred, a dense concentration of beauty and mystery in which men had seen something else. This seemed understandable to me, even explainable, if we had gone back to imagining, far back in time, the cognitive abilities of that farming community that – on the threshold of the 6th century BC, on that rock emerging from the ground in the red-yellowish context of the tuff, of the forest and of spring waters – could only have recognized transcendent virtues: material and spiritual resource, stone and divine sediment, quarry and sanctuary. I reached the site by car along a part of the Cassia state road: the Via Blerana, which from east leads, heading towards the Tyrrhenian coast, in the territories of inland Etruria: of the rocky Etruria, of Norchia, San Giuliano, of the Biedano, of the Mignone of the via Clodia and of Tuscania.
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Fig. 4 - Dettaglio del piano di escavazione della cava. Detail of the excavation plan of the quarry.
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Superata la tagliata etrusca dalle pareti dorate, qua e là ancora scalpellate e incise, segnate dall’impronta del piccone dell’antico scavo (un solco aperto verso il cielo aggrovigliato di fogliame, che al passaggio si fece esperienza d’odore di terra e d’acqua), d’improvviso si aprì il paesaggio all’orizzonte. Da lì a poco, verso ponente, in piena luce, sul limite della valle stretta tra le pendici dell’invaso naturale, si sarebbe mostrata con tutta la solennità dell’apparizione, la visione di ciò che cercavamo: apparve il grande masso fratturato di peperino. Lì per lì non si vedeva nulla d’insolito: solo delle bellissime pareti grigie, levigate superfici di pietra, rotte e incrinate qua e là, e istoriate di licheni. Un accumulo di blocchi ciclopici, di giganti poggiati gli uni sugli altri, dalle superfici tormentate da scavi si mostrava avendo assunto la forma di una cava estrattiva: una piattaforma lapidea incisa come una gradinata (un sagrato di un tempio andato o un terrazzo rituale com’è normale incontrare in questo epico territorio), si protendeva a sbalzo sulla valle. Tracce virtuose dell’addomesticamento del territorio selvaggio, strappato e rimodellato dall’uomo, e dalla sua volontà di rappresentazione. Eravamo testimoni di una metamorfosi: dal paesaggio selvaggio delle ultime propaggini della Selva Cimina (indomita foresta cresciuta sui rilievi degli antichi vulcani Sabatini e Cimini, limite naturale posto tra le regioni Falische a Sud Est e l’Etruria Meridionale a Nord Ovest), al paesaggio modellato dalla razionalità. Dalla bellezza incontrollata della natura a l’ordine misurato dalla ragione, immagine dell’operosità e dell’ingegno tecnico dell’uomo. Attraverso un itinerario tortuoso nel fitto del bosco seguendo tratturi di sommità e di forra nella dimensione indomita e primitiva che tutto concede a visioni immaginifiche e a estetiche pittoresche eravamo giunti di fronte ad una chiara testimonianza dell’azione umana: “Un paesaggio nel quale le vestigia del passa-
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Fig. 5 - Il bacile e il canale della sorgente naturale. The basin and the natural source channel. I parked at the edge of the road and I walked across the thick woods following a sheep track towards the west, towards the sea. After a short journey that wound through the woods, in a late afternoon, dazzled by the autumn light, zig-zagging between valleys and plateaus, I soon began to feel the approach to a place of long duration: a place where things and the events followed one another with slight changes over time and which remain in a centuries-old perspective: an almost immobile landscape, an ancient landscape. Small marks carved in the tufa bench emerging from the undergrowth, appeared reinforcing my conviction that I was proceeding in the right direction. Outcrops, incisions, grooves, nicks, hollows (all human actions to remove material from the material, impalpable indications of the presence of the working man, creator of nature), gradually appearing more and more frequently announcing the appearance of an event, of an extraordinary appearance. After passing the last hill, it appeared on the right, towards the mountain, a sign unequivocally connected to the ancient landscape of Etruria: a cave tomb, now reduced to a tampered cavern and desecrated by continuous frequentations, and then, a little further on, attacked by the undergrowth vegetation, the invaded of a cut: an ancient road, a hollow way, dug in the tufaceous mass according to the Etruscan tracing techniques, that preferred to dig, to carve rather
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Fig. 6 - Il piano di estrazione con segni derivati dalle tecniche di taglio e distacco dei blocchi. The extraction plan with signs derived from techniques of cutting and detachment of blocks.
to sembrano soggiacere a una sorte di metamorfosi sulla consistenza pietrosa del terreno, a una mummificazione della cultura, del linguaggio dell’uomo nel grembo stesso della natura, nella magia del silenzio”, (Hemilton Grey, 1848). Eravamo di fronte ad un’antica cava di peperino che, dai segni lasciati sulle superfici, dimostrava una frequentazione e uno sfruttamento del sito che comprendeva fasi molto antiche (VI/V sec. a.C.). La cava si mostrava come una sorta di sagrato lapideo, mono-materico, irregolarmente dentellato: una serie di piani di taglio si susseguivano, con andamento sub-orizzontale, fino a raggiungere il limite d’estensione del masso di peperino, il quale, slanciato in successive terrazze orientate a ponente, sarebbe poi precipitato impetuosamente sulla valle sottostante. Sulla superficie del piano di cava, o meglio dei tanti piani di cavatura che si susseguivano in modeste terrazze o gradini, addolcite dal tempo, si esibivano le tracce regolari dei reticoli geometrici, utilizzati come regola per eseguire lo scavo e il distacco dei blocchi lapidei. Sui piani erano ancora ben leggibili i tagli d’epoca etrusca (i più grandi, ciclopici) ma altresì restavano impressi anche quelli più recenti tanto da dimostrare uno sfruttamento in età moderna: una mappa del tempo e delle tecniche messe in atto dai cavatori a servizio dei costruttori. A queste tracce, dominate dall’angolo retto, tutte prodotte dalla sottrazione di materia, se ne aggiunsero altre che non si presentavano con lo stesso ordine intellegibile e geometrico caratteristico dell’attività estrattiva. Senza un ordine preciso, apparvero sulle superfici in ordine sparso, canali, buche, concavità: recipienti votivi, destinati a contenere libagioni, per stabilire un linguaggio di comunicazione, di devozione, d’offerta con l’oggetto rituale. Un dialogo con la pietra sacra, incorruttibile presenza destinata all’eternità, capace, attraverso la sua pre-
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than to circumvent the orographic accidents. An evocative apparition between oaks, downy tree and flowering yellow ferns. A straight path, a decisive, clear sign, to remodel the irregularity of the soil, to soften topographical slopes and asperities. An invaded, a measurable spatiality appeared, technical and instrumental expression of the action of the man in the disarranged context of the undergrowth: a clearly distinguishable sign produced by the human action. Architecture appeared in the natural context. The dialogue between forms is always more important than the forms themselves, just as the cut, smooth, engraved stone takes density and identity between the rough stone. The limit, the place of separation between opposing characters (rough/smooth, natural/artificial) is the true protagonist which announces the appearance of the thought space, of an architectural space in the background of nature. Crossed the Etruscan cut with gilded walls, here and there still chiseled and engraved, marked by the mark of the ancient excavation’s pickaxe (a furrow opened towards the tangled sky of foliage, which on passing became smell experience of earth and water), suddenly the landscape opened up on the horizon. Shortly thereafter, towards the west, in full light, on the edge of the narrow valley between the slopes of the natural reservoir, the vision of what we were looking for would appear with all the solemnity of the apparition: the large fractured boulder of peperino appeared. At first nothing unusual could be seen: only beautiful gray walls, polished stone surfaces, broken and cracked here and there, and decorated with lichens. An accumulation of Cyclopean blocks, of giants resting on each other, with surfaces tormented by excavations, was shown to have taken the form of an extractive quarry: a stone platform engraved like a staircase (a churchyard of a temple gone or a ritual terrace as it was normal to meet in this epic territory), it jutted out over the valley. Virtuous traces of the domestication of wild territory ripped and reshaped by man, and by his will to represent. We witnessed a metamorphosis: from the wild landscape of the last offshoots of the Selva Cimina (untamed forest grown on the slopes of the ancient volcanoes Sabatini and Cimini, natural limit placed between the Falische regions in the South East and the Southern Etruria in the North West), to the landscape modeled by rationality. From the uncontrolled beauty of nature to the order measured by reason, the image of human activity and of the human technical genius. Through a winding itinerary in the thick of the wood following traces of the summit and gorge in the indomitable and primitive dimension that gives everything to imaginative visions and picturesque aesthetics we had arrived at a clear testimony of human action: “A landscape in which the vestiges of past seem to succumb to a sort of metamorphosis on the stony consistency of the land, to a mummification of culture, of the man language in the womb of nature, in the magic of the silence”. We were in front of an ancient peperino quarry that, from the marks left on the surfaces, showed a frequentation and an exploitation of the site that included very ancient phases (VI/V century BC). The quarry appeared as a sort of stone churchyard, mono-material, irregularly serrated: a series of cutting planes followed one another, with a sub-horizontal trend, until reaching the limit of
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Da spazio profano a spazio sacro
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Ad eccezione di quel cippo posto sul limite della cava, a pochi metri dalla voragine, nulla poteva indicarci della presenza di un santuario, della presenza di un luogo di culto. Discendendo lungo il perimetro del masso, aggirandolo fino a raggiungere la quota della valle sottostante (dal suolo intriso d’acqua sorgiva), apparve l’altro paesaggio: il paesaggio della rupe. Il paesaggio del sacro. Tre grandi blocchi dalle bellissime pareti lisce s’innalzavano perentorie per più di 15 metri; intagliate, fessurate, incrinate, come una rovina ma di quelle che non si possono rompere mai, che promettono eternità. Tutto quello spettacolo, imprigionato nella maestosa e solenne natura, si mostrava con lentezza, si rivelava a una scoperta senza fretta. Nulla si nascondeva, ma neppure si concedeva: a un certo punto chi sapeva accorgersene si sarebbe accorto della moltitudine d’indizi capaci di segnalare la presenza di un luogo speciale: buche, canali d’acqua, vasche di raccolta, labrum, raccontavano di misteriose frequentazioni passate, di rituali, di coraggiosi tentativi di intrattenere dialoghi con la roccia, con l’antro, con l’acqua sorgiva e la terra. Per la coscienza religiosa e primitiva la durezza, la solennità e persistenza della materia sono avvertite come manifestazioni del sacro. La pietra è immodificabile ed eterna, non precaria coma la natura umana ed è un centro di energia, un segnacolo della presenza della divinità. Il massiccio lapideo si presentava come una ripida parete alta circa dodici metri e larga trenta, distinta in tre parti e naturalmente configurata a definire, nella zona mediana, una concavità, un centro focale; un ambito spaziale destinato a raccogliere l’attenzione di una comunità di fedeli rispetto a una figura officiante. Sulla parete destra del masso una fenditura verticale s’incuneava profondamente nel masso lapideo, tanto da distaccare con precisione in due lembi la parete rocciosa. Un taglio così netto, dall’alto al basso, tanto da apparire come l’esito di una lavorazione eseguita dall’uomo e non quello prodotto dal millenario stillicidio della sorgente (“in ogni caso … la collocazione di un santuario all’esterno della città spesso è un elemento costitutivo del culto stesso… La parte del leone fra i culti extra moenia spetta ai santuari di Demetra e Kore (Persefone, Vei), abitualmente dislocati in luoghi a non grande distanza dalla città, per consentire prima di tutto la rigorosa segregazione dell’elemento femminile, di norma protagonista della festa, oltre che per dare spazio alle solenni processioni che di solito si accompagnavano alle celebrazioni dei riti demetriaci…”; Torelli, 2011). Alla base della fenditura era posta una vasca interamente ricavata in un blocco di pietra (come fosse un sarcofago), allo scopo di ricevere e trattenere le acque sorgive che un tempo dovevano colare lungo quel canale. Sul limite opposto, alla base del masso, si scorgeva una cavità, nel luogo in cui, per effetto dello scivolamento tellurico di un masso sull’altro, si era venuto a formare un varco, un antro naturale, una caverna. Un passaggio, tanto basso e oscuro da mostrarsi come l’accesso a un rifugio piuttosto che indicare qual cosa d’altro: l’accesso a un luogo destinato a un culto misterico e ctonio.
extension of the peperino boulder, which, slender in subsequent west-facing terraces, it would then precipitate impetuously over the valley below. On the surface of the quarry floor, or rather of the many caving planes that followed one another in modest terraces or steps, softened by time, the regular traces of the geometric lattices were exhibited, used as a rule to carry out the excavation and detachment of the stone blocks. On the surfaces the cuts of the Etruscan period (the largest, Cyclopean) were still clearly legible, but also the most recent ones remained so impressed as to demonstrate an exploitation in the modern age: a map of the time and the techniques put in place by the quarrymen at the service of the builders. To these traces, dominated by the right angle, all produced by the subtraction of matter, others were added that did not present themselves with the same intelligible and geometric order characteristic of the mining activity. Without a criteria, channels, holes, concavities appeared on the surfaces in random order: votive containers, intended to contain libations, to establish a language of communication, devotion, of offering with the ritual object. A dialogue with the sacred stone, an incorruptible presence destined for eternity, capable, through its presence, of fixing the telluric and chthonic forces that govern the place in the form. And among these, placed on the edge of the ancient plan, a stone still stood out in peperino, extraordinarily remained in situ. A signpost planted on the top of the boulder, to fix the limit of development (material and symbolic) between the quarry, between the petrara, and the sanctuary of Demeter. A boundary stone miraculously preserved, limit and beginning of the sacred area. A territorial marker to signal the beginning of the temenos with respect to the indomitable vastness of the wood: a sacred clearing, a lucus suitable for the installation of a temple: “... It is therefore likely that even from a naturalistic point of view, the site should appear as it is today, that is, as immersed in a forest on the edge of a spring, near a natural compluvium, with rocky walls in sight, all elements that suggested the installation of the sanctuary in this point, with unusual landscape value”, (Scapaticci, 2014).
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senza, di fissare nella forma le forze telluriche e ctonie che governano il luogo. E tra questi, posto sul limite dell’antico piano, si stagliava ancora un cippo in peperino, straordinariamente rimasto in situ. Un segnacolo piantato sulla sommità del masso, a fissare il limite di sviluppo (materiale e simbolico) tra la cava, tra la petrara e il santuario di Demetra. Un cippo di confine miracolosamente conservato, limite e inizio della zona sacra. Un marcatore territoriale a segnalare l’inizio del temenos rispetto alla vastità indomita della selva: una radura sacra, un lucus adatto all’impianto di un tempio: “…È verosimile quindi che anche dal punto di vista naturalistico il sito dovesse presentarsi così come si presenta oggi, cioè come immerso in un bosco al limite di una sorgente, nelle vicinanze di un naturale compluvio, con pareti rupestri in vista, tutti elementi che hanno suggerito l’impianto del santuario in questo punto, con valenze paesaggistiche d’inconsueto pregio”, (Scapaticci, 2014).
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From profane space to sacred space With the exception of that cippus placed on the edge of the quarry, a few meters from the chasm, nothing could indicate to us the presence of a sanctuary, the presence of a place of worship. Descending along the perimeter of the boulder, going around it until it reaches the level of the valley below (from the soil steeped in spring water), the other landscape appeared: the landscape of the cliff. The sacred landscape. Three large blocks with beautiful smooth walls rose peremptorily for more than 15 meters; carved, fissured, cracked, like a ruin but of those that can never be broken, that promise eternity. All that spectacle, imprisoned in the majestic and solemn nature, showed itself slowly, revealed itself to an unhurried discovery. Nothing was hidden, but neither was it conceded: at a certain point those who knew how to notice it would have noticed the multitude of clues able to signal the presence of a special place: holes, water channels, collection tanks, labrum, told of mysterious past acquaintances, of rituals, of courageous attempts to entertain dia-
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Una profonda soglia naturale, bassa tanto da costringerti a proseguire carponi, conduceva ad una grotta naturale, illuminata da un’alta fenditura aperta sulla volta. A dominare quella spazialità di sottosuolo, luogo misterico, tellurico e ctonio, apparve con sorprendente meraviglia, un piccolo tempio di pietra, costruito con grandi lastre di peperino giustapposte con ordine e rigore architettonico a rappresentare l’idea primitiva e l’archetipo della casa. Una spazialità destinata a celebrare il culto della dea, abitata dalla sua forza spirituale fissata nella pietra. La grande sorpresa fu di costatare, viste le dimensioni del tempio e quelle assai ridotte dell’ipogeo, quale grande sforzo fu prodotto da quei costruttori per calare quelle immense pietre monolitiche, lavorate a spigoli vivi, all’interno della grotta; e quali abilità tecniche furono necessarie per sollevare e disporre con sapienza costruttiva le singole lastre, disposte a secco, l’una sull’altra. Tutta quell’attenzione doveva attestare e santificare un patto concluso tra divinità e umane speranze. Un’architettura misurabile, ordinata, contro la confusione primigenia, del luogo di natura, il luogo in cui il trascendente si era manifestato all’immanente. La costruzione del tempio si fonda in ultima analisi sopra una rivelazione che in illo tempore svelò l’archetipo dello spazio sacro. “…Il bosco, la grotta, l’antro, la sorgente costituiscono un complesso di presenze che incorporano, che rivelano, una cosa diversa da sé, cioè una cosa diversa dalla loro condizione normale di oggetti e cose. La loro diversità dove risiede? Per ora basta indicare le loro forme singolari, l’efficacia della loro rappresentazione o più semplicemente la loro forza”, (Eliade, 1976). L’intero paesaggio è rappresentativo, in tutti i suoi più piccoli particolari, di un’intera storia umana: una solidarietà mistica tra il territorio e storia dell’umanità.
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logues with the rock, with the cave, with spring water and the earth. For the primitive religious conscience the hardness, the solemnity and persistence of the matter are perceived as manifestations of the sacred. The stone is unchangeable and eternal, not precarious as human nature and is a center of energy, a sign of the presence of the divinity. The stone massif appeared as a steep wall about twelve meters high and thirty wide, divided into three parts and naturally configured to define, in the middle zone, a concavity, a focal center; a spatial ambit destined to gather the attention of a community of faithful with respect to an officiating figure. On the right wall of the boulder a vertical slit wedged itself deeply in the stone boulder, so as to detach the rocky wall precisely in two strips. A cut so clear, from top to bottom, looks like the result of a work done by man and not that produced by the millennial dripping of the source (in any case ... the location of a sanctuary outside the city is often a constitutive element of the cult itself ... The lion’s share of the extra moenia cults belongs to the sanctuaries of Demeter and Kore (Persephone, Vei), usually located in places not great distance from the city, to allow first of all the rigorous segregation of the female element, normally the protagonist of the party, as well as to give space to the solemn processions that usually accompanied the celebrations of the demetric rites…”; M. Torelli, 2011).
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Fig. 7 - Il tempio di Demetra nel contesto dell’antro. Demeter temple in the cave’s context.
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At the base of the slit was a tank made entirely in a block of stone (like a sarcophagus), in order to receive and retain the spring waters that once run along that canal. On the opposite edge, at the base of the boulder, a cavity could be seen, in the place where, due to the telluric sliding of one boulder on the other, a gap had formed, a natural cavity, a cavern. A passage, so low and obscure to show itself like an access to a shelter rather than indicating something else: access to a place destined for a mystery and chthonic cult. A deep natural threshold, low enough to force you to continue on all fours, led to a natural cave, illuminated by a high slit open on the vault. To dominate that spatiality of subsoil, mystery, telluric and chthonic place, appeared with surprising wonder, a small stone temple, built with large slabs of peperino juxtaposed with order and architectural rigor to represent the primitive idea and the archetype of the house. A space intended to celebrate the cult of the goddess, inhabited by her spiritual strength fixed in the stone. The great surprise was to see, given the size of the temple and the very small size of the hypogeum, how much effort was produced by those builders to drop those immense monolithic stones, worked with sharp edges, inside the cave; and what technical skills were necessary to lift and arrange the individual slabs, laid out dry, one on top of the other with constructive wisdom. All that attention had to attest and sanctify a pact concluded between gods and human hopes. A measurable and orderly architecture, against the primitive confusion of the place of nature, the place where the transcendent had manifested itself immanently. Ultimately, the construction of the temple is based on a revelation that revealed the archetype of sacred space. “... The forest, the cave, the cavity, the spring constitute a complex of presences that incorporate, which reveal, something different from itself, that is, something different from their normal condition of objects and things. Where does their diversity lie? For now it is enough to indicate their singular forms, the effectiveness of their representation or more simply their strength” (Eliade, 1976). The entire landscape is representative, in all its smallest details, of an entire human history: a mystical solidarity between the territory and the history of humanity.
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Fig. 8 - Il tempio visto dalla fenditura naturale che si apre sulla sommità dell’antro naturale. The temple seen from the natural fissure opened on the top of the natural cave.
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Riferimenti bibliografici
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urbanform and design Riscrivere il sostrato.
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Rigenerazione post-trauma del paesaggio urbano di Beirut e Sarajevo
Giulia Annalinda Neglia
DICAR Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura, Politecnico di Bari E-mail: giuliaannalinda.neglia@poliba.it
Introduzione
Re-Writing the Substrata. Post-Trauma Landscape Regeneration in Beirut and Sarajevo
Introduction The formative and transformative process of cultural landscapes is not always continuous. In the history of a city, natural or man-induced traumas or gaps are not unusual. Conversely, they punctuate otherwise linear and uninterrupted development and can induce sudden broad transformations. Within the layered contexts of historic urban landscapes, architects have always intervened, with crucial and dialectic approaches, by proposing different scenarios and applying differ-
Il processo formativo e trasformativo dei paesaggi culturali non è sempre continuo. Nella storia di una città non sono rari traumi o cesure, tra cui eventi naturali o indotti dall’uomo, che punteggiano sviluppi altrimenti lineari e ininterrotti e che possono indurre ampie e repentine trasformazioni. Nei contesti stratificati dei paesaggi urbani storici, da sempre l’architetto è intervenuto criticamente, con approcci dialettici, prospettando diversi scenari e applicando diverse metodologie nei processi di ricostruzione puntuale (di edifici) o diffusa (di tessuti urbani) dei centri distrutti. E così i termini rovina, traccia, memoria, ricostruzione, oblio hanno acquisito ruoli e pesi di volta in volta differenti, rappresentando gli strumenti di indirizzo dei dibattiti culturali volti a definire l’assetto della nuova forma urbana. Attorno ed essi si sono sviluppati i ragionamenti progettuali finalizzati alla ricostruzione non solo dei singoli monumenti ma spesso dei luoghi nel loro complesso: progetti e piani orientati, rispettivamente, o a trasportare nell’oblio tracce e resti di strutture considerate obsolete o a trasformare in continuità lacerti urbani o tracce nel paesaggio riconosciute come patrimonio da tramandare. La prevalenza del termine memoria su oblio, e viceversa, è dettata dal fatto che, specie nel caso di processi di ricostruzione in seguito ad eventi bellici, piani e progetti sono sempre posizionati non solo culturalmente ma anche politicamente. Si tratta, infatti, di atti di indirizzo finalizzati a dare un nuovo assetto a morfologie urbane spesso profondamente modificate e, di volta in volta, ad attestare ideologicamente il valore della memoria e della continuità, ovvero della modernità e della cesura col passato. Queste azioni, programmatiche prima che fisiche, hanno inoltre un valore tanto più ideologico quanto più si confrontano con la necessità di ricostruire paesaggi urbani consolidati: se ricostruire un paesaggio urbano è un atto critico, ricostruire un centro storico è un atto culturale legato non solo all’esito formale che si determinerà, ma soprattutto alla scelta degli strati da privilegiare e delle memorie da conservare nei testi minerali e vegetali che compongono gli ambienti urbani. Ciononostante, spesso, la ricostruzione post-trauma finisce col portare alla globalizzazione: nella lotta tra la civiltà universale e la cultura nazionale (Ricoeur, 1961), l’architettura globalizzata tende a prevalere e le morfologie storiche, che testimoniano strati accumulati di significato culturale, tendono ad essere rimosse e sostituite. In questa visione, anche il ruolo delle discipline non ha sempre lo stesso peso. In alcuni casi i processi di ricostruzione sono trainati da approcci fondati su di un restauro urbano finalizzato a una ricostruzione in stile, o “com’era dov’era”, come nel caso dei centri storici di Varsavia (Marcinkowska M. e Zalasinska K., 2019) o di Mostar (Armaly, Blasi e Hannah 2004), in cui la ricostruzione delle strutture dello spazio antropico nello status quo ante bellum è stata legata ideologicamente al processo di ricostruzione dell’identità nazionale. Altre volte da piani che prospettano visioni finalizzate a rimuovere la memoria del trauma e a trasformare i centri storici in discontinuità con un passato considerato obsoleto, come nel caso di Berlino (Maglio, 2003) o di Beirut (Rowe e Sar-
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Abstract Within the multiple perspectives, which set post-trauma reconstruction processes of wardamaged historic urban environments, including disciplinary ones, the scope of this paper is to analyze some case studies where the design for new open spaces has been aimed at preserving the memory of the past, within a renewed urban landscape. Sarajevo and Beirut are apparently geographically and culturally distant. Nevertheless, they represent two interesting examples of different approaches to reconstruction, where the design of open spaces, roads, cemeteries, gardens and archaeological areas has remarkably contributed to the preservation of the memory of their urban history. Starting from a reading of the historical, archaeological and morphological traces, which are taken as substrate, and with a specific focus on the design of the open areas, gardens and squares, therefore of the urban landscape as a whole, this paper deals with the way in which, within reconstruction transformative processes, these projects have acted as synthetic tools for re-writing the urban landscape substrate. Not only for their formal capacity to reveal and rewrite urban history, and therefore to enlighten it, but also for the ecological and social implications, linked to the recovery of the environment and the local community through the reconstruction of public spaces.
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Keywords: Landscape Architecture, Reconstruction, Archaeological Substrates, Gardens, Public Spaces
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ent methodologies in the local (for buildings) or widespread (for urban fabrics) reconstruction processes for war-torn cities. As such, therefore, the terms ruin, footprint, memory, reconstruction and oblivion have acquired, from time to time, different roles and importance, and have been the keywords in cultural debates aimed at defining the structure of the new urban form. Projects have often developed around them aimed at reconstructing not only specific monuments, but also the built environments in their whole: projects and plans aimed either at obliterating traces and remains of structures considered obsolete, or at transforming urban fragments, in continuity with their past, or traces in the landscape now recognized as heritage to be handed down. The prevalence of the term memory over oblivion, and vice versa, is given by the fact that in reconstruction processes following war events plans and projects are always positioned both culturally and politically. These are often, indeed, guidelines aimed at giving a new layout to urban morphologies that have been profoundly modified, and, in turn, at ideologically bearing witness to either the value of memory and continuity, or of modernity and caesura with the past. These are agenda-setting rather than physical actions also have an even more ideological value when they deal with the need to rebuild consolidated urban landscapes. Rebuilding an urban landscape is a critical operation and rebuilding a historic center is also a cultural act. It is linked not only to the final formal outcome but, mostly, to the choice of the layers to be shown, and of the memories to be preserved in the built and natural texts that make up the urban environments. Nevertheless, post-trauma reconstructions often end up leading to globalization: in the struggle between universal civilization and national culture (Ricoeur, 1961), globalized architecture tends to prevail, and historical morphologies, which testify to accumulated layers of cultural significance, tend to be removed and replaced. In this view, the role of disciplines does not always have the same prominence. In some cases, reconstruction processes are driven by approaches based on an urban restoration in style, or “as it was, where it was”. This is the case of the historic centers of Warsaw (Marcinkowska M. and Zalasinska K., 2019) or Mostar (Armaly, Blasi and Hannah 2004), where the reconstruction of the structures of the anthropic space in the status quo ante bellum was ideologically linked to the process of recovery of the national identity. In other cases, reconstruction processes are driven by plans that put forward visions aimed at removing the memory of trauma and at transforming historic centers into discontinuities with a past which is regarded as obsolete. This is the case of Berlin (Maglio, 2003) or Beirut (Rowe and Sarkis, 1998), where the destroyed fabrics have been replaced by new urban landscapes that resulted in a tabula rasa of the historic structures, by preserving scattered fragments in an otherwise modern and globalized context. In yet other cases, reconstruction plans clash with the need to include spaces for new urban functions and forms, as in the case of Sarajevo (Cordall, 1998), where functional, ecological and formal needs led to incorporating wide areas intended for parks and cemeteries into the urban fabric. However, the reconstruction process should be envisioned not only as a necessity, but also as an opportunity to solve previous problematic conditions, and to shed new light on layers of undeveloped or unknown history (UNESCO, 2018).
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kis,1998) in cui i tessuti distrutti sono stati sostituiti da nuovi paesaggi urbani che hanno fatto tabula rasa delle strutture storiche, lasciandone solo lacerti diffusi in un contesto moderno e globalizzato. Altre volte i piani di ricostruzione si scontrano con la necessità di includere spazi per nuove funzioni e forme urbane, così come nel caso di Sarajevo (Cordall, 1998), in cui necessità prima funzionali e poi ecologiche e formali hanno portato alla necessità di inglobare al loro interno vaste aree destinate a parchi e cimiteri. In ogni caso il processo di ricostruzione dovrebbe essere inteso non solo come una necessità, ma anche come un’opportunità per risolvere eventuali condizioni problematiche pregresse e per dare nuova luce a strati di storia fino a quel momento non valorizzati o ancora sconosciuti (UNESCO, 2018). Sfortunatamente, gli esiti dei piani di ricostruzione non sono sempre coerenti con i caratteri ereditati e col contesto urbano e ambientale in cui si interviene. La volontà di rincorrere modelli a volte lontani dai caratteri architettonici, paesaggistici e ambientali locali, unita all’utilizzo del sistema dei concorsi di progettazione internazionale per prospettare nuove visioni e scenari, purtroppo non sempre preceduti da una fase adeguata di analisi e conoscenza dei luoghi, può portare a dare risposte in cui le caratteristiche generali del paesaggio urbano storico non sono sempre reinterpretate come aspetti culturali del patrimonio materiale e immateriale legato all’ambiente costruito. Pertanto, risulta sempre più urgente avviare un’ampia riflessione volta ad adeguare metodologie di approccio e strumenti progettuali ai complessi contesti in cui si è chiamati ad intervenire. All’interno di questo quadro generale di riferimento e alle molteplici prospettive, anche disciplinari, che si aprono nei processi di ricostruzione degli ambienti urbani storici distrutti in seguito ad eventi bellici, questo articolo intende analizzare alcuni esempi in cui il progetto degli spazi aperti è stato finalizzato, con approcci ed esiti diversi, a conservare la memoria del passato in uno senario urbano rinnovato. Anche se geograficamente e culturalmente distanti, Sarajevo e Beirut rappresentano casi esemplificativi di due diversi approcci alla ricostruzione di un paesaggio urbano storico in cui il disegno degli spazi aperti, delle strade, dei cimiteri, dei giardini e delle aree archeologiche ha contribuito significativamente alla conservazione della memoria della storia urbana lontana o recente. Centri minori fino all’epoca Ottomana, in seguito profondamente trasformati sotto i protettorati rispettivamente asburgici e francesi, queste città sono state prima testimoni delle trasformazioni globalizzanti indotte dall’urbanistica promossa al tempo dei protettorati e poi teatro di guerre civili e delle successive esperienze di ricostruzione, che hanno aperto ampi dibattiti su scenari e approcci metodologici possibili. Sulla base della lettura delle tracce storico-archeologiche-morfologiche assunte come sostrato, e con un focus specifico sul progetto delle aree aperte, dei giardini, delle piazze, del paesaggio urbano nel suo complesso, l’articolo analizza il modo in cui, nei processi trasformativi legati alla ricostruzione, tali progetti abbiano avuto la capacità di diventare strumenti sintetici di riscrittura del paesaggio urbano, non solo per la loro attitudine formale a rivelare e riscriverne il sostrato, e quindi renderne evidente la storia, ma anche per le implicazioni ecologiche e sociali legate alla ricostruzione dell’ambiente e della comunità locale attraverso la ricostruzione dello spazio pubblico. I cimiteri e le tracce della storia recente di Sarajevo L’area occupata dall’odierna Sarajevo è stata abitata continuativamente sin dall’Età della pietra. Situata nella valle del fiume Miljacka, la città fu fondata ufficialmente nel 1461, quando il governatore ottomano Isa-Beg Isaković raggruppò un insieme di villaggi, incluso l’insediamento romano di Aquae Sulphurae (sito nell’odierno sobborgo di Ilidža) attorno ad un nucleo politico-economico-amministrativo formato da un mercato, una moschea, dei bagni pubblici, un ostello e il Palazzo (saray) del Governatore. A partire dal XVI secolo, lungo la direttrice
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Fig. 1 - Planimetria di Sarajevo nel 1882. In evidenza le aree del Šehidsko Mezarje Kovači (sulla destra) e del Veliki Park (sulla sinistra). Plan of Sarajevo in 1882. The areas of Šehidsko Mezarje Kovači (on the right) and Veliki Park (on the left) are highlighted.
dei commerci verso oriente attraverso Istanbul, si è sviluppato il quartiere ottomano di Stari Grad Vratnik, poi inglobato nel 1739 nella “città fortificata”, ricostruita in seguito all’incursione del 1699 del principe Eugenio di Savoia. Occupata nel 1878 dall’impero austro-ungarico, la città si espanse ad ovest del centro antico con un nuovo quartiere costruito in stile Liberty lungo il fiume, da cui ha avuto luogo lo sviluppo novecentesco di una città costituita da laschi tessuti di edifici multipiano e impianti industriali che si aprivano verso il paesaggio. (fig. 1) Ciononostante, ancora fino al 1992 la struttura ottomana caratterizzava morfologicamente e visivamente l’assetto del centro urbano, con oltre 70 moschee situate sulle rive del fiume Miljacka e diversi ponti di pietra che lo attraversavano. La guerra civile che ha interessato la città di Sarajevo, che dal 6 aprile del 1992 è stata assediata per 1425 giorni dalle forze serbe, ha avuto come scenario questo complesso mosaico e ha prodotto non solo ingenti danni alla città, con il 60% degli edifici e l’80% delle infrastrutture danneggiate o distrutte, ma anche causato la morte di 11.541 abitanti (Hasić, 2006). A partire dal marzo 1996, con la firma dell’accordo di Dayton, sono stati definiti i primi strumenti di pianificazione post-trauma, tra cui il Sarajevo Recovery Project, un piano relativo a 1.353 progetti organizzati sulle 10 zone in cui era stata suddivisa la città. Nella strategia di recupero del paesaggio urbano scenario di guerra è stata data priorità ad alcuni progetti, molti dei quali volti alla ricostruzione del patrimonio culturale, per ripristinare, nei siti interessati, lo status quo ante bellum. Qui il restauro del patrimonio storico è stato facilitato, da un lato, dal fatto che la maggior parte degli edifici erano rimasti nello stato di rovine in situ, dall’altro dall’esistenza di documentazione dettagliata sui
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Unfortunately, reconstruction plans are not always consistent with the inherited characteristics or with the urban and environmental context. The will to chase models which are often far from local architectural, landscape and environmental characteristics, combined with the call for international design competitions, which are unfortunately not always preceded by adequate phases of site analysis and knowledge, to provide new visions and scenarios, can lead to design solutions where the overall characteristics of the historic urban landscape are not always reinterpreted as cultural aspects of the tangible and intangible heritage linked to the built environment. Therefore, it is increasingly urgent to open a broader debate aimed at adapting methods of analysis and design tools to the complex contexts in which, as designers, we are called to act. Within this general framework, and the multiple perspectives, including disciplinary ones, which determine post-trauma reconstruction processes of war-damaged historic urban environments, the objective of this paper is to analyze some case studies where the design for new open spaces has been aimed, with different approaches and outcomes, at preserving the memory of the past, within a renewed urban landscape. Although they seem geographically and culturally distant, Sarajevo and Beirut are examples of two different approaches to the reconstruction of historic urban landscapes, where the design of
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Fig. 2 - Sarajevo. Cimiteri nell’area dello Stadio Olimpico. Sarajevo. Cemeteries in the Olympic Stadium area.
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open spaces, roads, cemeteries, gardens and archaeological areas has significantly contributed to the conservation of the memory of a distant or recent urban history. Both were small towns until the Ottoman era and later deeply transformed under Austrian and French protectorates, these cities first witnessed the globalizing transformations induced by the urban planning promoted at that time, and afterwards they were the scene of civil wars, and of subsequent reconstruction experiences. These experiences opened major debates on possible methodological scenarios and approaches. Starting from a reading of the historical, archaeological and morphological traces, which are taken as substrate, and with a specific focus on the design of the open areas, gardens and squares, therefore of the urban landscape as a whole, this paper deals with the way in which within reconstruction transformative processes these projects have acted as synthetic tools for re-writing the urban landscape substrate. Not only for their formal capacity to reveal it and re-write it, and therefore to enlighten the urban history, but also for their ecological and social implications, linked to the recovery of the environment and the local community through the reconstruction of their public spaces.
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monumenti, che era stata raccolta prima della guerra nei registri dell’Istituto per la Protezione del Patrimonio Storico-Culturale e del Patrimonio Naturale del Cantone di Sarajevo. Grazie a questa documentazione, il centro storico ottomano e il quartiere ottocentesco austriaco sono stati completamente ricostruiti. Inoltre, altri due piani, adottati tra il 1996 e il 2002, hanno contribuito a definire i principi alla base della ricostruzione e del nuovo sviluppo urbano di Sarajevo: la Strategia di Sviluppo al 2015 del Cantone di Sarajevo, in cui sono stati identificati 48 settori di sviluppo e definite azioni e obiettivi specifici per una rigenerazione sostenibile; e il Piano Generale del Cantone di Sarajevo (2003-2023), finalizzato a promuovere le potenzialità naturalistiche, culturali e storiche del Cantone per favorire il turismo culturale, che ha riconosciuto il paesaggio e l’identità come caratteristiche significative dello sviluppo urbano. Quest’ultimo, inoltre, ha ribadito la necessità di preservare le caratteristiche spaziali del paesaggio urbano della città antica, la sua immagine, struttura e forma, supportando un regime di protezione rigorosa, all’interno di un piano territoriale più ampio che elencava 891 beni culturali protetti (Government of Sarajevo Canton, 2006). Conseguentemente, anche il Piano Urbanistico della Città di Sarajevo (19862015) è stato rivisto e adattato ai cambiamenti spaziali, sociali, economici e geopolitici, ed è stato specificamente mirato a migliorare le condizioni di vita urbana attraverso un’attenta pianificazione in cui il processo di ricostruzione e di riconnessione dei frammenti è stato inserito in una visione unitaria del progetto (City Planning Institute, 1996a). A tal fine è stato dato grande peso allo spazio pubblico, prevedendo la riqualificazione di percorsi, spazi aperti, parchi, cimiteri e strade, nella maggior parte dei casi ripristinando aree pubbliche esistenti, ma anche introducendone di nuovi in un tessuto urbano ormai modificato dalla guerra. Pertanto, ai piani di ricostruzione delle infrastrutture e del territorio, è stato da subito associato l’Action Plan for the Revitalization of Sarajevo City Greenery (1993-2000), un piano che ha svolto un ruolo simbolico nella ricostruzione del paesaggio urbano, convogliando necessità funzionali e ambientali legate alla necessità urgente di ripiantumare vaste aree, dare giusta sepoltura ai caduti durante l’assedio e rivitalizzare i parchi e viali della città (City Planning Institute, 1996b). Durante l’inverno del 1993, infatti, tutti gli alberi che costeggiavano strade e parchi erano stati abbattuti per rifornire la città di legno da utilizzare come combustibile e come materiale per costruire le bare. Inoltre, man mano che il bilancio delle vittime cresceva, i cimiteri sono risultati insufficienti a raccogliere l’elevatissimo numero di salme e, a tal fine, sono stati utilizzati tutti gli altri spazi aperti disponibili in città, inclusi i campi da gioco olimpici. Non ultimo, coerentemente con la tradizione ottomana che ha visto nascere i parchi pubblici nelle aree di interesse naturalistico a ridosso delle città, spesso adibite a cimiteri, anche i parchi esistenti sono stati utilizzati per le sepolture. Ad esempio, tra aprile e luglio del 1992, nell’area dello Stadio Olimpico, sono state sepolte 2.200 vittime del conflitto nel Groblje Lav (Cimitero del Leone), un tempo parco pubblico, in cui vi erano già antiche sepolture. In breve tempo, tutta la valle compresa tra lo Stadio Olimpico a nord e la Facoltà di Architettura ad est, è stata trasformata in una vasta area cimiteriale che include, inoltre, l’area del Mezarje Stadion, il Groblje Sveti Josip e il Groblje Sveti Marko. (fig. 2) Analogamente, la maggior parte degli spazi verdi della città è stata trasformata in cimiteri. Nella ricostruzione di Sarajevo, quindi, la rete dei percorsi pedonali nella città antica e dei collegamenti pedonali tra i parchi pubblici della città moderna e contemporanea ha avuto il duplice scopo di ricostituire una sostenibilità urbana a livello di uso degli spazi nel tessuto compatto della città storica, e di contribuire all’equilibrio climatico, ecologico ed ambientale nel tessuto urbano attorno ad essa. Qui, quindi, l’architettura degli spazi verdi è stata progettata come una “struttura” a cui è attribuibile un valore non solo sociale, fattore determinante per la ripresa di una città distrutta dalla guerra civile, ma anche di relazione fisica
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Cemeteries and Traces of Sarajevo’s Recent History The area of Sarajevo has been continuously inhabited since the Stone Age. Located in the valley of the Miljacka River, the city was officially founded in 1461, when the Ottoman governor Isa-Beg Isaković brought together a group of villages, including the Roman settlement of Aquae Sulphurae (located in the suburb of Ilidža) around a political, economic and administrative core, made up of a market, a mosque, public toilets, a hostel and the Governor’s Palace (saray). From the 16th century onwards, the Ottoman district of Stari Grad Vratnik developed along the trade route eastwards through Istanbul, then incorporated in 1739 in the “fortified city”, rebuilt following the 1699 incursion of Prince Eugene of Savoy. From 1878, when it was taken by the AustroHungarian Empire, the city expanded westwards of the ancient urban center with a new Art Nouveau neighborhood built along the river. The twentieth-century development of the city started from this area, made up of loose fabrics of multi-storey buildings and industrial plants open towards the landscape. (fig. 1) Nevertheless, until 1992 the Ottoman structure morphologically and visually characterized the layout of the urban center, with over 70 mosques located on the banks of the Miljacka River, and several stone bridges crossing it. The civil war that affected the city of Sarajevo, which was besieged by Serbian forces for 1425 days, from 6 April 1992, had this complex mosaic as a backdrop, and produced not only serious damage to the city (with 60% of the buildings and 80% of the infrastructure damaged or destroyed), but also caused the death of 11,541 inhabitants (Hasić, 2006). From March 1996, after the signing of the Dayton agreement, the first post-trauma planning tools were defined. They included the Sarajevo Recovery Project, a plan for 1,353 projects organized across 10 areas. In the strategy for recovering an urban landscape that had been a war scenario, to restore the status quo ante bellum, priority was given to some projects aimed at the reconstruction of the cultural heritage.
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Fig. 3 - Sarajevo. Šehidsko mezarje Kovači (Cimitero dei Martiri). Sarajevo. Šehidsko mezarje Kovači (Martyrs’ Cemetery).
tra i nuclei attorno ai quali la città era stata originariamente fondata e tra i quartieri in cui oggi si organizza, fattore importante per una interpretazione sensibile della sua morfologia urbana. I cimiteri ottomani, che segnavano il limite dell’espansione urbana pre-moderna, e i parchi di origine austro-ungarica sono diventati quindi, con la ricostruzione, i connettori delle diverse aree recuperate secondo la loro vocazione originaria. Inoltre, l’elevato numero di sepolture presenti nei parchi, li ha trasformati nei simboli della memoria della guerra da parte di una comunità che oggi vede gli spazi aperti della città occupati quasi esclusivamente da cimiteri. La loro presenza previene il rischio dello sbiadimento del ricordo dell’assedio. In particolare, la presenza di vaste aree cimiteriali ai margini della città consolidata ottomana e austro-ungarica definisce una sequenza di giardini e spazi commemorativi che sostituiscono i monumenti tradizionali e definiscono i limiti della città storica, arricchendo inoltre il paesaggio urbano di biodiversità e ricollegandolo al paesaggio extraurbano. Tra questi il Šehidsko mezarje Kovači (Cimitero dei Martiri), che contiene le sepolture dei combattenti dell’esercito della Bosnia ed Erzegovina, così come del primo presidente Alija Izetbegović, collega l’area commerciale di Baščaršija, il nucleo della città antica ottomana, e la piazza del Sebilj, iconica fontana in legno del 1700, alle mura della Stari Grad Vratnic. Risalendo le pendici del monte che conducono al Žuta tabija (Bastione Giallo) il suo fulcro è il Memorial Centre dei martiri di Kovači: una sala multimediale, un anfiteatro e un muro della memoria che contiene i nomi dei soldati caduti della guerra del 1992-1995. (fig. 3) Il Veliki Park (Pargo Grande) costituisce invece la testata della città viennese. Si tratta della più grande area verde nel centro di Sarajevo, che ingloba nel-
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This was facilitated, on the one hand, by the fact that most of the buildings had remained in a state of ruin in situ, and on the other, by the existence of detailed documentation on monuments, collected before the war in the registers of the Institute for Protection of Cultural-Historical and Natural Heritage of Sarajevo Canton. The Ottoman historic center and the 19th century Austrian quarter have been completely rebuilt thanks to this documentation. In addition, two other plans, adopted between 1996 and 2002, helped to define the guidance underlying both reconstruction and new urban development of Sarajevo: the Sarajevo Canton Development Strategy until 2015, in which 48 development sectors were identified and specific actions and objectives were defined for sustainable regeneration, and the Spatial Plan of Sarajevo Canton (2003-2023), aimed at promoting the natural, cultural and historical potential of the canton to enhance cultural tourism. This latter plan recognized landscape and cultural identity as meaningful features for urban development, and also reiterated the need to preserve the spatial characteristics of the urban landscape of the ancient city, its image, structure and form, by supporting a strict protection status, within a wider territorial plan listing 891 protected objects of cultural heritage (Government of Sarajevo Canton, 2006). Consequently, the Urban Plan of the City of Sarajevo (1986-2015) was revised and adapted to
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Fig. 4 - Sarajevo. Veliki Park (Pargo Grande). Sarajevo. Veliki Park (Great Park).
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Li Beirut. La ricostruzione di Solidaire e l’Heritage Trail
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Il sito di Beirut è stato abitato continuamente per oltre 5.000 anni. Sebbene le sue origini risalgano a un insediamento cananeo dell’età del bronzo (XIX secolo a.C.), “Laodicea nella Fenicia” rimase di limitata importanza fino al momento della sua distruzione, nel 140 a.C., e successiva ricostruzione secondo i canoni ellenistici. Ampliata dai Romani nel I secolo d. C., “Julia Augusta Felix Berytus” fu innalzata al rango di Colonia; in questa fase il centro religioso e amministrativo fu trasferito dal Tell al Foro, presso l’odierna Nejmeh Square (Place de l’Étoile), all’incrocio tra il cardo e il decumano. Per tutto il periodo Ayyubide, Mamelucco e Ottomano, fino alla metà del XIX secolo, Beirut rimase una piccola città fortificata, con il cuore economico-amministrativo posto nell’area del souk, a ridosso del porto, e nuovi tessuti di ville all’esterno delle mura. La struttura territoriale premoderna di Beirut non le ha mai consentito, a parte la parentesi romana, di assumere un ruolo importante poiché, a causa dell’ostacolo geografico rappresentato dalla Catena del Libano, lo sbocco naturale del commercio che proveniva dall’entroterra siriano era spostato più a sud. Solo a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, con la nascita di Israele, il porto di Beirut ha iniziato ad assorbire i flussi di Haifa per poi, sotto il mandato francese, con la connessione stradale con Damasco, ricevere anche quelli provenienti dal Medioriente. È stata questa la fase di maggiore trasformazione urbana, avvenuta su di un tessuto già profondamente modificato verso la metà del XIX secolo, quando allineamenti, rettifili e viali che si incrociavano presso Place de l’Étoile (progetto Art Decò di Camille Duraffourd), furono progettati per trasformare Beirut in una città moderna. (Fig. 5) Ma furono i piani urbanistici di Michel Ecochard a sancire la vera modernizzazione della città, definendo uno schema impostato su grandi assi di circolazione e separazione delle funzioni; un piano che negava il rapporto morfologico e tipologico con la città storica, introducendo edifici multipiano circondati da una pertinenza verde e sovrapponendo questa trama al tessuto storico consolidato. Il Plan d’Amenagement de Beyrouth del 1943 e il Plan Directeur de Beyrouth et de sa Banlieue del 1963, seppur nelle difficoltà incontrate nella realizzazione, segnarono l’inizio di una nuova fase di discontinuità nel progetto urbano, in cui Beirut divenne oggetto di nuove sperimentazioni virate verso modelli occidentali. Questo processo di modernizzazione, occidentalizzazione e globalizzazione si è codificato con la ricostruzione a seguito della guerra civile, che ha afflitto la città tra il 1975 e il 1990 (Davie, 1996). La ricostruzione, iniziata nel 1992 con la fondazione della società privata Solidere (Societé libanaise de reconstruction), è stata fondata su di un esteso programma di ripianificazione dell’area della città antica, della sua espansione occidentale e del porto. Nonostante, a fronte degli estesi danni agli edifici, l’assetto morfologico francese fosse rimasto pressoché intatto, la ricostruzione urbana è stata preceduta da una tabula rasa, sacrificando l’86% dell’edificato dell’area del Central District, per sostituirlo con una moderna città occidentale composta da edifici multipiano realizzati in compound separati di centri istituzionali e finanziari, di aree residenziali e commerciali, intermezzati dai pochi resti storici e archeologici scoperti fortuitamente e documentati o conservati molto velocemente.
spatial, social, economic and geopolitical changes. It specifically aimed to improve urban living conditions, through a careful design, in which the process of reconstruction and reconnection of fragments was included in a unitary vision of the project (City Planning Institute, 1996a). To this end, great importance was given to the public space, with the aim of foreseeing the redevelopment of routes, open spaces, parks, cemeteries and roads. In most cases, existing public areas were restored but new open spaces were also introduced in an urban fabric transformed by the war. Therefore, spatial and infrastructures reconstruction plans were immediately associated with the Action Plan for the Revitalization of Sarajevo City Greenery (1993-2000), a plan that played a symbolic role in the reconstruction of the urban landscape, conveying functional and environmental requirements, linked to the urgent need to replant wide areas to give proper burial to the people who died during the siege, as well as to revitalize city parks and avenues (City Planning Institute, 1996b). In fact, during the winter of 1993 all the trees that lined roads and parks had been cut down, to supply the city with wood to be used as fuel and to build coffins. In addition, as the death toll grew, the cemeteries were not big enough to contain the very high number of corpses and, to this end, all the other open spaces available in the city were used, including the Olympic sport grounds. Last but not least, and following the Ottoman tradition that saw public parks opened in sub-urban areas of natural interest, often used as cemeteries -, the existing parks were also used for burials during the siege. For example, 2,200 victims of the conflict were buried between April and July 1992 in the area of the Olympic Stadium in the Groblje Lav (Lion Cemetery), once a public park already containing ancient graves. The whole valley between the Olympic Stadium, to the north, and the Faculty of Architecture, to the east, was shortly transformed into a vast cemetery area, which also includes the Mezarje Stadion area, the Groblje Sveti Josip and the Groblje Sveti Marko. (Fig. 2) Likewise, most of the city’s green spaces were turned into cemeteries. In the reconstruction of Sarajevo, therefore, the design of the pedestrian route network in the ancient city, and of the pedestrian connections between public parks in the modern and contemporary city had a dual purpose: to restore urban sustainability in terms of use of spaces within the compact fabric of the historic city, and to contribute to climatic, ecological and environmental balance in the urban fabric around it. Here, therefore, the architecture of the green spaces was designed as a “structure” that has a social value, which is crucial for the recovery of a civil war-torn city. Moreover, it also establishes a physical relationship between the nuclei around which the city was founded and among the neighborhoods in which it is organized today. This physical relationship is an important factor for a sound interpretation of its urban morphology. With the reconstruction, the Ottoman cemeteries, which marked the limit of pre-modern urban expansion, and the parks of Austro-Hungarian origin therefore became the connectors of the different urban zones, each one recovered according to its original vocation. In addition, the high number of burials in the parks has transformed them into the symbols of the memory of the war, for a community that today sees the
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la struttura del parco sepolture ottomane insieme alle sepolture degli agenti di polizia qui uccisi nell’operazione Trebević ’93 e al monumento dedicato ai bambini di Sarajevo morti durante la guerra. Le lapidi (nišan) secolari attestano che si trattasse di un cimitero musulmano, il Cimitero di Čekrekčija, che un tempo conteneva la moschea di Čekrekči, la prima moschea cupolata di Sarajevo, costruita a Baščaršija nel 1526, e che nel 1886, con l’arrivo delle autorità austro-ungariche, quando anche qui le sepolture furono vietate all’interno della città, fu ufficialmente trasformato in parco. (fig. 4)
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city’s open spaces occupied almost exclusively by cemeteries. Their presence prevents the risk of the memory of the siege ever fading. In particular, the presence of vast cemetery areas at the edge of the consolidated Ottoman and Austro-Hungarian city defines a sequence of gardens and commemorative spaces that replace traditional monuments and define the limits of the historic city. They also enrich the urban landscape with biodiversity, and link it to the territorial structure. Among these, the Šehidsko mezarje Kovači (Martyrs’ Cemetery), which contains the graves of the soldiers of the Bosnian and Herzegovina army, as well as of the first President Alija Izetbegović, connects the commercial area of Baščaršija, the core of the ancient Ottoman city, and Sebilj Square, with an iconic wooden fountain from the 1700s, to the walls of the Stari Grad Vratnic. Up the slopes of the mountain that lead to the Žuta tabija (Yellow Bastion), its hub is the Memorial Center of the martyrs of Kovači: a multimedia room, an amphitheater and a wall of memory which contains the names of the fallen soldiers in the 1992-1995 war. (Fig. 3) Veliki Park (Pargo Grande) marks the limit of the Viennese city. This is the largest green area in the center of Sarajevo, which includes Ottoman burial sites, together with the memorial of the police officers killed here in Operation Trebević ‘93, and the monument dedicated to the children of Sarajevo who died during the siege. Secular (nišan) tombstones bear witness that this was a Muslim cemetery, the Čekrekčija Cemetery, which once contained the Čekrekči mosque, the first domed mosque in Sarajevo, built in Baščaršija in 1526. With the arrival of the Austro-Hungarian authorities in 1886, when burials were forbidden inside the city, it was officially turned into a park. (Fig. 4)
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Fig. 6 - Sovrapposizione delle strutture romane sul Masterplan di Solidere per downtown Beirut. The structures of the Roman city overlaid on the Solidere Masterplan for downtown Beirut.
Dal punto di vista morfologico, la ricostruzione di Solidere del Central District ha preservato solo gli allineamenti degli assi di ristrutturazione del XIX secolo e l’impianto planimetrico dell’area del souk. Dal punto di vista tipologico, non vi è stata alcuna volontà programmatica di recuperare la memoria dell’identità architettonica prebellica, gran parte della quale già caduta nell’oblio in seguito agli interventi francesi. Dal punto di vista del progetto degli spazi aperti, infine, sicuramente il recupero dei livelli archeologici e una visione paesaggistica non sono stati l’obiettivo principale del piano di ricostruzione. Ciononostante, immediatamente dopo il rapido avvio della controversa ricostruzione, le operazioni di scavo per la realizzazione dei nuovi edifici hanno portato alla luce strati archeologici che andavano dall’epoca fenicia a quella ottomana, aprendo ad un processo di consultazione pubblica che ha evidenziato la necessità di inserire, sotto la supervisione del Directorate General of Antiquities (DGA), interventi paesaggistici per la valorizzazione delle aree archeologiche sia all’interno del masterplan per il Central District che dei singoli progetti edilizi (Rowe e Sarkis, 1998). (Fig. 6) A questo proposito può essere interessante ripercorrere la storia della ricostruzione dei Souk di Beirut, in seguito al concorso di progettazione che ha visto vincere il progetto proposto da Rafael Moneo. L’unico vincolo dato in sede progettuale era stato quello di conservare l’impronta morfologica dell’edificato del quartiere, un’area già abitata nel VI secolo a.C., e che all’epoca si affacciava sul porto. Gli scavi per la realizzazione del complesso commerciale e delle strutture circostanti hanno, però, rivelato importanti testimonianze archeologiche risalenti all’epoca fenicia, alla fase romano-bizantina, oltre a parte del fossato medievale e del molo ottomano, che è stato necessario integrare “in corso
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Li Beirut. Solidaire’s reconstruction and the Heritage Trail Beirut has been continuously inhabited for over 5,000 years. Although its origins date back to a Canaanite settlement from the Bronze Age (19th century BC), Laodicea in Phoenicia had limited importance until its destruction in 140 BC, and subsequent reconstruction was according to the Hellenistic canons. Expanded by the Romans in the 1st century AD, Julia Augusta Felix Berytus was raised to the rank of colony; at this stage, the religious and administrative core was moved from the Tell to the Forum, today’s Nejmeh Square (Place de l’Étoile), at the crossroads between the cardus and the decumanus. Throughout the Ayyubid, Mamluk and Ottoman period, until the mid-nineteenth century, Beirut kept being a small fortified city, with the economic and administrative core located in the souk area, and new fabrics of villas outside the walls. Apart from during the Roman period, the premodern territorial structure of Beirut has never allowed it to have an important role: due to the geographical obstacle of Mount Lebanon, the natural outlet of trade from the Syrian hinterland was to the south. Only from the nineteen fifties, with the foundation of Israel, did the port of Beirut begin to absorb commercial flows from Haifa and afterwards, under the French mandate, with the road connection to Damascus, it also received those from the Middle East. This was the phase of major urban transformation, which took place on an urban fabric already profoundly changed in the mid-nineteenth century, when new alignments, streets and avenues were designed, intersecting at Place de l’Étoile (a
Fig. 5 - Planimetria di Beirut nel 1936. In evidenza l’area di Downtown Beirut (al centro). Plan of Beirut in 1936. The area of Downtown Beirut (in the middle) is highlighted.
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Camille Duraffourd Art Decò project), aimed at turning Beirut into a modern city. (Fig. 5) Nevertheless, the true modernization of the city came with Michel Ecochard’s plans that defined an urban scheme grounded on major streets and segregation of functions. It was a plan that denied the typo-morphological relationship with the historic city, by introducing multi-storey buildings surrounded by green areas and a new layout superimposed over the consolidated historic fabric. Despite difficulties faced in its implementation, the Plan d’Amenagement de Beyrouth of 1943 and the Plan Directeur de Beyrouth et de sa Banlieue of 1963, marked the beginning of a new phase of discontinuity in urban design, when Beirut became the site of a new western-oriented design. This process of modernization, westernization and globalization was codified with the reconstruction, following the civil war that plagued the city between 1975 and 1990 (Davie, 1996). The reconstruction began in 1992 with the establishment of the private company Solidere (Societé libanaise de reconstruction) and was based on an extensive program of re-planning the ancient city, including its western expansion and the harbor area. During the war, in the face of extensive damage to the buildings, the French morphological structure remained almost intact. Nevertheless, at its end, a tabula rasa took place: 86% of the builtup area of the Central District was sacrificed and replaced by a modern western city, made up of multi-storey buildings set inside compounds of institutional and financial centers, residential and commercial areas. In this new layout only a few scattered historic and archaeological remains were saved, fortuitously discovered and quickly documented or preserved. From a morphological point of view, Solidere’s reconstruction of the Central District only preserved the alignments of the 19th century restructuring axes, and the planimetric layout of the souk area. From a typological point of view, there was no programmatic will to recover the memory of the pre-war architectural identity, most of which had already fallen into oblivion with the French masterplan. Finally, regarding the design of the open spaces, the recovery of the archaeological levels and a landscape vision certainly were not the main objective of the reconstruction plan. Nevertheless, soon after the rapid and controversial reconstruction started, the excavations for the substructures of the new buildings brought to light archaeological layers spanning from the Phoenician to the Ottoman era. These findings led to a public consultation process, which called for the need to insert landscape projects, both in the masterplan for the Central District and in the individual building designs, for the enhancement of archaeological areas, set under the supervision of the Directorate General of Antiquities (DGA) (Rowe and Sarkis, 1998). (Fig. 6) To this end, it is interesting to retrace the history of the reconstruction of the Beirut Souks, following the design competition won by Rafael Moneo. Here, the only constraint given by the planning guidelines was to preserve the morphological imprinting of the neighborhood, an area already inhabited in the 6th century BC, when it overlooked the harbor. However, the excavations for the construction of the commercial area and surrounding structures revealed important archaeological evidence dating back to the Phoenician and Roman-Byzantine era, as well as part of the Medieval moat
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d’opera” nel progetto architettonico: il progetto di musealizzazione dei resti archeologici del quartiere fenicio-persiano nelle aree del suq ha imposto modifiche al progetto originario, mentre il ritrovamento delle tracce delle antiche mura e del fossato costruito da Emir Fakhreddine, quando nel XVII secolo fece rivivere l’industria della seta e un grande parte dell’area dei Souk divenne una piantagione di gelso, ha reso necessario integrare questi elementi nelle aree interstiziali del Souk el Jamil; infine, mentre i resti dell’unico edificio mamelucco rimasto a Beirut, il santuario mamelucco di Zawiyat Ibn Iraq al Dimashqi, sono stati integrati nell’Imam Ouzai Square, la piazza meridionale di accesso ai souk progettata da Martha Schwaertz and Partners, le tracce delle antiche mura del porto emerse in Khan Antoun Bey Square, l’area di ingresso settentrionale, hanno bloccato le opere di realizzazione della piazza progettata da PROAP nel 2011. Se nell’area dei Souk la velocità della ricostruzione e la pressoché totale assenza di indagini archeologiche preventive hanno impedito di effettuare adeguati scavi in un’area abitata da più di 3000 anni, l’estensione delle trasformazioni urbane attuate in tutto il Central District ha costretto a dare forma ai lacerti archeologici incontrati, per mezzo del progetto dell’Heritage Trail, un percorso di riconnessione delle tracce e degli strati dell’identità locale. Parallelamente, è emerso il bisogno di tenere il progetto dello spazio pubblico al centro della ricostruzione di Downtown Beirut attraverso un landscape masterplan: una strategia di messa in rete degli spazi aperti, che fungono da connettori per un piano urbanistico altrimenti fondato su settori separati, ognuno con un proprio carattere e regolamento (Kabbani, 1998). È questo il contesto in cui è stato progettato l’Heritage Trail, un circuito pedonale di 2,5 km, sviluppato in collaborazione con il Ministero della Cultura Direzione Generale delle Antichità e il Comune di Beirut, che si snoda lungo la Conservation Area (il settore G del masterplan del Downtown Beirut, ovvero l’originario centro storico), iniziando e terminando presso il Museo di storia della città, sull’antica area del Tell, e che collega i principali siti archeologici, i luoghi di interesse storico, gli spazi pubblici, i monumenti e gli edifici storici rimasti in situ. Il percorso si organizza su tre sezioni (as-Samah, 2000). La prima ruota attorno all’area archeologica del Tell, che ha una significativa importanza storica, integrando diverse vestigia: parte delle mura e della porta cananea, resti fenici, ellenistici, fondazioni del castello crociato costruiti su precedenti fortificazioni romane e occupati dai resti della cittadella ottomana. Qui alcuni progetti, tra cui il Castle Square e Belvedere Park, ad opera di Machado and Silvetti Associates, integrano i resti archeologici del Tell al livello della cittadella con passaggi pedonali, piazze e giardini che si affacciano sul mare. Data la ricchezza del palinsesto dell’area, e in seguito alla scoperta di numerosi resti archeologici, anche qui i lavori sono stati sospesi per accogliere nel progetto resti risalenti all’epoca crociata. Nel Samir Kassir Garden di Vladimir Djurovic Landscape Architecture, sito nei pressi dell’edificio El Bourj, il riferimento al paesaggio storico di Beirut è, invece, legato figurativamente alla presenza di due Ficus nitida secolari, che forniscono ombra al centro del giardino; il riferimento all’antica morfologia urbana è affidato alla sagoma di una piscina che riflette il contesto e segna l’antica linea di costa. (Fig. 7) Il progetto per l’Harbour Square di Gustafson Porter + Bowman, situato nel quadrante settentrionale dell’area protetta di Foch-Allenby, trasforma parte del muro dell’antico porto scoperto con gli scavi in un elemento scultoreo interno alla piazza. Anche qui, la riscrittura dell’antico assetto dell’area è affidata alle vasche d’acqua che rappresentano il mare, e al susseguirsi di cambiamenti nel tipo di pavimentazione, che ridisegnando sul suolo il rapporto della piazza con il vecchio porto. Una seconda sezione dall’Heritage Trail è a cavallo di numerosi monumenti ed edifici significativi tra i quali il Municipio, il Parlamento, la Moschea Mohammad Al-Amin, la Cattedrale di San Giorgio Maronita, il Grand Theatre e le numerose chiese e moschee storiche. Il progetto del Garden of Forgiveness (giardino del perdono) di Gustafson Por-
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Fig. 7 - Beirut. Samir Kassir Garden di Vladimir Djurovic Landscape Architecture. Beirut. Samir Kassir Garden by Vladimir Djurovic Landscape Architecture.
ter, che simboleggia l’unità del Libano, si estende in un’area circondata da chiese e moschee storiche: le moschee El Omari, El Emir Assaf e Mohamed Al-Amin, la chiesa cattolica di Sant’Elia, la chiesa greco-ortodossa di San Giorgio e la cattedrale maronita di San Giorgio, anch’esse specchio della ricca e complessa storia culturale di Beirut. Laddove un tempo c’erano stati souk di frutta e verdura, sono stati disvelati i resti del cardo e del decumano, e quindi le tracce dell’assetto viario della Beirut romana, al cui incrocio è emersa la piattaforma sacra sostrata del tempio fenicio-persiano; all’interno della griglia degli isolati sono stati disvelati i resti di edifici religiosi mamelucchi e ottomani. Il giardino archeologico è collegato al livello della città attraverso una serie di rampe e terrazze poste sui fronti settentrionali e meridionali che, riunendo alberi da frutta, agrumi e ulivi, melograni, pini e magnolie, cipressi e querce in una lussureggiante flora mediterranea, intermezzata da pergolati di rose, vasche e fontane, organizzano la sequenza dei paesaggi agricoli del Libano, dalle montagne al mare, secondo un percorso topografico, terminando nel nodo di passaggio con la città, progettato come giardino recintato disposto intorno a una vasca d’acqua. (Fig. 8) Una terza sezione dall’Heritage Trail ruota attorno al Giardino delle terme romane o Leila Osseiran Garden, progettato da Gillespies nei pressi del Grand Serail. Anticipato su Riad El Solh Street dall’Amine El Hafez Square, il giardino combina archeologia e architettura del paesaggio, definendo uno scenario urbano organizzato in aree separate: il lato sud, un suolo roccioso di rovine in cui la vegetazione è presente in misura limitata; l’area archeologica che disvela, con i resti di volte in mattoni, dell’ipocausto e delle vasche, la ricca storia architettonica della città romana; il lato nord costituito da una serie di terrazze all’aperto ricche di piante aromatiche e profumate, tra cui alloro,
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and Ottoman pier, which were integrated, during construction, into the architectural projects. In particular, the original project was changed following the museum preservation project of the archaeological remains of the PhoenicianPersian district in the souk area. The finding of traces of the ancient walls and of the moat built by Emir Fakhreddine when, in the seventeenth century, the silk industry was revived and a large part of the Souk area became a mulberry plantation, made it necessary to show these elements in the interstitial areas of the Souk el Jamil. The remains of the only Mamluk building left in Beirut, the shrine of Zawiyat Ibn Iraq al Dimashqi, were integrated into Imam Ouzai Square, the southern access square to the souks, designed by Martha Schwaertz and Partners. The traces of the ancient harbor walls emerged in Khan Antoun Bey Square, the northern entrance area, stopped the construction of the square, designed by PROAP in 2011. In the Souks, the reconstruction and the almost total lack of preventive archaeological investigations hindered the carrying out of appropriate excavations in an area inhabited for more than 3000 years. Nevertheless, the size of urban transformations implemented throughout the Central District forced the planners to give shape to the archaeological fragments encountered, through the Heritage Trail project, a walk reconnecting the traces and layers of the local identity. Alongside this process, the need emerged to put the design of public spaces at the center of the reconstruction of Downtown Beirut, through a landscape master plan: a strategy of networking the open spaces, which now act as connectors for an urban plan otherwise based on separate sectors, each one with its own characteristics and regulations (Kabbani, 1998). This is the context in which the Heritage Trail was designed, a 2.5 km pedestrian circuit, developed in collaboration with the Ministry of Culture - General Directorate of Antiquities and the Municipality of Beirut, which runs through the Conservation Area (G sector in the master plan of Downtown Beirut, which is the original historic center), starting and ending at the “City History Museum”, in the ancient Tell area. The trail connects the main archaeological sites, places of historic interest, public spaces, monuments and historic buildings left in situ (as-Samah, 2000). It consists of three sections. The first runs around the archaeological area of the Tell, which has a significant historic importance, and integrates several vestiges: the Canaanite gate and part of the walls, Phoenician and Hellenistic remains, the foundations of the Crusader castle built on previous Roman fortifications, and later occupied by the remains of the Ottoman citadel. Here some projects, including those of Castle Square and Belvedere Park, by Machado and Silvetti Associates, integrate the archaeological remains of the Tell at the level of the citadel with walkways, squares and gardens overlooking the sea. Given the richness of the site’s palimpsest, and following the discovery of a number of archaeological remains, the implementation of the site-works was also suspended to accommodate remains from the Crusader era. In the Samir Kassir Garden designed by Vladimir Djurovic Landscape Architecture, located near the El Bourj, the reference to the historic urban landscape of Beirut is instead figuratively linked to the presence of two secular Ficus nitida providing shade in the middle of the garden; the reference to the ancient urban morphology is
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entrusted to the shape of a pool that reflects the context and marks the ancient coast line. (Fig. 8) Gustafson Porter + Bowman’s project for Harbor Square, located in the northern quadrant of the protected area of Foch-Allenby, turns part of the wall of the ancient harbor uncovered during the excavations into a sculpture inside the square. Here too, the pools representing the sea unveil the ancient structure of the area, and multiple changes in the type of pavement re-write on the ground the relationship between the square and the old harbor. A second section of the Heritage Trail passes many significant monuments and buildings, including the Town Hall, the Parliament, the Mohammad Al-Amin Mosque, the Maronite Cathedral of St. George, the Grand Theater and several historic churches and mosques. Gustafson Porter’s Garden of Forgiveness project, which symbolizes the unity of Lebanon, extends into an area surrounded by historic churches and mosques: the El Omari, El Emir Assaf and Mohamed Al-Amin mosques, the Catholic church of Sant’Elia, the Greek Orthodox church of St. George and the Maronite cathedral of St. George, which also mirror the rich and complex cultural history of Beirut. Where once there were fruit and vegetable souks, the remains of the cardus and of the decumanus, and therefore the traces of Roman Beirut’s road system, were revealed, together with the sacred substratum of the Phoenician-Persian temple at their intersection; inside the grid of blocks the remains of Mamluk and Ottoman religious buildings were also uncovered. The archaeological garden is connected to the city level through a series of ramps and terraces set on the northern and southern fronts. Terraces bring together fruit trees, such as citrus and olive trees, pomegranates, with pines and magnolias, cypresses and oaks, in a lush Mediterranean flora interspersed with pergolas of roses, basins and fountains: accordingly they organize the sequence of Lebanon’s agricultural landscapes, from the mountains to the sea, following a topographic route, ending in the space of transition with the city, designed as an enclosed garden arranged around a pool of water. (Fig. 8) A third section of the Heritage Trail runs around the Roman Baths Garden or Leila Osseiran Garden, designed by Gillespies near the Grand Serail. The garden, the entrance to which on Riad El Solh Street is from Amine El Hafez Square, combines archeology and landscape architecture, defining an urban scenario organized in different areas: the southern area is a rocky ground of ruins where vegetation is poor; the archaeological area reveals, with remains of brick vaults, of the hypocaust and the tanks, the rich architectural history of the Roman city; the northern side is made up of a series of outdoor terraces rich in aromatic and fragrant plants, including laurel, rosemary, lavender, jasmine and roses, which evoke the atmosphere of the ancient city. The connection between the garden areas is ensured by walkways, while the upper area includes an amphitheater and spaces that can be used for shows and events. (Fig. 9) The route ends at the top of the hill, near the Grand Serail, the Hamidiye clock tower, and the Crusader Church of St. Louis des Capucins.
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Fig. 8 - Beirut. Progetto del Garden of Forgiveness di Gustafson Porter. Beirut. Gustafson Porter’s Garden of Forgiveness project.
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rosmarino, lavanda, gelsomini e rose, che evocano le atmosfere della città antica. Il collegamento tra le aree del giardino è assicurato da passerelle, mentre l’area superiore include un anfiteatro e spazi che possono essere utilizzati per concerti ed eventi. (Fig. 9) Il percorso termina in cima alla collina, nei pressi del Grand Serail, della torre dell’orologio Hamidiyi, e della Chiesa crociata di St. Louis des Capucins. Memoria e riconciliazione: la città come paesaggio urbano Ogni esperienza di ricostruzione di un paesaggio urbano storico che ha subito “danni collaterali” a seguito di eventi bellici è unica, e le ragioni delle scelte specifiche alla base della sua ricostruzione stanno nella storia, nella cultura architettonica e nella società locale. Ciononostante, la valutazione dei risultati della ricostruzione di Sarajevo e Beirut ha offerto la possibilità di riflettere sulla possibile attuazione di un approccio sintetico al disvelamento della memoria della storia lontana o recente della città, focalizzato non sulla ricostruzione dei singoli edifici o dei quartieri, ma sulla ricomposizione delle tracce delle diverse forme e assetti che la città ha avuto nel tempo al fine di disvelarne e ridisegnarne le forme urbane. Ciò è particolarmente evidente se, operando sull’assetto di paesaggi storici consolidati, osserviamo l’invito della Recommendation on the Historic Urban Landscape dell’UNESCO a considerare, nelle categorie principali di patrimonio urbano, oltre al patrimonio monumentale di eccezionale valore culturale ed agli elementi del patrimonio non eccezionali ma presenti in relativa abbondanza, anche i “nuovi elementi urbani”, tra cui la forma urbana, gli spazi aperti
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Memory and reconciliation: the city as an urban landscape Each case of reconstruction of a historic urban landscape that has suffered “collateral damage” following war events is unique, and the reasons
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ER EI D N SC H BR ET e le infrastrutture. Riconoscendo che un paesaggio urbano storico deriva da una stratificazione di valori culturali e naturali, è necessario quindi inserire i processi di ricostruzione all’interno di un quadro di sviluppo non limitato ai singoli edifici: l’architettura è solo uno degli elementi che definiscono l’organismo urbano e, nel processo di ricostruzione, dobbiamo tenere conto di tutte le sue diverse componenti, inclusi gli spazi aperti. Operando in questo modo, saremo in grado di inquadrare i processi di ricostruzione urbana come “ecosistemi”, in cui la ricostruzione funzionale degli aspetti puramente fisici è parte di un progetto più ampio di ricostruzione della società locale e dell’ambiente urbano. Conseguentemente, in questo processo, il ruolo del progetto degli spazi aperti diventerà particolarmente significativo, così come esemplificato dai casi studio analizzati di Sarajevo e Beirut. A Sarajevo la ricostruzione della memoria e dell’identità locale è avvenuta attraverso il progetto dei parchi e dei cimiteri, mentre a Beirut attraverso la riscrittura delle tracce storico-archeologiche. Questi progetti hanno avuto un ruolo strategico nelle azioni di ripianificazione, influenzando significativamente la nuova immagine della città. Col progetto di vaste aree pubbliche, il progetto di ricostruzione di Sarajevo è stato, infatti, arricchito di spazi per la riconciliazione tra le diverse componenti della ricca ed eterogenea popolazione locale; luoghi in cui conservare memoria non solo degli eventi bellici, ma anche delle fasi formative e trasformative della morfologia urbana; luoghi che stabiliscono un rapporto peculiare tra città e paesaggio circostante, e di uso degli spazi pubblici, che è proprio della cultura dei Balcani e del portato Ottomano. A Beirut i progetti degli spazi pubblici che hanno inglobato le aree archeologiche hanno riportato in evidenza il ricco palinsesto della morfologia
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for the specific choices behind its reconstruction lie in its own history, architectural culture and local society. Nevertheless, evaluations of the results of the reconstruction of Sarajevo and Beirut give us the chance to think about a possible way to implement a synthetic approach aimed at unveiling the memory of the distant or recent history of the city: in order to reveal and redesign the urban forms, this would be focused on the reassembling of the traces of the different forms and structures that the city has had over time, instead of focusing on the reconstruction of individual buildings or neighborhoods. This is particularly noticeable when dealing with the structure of consolidated historic landscapes. Accordingly, and in the light of the UNESCO Recommendation on the Historic Urban Landscape that, in addition to monuments of exceptional cultural value and to heritage elements that are not exceptional but are present in relative abundance, calls to consider, within the main categories of urban heritage, also the so called “new urban elements” (the urban form, open spaces and infrastructure), it is therefore necessary to place the reconstruction processes within a development framework which is not limited to the individual buildings. Recognizing that a historic urban landscape derives from the stratification of cultural and natural values, we should consider that architecture is just one of the elements that define the urban organism
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Fig. 9 - Beirut. Giardino delle terme romane o Leila Osseiran Garden. Foto di Gabriele Basilico. Beirut. Garden of the Roman baths or Leila Osseiran Garden. Photograph by Gabriele Basilico.
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and, in the reconstruction process, we must take into account all its different components, including open spaces. By operating accordingly, we will be able to frame urban reconstruction processes as “ecosystems” where the functional reconstruction of merely physical aspects is part of a more extensive recovery project of the local society and urban environment. Consequently, in this process, the role of the design of open spaces will become particularly significant, as exemplified by the case studies of Sarajevo and Beirut. In Sarajevo the reconstruction of the local memory and identity took place with the design of parks and cemeteries, while in Beirut through rewriting the historic-archaeological traces. These projects played a strategic role in the planning actions, notably influencing the new image of the city. With the design of large public areas, the Sarajevo reconstruction program was, in fact, enriched with spaces for the reconciliation of the different groups of a rich and heterogeneous local population. These included places to keep the memory not only of war events but also of the formative and transformative phases of the urban morphology as well as places to set a peculiar relationship between the city and the surrounding landscape and where public areas are used in a way which is typical of the Balkans and of the Ottoman landscape legacy. In Beirut, instead, projects for public spaces embedding archaeological areas have highlighted the rich palimpsest of urban morphology, by re-writing the physical structure of areas, which are significant for the history of one of the many Middle Eastern cities that have been continuously inhabited for over 5000 years. Finally, both in Sarajevo and Beirut these design strategies were not foreseen from the very beginning. In Sarajevo, they arose from the need to bury the victims of the war. In Beirut they were accidentally induced after the excavation of many archaeological areas, and driven by the civil society that, during the public consultation phases, asked for their enhancement in the design of open spaces. Nonetheless, these projects became the backbone of the reconstruction plans, providing the two cities with a network of pedestrian connections, roads and public spaces, and influencing the urban regeneration process, thus guaranteeing the design of a cohesive urban structure. Together with the reconstruction of individual monuments, they healed the existing physical and social rift, helping the population to come to terms with its pain, and encouraging the restoration of the national identity.
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urbana, riscrivendo l’assetto fisico di alcuni luoghi significativi per la storia di una delle tante città mediorientali che è stata abitata continuativamente per 5000 anni. Sia a Sarajevo che a Beirut queste strategie progettuali non sono state previste sin dall’inizio. A Sarajevo sono scaturite dalla necessità di dare sepoltura alle vittime della guerra. A Beirut indotte dallo scavo accidentale di numerose aree archeologiche, e sulla spinta della società civile nelle fasi di consultazione pubblica, che ne ha chiesto la valorizzazione nel progetto degli spazi aperti. Ciononostante, questi progetti sono diventati la spina dorsale dei piani di ricostruzione, fornendo alle due città una rete di collegamenti pedonali, strade e spazi pubblici, e influenzando il processo di rigenerazione urbana, garantendo quindi la progettazione di una struttura urbana coesa. Insieme alla ricostruzione dei singoli monumenti, essi sono stati in grado di curare la spaccatura fisica e sociale esistente, aiutare la popolazione a venire a patti con il suo dolore e incoraggiare il ripristino dell’identità nazionale.
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urbanform and design L’immateriale che disegna lo spazio
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Maria Grazia Cianci
Department of Architecture, Roma Tre University, Rome, Italy E-mail: mariagrazia.cianci@uniroma3.it
Francesca Paola Mondelli
Department of Architecture, Roma Tre University, Rome, Italy E-mail: francescapaola.mondelli@uniroma3.it
Introduzione
The immaterial as a mean of drawing the space
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Abstract In this paper we ask ourselves what are the material and immaterial layers that make up contemporary public space. Which of them must we take into account in the design of the void, and in what way? The answer to these questions comes from a comparison between the different theories and approaches that have built urban public space over time, sometimes referring to the physical sphere, other times taking more into account the immaterial layers, relationships and behaviors that generate the space. In particular, we will focus on highlighting the points of contact and distance between the urban regeneration programs of the 1990s, with specific reference to the Centopiazze Program in Rome, and contemporary bottom-up design movements such as Tactical Urbanism. With these reflections we propose a vision of the city that contemplates in its stratifications its immaterial part, which compares and adds to the materiality of places with an active role. In the ability to design behaviors, we seek the point of balance between design and spontaneous use of space, defining the forms of the urban designed by the immaterial sphere.
Se è vero che parlare di stratificazioni in ambito urbano fa generalmente riferimento alla sovrapposizione di elementi materici che rendono riconoscibili le varie trasformazioni applicate alla città nel corso del tempo, in senso più ampio potrà essere inteso il concetto di “città per strati” se lo applichiamo allo spazio pubblico. La città contemporanea, oltre a doversi confrontare con le stratificazioni storiche che costruiscono il sottosuolo ed il tessuto insediativo, tiene in sé una serie di stratificazioni immateriali che compongono il vuoto della città. Se l’edificato accumula strati materici, murari, materiali, che ci rimandano alle diverse epoche che si sono sovrapposte, lo spazio pubblico, oltre a questo, stratifica comportamenti ed usi che non seguono una consequenzialità cronologica, ma che convivono simultaneamente. Si tratta di livelli che generano intrecci, maglie sociali che generano territori urbani laddove la mancanza di sovrapposizioni lascerebbe spazio al semplice vuoto. Gli spazi aperti, per loro stessa natura, mettono insieme il costruito con il non-costruito, dovendo quindi coniugare le forme dell’Urban Design con le forme d’uso spontanee e incontrollate dei suoi abitanti. In una città come Roma, caratterizzata tanto dalle forti stratificazioni storiche-archeologiche quanto dalle miriadi di sovrapposizioni sociali che articolano gli spazi della città dal centro alla periferia, è possibile esplorare luoghi in cui questi strati si mescolano nelle esperienze progettuali che si sono confrontate con ognuno di essi.
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Keywords: public space, urban design, Centopiazze Program, Tactical Urbanism, immaterial layers
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Introduction Talking about stratifications in the urban environment generally refers to the overlapping of material elements that make recognizable the various transformations applied to the city over time. In a wider meaning the concept of “city by layers” can be understood if we apply it to public space. The contemporary city has to deal with the historical stratifications that build the subsoil and the settlement fabric. But, at the same time, it holds within itself a series of immaterial stratifications that make up the void of the city. On the one hand, the built-up area accumulates layers of construction, walls, materials, which remind us of the different eras that have overlapped. On the other hand, the public space, in addition to this, stratifies behaviours and uses that do not follow a chronological sequentiality, but coexist simultaneously. These are levels that generate interweaving, social meshes that generate urban territories where the
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Definire lo spazio pubblico fra materialità ed immaterialità Se volessimo provare a dare una definizione dello spazio pubblico, fin dal primo momento ci renderemmo conto della difficoltà di giungere ad una conclusione univoca che lo descriva in maniera esaustiva. Ben presto giungeremmo quindi alla necessità di approfondimento, sul piano teorico, delle molteplici definizioni dello spazio pubblico, una pluralità che scaturisce già da una prima ed affermata suddivisione che descrive lo spazio pubblico da un lato nella sua dimensione morfologica, disegnata e misurabile; dall’altra come spazio relazionale. Un dualismo di vecchia memoria, descritto da Henri Lefebvre nella simultanea caratteristica dello s.p. di essere “rappresentazione dello spazio”, e dunque celebrazione del potere, e “spazio della rappresentazione” (Lefebvre, 1974), luogo vissuto ed animato, come un teatro, dagli abitanti. Dunque, spazio pubblico come luogo fisico, materiale, estensione dello spazio architettonico, e allo stesso tempo luogo condiviso del vivere urbano, immateriale, territorio degli abitanti. Due macro-categorie all’interno delle quali è ancora possibile riscontrare nuove e diverse definizioni. Sul piano materiale lo spazio pubblico è un sistema di spazi urbani, prevalentemente scoperti ma talvolta anche coperti, che risultano come negativo del costruito costituendo dunque una rete che al tempo stesso separa e mette in relazione gli edifici fra di loro. Sono spazi definiti da confini fisici più o meno permeabili; spesso sono gli spazi dell’infrastruttura, e cioè non “luoghi dello stare”, ma “spazi da attraversare”. Si tratta di definizioni attinenti quindi alle | Maria Grazia Cianci_ Francesca Paola Mondelli | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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Fig. 1 - Greater London Plan, 1944. Open Space Plan.Lo sviluppo degli spazi pubblici era di fondamentale importanza nel Greater London Plan di Abercrombie. Qui è riportata una rielaborazione del piano degli spazi aperti. Greater London Plan, 1944. Open Space Plan. The development of public spaces was of fundamental importance in Abercrombie’s Greater London Plan. Here is a reworking of the Open Space Plan.
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Fig. 2 - Gli spazi aperti del Campo Marzio a Roma. La trama degli spazi pubblici del tessuto medievale romano nell’area del Campo Marzio è caratterizzata da spazi irregolari, organici, sinuosi, poco attenti al disegno ma più fedeli all’uso dello spazio da parte degli abitanti. The open spaces of the Campus Martius in Rome.The plot of the public spaces of the medieval Roman fabric in the area of the Campus Martius is characterized by irregular, organic, sinuous spaces, not very focused on design but more faithful to the use of space by the inhabitants.
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caratteristiche morfologiche, ovvero il disegno e la differente forma assunta da strade e piazze in quelli che nel tempo sono andati a costituire gli archetipi dello spazio pubblico. Sul piano immateriale, d’altro canto, lo spazio pubblico è quello spazio che ha la caratteristica di produrre in chi lo fruisce la doppia e profonda impressione di appartenere alla città, ma anche che essa appartenga a chi la abita (figura1). Definizione, quest’ultima, particolarmente in linea con la Convenzione Europea del Paesaggio, che nell’articolo uno definisce il paesaggio come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”, ponendo l’accento proprio sul ruolo attivo delle popolazioni che abitano e percepiscono lo spazio costruendo, di fatto, non in via materiale ma attraverso processi culturali, il paesaggio stesso e, nel nostro caso, lo spazio pubblico urbano. Si tratta dunque di definizioni ascrivibili alla sfera relazionale, o in generale immateriale: sono spazi che generano un sentimento di identità, ma comprendono anche i così detti non-luoghi descritti da Marc Augè, spazi a cui manca proprio quel carattere di appartenenza e di collettività; sono spazi della relazione ma anche spazi dell’individualità, specie in riferimento alle teorie sulla “Modernità Liquida” di cui ci parla Bauman; sono spazi individuati da un nome, la cui mancanza concorre a farli percepire come estranei. Proprio in riferimento a questa tematica, vale la pena considerare quello che è il valore del toponimo. Dare nome allo spazio, infatti, è un processo che, quando non strutturato e gestito dall’alto in ambito amministrativo, si innesca quasi sempre in maniera spontanea fra gli abitanti dando luogo ad una nomenclatura informale molto efficace. Questa spontaneità risponde tuttavia a regole molto solide, insite nella comunità: non tutti i luoghi vengono “chia-
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lack of overlapping would leave room for simple emptiness. Open spaces, by their very nature, bring together the built and the unbuilt, thus having to combine the forms of Urban Design with the spontaneous and uncontrolled forms of use of its inhabitants. The city of Rome is characterized both by the strong historical-archaeological stratifications and by the multitude of social superimpositions that articulate the spaces of the city, from the centre to the suburbs. In this context it is possible to explore places where these layers mix up and play a leading role in the different projects. Defining public space between materiality and immateriality If we wanted to try to give a definition of public space, from the very first moment we would realise how difficult it is to come to a single conclusion that describes it in a definitive way. Soon we came to the need to deepen, on a theoretical level, the multiple definitions of public space. This multitude of definitions comes from a first and established subdivision between material and immaterial aspects that describes public space. On the one hand in its morphological dimension, designed and measurable; on the other hand, as relational space. This dualism was described by Henri Lefebvre in the simultaneous characteristic of public space of being “representation of space” (celebration of power), and “space of representation” (a place lived and animated, like a theatre, by the inhabitants) (Lefebvre, 1974). Therefore,
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mati”, ma solo quelli che riflettono usi e consuetudini protratte nel tempo e valide per un gruppo consistente di persone. Lo stesso luogo potrà, nel lessico cittadino informale, assumere diversi nomi, a seconda del gruppo sociale che vi faccia riferimento. Quella, ad esempio, che a livello amministrativo ed in assenza di toponimo ufficiale, viene indicata come “area tra via X e via Y”, per i ragazzi del posto potrebbe essere la piazza davanti la scuola, per gli anziani le panchine davanti l’ufficio postale. In alcuni casi, inoltre, anche solo un singolo elemento di uno spazio può bastare ad indicare un luogo preciso, se tale oggetto costituisce un ritrovo riconosciuto ed assorbito da parte della comunità. Non è insolito, specialmente nei piccoli centri, o a livello di quartiere, darsi appuntamento “al muretto” o “al monumento”, o ancora “allo stradone” e così via. Più che il toponimo, allora, a farsi mezzo di appropriazione del luogo sono le abitudini svolte in quei luoghi ed espresse attraverso parole che richiamo immediatamente alla mente del cittadino, lo spazio associato a quella riconosciuta abitudine. Non a caso, specialmente nei piccoli centri, il nome ufficiale dei diversi spazi pubblici dice poco ai suoi abitanti, che preferiscono continuare a farvi riferimento attraverso “toponimi informali” auto-prodotti ma molto radicati.
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L’approccio agli spazi aperti fra sfera fisica e relazionale
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In maniera analoga e consequenziale al dualismo delle definizioni che abbiamo fin qui individuato, potremmo tracciare una breve cronistoria studiando i programmi e i progetti che hanno avuto per oggetto il trattamento dello spazio pubblico riferendosi maggiormente alla sfera fisica o a quella relazionale. È in questo modo possibile, dunque, ripercorrere per grandi linee le differenti fasi storiche che hanno utilizzato tali approcci, generando spazi anche formalmente molto differenti. Dopo il periodo classico, in cui gli spazi pubblici erano disegnati in quanto proiezione esterna dei luoghi dedicati al potere e all’amministrazione della città, potremmo dire che per tutto il periodo precedente al Rinascimento, la città ed i suoi spazi pubblici erano il risultato di un processo di costante modifica e trasformazione volto ad andare incontro alle specifiche necessità contingenti, prive di uno sguardo programmatore dall’alto. I nostri centri storici sono infatti caratterizzati da spazi irregolari, organici, sinuosi, poco attenti al disegno ma più fedeli all’uso dello spazio da parte degli abitanti (figura 2). Con il Rinascimento ricompare un approccio molto formale: le belle piazze monumentali risaltano il potere negando spesso e volentieri proprio il carattere relazionale e comunitario, fino ad arrivare a limitare l’accesso a determinate classi sociali. In epoca moderna, l’industrializzazione prima ed il funzionalismo introdotto dal movimento moderno poi, hanno probabilmente contribuito ad una spersonalizzazione dello spazio pubblico che si è fatto sempre più programmatico e regolare, caratterizzato da geometrie semplici e ripetitive. Una prima affascinante riflessione ci porta innanzitutto ad interrogarci sul momento in cui sarebbe avvenuto il passaggio dallo spazio di rappresentanza, inteso come rappresentazione del potere, allo spazio “per il pubblico”, inteso come luogo di scambio in cui si intessono relazioni sociali. Già da una prima e veloce analisi di quanto appena detto, si può evincere come, in questo modo, si arrivi a superare una preconcetta convinzione secondo cui le piazze siano sempre state concepite come luoghi pensati e progettati per andare incontro ai bisogni della civitas. Tutt’altro: il più delle volte, a ben guardare, le piazze monumentali che caratterizzano le città europee si sono tradotte nel “palinsesto delle arroganti ed egocentriche rappresentazioni dei poteri che di volta in volta hanno dominato la città” (Cellini, 1997), luoghi strumentali all’esaltazione del singolo più che all’armonia della comunità. Quell’idea di spazio pubblico concepito come risposta ad un bisogno di aggregazione e di scambio è molto più contemporaneo di quanto possiamo pensare, e pertanto assume necessariamente forme e caratteri nuovi e lontani dall’idea di piazza che ci viene tramandata dalla storia. Così, venendo a epoche più contemporanee, possiamo osservare come gli ap-
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public space as a physical, material, extension of architectural space and at the same time a shared place of urban living, territory of the inhabitants. Two macro-categories within which it is still possible to find new and different definitions. On the material level, public space is a system of urban spaces, mainly uncovered but sometimes also covered, which result as a negative of the built up. It forms a network of spaces that at the same time separates and relates buildings to each other. They are spaces defined by more or less permeable physical boundaries; often they are the spaces of the infrastructure, that is not “places to be”, but “spaces to be crossed”. So, this public space definitions concern morphological characteristics, i.e. the design and the different shape assumed by streets and squares in their archetypal forms. On the immaterial level, however, it is that space that has the characteristic of producing in the users the double and strong impression of belonging to the city, but also that it belongs to the inhabitants (figure 1). The latter definition is particularly in line with the European Landscape Convention, which in article one defines the landscape as “a certain part of the territory, as perceived by the populations, whose character derives from the action of natural and/or human factors and their interrelationships”. This definition focuses precisely on the active role of the people who inhabit and perceive space, building, not in a material way but through cultural processes, the landscape itself and also urban public space. So, this are definitions that refer to characteristics associated with the relational sphere, or more generally the immaterial one. They are spaces that generate a feeling of identity, but also include the so-called non-lieux described by Marc Augè: spaces that miss precisely that character of community and belonging. They are spaces of relationship but also spaces of individuality, especially in reference to the theories on “Liquid Modernity” discussed by Bauman. They are spaces identified by a name whose lack contributes to making them perceived as strangers. Precisely in reference to the latter theme, it is worth considering the value of the toponym. Name a place is a process that, when not structured and managed by the administration, is almost always triggered spontaneously among the inhabitants giving rise to a very effective informal nomenclature. This spontaneity, expressed in the naming of spaces, responds, however, to very solid rules, inherent in the community. Not all places are “called”, but only those that reflect long-standing customs and habits valid for a large group of people. In the informal city lexicon, the same place can take different names, depending on the social group that refers to it. The one, for example, which at the administrative level without an official place name is indicated as “area between street X and street Y”, for local children it could be “the square in front of the school”, while for the elderly is “the benches in front of the post office”. In some cases, moreover, even a single element of a space may be enough to indicate a precise place. It often occurs when this object constitutes a meeting place recognized and absorbed by the community. It is not unusual, especially in small towns, or at neighbourhood level, to meet “at the little wall” or “at the monument”, or even “at the main street” and so on. More than the place-name, the appropriation of the space is made by the habits carried out in those places. Therefore, the citizen use words that immediately call to the mind the space associated with that recognized habit. It is very common that, especially in small towns, the official name of public spaces says little to its inhabitants, who
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Fig. 3 - Lavori in corso a Piazzale degli Eroi. Il cantiere di Piazzale degli Eroi, progetto di riqualificazione avviato con il Programma Centopiazze. Roma, 1996. Work in progress at Piazzale degli Eroi. The construction site in Piazzale degli Eroi, a requalification project started with the Centopiazze Programme. Rome, 1996.
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Fig. 4 - Alcune aree di progetto del concorso “Le piazze di quartiere”. Alcuni schemi estratti dal fascicolo di presentazione del concorso “Le piazze di quartiere”, 1994. È interessante notare come alcune aree di progetto vengano definite “area tra”, data la mancanza di un toponimo ufficiale attraverso cui individuarle. Some project areas of the competition “The neighbourhood squares”. Some schemes extracted from the presentation dossier of the competition “Le piazze di quartiere”, 1994. It is interesting to note that some project areas are defined as “area between”, due to the lack of an official toponym to identify them.
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procci progettuali riferiti al trattamento degli spazi pubblici stiano continuando ad oscillare fra un’architettura disegnata ed un tipo di intervento meno formale. Tuttavia, nel contemporaneo, questi due approcci vanno incontro a principi spesso simili, specialmente per quanto concerne l’intenzione di andare incontro alle esigenze ed alle pratiche spontanee di utilizzo da parte degli utenti. Il disegno urbano degli anni ’90. L’esperienza “Centopiazze” a Roma Gli anni ’90 rappresentano forse il decennio in cui lo spazio pubblico torna al centro della progettazione e della programmazione urbana, e lo fa in tutt’Europa attraverso programmi che tendono a fare del disegno degli spazi aperti lo strumento principale per la rigenerazione urbana, facendo dunque leva proprio sulla componente fisica e morfologica dello spazio, se pure orientata ad un beneficio verso le condizioni abitative, comportamentali e relazionali che caratterizzano il quartiere. In maniera analoga e sulla scia del fermento che si stava cominciando ad avvertire in altre città europee, a Roma, negli anni ’90 quella dello spazio pubblico fu di nuovo avvertita come un’esigenza, un diritto ed un obiettivo fondamentale a cui mirare per il benessere della città. Faremo dunque riferimento a Roma ed all’esperienza del Programma Centopiazze, di fatto l’ultima azione con cui la città di Roma si è rivolta al tema dello spazio pubblico in maniera così estesa sul territorio. Nato su proposta dall’architetto Francesco Ghio, e sviluppatosi sotto il suo coordinamento, “Centopiazze” è stato un programma di riqualificazione urbana
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prefer to refer to them through self-produced but very deeply rooted “informal place names”. The approach to open spaces between the physical and relational sphere Starting from the public space definitions we have identified so far, we could retrace the different approaches to the public space project over time. We could recognize programs and projects that have referred more to the physical or relational sphere. In this way it is possible to retrace the different historical phases that have used such approaches, generating spaces that also have a very different design. During the classical period, public spaces were designed as an external projection of the places dedicated to the power and administration of the city. Throughout the pre-Renaissance period, the city and its public spaces were the result of a process of constant modification and transformation aimed at meeting specific contingent needs, without a programmer’s perspective from above. Our historical centres are in fact characterized by irregular, organic, sinuous spaces, not very focused on design but more in line with the use of space by the inhabitants (figure 2). With the Renaissance, a very formal approach reappears: the beautiful monumental squares emphasize power, often denying precisely the relational and community character, up to the point of limiting access to certain social classes. In modern times, industrialization first and then functionalism introduced by the modern movement, probably contributed
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The urban design of the 1990s. The “Centopiazze” experience in Rome The 1990s are perhaps the decade in which public space returns to the centre of urban design and planning. It occurs all over Europe through programmes that tend to make the open spaces design the main tool for urban regeneration. This approach works focusing on the physical and morphological component of space, albeit oriented to a benefit towards the living, behavioural and relational conditions of the neighbourhood. In the wake of what was happening in Europe in the 1990s, in Rome public space was once again felt as a need, a right and a fundamental objective to aim for the welfare of the city. We will therefore refer to Rome and to the experience of the Centopiazze Programme. The Programme was actually the last action through which the Roman administration has addressed the theme of public space in such an extensive way in the territory. We will try to highlight the characteristic features of this “designed” approach, by which it was intended to give shape and consistency to the open spaces of the city. The aim was to meet the needs of the neighborhoods and their inhabitants. (Figure 3) Centopiazze was created on a proposal from the architect Francesco Ghio and developed under his coordination. It was an urban redevelopment program that reached the public spaces of all sectors of the city: from the centre to the periphery. After a period where the city of Rome had been subjected to restrictive and control measures due to a long phase of commissioning, a wave of positive energy appeared with the installation of the new Council led by Mayor Francesco Rutelli. In this way Rome started a complex and articulated urban redevelopment programme by implementing numerous initiatives. Among these: the protection of large open areas still present in the suburbs, interventions to enhance the historical heritage and, last but not least, a plan for the management and
che ha raggiunto gli spazi pubblici di tutti i settori della città: dal centro alla periferia. Dopo un periodo in cui la città di Roma era stata sottoposta a misure restrittive e di controllo dovute ad una lunga fase di commissariamento, si palesò una ondata di positiva energia con l’insediamento della nuova Giunta guidata dal Sindaco Francesco Rutelli. Roma così diretta diede inizio ad un complesso e articolato programma di riqualificazione urbana attuando numerose iniziative tra cui la tutela di grandi aree libere ancora presenti nelle periferie, gli interventi di valorizzazione del patrimonio storico e, non per ultimo, un piano di gestione e valorizzazione degli spazi pubblici. Proprio in questo clima nacque il Programma “Centopiazze per Roma”. Il Programma, sorto con l’intento di coinvolgere in primo luogo le amministrazioni ma non solo, voleva far partecipare attivamente alle decisioni e alle trasformazioni della città i cittadini, i principali fruitori di Roma e, contemporaneamente, voleva essere un esempio per le amministrazioni a venire. Con il tempo il Programma divenne sempre più ampio e sempre più rivolto alla qualità, alla concretezza e alla chiarezza tra gli interventi puntuali e le strategie generali che l’Amministrazione capitolina si era prefissata di attuare. Vista la complessità degli interventi e soprattutto la necessità di essere velocemente attuati, l’Amministrazione decise di istituire l’Ufficio di coordinamento presso il Gabinetto del Sindaco. Furono coinvolti tutti i municipi, gli assessorati all’Urbanistica, alla Mobilità, ai Lavori Pubblici: un coinvolgimento dinamico e propositivo sia nelle fasi di programmazione che in quelle attuative. Centopiazze maturò e si sviluppò nel corso del tempo grazie alla volontà di intervenire sullo spazio pubblico romano attraverso risoluzioni in vari settori ed ambiti. Ciò consentì, dopo un processo di maturazione e consapevolezza delle azioni che si stavano compiendo, di giungere ad occuparsi delle grandi opere di architettura che mutarono e caratterizzarono il volto della città a partire dagli anni 2000. Proveremo dunque ad evidenziare i tratti caratteristici di questo approccio “disegnato”, attraverso cui si pretendeva di dare forma e consistenza agli spazi aperti della città, con l’intento di andare incontro ai bisogni dei quartieri e dei loro abitanti. (figura 3) “In effetti, il progetto dello spazio pubblico e, più in generale, la questione della riqualificazione degli spazi aperti della città, sono ormai da tempo oggetto di interesse e di intervento da parte di molte amministrazioni europee: sgombrato il campo dall’equivoco del progetto di spazi pubblici attraverso l’arredo urbano (…) l’attenzione della cultura architettonica si è spostata su una più attenta progettazione dei luoghi, cercando elementi di coerenza con il paesaggio circostante e con la parte di città nella quale si intende intervenire.” (Ghio, 1997) Disegno si, quindi, ma con un chiaro riferimento a quei valori immateriali che sono però fondamentali nel fornire corpo e consistenza a ciò che, per sua definizione, è un “vuoto”. Non è un caso se, ancora una volta, col Programma Centopiazze ritorna la riflessione sull’uso del toponimo. Come esempio a tal proposito, Infatti, si può notare come nel fascicolo di presentazione del concorso “Le piazze di quartiere”, ovvero il primo concorso di progettazione con cui si diede avvio al Programma Centopiazze, alcune aree di progetto vengono definite “area tra”, dei non-luoghi urbani che si aveva l’ambizione di trasformare in spazi per la comunità (figura 4). Una dialettica continua fra ciò che possiamo riconoscere, dandogli un nome, e ciò che invece viene definito dalla spontanea consuetudine dell’abitare, senza regole, in maniera “informale”. Ed è proprio di identità che parla il programma, di riconoscimento che il cittadino può provare nei confronti dell’ambiente che vive, alla piccola scala, fino alla complessità della città di cui fa parte. La potenza dell’operazione sta proprio nella sua connotazione sociale, nell’aver indicato la strada per la riqualificazione urbana passando attraverso opere anche minute di progettazione dello spazio pubblico. La globalità dell’intervento, che non si è dato limiti territoriali circoscrivendo l’azione al solo centro storico o alle sole periferie, è un chiaro messaggio verso l’abbattimento del limite che si è venuto a creare negli anni fra la città “bella”, quella da conservare e da guardare con distacco, e la città
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to a depersonalization of public space. It became increasingly programmatic and regular, characterized by simple and repetitive geometries. A first fascinating reflection leads us to ask ourselves about that moment when the passage from the space of “representation” to the space “for the public” would take place. The one understood as a reflection of power, the second meant as a place of exchange in which social relations occur. From a first and quick analysis of what we already said, we arrive at overcoming a preconceived conviction that squares have always been considered as places of relationship, designed to meet the needs of civitas. Quite the opposite: most often, the monumental squares that characterize European cities have been transformed into the “palimpsest of the arrogant and egocentric representations of the powers that from time to time have dominated the city”. (Cellini, 1997). I.e. places instrumental to the exaltation of the individual more than to the harmony of the community. That idea of public space conceived as a response to a need for aggregation and exchange is much more contemporary than we might think. As a result, public space necessarily takes on new forms and characters that are far from the idea of a square that history has handed down to us. Thus, coming to more contemporary times, we can observe how design approaches to public spaces continue to oscillate between a formal architecture and a more informal type of intervention. However, nowadays, these two approaches meet often similar principles, especially with regard to the intention to meet users’ spontaneous needs and practices.
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Lo spazio pubblico contemporaneo. Progetti temporanei ed Urbanismo Tattico
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Sono passati circa tre decenni da quando programmi di rigenerazione urbana come Centopiazze hanno visto la luce in Europa. La questione, dunque, è capire cosa sta accadendo oggi, tenendo conto dell’evoluzione della società e degli eventi che in questi anni hanno più volte sconvolto il mondo, senza dimenticare le ripercussioni che la crisi economica del 2008 ha avuto, oltre che sulla popolazione, anche e soprattutto sulle capacità di gestione e manutenzione degli spazi aperti da parte delle amministrazioni. Se Centopiazze è stato il risultato degli anni ’80, e quindi di una crisi politica da cui le amministrazioni locali dovevano necessariamente venire fuori, proponendo progetti che consentissero ai cittadini di recuperare fiducia verso le istituzioni, quale tipo di approccio è stato invece prodotto dalla nostra epoca contemporanea? Con la prospettiva di una crisi globale senza precedenti davanti ai nostri occhi, ci domandiamo da che parte debba pendere l’ago della bilancia, questa volta, fra materiale ed immateriale, fra tattica e strategia, fra piccola e grande scala, fra progettisti ed utenti, laddove la società è passata dall’essere oggetto passivo a soggetto attivo del progetto. Nonostante da decenni esistano studi di noti architetti ed antropologi (Marc Augè, Michel Foucault, Jan Ghel, William H. Whyte per citarne alcuni) che sottolineano come il funzionamento di uno spazio pubblico non dipenda dal suo disegno né necessariamente dalla qualità del contesto architettonico, si è comunque continuato per anni a attestarsi su un approccio progettuale urbano che presta particolare attenzione all’aspetto formale, trascurando a volte le dinamiche comportamentali pregresse al progetto o pretendendo di cambiarle proprio attraverso il design. Tuttavia, quella che sembra essere la nuova tendenza nel progetto degli spazi pubblici, sposta di nuovo l’ago della bilancia dall’aspetto materiale a quello immateriale, proponendo interventi che più che disegnare spazi cerchino di interpretare e creare opportunità d’uso che prendono vita solo attraverso la riattivazione e la partecipazione degli abitanti. In questo senso, uno dei movimenti maggiormente noti negli ultimi anni è quello che viene definito “Urbanismo Tattico”. Si tratta di un “approccio per il coinvolgimento degli abitanti nei processi di rigenerazione urbana a scala di quartiere che utilizza interventi spaziali e politiche a breve termine, a basso costo e scalabili, per riportare lo spazio pubblico al centro del quartiere e della vita degli abitanti”, per utilizzare la definizione riportata sul sito istituzionale del Comune di Milano. È Milano, infatti, la principale città italiana che da un anno a questa parte sta sperimentando il Tactical Urbanism all’interno di “Piazze Aperte”, progetto che rientra nel “Piano Periferie” con il quale il Comune di Milano sta affrontando il tema della rigenerazione urbana. I programmi e gli intenti, infatti, non sono di certo venuti a mancare, essendo vive più che mai le problematiche delle città moderne ed estremamente sentito il bisogno di rigenerazione in molti quartieri. Cambiano però i metodi, adattandosi ai tempi. (figura 6) Ma l’urbanismo tattico è arrivato in Italia con circa dieci anni di ritardo. È in-
enhancement of public spaces. It was precisely in this climate that the “Centopiazze per Roma” programme was born. The Programme was created with the intention of involving the administrations in the first place, but not only. It wanted to make the citizens, the main users of Rome, actively participate in the decisions and transformations of the city and, at the same time, it wanted to be an example for the administrations to come. Over time, the Program became more and more extensive and increasingly focused on quality, concreteness and clarity between the timely interventions and the general strategies that the Capitoline Administration had set out to implement. Given the complexity of the interventions and above all the need to be quickly implemented, the Administration decided to set up the Coordination Office at the Mayor’s Cabinet. All the town halls, the Urban Planning, Mobility and Public Works Departments were involved: a dynamic and proactive involvement both in the planning and implementation phases. Over time, thanks to the desire to operate in the Roman public space, Centopiazze matured and developed through interventions in various sectors and areas. So, with a process of maturation and awareness of the actions that were being carried out, this evolution allowed to deal with the great architectural projects that changed and characterized the face of the city since the 2000s. We will therefore try to highlight the features of this “designed” approach, through which it was intended to give shape and consistency to the open spaces of the city. The intention was that of meeting the needs of the neighborhoods and their inhabitants. “In fact, it is from the public spaces that the cities and administrations that animate them can be organized, that their image is built and perceived: the streets, the gardens, the squares, together with the buildings and monuments are the elements that characterize and distinguish the city to which they belong. Often few details, the edge of a road, the design of a bench, a lamppost, are enough to recognize a city...” (F. Ghio) So, design, but with a clear reference to those intangible values that are, however, fundamental in providing body and consistency to what, by its definition, is a “void”. It is not by chance that, once again, with the Centopiazze Program, the reflection on the use of the toponym returns. As an example, we can see how in the presentation dossier of the competition “The neighborhood squares” (the first design competition that launched the Centopiazze Programme), some project areas are defined as “area between”. They were non-places that one had the ambition to transform into spaces for the community (Figure 4). A continuous dialectic between what we can recognize, giving it a name, and what is defined by the spontaneous habit of living, without rules, in an “informal” way. The programme is all about identity, a recognition that the citizen can prove towards the environment he lives, on a small scale, up to the complexity of the city to which he belongs. The power of the operation lies precisely in its social connotation, in having shown the way for urban redevelopment by going through even minute works of public space design. The intervention involved the whole city, without given any territorial limits or circumscribing the action only to the historical centre or to the suburbs. This was a clear message towards the demolition of the border that has been created over the years between the “beautiful” city and the city “of the others”. The one to be preserved and to be looked at with detachment, the other in
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“degli altri”, quella in cui si svolge la vera vita urbana ma paradossalmente più trascurata, abbandonata a sé stessa. Adattandosi di volta in volta ai differenti contesti, gli interventi trasformano e migliorano gli spazi pubblici della città storica (Ghio, 2000), anch’essi da vivere e non solo da contemplare, ed allo stesso tempo non si abbandonano le periferie, ma anzi si rendono parte attiva della progettazione della città, costituendo nuove centralità in opposizione all’ottica del “quartiere dormitorio” (figura 5). È questo il motivo per cui i progetti di Centopiazze sono così diversi fra loro, ed assolutamente scevri, nella maggior parte dei casi, di uno schema tipologico comune a cui rifarsi. L’unità del programma è garantita dall’unico punto che lega insieme tutti i progetti: quello di rispondere, in vario modo, ad un bisogno, ad una esigenza, ad una mancanza.
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Fig. 5 - Lavori in corso al Portico di Ottavia. Il Programma Centopiazze si adattava ai diversi contesti nei quali andava ad operare. Nel centro di Roma ogni proposta venne fatta nel rispetto delle stratificazioni storiche. Work in progress at Portico di Ottavia. The Centopiazze Program was adapted to the different contexts in which it operated. In the centre of Rome every proposal was made in respect of the historical stratifications.
torno al 2010 che The Street Plans, studio di giovani urbanisti americani, pubblica “Tactical Urbanism: Short Term Action | Long Term Change”, una sorta di manifesto in cui vengono illustrati una serie di progetti temporanei per la riattivazione e il miglioramento della vivibilità di alcuni spazi pubblici in diverse città statunitensi. La tattica consiste in azioni e trasformazioni urbane a breve termine e basso costo, caratterizzate da un elevato impatto ed una potenziale replicabilità. Non si tratta solo di azioni bottom-up non regolamentate: l’urbanismo tattico può essere applicato anche dall’alto attraverso proposte dell’amministrazione comunale, oppure prevedere il supporto della politica locale ed il coinvolgimento dei cittadini che lavorano insieme. Per i cittadini rappresenta un modo efficace ed immediato di riappropriarsi dello spazio pubblico, mentre per gli amministratori è un modo per sviluppare buone pratiche in tempi brevi ad una spesa contenuta, con la possibilità di ponderare, attraverso un approccio urbanistico leggero ed il vantaggio di una totale reversibilità dell’intervento, l’impatto delle trasformazioni all’interno del quartiere e come queste vengano o meno accolte dai cittadini. (figura 7)
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which the true urban life unfolds but paradoxically more neglected, abandoned to itself. Adapting from time to time to the different contexts, the interventions transform and improve the public spaces of the historic city (Ghio, 2000), also to be lived and not only to be contemplated. At the same time, they do not abandon the suburbs, but rather they make themselves an active part of the design of the city. There were constituting new centralities in opposition to the perspective of the “dormitory quarter” (figura 5). This is the reason why Centopiazze’s projects are so different from each other, and absolutely free, in most cases, of a common typological scheme to which they can refer. The unity of the program is guaranteed by the only point that binds all the projects together: that of responding, in various ways, to a need.
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Fig. 6 - Il Progetto per Porta Genova a Milano. Nell’ambito del programma “Piazze Aperte” il Comune di Milano utilizza l’urbanismo tattico per la rigenerazione urbana. Il progetto per Porta Genova è stato inaugurato il 6 Aprile 2019. The Project for Porta Genova in Milan. Within the “Open Squares” programme, the Municipality of Milan uses tactical urbanism for urban regeneration. The project for Porta Genova was inaugurated on 6 April 2019.
The contemporary public space. Temporary Projects and Tactical Urbanism About three decades have passed since urban regeneration programmes such as Centopiazze saw the light in Europe. The question, therefore, is to understand what is happening today. We have to take into account the evolution of society and the events that in recent years have repeatedly shocked the world. The economic crisis of 2008, among others, had repercussions not only on the population, but above all on the ability of administrations to manage and maintain open spaces. Centopiazze was the result of the political crisis of the 1980s. Thus, local governments tried to come
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Planning-by-Doing o Pianificare facendo? Differenti strategie per scopi comuni Come specificato anche nel documento di intenti redatto da Street Plans, il Tactical Urbanism si rifà a concetti già noti ed in parte sperimentati nel design urbano: DIY Urbanism, Planning-by-Doing, Urban Acupuncture e Urban Prototyping. È molto interessante, ai fini di questo studio, ritrovare fra questi concetti alcuni dei lemmi che sono stati tipici degli interventi degli anni ’90 | Maria Grazia Cianci_ Francesca Paola Mondelli | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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out proposing projects that would allow citizens to regain confidence in institutions. So, what kind of approach has been produced by our contemporary era? With the prospect of an unprecedented global crisis in front of our eyes, on which side should the needle of the balance turn, this time? Material or immaterial, tactics or strategy, small or large scale? If society has gone from being a passive object to an active subject of the project, what is the balance between designers and users? For decades there have been studies by famous architects and anthropologists (Marc Augè, Michel Foucault, Jan Ghel, William H. Whyte among others) that underline how the functioning of a public space does not depend on its design or necessarily on the quality of the architectural context. Despite this fact, for years there has been an urban design approach that pays particular attention to the formal aspect. This strategy has often ignored the behavioural dynamics prior to the project, sometimes pretending to change them through design. However, what seems to be the new trend in the public space design, once again shifts the balance from the material to the immaterial aspect. This are interventions that rather than designing spaces are trying to interpret and create opportunities for the users. This means to create spaces that come to life only through the reactivation and participation of the inhabitants. One of the best-known movements in recent years on this theme is the so-called “Tactical Urbanism”. It is an “approach for the involvement of the inhabitants in the processes of urban regeneration on a neighbourhood scale that uses short-term, low-cost, scalable spatial and political interventions to bring public space back to the centre of the neighbourhood and the life of the inhabitants”. This is the definition reported on the institutional website of the Municipality of Milan. It is Milan, in fact, the main Italian city that for a year now has been experimenting with Tactical Urbanism. Within “Open Squares”, a project that is part of the “Suburbs Plan”, the City of Milan is addressing the theme of urban regeneration. The programs and intentions, in fact, have certainly not failed in recent years, as the problems of modern cities are alive more than ever and the need for regeneration in many neighborhoods is extremely felt. However, methods are changing, adapting to the times. (Figure 6) However, tactical urbanism arrived in Italy about ten years late. It was around 2010 that The Street Plans, a study by young American urban planners, published “Tactical Urbanism: Short Term Action | Long Term Change”. It is a sort of manifesto illustrating a series of temporary projects for the reactivation and improvement of the liveability of some public spaces in different American cities. The tactic consists of short term and low-cost urban actions and transformations, characterized by high impact and potential replicability. These are not only unregulated bottom-up actions. Tactical urbanism can also be applied in a top-down model through proposals from the municipal administration. It can also provide support from local politics and the involvement of citizens working together. For residents it is an effective and immediate way to re-appropriate public space. For administrators it is a way to develop good practices in a short time at a low cost. The benefit is the possibility to weigh the impact of the transformations within the neighbourhood, through a light urbanistic approach and a total reversibility of the intervention, and how this is accepted or not by citizens. (Figure 7)
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ed in particolare del Programma Centopiazze, che sulla scia dell’agopuntura urbana barcellonese, ha poi fatto del “pianificare facendo” un principio finito per diventare quasi uno slogan politico. Proprio su questo punto, il merito che va sottolineato fra le caratteristiche del Programma Centopiazze, è quello di aver focalizzato sempre le azioni verso l’obiettivo dell’intervento concreto, e della trasformazione reale e possibile della città di Roma. Questo significava, citando le parole dello stesso Francesco Ghio, “bandire concorsi di progettazione dedicando particolare attenzione alla fattibilità e alla certezza dei finanziamenti”, scongiurando dunque, in qualche modo, il rischio di trasformare le occasioni concorsuali in “momenti di esercitazione accademica slegati dai processi reali di trasformazione del territorio e della città”. È in quest’ottica che allora il celebre motto del “pianificare facendo” (o del “fare pianificando”, come viene riportato nel primo numero della rivista “Centopiazze” nel novembre 1996) può essere meglio compreso: “abbellire una piazza o farne una nuova può sembrare marginale in una città che ha necessità di imponenti interventi strutturali, ma abbiamo pensato fosse un errore continuare ad aspettare l’ora fatidica, quella in cui, risolti i problemi di fondo, si poteva mettere mano alle migliorie”. (Centopiazze n°1, Novembre 1996) Dunque, l’intento non era certo quello di posare uno sguardo miope sulla città di Roma, dimenticando le importanti questioni strutturali da affrontare, ma tendeva però a non incorrere nell’errore contrario, ossia quello di pretendere una cristallizzazione della vita urbana costringendo la città in un immobilismo innaturale ed impossibile, nell’attesa di una trasformazione totale e repentina. Gli interventi di urbanismo tattico muovono esattamente da questo presupposto fondamentale: quello della fattibilità e della velocità degli interventi. In un certo senso, il Tactical Urbanism va ad estremizzare tali concetti adeguandoli ad un’epoca in cui le risorse si sono fatte più scarse, e la lunghezza dei tempi di realizzazione “classica” si sono fatti insostenibili. L’esperienza Centopiazze ha dimostrato come, invece, proprio i piccoli interventi possano farsi motore di trasformazioni urbane a scala più ampia. Allo stesso modo, i progetti di design urbano temporaneo, tipici del Tactical Urbanism, intendono mettere alla prova le potenzialità inespresse da uno spazio spesso sottoutilizzato, valutandone le potenti ripercussioni all’interno dei quartieri e, di conseguenza, a livello urbano. L’idea del pianificare facendo mirava a tenere insieme la pianificazione e la gestione della città che viene vissuta nel quotidiano e della quale prendersi cura (Cecchini, 2019). Ed infatti, sono le parole di Francesco Ghio a parlare di quella che è la “novità romana”: “mentre i nuovi programmi urbanistici (…) vengono definiti ed approvati, l’amministrazione comunale si è impegnata in una azione diffusa di riqualificazione e manutenzione urbana che è stata avviata su vari fronti dai Dipartimenti Territorio, Ambiente, Lavori Pubblici, Mobilità”” (Ghio, 2000) La necessità di tenere insieme le due dimensioni, quella delle linee generali e quella degli interventi puntuali, svincolandoli da una logica di consequenzialità temporale ma anzi incoraggiandone un simultaneo sviluppo, poteva risultare superflua in città e stati nei quali le singole opere di architettura si inseriscono naturalmente in un quadro generale e, soprattutto, le tempistiche molto più brevi rispetto a quelle a cui siamo abituati in Italia, garantiscono una realizzazione delle opere abbastanza rapida da poterne valutare i risultati (figura 8). Per quella che invece era la situazione politica da cui Roma stava venendo fuori al momento dell’avvio del Programma, quella del “pianificare facendo” sembrava essere l’unica via percorribile, la migliore filosofia da seguire per scampare al pericolo di una nuova fase di “architettura disegnata” (Ghio, 2001) ed inaugurare, invece, una necessaria stagione di progetti realizzati e di concretezza. Quella che, dunque, nasce come una strategia che potremmo definire “d’urgenza” ha dato tuttavia luogo ad un sistema solido e ben ragionato di interventi con cui si sono riuscite a tenere insieme le diverse scale ed esigenze delle varie parti della città. È proprio da questo tipo di problematiche e dal conseguente approccio che ne deriva, prendono le mosse, oggi, molti dei progetti di spazio pubblico contemporaneo. Altro aspetto fondamentale ed interessante da mettere a confronto fra questi
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Planning-by-Doing or Pianificare-facendo? Dif-
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due approcci, è quello della partecipazione. Centopiazze ha dato voce ad uno spirito di generale voglia di cambiamento, mettendo insieme la linea politica delle amministrazioni di quegli anni, con quella della partecipazione cittadina. Il ruolo della cittadinanza quale parte attiva e spesso promotrice degli interventi ha costituito un tratto caratteristico fondamentale del Programma. Bisogna tenere presente, come abbiamo detto, che agli albori di tale esperienza, nel 1994, Roma stava faticosamente venendo fuori da un forte periodo di crisi che ne aveva associato l’immagine ad un concetto di malgoverno. È anche a seguito di ciò che il forte malcontento popolare iniziava a spingere dal basso per richiedere finalmente una maggiore attenzione a quelli che erano i problemi della città, a cominciare dalla qualità della vita offerta dai suoi spazi (figura 9). Sebbene dunque la partecipazione cittadina abbia esercitato un indiscutibile peso soprattutto nei momenti di avvio e discussione delle proposte, stiamo tuttavia parlando di un tipo di partecipazione molto diversa da quella a cui facciamo riferimento in ambito di urbanismo tattico. La natura stessa degli interventi, infatti, si presta in questo caso maggiormente ad un coinvolgimento attivo degli abitanti proprio nei processi di realizzazione del progetto. I tempi sono dunque invertiti: se nel caso di programmi come Centopiazze, la popolazione viene inizialmente coinvolta ma poi tenuta fuori durante la fase di messa in opera dei progetti che può essere anche lunga e soggetta a cambiamenti e revisioni, nel caso dell’urbanismo tattico, l’iniziativa può essere proposta da un gruppo (abitanti, associazioni, o la stessa amministrazione) ed arriva a coinvolgere la popolazione in senso pratico ed attivo proprio nel momento in cui la realizzazione del progetto è in corso. Questo aspetto non è affatto banale, in quanto dimostra che l’attivazione degli abitanti nella creazione del luogo, risulta fondamentale alla costruzione stessa dello spazio: uno spazio in cui accorgimenti minimi, fatti di vernice, arredi temporanei e l’uso di grafie che individuano spazi e funzioni disegnandoli a terra, hanno consistenza ed impatto solo perché vissuti ed assorbiti dalla comunità che li esprime. (figura 10)
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Conclusioni. Riflessioni sul tempo e le stratificazioni che generano lo spazio pubblico contemporaneo A conclusione di questo lavoro scaturiscono alcune necessarie considerazioni. La prima riguarda proprio le stratificazioni, partendo da quello che è a tutti gli effetti uno spostamento della vita pubblica dagli spazi configurati della città storica ai così detti “spazi altri”, nei quali le relazioni possano prendere il sopravvento sulle forme. In questo senso, allora, l’intento della progettazione dello spazio pubblico contemporaneo è quello di intuire questi luoghi, interpretarli e tradurli secondo forme e processi condivisi. Quello che, a partire dalla città funzionalista, si è protratto spesso fino ad epoche più recenti come un luogo non-luogo, uno spazio vuoto che si limita all’applicazione degli standard urbanistici, descrive una città i cui spazi pubblici pretendono di assumere consistenza attraverso una giustapposizione di oggetti, spesso ripetitivi ed incoerenti, che dovrebbero disegnare lo spazio ma che di fatto non riescono da soli né ad incoraggiare l’aggregazione né tantomeno a permetterne la fruibilità. Si contrappone a questo scenario quello dello “spazio libero”, ovvero lo spazio in cui si sovrappongono azioni, incontri, strati sociali e livelli diversi di fruizione, in un’ottica che rompe i canoni del funzionalismo e che si svincola dalle etichette con cui si categorizzano rigidamente gli ambiti dell’architettura fra pubblico, privato, semi-privato, semi-pubblico e via dicendo. Si tratta della “capacità dell’architettura di offrire in dono spazi liberi e supplementari a coloro che ne fanno uso” (Farrel, McNamara, 2018), a sottolineare la predominanza dell’intangibile sulla forma. La seconda considerazione riguarda il tempo, e come questo influisca oggi sulla società, sui comportamenti, ed infine quindi anche sull’urbano. La città di oggi è il riflesso della nostra stessa cultura contemporanea, e ne soffre, di conseguenza, gli stessi limiti, che sono appunto anche limiti di tipo temporale. Il fatto che attualmente si avverta in maniera diffusa questa tendenza alla cre-
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ferent strategies for common purposes As also specified in the document of intent drawn up by Street Plans, Tactical Urbanism is based on concepts already known and partly experimented in urban design: DIY Urbanism, Planning-by-Doing, Urban Acupuncture and Urban Prototyping. It is very interesting, for the purposes of this study, to find among these concepts some of the terms that were typical of the interventions of the 1990s. In particular we can recognize some of the Centopiazze Programme ideas, such as the urban acupuncture (taken from the Barcelona model), or the “planning by doing”, a concept that has become almost a political slogan. Among the characteristics of the Centopiazze Programme we should emphasize precisely this point. Centopiazze has always focused its actions towards the objective of concrete intervention, and the real and possible transformation of the city of Rome. This meant, quoting the words of Francesco Ghio himself, “launching design competitions with particular attention to the feasibility and certainty of funding”. It means to avoid, in some way, the risk of transforming competition opportunities into “moments of academic exercise unrelated to the real processes of transformation of the territory and the city”. It is in this perspective that the famous motto of “planning by doing” (or “doing by planning”, as reported in the first issue of the magazine “Centopiazze” in November 1996) can be better understood: “beautifying a square or making a new one may seem marginal in a city that needs massive structural interventions, but we thought it was a mistake to keep waiting for the fateful hour, when, once the underlying problems had been solved, improvements could be made”.(Centopiazze n°1, November 1996) Therefore, the intention is not to forget the important structural issues to be addressed. It tends, however, not to run into the opposite error, that of claiming a crystallization of urban life, forcing the city in an impossible immobility and waiting for a total and sudden transformation. The interventions of tactical urbanism move exactly from this fundamental assumption: that of the feasibility and speed of the interventions. Tactical Urbanism tends to extreme these concepts. It adapts them to an era in which resources have become scarcer, and the timescale of “classic” project has become unsustainable. The Centopiazze experience has shown how, on the other side, small interventions can be the driving force behind urban transformations on a larger scale. In the same way, temporary urban design projects, typical of Tactical Urbanism, aim to test the unexpressed potential of space, often underused. It tends to evaluate the powerful repercussions within neighbourhoods and, consequently, at an urban level. The idea of planning by doing aimed to keep together the planning and the management of the city we live and care of (Cecchini, 2019). The words of Francesco Ghio explain us what is the “Roman novelty”: “while the new urban planning programmes (...) are defined and approved, the municipal administration has committed itself to a widespread action of urban requalification and maintenance. It has been started on various fronts by the Departments of Territory, Environment, Public Works, Mobility””. (Ghio, 2000) The need to keep together the two dimensions, that of general lines and that of punctual interventions was fundamental in Rome. This idea allows and encourages interventions to develop simultaneously on both the general and the detailed scale. It could seem to be superfluous in cities and states where the single architectural works naturally fit into a general framework. Moreover, the
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Fig. 7 - Times Square. La pedonalizzazione di Times Square è uno degli esempi più iconici di Tactical Urbanism, azione temporanea che è stata in grado di ispirare un cambiamento permanente della celebre piazza di Manhattan. Foto dell’autore, Ottobre 2014. Times Square. The pedestrianization of Times Square is one of the most iconic examples of Tactical Urbanism, a temporary action that has been able to inspire a permanent change in the famous Manhattan square. Photo by the author, October 2014.
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Fig. 8 - Prima mappa degli interventi Centopiazze. 1996. La mappa degli interventi previsti nel 1996 mostra l’idea dell’agopuntura urbana che ispirava il programma, assieme all’intenzione di intervenire su tutto il territorio della città, dal centro alle periferie. First map of Centopiazze interventions. 1996. The map of the interventions planned in 1996 shows the idea of urban acupuncture that inspired the programme, together with the intention of intervening on the whole city territory, from the centre to the suburbs.
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azione di “progetti temporanei”, alla realizzazione di spazi “degradabili”, o in generale all’idea di una confortante reversibilità delle azioni, ci induce ancora una volta a fare riferimento alle teorie di molti filosofi ed antropologi della modernità che già da qualche decennio si sono dedicati all’analisi di questi aspetti della società moderna. Se già Augè parlava della accelerazione della storia, della sovrabbondanza di tempo e di spazio nella descrizione delle tre figure dell’eccesso che descrivono la condizione di surmodernità, se Bauman ci ha introdotto al concetto di modernità liquida e se siamo di fatto circondati da una cultura di rapido consumo, è possibile pensare che anche la città e i suoi spazi, riflettendo questo spirito, siano diventati “fast”, veloci, distanti dal carattere permanente di cui erano composte le città storiche. È come se ciò che realmente ci importi oggi non sia preservare la memoria né tantomeno la condivisione dei luoghi con le generazioni future, ma anzi l’unica cosa davvero rilevante sia l’hic et nunc, il qui ed ora. Abituati come siamo al cambiamento costante, non ci preoccupiamo più di creare spazi nati per durare, ma soltanto spazi “temporanei”, “pop-up” diretti all’uso e consumo esclusivo di chi li abita in quella fase, dal momento che il volume degli spostamenti e la costanza dei ricambi sociali non ci danno modo di conoscere né di preoccuparci di ciò che avverrà nel futuro prossimo. Così come per il fast-food, il fast-fashion, il fastdesign, si fa strada oggi una idea di “fast-city” che riflette i ritmi accelerati della nostra società e che non è destinata a durare, ma al contrario si scompone nel giro di pochi anni, qualche decade se si è fortunati, senza lasciare traccia di sé se non sotto forma di rappresentazione digitale. Se, in definitiva, accettiamo che lo spazio pubblico contemporaneo sia composto da stratificazioni immateriali in cui il progetto dello spazio fisico cede sempre più il passo ad una destrutturazione progressiva ed accelerata dai
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much shorter timescales compared to those we are accustomed to in Italy, ensure that the works are carried out quickly enough to evaluate the results (figure 8). Anyway, in the political situation Rome was living when the Programme was launched, “planning by doing” seemed to be the only possible way forward. It represented the best philosophy to follow in order to escape the danger of a new phase of “designed architecture” (Ghio, 2001) and to inaugurate a season of realized and concrete projects. Therefore, what was born as an “emergency” strategy, has nevertheless given rise to a solid and reasoned system of interventions. It has been able to keep together the different scales and needs of the various parts of the city. It is precisely from this kind of questions and design approach that many of the contemporary public space projects take their starting point today. Another fundamental and interesting aspect to compare between these two approaches is that of participation. Centopiazze gave voice to a spirit of general desire of change, putting together the political line of the administrations of those years, with that of citizen participation. The role of citizenship as an active part often promoter of interventions, has been a fundamental characteristic feature of the Programme. It must be kept in mind, as we have said, that at the beginning of this experience, in 1994, Rome was laboriously coming out of a strong period of crisis that had associated its image with a concept of bad governance. It was also as a result of this period that the popular
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Fig. 9 - La partecipazione nel programma Centopiazze. Cerimonia di inizio lavori di Piazza del Capelvenere. Roma, 1996. La partecipazione cittadina ha avuto, fin dai programmi degli anni ’90, una rilevanza notevole specialmente nelle prime fasi di discussione dei progetti. Participation in the Centopiazze program. Starting ceremony of Piazza del Capelvenere. Rome, 1996. Citizen participation had (since the programs of the 90s) a considerable importance especially in the early stages of project discussion.
comportamenti, dovremo allora assumere tutti quei limiti che derivano da tale destrutturazione: una perdita di sincronia fra progetto e società, un concetto di “permanenza” che viene progressivamente meno, il rischio di una “città per strati” che tuttavia non genera intrecci, ma una sovrapposizione di livelli separati in cui il legame fra i diversi abitanti non avviene più né in senso orizzontale, raccogliendo le tracce di chi c’era prima e lasciando segni per chi ci sarà dopo, né in senso verticale, abitando lo spazio simultaneamente ma senza arrivare mai a mescolarsi con il luogo e con chi lo genera, vivendolo. Dovremo capire se saremo disposti ad accettare questo scenario, e valutare quali potranno essere, oggi, i gesti che l’architetto potrà compiere per essere ancora in grado generare relazioni.
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Conclusions. Consideration on time space and layers that generate contemporary public space At the end of this work some necessary considerations arise. The first one concerns precisely the stratifications, starting from the shift of public life from the configured spaces of the historical city to the so-called “other spaces”, in which relations can take over the forms. Then, the aim of contemporary public space design is to perceive these places, interpret them and translate them according to shared forms and processes. Starting from the functionalist city, the empty space limited to the application of urban planning standards has made-up a non-place. This kind of city pretend to give consistency to its public spaces through a juxtaposition of objects, often repetitive and incoherent. This approach should design the space but actually doesn’t encourage aggregation nor allow its usability. This scenario is contrasted by that of “free space”, i.e. the space in which actions, meetings, social layers and different levels of fruition are superimposed. In such a perspective, canons of functionalism are overcome and the inflexible separation of urban spaces between public, private, semi-private, semi-public and so on, are break. “It’s about the “architecture’s ability to provide free and additional spatial gifts to those who use it” (Farrel, McNamara, 2018), to underline the predominance of the intangible over form. The second consideration concerns time, and how it affects society, behaviour, and finally also the urban sphere. The contemporary city is a reflection of our own contemporary culture, and suffers, as a consequence, the same limits, which are also temporal limits. Today there is a widespread perception of this trend towards the creation of “temporary projects”, the realization of “degradable” spaces, or in general the idea of a comforting reversibility of actions. This consideration leads us once again to refer to the theories of many philosophers and anthropologists of modernity who analysed these aspects of modern society for some decades. Auge already spoke of the acceleration of history, of the superabundance of time and space in the description of the three figures of excess that describe the condition of surmoder-
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discontent began to demand greater attention to the problems of the city, starting with the quality of life offered by its spaces (figure 9). So, citizen participation has exerted an undeniable weight, especially when proposals are being launched and discussed. But we are nevertheless talking about a kind of participation that is very far from that of tactical urbanism. In the case of tactical urbanism in fact, the interventions allow the inhabitants to an active role in the processes of project implementation. The times are reversed: in the case of programmes such as Centopiazze, the population is involved in the early stage. Then, they were kept out during the implementation phase, which can be long, with changes and revisions. In the case of tactical urbanism, instead, the initiative can be proposed by a group (inhabitants, associations, or the administration itself) and gets to involve the population in a practical and active way when the project is being implemented. This point is remarkable, because it shows that the activation of the inhabitants in the creation of the place, is a fundamental step in the construction of the space itself. An “immaterial” space, in which minimal expedients, such as paint, temporary furniture and the use of graphics that identify spaces and functions by drawing them on the ground, have consistency and impact only because lived and absorbed by the community. (figure 10)
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nity. Bauman introduced us to the concept of liquid modernity. So, if we are actually surrounded by a culture of rapid consumption, it is possible to think that even the city and its spaces, reflecting this spirit, have become “fast”? A city distant from the permanent character that composed the historical cities. As if we really care about today is not the preservation of memory nor the sharing of places with future generations, but rather the only thing that really matters is the hic et nunc, the here and now. Accustomed to constant change, we are no longer concerned with creating spaces born to last, but only “temporary”, “pop-up” spaces, for the exclusive use and consumption of those who live there in that particular phase. The volume of travel and the constancy of social changes, in fact, do not give us the opportunity to know or worry about what will happen in the near future. Just as for fast-food, fast-fashion, fast-design, an idea of “fast-city” is emerging today reflecting the accelerated rhythms of our society. It is not meant to last, but on the contrary it will break down in a few years, a few decades if you are lucky, leaving no trace of itself except in the form of digital representation. Contemporary public space is composed of immaterial stratifications in which the design of physical space gives way to a progressive deconstruction accelerated by behaviour. But if we accept this idea, then we will have to assume all those limits that derive from such deconstruction. It means a loss of synchrony between project and society, a concept of “permanence” that progressively disappears, the risk of a “city by layers” that however does not generate interlacing, but an overlapping of separate levels. The risk is that the link between the different inhabitants no longer occurs horizontally, collecting the traces of those who were there before and leaving signs for those who will be there in the future. But the link is not even vertically, since the space is experienced simultaneously but without ever getting to mix with the place and with those who generate it, living it. In the end, we will have to understand if we will be prepared to accept this scenario, and evaluate what could be, today, the gestures that the architect can make to still be able to generate relationships.
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Fig. 10 - La partecipazione nell’azione tattica. Piazza Belloveso a Milano, inaugurata il 14 Dicembre 2019, è un esempio di come la partecipazione cittadina in questo tipo di approccio sia attiva anche durante la fase di realizzazione. Participation in tactical action. Piazza Belloveso in Milan, inaugurated on 14th December 2019, is an example of how citizen participation in this type of approach is also active during the construction phase.
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urbanform and design Rileggere le tracce.
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Maria Grazia Ercolino
Dip. di Storia Disegno e Restauro dell’Architettura, Università degli Studi di Roma “Sapienza” E-mail: mariagrazia.ercolino@uniroma1.it
Studi e Ricerche | Studies and Research
Rediscovering the evidence. Urban and architectural events from Campo Carleo to the Alessandrino district.
Sono trascorsi circa quarant’anni da quando la scoperta di un preoccupante stato di degrado delle superfici dei monumenti e le conseguenti iniziative intraprese dalle giunte dei sindaci Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere riaccesero il confronto sulla sistemazione del complesso archeologicomonumentale dei Fori imperiali (Insolera, Perego, 1999; Miarelli Mariani, Molajoli, 1980). Un’area che ancora serba l’enorme complessità della sedimentazione storica e, contestualmente, i danni arrecati dalle molte operazioni condotte approssimativamente, spesso senza chiari programmi, né adeguati progetti (Racheli, 1979; Cardilli, 1995; Leone, Margiotta, 2007). Un vivace dibattito culturale e politico e molte proposte si sono avvicendate negli anni, grazie al lavoro e alle riflessioni di numerose Commissioni di studio, gruppi di progettazione, dispositivi legislativi, senza tuttavia condurre a un soddisfacente esito in termini di riassetto urbano e ambientale dell’intera area. Parimenti, nel corso degli ultimi vent’anni, al progressivo attenuarsi della stagione contrassegnata dalle attente discussioni e da una importante elaborazione progettuale si è contrapposta la parallela ripresa delle attività archeologiche che, con interventi successivi e di crescente importanza, hanno contribuito ad ampliare notevolmente le conoscenze storiche su questo brano di città, ma pure le problematiche circa la sua attuale sistemazione. Al 1996 risale lo scavo della parte occidentale del Foro di Nerva, che ha consentito il ritrovamento di un’interessante quantità di informazioni relative alla intera stratigrafia del luogo, ridestando l’interesse sull’intera area dei Fori. Grazie ai finanziamenti collegati al Grande Giubileo, tra il 1998 e il 2000 si è concretizzato lo scavo estensivo di circa 15.000 mq di superficie, coincidente con la metà orientale del Foro di Cesare, la maggior parte di quello di Traiano e il settore occidentale del tempio della Pace. Un’ulteriore indagine, fra il 2005 e il 2007, ha consentito di riscoprire la zona centrale della piazza del Foro di Augusto e infine, mentre si scrive, è in corso la rimozione del tratto settentrionale della sopravvissuta via Alessandrina, volta a riconnettere le due parti del Foro di Traiano (Meneghini, Santangeli Valenzani, 2007; Meneghini, Santangeli Valenzani, 2010; Meneghini, 2017). (Fig. 1) La successione di detti interventi, pur preservando l’integrità della moderna via dei Fori Imperiali, ha completamente eroso i giardini ad essa adiacenti, riducendo le già esigue connessioni dei pochi monumenti “moderni” sopravvissuti e accentuando le problematiche relative alla valorizzazione di queste enormi “buche” e alla loro riconnessione con la città contemporanea. Gli scavi, sebbene finalizzati all’identificazione certa delle strutture imperiali ancora occultate, hanno anche riportato l’attenzione sull’intera stratigrafia edilizia di quella parte di città, di grande interesse storico-urbano, che ad esse si sovrappose nel corso dei secoli e che fu rasa al suolo, nel secolo scorso, senza che si fosse proceduto a un’adeguata documentazione (Barroero, Racheli, Conti, Serio, 1983). (Fig. 2) La ricerca che qui si presenta succintamente, ha inteso approfondire la conoscenza sulla storia del luogo attraverso l’utilizzo di differenti metodiche, attente e complementari ai risultati che lo scavo e le successive analisi degli archeologi andavano restituendo, finalizzate all’indagine delle complesse vicende urbane e architettoniche che hanno interessato l’area a partire dalla
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Keywords: palimpsest, stratigraphy, urban archeology, urban history, Trajan’s Forum Abstract The Imperial Fora are a monumental area that shows all the complexity of the historical stratifications and, at the same time, the damages brought to an archaeological and urban ensemble of great value, because of many operations managed in unembarrassed way, without precise programs nor adequate projects. The campaign of excavations made in 1998-2000, even if was finalized to the certain identification of the imperial structure there buried, has brought again the attention to that building tissue of very high historical interest that during the centuries overlapped to them. The data processing of the excavation and their study in situ, associated with the analysis of the literary and bibliographic sources and of the new documentation relating, let me realize a topographic reconstruction, that spots for each period, the highlights of the development of this new tissue, taking care of the new roads and all the possible influences, caused by many ruins dated back to the Imperial period. This investigation has made possible the restoration and the stratigraphical study, relative to the medieval period of the settlement, that were completely ignored during the demolitions of the last century. Currently the relationship between the ancient ruins and the contemporary city is, in essence, a very complex issue, and it’s really important that archaeologists, whose contribution was essential in the investigation phase, make use of different expertises and competences, to realize a global proposition, in which there are: restoration and critical preservation of ruins, development and town planning reconnection of this great area. In this regard, restitution of the original connective tissue, which is proposed here through the eyes of urban history and using an elementary framework, could also be a valid support tool on which to base the new planning proposals. It could be a fundamental and multi-faceted set of indications to be understood and interpreted through the eyes of the contemporary city.
Vicende urbane e architettoniche dal Campo Carleo al quartiere Alessandrino
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It is now 40 years since the spotlight was put on the worrying state of decay of the surfaces of monuments, and the ensuing initiatives of the municipal executive, led by Mayors Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli and Ugo Vetere, which reopened the debate on the maintenance of the archaeological complex and monuments of the Imperial Fora (Insolera, Perego, 1999; Miarelli Mariani, Molajoli, 1980). This area still retains the enormous complexity of historical sedimentation and, at the same time, the damage wrought by numerous operations carried out with little rigour, often with no clear schedules or proper planning (Racheli, 1979; Cardilli, 1995; Leone, Margiotta, 2007). A lively cultural and political debate and numerous proposals have come and gone over the years, thanks to the work and the ideas of numerous study committees, planning groups and legislative dispositions, however without leading to a satisfactory outcome in terms of the urban and environmental recovery of the entire area. Similarly, over the last 20 years, the passing of the period marked by careful debate and an important planning initiative has been accompanied by a return to a series of archaeological interventions of increasing importance, which have contributed considerably to expanding our historical knowledge of this section of the city, but have also exacerbated the issues regarding of its maintenance. 1996 saw the excavation of the western section of the Forum of Nerva, which uncovered an interesting quantity of information about the overall stratigraphy of the place, renewing interest in the entire area of the Imperial Fora. Thanks to funding for the Great Jubilee, approximately 15,000 m2 was excavated between 1998 and 2000. The covered the eastern half of the Forum of Caesar, most of the Forum of Trajan and the Western sector of the Temple of Peace. A further investigation conducted between 2005 and 2007 uncovered the central zone of the piazza of the Forum of Augustus and, lastly, as we write, the northern section of the surviving via Alessandrina removal is currently being excavated. The purpose of the current works is to reconnect the two sections of the Trajan’s Forum (Meneghini, Santangeli Valenzani, 2007; Meneghini, Santangeli Valenzani, 2010; Meneghini, 2017). (Fig. 1) Although preserving the integrity of the modern via dei Fori Imperiali, the above series of interventions has completely eroded the gardens adjacent to it, reducing the already exiguous connections with the few surviving “modern” monuments and exacerbating the problems relating to the valorisation of these enormous “holes” and their reconnection with the contemporary city. Although aimed at identifying unequivocally the imperial structures that are still hidden, the excavations have refocused attention on the entire construction stratigraphy of that part of the city, which is of enormous historical and urban interest, built on top of them over the course of the centuries and razed to the ground last century without having been properly documented (Barroero, Racheli, Conti, Serio, 1983). (Fig. 2) The purpose of the research presented here in concise form was to enhance knowledge on the history of the place using different methods that are focused on and complimentary to the results that the excavation and the subsequent analyses carried out by archaeologists. The broader aim was investigate the complex urban and architectural events that have affected the area since its
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Fig. 1 - Roma, Foro di Traiano, la situazione attuale; in primo piano gli scavi in corso per la rimozione di un tratto della via Alessandrina (foto Ercolino 2019). Rome, Trajan’s Forum, the actual situation: excavations in progress for the removal of the via Alessandrina (photo by Ercolino 2019).
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sua demolizione. Trattandosi di un ambito molto vasto, si è scelto di circoscrivere lo studio alla parte più settentrionale dei Fori, quella delimitata dalle pendici orientali del colle Capitolino e da quelle occidentali del Quirinale, occupata dall’antico foro di Traiano e conosciuta, a partire dall’Altomedievo, con il nome di Campo Carleo. Decisione avvalorata dalla consapevolezza che, per tutto il periodo medievale, le aree corrispondenti alle antiche piazze imperiali subirono destini diversi, che mantennero separati i differenti àmbiti (Meneghini, 1993). Nel processo urbano di formazione che ha distinto quest’area, pianificazione e sviluppo spontaneo e si sono alternati, privilegiando, di volta in volta, elementi diversi; entro questa eterogeneità di fondazione, si è inserito il declino delle antiche strutture, lentamente riassorbite all’interno dell’edilizia medievale. Le indagini archeologiche hanno confermato che l’attività architettonica nell’area compresa all’interno del foro di Traiano subì, dopo il periodo imperiale, solo brevi interruzioni, documentate dalle sezioni stratigrafiche; nella seconda metà del IX secolo la pavimentazione lapidea del complesso fu completamente asportata, provocando l’impaludamento dell’intera piazza che, dopo circa cinquant’anni, fu bonificata con uno spesso battuto di cocci sminuzzati, strato che costituì la base di appoggio per il successivo impianto residenziale altomedievale (Meneghini, 2017). Una serie di trasformazioni e riusi si sono poi susseguiti attraverso il periodo medievale e rinascimentale fino agli inizi del secolo scorso (Meneghini, Santangeli Valenzani, 2001). Lo scavo del sito si è soffermato particolarmente ad analizzare i dati costruttivi relativi alle fasi medievali dello sviluppo urbano e architettonico dell’area, praticamente sconosciute a causa dell’esiguità delle fonti e della distruzione dell’abitato, confermando, con interessanti testimonianze concrete, le moda-
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Fig. 3 - La ricostruzione del tessuto edilizio dell’area su base integrata di rilievo e documentaria. In tratto sottile la ricostruzione del sostrato archeologico (disegno dell’autore; da Ercolino 2013). The reconstruction of the building fabric overlapped on the archaeological substrate (thin line) (author’s drawing; from Ercolino 2013).
lità attraverso le quali la città si è innestata sul suo sostrato antico, nel corso dei secoli. L’elaborazione dei dati scaturiti, congiunta all’analisi delle fonti letterarie e bibliografiche esistenti e, soprattutto, alla cospicua documentazione catastale inedita attinente, hanno consentito la realizzazione di una nuova ricostruzione topografica, grazie alla quale è stato possibile prefigurare i momenti salienti dello sviluppo urbano di questo ambito, con particolare attenzione nei confronti dei nuovi percorsi e delle possibili influenze generate dalla coeva, fisica presenza dei resti monumentali imperiali (Ercolino, 2013). Base fondamentale di riferimento è stata la ricomposizione grafica dei rilevamenti interni delle singole costruzioni che componevano il tessuto edilizio della zona nelle forme precedenti la sua totale distruzione, ottenuta assemblando, sulla base del catasto Pio-Gregoriano, i grafici reperiti, integrati, per alcune particelle la cui documentazione è risultata totalmente irreperibile, con i dati desunti dalle piante relative alla fase ottocentesca dello scavo (Fig. 3). La planimetria ricostruisce la consistenza edilizia dell’abitato nella seconda metà dell’Ottocento, con due principali eccezioni: la prima è rappresentata dal rilevamento settecentesco dell’isolato centrale dell’area, all’epoca già demolito ma inserito per consentire una più completa analisi del costruito; la seconda è costituita dai rilievi desunti dallo scavo, i quali ovviamente, documentano la situazione che precedette le demolizioni, databile intorno al 1930. L’inedito documento ha costituto il presupposto fondamentale per uno studio diacronico del tessuto urbano, che non può prescindere dalla conoscenza profonda delle costruzioni che lo compongono, tale assioma assume maggior valore quando, come in questo caso, ci si propone di esaminare una parte di città non più esistente; il mosaico dei rilievi ha agevolato la comprensione del-
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demolition. As this is a hugely vast area of interest, it was decided to circumscribe the study to the northern part of the Fora, namely the sector delimited by the eastern slopes of the Capitoline Hill and by the western slopes of the Quirinal Hill, occupied by the ancient Forum of Trajan and known, since the Early Middle Ages as ‘Campo Carleo’. This decision was justified by an awareness that, throughout the mediaeval period, the areas corresponding to the ancient imperial piazzas were given various functions, which kept the different zones separate (Meneghini, 1993). In the process of urbanisation that has characterised this area, planning alternated with spontaneous development, with different priorities given on a case-by-case basis. Within this heterogeneous context, came the decline in the imperial structures, which were slowly reabsorbed into mediaeval construction works. Archaeological investigations confirm that, after the imperial era, architectural activity in the area inside the Forum of Trajan was interrupted for only short periods, which can be identified in the stratigraphic cross sections. In the second half of the 9th century, the complex’s stone paving was removed completely, causing the swamping of the entire area, and restored fifty years later with a thick layer of earthenware fragments, which formed the foundation for the subsequent mediaeval residential system (Meneghini, 2017). A series of transformations and re-uses then en-
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Fig. 2 - Veduta zenitale del quartiere Alessandrino agli inizi del XX secolo, prima delle demolizioni, sulla destra il colle Capitolino, già trasformato per la costruzione del Monumento a Vittorio Emanuele II. (da Toscano, Maggiari 2006, p.115). Aerial view before the demolitions; on the right side the Vittoriano, built on the Capitoline Hill. (from Toscano, Maggiari 2006, p.115).
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sued throughout the mediaeval and renaissance periods right up to the start of the 20th century (Meneghini, Santangeli Valenzani, 2001). Excavations of the site focused mainly on analysing the construction data relating to phases of mediaeval urban and architectural development of the area, which had been virtually unknown owing to the scarceness of sources and to the destruction of the built-up area. These confirmed, with interesting solid evidence, the ways the city established itself over the centuries atop its ancient foundations. A study of the emerging data, together with an analysis of the existing literature and bibliographic sources and, above all, the abundance of land registry documentation made it possible to create a new topographical reconstruction, thanks to which it was possible to estimate the key moments in the urban development of this area, with a keen focus on the new pathways and the possible influences of the physical presence of the remains of imperial monuments (Ercolino, 2013). One fundamental reference was the graphic rendering of the interiors of the individual buildings prior to the total destruction of the site. This was achieved by assembling images based on the Pio- Gregoriano cadastre, supplemented, in several small sections where the documentation was totally unrecoverable, with data deduced from the maps of the 19th-century excavations (Fig. 3). The plans reconstruct the substance of the built-up area in the second half of the nineteenth century, with two main exceptions: the first is the 18th-century map of the central block in the area, which at the time had already been demolished but was included to enable a more complete analysis of the site. The second was the reliefs taken from the excavation, which naturally document the situation before the demolitions, and date back to around 1930. The unpublished document was the basis for a diachronic study of the urban fabric, for which a deep knowledge of the buildings is necessary. This was even more the case, since the intention was to examine a part of the city that no longer exists. This mosaic of surveys facilitated an understanding of the conditions and procedures that guided the formation of the settlement and its development over the centuries. A general observation of the rendering obtained in this way provided several reflections on the extent to which the pre-existing ancient constructions influenced the expansion process of the mediaeval structure. An initial analysis clearly shows that in the area corresponding to the open space of the forum square, containing no structures, there was greater spontaneous expansion of the mediaeval urban fabric. Conversely, those parts of the settlement that sprang up near the ruins feature varying degrees of anomalies and discontinuities, confirming the distinct influence of the archaeological foundation. These restrictions revealed themselves to be valuable chronological indicators of the survival of the imperial structures over the centuries, and provide evidence for dating, albeit approximately, the subsequent phases of development of the new settlement. To understand the different fates of structures in the Trajan complex, the most evident deformities and the possible causes were considered. The western portico, which appears to have left no mark on the subsequent medieval works, was probably removed quite early. The eastern portico, on the other hand, whose position protected by the tall structures of the markets pro-
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le condizioni e delle modalità che guidarono la formazione dell’insediamento e il suo sviluppo nei secoli. Una generale osservazione del grafico così ottenuto ha permesso alcune riflessioni circa l’influenza esercitata dalle antiche preesistenze sul processo di crescita dell’aggregato medievale; a una prima sommaria analisi è apparso evidente come nella zona coincidente con lo spazio aperto della piazza forense, libero da strutture, fosse possibile verificare una maggiore aderenza ai meccanismi di crescita spontanea dei tessuti urbani medievali. Al contrario, in quelle parti dell’insediamento formatesi in corrispondenza delle rovine, è stato possibile cogliere anomalie e discontinuità, più o meno evidenti, che hanno confermato l’esistenza di evidenti condizionamenti legati al sostrato archeologico; vincoli che si sono rivelati preziosi indicatori cronologici, sia riguardo alla sopravvivenza delle strutture imperiali nel corso dei secoli, che rispetto alla possibilità di datare, pur se con approssimazione, le successive fasi di sviluppo del nuovo edificato. Per comprendere la diversa sorte subita dalle strutture del complesso traianeo, sono state considerate le difformità più evidenti e le loro probabili cause: il portico laterale occidentale del foro, che non sembra aver lasciato impronta nelle successive compagini medievali, probabilmente scomparve rapidamente, quello orientale, invece, la cui posizione, protetta dalla alta compagine dei mercati, offriva una maggiore sicurezza, fu presumibilmente riutilizzato precocemente da primitive forme di residenza, che ne sfruttarono la modularità, serbandone traccia nelle loro murature. Si conservarono ancora lungamente numerosi tratti del muro e dell’esedra perimetrale occidentale, i cui particolari andamenti, assiale il primo e semicircolare il secondo, sono ancora distinguibili in alcuni punti del tessuto urbano; mentre le strutture che, verosimilmente, sopravvissero più a lungo furono quelle della basilica Ulpia, come dimostrano i crolli ancora conservati nell’area. Le prime considerazioni sulle caratteristiche dell’abitato indicano la presenza prevalente di due diverse tipologie di residenza, entrambe tipiche del panorama edilizio romano: la casa “a schiera” e quella “a corte”; genericamente, nelle aree prive di vincoli di natura archeologica, il tipo più diffuso di residenza era quello “a schiera”, modello ancora riconoscibile nelle sue caratteristiche di massima, anche se modificato e appesantito dagli intasamenti più recenti. Il raffronto tra i tessuti edilizi che compongono i quattro isolati di più antica urbanizzazione ha messo in evidenza le loro particolarità e, soprattutto, i diversi gradi di sviluppo raggiunti dalle singole costruzioni. Abbastanza conservativo quello racchiuso tra la via di san Lorenzolo e la via dei Carbonari (Fig. 4 a, b) che, ancora alla metà del XIX secolo, manteneva un discreto numero di edifici a fronte monocellulare; di conformazione anomala quello centrale, demolito dai Francesi, poiché occupato per la maggior parte da costruzioni di tipo specialistico, inerenti ai due complessi monastici dello Spirito Santo e di Sant’Eufemia. Maggiormente trasformato l’isolato realizzato sul confine orientale del foro, probabilmente a causa delle differenti e più ampie dimensioni della lottizzazione di base, che forse favorirono una più rapida trasformazione delle originarie fabbriche medievali (Fig. 5 a, b), notevolmente modificato quello compreso tra la piazza Traiana e la via di Testa Spaccata (Fig. 6 a, b) dove, già nel XVIII secolo, la contiguità con aree soggette a consistenti trasformazioni urbane agevolò i primi processi di rifusioni e aggregazioni delle antiche case, allo scopo di realizzare delle costruzioni più grandi e maggiormente rispondenti alle esigenze del momento. Lo studio ha dunque messo in luce e confermato alcuni aspetti particolari delle caratteristiche insediative e strutturali che si verificarono nell’intervallo temporale compreso tra la tarda antichità e il medioevo. È noto come una delle principali cause della trasformazione dei grandi organismi monumentali sia proprio da identificare nella perdita del loro utilizzo primario, fenomeno complesso che ha interessato i centri storici di molte città e in particolare quello di Roma (Caniggia, 1976; Pani Ermini, 2001). In un caso particolare come quello del foro di Traiano – compagine architettonica strutturata con una serie di ambienti regolari aggregati unitariamente intorno ad ampi spazi aperti – il primo segnale dell’avvio della sua “metamorfosi” può essere riconosciuto proprio
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nella rapida rioccupazione di parte delle sue strutture e nella spontanea formazione di nuovi percorsi di attraversamento, dal caratteristico andamento diagonale e/o curvilineo. I percorsi diagonali, generalmente, si formarono, all’interno delle piazze forensi, seguendo delle percorrenze già affermate in antico per l’attraversamento di queste aree libere; la loro creazione fu certamente agevolata dall’essere tali spazi racchiusi da perimetri edificati, con pochi ingressi, generalmente connessi ai loro sistemi assiali. I percorsi curvilinei invece, erano di norma prodotti dall’avanzamento di quelle costruzioni tardo-antiche di fortuna che, precocemente, si insediarono all’interno del recinto murario e delle strutture porticate (Caniggia, 1985; Bascià, Carlotti, Maffei, 2000). Entrambi i fenomeni rappresentano una casistica piuttosto comune all’interno dei grandi organismi monumentali e il foro di Traiano non ha costituito eccezione. Alla formazione delle nuove percorrenze medievali fece seguito, più o meno rapidamente, lo spontaneo sviluppo del primitivo insediamento residenziale, che inizialmente riutilizzò le strutture murarie preesistenti, per poi avvicinarsi, gradualmente ai margini dei percorsi. Una volta raggiunta la saturazione di tali fronti, la crescita dell’abitato coinvolse gradualmente le aree più interne, con la conseguente creazione di nuove percorrenze e il loro successivo intasamento (Caniggia, 1985). La rassegna delle pur esigue fonti narrative e documentarie, utili a ricostruire questa fase di passaggio (Hubert, 1990; Toscano, Maggiari, 2006), ha ribadito quelle appena esposte come le corrette modalità che hanno regolato la crescita dell’impianto medievale all’interno del complesso traianeo. La sintetica ricostruzione, è stata poi integrata e supportata dalle informazioni provenienti dalle recenti indagini archeologiche (Fig. 7), le quali hanno consentito il re-
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vided more safety, was presumably reused at an early date by primitive forms of residence which exploited its modular format, and left traces of it in their masonry. Numerous sections were preserved for a long time of the wall and the western exedra, whose unusual development, axial in the case of the former and semi-circular in the latter, can still be made out in some points of the site. Conversely, the structures which, more than likely, survived longest were those of the Basilica Ulpia, with evidence of collapse still preserved in the area. The first considerations on the characteristics of the site indicate that two different types of residence prevailed, both typical of Roman construction: row houses and courtyard houses. Generally speaking, in the areas with no archaeological restrictions, the most common type of residence was the row model, more readily recognisable, despite being modified and obscured by more recent encumbrances. A comparison between the constructions that make up the four most ancient urbanised blocks brought to light their details and, above all, the individual different degrees of development. The somewhat conservative block between via di San Lorenzolo and via dei Carbonari (Fig. 4 a, b) which in the mid-19th century still contained a considerable number of houses with a single-cell front, the central one being of unusual conformation, was demolished by the French, then occupied mostly by specialist constructions of the two convent complexes
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Fig. 4 - a. Particolare del catasto Pio Gregoriano (1824), Rione Monti, fol. IX, isolato 93; b. Il medesimo isolato con la ricomposizione del tessuto edilizio relativo alle singole proprietà, le cifre in rosso indicano la relativa particella di mappale individuata nel Catasto Pio-Gregoriano, in blu le preesistenze imperiali. a. Detail of the Pio Gregoriano Cadastre (1824), Rione Monti, fol. IX, isolato 93; b. The same block with the reconstruction of the building fabric overlapped on the imperial structures. Red numbers indicate the relative mapped identified in the cadastre: in blue the roman structures.
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Fig. 5 - a. Particolare del catasto Pio Gregoriano (1824), Rione Monti, fol. IX, isolato 92; b. Il medesimo isolato con la ricomposizione del tessuto edilizio relativo alle singole proprietà, le cifre in rosso indicano la relativa particella di mappale individuata nel Catasto Pio-Gregoriano, in blu le preesistenze imperiali. a. Detail of the Pio Gregoriano Cadastre (1824), Rione Monti, fol. IX, isolato 92; b. The same block with the reconstruction of the building fabric overlapped on the imperial structures. Red numbers indicate the relative mapped identified in the cadastre: in blue the roman structures.
of Spirito Santo and Sant’Eufemia. The block on the eastern edge of the forum was more greatly transformed, probably due to the different and larger dimensions of the plot, which perhaps enabled a more rapid transformation of the original mediaeval buildings (Fig. 5 a, b), particularly the one between Trajan’s piazza and via di Testa Spaccata (Fig. 6 a, b) where, already in the 18th century, its contiguity with markedly transformed facilitated the initial redevelopment and aggregation of ancient houses, with the purpose of creating larger constructions more in keeping with the needs of the period. The study therefore highlighted and confirmed a number of particular characteristics of the settlement and structures which took place in the time period between late Antiquity and the Middle Ages. It is known that one of the main causes of the transformation of large monumental sites was the loss of their primary use, a complex phenomenon that affected the historic centres of many cities and Rome in particular (Caniggia, 1976; Pani Ermini, 2001). In a case like the forum of Trajan – an architectural complex structured with a series of regular sections grouped together around wide open spaces – the first signal of the start of its “metamorphosis” is seen in the rapid reoccupation of some of its structures and in the spontaneous formation of new pathways with characteristic diagonal and curved courses. The diagonal courses generally formed within the forum piazzas, following pathways that had
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cupero e lo studio di parte di quelle stratigrafie che furono ignorate durante le demolizioni del secolo scorso (Meneghini, 2001). Gli scavi hanno ribadito l’esistenza dei percorsi altomedievali precedentemente descritti, costituiti da spessi acciottolati di marmi, laterizi e detriti vari (Meneghini, 2001), la cui formazione fu probabilmente consentita dalla apertura di grosse brecce nelle alte mura di recinzione del foro ancora esistenti; passaggi che consentirono una più agevole connessione ovest-est tra le pendici del colle del Campidoglio e quelle del Quirinale. Tre le nuove percorrenze individuate: la prima, in direzione ovest-est, con un andamento molto irregolare che corrispondeva a quello delle posteriori via San Lorenzolo ai Monti – via Campo Carleo – salita del Grillo (Fig. 7, lettera “a”); la seconda, il cui tracciato equivaleva alla via dei Carbonari, orientata nella medesima direzione, ma posta più a meridione (Fig. 7, lettera “b”) e infine la terza, in direzione nord-sud, si staccava dalla prima e, probabilmente, proseguiva verso la zona dei Santi Apostoli (Fig. 7, lettera “c”). Le esumazioni hanno rivelato inoltre l’esistenza di una sequenza insediativa che vide la genesi e la crescita, a partire dal X secolo, di un nuovo abitato, attraverso la costruzione di forme elementari di residenze – le cosiddette domus terrinee e le domus solaratae – che hanno ampliato le conoscenze riguardo all’intensa attività edilizia che interessò Roma durante il periodo altomedievale (Hubert, 1990; Santangeli Valenzani, 2000). Le caratteristiche generali di queste tipologie di abitazioni sono state indagate grazie ai coevi ritrovamenti condotti nel foro di Nerva e in quello di Cesare (Santangeli Valenzani, 2011). Fino alla fine del XII secolo, la domus terrinea rappresentò la più comune forma di residenza, caratterizzata da un unico ambiente all’interno del quale erano concentrate tutte le attività della casa. Dotata di un solo piano, la cui Maria Grazia Ercolino | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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altezza corrispondeva all’incirca a quella di due palariae, ossia circa tre metri, e priva di una specifica suddivisione dello spazio interno, la sua morfologia rifletteva la stessa semplicità, attraverso l’uso documentato di argilla e pietre a secco per la costruzione delle mura perimetrali, di paglia e canne di giunco per la copertura e di un semplice battuto di terra come pavimentazione. Cinque costruzioni di questo tipo, databili tra il X e l’XI secolo sono state scoperte durante gli scavi nel Foro di Cesare, disposte lungo un percorso coevo, documentate e poi distrutte per consentire la prosecuzione degli scavi. Le domus solarate, decisamente meno diffuse, rappresentarono la residenza di riferimento dell’aristocrazia romana, la cui presenza si intensificò a partire dal XII secolo; l’esistenza di due livelli distinti permetteva, in queste costruzioni, una prima separazione delle funzioni abitative, il piano superiore, spesso suddiviso in più ambienti, era destinato ad abitazione, mentre quello di terra, dove sovente si sistemavano pure stalle e dispense, era riservato alle attività del lavoro. Le domus solarate erano spesso realizzate con laterizi di spoglio, la cui disponibilità all’epoca era enorme, ma esistono anche testimonianze di murature realizzate in blocchetti di tufo e, soprattutto, dell’utilizzo congiunto dei due materiali. L’aspetto architettonico esteriore rispecchiava parimenti l’agiatezza di queste dimore, spesso completate da una serie di strutture accessorie, come portici, scale esterne e mignani. Due domus con queste caratteristiche sono state riscoperte all’interno del foro di Nerva e sono tutt’ora conservate; realizzate con una muratura in blocchi di peperino di riuso, hanno entrambe perso il piano superiore ma conservano tracce del solaio voltato e della scala esterna che vi conduceva (Fig. 8). Anche all’interno del foro di Traiano (X-XI secolo), la prima fase dell’insediamento si distinse per la presenza di costruzioni molto semplici, riferibili alle
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already been established in antiquity when people crossed these open areas. Their creation was certainly facilitated by the fact that these spaces were enclosed by a constructed perimeter, with few entrances, generally connected to their axial systems. The curved courses, on the other hand, normally arose from the advance of those late antiquity makeshift constructions, which soon sprang up within the walls and the porticoed structures (Caniggia, 1985; Bascià, Carlotti, Maffei, 2000). Both phenomena are a fairly common feature within large monumental complexes and the forum of Trajan is no exception to this. The formation of new mediaeval pathways was followed, more or less rapidly, by the spontaneous development of the primitive residential settlement, which initially reused the existing wall structures and then gradually moved closer to the margins of these pathways. Once these areas became saturated, the built-up area gradually expanded to the innermost areas, with the consequent creation of new pathways and their subsequent blockage (Caniggia, 1985). A review of the albeit few narrative and documentary sources, useful for reconstructing this phase of transition (Hubert, 1990; Toscano, Maggiari, 2006), confirms what we have just described as the method regulating the growth of the medieval layout within the Trajan complex. This reconstruction was then integrated with and supported by information from recent archaeological surveys (Fig. 7), which have enabled the
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Fig. 6 - a. Particolare del catasto Pio Gregoriano (1824), Rione Monti, fol. IX, Isolato 100; b. Il medesimo isolato con la ricomposizione del tessuto edilizio relativo alle singole proprietà, le cifre in rosso indicano la relativa particella di mappale individuata nel Catasto Pio-Gregoriano, in blu le preesistenze imperiali. a. Detail of the Pio Gregoriano Cadastre (1824), Rione Monti, fol. IX, Isolato 100; b. The same block with the reconstruction of the building fabric overlapped on the imperial structures. Red numbers indicate the relative mapped identified in the cadastre: in blue the roman structures.
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recovery and study of some of the stratigraphies that were ignored during the 20th-century demolitions (Meneghini, 2001). The excavations confirmed the existence of the early mediaeval pathways already described, consisting of dense cobbled paving made from marble, brick and various items of rubble (Meneghini, 2001), whose formation was probably facilitated by the opening of large breaches in the high walls surrounding the forum that were still in existence. These passages enabled an easier west-east link between the Capitoline and Quirinal Hills. Three new pathways were identified: the first, running east-west with a very irregular course corresponding to the rear outlines of via San Lorenzolo ai Monti – via Campo Carleo – salita del Grillo (Fig. 7, a); the second, whose outline corresponds to via dei Carbonari, running in the same direction, but located further south (Fig. 7, b) and the third, running north-south, came off the first and probably continued towards the Santi Apostoli area (Fig. 7, c). Digs have also uncovered the existence of a series of settlements that saw the rise and development, from the 10th century, of a new built-up area, through the construction of rudimentary forms of residence – the so-called domus terrinee and the domus solaratae – which added to understanding the intense building activity in Rome during the Late Middle Ages (Hubert, 1990; Santangeli Valenzani, 2000). The general characteristics of these types of dwellings were investigated thanks to contemporary finds conducted in the Forum of Nerva and in the Forum of Caesar (Santangeli Valenzani, 2011). Until the end of the 12th century, the domus terrinea was the most common form of residence, characterised by a single room in which all activities took place. Consisting of only one storey, whose height corresponded approximately to two palariae, that is, to metres, and with no specific division of the interior space, its morphology reflected the same simplicity, as documented through the use of clay and dry stone to construct the perimeter walls, straw and rushes for the roof and trodden earth as flooring. Five constructions of this type, dated to between the 10th and the 11th century, were discovered during digs at the Forum of Caesar, laid out along a contemporary route, which were documented and then destroyed to enable the excavations to continue. The domus solarate, which were much less widespread, were the standard residence of the Roman aristocracy, whose presence intensified from the 12th century. The two separate storeys in these constructions initially enabled a separation of functions. The upper floor was often divided into several rooms and was dedicated to living spaces, whereas the ground floor, often containing stables and pantries, were reserved for work activities. The domus solarate were often made from spolia bricks whose availability at time was widespread, but there is also evidence of masonry made from tufa and, above all, the combined use of the two materials. The exterior architectural appearance of these dwellings also reflected the affluence of their occupants, and were often bedecked with a series of accessory structures, such as porticoes, external staircases and balconies. Two domus with these characteristics were discovered within the Forum of Nerva and are still preserved. Built from re-used peperino blockwork, they have both lost their upper floor, but retain traces of the vaulted ceiling and the external staircase which led to it (Fig. 8). Even inside the Trajan’s Forum (10-11th centu-
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Fig. 7 - Ipotesi di ricostruzione dell’insediamento residenziale altomedievale, sorto all’interno del foro tra X e XI secolo, nella quale sono state evidenziate le nuove percorrenze (contrassegnate dalle lettere a, b e c) e i resti di strutture residenziali riscoperte nel corso degli scavi; il tratteggio individua i possibili lotti, mentre il circoletto individua la posizione dei coevi edifici religiosi (disegno dell’autore; da Ercolino 2013). Hypothesis on the early medieval settlement (X- XI cen.). New paths are highlighted (with letters a, b, c) and the ruins rediscovered during excavations; the dotted line identifies the lots and the circle the existing religious buildings (author’s drawing; from Ercolino 2013).
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tipologie appena enunciate, e caratterizzate da un apparecchio murario a spezzoni squadrati di blocchi di tufo e travertino di recupero messi in opera con qualche tratto di laterizi, allineate lungo i percorsi e circondate da ampie zone ancora non edificate – orti e frutteti – la cui presenza confermerebbe il carattere di discontinuità del tessuto urbano (Fig. 9). Sulla base delle testimonianze accertate si è prefigurata la possibile situazione dell’abitato, all’epoca già noto con il toponimo di campus Kaloleoni, probabilmente dal nome di Caloleo, primo proprietario dei terreni, nell’XI secolo: lungo il margine orientale del percorso “a” e del suo prolungamento “c”, l’edificazione, facilitata dalla particolare condizione dell’intorno, si dovette sviluppare rapidamente, con un ampio passo frontale, che in più punti riprese quello del porticato imperiale (Fig. 7). La posizione degli appezzamenti, individuati con certezza dagli scavi, porta a supporre che le costruzioni abbiano interessato, all’inizio, solo le percorrenze “a” e “c” lasciando ancora libero il percorso “b”. Questa primitiva edificazione, si sviluppò dunque lungo il margine meridionale del percorso “a”, fino ad arrivare al limite rappresentato dalle mura perimetrali del foro e, analogamente, sul lato opposto, dove si suppone possa essere stata interrotta dalla ingombrante permanenza delle strutture relative all’aggancio tra il portico occidentale del foro e la basilica Ulpia. Infine, in base alla loro reciproca posizione e adiacenza rispetto alle percorrenze matrice e al tessuto edilizio ipotizzato si può supporre la coeva presenza dei primi edifici a carattere religioso, la chiesina di S. Lorenzolo ai Monti e quella di S. Nicolao de Columna. Durante il secolo successivo, il XII, resti consistenti del foro erano ancora in piedi: certamente il complesso della Basilica Ulpia, seppure parzialmente in rovina, come pure l’emiciclo occidentale del foro e la monumentale struttura
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Fig. 8 - Il portico esterno di una delle due domus solaratae riscoperte all’interno del Foro di Nerva durante gli scavi del 2006 (foto Ercolino). The external porch of a domus solarata rediscovered inside the Nerva’s Forum in 2006 (photo by Ercolino).
trabeata della sua recinzione meridionale, che fu distrutta nella seconda metà del secolo; probabilmente scomparsi invece i portici dei colonnati laterali, già parzialmente inglobati nelle nuove costruzioni in età altomedievale. All’interno e nei dintorni del complesso traianeo si consolidarono gli assi di percorrenza già delineati nella rielaborazione della fase precedente, ai quali si aggiunsero, probabilmente, due nuovi percorsi. Il primo tracciato rappresentava un ulteriore collegamento ovest-est che, staccandosi dall’ascesa Prothi, passava nei pressi della Colonna, costeggiando le strutture della Ulpia, e si congiungeva con l’area delle Militias. Il secondo si staccava da questo per connettersi, con una rotazione di novanta gradi, al percorso altomedievale della via di S. Lorenzolo (Fig. 10 a). Nel corso del secolo, si verificò un graduale infittimento e consolidamento delle primeve costruzioni testimoniato da un generale innalzamento della quota di calpestìo e dalla progressiva sostituzione delle vecchie strutture con un nuovo tipo di paramento realizzato principalmente con scapoli irregolari di tufo e datato in base ai materiali presenti nelle stratigrafie (Meneghini, 2001). L’aumento del costruito all’interno dei lotti, il suo progressivo accostamento ai margini delle percorrenze, la perdita d’importanza degli spazi aperti, portarono a una graduale, ma sostanziale, trasformazione delle tipologie residenziali presenti. Le abitazioni si suddivisero in più utenze, con un conseguente frazionamento verticale della proprietà, che trasformò le primitive domus in un nuovo tessuto di costruzioni continue. Nei duecento anni successivi (XIII-XIV secolo) l’impianto urbanistico del quartiere medievale si avviò a una definitiva conformazione, con la formazione e diffusione dei tessuti cosiddetti ‘seriali’, costituiti da una serie di fabbriche contigue, disposte lungo i margini dei percorsi e consolidate con interventi
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ries), the first phase of the settlement is marked by the presence of very simple constructions of the type mentioned above, and characterised by a wall structure featuring small square blocks of recovered tufa and travertine interspersed with a few sections of brickwork, lined up along the paths and surrounded by large areas with no constructions – vegetable gardens and orchards – whose presence appears to confirm the discontinuous nature of the urban fabric (Fig. 9). The verified evidence led to the possible configuration of the inhabited area, known at the time with by the toponym campus Kaloleoni, probably from the name of Caloleo, the first owner of the land in the 12th century. Along the eastern edge of pathway ‘a’ and its extension ‘c’, construction must have developed rapidly, facilitated by the special features of the surrounding areas, extending frontally, following footprint in several points of the imperial portico (Fig. 7). The position of the plots identified with certainty during excavations leads us to suppose that con buildings initially the buildings only involved pathways a and c leaving pathway b free. These primitive constructions thus developed along the southern edge of pathway a, right up to the boundary set by the perimeter wall of the forum; similarly, on the opposite side, where it is thought they may have hindered by the structures connected to the western portico of the Forum and the Basilica Ulpia. Lastly, given their mutually adjacent position to the main thoroughfares and to the im-
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Fig. 9 - Una delle strutture di origine altomedievale riscoperte nel corso degli scavi del 1998-2000 e tutt’ora conservata all’interno della piazza del foro di Traiano (foto Ercolino). Early medieval structures rediscovered in 19982000 and still preserved inside the Trajan’s forum (photo by Ercolino).
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Fig. 10 - a. Ipotesi di ricostruzione dell’insediamento medievale tra XII e XIII secolo nella quale si rileva il suo ulteriore sviluppo nelle aree a settentrione e meridione, l’infittimento delle costruzioni, le ulteriori percorrenze. Resistevano ancora in piedi buona parte delle strutture della Basilica Ulpia, che occupavano la parte centrale dell’area e, probabilmente, i due emicicli occidentali. Nella parte meridionale sono state evidenziate le strutture risalenti al medesimo periodo riscoperte durante gli scavi, particolarmente quelle relative al primitivo complesso ospedaliero poi trasformato nel convento di S. Urbano (disegno dell’autore; da Ercolino 2013); b. L’assetto dell’area tra XIV e XV secolo, con i numerosi edifici religiosi ormai presenti e le rovine dell’impianto imperiale quasi completamente riassorbite all’interno dell’edificato (disegno dell’autore; da Ercolino 2013). a. Reconstruction of the medieval settlement between XII and XIII centuries. Most of the Basilica Ulpia structures – the central part of the area and probably the two western hemicycles – still stood. In the southern part were highlighted structures dating back to the same period rediscovered during excavations, particularly those relating to the primitive hospital, later transformed into S. Urbano monastery (disegno dell’autore; da Ercolino 2013); b. The layout of the area between the XIV and XV centuries. We note the existence of many specialized buildings while the imperial ruins are almost completely reabsorbed inside the buildings (disegno dell’autore; da Ercolino 2013). agined building fabric, it is thought that the first religious buildings, the small churches of San Lorenzolo ai Monti and San Nicolao de Columna existed at the same time. During the next century (12th), substantial remains of the Forum were still standing. These certainly include the Basilica Ulpia complex, although partly in ruin, and the western hemicycle of the Forum and the monumental trabeated structure of its southern perimeter, which was destroyed in the second half of the century. On the other hand, the porticoes of the lateral colonnades, already incorporated into new constructions in the Early Middle Ages, had probably already disappeared. Inside and around the Trajan complex, the pathways already outlined in the previous phase were consolidated, and two new ones were probably added. The first route was a further west-east connection, coming off the Ascesa Prothi, past the Column and around the structures of the Basilica Ulpia to reach the Militias area. The second came off this one and rotated ninety degrees to connect to the early mediaeval via di San Lorenzolo (Fig. 10 a). During the century, there was a gradual build-up and consolidation of the earliest constructions, as evidenced by the general raising of the level of the ground and the gradual replacement of the old structures with a new type of facing made mainly from irregular blocks of tufa and dated according to the materials present in the stratigraphy (Meneghini, 2001). The increasing edifica-
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murari di nuovo tipo, in tufelli ben squadrati e disposti in filari regolari. Il tessuto edilizio medievale, così come andò strutturandosi a partire dal XIII secolo, assunse di norma caratteristiche costanti, da identificarsi soprattutto nella modularità dell’occupazione del fronte stradale, nell’omogeneità dello spessore della fascia edificata e nell’ortogonalità della costruzione rispetto all’asse stradale (Fig. 10 b). L’espandersi dell’insediamento urbano, favorì, probabilmente, lo smantellamento di buona parte delle strutture imperiali ancora esistenti, seppure in decadenza. A questa fase risultano ascrivibili pure le fondazioni di due importanti complessi architettonici presenti nell’area, quello della chiesa di S. Maria in Campo Carleo, rimessa in luce e poi demolita negli anni Trenta, e quello del primitivo complesso monastico del S. Urbano, le cui strutture trecentesche, probabilmente destinate ad ospitare un ospedale, sono state in parte conservate e tutt’ora visibili (Figg. 11-12); fu proprio la presenza di quest’ultimo ad agevolare la crescita dell’abitato nella parte meridionale del foro, ormai liberata dalla imponente struttura colonnata sopravvissuta fino alla metà del secolo (Meneghini, 1992; Meneghini, 1999). Con il XIV secolo il processo di sviluppo dell’abitato medievale giunse a compimento, secondo le modalità precedentemente enunciate. Si arrivò dunque alla definitiva formazione di quelle schiere compatte di edifici, assiepate lungo i percorsi di attraversamento della zona, che caratterizzarono l’area fino al momento della sua distruzione. I prospetti di queste costruzioni erano frequentemente completati da portici (porticali) e da scale esterne (proferula) che intasavano, con i loro aggetti, gli spazi di percorrenza. Il portico, in particolare, importante spazio di intermediazione, era uno degli elementi più rappresentativi della casa medievale e divenne prevalente nell’architettura di Maria Grazia Ercolino | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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Fig. 11 - I resti medievali della chiesa di Santa Maria in Campo Carleo, riscoperti nel corso delle demolizioni degli anni Trenta; a sinistra sullo sfondo si riconosce l’ingresso del monastero di Sant’Urbano e la via Alessandrina (da Leone – Margiotta 2007). The medieval ruins of Santa Maria in Campo Carleo, rediscovered during the demolitions of the Thirties; on the left, in the background, the main door of Sant’Urbano and the via Alessandrina (from Leone – Margiotta 2007).
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queste costruzioni durante il XIV secolo. Una testimonianza tangibile di questa peculiarità è stata riscontrata proprio nella serie di edifici costruiti in corrispondenza del portico orientale del foro. Grazie alla documentazione reperita nei catasti cinquecenteschi delle Confraternite è stato possibile verificare la presenza di una facciata porticata in tre diverse case (Figg. 13-14), mentre una serie di anomalie riscontrabili nei rilievi ottocenteschi delle restanti costruzioni ha avvalorato l’ipotesi dell’esistenza di un intero percorso porticato quattrocentesco esteso lungo il prospetto dell’isolato e della possibilità ulteriore che alcune di queste proprietà contigue costituissero un vero e proprio accasamentum nobiliare, tipico del periodo e ricordato nei documenti notarili (Ercolino, 2013). Gli scavi attualmente in corso per la rimozione della via Alessandrina (Fig. 1) hanno confermato questa supposizione evidenziando la presenza di una linea continua di facciata, in origine costituita da portici colonnati di origine medievale e successivamente tamponati (Meneghini, 2017). In seguito alla progressiva e definitiva rovina delle superstiti strutture della Ulpia, l’espansione urbana coinvolse in modo massiccio anche il settore settentrionale, con il completamento dell’isolato centrale dell’area e la probabile formazione di un nuovo tessuto edilizio lungo il lato occidentale del percorso d. In corrispondenza dell’estremità settentrionale dell’area, già connotata dalla rilevante presenza della colonna Traiana e della chiesa di S. Nicola, si creò un’ulteriore rete di percorsi e tessuti, aggregati intorno alle proprietà di una potente famiglia di bovattieri: i Foschi di Berta. Il ruolo svolto da questa famiglia nello sviluppo dell’area fu tale che il loro nome, nel corso del secolo successivo, fu utilizzato gradualmente per indicare l’intera zona circostante (Fig. 10 b). Nel corso dei secoli seguenti l’area continuò ad incrementare la sua cresci-
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Fig. 13 - Strutture medievali relative a un portico riscoperte durante la demolizione di una delle costruzioni sorte sulle strutture del portico orientale del Foro, negli anni Trenta del secolo scorso (da Leone – Margiotta 2007). A medieval porch rediscovered during the demolition of a building on the eastern porch of the Trajan’s Forum, in the 1930s (from Leone – Margiotta 2007).
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Fig. 12 - Il complesso di Sant’Urbano durante la sua demolizione (AFC, neg. n. D/1078). The demolition of Sant’Urbano (AFC, neg. n. D/1078).
Fig. 14 - La planimetria è tratta dal “Libro delle Case” che raccoglie le proprietà immobiliari dell’Arciconfraternita del Gonfalone (XVI secolo) e documenta la presenza del portico in una delle costruzioni appartenenti al tessuto edilizio cresciuto sul portico orientale del Foro (da Meneghini 1992). Map from the Libro delle Case which collects the real estate properties of the Archiconfraternity of the Gonfalone (XVI century) which testifies to the presence of the porch in one of the overlapping houses on the eastern porch of the Trajan’s Forum (from Meneghini 1992).
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tion of the sites, it gradual encroachment of the edges of the pathways, and the decline in open spaces led to a progressive, but consistent transformation of the types of residences. Dwellings were shared among several occupants, which led to the vertical division of ownership, which transformed the primitive domus into a new form of continuous constructions. In the next two centuries (13-14th) the urban layout of the medieval quarter began to take its more permanent form, with the development and spread of “serial” constructions, consisting of series of contiguous buildings along the edges of pathways and consolidated by new wall structures made from small blocks of tufa arranged in even rows. From the 13th century onwards, the fabric of medieval construction was usually constant. This is particularly evident in the modular manner in which the road front is occupied, in the homogeneity of the depth of buildings, and in the orthogonality of constructions to the road (Fig. 10 b). The expansion of the urban settlements probably facilitated the dismantlement of large sections of the imperial structure still in existence, albeit already in decline. This phase also saw the foundation of two important architectural complexes in the area: the church of Santa Maria in Campo Carleo, brought to light and then demolished in the 1930s and the early convent of Sant’Urbano, whose 14th-century structures were probably intended for use as a hospital, and which are partly preserved and still visible today (Figs. 11-12). It was thanks to this latter building that the southern section of the forum developed, now freed of the imposing colonnade which survived until the middle of the century (Meneghini, 1992; Meneghini, 1999). The 14th century say the height of the development of the medieval settlement was reached, as already mentioned. This consisted of the final formation of those compact rows of buildings, lined up along the pathways leading across the area, which characterised the site until its destruction. The elevations of these buildings were frequently complemented by porticoes (porticali) and external staircases (proferula) whose protrusions obstructed the areas of transit. In particular, porticos, which were important intermediate spaces, were one of the most representative features of medieval houses and became prevalent in the architecture of these buildings during the 14th century. Tangible evidence of this characteristic was found in a series of buildings erected near the western portico of the forum. Documents found in the 16th-century land registries of the Confraternities provide evidence of a porticoed façade in three different houses (Figs. 13-14). In addition, a series of anomalies found in 19th-century investigations of the remaining buildings provide confirmation of the hypothesis for the existence of a 14th-century internal porticoed passageway along the block’s front elevation and the further possibility that some of these contiguous properties formed a noble accasamentum, typical of the period and the subject of notarial deeds (Ercolino, 2013). The current excavations to uncover the via Alessandrina (Fig. 1) confirm this hypothesis of a continuous façade, originally consisting of mediaeval porticoed colonnades which were later blocked (Meneghini, 2017). Following the gradual and final collapse of the surviving structures of the Basilica Ulpia, urban expansion also massively involved the northern sector, with the completion of the central block and the probable edification of a new site along
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ta, sostanzialmente attraverso la progressiva trasformazione delle costruzioni presenti e la creazione di impianti di natura “specialistica”, ma la sua impronta tipologica urbanistica, frutto dello sviluppo civile, economico-demografico dei secoli che vanno tra l’XI ed il XIV, può considerarsi fondamentalmente compiuta a quella data, con il quasi completo riassorbimento delle antiche preesistenze romane all’interno della nuova edilizia medievale. I documenti confermano la notevole densità ormai raggiunta dall’abitato, la completa sparizione di qualsiasi riferimento all’esistenza nella zona di terra vacans e la presenza di un numero sempre crescente di case dotate di più piani e, frequentemente, porticate. Si trattava, in generale, di un tessuto composto da un’edilizia minuta e a carattere monofamiliare; in corrispondenza del suo margine orientale, dove la quota cominciava a risalire, le caratteristiche dell’edilizia mutavano per la presenza di numerose fabbriche dalle caratteristiche più complesse. Con un rapido accenno si richiama l’ultima, importante fase della storia urbanistica e architettonica dell’intera zona che, alla fine del XVI secolo, condusse alla formazione del cosiddetto quartiere Alessandrino (Fig. 15). Si trattò di una vera e propria espansione pianificata, regolata da un accordo stipulato dai proprietari dei fondi e preceduta dalla completa bonifica dei terreni ancora inedificati che, pur interessando marginalmente il Campo Carleo, condusse alla completa urbanizzazione dell’intera area dei Fori imperiali e alla sua riconnessione nel tessuto connettivo della città preesistente (Roca De Amicis, 1993). A partire da quel momento, ma soprattutto nel XIX secolo, numerosi progetti di ‘rinnovo’ coinvolsero gli antichi edifici, con trasformazioni, accrescimenti, rifusioni, o, più semplicemente, riformulazioni di facciate, maggiormente corrispondenti ai coevi canoni di decoro ma, nella maggior parte dei casi, questo non stravolse l’antico impianto dell’abitato (Ercolino, 2013). Attualmente, la conclusione delle recenti campagne di scavo, la drastica limitazione del traffico veicolare sulla via dei Fori Imperiali e le questioni inerenti la realizzazione della terza linea della metropolitana, hanno riaperto, dopo circa un ventennio, il dibattito sul problema della più opportuna estensione degli scavi, sulle modalità della loro presentazione, su quelle della ricucitura dei margini di contatto e scambio di tali aree di scavo col tessuto urbano circostante; ossia, più in generale, sulle reciproche connessioni fra la città contemporanea e il grande parco archeologico che si va configurando. Il rapporto fra antichi ruderi e città contemporanea costituisce, in sostanza, un argomento molto complesso, archeologico, architettonico, urbano ma anche di restauro, da intendersi nel suo pieno senso di conservazione, reintegrazione e presentazione; tema rispondente alla volontà di ridare un significato a ciò che si presenta come frammentario, incompiuto, illeggibile, ma pure alla necessità di ottenere il ricercato equilibrio tra le differenti esigenze condivise, con diversi livelli di priorità, tra tutti coloro che sono impegnati nello studio e nella gestione delle città (Ricci, 2007). L’attuale episodica sistemazione delle aree scavate, con la conservazione parziale di una serie di strutture post-classiche, prive delle loro reciproche interrelazioni, ha rappresentato il tentativo di proporre una lettura diacronica del divenire urbano già intervenuto, i cui esiti comunicativi sono stati deludenti, proprio a causa dell’assenza di un contesto topografico e urbano di riferimento. L’eliminazione della completa stratigrafia urbana esistente tra la città attuale e il livello imperiale ha necessariamente comportato che le rovine – antiche e non solo – si trovino ad una quota decisamente inferiore rispetto al piano stradale, con gravi problemi di collegamento, di accessibilità, di comprensione dei resti e pregiudizio di quell’aspetto monumentale che si sarebbe voluto ottenere. L’architettura, gli ambienti urbani, la vita vissuta, in una città come Roma subiscono nei secoli aggiustamenti ed adattamenti continui; dunque il congelamento di una situazione pregressa rischia di ignorare o, addirittura, di cancellare le fasi seriori e l’importante significato assunto dalle medesime nel mutevole contesto storico. D’altronde un’esplicita evidenziazione stratigrafica, paritaria, delle vicende susseguitesi nel tempo potrebbe produrre un sostanziale appiattimento del passato. Si tratterebbe di un ostentato palesa-
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Fig. 15 - L’assetto definitivo dell’area, conseguente alla ultima fase di espansione, compiuta ad opera del cardinal Bonelli tra la fine del XVI e l’inizio del successivo secolo (disegno dell’autore; da Ercolino 2013). The final layout of the area, resulting from the last expansion phase, carried out by Cardinal Bonelli between the end of the XVI and the beginning of the following century (drawing by the author; from Ercolino 2013).
mento archeologico che farebbe coabitare, tra loro, fasi ed epoche diverse, mai effettivamente convissute allo scoperto. Una sorta di opzione asettica, aspirante a una presunta, ingenua, oggettività. Nondimeno, va ricordato che, per poter proseguire lo scavo fino al livello di calpestio imperiale, è stato necessario operare una ‘considerevole’ selezione delle strutture da conservare. L’attuale apparato delle rovine esistenti denuncia perciò la sua episodicità; scavo dopo scavo, la via dei Fori è stata privata di gran parte dei suoi legami e l’affaccio sulle preesistenze è diventato, da un lato bruto, con i bruschi salti di quota definiti dalle pareti di contenimento, dall’altro spezzettato, in ragione delle strutture di origine ottocentesca conservate. Le problematiche, naturalmente, non si sono esaurite nelle scelte già compiute, ma coinvolgono soprattutto ciò che resta da fare; se si vuole contrastare il pericolo, evidente, di una progressiva alienazione dei complessi archeologici dal resto della città è fondamentale giungere a una riconnessione urbana che consenta l’attraversamento e l’utilizzo di queste aree, pur nel rispetto della loro conservazione. L’area nevralgica dei Fori, con l’intero sistema dei percorsi, di vari ordine e natura, che, comunque, ancora l’attraversano, non può e non deve divenire un’enorme lacuna urbana, ma neppure un settore completamente eccettuato dal resto. Ne soffrirebbe, sotto vari profili, la città intera, quella storica in particolare, ma ne risentirebbe la zona forense per prima. A questo proposito, anche la restituzione dell’originario tessuto connettivo, qui proposta con gli strumenti della storia urbana attraverso schemi elementari, potrebbe rappresentare un valido strumento di appoggio, su cui fondare le nuove proposte progettuali; un fondamentale bagaglio di indicazioni, dai molti significati, da comprendere e interpretare con gli occhi della contemporaneità.
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the western side of pathway ‘d’. At the northern end of the area, already marked by the imposing presence of Trajan’s column and the church of San Nicola, a further network of pathways and constructions was created, aggregated around the properties of a powerful family of cattle merchants: the Foschi di Berta. The role played by this family in the development of the area was such that, over the next century, their name gradually came to be associated with the entire surrounding area (Fig. 10 b). Over the course of the following centuries, the area continued to expand mainly through the gradual transformation of existing buildings and the creation of more ‘specialist’ structures, but its urban layout, the results of economic, civil and demographic developments between the 11th and the 14th centuries, can be said to have been completed by that date, with the almost total reabsorption of the previous ancient Roman structures into the new mediaeval framework. Documents confirm the now considerable density of the site, the complete disappearance of any reference to the existence of “terra vacans” in the area and a growing number of houses with several stories and, frequently, porticos. Generally speaking, these were small, single-family dwellings. On the eastern border, where the terrain begins to rise, features buildings with more complex characteristics. Briefly, we look now at the last important phase of the urban and architectural history of the entire area which, at the end of the 16th century, led to the formation of the so-called Alessandrino district (Fig. 15). This was a planned expansion, governed by an agreement made with the owners of the land and proceeded by a complete recovery of the as yet unbuilt plots which, although marginally touching the Campo Carleo, led to the complete urbanisation of the Imperial Fora area and its reconnection to the fabric of the existing city (Roca De Amicis, 1993). From that time, but particularly in the 19th century, the ancient buildings were the subject of numerous ‘renewal’ projects, with transformations extensions, redevelopments or, more simply, reformulations of facades, more in line with the contemporary canons of decorum but, in most cases, this did not overhaul the ancient layout of the area. (Ercolino, 2013). The conclusion of recent excavations, the drastic limitation of vehicle traffic along via dei Fori Imperiali and the issues relating to the construction of the new metro line, have reopened the twenty-year-old debate on how to appropriately extend the excavations, how to present them, and how to blend the contact areas of these excavation areas with the surrounding urban fabric. In other words, how to connect the contemporary city and the large archaeological park that is being uncovered. The relationship between the ancient ruins and the contemporary city is, in essence, a very complex issue, that is archaeological, architectural and urban in nature, but also concerns restoration, in the full sense of conservation, reintegration and presentation. This subject responds to a desire to make meaningful that which is presented as fragmentary, unfinished and unreadable, but also the need to balance the different needs, to differing degrees of priority, of all those involved in the study and management of cities (Ricci, 2007). The current episodic arrangement of the excavated areas, with the partial conservation of a series of post-classical structures, with no mutual interrelationship, has been an attempt to
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propose a diachronic reading of the urbanisation process that has already taken place, the communication of which has been disappointing, precisely because of a lack of topographical and urban references. The elimination of the complete urban stratigraphy between the present-day city and the level dating back to the Roman Empire has meant that ancient remains – and those that are not so ancient — are at a much lower level than street level, leading to serious connection and accessibility issues, as well as difficulty understanding the ancient remains and compromise to the sought-after monumental status. Over the centuries, architecture, urban environments and lives in a city like Rome are subject to continuous adjustments and adaptation. Therefore, the freeze-framing of a previous era, poses the risk of ignoring or even eliminating subsequent phases and their importance in the ever-changing historical landscape. Moreover, an explicit and equal, stratigraphic rendering of the events that have taken place over time could substantially dull the past. It would be an ostentatious display of archaeology that would bring together different phases and different eras, which never actually co-existed alongside each other. This would be an aseptic option, aspiring to a presumed, naive objectivity. Nevertheless, it should be remembered that, in order to continue the excavations at the ground level of the Imperial Fora, a ‘significant’ selection needs to be made of the structures to be preserved. The current structure of the existing ruins is thus exposes the episodic nature of the excavations, during which via dei Fori has been deprived of most of its connections and the view of the existing buildings has, on the one hand, become lifeless, with the abrupt changes in height defined by retaining walls and, on the other hand, fragmented, due to preserved structures of nineteenth-century origin. Of course, the problems are not limited to the choices already made, but above all involve what remains to be done. If we want to counter the evident danger of progressively alienating the archaeological sites from the rest of the city, it is essential to reconnect them in such a way that these areas can be traversed and used while respecting their conservation. The bustling Fora district, with its network of routes of various sizes and nature, and which still run through it, cannot and must not become an enormous gape in the urban system, or a section of the city that is completely cut off from the rest. The whole city would suffer in several ways, but the Fora would be most affected. In this regard, restitution of the original connective tissue, which is proposed here through the eyes of urban history and using an elementary framework, could also be a valid support tool on which to base the new planning proposals. It could be a fundamental and multi-faceted set of indications to be understood and interpreted through the eyes of the contemporary city.
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Riferimenti bibliografici
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urbanform and design La città di Porto come processo.
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Anna Rita Donatella Amato ISUFitaly E-mail: amatoard@gmail.com
Obiettivi e svolgimento dello studio
The city of Porto as a process. Morphological reading of the urban organism
Il lavoro che qui si presenta è stato svolto all’interno di un più esteso gruppo di lavoro organizzato da Vitor Oliveira presso l’Università di Porto, all’interno del programma di ricerca internazionale Erasmus+/Epum, finanziato dalla Comunità Europea che ha come finalità lo studio di nuovi strumenti di analisi e didattici relativi agli studi di Morfologia Urbana. Il lavoro aveva come tema specifico il confronto sperimentale tra diversi metodi di indagine, ma anche didattici, sulla forma della città utilizzati in diverse università europee attraverso lo studio del tessuto urbano della città di Porto. Il nostro gruppo di lavoro ha utilizzato il metodo morfologico-processuale da tempo sviluppato all’interno del laboratorio LPA (Lettura e Progetto dell’Architettura) della Sapienza, Università di Roma. Giuseppe Strappa e la scrivente hanno diretto il lavoro del gruppo composto, durante la prima fase di studio, da V. Buongiorno, M. Dell’Omo, M. Ferrone, M. G. Guerreros, C. Paciolla. In questa prima fase, il lavoro ha riguardato soprattutto l’applicazione del metodo di analisi processuale al caso di studio del centro storico di Porto, tema comune anche agli altri gruppi di lavoro, condotti rispettivamente da: Tihomir Viderman e Sabine Knierbein per la TU Wien applicando il metodo relazionale; Vitor Oliveira per l’Università di Porto con il metodo storico geografico, Kayvan Karimi e Abhimanyu Acharya per Space Syntax ltd. Nella seconda fase di studio, il lavoro è stato indirizzato ad indagare le possibili connessioni tra diversi approcci di analisi urbana. Per questa ragione i ricercatori si sono raggruppati in modo da permettere di condividere i risultati del proprio metodo con quello degli altri ricercatori, con l’obbiettivo di poter analizzare diversi aspetti dello studio della città. Il compito mio e del prof. Strappa, in questa seconda fase, ha riguardato la guida del gruppo di lavoro impegnato nella valutazione degli aspetti multi-scalari della forma urbana: in che modo cioè le strutture alle varie scale dell’organismo urbano confluiscano e collaborino a definire la forma ultima della città. A questo proposito, oltre allo scambio, già consolidato, con i risultati dell’analisi storicogeografica, si è svolto un interessante confronto con il metodo Space Syntax. I ricercatori della Bartlett School G. Shaun e P. Nien Chen hanno condotto la loro indagine sulla nostra stessa area, verificando i caratteri del tessuto individuati col nostro metodo ed integrandoli con le loro conclusioni. L’esperimento ha dimostrato l’utilità concreta di sviluppare l’integrazione tra i diversi metodi di ricerca. Il lavoro si è avvalso delle informazioni sui dati di base fornite da Vitor Olivera e si è basato anche su una lettura preliminare svolta nel laboratorio LPA diretto da Paolo Carlotti. Di particolare importanza è stata anche la collaborazione di Carlos Coelho che ha generosamente messo a disposizione materiali elaborati nella Faculdade de Arquitetura da Universidade de Lisboa, in particolare attraverso la ricerca sviluppata da Sérgio Pedrão Fernandes. Il tema è stato affrontato, pur nei limiti temporali imposti dalle circostanze, a diverse scale, partendo dalla nozione di territorio inteso quale organismo, fino alla scala del tipo edilizio. Lo scopo delle letture eseguite è da ritenere soprattutto dimostrativo, mirato alla proposta di un metodo di lettura.
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Keywords: public space, urban design, Centopiazze Program, Tactical Urbanism, immaterial layers Abstract This essay concerns the processual study of the Porto historic centre conducted in 2018, through the urban morphology tools, aimed at demonstrating how a contemporary “reading” of consolidated fabrics is possible. That is, to verify how the critical interpretation of the built reality does not precede but is itself the substance of the design proposal. The experience was carried out by a research group from Sapienza, coordinated by Prof. Giuseppe Strappa and by the writer, within the European Erasmus +/Epum program. The work also aimed to verify the use of different analysis methods (in particular, in addition to the processual method, the Space Syntax one) in the spirit of the Epum (Emerging Perspective in Urban Morphology) program. This program aims at sharing and integrating various approaches to urban reading and the development of new tools for teaching the discipline. Researchers and PhD students had the opportunity to carry out a simplified analysis (according to a workshop possibility) not comparable with what is usually used in the faculties of architecture, especially in Italy. During this experience, they have understood the generative character of the processual urban morphology studies. This approach shows as a finite number of elements (object recognized in the urban reading) can produce an infinite number of outcomes (potential of the object) among which the designer identifies the solution or possible solutions (critical evaluation of the subject). The experience was also aimed to constitute a test of how the urban morphology tools can have a foundational value for teaching Architecture intended as a “didactic organism” that sees different systems, theoretical and practical, collaborate for the realization of the built form at different scales. Doctoral students have been able to understand the meaning of the historical phases’notion. They have also elaborated the results of those methods deal with the visible and quantifiable aspects of the city compared to the current urban configuration and that studies instead interpret the form as a process in progress, resulting of the diachronic action of successive civil transformations. The author believes that the interac-
Lettura morfologica integrata della città
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Fig. 1 - Schemi della formazione storica dei percorsi territoriali (fonte: Centro Histórico do Porto https://www.portopatrimoniomundial.com). Schemes of the territorial routes historical formation (source: Centro Histórico do Porto https://www.portopatrimoniomundial.com).
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Scala del territorio
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Nella prima fase dello studio si è iniziato dall’applicazione della nozione processuale di organismo territoriale come luogo abitato costituito di strutture collaboranti (percorsi, insediamenti, aree produttive): una nozione complessa che sintetizza i processi che si svolgono a tutte le scale minori: organismo edilizio, organismo aggregativo, organismo urbano. Nella lettura dello sviluppo urbano per fasi si è preferito porre l’accento sul processo formativo logico, oltre che storico, pur considerando, ovviamente, le stratificazioni cronologiche eseguite dai numerosi studi sull’argomento. La lettura ha proceduto, dunque, per fasi relazionate all’uso antropico del territorio, a partire dall’individuazione degli elementi che per primi strutturano la sua forma, cioè dai percorsi, e dal modo attraverso il quale essi si formano, consolidano, articolano, specializzano e gerarchizzano tra loro in modo collaborante, in rapporto di reciproca necessità, secondo relazioni di congruenza e proporzione. Si è cercato di comunicare agli studenti come la vita che si svolge sul suolo e i segni lasciati dal moto (dagli spostamenti, attraversamenti, migrazioni), precorrano, in realtà, qualsiasi altra impronta e, come ogni elemento della realtà costruita, possiedano un loro carattere tipico. I percorsi territoriali sono generati in origine dai collegamenti tra aree di maggiore polarizzazione. Una distinzione utile a capire i processi formativi riguarda senz’altro la loro permanenza nel tempo, la resilienza dei tracciati, la loro capacità plastica di adattarsi alle modificazioni e alle necessità, legata alla gerarchia dell’uso e alle fasi formative. I cammini generati dal solo atto del percorrere e i sentieri,
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tion between apparently so different approaches is not only possible but useful for the development of unprecedented reflections and innovative research in urban morphology. _____
Workshop goals and development The work here presented was carried out in a workshop organized by Vitor Oliveira at the University of Porto within Epum, an international research program funded by the European Community which aims to study new tools for analysis and teaching Urban Morphology. The workshop specific theme was the experimental comparison between different methods of investigation and teaching on the urban form used in various European universities (London, Nicosia, Porto, Rome, Vienna), through the case study of the urban fabric of the city of Porto. Our working group has employed the MorphogicProcessual method long developed within the Lpa Laboratory (Architectural reading and Design) of Sapienza, University of Rome. The work was directed by Giuseppe Strappa and me and the working group, during the first week, consisted of the students V. Buongiorno, M. Dell’Omo, M. Ferrone, M. G. Guerreros, C. Paciolla.
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Fig. 2 - Percorsi territoriali. Territorial routes.
formatisi attraverso il ripetersi del passaggio nel tempo, costituiscono, sotto questo punto di vista, senz’altro le più elementari e spontanee vie di comunicazione. Si è cercato di dimostrare come, spesso, i primi percorsi siano quelli di crinale, poi integrati a quelli di fondovalle. Essi si formano lungo la linea di displuvio che divide due bacini idrici già sede, in molti casi, di una primitiva pista occasionale: costituiscono un attraversamento continuo a scala territoriale che collega aree molto lontane e diverse tra loro. Proprio nella originaria formazione dei percorsi di crinale è da ricercare la ragione per la quale, come afferma anche Fernand Braudel, la civiltà si evolve dalla montagna verso il mare, contrariamente a quanto la nostra “civiltà di pianura” indurrebbe a credere (“Le cause? – scrive Braudel – senza dubbio la varietà delle risorse montane; ma anche il primitivo dominio, in pianura, delle acque stagnanti e della malaria; oppure il vagare incerto in quelle zone delle acque dei fiumi. Le pianure abitate, oggi immagine della prosperità, furono creazioni tardive, faticose di secoli di sforzi collettivi”). I percorsi di crinale costituiscono la struttura profonda di un territorio che si forma prima delle altre sia per l’estensione dei collegamenti cui danno origine, sia per la possibilità che forniscono, nelle prime fasi di costruzione, di orientarsi, in regioni ancora non antropizzate, seguendone la linea geometrica più elevata. Questo spiega perché tra i primi percorsi per importanza che formano la struttura territoriale, collegando l’insediamento romano e poi la Muralha Romanica, vi sia il percorso di crinale del Caminho para Santo Idefonso, che in realtà collega importanti insediamenti interni e costituisce una struttura continua di grande importanza. Nella Valle del Rio de Vita si forma un percorso di fondovalle che collega l’insediamento antico della Povoação Romana da cui si svilupperà la Zona Ribeirinha. Si è osservato come i percorsi di fondovalle siano
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In the first phase, the main focus of the work was to use the processual approach to the Porto historical centre. It was the common topic of all workgroups managed from Tihomir Viderman and Sabine Knierbein for the TU Wien, using the relational approach; Vitor Oliveira for the University of Porto with the historical-geographical approach; Kayvan Karimi and Abhimanyu Acharya for Space Syntax ltd. In the second workshop phase, the research focused on investigating the possible link within the different approaches on the urban analysis. For this reason, the workgroups composition were changed, including each researcher with other representants of each different method. In this way, everyone could share their outputs with the others, analysing several aspects of the urban studies. Our task, my and prof. Strappa, in this phase, concerned to manage the workgroup dealt on the multi-scalar analysis within the urban form: in which way the urban organism several scales influence the city shape. At this purpose, in addition to the consolidated sharing with the historical-geographical analysis outputs, we experimented an interesting comparison with the Space Syntax method. The doctoral students G. Shaun and P. Nien Chen studied the same area of our group, verifying the characters of the tissue recognized with our approach and integrating them with their analysis. The experiment demonstrated, in the spirit of the Epum program, the
Fig. 4 - Permanenza nel tessuto attuale dei percorsi territoriali. Territorial routes permanences within the present urban fabric.
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Fig. 3 - Percorsi territoriali e cinte murarie. Territorial routes and the city walls.
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Fig. 5 - Formazione dei percorsi urbani nel tessuto attuale. Urban routes formation within the present urban fabric.
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complementari a quelli di crinale e non seguono in realtà l’esatta linea di compluvio: come i percorsi di crinale non seguono spesso rigorosamente la linea di displuvio, per le difficoltà naturali che essa può presentare, ma si adattano ad essa attraverso raccordi di quota, così il percorso di fondovalle può non occupare la sede immediatamente adiacente ai corsi d’acqua, ma porsi, più spesso, a ridosso di essa. Sono state elaborate alcune carte orografiche che mettono in risalto il rapporto tra percorsi e forma del suolo, indicando anche gli altri due percorsi fondamentali nella formazione del territorio di Porto: il percorso di Braga e quello di Paredes de Coura. L’impianto della città di Porto si struttura su questi percorsi e su quelli che li collegano, primi tra tutti: - quello che collega l’area di Rua Chã, di arrivo del percorso di crinale e polo dello sviluppo della città, con l’area di Eixo Marcadores Bainharia e l’insediamento commerciale sul fiume della Zona Ribeirinha; - quello che collega lo stesso polo con il Caminho para Braga che, traversando la valle del Rio de Vita, si pone come vero percorso di “controcrinale sintetico” (che unisce due diversi promontori); - il percorso costiero che collega la Zona Ribeirinha all’insediamento di Miragaia. Scala dell’organismo urbano e del tessuto Non potendosi ovviamente ricostruire le fasi formative dell’intero territorio e dei tessuti urbani, si sono studiate le permanenze attuali dei tracciati che si sono succeduti nel tempo. Questo studio, che non ricostruisce la forma
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usefulness to develop the integration between the different research methods. The research took advantage of the base data provided by Vitor Olivera. It was also based on a preliminary reading carried out within the LPA laboratory with the collaboration of Paolo Carlotti. Of particular importance was also the collaboration of Carlos Dias Coelho who generously made available materials elaborated in the Faculdade de Arquitetura da Universidade de Lisboa, in particular in the PhD research developed by Sérgio Pedrão Fernandes. Our topic has been addressed, even within the limits of a workshop, at different scales, starting from the notion of territory as an organism, up to the scale of the building type. The purpose of the analysis on the historic centre of Porto is to be considered primarily as demonstrative, aimed at presenting a reading method. The territory scale On the first phase of the workshop, we analyzed the scale issue, starting to suggest to students the idea of a territorial organism as an inhabited area consisting of parts that cooperate (routes, settlements, productive regions). It is a complex notion that summarizes the processes that take place at all minor scales: building organism, aggregative organism, urban organism. In reading the urban development in phases, we emphasized the logical rather than historical formative
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Fig. 6 - Integrazione dei metodi processuale, storico-geografico e Space Syntax nello studio delle polarità all’interno delle mura urbane. Integration between processual, historicalgeographical and Space Syntax method about the polarities study within the city walls.
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Fig. 8 - Formazione del percorso sul tracciato del fiume De Vila. Route formation in the De Vila river compluvium.
del tessuto storico originale, è particolarmente significativo per l’architetto. Il concetto di “permanenza” è, infatti, fondamentale nello studio delle città di carattere plastico-murario di tradizione mediterranea (o assimilabile) ed ha un valore fondante, ritengo, per il progetto. La nozione di architettura plastico-muraria, infatti, individua un intero percorso della storia della città europea, che attraversa, come un sostrato profondo, anche la vicenda dell’architettura moderna fino ad arrivare, vitale e ricca di prospettive, ai nostri giorni. La plasticità e la durata, dunque, contro il mito della macchina e del rapido consumo. Questo carattere organico, che lega in unità componenti diverse tra loro (il percorso, la casa, l’area di pertinenza), è certamente l’eredità condivisa di una consuetudine edilizia ed urbana che nasce nel mondo romano ed è, a sua volta, legata ad una koinè culturale che appartiene, appunto, al mondo murario mediterraneo. Si è cercato di fornire, operativamente, la definizione di tessuto come somma dei caratteri processualmente determinatisi che contraddistinguono la formazione di un aggregato edilizio. Nello specifico si sono riconosciute alcune fasi di formazione del tessuto urbano del centro storico della città contraddistinte da strutture diverse ma processualmente definite e connesse dalla stessa logica di formazione: - la prima fase di formazione della prima cinta muraria, collocata all’arrivo del percorso territoriale (Rua de S. Ildefonso) individuato come matrice, con il suo polo rappresentato dalla cattedrale ed il tessuto medievale circostante; - una seconda fase di formazione dei conventi extra urbani, in particolare il convento di S. Francisco (attuale palazzo della Borsa), il convento di S. Domingos (ad oggi ci resta soltanto la Chiesa della Misericordia), il Convento di S.
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process while taking into account, of course, the chronological stratifications investigated by the numerous local studies on the subject. The reading proceeded, therefore, by phases related to the anthropic use of the territory, starting from the identification of the elements that first structure its shape that is from the routes and the way through which they are formed, consolidated, articulated and collaboratively specialized among them, in a correlation of mutual necessity, according to relations of congruence and proportion. We attempted to communicate to students how the life that takes place on the soil, the signs left by the motion (due to movements, crossings, migrations) anticipates any other imprint and like every element of built reality, have their typical character. Links between areas of greater polarization initially generate territorial paths. A distinction useful to understand the forming processes is undoubtedly their permanence over time, the resilience of the tracks, their plastic ability to adapt to changes and needs, linked to the hierarchy of use and forming phases. The paths generated by the only act of walking, and the routes, created through the repetition of the passage in time, constitute, from this point of view, the most simple and spontaneous ways of communication. We tried to show how often the first routes are those of the ridge. They are formed along the line of displuvium that
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Fig. 7 - Principali tipi di base. Main base building types.
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Fig. 9 - Trasformazioni nel quartiere di Sao Bento prima e dopo le demolizioni dell’Avenida Alfonso Henriques. Transformations in the Sao Bento urban fabric before and after the demolitions operated for the Avenida Alfonso Henriques construction.
divides two river basins already home, often, of a primitive, occasional runway. They constitute a continuous crossing on a territorial scale that connects distant and different areas. it is precisely in the original formation of the ridge routes the reason for which, as Fernand Braudel also states, civilization evolves from the mountain to the sea, contrary to what our “lowland civilization” would lead us to believe (“The causes? - writes Braudel - without doubt the variety of mountain resources; but also the primitive domination, in the plains, of stagnant waters and malaria; or wandering uncertainly in those areas of the river waters. The inhabited plains, today an image of prosperity, were late, tiring creations of centuries of collective efforts”) . They constitute the first, deep structure of a territory that is formed before the others both for the extension of the connections which they originate, and for the possibilities they provide, in the early stages of construction, to orient themselves in regions not yet anthropized. This explains why the first path that forms the territorial structure, which connects the Roman settlement (then the Muralha Romanica) is the route of the Caminho para Santo Idefonso, which actually connects important internal settlements and constituted a continuous structure of great importance. In the Rio de Vita Valley, a valley bottom path is formed, connecting the ancient riverside settlement of Povoação Romana from which the Ribeirinha area will develop.
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Chiara ed il Convento di S. Elòi; - nella terza fase si assiste ad una espansione del tessuto urbano proprio a partire da queste polarità che da anti-poli si trasformano in vere e proprie polarità, influenzando la forma urbana ed il suo orientamento; - l’ultima fase analizzata definisce il consolidamento della fase precedente con la totale trasformazione delle polarità che diventano del tutto urbane anche nelle loro funzioni (ad esempio la trasformazione del convento di S. Francisco nel Palazzo della Borsa). Ed è proprio a questa scala che i vari approcci, uniti nell’intento di verificare l’influenza delle differenti scale urbane nella forma della città, ha dato probabilmente i frutti più interessanti. Ci si è confrontati, infatti, con il riconoscimento delle varie “regioni morfologiche” (risultato dell’applicazione del metodo storico-geografico), pressoché corrispondenti alle fasi individuate dall’approccio processuale, soprattutto nell’evidenza di come la trasformazione dei conventi in poli urbani abbia di fatto determinato caratteri specifici dell’aggregato edilizio. Anche i risultati dell’analisi Space Syntax sono stati un valido strumento di interpretazione della forma urbana. Essi hanno evidenziato come aspetti apparentemente incongruenti possano, di fatto, essere dimostrati se relazionati alla storia evolutiva dell’organismo urbano. Nello specifico dall’analisi di Space Syntax si evidenzia come la geometria dello spazio in prossimità di quelle polarità rinnovate, rappresentate dagli edifici specialistici degli ex-conventi descritti in precedenza, non sia in grado di accogliere un flusso adeguato alla funzione in oggetto. Il riferimento, in questo caso, va ai valori di “choise” (il parametro Choice misura la probabilità che una linea assiale o un segmento di un percorso urbano, possa passare, scegliendo il percorso più breve, attraverso un determinato punto dell’intero sistema o entro una Anna Rita Donatella Amato | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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It has been observed as the valley bottom routes are complementary to the ridge ones and do not actually follow exactly the compluvium line. As the ridge routes often do not follow the watershed line due to the natural difficulties that it may present to the walking and they adapt to the form of the soil, so the valley bottom routes may not occupy the site immediately adjacent to the waterways, but, more often, stay close to it. Some orographic maps have been elaborated highlighting the relationship between paths and the form of the ground, also indicating the other three routes fundamental in the formation of the Porto territory: the Braga route and that of Paredes de Coura. The Porto city early urban plan is structured on these routes and on those that connect them, first of all: - the one connecting the Muralha Romanica to Santo Idefonso; - the one connecting the Rua Chã area, at the arrival of the ridge route (urban pole), with the area of Eixo Marcadores Bainharia and the commercial settlement of the Ribeirinha area on the river; - the one connecting the same pole with the Caminho para Braga which, crossing the valley of the Rio de Vita, stands as a real “synthetic counter ridge” route (which joins two different headlands); - the coastal path connecting the Ribeirinha and Miragaia settlements.
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distanza prestabilita (raggio) da ciascun segmento. Rappresenta cioè la probabilità che un determinato punto venga attraversato dal flusso considerando la totalità dei percorsi inclusi nell’area di analisi), ai vari raggi di azione del software Space Syntax, nelle aree limitrofe i nuovi poli della terza fase “logica” dell’analisi processuale: se parliamo di polarizzazioni infatti, ci aspetteremmo di rilevare un’infrastruttura viaria con una geometria dai valori di “choice” importanti o comunque paragonabili a quelli dei poli analoghi all’interno della città. In effetti però, se la città si è sviluppata per fasi e senza un piano organico, tali valori rivelano proprio la loro natura di originarie anti-polarità, non concepite per ospitare un successivo aggregato edilizio e al contrario attestate in luoghi lontani da quelli che erano i flussi urbani. In questo caso quindi l’integrazione dei due approcci fornisce importanti spunti per il progetto urbano, spunti che sarebbero stati solo parziali se l’analisi fosse stata svolta con un metodo piuttosto che un altro. L’individuazione delle fasi “logiche” di sviluppo ha aiutato inoltre a comprendere come un tessuto edilizio sia dunque contraddistinto da una legge riconoscibile, iterativa e individuabile in diversi aggregati sincronicamente, in funzione delle variabili aree culturali, e diacronicamente in fasi successive nel processo di mutazione degli aggregati. Da questo punto di vista potremmo parlare, chiarendo la schematizzazione alla quale si è accennato, di organismi edilizi che si compongono a formare organismi a scala superiore: l’organismo urbano per poi riconoscere che tra questi due estremi di scala esiste un salto logico (che è anche un salto storico-processuale) nel senso che il passaggio tra l’edificio e la città avviene attraverso leggi aggregative che formano (individuano) parti di organismo urbano riconoscibili. L’organismo aggregativo rappresenta dunque il passaggio
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The urban fabric scale As the formation phases of the whole territory and the urban fabrics could not be re-constructed, we focused on the current stays of the routes formed over time. This study, which does not reconstruct the form of the original historical fabric, is particularly significant for the architect. The concept of “permanence” is, in fact, fundamental in the study of plastic-masonry cities of Mediterranean tradition (or assimilable) and has a significant value, I believe, for the architectural design. The notion of plastic-masonry architecture identifies an entire path of the history of the European city, which crosses, as a deep substratum, even the story of modern architecture until arriving, still vital, in our day: plasticity and durability, therefore, against the myth of the machine and consumer culture. This organic character, which links different components together (the route, the house, the pertinent area) is undoubtedly the shared heritage of a building and urban tradition born in the Roman world and linked, in turn, to a cultural koinè that belongs to the plastic Mediterranean world. It is sought to provide, operatively, the definition of fabric as the sum of processual formed characters that distinguish the formation of a building aggregate. At this purpose, we recognised some formation phases of the historic centre characterised by different structures but processual defined and connected from the same logic of formation: - the first phase with the first city wall, located at the end of a territorial route (Rua S. Ildefonso): a matrix route polarised by the cathedral and surrounded from the medieval urban tissue; - a second phase with the monasteries formation outside the city: the S. Francisco monastery (now the exchange building), the S. Domingos monastery (today it remains just the Mercy church), the S. Chiara and the S. Elòi monasteries; - on the third phase, we analysed an urban tissue expansion just from this anti polarities transformed now in polarities influencing the urban shape;
Fig. 10 - Proposte di trasformazione dell’ Avenida Alfonso Henriques. Marcello Piacentini (1939), Giovanni Muzio (1934). Fonte: Canelas Ferreira 2012. Transformation proposals for the cleared areas along the Avenida Alfonso Henriques. Marcello Piacentini (1939), Giovanni Muzio (1934). Source: Canelas Ferreira 2012.
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Fig. 11 - Proposte di trasformazione dell’ Avenida Alfonso Henriques. Fernando Távora (1955), Alvaro Siza (1968). Fonte: Canelas Ferreira 2012. Transformation proposals for the cleared areas along the Avenida Alfonso Henriques. Fernando Távora (1955), Alvaro Siza (1968). Source: Canelas Ferreira 2012.
- the last phase defined a consolidation of the previous step with the a complete transformation of this polarities also in their function (for example the transformation of the s. Francisco monastery in the exchange building). And it is at this step of the analysis the different approaches, working on the studies of how the urban scales influenced the city shape, gave us the most interesting outputs. We compared the “morphological regions” (analysed from the historical-geographical method), enough correspondent to the processual phases, mostly in the evidence of how the monastery transformation in urban poles causes the formation of special characters. Also, the Space Syntax analysis has been an essential tool in the urban shape study. They underline how aspects apparently not congruent can be demonstrated if related to the urban organism evolution. From the Space syntax analysis, we can see how space geometry next to the old monasteries is not able to host an adequate flow compared to the function. In particular, we are speaking about the “choice” (the Choice parameter measures the probability that an axial line or a segment of an urban route can pass, choosing the shortest route, through a specific point of the entire system or within a predetermined distance (radius) from each segment. That is, it represents the probability that a given point will be crossed by the flow considering the totality of the paths included in the analysis area) values at various radious, next to
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di scala fondamentale che fornisce la misura di come la città sia, essa stessa, il risultato di un processo aggregativo storicamente determinato. La permanenza dei tracciati lungo il crinale che arriva alla Muralha è indicata dal toponimo stesso, Rua de Cimo de Vila (strada della sommità della città). È stata eseguita la lettura: - dell’andamento e posizione del percorso; - degli orientamenti dei lotti; - dalla forma e posizione delle aree di pertinenza; la quale ha dimostrato come si tratti di un antico percorso matrice cui le trasformazioni recenti (soprattutto l’apertura della Rua do Ponte) hanno tolto il primitivo senso urbano. Sono state poi studiate le permanenze sul percorso che, scartando la cittadella, si dirige verso l’insediamento su fiume, le attuali Rua da Bainharia-Rua dos Mercadores, in seguito sostituite dai percorsi di ristrutturazione pianificati Rua de Mouzinho da Silveira- Rua de São João. Questa nuova struttura è dovuta alla formazione di un nuovo importante polo urbano corrispondente all’area di Porto São Bento e alla stazione ferroviaria che ha sostituito l’antico convento. Rua de Mouzinho da Silveira, sostituendo anche il precedente percorso di ristrutturazione di Rua das Flores ed occupando il percorso di un corso d’acqua, dà luogo a un interessante organismo aggregativo con tipi edilizi molto allungati che costituiscono una variante ai tipi a schiera portanti, e per questa ragione è stata oggetto di una lettura particolare.
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Scala dell’organismo edilizio
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the new poles (third phase) individuated in the processual analysis. If we are dealing with polarities, we expected to read a geometry infrastructure with high “choice” values or at least similar to the analogous polarities within the cities. But, if the city developed through phases without an organic plan, these values are revealing just their original character of anti-polarities, not conceived to host an urban tissue but, on contraries, birth to be outside the city. In this case, the integration between the two different approaches gave us important data for the urban design outputs would be just partial if the analysis was carried out with a unique approach. The individuation of the logical phases helps to understand how a recognizable, iterative law characterizes a building fabric. This law can be identified synchronously, as a function of the variables cultural areas, and diachronically in successive phases in the process of mutation of the aggregates. From this point of view, we could speak, clarifying the mentioned definition, of building organisms that are composed to form an organism at a higher scale: the aggregative organism and the urban organism. The aggregative organism, therefore, represents a fundamental passage of scale that provides the measure of how the city is, itself, the result of a historically determined aggregative process. The permanence of the tracks along the ridge that reaches the Muralha is indicated by the to-
Fig. 12 - Trasformazione teorica del tessuto esistente. Progetto 1. Transformation two last phases (theoretical) of the existing fabric. Project 1.
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È evidente come sia più agevole studiare i tessuti formati da edilizia di base, costituita da tipi aperti alla “solidarietà” edilizia, all’aggregazione, contenendo essi stessi cellule elementari di dimensioni pressoché costanti o modulari, mentre possiamo parlare meno frequentemente di tessuti per l’edilizia speciale, i cui tipi hanno una loro compiutezza (si pensi al caso di conventi come S. Francisco o S. Domingo) quindi una minore disponibilità all’aggregazione. La casa a schiera, di cui è costituito il tessuto di base della città, è, per sua natura, un organismo edilizio aperto che ha bisogno, per essere completato, dell’inserimento nell’aggregato urbano. La casa a schiera di Porto, spesso oggi plurifamiliare, è costituita da unità di circa 5 metri di spessore, profondità variabile e facciata con doppia finestra, con frequenti incrementi di mezzo modulo (7,5 metri), facciate a tre finestre e, spesso, una scala parallela al percorso a doppia rampa. La struttura è mista, legno e muratura, ma il carattere plastico e organico è evidente nella stretta solidarietà tra costruzione e distribuzione, simile alle abitazioni delle aree mediterranee. Questo carattere plastico è riconoscibile in tutta l’edilizia di Porto e costituisce, come in tutto il Portogallo, l’eredità trasmessa all’architettura moderna. Ne è la riprova il rapporto tra internazionalismo ed eredità locale e il confronto con la tradizione edilizia, soprattutto negli anni ’50 quando, quando si fa strada l’idea del possibile recupero di una lingua vitale e operante, in opposizione all’interpretazione astratta indicata dalla cultura ufficiale. Non è un caso che la proposta di un’indagine sull’abitazione regionale estesa a tutto il territorio nazionale (O Inquérito a Arquitectura Regional Portuguesa) sia avanzata da Francisco Keil do Amaral, uno dei | Anna Rita Donatella Amato | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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Fig. 13 - Trasformazione teorica del tessuto esistente. Progetto 2. Transformation two last phases (theoretical) of the existing fabric. Project 2. ponym itself, Rua de Cimo de Vila (road of the top of the city). It was performed the reading of: - the pattern and position of the route; - the orientation of the lots; - form and position of the pertinent areas. The reading on the fabric scale has confirmed that it is an ancient matrix route to which the recent transformations (particularly the opening of the Rua do Ponte) have transformed its original urban sense. They have then studied the fabric permanence on the route avoiding the citadel heads for the river settlement: on the current Rua da Bainharia-Rua dos Mercadores, later replaced by the planned restructuring routes Rua de Mouzinho da Silveira-Rua de São João. This new structure is due to the formation of a new important urban poles corresponding to the Porto São Bento area and to the railway station that replaced the old convent. Rua de Mouzinho da Silveira, also replacing the previous Rua das Flores restructuring route and occupying the course of the ancient watercourse, gives rise to an interesting aggregative process with “stretched” building types that constitute a variant to the main row house types, and for this reason, it has been the subject of particular attention. The permanence of the successive routes formed over time was then identified, with the formation of convents in an antinodal position, as usual in plastic cities.
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protagonisti più significativi dell’architettura razionalista portoghese. All’interno degli esiti disomogenei prodotti dall’indagine, il denominatore comune è costituito dalla ricerca delle matrici dell’edilizia di base portoghese, forme elementari ancora non condizionate dalle trasformazioni tecnologiche e sociali indotte dal contraddittorio processo d’industrializzazione del paese (esemplari, in questo senso, alcune opere di Fernando Távora, all’origine del tentativo di liberare le tecniche costruttive artigianali dal condizionamento del vernacolo, nella ricerca di una strada solida e originale, legata alla continuità con i processi di trasformazione in corso. Quando nel resto d’Europa le case unifamiliari degli interventi d’iniziativa pubblica, nella ripetizione di modelli standardizzati, hanno perso ogni rapporto di congruenza col luogo, in Portogallo si costruiscono interi quartieri di case a schiera a basso costo basate su tipi edilizi che, empiricamente, si relazionano alle permanenze incontrate sul terreno. Una rinnovata nozione di tessuto basata sulla solidarietà tra unità edilizie e percorso dà così origine ad aggregazioni, soprattutto di case a schiera (si pensi ai primi lavori di Alvaro Siza) nelle quali una nuova concretezza permette di superare la ricerca del pittoresco moderno, l’adesione epidermica alle forme del costruito). Anche se gli studenti non hanno, alla fine del workshop, prodotto un progetto di architettura, lo studio della casa di Porto credo che abbia permesso loro di comprendere meglio i caratteri specifici dell’architettura portoghese e le potenzialità contemporanee dello studio dei tipi edilizi.
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Fig. 14 - Analisi Space Syntax delle due opzioni di progetto con un raggio di 800 metri di “choise”. Space Syntax analysis on the two design proposal at 800 radius of ‘choise’.
Conclusioni
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The building organism scale It is evident, we can more easily study the fabric of the base building (mostly housing), consisting of types open to building “solidarity”, to aggregation, containing elemental cells of almost constant or modular dimensions. On the contrary, we can speak less frequently of fabric for special construction, the types of which have their completeness (think of the case of convents like S. Francisco or S. Domingo) and therefore less predisposition for aggregation. The row house, of which the city base fabric is constituted, is, by its nature, an “open” building organism that needs, to be completed, the insertion in the urban aggregate. The Porto row house, often today multifamily, consists of units of about 5 meters thick, variable depth, and double-windowed façade, with frequent increments of half a module (7.5 meters) and three-sided windows, frequently with a double-ramp staircase parallel to the route. The structure is mixed, wood and masonry, but the plastic and organic character are evident from the close solidarity between construction and distribution, similar to the housing of the Mediterranean area. This plastic character is recognizable throughout the whole building of Porto and constitutes, as in all of Portugal, the legacy transmitted to modern architecture. It is confirmed by the relationship between modern architecture and local heritage, especially in the 50s when it develops the idea of a possible recovery of a vital language in opposition to the general trend indicated by the “official” modern culture. It is no coincidence that Francisco Keil do Amaral advanced the proposal for a survey on local habitation extended to the entire national territory (O Inquérito a Arquitectura Regional Portuguesa), one of the most significant protagonists of Portuguese rationalist architecture. Within the inhomogeneous outcomes produced by the Inquérito, the common denominator consists on the research of the Portuguese base building origins, elementary forms not yet conditioned by the contradictory transformations induced by the process of industrialization of the country (In this sense, some works by Fernando Távora are exemplary. At the origin of the attempt to free the artisan construction techniques from the conditioning of the vernacular, in the search for a stable and original way, linked to the continuity with the transformation processes in progress. When, in the rest of Europe the public single-family houses, in the repetition of standardized models, have lost all congruence with the place, in Portugal, entire neighbourhoods of low-cost terraced houses, based on building types are built empirically related to the permanence. A renewed notion of fabric, based on solidarity between building units and paths thus gives rise to aggregations, especially of terraced houses (think of the first works of Alvaro Siza). In these examples, a new concreteness allows overcoming the search for the picturesque modern, epidermal adhesion to the forms of the built). Even if the students do not have, at the end of the workshop, produced an architectural design, the study of the Porto house, I believe, has allowed them to understand better the specific characters of Portuguese architecture and the contemporary architectural potentiality of the building types study.
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Conclusions The method proposed to the students is based, in the Muratorian tradition, on the identity of reading and design.
Il metodo proposto è basato, nel grande alveo del pensiero muratoriano, sull’identità di lettura e progetto. Anche se lo scopo della sperimentazione non era quello di definire una proposta progettuale, si è voluto, da un lato, sperimentare in forma pratica i risultati dell’analisi urbana, convinti che la riproposizione di un processo sulla base di una logica determinata, risulti un efficace metodo didattico in grado di trasmettere al meglio il metodo di lettura; d’altro canto, si è voluto dimostrare come il disegno contemporaneo dovrebbe essere la continuazione innovativa dei caratteri morfologici ereditati, trasformati criticamente. Questi caratteri ancora oggi legano, nella città di Porto, spazi urbani e unità abitative in una collaborazione corale espressa da facciate condivise. Per comprendere come dall’analisi potessero derivare indicazioni per le future trasformazioni, si è scelta l’area irrisolta dell’intersezione tra il percorso di ristrutturazione della Avenida Alfonso Henriques e Ria Cha, presso l’antico ingresso alla Muralha Primitiva. Sull’area, oltre agli interessanti studi di Giovanni Muzio del ’40, Marcello Piacentini del ’39 ed altri, esiste già un progetto di Fernando Tavora del 1955 e uno più recente di Alvaro Siza che hanno costituito un ottimo esempio di confronto. A questo scopo si sono fatte due ipotesi. La prima quella di considerare come percorso matrice della trasformazione l’antico percorso che arrivava da Santo Ildefonso. È una scelta di ripristino della organicità dell’insediamento storico. Si è quindi proceduto ad una “riprogettazione” dell’edilizia di base dalla quale dovrebbe in seguito derivare, per trasformazione e specializzazione, il progetto contemporaneo.
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Although the aim of the workshop was not, programmatically, to design, we wanted to help the students to experiment practically the urban analysis result. This because we are convinced testing the analysed process, could be an efficient didactical way able to transfer better the reading method. Furthermore, we need to demonstrate how contemporary design should be the innovative continuation of inherited morphological characters, critically transformed. In the city of Porto, these characters still link urban spaces and housing units in a choral collaboration expressed by shared facades. To understand how indications for future transformations could derive from the analysis, we chose as a case study the problematic area at the intersection between the restructuring path of Avenida Alfonso Henriques and Ria Cha, near the ancient entrance to Muralha Primitiva. Here, in addition to the interesting studies by Giovanni Muzio (1940), Marcello Piacentini (1939) and others the students could consult a project by Fernando Tavora (1955) and a more recent proposal by Alvaro Siza, excellent examples of comparison. For this purpose, two hypotheses have been made. The first one to consider the ancient route that came from Santo Ildefonso as the matrix route of transformation. It is a choice that tends to restore the organic nature of the historical settlement. We then proceeded to a “redesign” of the base building from which it should later derive, for transformation and specialization, the contemporary project. This hypothesis foresees, in the demolished or to demolish areas (as the Mercado de São Sebastião, utterly incongruous with the fabric), the orientation of the new lots orthogonally to the Rua Cha route. The routes of Avenida Alfonso Henriques of São Sebastião are considered as building path, and the new intervention would be directed towards the Muralha gateway. On the other hand, the second hypothesis accepts the fundamental role played by the restructuring of Avenida Alfonso Henriques and tends to give it a new urban sense, reading it as a matrix route and designing innovative orthogonal building route. Among these, the one corresponding to the gateway of the Muralha should be the one for which the greatest specialization is expected, trying to give new unity to an unresolved urban node. Another essential and new aspect was the possibility to test the design output from the urban space use point of view. Through the integration with Space Syntax method, we verify the value of the new path even concerning the urban background in hierarchy terms. In this way, we confirm the theoretical significance of them derived from the processual method. This new comparison demonstrated how the understanding of the urban transformation dynamics is an important design tool, underlining the inadequacy the aesthetic form using as the only way to design. I believe that this experience has shown, beyond any personal convictions, how the study of Urban Morphology can indicate a different path from the aesthetic drift that seems to involve a large part of contemporary architectural production. We wanted to show that the fundamental characters of a modern urban fabric can be summarized in the notion of “process”, a concept that is not only a tool for reading, but a matter itself of a new design.
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Questa ipotesi prevede, nelle aree demolite o da demolire (Mercado de São Sebastião, completamente incongruo rispetto al tessuto) l’orientamento dei nuovi lotti ortogonalmente al percorso di Rua Cha. I percorsi dell’Avenida Alfonso Henriques di São Sebastião vengono considerati come percorsi d’impianto e il nuovo intervento sarebbe rivolto verso la porta della Muralha. La seconda ipotesi accetta invece il ruolo fondamentale che svolge oggi il percorso di ristrutturazione dell’Avenida Alfonso Henriques e tende a dargli un nuovo senso urbano, leggendolo come percorso matrice e disegnando nuovi percorsi di impianto ad esso ortogonali. Tra questi, ovviamente, quello in corrispondenza della porta della Muralha dovrebbe essere quello per il quale si prevede la maggiore specializzazione, tentando di dare nuova organicità ad un nodo urbano irrisolto. Altro aspetto importante e sicuramente nuovo rispetto alla tradizione delle analisi urbane di stampo processuale è stato la possibilità di poter verificare a posteriori l’esito del processo dal punto di vista dell’utilizzo dello spazio urbano. Attraverso l’integrazione con il metodo Space Syntax si sono verificati i valori dei nuovi percorsi anche in relazione al contesto urbano in termini di gerarchia, convalidando il loro significato teorico frutto dell’applicazione del processo come metodo. Questo ulteriore confronto ha dimostrato come la comprensione delle dinamiche di trasformazione urbana costituisca un importante strumento di progetto, sottolineando l’inadeguatezza dell’utilizzo della forma, intesa come componente estetizzante nella composizione urbana, come unico parametro per la determinazione del progetto. Credo che questa esperienza abbia dimostrato, al di là delle convinzioni personali, come lo studio della Morfologia Urbana possa indicare una strada diversa dalla deriva estetizzante che sembra coinvolgere, gran parte della produzione contemporanea. Si è voluto dimostrare che i caratteri fondamentali di un organismo architettonico contemporaneo possono essere riassunti nella nozione di “processo”, nozione che non è solo strumento di lettura, ma, come indicato nell’ipotesi iniziale, materiale stesso di progetto. Riferimenti bibliografici
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urbanform and design I concetti di percorso di ristrutturazione,
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Dipartimento di Architettura e Progetto, Università degli Studi di Roma “Sapienza” E-mail: paolo.carlotti@uniroma1.it
Vitor Oliveira
CITTA, Centro de Investigação do Território Transportes e Ambiente, Universidade do Porto E-mail: vitorm@fe.up.pt
The concepts of breakthrough street, pertinence strip and fringe belt in the analysis of the urban fabric of Porto
All’interno del seminario “Emerging Perspectives on Urban Morphology”/ EPUM sull’insegnamento della disciplina della morfologia urbana che si è tenuto per due settimane a settembre 2018 presso l’Universidade do Porto, un gruppo di lavoro, organizzato in due sottogruppi, ha avuto l’opportunità di confrontare due metodi di lettura per la definizione delle Inner fringe belt di Porto. In particolare una parte di esso ha lavorato sul concetto di percorso di ristrutturazione e di fascia di pertinenza mentre un altro sul concetto inglese di fringe belt. Questo documento si concentra sul lavoro coordinato dagli autori di questo testo, elaborato dai seguenti studenti di Porto e di Roma: Ana Claudia Monteiro, Cinzia Paciolla, Maria Gracia Guerreros e Silvia Spolaor. Il lavoro comune di ricerca ha offerto l’opportunità di confrontare due metodi di lettura: uno derivato dalla tradizione italiana basata sul concetto di percorso di ristrutturazione e fascia di pertinenza (Caniggia, 1979; Strappa, Carlotti, 2016); l’altro sul concetto inglese di fringe belt che offre un insieme di riferimenti per comprendere il processo di trasformazione urbana e la successiva definizione di aree residenziali e spazi istituzionali aperti (Conzen, 1960; Whitehand, 1972). Un elaborato cartografico predisposto precedentemente alla fase di sintesi del lavoro di ricerca del gruppo, è stato preparato rispettivamente a Roma e a Porto. La distinta indagine preliminare ha fornito la cartografia di base per il confronto e la messa a punto dell’analisi sul tessuto della città, che è stato successivamente completato e precisato nel lavoro conclusivo. A Roma, presso il laboratorio Diap_LPA (Lettura e Progetto dell’Architettura) è stata studiata la morfologia del tessuto storico di Porto, partendo dall’esame delle unità particellari, esaminata ciascuna contestualmente al tessuto edilizio (Figg. 10, a-d). Forme ed elementi di base inscindibilmente legati al concetto di annodamento e percorso, indispensabili per la comprensione della progressiva mutazione geometrica di ogni unità e della metamorfosi del tessuto edilizio nel suo insieme. Le parcelle catastali e le fasce di pertinenza dei lotti e degli isolati sono stati, di volta in volta, considerati espressioni significanti che, in continuità e per sostituzione hanno permesso di ricostruire le varie fasi del processo di trasformazione dell’aggregato urbano. L’esame del tessuto di Porto è solo uno degli ultimi lavori di ricerca eseguiti dal laboratorio LPA (Lettura e Progetto dell’Architettura) nel corso di molti anni, su differenti campioni di tessuto edilizio, relativi a tessuti storici e contemporanei, dislocati in ambiti culturali anche molto diversi tra loro. Tale studio giunge dopo sperimentazioni e verifiche successive attraverso cui si è potuto constatare il carattere generalmente non casuale delle forme riconoscibili nel disegno urbano, che hanno confermato quanto la forma delle unità sia elementari che complesse, osservabili nel tessuto edilizio, possa rivelarsi utile ai fini della progettazione e della rigenerazione urbana (Carlotti, 2012; Carlotti, 2017). Forma significante, come anche quella dell’isolato, che prova o nega l’appartenenza di ogni singola unità ad un sistema di riferimento geometrico (Caniggia, 1976) più generale, ad un insieme di allineamenti che si possono ritenere matrice, a partire da cui è possibile riconoscere i successivi adattamenti formali legati sempre ad un’altra “naturalità” dello spazio insediato.
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Keywords: Fringe belt, urban regeneration, Urban Morphology, band of pertinnce Abstract Within the seminar ‘Emerging Perspectives on Urban Morphology’/EPUM workshop on the teaching of the discipline of Urban Morphology, that took place throughout two weeks in September 2018 at the Universidade do Porto. The study of the urban fabric of the historical center of Porto was developed within the research team, based on a number of sources including aerial photogrammetric map. On this occasion, the focus was on topological variance of each plot, each individual minimum land unit, on its regularity or irregularity, collinearity or non-collinearity with respect to the route, on its meaning and formal articulation in the streetblock. This made possible to attribute a value to each individual unit and to identify the geometric rules that gradually shaped the urban aggregate to its current physical appearence. The comparison between two different approaches allowed to define the areas that had a level of homogeneity in terms of shape, characterized by different forms and building types. The result has been a map which, although derived from these two different analytical approaches, achieves, by commonly defined considerations, shareable and similar results.
fascia di pertinenza e fringe belt nell’analisi del tessuto urbano di Porto
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Within the ‘Emerging Perspectives on Urban Morphology’ / EPUM workshop on the teaching of the discipline of Urban Morphology, that took place throughout two weeks in September 2018 at the Universidade do Porto. A working research group, organized into two subgroups, had the opportunity to compare two reading methods for the definition of the inner fringe belts of Porto. This paper focuses on the work of one of these groups, coordinated by the authors of this paper, and including students from Porto and Rome – Ana Claudia Monteiro, Cinzia Paciolla, Maria Gracia Guerreros and Silvia Spolaor. The work of this group offered the opportunity to compare two reading methods: one from the Italian tradition founded on the concept of percorso di ristrutturazione and fascia di pertinenza (Caniggia, 1979; Strappa, Carlotti, 2016); the other based on the English concept of fringe
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Note storiche sull’edificato di Porto
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Fig. 1 - Pianta dell’area tra il fiume Douro e Rua das Flores 1846. Camara Municipal do Porto, Junta das Obras Publicas 1763-1834 Arquivo Historico Livros de plantas. Plan of the area between the river Douro and Rua das Flores, 1846. Camara Municipal do Porto, Junta das Obras Publicas 1763-1834 Arquivo Historico Livros de plantas.
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Gli storici della città raccontano Porto come un luogo caratterizzato da una morfologia piuttosto accidentata, insediato fin dalla preistoria sul rilievo e in età classica a valle della collina lungo le sponde del Rio Duero. Primo nucleo insediativo organizzato secondo linee fondiarie ortogonali, tanto sulla collina quanto nella parte bassa dell’insediamento, costituito forse da pochi elementi edilizi raggiungibili dal fiume attraverso un percorso appena tracciato, disteso sul pendio più facile tra le diverse quote. Un abitato che potremmo definire poco più che proto-urbano, impostato con ogni probabilità su tracciati naturali nati come percorsi di connessione tra i distinti insediamenti collocati oltre l’abitato, su un paesaggio ancora in gran parte non antropizzato. Dopo il primo nucleo, lo sviluppo urbano sembra essersi esteso lungo i percorsi matrice, a cui si aggiungono a partire dal XIII secolo nuovi tessuti che si aggregano attorno ad alcuni complessi religiosi, i quali innescheranno anche la progressiva densificazione edilizia nel tessuto urbano già esistente. Complessi, originariamente molto semplici, che hanno determinato nuove nodalità e nuovi percorsi (percorsi di ristrutturazione) nel tessuto urbano che, aggiunti e sovrapposti ai precedenti, hanno ridefinito l’ordine e le priorità nel sistema insediativo della città. Strutturazioni antropiche di un sistema nidificato (Moudon, 2019) che hanno prodotto nel tempo un paesaggio sempre meno relazionato alla morfologia naturale del luogo e connesso altre centralità al nucleo originario. Fasi più moderne e databili intorno al XIV-XV secolo hanno successivamente occupato ogni spazio interno al perimetro murario, dalla marina fino all’attuale Praça Almeida Garrett. Frammenti di un processo fatto di addizioni e intasamenti edilizi progressivi, che hanno alterato gradualmente la forma dell’ag-
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belt, which offers a framework for understanding the process of urban growth of a city and the successive definition of residential areas and open/ institutional areas (Conzen, 1960; Whitehand, 1972). A cartographic elaboration carried out before the workshop, and respectively in Rome and Porto, provided the map for the comparison and finetuning of the analysis of the fabric of Porto, which was subsequently refined and specified during the work did in Porto. In Rome, at the Diap_LPA laboratory (Reading and Architecture Project) the research group studied the geometry of the cadastral forms of the historical center of the city of Porto, starting from that of the land units, individually and contextually examined within the building fabric, inseparably linked to the concept of knotting and path. Above all, they are considered basic and fundamentally indispensable elements for understanding the progressive mutation of individual forms and the transformation of the whole building fabric (Fig. 11, a-d). The cadastral plots and the areas pertaining to the plots and street-blocks have been, from time to time, considered significant expressions, which, in continuity and by replacement, have allowed us to reconstruct the transformation process of the current urban aggregate. The examination of the Porto fabric is just one of the last analysis work carried out, over many years by the LPA laboratory (Reading and Architecture Project), on different examples of building fabric,
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Fig. 2 - Nuovo allineamento per il Largo de São Domingos 1845_09. New alignment for Largo de São Domingos 1845_09.
Fig. 3 - Progetto della Rua Biquinha parallela alla rua das Flores per collegare largo da Feira con la Rua de S. Joao. Drawing of the Rua Biquinha to connect largo da Feira with Rua de S.Joao (XIX sec.).
gregato, che oggi, solo occasionalmente, rivela (si noti la cartografia attuale) una matrice formale legata a geometrie differenti. L’espansione della città è poi ulteriormente continuata con l’ampliamento delle fabbriche conventuali, nuove o rinnovate nodalità nell’organismo urbano, e la modifica dei percorsi riformati in ragione delle connessioni esistenti. Metamorfosi più recenti, che hanno visto il formarsi di nuove e più grandi irregolari forme fondiarie, spesso esito di rifusioni e adattamenti di unità catastali più piccole, già precedentemente modificate che hanno svelato l’ulteriore precedente strato delle trasformazioni urbane disegnato per l’organismo urbano.
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relating to cities – historical fabrics and contemporary; located in various parts of the world and characterized by very different environmental conditions. Indeed, the analysis of Porto comes after a number of experiments and checks, through which it has been possible to ascertain the general non-random character of the forms recognizable in the urban layout, and which have rather supported how much the shape of the elementary and complex units, observable in the building fabric, can prove useful for the purposes of urban design and regeneration (Carlotti, 2012; Carlotti, 2017). Significant form, as well as that of the street-block unit, which proves or denies the belonging of each single land parcel at a geometric reference system, an alignments system, a matrix from which it is possible to recognize subsequent formal adaptations linked to the new “naturalness” of the place.
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Fig. 4 - Nuovo allineamento ad Alameda da Cordoaria per ampliare la Porta do Olival (1799/10/09). New aalignement in Alameda da Cordoaria to enlarge Porta do Olival (1799/10/09).
Fig. 5 - Allineamento che dovrebbe prendere Rua da Banharia 1840. Camara Municipal do Porto, Junta das Obras Publicas 1763-1834 Arquivo Historico Livros de plantas. Alignment that should take Rua from Banharia 1840. Camara Municipal do Porto, Junta das Obras Publicas 1763-1834 Arquivo Historico Livros de plantas.
Historical notes on buildings of Porto Historians have written on Porto as a place characterized by a particularly hill, inhabited since prehistory and built in the classical age. Along the banks of the Rio Douro and on a plateau overlooking the river. It is perhaps originally organized according to an orthogonal land geometry. The top hill, it is the site of one of the primitive settlements, consisting of a few elements, reachable from the river through a natural and sloped path according to the elevation curve so as to follow the easiest way between the different altimetry. A settlement that
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Interpretazione del disegno catastale Applicando il metodo regressivo alla lettura della morfologia del tessuto catastale del centro storico di Porto e all’analisi delle forme particellari più recenti e più facilmente identificabili nel loro significato epistemologico, è stato possibile interpretare e riconoscere le sovrapposizioni più antiche e il sostrato edilizio matrice. Documenti cartografici, conservati alla Camara Municipal do Porto, Junta das Obras Publicas 1763-1834 Arquivo Historico Livros de planta e relativi a trasformazioni edilizie e urbane eseguite tra la fine del ’700 e i primi decenni del ’900 hanno confermato quanto ipotizzato con l’analisi morfologica. A titolo di esempio è utile riportare il comportamento irregolare e continuo osservato sulle fasce di pertinenza del percorso Rua Mouzinho da Silveira, che manifesta chiaramente il suo carattere di “percorso di ristrutturazione”. Il taglio urbano, eseguito nella seconda metà del XIX secolo, seguito alla ristrut| Paolo Carlotti_Vitor Oliveira | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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Fig. 7 - Hospital- Albergaria de Rocamador (situazione al 1449), precedente la realizzazione della Rua Das Flores. https://www. portopatrimoniomundial.com Hospital- Albergaria de Rocamador (XV secolo), previous the construction of the Rua Das Flores. https://www.portopatrimoniomundial.com
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Fig. 6 - Particolare del tessuto urbano di Oporto. Analisi morfologica. Fasce di prertinenza dei percorsi di ristruttuazione (Rua des Flores) e del percorso matrice della Rua de Souto. (a) Localizzazione dell Hospital de Rocamador (ad 1449). Detail of the historical urban fabric of Porto. Morphological analysis. Bands of pertinence breakthrough street (Rua des Flores) and matrix route: Rua de Souto. (a) Location of the Hospital de Rocamador (ad 1449).
Fig. 8 - Porto. Hospital de D. Lopo (AD 1740). https://www.portopatrimoniomundial.com Porto. Hospital de D. Lopo (AD 1740). https:// www.portopatrimoniomundial.com could be defined as proto-urban, and must have had natural paths used to reach external centralities and which had to extend up to a landscape still largely un-humanized. After the early settlement, urban development followed and to which, starting from the 13th century, added new buildings around religious complexs and the progressive infilling and specialization of the older Urban Fabric. By determining new nodalities in the urban fabric and expanding the network of connections which, added and superimposed on the previous ones, have redefined the hierarchical order of the reticular system in the fabrics, as well as the priority connections between the different urban nodalities. Anthropic structures that like a nested system (Moudon, 2019) have produced over time a landscape less and less directly linked to the natural morphology of the place. More modern and datable phases dating back to the 14th - 15th century subsequently occupied every space inside the perimeter of the walls, from Ribeira to Praça Almeida Garrett. Today, fragments of a urban growth and progressive additions and building infilling, which have densified the aggregate and which only occasionally show themselves (in the current cartography) linked to a project with precise geometries. Urban growth, then continued often by first expanding buildings that played the nodal role in the urban organism and that subsequently, due to induced needs, reformed the connective urban fabric. The most recent history shows the overlapping of other larger
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turazione del quartiere Vitòria, ha stabilito quelle nuove gerarchie e nuove centralità (piazze e larghi) in questa porzione centrale di tessuto urbano, accennate nel paragrafo precedente (Fig. 3). Sovrapposizioni e sostituzioni di brani di tessuto edilizio, ben riconoscibili anche attraverso nuovi tipi edilizi presenti negli isolati e ottenuti per rifusione di tipi a schiera o pseudoschiera, hanno riutilizzato residui tratti di muratura che appartenevano a orientamenti e antichi tracciati e a strutture più semplici o più complesse preesistenti nel tessuto. Percorsi oggi scomparsi o solo parzialmente identificabili all’interno dei singoli isolati urbani. Come la strada Rua Mouzinho da Silveira, ad esempio, che si presenta come un percorso di ristrutturazione sovrapposto ad un aggregato più spontaneo di cui ha conservato solo poche tracce. Un comportamento che si può ritrovare ancora in molte altre parti della città storica quale esito di azioni “modernizzatrici” più recenti che hanno lasciato talvolta anche dei vuoti nel tessuto (Fig. 3). Anche il complesso di Sao Bento, iniziato alla fine del 1550 e completato all’inizio del 1700, per opera dei monaci benedettini, risponde alla medesima logica di sostituzione. Esso si sovrappone sul luogo del ghetto di Olival – che oramai possiamo solo in parte immaginare –, che era organizzato sul rilievo dolce del rione della Vitoria con geometrie più o meno parallele alla Rua Sao Miguel, ma forse anche disposto, nella parte vicino le antiche mura, parallelamente al percorso Rua Taipas sulla fascia di pertinenza meridionale dello stesso isolato. Si tratta delle impronte più forti e perfettamente riconoscibili che sono state evidenziate con una campitura in nero che ne esplicitano il carattere (Figg. 10, a-d) eliminate le quali appare un tessuto edilizio costituito da tipi più elementari, aggregati su un tessuto fondiario più antico e organizzato con un taglio particellare più contenuto. Sebbene questo infatti in parte presenti fasce di Paolo Carlotti_Vitor Oliveira | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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pertinenza tipiche dei percorsi matrice (parcelle ortogonali al percorso), nella maggioranza dei casi rivela il carattere del percorso di ristrutturazione. Se infine dal disegno catastale contemporaneo si sottrae anche l’ultima relativamente più antica addizione edilizia, quella dei percorsi matrice, emerge in modo evidente nel disegno urbano quanto è possibile ritenere pertinente al più antico sostrato medievale. Percorsi riconoscibili nel loro carattere matrice sono infatti quelli delle vie Rua de Belmonte e Rua da Bainharia (Fig.5), che ancora conservano tratti di muratura ortogonali nelle rispettive fasce di pertinenza, e altri invece che possono ritenersi addizioni e sostituzioni parziali che appartengono ad una fase appena successiva, caratterizzata da ristrutturazioni episodiche e parziali e/o intasamenti di aree di pertinenza su più antichi percorsi, probabilmente oggi rintracciabili solamente all’interno di aree di pertinenza e nei cortili. Un esempio particolarmente pertinente è quello dell’Hospital-Albergaria de Rocamador non più riconoscibile come percorso ma intuibile se si presta particolare attenzione alle forme e agli allineamenti all’interno dell’isolato urbano tra Rue das Flores, Rua Caldeireiros, Rua Vitoria e Rua Ferraz. L’edificio era, come dimostra il documento dell’Arquivo Historico do Porto, situato all’angolo di due strade, una delle quali (Rua Souto) (Fig. 7) parzialmente cancellata dopo la realizzazione della Rua das Flores, lungo la quale sono state anche aggiunte delle nuove unità immobiliari accostate al tessuto più antico, che hanno avuto l’effetto di ridurre il vecchio edificio in posizione più arretrata. Situazione simile a quella del vicino blocco urbano, tra Rua das Flores, Rua Trindade Coelho, Largo Loios e Rua Caldeireiros, che per l’intervento realizzato in parte nel 1700 e in parte nella zona posteriore, ha avuto ridisegnati i margini e i percorsi con nuove piazze e nuovi edifici.
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and irregular forms, particularly evident and often the result of the larger cadastral units already formally modified, showing once again evidence of the urban transformations that have reshaped the city over time.
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Fig. 9 - Due soluzioni per l’urbanizzazione dell’area Morro da Corpo da Guarda, per il collegamento tra il Ponte Luís I e il centro città, di Marcello Piacentini, 1939 (Arquivo do Porto). Two solution for the urbanization of the Morro da Corpo da Guarda area, for the connection between the Ponte Luís I and the city center, by Marcello Piacentini, 1939 (Arquivo do Porto).
Interpretation of the cadastral design By applying the regressive method to the morphological reading of the cadastral tissue of the historical center of Porto, it was possible to isolate the additive and clearly superimposed forms on each older matrix substrate. Cartographic documents, preserved in the Arquivo Municipal de Porto, related to building and urban transformations carried out between the late-eighteenth century and early-twentieth century have been useful confirmations to the hypotheses formulated in the morphological analysis of the building fabric. For instance, the irregular and continuous ‘behavior’ in the areas belonging to the Mouzinho da Silveira route which clearly shows its breakthrough character. This urban cut, carried out in the second half of the 19th century in the Vitória parish, established new hierarchies and new centralities (squares and largos) in this central part of the historical fabric of the city. Overlaps and substitutions of pieces of building fabric are well recognizable through the new building types present in the urban blocks that using the recasting row house and other basic types, that using residual sections of masonry have maintained
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Lo studio della fringe belt unitamente all’analisi del disegno particellare e catastale ha permesso di distinguere le differenti forme particellari e le varianti tipologiche. Lo studio congiunto tra l’analisi della forma urbana e l’analisi delle fringe belt è stato sintetizzato in una mappa, riportata in fondo al testo (Fig. 11), che, sebbene impostata su due differenti approcci analitici, raggiunge nelle considerazioni comunemente definite risultati condivisibili e affini. Sono state infatti identificate differenti inner fringe belt cresciute in maniera concentrica e innescate da puntuali e progressive specializzazioni di alcuni edifici e tessuti edilizi. Molto evidente è il rapporto tra il tessuto edilizio e le fasce di pertinenza lungo i percorsi matrice, specialmente quelli in prossimità degli edifici conventuali, che limitatamente alla fase di sviluppo precipua dell’area considerata nell’insediamento, hanno svolto una funzione accentrante e innescato le successive trasformazioni. L’ortogonalità o la non ortogonalità di alcuni elementi murari (maschi murari o tratti principali leggibili nel disegno catastale) evidenti in alcune fasce di pertinenza e la forma delle particelle catastali, (regolare e collineari o irregolare e non collineari) evidenti nella cartografia aerofotogrammetrica attuale, sono stati particolarmente utili per ricostruire la sequenza delle trasformazioni tra l’antica Rua Souto e la Rua de Ponte de Sao Domingos. Per le quali si è potuto inoltre verificare, attraverso alcuni documenti storici, come fino al 1449 non esistesse altro percorso se non quel tracciato spontaneo disposto al lato del corso del corso d’acqua che attraversava le due vie. Elemento naturale che ha avuto per il disegno particellare il ruolo del percorso matrice. L’antica Rua Souto appena all’interno dell’antico perimetro murario dell’aggregato acrocorico collegava una prima porta chiamata Postigo do Vimial ou Porta de Santo Eloi e successivamente con la Rua dos Caldeireiros la più nuova Porta do Olival. Rua dos Caldeireiros è un percorso, ancora oggi caratterizzato da lotti quasi per la totalità di forma trapezoidale, che presentano caratteristiche tipologiche differenti da quelle semi scomparse che invece continuavano lungo l’antico percorso della Rua Souto, menzionata nel documento riportato in Figg. 6-8. Situazioni sovrapposte che sono state giustamente attribuite a distinte fasi di sviluppo e dunque a fringe belt differenti. Una nuova cintura più esterna, dovuta all’allargamento dell’area urbana, documenta nuove specializzazioni dei tipi e dei tessuti edilizi e ancora altre trasformazioni interne che hanno seguito la medesima logica. Ciò che è apparso subito evidente nel confronto tra l’approccio morfologico di scuola italiana e quello di scuola portoghese è il fatto che ambedue hanno sottolineato come l’area appena alle spalle del primo nucleo insediato e nel punto di connessione con un percorso territoriale, che potremmo definire di crinale, è ancora oggi un percorso centrale destinato a svolgere una funzione particolarmente accentrante. La connessione tra Praça da Liberdade, la stazione ferroviaria, il ponte Luis e l’attraversamento del fiume (centro di gravità tanto del nucleo storico quanto dell’area metropolitana) è ancora oggi un nodo importante per la città (Figg. 9-10) e oggetto di interesse progettuale. L’area, sotto la spinta di una trasformazione, che vuole connesse queste importanti nodalità del tessuto urbano, dovrebbe necessariamente riuscire a fare sintesi in una proposta progettuale, tra la memoria storico morfologica e le istanze di modernità, cogliendo nelle regole che hanno prodotto la conformazione attuale del tessuto, quelle indicazioni che, opportunamente riconsiderate, possano offrire gli elementi utili ad un progetto architettonico che abbia qualità rigenerative efficaci per questa importante centralità, oggi valida anche per l’intera area metropolitana.
the orientation of the ancient paths, or other existing structures in the fabric. It also includes routes that have now disappeared or are only partially identifiable within urban blocks. The Rua Mouzinho da Silveira looks like a breakthrough street superimposed on a more spontaneous aggregate and of which it has eliminated most of the traces. A behavior that can also be observed in other parts of the historical city as a result of more recent “modernizing” actions that left several voids in the fabric. Also the São Bento complex, which began to be build in the end of 1550 and completed in the beginning of the 1700s, by the Benedictine monks, responds to the same logic of replacement. It overlaps the place of the Olival ghetto - which we can now only partially imagine -, which was organized on the gentle relief of the Vitoria parish with geometries more or less parallel to the Rua de São Miguel, or perhaps arranged, in the part near the ancient walls, parallel to the Rua das Taipas in the southern strip of the same block. These are the strongest and perfectly recognizable footprints and which have been highlighted with a black background that made the overlap explicit (Figg. 9,a_d). Deleting these overlaps, therefore, a building fabric appeared, composed of smaller types aggregated on an older fabric and organized with a more contained particle cut. Although this fact in part has pertinence strips typical of the matrix paths, it mostly reveals its character as a breakthrough street in the building fabric. If this relatively older building addition is also subtracted from the contemporary cadastral map, it is evident that is possible to consider as permanence the oldest medieval substratum. Paths that are recognizable in their matrix behaviour, in fact, as Belmonte and Bainharia streets, which still maintain sections of masonry orthogonal to the sides of their respective pertinence strips, and others that can be considered partial additions and replacements, belonging to a subsequent phase characterized from episodic and partial renovations and/ or infilled of more ancient paths, probably today traceable only within building fabric and courtyards. A relevant example is the Hospital-Albergaria de Rocamador, which is no longer located along the route, but located internally within the urban block between Rue das Flores, Rua dos Caldeireiros, Rua da Vitória and Rua Ferraz. The building was, as evidenced by the document preserved in the Arquivo Municipal do Porto, located on the corner of two streets. One of these (Rua do Souto) (Fig. 7), due to the construction of Rua das Flores, had new building units juxtaposed to the ancient fabric, that moved the old building to a more backward position, eliminating this stretch of the street. A situation similar to that of a nearer urban block, between Rua das Flores, Rua Trindade Coelho, Largo Louis and Rua dos Caldeireiros, that for the intervention partly carried out in the 1700s and partly at the rear, which has seen redesigned the margins and paths for new squares and new building.
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Fringe belt e processo di trasformazione
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Fringe belts and urban growth The study of the inner fringe belt of Porto with the analysis of the plot and cadastral map has highlighted the areas made up of different urban forms and building types. The joint effort between the two analysis is summarized in a map (Fig. 10), reported at the bottom of the text, which, although set on two different analytical approaches, achieves in the commonly defined considerations shared and similar results. In fact, different inner fringe belts that have grown in a concentric manner and triggered by punctual
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Fig. 10 - Analisi morfologica del tessuto edilizio (colonna di sinistra – B/W) dall’alto a, b, c. d sono messi in evidenza i percorsi matrice leggibili nel tessuto catastale attuale e per alcuni tratti quello del 1800. Si può notare la prima fase di espansione urbana legata ad un tessuto elementare ai lati di percorsi che uscivano dal nucleo primitivo dell’abitato. Una seconda fase è quella rappresentata con la messa in evidenza dei primi edifici conventuali che si sono allocati su una fascia (fringe belt) esterna al primo nucleo. Le ultime due fasi, di evidente ristrutturazione si sovrappongono ad un tessuto edilizio e ad un disegno fondiario che aveva lo scopo di collegare quelli che oramai, in quella fase, sono le nuove nodalità urbane. L’ultima immagine si riferisce allo stato attuale dove le sostituzioni e l’apertura di nuovi assi stradali hanno prodotto un sistema circolare di percorrenze che ha cancellato una importante porzione del tessuto antico e che ha di fatto proposto un nuovo disegno della città. Morphological analysis of the building fabric (left column - B / W) from above 1, 2, 3, 4: the matrix paths readable in the current cadastral fabric are highlighted and for some sections of the 1800s. It is possible can see the first phase of urban expansion linked to an elementary fabric on the matrix path that came out of the primitive nucleus of the town. A second phase is that represented with the highlighting of the first conventual buildings which are located on a band (fringe belt) external to the first nucleus. The last two phases, of evident restructuring, overlap with a building fabric and a land design that had the purpose of connecting what are now, in that phase, the new urban nodality. The last image refers to the current state where the replacements and the opening of new road axes have produced a circular flux system that has deleted an important portion of the ancient fabric and that has in fact proposed a new city design.
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and progressive specializations of some buildings and building fabrics have been identified. The relationship between the building fabric and the areas along the matrix paths is very evident, especially those near the conventual buildings, which, limited to the main development phase of the area considered in the settlement, have performed a centralizing and triggered function. The orthogonality or non-orthogonality of some masonry elements (main wall or main features legible in the cadastral drawing) evident in some pertinence strips, together with the shape of the cadastral parts (regular and collinear or irregular and non-collinear) evident in the aerial photogrammetric cartography, they have been particularly useful to focus on the sequence of transformations from ancient Rua do Souto e la Rua da Ponte de Sao Domingos. For which it has also been possible to verify, through some historical documents, that until 1449 there was no other path than a spontaneous path placed alongside the waterway that crossed the two streets. Natural element that played the role as matrix path plays for the cadastral units. The ancient Rua do Souto just within the ancient wall perimeter of the acrocorical aggregate connected a first door called Postigo do Vimial ou Porta de Santo Eloi and subsequently with Rua dos Caldeireiros the newest door do Olival. It is a route, still characterized today by plots almost entirely of trapezoidal shape, which have different typological characteristics from those semi-disappeared,
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Fig. 11 - Fringe belt del nucleo storico della città di Porto. La perimetrazione delle differenti Fringe belt identificata per il nucleo centrale della città di porto ricalca per gran parte quanto identificato dell’analisi morfologica. Fringe belt of the historic core of the city of Porto. The perimeter of the different Fringe belts identified in the central core of the city of Porto follows most of what was identified in the morphological analysis.
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Riferimenti bibliografici
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which, instead continued along the ancient route of the Rua Souto mentioned in the document shown in (Figg. 6-8). Overlapping situations that have rightly been attributed to distinct development phases. The expansion of the urban area, and new specializations of building types and fabrics and still other internal transformations have followed the same logic. Which is particularly evident, in the comparison between the Italian school approach and the English school, is the fact that the area just behind the first settlement and the connection point with a territorial path that could be defined as a ridge, is today a particularly central and knotting route. The connection between Praça da Liberdade, the railway station, the Luis I bridge and the crossing of the river (it is an important center of gravity of both the historic core as the city and the metropolitan area) it is today again an important node for the town and theme of architectural and urban design (Figg. 9-10). The area under the impulse of a transformation that wants to relate these important nodalities of the urban fabric, it has to guarantee a synthetic architectural solution between memory and requests for modernity, gathering from the rules that produced the current conformation of the fabric, those indications that, opportunely reconsidering could be useful elements to an architectural project with the regenerative qualities for this renewed centrality, with breakthrough street, now knot extended to all metropolitan areas.
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urbanform and design Renato Rizzi. Pensare architettura e la forma
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delle cose
Lo stupore del pensiero
Matteo Ieva
DICAR Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura, Politecnico di Bari E-mail: matteo.ieva@poliba.it
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Renato Rizzi. Thinking architecture and the shape of things The wonder of thought
The models of the “The Cathedral of Solomon” project that Renato Rizzi developed for Lampedusa were presented within an exhibition inaugurated the last 23th of May at the Department of Civil Engineering Sciences and Architecture (ICAR) of the Polytechnic University of Bari. The initiative, promoted by the writer, Loredana Ficarelli and Nicola Scardigno, provided an opportunity to discuss Renato Rizzi’s main nuances of the complex structure of thought and his work as an operating architect. Below are presented the considerations made by the writer in the opening discussion, proposed here in a discursive form, which summarize Rizzi’s main research themes, partly outlined in
Il 23 maggio 2019, presso il dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura (dICAR) del Politecnico di Bari, è stata inaugurata la mostra dei modelli didattici del progetto “La Cattedrale di Solomon” che Renato Rizzi ha elaborato per Lampedusa. L’iniziativa, promossa da Loredana Ficarelli, Nicola Scardigno e me, ha costituito l’occasione per trattare le principali sfumature della complessa struttura di pensiero e della sua opera di architetto operante. Si richiamano di seguito le considerazioni esposte dallo scrivente nella discussione di apertura, qui proposte in forma discorsiva, che riassumono i principali temi di ricerca di Rizzi, in parte delineati nella sua lectio magistralis al convegno ISUFitaly 2018 di Bari. In premessa all’esposizione credo sia conveniente ricordare che Renato Rizzi è figura assai rara di studioso carismatico e punto di riferimento importante per molti ricercatori che si occupano di teoria dell’architettura basata sul difficile sfondo che guarda con interesse ai principi – ad essa correlati – di natura filosofico-letteraria. Le sue speculazioni danno vita a una rigatura, una incisione profonda che mette stabilmente in crisi il proprio giudizio su ciò che si pensa essere già una verità raggiunta. Per questo, non è facile attraversare o confrontarsi con le sue tesi, richiede senza dubbio un accostarsi con cautela, un “gittarsi in mar...(omissis: lo vide) a capo chino”, come scrive Ariosto, perché i pensieri proposti puntano sempre molto in alto, viaggiano per così dire in un mondo di idee problematiche e sono prerogativa solo di una determinata specie “elitaria” di studiosi a cui è demandato il difficile compito di interpretarli e, dunque, di giudicarli. Si veda la cospicua produzione di scritti proposti da numerosi critici e studiosi, e tra questi la stimolante trattazione critica di Francesco Moschini “Introduzione a Renato Rizzi: la solitaria profondità dello sguardo”, in Gallipoli. Laboratorio di Progettazione, Gangemi Editore, 2016. In questa sede ci si propone di riprendere solo qualche rivolo del suo pensiero, richiamato attraverso i concetti generali dell’architettura nel suo essere fine e strumento della nostra esistenza (anche professionale), oltretutto consapevoli che il tentativo di incedere su un terreno di ricerca molto difficile, quale quello praticato da Rizzi – inverato in una complessa sintesi tra filosofia e architettura – costruito su un orizzonte fortemente problematico, quanto straordinario nella sua razionalità e precisione, è una condizione senza dubbio arrischiante. A tal fine, saranno proposte alcune brevi considerazioni che proveranno a rilanciare – talvolta in forma di domanda – alcuni assunti del suo pensiero che sono oggi di grande attualità, e non solo nel mondo dell’architettura. La trattazione sarà intenzionalmente confinata in un campo ristretto di giudizio su qualcosa che è presente in un piccolo interstizio del suo vasto cogito critico. E, per questo, saranno analizzati alcuni aspetti particolari delle sue dissertazioni, specialmente quelli costruiti inseguendo un punto di vista – talvolta, solo apparentemente dissimulato nei discorsi – che ricerca il confine tra due polarità concettualizzate, percorrendo una struttura logica che mette in correlazione diadi di termini opposti e/o complementari. La ricerca delle antitesi – cui ricorre spesso – gli permette di spiegare con sottile precisione qualcosa che è nelle sue più profonde espressioni, la sua (più o meno evidente) antinomia, l’unificazione delle parti.
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| Matteo Ieva | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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Abstract This brief contribution outlines the figure of Renato Rizzi, thinker and operating architect. By exposing some fundamental aspects, emerged with the lectio magistralis proposed at the opening of the ISUFitaly conference held in Bari in September 2018 and on the occasion of the exhibition on the models of his educational project for the Solomon Cathedral in Lampedusa, the fundamental stages of his theory are followed, which appears strongly linked to a critical speculation based on the complex plots of philosophical thought. From the doctrine of Emanuele Severino, one of the greatest thinkers of our time – recently died – he borrows some concepts that can also be considered proper to the world of architecture. On such a speculative horizon it lays the foundations for a renewed interpretation of the constitutive elements at the origin of the term “arch-itecture”, sensing the substantial difference in meaning between the first principles, defined by him as “indominable” (arché), and the use of the technique which he considers to belong to the sphere of the “dominable” (téchne), underlining today’s criticality due to the paradigm that made them ends rather than means. Through a series of questions posed in rhetorical form, some themes of the Roveretan’s thinker of are re-launched in order to fuel the debate on the topic.
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Keywords: singularity, dominable, indominable, first principles, technique
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Rizzi si dichiara contrario alla cultura contemporanea, lega in unità critica l’architettura, la cultura, l’io (individualità) e sottolinea che l’architetto oggi non fa critica, è anonimo. Però l’anonimia – dice – è una specie di maschera che produce una forma di violenza. Richiama infatti la situazione odierna rispecchiata nelle periferie, emblematica di questi fenomeni. Parla di dualismo e spiega perché la cultura contemporanea divide tutto, mentre il suo interesse insegue una visione che prova a legare criticamente in unità ciò che può essere relazionato. Nega l’autoreferenzialità perché ogni individuo deve vivere nel mondo – osserva – attraverso la singolarità, che permette a ciascuno di mettersi in relazione con la propria universalità. Non c’è dubbio che in Rizzi vi sia una particolare sensibilità e uno stringente interesse a trattare i problemi attraverso la ricerca dell’essere. Prova ne sia l’approfondimento degli aspetti ontologici a cui riferisce di frequente le sue principali esposizioni critiche. L’architettura, ricorda, è disciplina anzitutto umanistica. Ed in questa risiede anche quello sfondo metafisico che gli permette di andare alla ricerca dei principi primi, degli aspetti teorici e dei valori assoluti della realtà, anche prescindendo dai dati dell’esperienza diretta o della conoscenza sensibile. Da questo punto di vista, di certo egli condivide la clamorosa espressione di J. Derrida, richiamata da R. Masiero, che dice: “l’architettura è l’ultima fortezza della metafisica”. Vaticinio che, tuttavia, preoccupa ogni pensatore se si riflette su ciò che l’architettura rappresenta oggi. Rizzi ricorre al termine estetico, inteso come l’oggettivo apparire di tutte le cose, che non dipende dall’uomo appartenendo alla sfera degli indominabili. A tal fine sottolinea che il sapere originario deriva dall’apparire; apparire di ciò che è visibile e di ciò che è invisibile, dunque indominabile. Compare in queste affermazioni, in forma affatto latente, l’opera critica di Emanuele Severino. Per chiarire meglio questo concetto, propone una specie di corrispondenza fatta di tre proposizioni interagenti: tutto appare/tutto è in relazione/l’estetico è estraneo ai personali giudizi di valore. L’estetico è la relazione, e nel mondo tutto è relazione. L’estetico non va alla ricerca dell’aletheia, non si preoccupa della verità (questa intesa con l’accezione presocratica), si preoccupa della potenza delle cose. Di fronte alla domanda di cosa sia oggi quella forma di potenza che esprime un dominio incontrastato sulla volontà dell’uomo, Rizzi risponde con la definizione di architettura. Precisa che, dal punto di vista semantico il termine poggia su due cardini tra loro ineluttabilmente interrelati: l’arché e la téchne, i cosiddetti principi primi a guida della tecnica. Se proviamo a proiettare questo concetto nella contemporaneità – dice – frana tutto, perché oggi parliamo solo di “tettura” in quanto l’archè si è dissolta. L’arché se è indominabile è qualcosa che sta fuori della nostra possibilità, mentre la tecnica ha a che fare con il mondo dei dominabili, è qualcosa di tangibile; sono due direzioni del sapere che si scontrano e si incontrano nel baricentro. L’architetto roveretese dà ampio risalto al fatto che la tecnica è l’anima della scienza e lo sguardo della scienza, come è noto, non è fatto per contemplare il mondo ma per manipolarlo. La manipolazione è già nello scenario scientifico. E questo accade pienamente anche nel mondo dell’architettura. Siamo ormai consapevoli che l’uomo/l’architetto continuamente tenta una disperata rivalità con quella inarrestabile volontà di potenza che esprime un pensiero di massima razionalità e desiderio di perfezionamento (tecnico) continuo: vana e angosciante competizione con la macchina. E quando si accorge di non farcela perché l’uomo è insufficiente rispetto a questa e la tecnica, ormai diventata fine, prova tormento e avverte la cosiddetta “vergogna prometeica”, cioè la vergogna di non essere all’altezza dell’evento tecnico (come ricorda Umberto Galimberti citando Gunther Anders). Rizzi sa bene che non c’è un dispositivo etico all’altezza dell’incedere tecnico. L’etica è pensata in chiave umanistica e quindi soccombe di fronte al dato
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Matteo Ieva | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
Fig. 1 - Locandina della gionata di studio su Renato Rizzi presso il DICAR (Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura) del Politecnico di Bari. Poster related to the study day on Renato Rizzi organized at the DICAR (Department of Civil Engineering and Architecture Sciences) of the Polytechnic of Bari.
his lectio magistralis at the Isufitaly 2018 conference in Bari. In the introduction to the exhibition I think it is convenient to remember that Renato Rizzi is a very rare figure of a charismatic scholar and an important reference for many researchers who deal with architecture theory based on the difficult background that looks with interest to the principles - related to it - philosophical-literary in nature. His theoretical speculations give life to a rifling, a profound incision that permanently puts in crisis his judgment on what is thought to be an already reached truth. For this reason, it is not easy to cross or compare with his theses, it undoubtedly requires a caution approaching, “throwing into the sea ... (omissis: he saw it) with a bowed head”, as Ariosto writes, because the proposed thoughts always point very high, they travel in the world of problematic ideas and are the prerogative of only a certain “elitist” of scholars who are entrusted with the difficult task of interpreting them and, therefore, of judging them. See the conspicuous production of writings proposed by numerous critics and scholars, and among these the stimulating critical treatment of Francesco Moschini “Introduzione a Renato Rizzi: la solitaria profondità dello sguardo”, in Gallipoli. Laboratorio di Progettazione, Gangemi Editore, 2016. Here part of his thought is considered and recalled through general concepts of architecture in its being and tool of our existence (also profes-
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Fig. 2 - Immagine del plastico. Foto F.D. De Rosa. Model picture. Picture F.D. De Rosa.
scientifico. Non è quindi un caso che vada alla ricerca di un ordine delle cose. Un ordine che tende a conciliare e a fondere inscindibilmente costruzione e pensiero/principio/storia. Ne consegue che il dato umanistico finisce per prevalere prepotentemente sulla componente di artificialità di cui la tecnica è la massima responsabile. E tuttavia, Rizzi cerca una via d’uscita: avverte che è necessario espandere la nostra interiorità, educarla per poter ascoltare realmente il mondo che è prima di noi, che è l’ambito degli indominabili. E questo mondo influisce sulle nostre scelte che non sono altro che un ascolto di quello che già esiste e di quello che non esiste. Nell’interlinea di questa riflessione si rilegge quel prodigioso concetto hegeliano che afferma che la verità (nella realtà) è l’insieme dei suoi momenti, perché il vero è l’intero ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo, proiezione nel futuro. La nostra singolarità – dichiara – è orientata su due livelli, due poli: quello della conoscenza di tutta la storia che ci precede (l’archè: il rivolgerci a tutto l’orizzonte del conosciuto) e quello dell’essere contemporanei (che significa con tutti i tempi), cioè dell’essere posizionati sull’ultimo segmento della storia che, teoricamente, ci permette di essere i dominatori delle cose. Il punto di vista dell’archè e della singolarità obbliga a posizionarsi su tutto l’arco del sapere, della conoscenza di ciò che è stato, con un simultaneo volgersi al futuro. Perché – dice – i nostri ideali hanno una radice nel passato ma hanno una potenza nel futuro. Sogniamo ciò che ancora non c’è ma dobbiamo riassumere tutto ciò che ci ha preceduto. In questo insieme complesso di valutazioni critiche emerge, sebbene non richiamata espressamente, la complessa questione del significato di progetto.
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sional), moreover aware that the attempt to incede on a very difficult ground of research, such as the one practiced by Rizzi – based on a complex synthesis between philosophy and architecture - built on a highly problematic horizon, as extraordinary in its rationality and precision, is undoubtedly a riskying condition. To this end, some brief considerations will be proposed that will try to relaunch - sometimes in the form of a question - some assumptions of his thought that are very topical today, and not only in the world of architecture. The discussion will be intentionally confined to a narrow field of judgment on something that is present in a small interstice of its vast critical cogito. And, for this, some particular aspects of his dissertations will be analyzed, especially those built following a point of view - sometimes, only apparently concealed in the speeches - which seeks the boundary between two conceptualized polarities, following a logical structure that correlates opposite and/or complementary diads. The search for antitheses - which he often uses - allows him to explain with precision what something is in its deepest expressions, its (more or less evident) antinomy, the unification of the parts. Rizzi declares himself contrary to contemporary culture, he binds architecture in unity - the culture - the self (individuality) and underlines that, today, the architect does not criticize because he is anonymous. But anonymity - he says - is a kind of mask that produces a form of violence. In fact, it recalls today’s situation mirrored in the suburbs, emblematic of these phenomena. He speaks about dualism and explains why contemporary culture divides everything, while its interest pursues a vision that tries to critically link in unity what can be related. It denies selfreference because each individual must live in the world - he observes - through the singularity, which allows everyone to relate to own universality. There is no doubt that in Rizzi there is a particular sensitivity and a compelling interest in dealing with problems through the search for the being. Proof of this is the deepening of the ontological aspects to which he frequently refers his main critical exposures. Architecture, he remind us, is primarily a humanistic discipline. And it is here that resides the metaphysical background that allows him to go in search of the first principles, theoretical aspects and absolute values of reality, even apart from the data of direct experience or sensitive knowledge. From this point of view, he certainly shares the sensational expression of J. Derrida, recalled by R. Masiero, who says: “architecture is the last fortress of metaphysics”. Prediction that, however, worries every thinker if we think about what architecture represents today. Rizzi uses the term aesthetic (estetico), understood as the objective appearance of all things, which does not depend on man belonging to the sphere of the indomitable. To this end he emphasizes that original knowledge derives from appearing; appear of what is visible and what is invisible, therefore indominable. The critical work of Emanuele Severino appears in these statements, in a completely latent form. To better clarify this concept, he proposes a kind of correspondence made up of three interacting propositions: everything appears/everything is related/the aesthetic is extraneous to personal value judgments. The aesthetic is the relationship, and in the world everything is in relation. The aesthetic does not go in search of aletheia, it does not care about the truth (this understood with the pre-Socratic meaning), rather it con-
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cerns about the power of things. Faced with the question of what represents that form of power which today expresses an undisputed dominion over man’s will, Rizzi responds with the definition of architecture. He points out that, from a semantic point of view, the term rests on two aspects that are ineluctably interrelated: the arché and the téchne, the socalled first principles at the base of the technique. He says: If we try to project this concept into the contemporary world, everything landslides everything, because today we only talk about “tecture” because the archè has dissolved. The arché if indominable is something that is beyond our reach, while the technique has to do with the world of the dominable, it is something tangible; they are two directions of knowledge that collide and meet in the center of gravity. The Roveretan architect gives wide emphasis to the fact that technology is the soul of science, and the gaze of science, as is known, is not made to contemplate the world but to manipulate it. Manipulation is already in the scientific scenario. And this also happens fully in the world of architecture. We are now aware that man/architect continuously tries a desperate rivalry with that unstoppable desire for power that expresses a thought of maximum rationality and desire for continuous (technical) improvement: vain and distressing competition with the machine. And when he realizes he can’t make it because man is insufficient compared to this and the technique, which has now become an end, he experiences torment and feels the so-called “promethean shame”, that is, the shame of not being up to the technical event (as recalls Umberto Galimberti quoting Gunther Anders). Rizzi is well aware that there is no ethical device that lives up to the technical pace. Ethics is conceived in a humanistic key and therefore succumbs to scientific data. It is therefore no coincidence that he searches for an order of things. An order that tends to reconcile and inseparably merge construction and thought/principle/history. It follows that the humanistic data ends up overwhelmingly prevailing over the artificial component of which the technique is the most responsible. And yet, Rizzi is looking for a way out: he warns that it is necessary to expand our interiority, to educate it in order to really listen to the world which is before us, which is the domain of the indomitable. And this world affects our choices which are nothing more than listening to what already exists and what doesn’t exist. Inside this reflection it is possible to recognize the prodigious Hegelian concept which affirms that truth (in reality) is the set of its moments, because the truth is the whole but the whole is only the essence that is completed through the its development, projection into the future. Our singularity - he declares - is oriented on two levels, two poles: that of knowledge of all the history that precedes us (the archè: addressing the whole horizon of the known) and that of being contemporary (which means with all times), that is, of being positioned on the last segment of history which, theoretically, allows us to be the rulers of things. The point of view of the archè and singularity obliges to consider the whole knowledge, knowledge of what has been, with a simultaneous look to the future. Because - he says - our ideals have a root in the past but have a power in the future. We dream of what is not yet there but we must summarize everything that preceded us. From this complex set of critical evaluations, although not expressly referred to, the complex
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Fig. 3 - Immagine del plastico. Foto F.D. De Rosa. Model picture. Picture F.D. De Rosa.
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Una nozione che viene disvelata al momento in cui pensa al rapporto tra passato e futuro, alla storia intesa come un qualcosa che “esprime un senso” attraverso l’interpretazione del tempo (osserva H. G. Gadamer) riguardato nel rapporto tra il prima e il dopo. E questo rapporto non rinuncia a considerare (nel progetto) il passato come valore. Sicché possiamo accostare il significato di progetto, come delineato nei suoi ragionamenti, al termine proàiresis presente nei testi di etica classici e soprattutto in Aristotele. Molti studiosi ritengono, infatti, che l’area semantica del temine esprima l’”interesse personale”, l’”intenzionalità”, il “deliberato proposito”, la “premeditazione” delle azioni di un soggetto. Quindi il pro-jectus è un’idea lanciata nel futuro, una proiezione, con la consapevole evidenza di un passato potente che lo nutre costantemente, ma anche con la piena coscienza del dover esprimere la nostra Machenshaft, cioè il nostro essere attivi e propositivi nel trasformare il futuro, offrendo qualcosa che annunci una novità, che vada oltre il presente. Ma come suggerisce Cacciari, nella proàiresis è presente anche la tukè, la responsabile consapevolezza dell’incedere verso un futuro necessitato sapendo che si ha a che fare con la casualità, con la condizione fortuita. A dimostrarlo è il suo essere coerente con i principi a cui aderisce, alla straordinaria speculazione proposta, ad esempio, con il teatro di Danzica. Un capolavoro! In esso è condensata tutta la storia del teatro come concetto: l’arte della recitazione all’aperto, la piazza, il teatro elisabettiano e shakespeariano, il tipo ottocentesco evoluto in quello moderno. E tutto viaggia nel futuro sotto forma di giudizio critico, come mette in risalto Heidegger. Stimolante nelle riflessioni di Rizzi è anche la metafora che rapporta l’uomo a una clessidra in cui un’ampolla è il mondo visibile e tangibile al di fuori di sé:
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Fig. 5 - Immagine del plastico del volume interno alla cattedrale. Foto di R. Rizzi. Model picture: volume internal to the Cathedral. Picture R. Rizzi.
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Fig. 6 - Plastico con indicato lo scavo per raggiungere la cattedrale ipogea. Model image with indicated the excavation leading to the hypogeum cathedral.
l’universo; l’altra ampolla è il mondo e l’universo invisibile che è dentro di sé, la propria interiorità. Le due ampolle – dice – sono equivalenti. Ciascun essere corrisponde al collo della clessidra, è una matrice unica e irripetibile, cioè una singolarità, di questi due mondi che continuano a travasare incessantemente uno nell’altro. Questo concetto fa anche pensare, ad esempio, alla condizione del divenire in cui queste componenti interagiscono e in esse l’uomo e la realtà si incontrano. Ma lo fanno in una condizione assolutamente interrelativa, appunto. Il divenire a cui va riferita la concezione nel mondo dell’architettura è, dal mio punto di vista, quella che tiene insieme le cose e le unisce mediandole. G. Deleuze la chiama “divenire nel mezzo” e per noi significa che l’uomo/l’architetto e la realtà su cui interviene sono presi in un divenire che li coinvolge trasformandoli, che li porta a incontrarsi in una zona di mezzo nella quale l’uno non è più solo l’essere uomo con le sue idee e il suo immaginario esperienziale, e l’altra non è più la realtà vista con una artificiosa oggettività. Entrambi si rendono disponibili a una serie di relazioni che, si direbbe, porta entrambi a modificarsi, a “de-territorializzarsi”, a limitare – fondendoli – i propri confini perché si raggiunge una dimensione critica diversa da quella originaria. Si tratta, in fondo, di un concetto che apre all’uomo, e dunque all’architetto, pressoché infinite possibilità a patto che cessi di vivere sé stesso come soggetto insensibile ai continui stimoli del mondo, resistente ai fenomeni esterni e si renda disponibile a limitare il proprio ego (questo concetto può coniugarsi a quello della singolarità). Però questa interazione con il reale oggi è per l’architettura un fattore fortemente contraddittorio non essendoci quella necessaria autocoscienza che porta a cercare zone di contiguità con quel qualcosa d’altro che tenti un superamento dell’attuale condizione di crisi.
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question of the meaning of the project emerges. A notion that is revealed at the moment when it thinks about the relationship between past and future, about history understood as something that “expresses a meaning” through the interpretation of time (observes H. G. Gadamer) concerned with the relationship between before and after. And this report does not renounce to consider (in the project) the past as value. So we can approach the meaning of the project, as outlined in its reasoning, at the end proàiresis present in classical texts of ethics and especially in Aristotle. Many scholars believe, in fact, that the semantic field of the term expresses the ‘personal interest’, the ‘intentionality’, the ‘deliberate purpose’, the ‘premeditation’ of a subject’s actions. So the pro-jectus is an idea launched in the future, a projection, with the conscious evidence of a powerful past that constantly nourishes it, but also with full awareness of the need to express our Machenshaft, that our being active and proactive in transforming the future, offering something that announces a novelty that goes beyond the present. But as Cacciari suggests, tukè is also present in proàiresis, the responsible awareness of advancing towards a needed future knowing that it has to do with chance, with fortuitous conditions. This is demonstrated by its being coherent with the principles to which it adheres to, to the extraordinary proposed speculation, for example, with the Danzica theater. A masterpiece! It contains the whole history of theater as a concept: the art of outdoor acting, the square, the Elizabethan and Shakespearean theater, the nineteenth-century type evolved into the modern one. And everything travels into the future in the form of critical judgment, as Heidegger points out. The metaphor that relates man to an hourglass in which an ampoule is the visible and tangible world outside of itself is also stimulating in Rizzi’s reflections: the universe; the other ampoule is the invisible world and universe that is within itself, its own interiority. The two ampoules - he says - are equivalent. Each being corresponds to the neck of the hourglass, it is a unique and unrepeatable matrix, that is, a singularity, of these two worlds that continue to transfer incessantly into one another. This concept allows to think about the condition of becoming in which these components interact and in where man and reality meet. But they do it in an absolutely interrelated condition. In my opinion, the becoming of the architecture is referred is referred to the conception that holds things together and unites them by mediating them. G. Deleuze calls it “becoming in the middle” and for us it means that the man/ architect and the reality on which he intervenes are taken in a becoming that involves them by transforming them, which leads them to meet in a middle zone in which one is no longer just the being man with his ideas and his experiential imagery, and the other is no longer seen as the reality with an artificial objectivity. Both make themselves available to a series of relationships which leads both to change, to de-territorialize, to limit - by merging - their own boundaries because a critical dimension different from the original one is reached. Basically, it is a concept that opens up to man, and therefore to the architect, endless possibilities as long as he ceases to live himself as a subject insensitive to the continual stimuli of the world, resistant to external phenomena and makes himself available to limit his ego (this
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concept can be combined with that of singularity). However, this interaction with reality today is a highly contradictory factor for architecture, since there is not the necessary self-awareness that leads to looking for areas of contiguity with that something else that attempts to overcome the current condition of crisis. Rizzi also opens up a perspective of overcoming and projection towards an opportunity for redemption. We can find in him, not surprisingly, an interest in seeking within things a condition of balance, harmony, pro-portion also through the synthesis of the components relates. Read the archè with the téchne, or the interiority and exteriority that flow right into the concept of singularity. His thought raises a question: in this duality of intrinsically interrelated concepts, where does the border lie between the two entities, between the two poles? For example, how do you define the separation line between archi and tecture? Who does it belong to? How should it be understood today? Could it be identified as the connecting link between the relationship between S and s, that is, betweens Signifier and meaning expressed by De Saussure? Or between Lògos and Scripture? That is, that trace that lives in the line where one is the other deferred (C. Sini). For J. Derrida this is the différance. The opposition logic and the reversal of the conceptual couples of the discourse that illusorily arrives to a synthesis: announcement of discovery of a third term that includes both of them and overcomes them through the exposition of the “untrue” character of their own opposition. A gap between concept and concrete expression that always refers to a difference, to a defer. A track from which the multiplicity of interpretations moves. So where is the border and what is it? At the end of this brief analysis of Renato Rizzi’s thought, I would propose a reflection of Saverio Muratori, taken from: Architettura e civiltà in crisi, which openly crosses some aspects of the Roverete scholar. Architecture has suffered a lot in the civilization of the crisis precisely due to the lack of scientific awareness of the technique of its instrumental processes which cannot not be and remain humanistic, but which have moved for now in a typically technical sense, that is linked to sectoral bases that ignored human references.......... omissis...........But if architecture died in practice, it remained as principle, because it is the social consciousness itself, which is immanent to the man life and, due to the cyclicality above described, it is reborn stimulated by the same excess of other values. Reborn, if not in the practice now lost, as a principle to be invented, pole on which to gravitate.
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E tuttavia, Rizzi apre sempre una prospettiva di superamento e di proiezione verso un’opportunità di riscatto. In lui c’è continuamente, non a caso, un interesse a ricercare, nelle cose, una condizione di equilibrio, di armonia, di proporzione anche attraverso la sintesi delle componenti che mette in relazione. Leggi l’archè con la téchne, oppure l’interiorità e l’esteriorità che confluiscono proprio nel concetto di singolarità. Questo suo pensiero suscita una domanda: in questa dualità di concetti tra loro intrinsecamente correlati, dove si colloca il confine tra i due enti, tra i due poli? Ad esempio, tra archi e tettura, la linea di separazione come si definisce? A chi appartiene? Come va intesa oggi? Si potrebbe identificarla come la congiungente del rapporto tra S e s, cioè tra Significante e significato espressi da De Saussure? O tra Lògos e Scrittura? Cioè quella traccia che vive nell’interlinea in cui uno è l’altro differito (C. Sini). Per J. Derrida questa è la différance. La logica opposizionale e il ribaltamento delle coppie concettuali del discorso che approda illusoriamente a una sintesi, annuncio di scoperta di un terzo termine che li comprende entrambi e li supera attraverso l’esposizione del carattere “non vero” della loro stessa opposizione. Uno scarto tra concetto ed espressione concreta che rinvia sempre a una differenza, a un differire. Una traccia da cui muove la molteplicità delle interpretazioni. E dunque, dov’è e cos’è il confine? A conclusione di questa breve analisi del pensiero di Renato Rizzi proporrei una riflessione di Saverio Muratori, tratta da: Architettura e civiltà in crisi, che incrocia apertamente alcuni aspetti dello studioso roveretese. “L’architettura ha molto sofferto nella civiltà della crisi proprio per mancanza di consapevolezza scientifica della tecnica dei suoi processi strumentali, che non possono non essere e rimanere umanistici, ma che si sono mossi per ora in senso tipicamente tecnicista, cioè legati a basi settoriali che prescindevano dai riferimenti umani. ...omissis... Ma se l’architettura è morta nella pratica, essa è rimasta come principio, perché essa è la coscienza sociale stessa, che è immanente alla vita dell’uomo e, per la ciclicità sopradetta, rinasce sollecitata dallo stesso eccesso degli altri valori. Rinasce, se non nella pratica oggi perduta, come principio da inverare, polo su cui gravitare”.
Riferimenti bibliografici Rizzi R. (1996) Peter Eisenman. Mistico nulla, 24 Ore Cultura Editore, Milano. Rizzi R. (2006) Il daímon di architettura. Theoria-eresia, Pitagora Editrice, Bologna. Rizzi R. (2009) La muraglia ebraica. L’impero eisenmaniano, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni. Rizzi R. (2011) L’Aquila. S(c)isma dell’immagine, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni. Rizzi R. (2014) Il daimon di architettura. Vol. 1: Theoria, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni. Rizzi R. (2017) Lampedusa. La cattedrale di Solomon. Vol. 2: Libro del lavoro, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni. Rizzi R., Pisciella S, Rossetto A. (2014) Il daimon di architettura. Vol. 2: Manuale, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni. Rizzi R., Pisciella S, Rossetto A. (2014) Il daimon di architettura. Ediz. illustrata. Vol. 3: Parva mundi, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni. Rizzi R., Pisciella S, Baracchi C. (2016) Il cosmo della bildung, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni. Severino E. (2003) Tecnica e Architettura, (a cura di) R. Rizzi, Raffaello Cortina Editore, Milano.
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urbanform and design Renato Rizzi. Pensare architettura e la forma
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delle cose
Il potenziale estetico del substrato
Nicola Scardigno
DICAR Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura, Politecnico di Bari E-mail: nickscardigno@yahoo.it
Renato Rizzi. Thinking architecture and the shape of things Aesthetic potential of the substrate
Within this essay we intend to investigate the project of the Great Egyptian Museum in Cairo designed by Renato Rizzi. A dated opera, if we think of the numerous other projects of the Roveretan architect from 2002 to today – not least the project of the Solomon Cathedral presented in the occasion of the exhibition held at the Polytechnic of Bari in May 2019 – but very topical and with an unprecedented critical cut with respect to the theme addressed: the relationship between the project and the archaeological site/ context. The Museum is in fact the opera of an architect who is not satisfied to grasp what Agamben calls the “inexhaustible light” of the contemporary life (Agamben G., 2019), but rather to seek a “singular” relationship with the site, interpolating different times and reading history in an unprecedented way. A story that the Roveretan architect cites having identified the lines of force and according to a need that does not come in any way from his will, but from a need to which
All’interno di questo saggio si intende indagare il progetto del Grande Museo Egizio al Cairo, di Renato Rizzi. Un’opera datata, se pensiamo ai numerosi altri progetti disegnati dall’architetto roveretano dal 2002 ad oggi – non ultimo il progetto della Cattedrale di Solomon presentato in occasione della Mostra tenutasi al Politecnico di Bari nel Maggio 2019 – ma di grande attualità e dal taglio critico inedito rispetto al tema affrontato: il rapporto tra progetto e sito/contesto archeologico. Il Museo è infatti l’opera di un architetto che non si accontenta di afferrare quella che Agamben definisce l’”inesitabile luce” della contemporaneità (Agamben, 2019), ma che piuttosto ricerca una “singolare” relazione con il sito, interpolando i tempi diversi e leggendo in modo inedito la storia. Una storia che l’architetto roveretano cita avendone identificato le “linee di forza” e secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli pare non poter non rispondere: far emergere l’esistenza dell’opera non rispetto ad una pura presenza di fatti – per l’appunto storicizzati –, bensì rispetto ad un opera di scala maggiore, il paesaggio, assimilabile ad un principio che governa le leggi dell’apparire, l’”estetico” – dimensione dietro la quale Rizzi, sulla scorta delle categorie di analisi della comunicazione persuasiva espresse da Aristotele, riconosce tre variabili fondamentali: ethos, logos e pathos (Rizzi, 2010). Un concetto dunque, quello di opera che, confacendosi simultaneamente al progetto per il museo e al paesaggio che lo ospita, rimanda all’idea heideggeriana di “opera d’arte”, ossia a qualcosa che ha un’indole di “res”, di “realitas”, di “realità” (Heidegger, 2000). Un qualcosa cioè che non è solo cumulo di segni e superfici che, in apparenza, si rendono distintivi: nella fattispecie la topografia descritta dalle curve di livello, la linea del fiume, il manto sabbioso del deserto, la trama del tessuto urbano della città del Cairo, la presenza di testimonianze architettoniche straordinarie come le tombe e le piramidi. Ma piuttosto, a quel “nocciolo della realtà”, visibile solo in trasparenza, attorno al quale sembrano assembrarsi molteplici proprietà e caratteri dell’arte egizia, l’architetto-artista Rizzi, in qualità di “origine” – concetto che identifica la singolarità dell’architetto roveretano – dell’opera-progetto, ha reso intelligibili attraverso quella che lui stesso definisce una “liturgia del pensiero”: un’”ideacogito” (Ieva, 2018), sintetico-creativa, maturata a livello di substrato di quel luogo-superficie su cui le cose si rendono visibili. Ciò sembra essere comprovato dal fatto che il luogo su cui l’architetto incide la sua opera, è un luogo dietro la cui immagine riconosce la presenza, simultanea, di quattro luoghi. Di un “luogo fisico”, il labbro che unisce la piana del Nilo con il deserto, ovvero la parte bassa del Cairo con la parte alta e arida… il punto in cui il Nilo si apre, ramificandosi nel delta. Di un “luogo teorico”, il luogo in cui il salto topografico sancisce l’intersezione tra due mondi: quello dei vivi, la città abitata, e quella dei morti, segnata dalla presenza dei complessi funerari, delle piramidi di Cheope, Chefren e Micerino circondate dalle mastabe. Di un “luogo storico e metastorico”, ossia di un luogo che, in quanto testimone di un succedersi di fatti storici, ha virtù di spiegarli. Del “luogo estetico”, ossia del luogo del visibile, della sintesi, dove, le leggi dell’apparire tendono a ordinare e qualificare il paesaggio stesso alla stregua di un’opera
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Abstract The essay intends to place itself in the wake of those works which, with a critical spirit, intend to investigate the relationship between project and the archaeological site/context. Compared to experiences that have characterized the debate on the “theme” in recent decades (most of which pertain to projects that legitimate themself by searching an intentionality facing the way of the “consistency” or of “dissonance” with respect to the physical “witness”), the project – here critically read and interpreted – is located within a territory that is per itself witness of important archaeological events up to the point of not finding “legitimacy” on the basis of a pure presence of facts – precisely historicized –, but compared to a larger scale opera, the landscape, assimilable to a principle that governs the laws of appearing, the “aesthetic”: a dimension behind which Rizzi, on the basis of the categories of analysis of persuasive communication expressed by Aristotle, recognizes three fundamental variables: ethos, logos and pathos.
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Keywords: project, archeological site, substrata, principle, aesthetic
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Fig. 1 - Il “luogo fisico” del progetto: il labbro che unisce la piana del Nilo con il deserto, ovvero la parte bassa del Cairo con la parte alta e arida. The “physical place” of the project: the lip that joins the Niles plain of with the desert, i.e. the lower part of Cairo with the high and arid part.
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d’arte la cui existentia est singularium (Jullien, 2017). Il dato di coscienza intenzionale-singolare che ha portato al progetto per il museo egizio, è stato criticamente decriptato dallo scrivente attraverso la ricerca di tre ordini di coscienza: simbolica, paradigmatica e sintagmatica. Corrispondono sostanzialmente ai tre stadi relazionali di matrice barthesiana attraverso i quali si cerca di decodificare l’immagine di quel “segno” (Barthes, 1976) che Renato Rizzi – a guisa di visione “singolare” – ha condotto nel travaglio del visibile. La coscienza simbolica, rappresentata dalla fascinazione figurativo-sacrale dell’arte funeraria egizia: la forma a “T”. Una figura-forma sulla quale si imposta il museo e che, piuttosto che trascendere dal dato di determinatezza, per l’appunto formale, dell’archetipo, lo assume in termini di identità figurativa. È come se l’architetto avesse agito nel segno di una coscienza di tipo simbolico-analogica, re-visionando la condizione, quasi auratica, di equivalenza, tra significante e significato, in quanto consapevole – in modo agambeniano – che la condizione archetipica, ovvero prossima all’origine, non è riconducibile ad un passato cronologico, ma piuttosto contemporanea al divenire storico (Agamben, 2019), nella fattispecie, al Suo tempo. In altri termini: attraverso un’interpretazione del simbolo, è come se quell’opera eccezionale dedita alla memoria, del defunto, attraverso la tomba, sia stata ripensata come opera eccezionale dedita alla memoria, della cultura, attraverso il museo. Un trapasso che rimanda inesorabilmente alla metafora attraverso la quale Galimberti descrive l’”esegesi del simbolo”: “Con l’insistenza infinita dell’onda sulla spiaggia, l’esegesi simbolica è come il ritorno e la ripetizione della stessa onda sulla stessa riva, dove però ogni volta tutto il senso si rinnova e si arricchisce…” (Galimberti, 1998).
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he seems unable to not respond: to bring out the existence of the opera not with respect to a pure presence of facts – precisely historicized –, but with respect to a work of a larger scale, the landscape, assimilable to a principle that governs the laws of appearance, the “aesthetic” (l’estetico) – dimension behind which Rizzi, on the basis of the categories of analysis of persuasive communication expressed by Aristotle, recognizes three fundamental variables: ethos, logos and pathos (Rizzi R., 2010). Therefore a concept – that of opera – which fitting simultaneously with the project for the museum and the landscape that houses it, refers to the Heideggerian idea of “artwork”, that is, to something that has a “res” character, of “realitas”, of “reality” (Heidegger M., 2000). That is, something that is not just a heap of signs and surfaces that, apparently, become distinctive: in this case, the topography described by the contour lines, the river line, the sandy mantle of the desert, the Cairo’s urban fabric, the presence of extraordinary architectural evidence such as tombs and pyramids. But rather, to that “core of reality”, only visible in transparency, around which a multiplicity of properties and characters of Egyptian art are assembled and which, the architect-artist Rizzi, as “origin” – concept that identifies the singularity of the Rovereto architect – of the opera-project, made intelligible through what he himself defines a “liturgy of thought”: a synthetic-creative “idea-cogito”
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La coscienza paradigmatica, agente, nel caso del progetto per il museo, sotto forma di dato coscienziale-intenzionale di natura poetico-strutturalista. Non si tratta infatti semplicemente di una sterile citazione del repertorio architettonico formale-figurativo del mondo egizio, quanto piuttosto di una riflessione proiettata a ri-fabbricarlo – quel repertorio di “simulacri” che Lucrezio nel suo De Rerum Natura riconosce essere vaganti – rendendolo intelligibile (Lucrezio, 1992). In altri termini, attraverso questo tipo di relazione, è come se l’architetto roveretano avesse rimodulato il rapporto di coesistenza tra una riserva di forme storicamente consolidatesi nell’arte egizia, a partire dal potenziale riconoscimento di una proiezione prospettiva che le stesse – forme – avrebbero potuto avere. Si potrebbe infatti parlare vera e propria ri-significazione degli elementi in base alle scelte di natura gerarchico-compositiva inerenti al progetto. Nella fattispecie il riferimento è alle “tre unità formali delle maschere” e “contro-maschere” di cui Rizzi parla, declinate rispetto al tema dei muri delle antiche mastabe ed il cui codice figurativo – la plasticità della superficie muraria quale sintesi tra struttura ed apparato decorativo – risulta svilupparsi formalmente, a guisa di¬ frattale, in base alla loro dimensione, scalare, all’interno del progetto. È la “cadenza formale” di questi elementi, corrispondenti ad altrettanti salti di quota, a misurare l’intero impianto di progetto, conferendo una struttura ritmica e un chiaro ordine gerarchico – la sostanziale tripartizione della “T” – all’intero impianto museale. Il terzo stadio di coscienza intenzionale si può definire sintagmatico, stemmatico – concetto che nella critica testuale è riconducibile allo studio delle relazioni e dei rapporti che intercorrono tra i vari codici di un’opera –, teso cioè al riconoscimento di regole di associazione tra parti ed elementi. Lo si può definire il momento in cui il progetto si interroga sulle modalità di coordi-
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(Ieva M., 2018), matured at the substrate level of that place-surface on which things become visible. This seems to be proven by the fact that the place on which the architect affects his opera, is a place behind whose image recognizes the simultaneous presence of four places. Of a “physical place”, the lip that joins the Nile plain with the desert, or the lower part of Cairo with the high and arid part ... the point where the Nile opens, branching into the delta. Of a “theoretical place”, the place where the topographical leap marks the intersection between two worlds: that of the living, the inhabited city, and that of the dead, marked by the presence of funeral complexes, the pyramids of Cheops, Chefren and Micerino surrounded by mastabe. Of a “historical and metastorical place”, that is, of a place which, as a witness to a succession of historical facts, has the virtue of explaining them. Of the “aesthetic place”, that is the place of the visible, of the synthesis, where the laws of appearance tend to order and qualify the landscape itself as a work of art whose existentia est singularium (Jullien F., 2017). The data of intentional-singular conscience that led to the project for the Egyptian museum has been critically decrypted by the writer through the search for three orders of conscience: symbolic, paradigmatic and syntagmatic. They correspond substantially to the three relational stages of Barthesian matrix through which we try to de-
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Fig. 2 - Il sedime scavato dalla “figura forma” a ‘T’. The soil excavated from the ‘T’ “shape-figure”.
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Fig. 3 - Rapporto “sintagmatico” tra “maschere” e “contro-maschere”. “Syntagmatic” relationship between “masks” and “counter-masks”.
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namento tra i principali sintagmi – interni alla figura-forma “T” o tra la figuraforma e il paesaggio – al fine di individuare un ordine che soggezioni, a guisa di vincoli regolari, le relazioni tra entità spaziali e materiche del progetto. Tali relazioni sono principalmente riconducibili a due ordini scalari: uno afferente al rapporto tra la figura-forma a “T” e il contesto, l’altro al rapporto tra le parti interne alla figura. Deserto - Figura-Forma”T” - Città Un vero e proprio nodo territoriale identificato dello scarto altimetrico (40 m) tra il piano del deserto e quello della città, ed eletto come luogo ove il progetto deposita il suo sedime. Di fatto, il luogo in cui la figura-forma a “T” viene scavata nel suolo, occupando esattamente il dislivello del labbro e fungendo da elemento-punto di sutura tra le due quote, corrispondenti a due mondi: dei vivi (la città) e dei morti (il deserto). Un rapporto, dunque, che si materializza attraverso una modificazione dell’aspetto plastico-figurativo del terreno e che risulta dettato da una intenzionalità progettuale chiara: quella di non emergere dal suolo, ovvero dal palinsesto del paesaggio, per operare a livello del suo substrato – scelta che sembrerebbe dimostrare come l’architetto voglia escludere a priori un tentativo di misurarsi con episodi architettonici fuori terra della statura evocativa delle piramidi.
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code the image of that “sign” (Barthes R., 1976) that Renato Rizzi – in the sign of a “singular” vision – has led to the travail of the visible. The symbolic conscience, represented by the figurative-sacral fascination of Egyptian funerary art: the ‘T’ shape. A figure-form on which the museum is set and which, rather than transcending the datum of certainty, precisely formal, of the archetype, assumes it in terms of figurative identity. It is like the architect had acted in the sign of a symbolic-analogical consciousness, reviewing the almost auratic condition of equivalence between signifier and meaning, because aware – in an Agambenian way – that the archetypal condition, that is, close to the origin, it cannot be traced back to a chronological past, but rather contemporary to the historical becoming (Agamben G., 2019), in the case, to His time. In other words: through an interpretation of the symbol, it seems like if the exceptional opera dedicated to memory, of the deceased, through the grave, has been re-thought as an exceptional opera dedicated to memory, of culture, through the museum. A transition that relentlessly refers to the metaphor through which Galimberti describes the “exegesis of the symbol”: “With the infinite insistence of the wave on the beach, the symbolic exegesis is like the return and repetition of the same wave on the same shore, where, however, every time all the meaning is renewed and enriched ... “(Galimberti U., 1998). The paradigmatic consciousness acting, in the
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Fig. 4 - Il “terzo nodo” del progetto: il luogo dell’esposizione permanente. The project’s “third node”: the place of the permanent exhibition.
Maschera | Contro-maschera
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case of the project for the museum, in the form of conscious-intentional data of poetic-structuralist nature. In fact, it is not simply a sterile quotation of the formal-figurative architectural repertoire of the Egyptian world, but rather a reflection projected to re-built it – that repertoire of “simulacra” that Lucrezio in his De Rerum Natura recognizes to be wandering – making it intelligible (Lucrezio, 1992). In other words, through this type of relation, it seems the Roveretan architect had re-shaped the relationship of coexistence between a reserve of forms historically consolidated in Egyptian art, starting from the potential recognition of a perspective projection that the same – forms – could have had. Indeed we might talk of a real re-meaning of the elements based on the hierarchical-compositional choices inherent to the project. In this case, the reference is to the “three formal units of the masks” and “counter-masks” of which Rizzi speaks, declined with respect to the theme of the walls of the ancient mastabe and whose figurative code - the plasticity of the wall surface as a synthesis between structure and decorative apparatus - appears to develop formally, in the manner of a fractal, based on their scalar size within the project. It is the “formal cadence” of these elements, corresponding to as many level jumps, to measure the entire project layout, giving a rhythmic structure and a clear hierarchical order – the substantial tripartition of the ‘T’ – to the entire museum layout. The third stage of intentional consciousness can be defined as syntagmatic, stemmatic – a concept that in textual criticism can be traced back to the study of the relationships between various codes of an opera – that is, aimed at recognizing the rules of association between parts and elements. This can be defined as the moment in which the project questions the coordination methods between the main syntagmas – internal to the figure-form ‘T’ or between the figureform and the landscape – in order to identify an order that subjugates, in the manner of regular constraints, the relationships between spatial and material entities of the project. These relationships are mainly attributable to two scalar orders: one referred to the relationship between the ‘T’ shape-shape and the context and the other to the relationship between the internal parts of the figure.
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Mask | Counter-mask It is the relationship between elements with their own physical and formal qualities, precisely the
È la relazione tra elementi dotati di qualità fisiche e formali proprie, per l’appunto le “maschere” e le “contro-maschere”: con le prime tre orientate a levante (verso la città), visibili dall’esterno in quanto lavoranti sul piano verticale, impenetrabili e definenti una scansione ritmico-gerarchica dell’impianto longitudinale del museo; le tre seconde orientate a ponente, non visibili dall’esterno (in quanto contenute al di sotto della soletta sommitale piena), attraversabili e quindi prettamente agenti sul piano orizzontale del museo, filtrandone la sequenza di spazi. Le relazioni sintagmatiche tra facciate e contro-facciate, differentemente declinate nel progetto in termini posizionali, dimensionali e di scansione-frequenza del rapporto plastico-figurativo tra estroflessioni e introflessioni della materia – motivo compositivo della facciata che Rizzi riconduce al tracciato di una sinusoide –, determinano sostanzialmente tre nodi compositivi, diversamente gerarchizzati, all’interno dell’impianto a “T”. Un primo nodo nel quale si riconosce un rapporto di continuità tra la quota urbana e la quota del museo attraverso due sistemi di piazze interrate: una anteriore alla maschera direttamente interfacciata alla città, l’altra posteriore alla stessa maschera e mediante con l’ambito dei parcheggi. Un secondo nodo, baricentro nell’impianto museale, identifica l’ingresso al complesso museale, in particolare agli ambiti spaziali espositivi delle mostre temporanee e speciali – nonché a spazi differentemente gerarchizzati tra di loro: laboratori, auditorium, amministrazione, ecc., – mediando, anche in questo caso tra due differenti quote: la piazza longitudinale discendente e la terrazza sopraelevata trasversale.
Desert - Figure-Shape “T” - City A real territorial node identified by the altitude difference (40 m) between the desert and city plan, and elected as the place where the project deposits its land. In fact, the place where the ‘T’ shape-shape is dug into the ground, exactly occupying the height difference of the lip and acting as a suture-element between the two altitudes, corresponding to the two worlds: of the living (the city) and of the dead (the desert). A relationship, therefore, which is materialized through a modification of the plastic-figurative aspect of the terrain and which is dictated by a clear design intentionality: that of not emerging from the ground, or from the palimpsest of the landscape, in order to operate at the level of its substrate. A choice that would seem to demonstrate how the architect wants to exclude a priori an attempt to measure himself against architectural episodes above the ground and of the evocative stature of the pyramids.
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“masks” and the “counter-masks”: with the first three oriented to the east (towards the city), visible from the outside as working on the vertical plane, impenetrable and defining a rhythmic-hierarchical scan of the museum’s longitudinal layout; the three second ones oriented to the west, not visible from the outside (as they are below the full top slab), which can be crossed and therefore strictly acting on the horizontal plane of the museum, filtering the sequence of spaces. The syntagmatic relationships between facades and counter-facades, differently declined in the project in terms of position, size and scanfrequency of the plastic-figurative relationship between extro-flexions and intro-flexions of the material – the compositional motif of the facade that Rizzi leads back to the layout of a sinusoid –, substantially determine three compositional nodes, differently hierarchized within the ‘T’ layout. A first node in which a relationship of continuity between the urban and the museum altitude levels is recognized through two systems of underground squares: one in front of the mask directly interfaced with the city, the other behind the same mask and facing the parking lots. A second node, center of gravity of the museum, identifies the entrance to the museum complex, in particular to the spatial exhibition areas of the temporary and special exhibitions – as well as to spaces differently hierarchized between them: laboratories, auditorium, administration, etc., – by mediating , also in this case between two different levels: the descending longitudinal square and the transversal raised terrace. A third node identifies the entrance to the permanent exhibition spaces, completely excavated in the desert and endowed with a formal-distributive character with an “own representative status”. In this part of the museum there are both those places that contain the permanent collection – and that Rizzi calls the “five houses”, organized in series – and the “hypertext exhibition spaces”, created within the thickness of the mask, filling them entirely the cavities of the ribs. The identification of a theoretical-methodological system and the recognition of three conscious-intentional stages have allowed to decode – despite the awareness of being able to incur to an excessive simplification of theoretical speculation, at times ineffable, to which the Roveretano architect refers to –, the project themes around which the operative thinking of Renato Rizzi hinged. The decrypted image corresponds to a set of time relationships from which the present time – the project time – arises as a common multiple or minimum divisor of the others. This thanks to a thought that, although experimenting with an architectural language belonging to the same root, to a metaphysical substrate, has managed to give to the opera that autonomy which makes it comparable to a monad, independent and equidistant from the world in which represents – the archaeological site and in a broad sense the world of Egyptian culture – as much as by the author himself.
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Un terzo nodo, identifica l’accesso agli spazi dell’esposizione permanente, completamente scavati nel deserto e dotati di un carattere formale-distributivo dallo “statuto rappresentativo proprio”. In questa parte del museo si trovano sia quei luoghi che contengono la raccolta permanente – e che Rizzi chiama le “cinque case”, organizzate in serie – e gli “spazi espositivi dell’ipertesto”, ricavati all’interno dello spessore della maschera, riempiendone interamente le cavità delle nervature. L’identificazione di un impianto teorico-metodologico e il riconoscimento di tre stadi coscienziali-intenzionali, hanno consentito di decodificare – pur nella consapevolezza di poter incorrere in una eccessiva semplificazione della speculazione teoretica, a tratti ineffabile, cui l’architetto roveretano afferisce –, i temi di progetto attorno ai quali si è imperniato il pensiero operante di Renato Rizzi. L’immagine decriptata corrisponde ad un insieme di rapporti di tempo, da cui scaturisce il tempo presente – il tempo del progetto – come comune multiplo o minimo divisore degli altri. Questo grazie ad un pensiero che, pur sperimentando un linguaggio architettonico appartenente ad una stessa radice, ad un substrato metafisico, è riuscito a conferire all’opera quell’autonomia che la rende assimilabile ad una monade, indipendente ed equidistante tanto dal mondo in cui si rappresenta – il sito archeologico e in senso lato il mondo della cultura egizia – quanto dall’autore stesso.
Riferimenti bibliografici Agamben G. (2019) Che cos’è il contemporaneo, Mimesis, Milano, p. 21, p. 4. Barthes R. (1976) Saggi Critici, Einaudi, Torino, p. 303. Heidegger M. (a cura di Zaccaria G.) (2000) L’origine dell’opera d’arte, Christian Marinotti Edizioni, Milano, p. 11. Ieva M. (2018) Architettura come lingua. Processo e progetto, FrancoAngeli, Milano, p. 68. Jullien F. (a cura di Marsciani F.) (2017) Vivere di paesaggio. O l’impensato della ragione, Mimesis, Milano, pp. 108-109. Lucrezio (a cura di Milanese G.) (1992) De Rerum Natura, Oscar Mondadori, Milano, p. 243. Galimberti U. (1998) Paesaggi dell’anima, Oscar Saggi Mondadori, Milano, p. 25. Rizzi R. (2010) Cortina d’Ampezzo. Liturgia degli invisibili, (Quaderno non pubblicato), p. 2.
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urbanform and design La quarantena di architettura
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Dipartimento di Culture di Progetto, IUAV di Venezia E-mail: renato.rizzi@iuav.it
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I believe that our discipline, Architecture, should always remain in “quarantine”. Moreover, Venice was the first city to enact sanitary isolation rules in the fourteenth century. But beyond the historical information, the reasons for the (cultural!!) quarantine are always impressed in its name. In the combination of Arché-Téchne. We have to go back millennia, to Vitruvius, to find something constitutive, essential, in Architecture. In fact, the Roman theorist was the first to introduce the fundamental question of the meaning that belongs to our (mistreated) discipline: the signifier and the meaning. In a little while I will explain the reason on this premise of mine. But I would just like to add now that we should not be surprised by the consequences of the pandemic we are suffering. The cultural disease from which architecture suffers is far older than that of our virus. And we should have already noticed But why then are we so surprised by the virus? Beyond the real tragedy, the sanitary one, there is another equally true tragedy. The first terrifies us because it affects people’s lives. The second, however, the cultural one, does not terrify us if it affects on the forms’ life. Indeed, quite the opposite. However, the biological virus is no different from the cultural virus. And every viral epidemic requires isolation. But what it implies, what does “isolation” mean? That everything cannot lose its limits. Without own limit it becomes monstrous. The man can neither live nor survive without form. Here, the virus, of whatever nature it is, destroys forms in the formless. It applies to people’s lives as well as to the things’ life. The formless becomes the monstrous. World, nature, man, are forms. Form is the basis of all life. Returning now to the word Architecture, to its binomial, arché-téchne, we can immediately affirm that our discipline, for at least a century, has been in the domain of technical-scientific knowledge. It means that his name has been “halved”. Reduced in half, to the only ambit of the téchne. But in this way architecture has lost its limit: arché. And what a limit! If in Vitruvius the relationship between arché and téchne is between significant and meaning, we can now replace them with a pair of synonyms more understandable for our time: indominable and dominable. The form of architecture was created by contrast between indominable and dominable. While the technique alone has opened up to the formless. Isolating architecture in quarantine means returning the limit to its place. Return in tension the extremes. The form of architecture is convergence between indominable and dominable. Technique (digital-virtual) has globalized the world. While the form is the cultural virus, the
Credo che la nostra disciplina, Architettura, dovrebbe rimanere sempre in “quarantena”. Tra l’altro, la prima città ad emanare regole di isolamento sanitario fu proprio Venezia nel 1300. Ma al di là della notizia storica, le ragioni della quarantena (culturale!!) sono impresse da sempre nel suo stesso nome. Nel binomio Arché-Téchne. Bisogna tornare indietro di millenni, a Vitruvio, per trovare qualcosa di costitutivo, di essenziale, in Architettura. Infatti fu il teorico romano il primo ad introdurre la questione fondamentale del senso che appartiene alla nostra (bistrattata) disciplina: il significante e il significato. Tra poco spiegherò il perché di questa mia premessa. Ma vorrei solo aggiungere ora che non dovremmo però meravigliarci delle conseguenze provocate dalla pandemia che stiamo subendo. La malattia culturale di cui soffre architettura ha un’età ben maggiore rispetto a quella del nostro virus. E avremmo dovuto accorgercene da tempo. Ma perché allora siamo così sorpresi dal virus? Al di là della tragedia vera, quella sanitaria, c’è un’altra tragedia altrettanto vera. La prima ci terrorizza perché colpisce la vita delle persone. La seconda, invece, quella culturale, non ci terrorizza se incide sulla vita delle forme. Anzi, tutt’altro. Il virus biologico non è però diverso dal virus culturale. E ogni epidemia virale richiede l’isolamento. Ma cosa implica, cosa vuol dire “isolamento”? Che ogni cosa non può perdere i propri limiti. Senza il proprio limite la cosa diventa mostruosa. L’uomo senza forma non può né vivere né sopravvivere. Ecco, il virus, di qualsiasi natura esso sia, distrugge le forme nell’informe. Vale per la vita delle persone come per la vita delle cose. L’informe diventa il mostruoso. Mondo, natura, uomo, sono forme. La forma è alla base di ogni vita. Tornando ora alla parola Architettura, al suo binomio, arché-téchne, possiamo subito affermare che la nostra disciplina, da almeno un secolo, è nel dominio dei saperi tecnico-scientifici. Vuol dire che il suo nome è stato “dimezzato”. Ridotto alla metà, all’unico ambito della téchne. Ma in questo modo architettura ha perso il suo limite: arché. E che limite! Se in Vitruvio la relazione tra arché e téchne è tra significante e significato, possiamo ora sostituirli con una coppia di sinonimi più comprensibile per il nostro tempo: indominabile e dominabile. La forma di architettura nasce per contrasto tra indominabili e dominabili. Mentre la tecnica, da sola, ha aperto all’informe. Isolare architettura in quarantena, vuol proprio dire riportare il limite al suo posto. Rimettere in tensione gli estremi. La forma di Architettura è convergenza tra indominabile e dominabile. La tecnica (digitale-virtuale) ha globalizzato il mondo. Mentre l’informe è il virus culturale, la malattia pandemica dei nostri linguaggi. Purtroppo, l’informe delle periferie e delle megalopoli non è altro che l’immagine evidente (ce ne siamo accorti?) della prepotenza dissolutiva dei saperi tecnici. Le periferie e le immense distese costruite, non sono città. Sono agglomerati che attendono il loro riscatto, la cura (da cultura!) solo se architettura tornerà da “tettura” ad essere “architettura”. Tutto questo richiede impegno e responsabilità in una nuova cultura da parte dell’architetto. Anche perché sarà difficilissimo abbandonare la fede (perché si tratta di fede!) spensierata nell’attuale mondo acritico e irresponsabile del razionalismo scientifico.
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Architecture quarantine
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pandemic disease of our languages. Unfortunately, the shapeless of suburbs and megacities are nothing more than the obvious image (did we notice it?) of the dissolutive arrogance of technical knowledge. The suburbs and the immense expanses built are not cities. They are agglomerations that await for their redemption, the cure (from cultura!) only if architecture will return from “tecture” to being “architecture”. All this requires, by the architect, commitment and responsibility in a new culture. Also because it will be very difficult to abandon the faith (because it is about faith!) carefree in the current uncritical and irresponsible world of scientific rationalism.
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Fig. 1 - Foto del Teatro di Danzica inserito all’interno del tessuto urbano; foto di Matteo Piazza, Mi. Picture showing the Danzica Theater within the urban fabric; photo by Matteo Piazza, Mi.
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urbanform and design Poundbury rivisitata
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Urban Morphology Research Group, University of Birmingham. E-mail: ivor.samuels@googlemail.com
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Poundbury is an urban extension of Dorchester, a small country town of 20,000 people in the south of England, which has its origins as a Roman settlement. The plan was commissioned from Leon Krier by the Prince of Wales (POW) in 1988 and building started in 1993. It now houses 3,800 people and 2,300 work there. It is intended to expand to around 5,800 people by 2025. The POW commissioned the design because the land owner and developer of the 160 hectares is the Duchy of Cornwall, a private estate established in 1337 by King Edward lll to provide an income for his son and heir. The estate now provides an income for the current Duke of Cornwall (the POW), the current heir to the British throne. Poundbury is part of the property of the Duchy which covers 52,000 hectares of land in parcels across all of England (Duchy of Cornwall 2019). In his role as manager of the estates of the Duchy, Prince Charles has been able to realise his ideas in a rural corner of England of how towns should be planned which he had set out in his book A vision of Britain (1989). He is notorious for his rejection of modern architecture summed up by his speech at the 150th anniversary of the Royal Institute of British Architects in 1984, where he attacked modern architecture and modern architects because they “have consistently ignored the feelings and wishes of the mass of ordinary people” and that they “tend to design houses for the approval of fellow architects and critics” (POW, 1984). A discussion of the first phase of Poundbury was included in the Anglo-American postscript to the English translation of Formes urbaines: de l’ilot a la barre (Castex et al 1977). It was one example of a return to the use of streets and urban blocks as manifest by the development of inter alia New Urbanism in the United States (Panerai et al 2004). The development was clearly a reinterpretation of the traditional forms of the local vernacular with a legible variety of buildings. Using local materials and building forms, the layout is very clear with most houses having doors opening directly off the narrow streets. It is also notable for the way social housing is mixed with and indistinguishable from those units sold on the open market. Local facilities were also incorporated into the street network as part of the attempt to make a functioning local community. However, the traditional streets did not have to accommodate motor cars and at Poundbury these are parked in back courts. Surrounded by garden walls, these publically accessible spaces are not overlooked and often without proper street lighting. Although rear parking courts were to be adopted in many subsequent housing developments in the United Kingdom, they
Poundbury è un’estensione urbana di Dorchester, piccola città di campagna di 20.000 abitanti nel sud dell’Inghilterra che ha avuto origine da un insediamento romano. Il piano fu commissionato a Leon Krier dal Principe di Galles (POW) nel 1988 e la costruzione ebbe inizio nel 1993. Attualmente la città ospita 3.800 abitanti (di cui 2.300 lavorano in loco) e prevede un’espansione fino a circa 5.800 abitanti entro il 2025. Il POW ha commissionato il progetto perché il proprietario del terreno nonché l’investitore sui 160 ettari di terreno era il Ducato di Cornovaglia, una proprietà privata fondata nel 1337 dal re Edoardo per provvedere un reddito a suo figlio ed erede. La proprietà attualmente fornisce un reddito per l’attuale Duke of Cornwall (il POW) ed erede al trono britannico. Poundbury fa parte della proprietà del Ducato che copre 52.000 ettari di terreno suddiviso in parcelle in tutta l’Inghilterra (Ducato della Cornovaglia 2019). Nel suo ruolo di gestore delle proprietà del ducato, il principe Carlo è stato in grado di realizzare le sue idee in un angolo rurale dell’Inghilterra su come dovrebbero essere pianificate le città che aveva indicato nel suo libro A vision of Britain (1989). Egli è noto per il suo rifiuto dell’architettura moderna: un rifiuto riassunto dal discorso che egli tenne in occasione del 150° anniversario del Royal Institute of British Architects nel 1984. In questa sede aveva attaccato l’architettura moderna e gli architetti moderni, perché “hanno costantemente ignorato i sentimenti e i desideri della massa di gente comune” e “tendono a progettare case per l’approvazione di colleghi architetti e critici” (POW, 1984). Una discussione sulla prima fase di Poundbury fu inclusa nel post scritto anglo-americano della traduzione inglese di Formes urbaines: de l’ilot a la barre (Castex et al., 1977). Si trattava di un esempio di ritorno all’utilizzo di strade e isolati urbani manifestato dallo sviluppo tra l’altro del New Urbanism negli Stati Uniti (Panerai et al., 2004). L’intervento è stato chiaramente una reinterpretazione delle forme tradizionali del vernacolo locale con una leggibile varietà di edifici. Attraverso l’utilizzo di materiali e forme costruttive locali, l’impianto è molto chiaro, con la maggior parte delle case aventi accesso da strade di ridotte dimensioni. È anche notevole per il modo in cui l’edilizia sociale si mescola, risultando indistinguibile, da quelle unità vendute su mercato aperto. Anche le strutture dei servizi sono state incorporate nella rete stradale come parte del tentativo di creare una comunità locale attiva. Tuttavia, le strade tradizionali non dovevano ospitare automobili che, a Poundbury, risultano posteggiate nei cortili posteriori. Circondati da mura, questi spazi sono accessibili al pubblico, privi di sorveglianza e spesso senza un’adeguata illuminazione. Anche se i parcheggi posteriori furono adottati in molti successivi sviluppi abitativi nel Regno Unito, sono stati criticati per la mancanza di sicurezza. Inoltre, per via dei parcheggi, gli ingressi posteriori alle abitazioni sono divenuti importanti quanto gli ingressi principali sulle strade. Le finestre tradizionali, relativamente di piccole dimensioni, sono state adottate anche da speculatori edilizi che le hanno considerate vantaggiose, in termini economici, al fine di garantire buone prestazioni termiche degli edifici. Data la scala modesta e il chiaro legame con la tradizione locale della prima fase, uno sguardo alle fasi più recenti di Poundbury si rivela sorprendente. Tra gli edifici più tardi, specialmente le case ad appartamenti attorno a Queen
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Poundbury revisited
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Fig. 1 - Queen Mother Square al centro delle ultime fasi di Poundbury. La sua statua è sulla destra. Queen Mother Square at the centre of the latest phases of Poundbury. Her statue is on the right.
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Mother Square, tra queste in modo particolare il The Royal Pavilion, sembrerebbero più adatte alla Ringstrasse di Vienna che alla piazza dello shopping di una piccola città di provincia inglese. Questa piazza offre un parcheggio per un supermercato inglobato in uno degli edifici perimetrali. Mentre questo è ammirevole rispetto al solito supermercato ospitato in un edificio indipendente a un piano con pareti laterali svuotate, il parcheggio in Queen Mothers Square sembra sovradimensionato per il numero delle auto parcheggiate a causa dell’assenza di stalli di parcheggio sulle strade. Il Principe di Galles, infatti, non ama i segnali stradali perché interferiscono con l’estetica del luogo e per questo motivo se ne trovano pochissimi in tutta Poundbury. L’assenza di segni sulle strade o di segnali stradali rendono agevole il parcheggio ma al contempo permettono ai veicoli di raggiungere alte velocità. Al fine di superare il problema del parcheggio sul retro, menzionato in precedenza, molti cortili incorporano una o due case al fine di garantire un certo grado di sorveglianza. Queste abitazioni, senza apertura diretta sulla strada, danno una sensazione di isolamento delle famiglie dalla comunità della strada. Alcune costruzioni particolari costituiscono i landmark del quartiere, secondo le tradizioni locali o quelle dell’associazione con immagini che informano l’osservatore della funzione degli edifici: è discutibile per esempio il magazzino dei tappeti e la stazione dei pompieri. Altre curiosità degne di nota sono i corpi di fabbrica di edilizia plurifamiliare dove, sebbene gli accessi sono posti nella parte posteriore, i fronti su strada presentano delle porte finte. In tutta Poundbury, al fine di mantenere una qualità quasi scenografica, ai proprietari di case sono imposte regole rigorose. Queste includono, tra le altre restrizioni, l’impossibilità “senza il consenso della sua Altezza Reale...di
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have been criticised for a lack of security. Also, because of the car parking arrangement the rear entrances to the dwellings became just as important as the intended main entrances on the streets. The traditional, relatively small windows have also been copied by speculative housing developers who use them as a justification to adopt small windows because it is cheaper to achieve a given thermal performance with solid walls than with windows. Given the modest scale and clear link to a local tradition of the first phase, a visit to the more recent phases of Poundbury proves surprising. The later buildings especially those around Queen Mother Square where the surrounding apartment blocks, especially the one named The Royal Pavilion, would be more at home on the Vienna Ringstrasse than the shopping square of a small town in the English provinces. This Square provides car parking for a supermarket buried in one of the enclosing buildings. While this is admirable in comparison with the usual supermarket housed in a free-standing single storey building with blank side walls, the parking space in Queen Mothers Square seems over sized for the number of cars accommodated because there is no indication on the road surface as to where cars should be parked. This is because the Prince of Wales does not like road signs since they interfere with the aesthetics of the place therefore there are very few throughout Poundbury. The absence of markings on the
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Fig. 2 - Quartier generale dei vigili del fuoco di Poundbury. Poundbury Fire Service Headquarters.
dipingere o decorare l’esterno della proprietà se non nello stesso colore o colori della proprietà precedente” (Poundbury Manco, 2020). Questa restrizione, che di fatto impedisce ai proprietari di personalizzare le proprie abitazioni, sembra oltretutto contraddire la richiesta che si pone all’architettura di rispondere ai bisogni della gente comune come indicato nel discorso cui si è accennato. Forse sarebbe opportuno che un’agenzia “pseudo feudale” si occupasse dello sviluppo di Poundbury. Sarebbe, proprio in questo momento, un fatto straordinariamente simbolico delle condizioni del Regno Unito: tornare a un passato immaginato che non è mai esistito. Forse dovrebbe essere ribattezzato Brexitbury o Johnsonstadt come Stalinstadt (ora Eisenhuttenstadt) in Germania o Sztalinvaros (ora Dunaujvaros) in Ungheria.
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roads or road signs makes parking very easy but it also allows vehicles to drive too fast. In order to overcome the problem of rear court parking, noted above many courtyards now incorporate one or two houses in order to give some degree of surveillance. These dwellings, with no direct opening to the street system, must give a feeling of isolation from the community of the street to the families living in them. There are a number of feature buildings which act as landmarks but their derivation from local traditions or association with images which inform the observer of a buildings function, must be questioned e.g. the carpet warehouse and fire engine station. Other noteworthy curiosities are apartment blocks where the entrances are around the back but the illusion of a normal street facade is retained by the use of fake doors. In order to retain its almost stage set qualities, throughout Poundbury rules are strictly imposed on the house owners. These include, among other restrictions, that they cannot “without the consent of his Royal Highness... paint or decorate the exterior of the Property otherwise than in the same colour or colours as the Property was previously painted” (Poundbury Manco, 2020). This seems to be an unnecessarily onerous restriction on the home owners ability to personalises their dwellings and it appears to contradict the call for architecture to respond to the needs of ordinary people as laid out in the speech referred to above.
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Fig. 3 - Le “mura della città” lungo il bordo di Poundbury. The “town wall” along the edge of Poundbury.
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Fig. 4 - Pianta di Poundbury. Poundbury plan.
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Riferimenti bibliografici
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Ivor Samuels | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
Perhaps it is appropriate that a pseudo feudal agency should be developing Poundbury since it feels remarkably symbolic of the United Kingdom just now i.e. going back to an imagined past which never existed. Perhaps it should be renamed as Brexitbury or even Johnsonstadt like Stalinstadt (now Eisenhuttenstadt) in Germany or Sztalinvaros (now Dunaujvaros) in Hungary.
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urbanform and design Esperienze SDS: una mostra e un libro su
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Giuseppe Arcidiacono
dArTe Dipartimento di Architettura e Territorio, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria E-mail: giuseppe.arcidiacono@unirc.it
Bruno Messina, nella introduzione al volume della collana Esperienze SDS: Livio Vacchini. La struttura come testo costruttivo – a cura di Fabio Guarrera, LetteraVentidue, Siracusa 2019 – sintetizza l’intera partita (a scacchi, sarei tentato di dire) di Vacchini con l’Architettura, in tre mosse che sono: la tensione verso l’assoluto, il carattere atemporale che ne consegue per l’opera, la modalità astratta che caratterizza il disegno e la costruzione di ogni sua fabbrica. Su questi tre punti si concentrano, e si dipanano, le interessanti riflessioni dei numerosi saggi che compongono il libro. Ma procediamo con ordine, partendo dalla prima questione: la radicale poetica, che permette di «perseguire accanitamente» – come ammette lo stesso Vacchini – «un’immagine perfetta» (Messina, 2019); rivelando dunque la cifra di un’architettura come aspirazione e desiderio d’assoluto. Ora, suggerivano i Bizantini – che di assoluto se ne intendevano: bisogna vigilare affinché la tensione non si volga in “tentazione”; e indicavano una loro strada per arginare la hybris, sempre in agguato, sempre da temere (Masiero, 2019). Dunque, cosa facevano i Bizantini? Se, ad esempio, realizzavano una pianta esagona, facevano in modo che un lato risultasse più lungo o più corto degli altri; per mortificare ogni astratta perfezione geometrica, col renderla imperfetta ed umana perché solo Dio è perfetto. Si dirà: questo vale per l’ascetica arte dei Bizantini, ma non riguarda noi moderni. E invece Ernesto Francalanci ci ricorda che Maleviĉ (le cui astrazioni guardano alle icone bizantine; Argan, 1970), «commentando il suo Quadrato nero su fondo bianco, aveva dichiarato che nessun lato del quadrato era proprio “regolare”, e ciò per impedire che fosse concepito come un assoluto, e con ciò dimostrando che l’ordine altro non è che una variante e un incidente del caos» (Francalanci, 2019). Dunque, tanto per i Bizantini quanto per Maleviĉ, proprio dall’imperfezione delle cose umane, più forte può risaltare la ricerca di una perfezione: che resta tuttavia per sua natura irraggiungibile. Il secondo punto che si individua, nelle opere di Vacchini, è la ricerca di un carattere atemporale dell’architettura: la ricerca – spiega Masiero – di una «oggettività del bello che si misura con il senza tempo e con regole assolute» (Masiero, 2019); ma questo – mi permetto di far notare – è qualcosa che attiene soltanto ai capolavori: e quanti possono essere? Dodici, rispondeva Vacchini (Vacchini, 2007); tutt’al più tredici, se con Fabrizio Foti (Foti, 2019) vi aggiungiamo la Casa a Paros dello stesso Vacchini. Ma il nostro lavoro non serve tanto a produrre capolavori – anche se fortunatamente qualcuno, come Vacchini, ci riesce di tanto in tanto –; il nostro lavoro serve ad abitare, suggerisce Zaira Dato (Dato, 2019) citando Norberg Schultz (Norberg Schultz, 1984): serve a fare di un luogo di natura uno spazio umano. Infatti, ci dobbiamo chiedere: si può forse abitare un capolavoro? O più semplicemente: si può abitare “con” un capolavoro? Certo Leonardo poteva tenersi come capezzale quella vampiresca apparizione che è la Gioconda; e Rembrandt forse avrà tenuto in sala da pranzo il suo quadro del Bue squartato; quanto a me – avrebbe esclamato Le Corbusier, che pure di capolavori se ne intendeva – preferisco avere un cosciotto di bue nel piatto... Insomma per
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Esperienze SDS: an exhibition and a book on Livio Vacchini.
Bruno Messina, in his introduction to the volume Livio Vacchini. La struttura come testo costruttivo included in the series Esperienze SDS – edited by Fabio Guarrera, LetteraVentidue, Siracusa (Italy) 2019 – synthesizes the whole match (I would be tempted to call it a chess match) between Vacchini and Architecture, in three moves which are: the yearning for the absolute, the resulting timeless nature of the work, and the abstract mode characterizing the drawing and the crafting of the latter’s individual parts. The engaging reflections dealt with in the numerous essays featured by the book originate from and focus on these three issues. Yet, we will proceed in an orderly fashion by starting from the first question: the radical aesthetics spurring the “tenacious struggle” – as in Vacchini’s admission – for a “perfect image” (Messina, 2019); therefore, the real essence of architecture as aspiration and desire for absolute is revealed. At this point, the Byzantines – who were definitely acquainted with the absolute – suggested making sure that tension does not turn into temptation and pointed at a way to debase hybris, which is always in ambush, always to fear (Masiero, 2019). Thus, what did the Byzantines do? When, for instance, realizing a hexagonal plan they built one side so that it was longer or shorter than the other ones to smother any aspiration to abstract geometrical perfection by making it imperfect and human because only God is perfect. It will be remarked that it applies to ascetic Byzantine art without affecting us modern at all. On the contrary Ernesto Francalanci reminds us that Maleviĉ (whose abstractions are inspired by Bizantine icons; Argan, 1970), «commenting on his Black Square on a White Background stated that no side of the square was regular so that it could not be deemed as an absolute entity and so demonstrating that order is just a variant and an accident of chaos» (Francalanci, 2019). Therefore, so much for the Byzantines as for Maleviĉ, the imperfection of human things can emphasize the search for perfection which is intrinsically out of reach. The second most important theme in Vacchini’s works is the search for the timelessness of architecture: the search – as Masiero explains – for “the objectivity of beauty facing the timelessness and absoluteness of rules (Masiero, 2019); yet this – I dare object – is something that belongs only to masterpieces: how many masterpieces can exist? Twelve in Vacchini’s words (Vacchini, 2019); thirteen at most if, as in Fabrizio Foti’s view (Foti, 2019), we add the House in Paros by
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Fig. 1 - La mostra “La struttura come testo costruttivo. Il caso Vacchini Gmür” a cura di Roberto Masiero e Fabio Guarrera nella sala “Salvatore Di Pasquale” presso la Struttura Didattica Speciale di Architettura di Siracusa. The exhibition “La struttura come testo costruttivo. Il caso Vacchini Gmür” curated by Roberto Masiero e Fabio Guarrera. “Salvatore Di Pasquale” Hall, S.D.S. Architecture, Siracusa.
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abitare con un capolavoro, e tanto più per abitare un capolavoro, molti sono i chiamati pochi gli eletti: forse dodici o tredici, quanti i capolavori stessi. Questo, tuttavia, non significa che non ne abbiamo bisogno: perché ogni capolavoro, «ogni vera opera per essere tale dovrà uccidere tutte le altre» (Masiero, 2019); facendoci affacciare su un altrove sconosciuto, su un vuoto della conoscenza. Ma noi abbiamo bisogno di questo vuoto, per riempirlo dei nostri sogni, dei nostri progetti; o anche solo dei nostri tradimenti – direbbe Agostino De Rosa (De Rosa, 2019) –. Per farla breve, allora, ogni capolavoro, ogni “vera opera”, magari non dovrà uccidere tutte le altre; ma certamente dovrà “ricollocarle” (Eliot, 1919), facendo riconoscere la distanza da essa di tutte le opere precedenti, una distanza che è la nostra distanza da quello sfondamento, da quel vuoto sconosciuto, da quel sublime. E allora torna una giusta domanda posta da Zaira Dato: si può «abitare il Sublime»? Alla quale ella porge una risposta aperta: «non si può affermare di essere a casa nel Sublime, ma abitare il Sublime, sì» (Dato, 2019): si può. Io rispondo di no, che non si può; perlomeno io non ci riesco. Chi può abitare la sala Rotonda di Palladio, se non gli dei che si sporgono dagli affreschi e dalla cupola; o quei fantasmi di eros e thanatos che Losey ha accalcato intorno al Don Giovanni mozartiano in quella vuota scenografia? Quanto ai veri abitanti (che ancora ci sono) essi sono stati scacciati da quel centro della Rotonda, per non finirne schiacciati; e si limitano ad abitare – coi loro mobili anni cinquanta – le stanze che lo delimitano. Allo stesso modo, la Maison Savoye non è stata mai abitata, perché non si può abitare un manifesto; per non dire della Fanworth House dove non puoi startene in mutande, nemmeno a casa tua… Insomma, sono tutti capolavori che aspirano a fare a meno dei loro abitanti,
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Vacchini himself. Nevertheless our work does not serve so much to produce masterpieces – even if luckily someone like Vacchini sometimes succeeds in doing it – as rather to create dwellings like Zaira Dato (Dato, 2019) points out quoting Norberg Schultz (Norberg Schultz, 2019): it serves to transform a natural space into a human one. In fact, we should wonder: can a masterpiece be a dwelling? Or more simply: is it possible to dwell with a masterpiece? Naturally Leonardo could keep at his bedside the mesmerizing vision of Gioconda; and maybe in Rembrandt’s dining room his painting The Slaughtered Ox hung; Le Corbusier – who was in fact familiar with masterpieces – would have exclaimed ‘I had rather a beef shank in my plate… In a nutshell, to dwell with a masterpiece, and all the more to dwell in a masterpiece, many are called but few are chosen: maybe twelve or thirteen, as many as the masterpieces themselves. Notwithstanding, this does not imply that we do not need them because each masterpiece, “each true work” will have to murder all the other ones to be as it is (Masiero, 2019) unveiling before our eyes an unknown place and a void of knowledge. Yet, we need this void to fill it with our dreams and projects or just with our betrayals – as Agostino De Rosa (De Rosa, 2019) would point out. To make a long story short, perhaps each masterpiece, each “true work”, will not have to murder the other ones; undoubtedly it will have to
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Fig. 2 - Termovalorizzatore di Giubiasco (foto Studio Vacchini). Waste-to-energy plant in Giubiasco (photo by Studio Vacchini).
che hanno la vocazione a restare vuoti, privi di funzioni; perché sono “macchine celibi”: come ogni vera opera d’arte. Una condizione questa che appare evitare ogni riferimento a una utilitas immediata, per far coincidere la venustas con la firmitas, la bellezza dell’architettura col suo essere ben costruita; massimamente se costruita secondo «regole compositive universali tali da far percepire una condizione “senza tempo”» (Masiero, 2019). Tuttavia questa aspirazione di Vacchini, ancorché legittima, non sfugge alla ineluttabilità – per ogni architettura e per ciascuno di noi – di essere sempre dentro il tempo: un tempo che è sempre e solo il nostro tempo. Per intenderci: l’essere “senza tempo”, mi sembra la stessa questione – solo ribaltata – di quanti vogliono a tutti i costi essere “moderni”, senza accorgersi che noi siamo comunque moderni, perché siamo contemporanei di noi stessi. Allo stesso modo il discorso può valere per quegli architetti rinascimentali che volevano essere scambiati per antichi, ma restano artisti del loro tempo; come vale per Loos che – ci ricorda Luigi Pellegrino (Pellegrino, 2019) – per costruire la Casa sulla Michaelerplatz “al modo dei Romani” adopera il cemento armato. Insomma, qualsiasi astrazione atemporale non può che essere declinata che secondo la cifra del tempo nel quale viviamo. Per questo la Casa a Paros di Vacchini resta una casa del nostro tempo; anche se – come osserva ancora Pellegrino – la sua composizione/costruzione «per via di levare» (Pellegrino, 2019) finisce per sovrapporla al simulacro archeologico di se stessa. La terza questione è la scelta di Vacchini a favore di una tecnica di rappresentazione che attraverso l’astrazione vuole ricercare un codice impersonale e generale, ma si rivela al contrario una tecnica personalissima, al sommo grado
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outclass them (Eliot, 1919), letting us recognize the distance separating it from the previous ones’, that same distance we keep from that hollow, from that unknown void, from that sublime. Then this prompts Zaira Dato’s question: can “the Sublime be dwelled”? She gives an open answer: “one cannot say they are in the Sublime, actually they can say they are dwelling in the Sublime” (Dato, 2019). I say no, it is not possible; I fail to do it as far as I am concerned. Who can dwell in the hall of Palladio’s Villa Rotunda but the gods leaning out from the frescoes and the dome? Or but those ghosts of eros and thanatos crowding round Mozart’s Don Giovanni in Losey’s void stage? As for the real dwellers (who are still in) they were thrown out from the centre of the Rotunda not to be oppressed and are content with staying – with their Fiftiesstyled furniture – in the rooms bordering it. Similarly, nobody lived in the Maison Savoye because it is not possible to live in a manifesto; not to mention Fanworth House whose residents paradoxically cannot hang around in their underpants… In conclusion all these masterpieces seem to keep off their dwellers to remain void and useless; they are “bachelor machines” like all true art works. Each practical utilitas seems to dissolve to leave room for a combination of venustas and firmitas, that is the beauty of architecture and its sound construction; the latter results from the application of “universal compositive rules conceived in such a way that a timeless aura (Masiero, 2019) is provided. Yet this Vacchini’s aspiration in spite of being legitimate, does not escape inevitability – for each architectural work and for each of us – anyway in the course of time which is always and solely ours. To be clear timelessness resembles – reversedly – the paradox of the ones who strive to be modern without realizing that we are modern anyway because we are contemporary of ourselves. Similarly some Renaissance architects wanted to imitate ancient ones in spite of remaining artist of their time; as well as Loos who – like Luigi Pellegrino (Pellegrino, 2019) reminds us – uses reinforced concrete to build the House of Michaelerplatz “in the ancient Romans fashion”. All in all any timeless abstraction inevitably is imbued with the spirit of its time. That is why Vacchini’s House in Paros is however a modern house even if – as Pellegrino points out – due to its “by-taking-away (Pellegrino, 2019) composition/construction it seems to be shaped onto the archeological remain of itself. The third issue is Vacchini’s choice of a representation technique aimed at searching for an impersonal and generic code by means of abstraction, which on the contrary leads to the creation of a work whose stylistic features are absolutely peculiar and recognizable. Nothing to be wondered at if one flips through any antique treatise ambitiously aimed at codifying classical language both as a discipline and as a universally spoken and comprehended code; in the end we find out that they are officially “written by” Serlio, Vignola, Palladio … and so on. Therefore, – as Moccia underlines – Livio Vacchini “devises a method of representation” to simply “express his opinion on architecture” and thanks to abstraction he offered an “antidote to the formalism of the time of image” (Moccia, 2019), a branded image as a prototype whose interchangeable and diversified products are paradoxically standardized.
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Fig. 3 - Palestra Windisch a Mülimatt (foto di A. Kapellos). Windisch gym in Mülimatt (photo by A. Kapellos).
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Fig. 4 - Ferriera di Locarno (foto di A. Chemollo). Ferriera in Locarno (photo by A. Chemollo).
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“linguaggio d’autore”. D’altra parte, perché meravigliarsi? Basta sfogliare un qualsiasi trattato, di quelli antichi che pretendevano di codificare il linguaggio classico in senso disciplinare e universale, a intendimento e ad uso di tutti; e ci accorgiamo che si confermano come testi autografi “di”: il trattato di Serlio, di Vignola, di Palladio… Dunque – sottolinea Moccia – «mettendo a punto un metodo di rappresentazione» Livio Vacchini semplicemente «esprimeva un punto di vista sull’architettura»; e porgeva attraverso l’astrazione un «antidoto al formalismo nell’epoca del mondo dell’immagine» (Moccia, 2019), dell’immagine firmata che, come sappiamo, sforna “prodotti” tutti diversi e intercambiabili, e perciò paradossalmente tutti uguali. Col suo linguaggio astratto Vacchini si propone, a mio avviso, di rinnovare l’aspirazione che meglio definiva la modernità italiana: la volontà di arrivare a una bellezza razionale, oggettiva e per questo “anonima”, che riuscisse a separarsi dall’artefice per essere di tutti. Ma sono forse anonime le architetture di Pagano e Persico? Così è altrettanto originale l’architettura e la rappresentazione che ne dà Vacchini, recuperando proprio dal Razionalismo italiano il corto circuito tra modernità e arcaicità sovrastorica. Questa è dunque l’aura di originalità, che Fabio Guarrera (Guarrera, 2019), riconosce al linguaggio dell’architetto ticinese: il quale si lasciò alle spalle le strettoie del modello tipologico utilizzato dalla Tendenza, corrente d’architettura ampiamente diffusa nei territori e nei tempi in cui visse Vacchini; di quella Tendenza conservando, tuttavia, la riflessione sulla rappresentazione, che supera il dato meramente tecnico-esecutivo e porge il disegno d’architettura sul piano della conoscenza, come produzione autonoma d’immagini per pensare.
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Vacchini’s abstract language is meant to renovate the main aspiration of Italian modernity: the intention to reach a rational beauty, objective and anonymous, capable of separating itself from its creator to belong to anybody. But are by chance Pagano’s and Persico’s architectures anonymous? In the same way Vacchini provides an original architecture and representation drawing from Italian Rationalism the short circuit between modernity and superhistorical archaism. This is the aura of originality that Fabio Guarrera (Guarrera, 2019) recognizes in the aesthetics of the architect from Ticino who abandons the constraints imposed by the typological model adopted by the Tendency which was very popular where and when Vacchini lived; yet, the reflection on representation beyond the mere technical-implementation detail, which interprets architectural drawing as a stimulus to knowledge and an autonomous production of images to reflect, has to be maintained. Vacchini’s way of representing architecture is original also thanks to the several figurative contributions drawn by artistic currents of the contemporary vanguard extensively dealt with in Dotto’s and De Rosa’s essays (Dotto, 2019; De Rosa, 2019). In a nutshell it is a complex work – by some sort of randonneur (Francalanci, 2019) – compared to the apparent minimalism: a complexity synthesized in the last architectural work, the House
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Fig. 5 - Casa a Paros (foto di R. Masiero). House in Paros (photo by R. Masiero).
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Fig. 6 - Casa a Paros, la terrazza di ingresso (foto di R. Masiero). House in Paros, entrance terrace (photo by R. Masiero).
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Fig. 7 - Casa a Paros, il portico della casa e l’orizzonte marino (fotogramma tratto da “House at the Aegean sea” di S. & R. Gmür Architekten). House in Paros, the portico and the see horizon (frame from “House at the Aegean sea” by S. & R. Gmür Architekten).
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Un modo di rappresentare l’architettura, questo di Vacchini, che rinforza la sua originalità attraverso i molti contributi figurativi rielaborati da correnti artistiche dell’avanguardia contemporanea, i quali sono ampiamente documentati nei saggi di Dotto e De Rosa (Dotto, 2019; De Rosa, 2019). Insomma un’opera complessa – da randonneur (Francalanci, 2019) – rispetto all’esibito minimalismo che a prima vista sembra caratterizzarla: una complessità che trova nell’ultima architettura, la Casa a Paros, la sua sintesi in quelle forme laconiche che a Vacchini sono congeniali (oserei dire consustanziali). Veniamo dunque alla chiusura del volume, con la Casa a Paros; a proposito della quale Francalanci esordisce affermando che «qualsiasi opera giace nel pensiero», come a sottolineare «l’intero processo della teoria che ha prodotto l’opera» (Francalanci, 2019). Ma, se intorno a questo punto sarei tentato di avanzare più di una riserva, perché ritengo che nessuna buona teoria potrà salvarci da un cattivo progetto; poi m’arrendo quando Francalanci conclude che «tale architettura […] assomiglia anche ad una strana zattera di salvataggio» (Francalanci, 2019): dopo un naufragio – aggiungo io – come la Zattera della Medusa. In altre parole, ciò che incanta (e mi incanta) di questa architettura è il suo tenere insieme due condizioni antitetiche: «rifondare la metafisica» alla luce del razionale apollineo di Hegel, e allo stesso tempo «imparare a fare surf sulle onde dell’immane crisi» (Masiero, 2019) con Nietzsche e il suo Dionisos. Infatti – continua Francalanci – «l’incidente del “selvaggio”, della dismisura e della caoticità dionisiaca» compare nel giardino incolto «a fronte dell’abbagliante purezza di Apollo» (Francalanci, 2019) che informa tutta la casa. Ora, l’incontro con un dio è sempre qualcosa di «tremendo» (Masiero, 2019), che uccide chi incontra tanta bellezza; perché – come dice Adorno – ogni vera
Fig. 8 - Casa a Paros, il “kouros” di Livio Bernasconi costruito dopo la morte di Livio Vacchini (fotogramma tratto da “House at the Aegean sea” di S. & R. Gmür Architekten). House in Paros, the “kouros” by Livio Bernasconi made after the death of Livio Vacchini (frame from “House at the Aegean sea” by S. & R. Gmür Architekten).
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in Paros, and more precisely in the laconic traits congenial (I daresay consubstantial) to Vacchini. Let us talk about the end of the volume and the House in Paros about which Francalanci starts saying that “any work lies in thought”, as if he highlighted “the whole theoretical process leading to the work’s creation” (Francalanci, 2019). But if it is true that I would be tempted to doubt as I think that no good theory will be able to protect us against a bad project, in the end I surrender when Francalanci concludes that “this architecture […] resembles a life raft” (Francalanci, 2019): after a shipwreck – I add – like The Raft of Medusa. In other words the enchanting (enchanting me actually) peculiarity of this architecture is the bond between two opposite intentions: “to refound metaphysics” in the light of Hegel’s rational Apollonian and simultaneously to learn to surf the waves of the overwhelming crisis” (Masiero, 2019) with Nietzsche and his Dionisos. In fact – Francalanci writes on – “the incident of the savagery, of the excess and of the Dionysian chaos” appears in a garden overrun with weeds “before the dazzling purity of Apollon” (Francalanci, 2019) mirrored by the whole house. Thus, the encounter with a god is always a “tremendous” (Masiero, 2019) experience, which kills those who experience such beauty because like in Adorno’s words – behind every work of art lies an uncommitted crime. The House in Paros, as a true work of art”, kills something: it “annihilates the difference between the interior and the exterior” (Francalanci, 2019), in Francalanci’s words; thus, I add, it mortifies the living. In fact Loos entrusts the exterior to nudity and silence while the interior preserves a sense of humanity, of too much humanity, together with the poor little rich man’s slippers (Loos, 1972) and the kitsch. On the other hand in the final essay of the volume, dealing with the House in Paros we read: “nudity of bodies, nudity of walls and void, where progressively we witness the disappearance of objects, furniture, and human figures” (Foti, 2019). The House in Paros is the thirteenth masterpiece, the true work. It is architecture. Nevertheless, in Loos’s view Architecture can only be the monument and the tomb.
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opera d’arte “uccide”. La Casa a Paros, poiché è una “vera opera”, uccide qualcosa: «fa sparire la differenza tra l’interno e l’esterno» (Francalanci, 2019), afferma Francalanci; quindi, aggiungo io, uccide l’abitare. Loos infatti consegna l’esterno alla nudità e al silenzio; ma lascia che l’interno sia il luogo dell’umano, del troppo umano, anche delle pantofole del povero ricco (Loos, 1900), anche del kitsch. Per contro, nel saggio che conclude il volume, della Casa a Paros leggiamo: «nudità dei corpi, nudità delle pareti e del vuoto, dove progressivamente assistiamo alla sparizione degli oggetti, dei mobili, delle figure umane» (Foti, 2019). La Casa a Paros è il tredicesimo capolavoro, è vera opera, è architettura. Ma Architettura – secondo Loos – può essere soltanto il monumento e la tomba.
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Fig. 9 - Casa a Paros (modello di studio). House in Paros (study sketch).
Riferimenti bibliografici
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Giuseppe Arcidiacono | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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urbanform and design Architettura, Globalizzazione e
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Marco Maretto
Department of Engineering and Architecture, University of Parma, Italy E-mail: marco.maretto@unipr.it
L’emergenza di questi mesi ha costretto il mondo a forzare situazioni tradizionalmente resilienti al cambiamento, a crearne di nuove, a rompere tutta una serie di assetti consolidati. Lo ha fatto per necessità. Ora però, questa necessità ha disvelato, forse per la prima volta, la reale possibilità di cambiare il modo di vivere e di lavorare delle persone. Ha dimostrato che grazie alla tecnologia disponibile è possibile lavorare a casa propria con immensi vantaggi in termini di ore guadagnate da poter destinare al tempo libero (studi recenti calcolano un risparmio medio, per lavoratore dipendente, di circa dieci ore a settimana), allo sport, alla famiglia. Vantaggi in termini di economia domestica, vantaggi per la salute, vantaggi per l’ambiente, è su tutti i giornali del mondo il crollo drastico della curva di inquinamento, la ri-naturazione progressiva di molte aree del globo e la prima, inaspettata, riduzione del buco dell’Ozono e così via. Ma i vantaggi non mancano sul piano aziendale. Il risparmio che ogni azienda avrebbe dallo smart working è ormai quantificato, calcolando, addirittura, un aumento di produttività, per lavoratore di almeno il 15% (PoliMi, 2019) e molte società di rating immobiliare considerano lo smart working ormai parte fondamentale del modello organizzativo del lavoro (Cushman & Wahefield, 2020). Alla luce di tutto questo sono in molti, ormai, a chiedersi perché non consolidare una situazione potenzialmente positiva per il pianeta ed avviare quella rivoluzione dei modi e dei tempi della vita quotidiana (e dell’insediarsi dell’uomo sulla terra) che gli scienziati conoscevano già da tempo ma verso i quali la società civile mostrava ancora forti resistenze. D’altronde, ormai tutte le strategie dell’E-commerce vanno in questa direzione (Bransten, 2020). Dallo schermo del device alla consegna a domicilio (locker, delivering e pickup points, hub ecc.) sempre più il marketing si orienta verso strategie multi-tasking e multi-purpose in cui lo spazio pubblico urbano è il luogo dell’ibridazione dell’esperienza, tra shopping, leisure, tempo libero, servizi (Pasini, Pezzini, 2018 e Zaghi, 2018). Anzi, il concetto di simultaneità, di compresenza, di “ubiquità virtuale”, è ancora più esaltato dalle nuove tecnologie tanto da far intravedere un “ritorno” a quelle condizioni di unitarietà, di totalità non-specializzata, tipica delle società premoderne (Kurosu, 2019). Ritorno a condizioni di vita in cui i tempi e i luoghi delle attività quotidiane, non saranno più separate, ordinate, per categorie funzionali ma bensì per “valori di priorità” nella simultaneità della loro esperienza (Bauman, 2007 e 2017). La condizione esperienziale sarà continua, unitaria, totalizzante (posso fare tutto, in qualunque momento e in qualunque luogo), il modo di viverla dipenderà da quei valori prioritari che, di volta in volta, ognuno andrà attribuendogli secondo logiche dinamiche e “liquide”, dettate dalla volatilità delle esigenze, individuali e di gruppo (Baumann, 2000). È la realizzazione piena di quel “villaggio globale” coniato da McLuhan alla metà degli anni Sessanta del Novecento, con la differenza che l’attenzione si è spostata, inesorabilmente, dal mezzo al suo utente: l’uomo (McLuhan, 1964). Sul piano insediativo, questa nuova realtà non può non farci immaginare un verosimile, radicale, riassetto delle strutture territoriali e urbane. Basti pensare alla fine del fenomeno del pendolarismo (primo effetto di questa rivoluzione) per prefigurarci degli orizzonti di cambiamento inimmaginabili. Intere città
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Architecture, Globalization and Information Technology: “Back to the Future”?
The emergency of these months has forced the world to re-think situations traditionally resilient to change in order to create new ones and to break a whole body of consolidated structures. It did it out of necessity. Now, however, this need has revealed, perhaps for the first time, the real possibility of changing people’s way of living and working. It has shown that thanks to the available technologies it is possible to work at home with great advantages in terms of hours available for free time, sport etc. Advantages in terms of home economics, health benefits, advantages for the environment, the drastic collapse of the pollution curve, the progressive renaturation of many areas of the globe and the first, unexpected, reduction of the ozone hole and so on. But benefits are not lacking on a business level. Savings that every company would have from smart working is now quantified calculating an increase in productivity per worker of at least 15% (PoliMi, 2019) while many real estate consulting companies consider smart working now a fundamental part of the work organization model (Cushman & Wahefield, 2020). In light of this many wonder why not consolidate a potentially positive situation for the planet? Something that scientists have known for some time but towards which civil society still showed strong resistance. On the other hand, all E-commerce strategies now go in this direction. From the device screen to home delivery (locker, delivering and pickup points, hubs etc.), marketing is increasingly oriented towards multi-tasking and multi-purpose strategies in which the urban public space is the place where the experience is hybridized, among shopping, leisure, services etc. (Pasini, Pezzini, 2018 e Zaghi, 2018). Indeed, the concept of simultaneity, of coexistence, of “virtual ubiquity”, is even more exalted by new technologies so as to make a “return” to those conditions of unity, of non-specialized totality, typical of pre-modern societies. (Kurosu, 2019). Return to living conditions in which the times and places of daily activities will no longer be separated or ordered by functional categories but by “priority values” in the simultaneity of their experience. (Bauman, 2007 e 2017). The experiential condition will be continuous, unitary, totalizing (I can do everything, at any time and in any place), the way of living it will depend on those priority values that, from time to time, everyone will attribute according to dynamic and “liquid” logics given by the volatility of individual and group needs. (Baumann, 2000). It is
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Fig. 1 - Mumbai, treno pendolare. Mumbai, commuters.
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Fig. 2 - Los Angeles, dispersione urbana. Los Angeles, urban sprawl.
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si sono sviluppate in ossequio a quello che era diventato un vero e proprio dogma della cultura moderna (pensiamo alle sterminate periferie americane, agli “alberghi di sosta” giapponesi, ai numerosissimi insediamenti sorti intorno ai grandi anelli urbani ecc.). Oggi tutto questo appare profondamente alterato. Forse per la prima volta, dopo la scoperta del motore a scoppio, assistiamo ad un cambiamento sociale, economico, culturale e dunque insediativo così forte e repentino. L’affermarsi delle tematiche sostenibili, insieme con il diffondersi capillare della rete e dei fenomeni socio-economici e socio-culturali ad essa connessi sembrano aprire la strada al quel “ritorno al futuro” di cui scriveva Peter Buchanan alcuni anni fa (Buchanan, 1994 e 2015). Un “ritorno” che vede la scala del quotidiano prevalere su tutte le altre, che vede il ridursi radicale dei raggi quotidiani di spostamento come nuovo paradigma socio-insediativo. Se tutto questo, alla scala architettonica, presuppone l’esigenza di ripensare gli spazi dell’abitare, tornando ad includervi quegli “spazi del lavoro” che la cultura moderna aveva espulso per almeno un secolo dalla casa (la bottega, il laboratorio, lo studio sono stati per secoli parte integrante dell’abitazione), è alla scala urbana che forse assistiamo ai maggiori cambiamenti. Le istanze della sostenibilità unite con quelle dell’Information Technology portano, infatti, al ridefinirsi di quel concetto di “vicinato” che, per secoli, aveva caratterizzato tutte le città mercantili, in quanto città policentriche e “globali”, laddove gli spazi collettivi in cui vivere “collaborativamente” l’esperienza della città erano una necessità prima che una scelta. Sono questi gli spazi ove realizzare tutte quelle attività di co-working (ovviamente smart) indispensabili ai nuovi assetti lavorativi. Sono quegli spazi in cui lo stesso Co-housing (nursery, lavanderie, fitness, spazi didattici ecc.) può trovare luogo e soprattutto là dove tutte le
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the full realization of that “global village” coined by McLuhan in the mid-Sixties of the Twentieth century, with the difference that the attention has shifted now from the medium to its user: the man. (McLuhan, 1964). At the settlement level, this new reality cannot fail to imagine a radical reorganization of territorial and urban structures. Just think on the end of the commuting phenomenon (the first effect of this revolution) to prefigure unimaginable horizons of change. Today all this appears profoundly altered. Perhaps for the first time, after the discovery of the combustion engine, we are witnessing such a strong and sudden social, economic, cultural and therefore settlement change. The consolidation of sustainable issues, together with the widespread diffusion of internet and the socio-economic and socio-cultural phenomena connected to it, seem to pave the way for that “return to the future” of which Peter Buchanan wrote a few years ago. (Buchanan, 1994 and 2015). A “return” that sees the daily scale prevailing over all the others, which sees the radical reduction of the daily rays of movement as a new socio-settlement paradigm. If all this, at the architectural scale, presupposes the need to rethink the living spaces, coming to introduce once again those “work spaces” that modern culture had expelled for years from the home (the shop, the laboratory, the study have been an integral part of the house for centuries), it is on the urban scale that perhaps we are wit-
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Fig. 3 - London mews, unità di vicinato. London mews, a neighbourhood unit.
strategie base della sostenibilità (contenimento e produzione energetica, raccolta dei rifiuti e dell’acqua ecc.) possono trovare la loro applicazione concreta e efficace. (Maretto, 2020). I veri vincitori di questa lunga partita sono la tecnologia (Smart e IT) e l’ambiente, entrambe fattori che, se opportunamente interpretati, portano ad un miglioramento sensibile della vita dell’uomo. Ripensare gli spazi della casa, ridefinire radicalmente gli spazi di vicinato, reimmaginare gli spazi pubblici della città (all’insegna di quella simultaneità esperienziale di cui si è detto) e quindi una nuova attenzione ai temi del luogo (fisico e immateriale) e dell’identità (un nuovo “localismo” richiede nuovi approcci identitari), sono solo alcune delle tematiche che il nuovo assetto imposto dalla pandemia porta alla luce. Ognuna è però talmente ricca di variabili da poter prefigurare una vera e propria rivoluzione di quello “stare dell’uomo sulla terra” di Heideggeriana memoria. Su tutto, sotteso alle cause che hanno generato questa condizione (e molte delle precedenti) il tema urbano. Una società tecnologicamente evoluta non solo deve essere in grado di combattere situazioni critiche dal sapore “pre-moderno” come quella attuale, ma deve saperle prevenire. È inutile dire che, in questo quadro, in un quadro cioè di crescita urbana esponenziale e di globalizzazione sempre più spinta e concreta, il ruolo delle città diventa determinante. In altre parole, non c’è più spazio per la crescita incontrollata degli insediamenti umani sul territorio, non c’è più spazio per lo sprawl ma soprattutto, non c’è più spazio per la cosiddetta “città informale”. E questo è un altro grande capitolo su cui riflettere per il futuro. La città, infatti, così come la società dell’Information Technology, sarà la più aperta, la più liquida, la più efficiente (e dunque la più ricca) della storia dell’uomo solo se rinuncerà, a pri-
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nessing the greatest changes. Demand of sustainability combined with those of Information Technology lead, in fact, to the redefinition of the same concept of “neighborhood”. In all merchant cities, as polycentric and “global”, their collective spaces, where to live the experience of the city “collaboratively”, were a necessity before than a choice representing an interesting prodrome to the needs and aggregative forms of the contemporary city. These are the spaces where to carry out all those Co-working activities (obviously smart) which are essential for new work arrangements. These are the spaces in which the Co-housing itself (nursery, laundries, fitness, teaching spaces, etc.) can find a place and where all the basic strategies for sustainability (containment and energy production, waste and water collection, etc.) can find their effective application. (Maretto, 2020). The real winners of this long match are the Technology issues (Smart and IT) and the Environmental ones, both factors which, if properly interpreted, lead to a significant improvement in human life. Rethinking the living spaces of the house, radically redefining the neighborhood spaces, reimagining the public spaces of the city (in the name of the experiential simultaneity mentioned above) and therefore a new attention to the themes of the place (physical and immaterial) and of identity (a new “localism” requires new identity approaches), are just some of the issues that the new structure imposed by the pandemic
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Fig. 4 - Edimburgo, LochrinSquare, Co-working. Edinburgh, LochrinSquare, Co-working.
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brings to light. Underlying the causes that generated this condition (and many of the previous ones) is the urban theme. A technologically advanced society must not only be able to fight critical situations with a “pre-modern” flavor like the current one, but must be able to prevent them. It is needless to say that, in this context, in a context of exponential urban growth and increasingly driven and concrete globalization, the role of cities becomes crucial. In other words, there is no more room for the uncontrolled growth of human settlements, there is no more space for sprawl, it seems there is no more space for the so-called “informal city”. And this is another great chapter to think about for the future. The city, in fact, as well as the new Information Technology society seems to be the most open, the most liquid, the most efficient (and therefore the richest) in human history only if it renounces, a priori, to some degrees of freedom. It is a very difficult concept to admit ethically but, paradoxically, much easier to accept from an operational point of view. The idea of freedom coined at the beginning of the Modern era is likely to change its sign. Today, outside of idealisms, the concept of privacy seems to be more important than that of freedom, when we all seem willing to give up a part of our liberty in exchange for a greater economic well-being, a greater social security, health and so on. It is the definitive triumph of “daily reality” over ideology (with due respect to Dewey, Piaget and Vygotsky) where the latter is transformed into a search for better real-life scenarios and not into gnoseological presuppositions for the transformation of society. This, on an urban scale, means a renewed attention and a renewed “design” of all parts of the city, because an efficient, healthy, civil society requires adequate urban structures, capable of meeting their needs and representing their aspirations. But it means, first of all, accepting to change our idea of the city...
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ori, ad alcuni gradi di libertà. È un concetto difficilissimo da ammettere in sede etica ma, paradossalmente, molto più facile da accettare (gli eventi degli ultimi mesi ce lo confermano). L’idea di libertà coniata all’inizio dell’era Moderna e per la quale si era disposti a perdere la vita, sta cambiando verosimilmente di segno. Oggi, fuori da idealismi e demagogie, si è facilmente disponibili a cederne un po’ in cambio di un maggiore benessere economico, di una maggiore sicurezza sociale, della salute e così via. È il definitivo trionfo della “realtà quotidiana” sull’ideologia (con buona pace di Dewey, Piaget e Vygotskij) laddove quest’ultima si trasforma in ricerca di scenari migliori di vita reale e non in presupposti gnoseologici di trasformazione della società. Questo, a scala urbana, significa una rinnovata attenzione e soprattutto, un rinnovato “disegno” di tutte le parti della città, perché una società efficiente, sana, civile, richiede strutture urbane adeguate, capaci di soddisfare le proprie esigenze e rappresentare le proprie aspirazioni. Ma significa, prima di tutto, accettare di cambiare la nostra idea di città...
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urbanform and design Transizioni e trasformazioni: relazioni
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Centre of African Studies, Department of Middle Eastern Studies, University of West Bohemia E-mail: benjamin.n.vis@outlook.com
Fin dalla sua nascita, c’è sempre stata una qualche forma di associazione tra morfologia urbana e archeologia. Tuttavia, pochi studiosi di morfologia urbana possiedano un’adeguata base di conoscenze archeologiche, tanto che raramente si arriva a scambi espliciti su basi teoriche o analitiche. È bene considerare tale dato in quanto la morfologia urbana, in quanto studio dell’evoluzione storica della formazione della città nel tempo, potrebbe, per certi aspetti, essere considerata un settore dell’archeologia, disciplina specificamente concepita e qualificata per studiare lo sviluppo umano in modo diacronico. Sulla scorta di questa affermazione, il “sito archeologico” della morfologia urbana sarebbe composto dall’ambiente urbano costruito. Accanto ai caratteri e ai ritmi dell’ambiente costruito inteso nel suo sviluppo, gli obiettivi delle ricerche correlate potrebbero riguardare qualsiasi stato, elemento o aspetto particolare della forma urbana nel contesto della città e della sua tradizione di pianificazione urbana, del sistema socio-economico, culturale, ambientale, temporale. Naturalmente, questa asserzione contraddice le rispettive origini, ben note, della morfologia urbana in quanto estesa ai campi della geografia, dell’architettura, della storia. Probabilmente è corretto affermare che i morfologi urbani ritengano il loro lavoro specialistico e i loro interessi più integrati alla storia urbana e alla storia dell’architettura, piuttosto che all’archeologia. Tuttavia, il coinvolgimento dell’archeologia nello sviluppo urbano e nelle varie forme di pianificazione delle città, tende ad essere molto più completo dell’interesse specifico di questi campi. L’archeologia storica rivela anche il recente passato industriale e gli slum del XX secolo, mentre l’archeologia preistorica traccia le origini, i caratteri e i processi di sviluppo dell’urbanizzazione in tutto il mondo. Gli studi sul patrimonio e l’archeologia applicata cercano di mettere la conoscenza del passato urbano a servizio del presente. Nel frattempo, la profonda influenza del paesaggio e dell’archeologia contestuale, così come l’ecologia storica, stanno collocando gli spazi urbani in un mondo ricco di eventi, di percezioni, di comportamenti e di reti sociali più ampie, di incontri culturali, di risorse naturali e di condizioni ambientali in cui si collocano i centri urbani. Le cause della persistente lacuna percepibile tra campi apparentemente congruenti, sono riscontrabili nelle sperimentazioni applicative della morfologia urbana governate dalla fretta di fornire a pianificatori e progettisti di città future strumenti e informazioni utili. Inoltre, per quanto riguarda il passato, i rispettivi quadri di riferimento dei due campi sono notevolmente distinti. Le prove archeologiche sono prima di tutto comprese nella documentazione materiale; si tratta quindi di prove fisiche. Esistono tuttavia eccezioni in alcune intersezioni e sottocampi disciplinari, quali l’etnostoria, la storia antica, l’antropologia, l’archeologia storica e l’epigrafia. Nel campo della morfologia urbana, al passato si accede generalmente attraverso la documentazione, quindi documenti scritti e rappresentazioni grafiche quali immagini e mappe, nonostante le naturali sovrapposizioni con la storia della costruzione e dell’architettura, nonché con i rilievi urbani empirici che i morfologi urbani svolgono regolarmente. Ciò significa che la pratica della morfologia urbana, nel suo complesso, si comporta più come le discipline storiche che come quelle archeologiche. Nel riconoscere che la morfologia urbana e l’archeologia condividono un interesse nell’analisi e nella comprensione dello sviluppo urbano del passato, po-
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Transitions and Transformations: Evidential Relations between Archaeology and Urban Morphology
There has been a loose association between archaeology and urban morphology since its emergence. Nonetheless, it would appear relatively few urban morphologists have a proper grounding in archaeology and it seldom comes to explicit exchanges on theoretical, analytical, or purposive grounds. This is remarkable, because urban morphology, as the study of the developmental history of urban construction over time could, in certain respects, be considered as a subfield of archaeology, the discipline uniquely conceived and qualified to study human development diachronically. In accordance with this analogy, the ‘archaeological site’ of urban morphology would be composed by the urban built environment. Next to the characteristics and rhythms of the built environment in development, kindred research targets could concern any particular state, element or aspect of urban form in the context of the city and its urban or planning tradition, socio-economic system, culture, environment, or time period. Naturally, my postulation belies the well-known respective origins of urban morphology extending across geography, architecture, and history. It is likely a fair reflection to say that urban morphologists feel that their specialist work and concerns are sooner complemented by urban history and architectural history, than by archaeology. Yet, archaeology’s engagement with the development and varieties of urbanism, cities, and urban life tends to be far more comprehensive than the typical scope of these fields. Historical archaeology uncovers the recent pasts of industrialisation and 20th century slums. Prehistoric archaeology traces the origins, characteristics, and development processes of urbanism across the globe. Heritage studies and applied archaeology seek to put knowledge of the urban past to use in the present. Meanwhile, the profound influence of landscape and contextual archaeology as well as historical ecology emplace inner urban spaces in rich worlds of events, sensory perception, behaviour, and the wider social meshworks, cultural encounters, natural resources, and environmental conditions in which urban centres are situated. The causes for the persistent lacuna I perceive between the apparently congruous fields may be found in the dominance of present-day applications in current urban morphology and the scurry to furnish planners and designers of future cities with useful tools and information. Moreover, where the past is concerned, the respective evi-
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Fig. 1 - Questa rappresentazione della mappatura “Boundary Line Type” (BLT) di una sezione del Chunchucmil del VI secolo, ritenuta una città Maya classica densamente abitata, mostra la principale suddivisione dello spazio urbano aperto (escluse le strade) nella strutturazione della vita urbana (Vis, 2018). This Boundary Line Type (BLT) Mapping visualisation of a section of 6th century Chunchucmil, considered to be a densely settled Classic Maya city, shows the major stake of urban open space (excl. roadways) in structuring urban life (Vis, 2018).
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tremmo chiederci in quali obiettivi comuni questi due approcci possano riconoscersi. Questa domanda è particolarmente pertinente, perché sotto l’etichetta dell’archeologia applicata, la conoscenza archeologica sta attualmente cercando di affrontare direttamente le sfide dello sviluppo contemporaneo (Isendahl e Stump, 2019), incontrando forse ostacoli simili a quelli incontrati dalla morfologia urbana nell’ottenere un riconoscimento ampio della sua rilevanza. Mentre il mondo si va rapidamente urbanizzando, ci siamo resi conto che i piani contemporanei globalizzati destinati alla forma e alla vita urbana non sono sostenibili. L’urbanizzazione globale è il culmine di un processo di sviluppo che probabilmente dura già da 8000 anni, anche se variabile nel tempo e nella scala tra aree geografiche. Esaminando questo processo di sviluppo a lungo termine, l’archeologia offre dati e approfondimenti sulla notevole diversità dei modelli di vita urbana (v. ad es. Fig. 1). Le culture indigene e i loro ambienti hanno dato origine a relazioni urbane notevolmente diverse con l’ecosistema, il paesaggio e le risorse. L’archeologia rivela anche traiettorie di sviluppo urbano che includono crescita, collasso e importanti transizioni socio-politiche, ambientali e culturali, che hanno portato a drastiche trasformazioni spaziali. Non solo le città e l’urbanistica hanno una lunga storia. Molti modelli e sfide che sono particolarmente percepiti come recenti, ad esempio conurbazioni, insediamenti periurbani, baraccopoli, urbanizzazione informale, aree di segregazione spaziale, accesso ai servizi, multiculturalismo, ecc. hanno in realtà parallelismi e precursori che risalgono a molti secoli fa. Questo dato pone oggi la sfida del progetto urbano sostenibile sotto una luce di-versa. L’aspettativa che le aree urbane triplicheranno entro il 2030 (Seto et al., 2012) mette in primo piano gli effetti trasformativi che saranno causati dai cambiamenti fisici derivanti dall’attuazione delle necessarie conversioni degli
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dential frames of references of the two fields are notably distinct. Archaeological evidence is first and foremost comprised by the material record, thus physical evidence. Exceptions exist in disciplinary cross-overs and subfields, such as ethnohistory, ancient history, anthropology, historical archaeology, and epigraphy. In urban morphology, the past is generally accessed through documentation, thus written records and graphical representations such as imagery and maps. Notwithstanding natural overlaps with history of construction and architecture, as well as the empirical urban surveys which urban morphologists regularly carry out, this means urban morphological practice on the whole behaves more like history than archaeology. In recognising that urban morphology and archaeology share an interest in analysing and understanding past urban development, we could ask ourselves in which objectives these two approaches may find each other. This question is especially pertinent because under the label of applied archaeology, archaeological knowledge is currently seeking to directly address today’s developmental challenges (Isendahl & Stump 2019), facing perhaps similar hurdles to urban morphological knowledge in gaining broad acceptance as being relevant. As the world urbanises at rapid pace we have come to realise that the contemporary globalised blueprints for urban form and urban life are unsustainable. Global urbanisation is the
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usi del suolo, nuove divisioni e distribuzioni, nonché dalla conversione delle precedenti configurazioni spaziali urbane (Fig. 2). La continua crescita urbana, con l’espansione delle città esistenti e la creazione di nuove, comporta necessariamente il ripensare e riorganizzare gli attuali centri degli insediamenti. Tali grandi trasformazioni portano inevitabilmente anche al dibattito su cosa occorra mantenere. Una valutazione efficace del palinsesto dell’ambiente urbano costruito dovrebbe riconoscere che in realtà tutto è patrimonio. Questa constatazione incoraggia un processo decisionale consapevole. Il riconoscimento di come i valori culturali, sociali, ecologici ed economici definiscano il ruolo, l’esperienza e il potenziale di quell’ambiente abitato. Ciò che vale la pena mantenere non è limitato a pochi santuari di aree archeologiche di scavo o monumenti architettonici (Fig. 3). Lo si comprende dalla persistenza funzionale delle trame stradali, come hanno notato i pionieri della morfologia urbana. La gestione del patrimonio urbano riguarda quindi anche il modo di mantenere gli elementi costruiti e i principi costruttivi che servono a sostenere la città, a dare spazio all’adattabilità, al ripristino e al rinnovamento delle relazioni ecologiche e all’inclusione culturale nella pianificazione e nello sviluppo. Gli scopi comparativi della morfologia urbana sono compatibili con le possibilità offerte dall’archeologia per svelare la grande diversità negli esperimenti di vita urbana e nei risultati dello sviluppo in una serie di situazioni culturali, ambientali e geografiche. Tuttavia, la comparabilità all’interno di questa diversità risulta innanzitutto da prove materiali. Se la morfologia studia l’origine della forma, l’archeologia è specializzata nel derivare un’interpretazione sociopolitica e culturale da tale evidenza empirica attraverso analisi rigorose e integrate. Sebbene archeologia e morfologia urbana siano complementari nello sforzo di comprendere i principi, i processi e gli effetti che sottendono
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culmination of a development process which arguably already lasts for approximately 8,000 years, if variable in time and scale across geographical regions. Delving into this long-term development process, archaeology offers data and insights on the full diversity of models for urban life (e.g. Figure 1). Indigenous cultures and their environments have given rise to dramatically different urban relations to the ecosystem, landscape, and resources. Archaeology also reveals urban developmental trajectories that include growth, collapse, and major socio-political, environmental, and cultural transitions which have led to drastic spatial transformations. Not only cities and urbanism have a long history. Many patterns and challenges which are particularly perceived to be recent, such as conurbations, peri-urban settlement, slums, informal urbanism, spatial segregation, service access, multiculturalism, etc. have parallels and precursors going back many centuries. This casts today’s sustainable urban design challenge in a different light. The expectation that urban areas will triple by 2030 (Seto et al. 2012) foregrounds the transformative effects that will be caused by the physical changes resulting from the implementation of necessary land-use conversions, new divisions and distributions, as well as repurposing previous urban spatial configurations (Figure 2). Continued urban growth means expanding existing cities and establishing new ones, as well as rethinking and rearranging
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Fig. 2 - Caucel, una città adiacente a Mérida (Yucatán, Messico) ed ora fusa con essa, era un centro Maya colombiano gradualmente reinsediato dopo la colonizzazione in un’ampia griglia di modello tradizionale. Ciudad Caucel è la vasta e densa espansione urbana, conosciuta localmente come fraccionamiento, verso il sud della città, spesso caratterizzato da un certo grado di segregazione fisica (Immagini aeree tratte da Google Earth). Caucel, a town adjacent to and now amalgamating into Mérida, Yucatán, Mexico, was a pre-Columbian Maya centre and gradually resettled after colonisation in a spacious vernacular grid pattern. Ciudad Caucel is the vast and dense transformative urban expansion, known locally as fraccionamiento, towards the south of the town, often featuring a degree of physical segregation (Aerial imagery taken from Google Earth).
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current city centres. Such big urban transformations also inevitably lead to discussions on what to keep. Effective assessment of the urban built environment’s palimpsest should recognise that actually all of it is heritage. This encourages conscious decision-making on how cultural, social, ecological, and economic values define the role, experience, and potential of that inhabited environment. What is worth keeping is not confined to few sanctuaries of archaeological area excavation and consolidation or architectural monuments (Figure 3). The value of aspects of past urban form is resonated by the functional persistence of street patterns noticed by prodigious early urban morphologists. Urban heritage management is therefore also about how to keep built elements and building principles that serve sustaining the city, yielding space to adaptability, restorative and renewing ecological relations, and cultural inclusivity in planning and development. The comparative aims of urban morphology are compatible with archaeological opportunities for unlocking maximal diversity in urban life experiments and developmental outcomes in a range of cultural, environmental, and geographical situations. However, comparability within this diversity results first and foremost from material evidence. When morphology refers to how form comes into being, then archaeology is the specialist in deriving socio-political and socialecological interpretation from such empirical evidence with rigorous and integrative analyses. In understanding the principles, processes, and effects behind urban transitions and transformations, archaeology and urban morphology are complementary in their pursuit, yet must make conscious effort to achieve commensurability in evidential relations.
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Fig. 3 - Aree di interesse del patrimonio archeologico nei registri del Comune di Mérida. Questa mappa mostra la presenza diffusa di un precedente insediamento archeologico (rosso). Il patrimonio archeologico può essere riscontrato solo all’interno di alcuni parchi archeologici (verde scuro; l’uso del patrimonio urbano delle riserve, verde chiaro, deve ancora essere determinato), che sono tenuti a spazi urbani ricreativi. I modelli di espansione della città in rapida crescita sono altrimenti del tutto estranei al precedente sviluppo urbano. (Per gentile concessione di Esteban de Vicente Chab, Dipartimento dei Beni Archeologici, Comune di Merida). The Municipality of Mérida records areas of interest of archaeological heritage. This map shows the pervasive recognition of preceding archaeological settlement (red). Archaeological heritage can only be encountered in several archaeological parks (dark green; the urban heritage use of the reserves (light green) is yet to be determined), which are maintained as recreational urban spaces. The expansion patterns of the fast growing city are otherwise entirely unrelated to past urban development (Courtesy of Esteban de Vicente Chab, Department of Archaeological Heritage, Municipality of Mérida).
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le transizioni e le trasformazioni urbane, esse devono dunque compiere uno sforzo consapevole per raggiungere la “commensurabilità” nelle relazioni evidenziali reciproche.
Acknowledgement The development of this viewpoint has been supported by project No. 20-02725Y awarded by the GACR — Czech Science Foundation, Comparing Urban Morphological Transformation in Pre-Colonial to Colonial Traditions. The author thanks Esteban de Vicente Chab for his quick collaboration and the Department of Archaeological Heritage, Municipality of Mérida for its support.
Lo sviluppo di questo punto di vista è stato supportato dal progetto n. 2002725Y assegnato dal GACR - Czech Science Foundation, Confronto tra trasformazioni morfologiche urbane nelle tradizioni pre-coloniali e coloniali. L’autore ringrazia Esteban de Vicente Chab per la sua pronta collaborazione e il Dipartimento di Archeologia e Patrimonio del Comune di Mérida per il suo sostegno. *Nota del traduttore Si è tradotto come “relazioni evidenziali” il termine inglese “evidential relations” nell’accezione di relazioni tra termini che si provano reciprocamente.
Riferimenti bibliografici Isendahl C., Stump D. (2019) “Conclusion: Anthropocentric Historical Ecology, Applied Archaeology, and the Future of a Useable Past”, in Isendahl C., Stump D. (ed.) (2019) The Oxford Handbook of Historical Ecology and Applied Archaeology, Oxford University Press, Oxford. doi.org/10.1093/oxfordhb/9780199672691.013.37. Seto K. C., Güneralp B., Hutyra L. R. (2012) “Global Forecasts of Urban Expansion to 2030 and Direct Impacts on Biodiversity and Carbon Pools”, in PNAS, n. 109(40), 16083–16088. Vis B.N. (2018) Cities Made of Boundaries: Mapping social life in urban form, UCL Press, London.
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urbanform and design Architettura degli interni tra teoria, prassi
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e trasmissibilità. La necessità di ritrovare un dialogo
Santi Centineo
DICAR Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura, Politecnico di Bari E-mail: santi.centineo@poliba.it
Interior Architecture among theories, practices and transmissibility The need to retrieve a dialogue
Compared to the orientations and trends of contemporary scenarios, Interior Architecture is an area of enormous potential, especially if it is understood in its disciplinary articulations (furniture and exhibit design, museography, scenography) and in the light of the threefold meaning with which it must be concerned. In fact, the subject, ontologically understood, embodies the meaning of “interior”, which is
Rispetto agli orientamenti e alle tendenze degli scenari contemporanei, l’Architettura degli interni costituisce un settore di enorme potenzialità, specie se inteso nelle sue articolazioni disciplinari (arredamento, allestimento, museografia, scenografia) e alla luce della triplice accezione con cui occorre riguardare ad essa. Infatti la disciplina, ontologicamente intesa, assomma in sé l’accezione di “interno”, che non è solo lo spazio chiuso o incluso, ma è lo spazio dell’uomo e dello straordinario racconto della vita umana con tutte le sue articolazioni possibili. La seconda accezione riguarda la pratica esecutiva e professionale che ha posto l’Italia nel corso del Novecento a capofila della progettazione alla piccola scala, con particolare riguardo all’interazione tra spazio attrezzato e oggetto. E infine il terzo significato, quello normato dagli orientamenti legislativi che vedono, ormai dal 1990, la costituzione dei cosiddetti 367 Settori Scientifici Disciplinari e il successivo loro riordinamento in 188 Settori Concorsuali, 88 Macrosettori e 14 Aree. In questo nuovo frangente di riassetto universitario, l’Architettura degli interni assiste ad una frattura tra le sue potenzialità (oggi quanto mai attuali, considerando il novero diffuso di architetture effimere e reversibili) e il suo maltrattamento nelle sedi istituzionali. Benché questa disciplina sia strettamente connessa alle discipline compositive e progettuali, e benché la sua impronta umanistica privilegi sempre cospicui apparati teorici, tra cui il nucleo storico, di fatto oggi essa è protagonista di una triplice criticità. Un primo punto riguarda l’allontanamento tra la Composizione architettonica, che recentemente ha subito un certo spostamento verso problemi di scala urbana, e il Disegno Industriale, che invece ne conduce un altro verso le discipline tecnologiche, mentre un tempo la disciplina si trovava giustamente ad essere “Settore affine” alle prime due. Tale frattura mette a dura prova il ruolo di interfaccia dell’Architettura degli interni tra costruito e piccola scala e soprattutto annienta quel cardine progettuale che vedeva le stesse matrici di pensiero tanto nel grande, che nel piccolo oggetto. Un secondo punto riguarda gli orientamenti attuali, molto focalizzati sull’innovazione tecnologica, e che non sempre tengono in giusta considerazione lo studio e la metodologia proveniente dalle materie di impronta umanistica e che per di più privilegiano di fatto una trasmissibilità disciplinare passante quasi esclusivamente per metodologie laboratoriali. Tutto ciò trova conferma nella terza criticità: un quadro legislativo sfavorevole che, oltre all’esclusione dalle materie costitutive dei corsi di laurea in Architettura, oltre alla costituzione di commissioni per gli avanzamenti di carriera attinte dal cosiddetto “Settore concorsuale” e non dal Settore specifico, continua a considerare la disciplina un vero e proprio terreno di opportunità concorsuali per altri settori limitrofi. Occorre tuttavia sgombrare il campo da considerazioni di natura politica, o meglio, fornire ad esse una risposta di tipo scientifico, basata su aspetti disciplinari e teorici. È l’orientamento che assunse Adriano Cornoldi, quando il 26 ottobre 2005, intuendo l’importanza delle circostanze, volle radunare tutta la comunità scientifica di Architettura degli interni allo IUAV di Venezia, per riflettere uni-
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Abstract Despite the potentialities that contemporary events would outline for the Interior Design, it is a fact that the Scientific Sector is nowadays suffering a contraction that should bring to an accurate reflection. Basically, there are three emerging critical aspects for the discipline: 1) the increasing distance with other subjects is straining the role of Interior Design, ever more unable to make the built architecture interface with objects; 2) actual guidelines, focused on the technological innovation, that not always hold in correct consideration the subjects with humanistic imprinting; 3) an unfavorable legislative framework that not only excludes the subject from the courses of degree in architecture, but also forces the disciplinary transmissibility exclusively to ‘learningby-doing’ methodologies. Today it seems evident for the architecture (and particularly for the interior architecture) the need of finding again an ethical-normative role and of recovering the historical lesson (nowadays enriched by micro-historical contribution). Furthermore, from a scientific point of view, it would be desirable to focus rather the integration of spatial quality and designed objects’ repertoire, as well as to consolidate the continuity between research action and didactic methodology. Examining the results of the last National Conferences of Interior Architecture, it is clearly emerging the need for an accurate reflection that gives a scientific answer to these complex issues.
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Keywords: Interior Architecture, theory and practice, transmissibility,
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Fig. 1 - Gio Ponti, Progetto di una villa in città, 1941; da: La Pietra U. (a cura di)(1988) Gio Ponti: L’arte si innamora dell’industria, Colosseum, Milano.
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Gio Ponti, Project of a villa in the city villa, 1941; from: La Pietra U. (edited by) (1988) Gio Ponti: L’arte si innamora dell’industria, Colosseum, Milano.
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tariamente (docenti, ricercatori, dottorandi e studenti) su alcune perplessità e preoccupazioni derivanti dall’esclusione dell’ICAR/16 (Architettura degli interni e Allestimento) dal novero delle materie costitutive dei corsi di laurea in architettura. A quel Convegno, organizzato dal consesso degli allora nove professori ordinari (all’epoca uno di essi, Filippo Alison, era emerito), ne seguirono altri con un’affluenza sempre crescente di studiosi: Torino, nuovamente Venezia, poi Milano e infine recentemente Napoli. In queste due sedi si affiancarono anche i Convegni ProArch, occasioni per discutere unitariamente all’interno di tutto il Macrosettore, rafforzando quindi il dialogo con la Composizione architettonica e con i paesaggisti. Nei significati di questi incontri emergeva chiaramente la necessità per l’architettura di ritrovare un ruolo etico-normativo, di non abbandonare o repellere la lezione storica, per focalizzarsi piuttosto sull’integrazione tra repertorio oggettuale e qualità spaziale, in una continuità di azione tra ricerca, metodologia didattica e pratica professionale. Ma il primo punto, giustamente posto da Cornoldi a fondamento del Primo Convegno di Venezia, avrebbe dovuto vertere necessariamente sul tracciamento dei confini dell’identità disciplinare. Nel mondo contemporaneo infatti si assiste ad una proliferazione di interventi professionali pertinenti alla architettura reversibile o “senza fondamenta” che, oltre a rappresentare il primo banco di prova di giovani architetti, costituiscono un’opportunità professionale di grande attualità, specie in tutto il settore degli allestimenti: dalle scenografie per grandi eventi, agli allestimenti e arredo urbano; dal retail, al ruolo museografico nella valorizzazione del patrimonio culturale. I corollari che ne discendono, lasciano intravedere immediatamente come non
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not only the enclosed or included space, but is the space of man and the extraordinary story of human life with all its possible articulations. The second meaning concerns the executive and professional practice that placed Italy during the twentieth century at the forefront of the “smallscale design”, with particular regard to the interaction between equipped space and object. And finally, the third meaning, the one regulated by the legislative guidelines that have seen, since 1990, the constitution of the so-called 367 Disciplinary Scientific Sectors and their subsequent reordering in 188 Competition Sectors, 88 Macrosectors and 14 Areas. In this new phase of university reorganization, the Interior Architecture is even more fractured between its potential (today more than ever current, considering the widespread number of ephemeral and reversible architectures) and its mistreatment in institutional forums. Although this discipline is closely linked to architectural composition and industrial design disciplines, and although its humanistic imprint always privileges conspicuous theoretical apparatuses, including the historical core, it is actually the protagonist of a threefold criticality. A first point concerns the distancing between the Architectural Composition, which has recently shifted towards problems of urban scale, and the Industrial Design, which instead leads another path, towards the technological disciplines. In the past, the Interior Architecture was
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sia pensabile escludere l’insegnamento dalla formazione dell’architetto: non solo al progettista di interni viene richiesto un apparato teorico trasversale non indifferente, ma oltretutto una consapevole lettura della fenomenologia contemporanea risulta fondamentale per comprendere il passaggio da spazio primario a spazio attrezzato, la qual cosa, ancóra una volta, è un’operazione culturale, resa complessa dalla natura degli scenari entro cui ci muoviamo. Questa asserzione è resa più difficile non solo dall’irreperibilità di un solo ambito della vita umana esente dal contributo della disciplina, ma anche dalla trasversalità caratterizzante della stessa, che a tratti incarna un raccordo tra oggetti e architettura, mentre altre volte si distingue per il metodo di approccio antropocentrico, tanto nella lettura analitica e nello studio del progetto, che nei processi sintetico-progettuali. Tutto ciò, con riguardo sia al costruito, che al costruendo. E infatti, non solo in tutti i sopracitati Convegni, ma anche con questa stessa consapevolezza, l’Architettura degli Interni viene definita nella “declaratoria” contenuta nel DM 4 ottobre 2000, ribadito poi dal DM n. 855/2015: “Il settore studia l’edificio nella struttura formale e negli elementi che lo compongono, nella spazialità interna che include problemi di architettura degli interni, di arredo e di allestimento anche nel campo della museografia e scenografia, nei rapporti con la città o il paesaggio condizionati dalla complessità delle relazioni materiali e immateriali tra natura, oggetti, persone e immagini. Studia inoltre le forme della città contemporanea e i fenomeni che ne hanno determinato evoluzioni e trasformazioni, applica e sperimenta morfologie e processi per la modificazione delle sue parti”. Sembra echeggiare nelle parole del legislatore il celebre motto “dal cucchiaio alla città”, coniato da Walter Gropius negli anni della direzione del Bauhaus (1919-1926 tra Weimar e Dessau) e ripreso da Ernesto Rogers nella Carta d’Atene del 1953. C’è una continuità di significato, ma ovviamente anche un’evoluzione di senso, nel distinto uso della stessa frase da parte dei due Maestri. Il primo fa riferimento alla triade teoria/prassi/trasmissibilità che animava la scuola da lui fondata, una scuola basata su un metodo estendibile dalla piccola alla grande scala e che individuava nella figura dell’architetto moderno il depositario della sua applicabilità. Il secondo attualizza la questione, contestualizzando la scalarità gropiusiana in uno scenario complesso e dirompente, in cui occorreva possedere una grande consapevolezza e lungimiranza. Nell’insegnamento di Gropius c’è l’apparato teorico, il pensiero della forma e della traduzione formale di un’istanza funzionale; ma c’è anche la realizzabilità, attraverso il magistero operativo, frutto della consolidata esperienza derivata dalle arti applicate e dal loro potenziamento da parte dei processi industriali; e c’è infine la necessità di perpetrare ed eternare questa circolarità, non solo in quanto l’oggetto in sé si fa portavoce di un valore estetico, ma anche e soprattutto etico. Nell’insegnamento di Rogers, invece, “cucchiaio” e “città” rappresentano due emblemi. Il primo, il cucchiaio, ha a che vedere con gli interni. La seconda, la città, con un sistema di interni. Nel primo trova campo la sfera privata dell’uomo, quella che riguarda la sua interiorità e la sua intimità, la sua vita privata, mentre la seconda costituisce il luogo della realizzazione sociale e pubblica dell’individuo. E ancora: il primo è un prodotto di sistema, mentre in sintesi la seconda è un sistema di prodotti. Potremmo dunque concludere che, mentre Gropius affida il problema della scalarità del progetto ad un unico demiurgo che estrae la forma dal mondo delle Idee, affidandole l’espletamento funzionale, Rogers avverte la necessità di una transizione: si tratta cioè di individuare quel punto specifico in cui i due estremi si incontrano, quell’interfaccia che permette la relazione tra la scala dell’architettura e la specificità dell’uomo. La continuità tra l’indagine teorico-critica e la sperimentazione progettuale è sempre stata una caratteristica fondamentale dell’Architettura degli interni, in particolar modo dell’approccio squisitamente italiano alla disciplina. Quando Gio Ponti nel 1931 progetta una lampada a sospensione che, quanto a esito formale, non ha nulla da invidiare a quella da tavolo disegnata da Wagenfeld
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rather found to be a “related sector” to the first two. This fracture puts a strain on the the Interior Architecture’s role, a linchpin between built and small scale, that had always had the same matrices of thought, both in the large, and in the small object. A second point concerns the current guidelines, which are very focused on technological innovation, and that do not always give due consideration to the study and the methodology deriving from humanistic subjects and that, moreover, privilege a disciplinary transmissibility passing almost exclusively through laboratory methodologies. All this is confirmed by the third criticality: an unfavorable legislative framework that, in addition to the exclusion from the constituent subjects of degree courses in Architecture, in addition to the establishment of commissions for career advancements drawn from the so-called “Competition Sector” and not from the specific sector, continues to consider the discipline a real field of competitive opportunities for other neighboring sectors. However, it is necessary to remove political considerations or, rather, to provide them with a scientific response based on disciplinary and theoretical aspects. It is the orientation that Adriano Cornoldi took, when on October 26, 2005, realizing the importance of the circumstances, he wanted to gather the entire scientific community of Interior Architecture at the IUAV in Venice, to reflect coherently (teachers, researchers, Phd students and students) on some concerns arising from the exclusion of the ICAR/16 (Interior Architecture and Exhibit Design) from the list of subjects constituting the degree courses in architecture. At that Conference, organized by the meeting of the nine full professors (at the time one of them, Filippo Alison, was emeritus), followed other ones, with an increasing number of scholars: Turin, Venice, once again, then Milan and finally recently Naples. In these two locations, the Proarch Conferences were also flanked, occasions to discuss in a unified way within the entire Macrosector, thus strengthening the dialogue with the Architectural Composition and with the landscapers. In these meetings clearly emerged the need for architecture to rediscover an ethical-normative role, not to abandon or repel the historical lesson, to focus rather on the integration between object repertoire and spatial quality, in a continuity of action between research, teaching methodology and professional practice. But the first point, rightly placed by Cornoldi as the central topic of the First Venice Conference, necessarily focused on the tracing of the boundaries of disciplinary identity. In the contemporary world, in fact, there is a proliferation of professional interventions relevant to reversible or “without foundations” architecture which, in addition to representing the first test for young architects, constitute a highly professional opportunity, especially in the entire exhibition sector: from stage sets for major events, to stage sets and urban furniture; from retail to the museum’s role in the enhancement of cultural heritage. The corollaries that derive from it, let us immediately glimpse how it is not thinkable to exclude the subject from the training of the architect: not only the interior designer is required to own a relevant theoretical transversal apparatus, but above all a conscious reading of contemporary phenomenology is fundamental to understand
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the transition from “primary” to “equipped” space, which, once again, is a cultural operation, made complex by the nature of the scenarios within which we move. This assertion is made more difficult not only by the irreplaceability of a single area of human life exempt from the contribution of discipline, but also by its characterizing transversality, which sometimes embodies a link between objects and architecture, while other times it is distinguished by the anthropocentric method, both in analytic reading and in the study of the project, and in the synthetic-design processes. And in fact, not only in all the aforementioned Conferences, but also with this same awareness, the Interior Architecture is defined in the “declaratoria” contained in the DM 4 October 2000, then reiterated by DM n. 855/2015: “The sector studies the building in the formal structure and in the elements that compose it, in the internal spatiality that includes problems of interior architecture, furniture and Exhibit design, also in the field of museography and scenography, in relations with the city or the landscape, conditioned by the complexity of the material and immaterial relationships between nature, objects, people and images. It also studies the forms of the contemporary city and the phenomena that have determined its evolutions and transformations, it applies and experiments morphologies and processes for the modification of its parts”. In the words of the legislator, it seems to be recognizable the famous Walter Gropius’ motto “from the spoon to the city”, coined in the years of his direction of the Bauhaus (1919-1926 between Weimar and Dessau) and taken up by Ernesto Rogers in the Charter of Athens of 1953. There is a continuity of meaning, but obviously also an evolution of sense, in the distinct use of the same sentence by the two Masters. The first Master refers to the triad theory/praxis/transmissibility that animated the school he founded, a school based on an extensible method from small to large scale and that identified the figure of the modern architect as the depositary of its applicability. The second updates the issue, contextualizing the Gropiusian scalarity in a complex and disruptive scenario, in which it was necessary to possess a great awareness and foresight. In Gropius’ teaching there is the theoretical apparatus, the thought of the form and the formal translation of a functional instance; but there is also, through the operative magisterium, the feasibility, as a result of the consolidated experience derived from the Arts and Crafts and their strengthening by industrial processes; and there is finally the need to perpetuate and eternalize this circularity, not only because in the object itself an aesthetic value is retrievable, but also and above all an ethical one. In Rogers’ teaching, “spoon” and “city” represent two emblems. The first, the spoon, has to do with the interior. The second, the city, with an interior system. In the first one there is the private sphere of man, that which concerns his interiority and his intimacy, his private life, while the second constitutes the place of the social and public realization of the individual. And furthermore: the first is a system product, while the second is briefly a product system. We could therefore conclude that, while Gropius entrusts the problem of the scale of the project to a single demiurge that extracts the form from the world of Ideas, entrusting the functional accomplishment, Rogers feels the need for a tran-
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Fig. 2 - Franco Albini, Stanza per un uomo, VI Triennale di Milano, 1936; da: www. fondazionealbini.com Franco Albini, Room for a man, VI Triennale di Milano, 1936; from: www.fondazionealbini.com
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e Jucker per il Bauhaus, dimostra in sol tratto come in quegli anni il portato della Scuola Italiana di interni (Ponti, Scarpa, Albini, Viganò, per citarne alcuni) non solo eguaglia, ma anzi supera la destrezza progettuale internazionale, dal momento che a tutte le questioni possibili, di altissimo profilo, aggiunge una cultura abitativa millenaria senza pari. Lo aveva compreso perfettamente Schinkel, andando a rilevare le rovine di Pompei, emulato magistralmente da Le Corbusier nel suo Voyage. E infatti, già nella semantica della denominazione italiana del settore scientifico-disciplinare è presente la parola “architettura”, differentemente che nell’anglosassone interior design, in cui si fa riferimento ad aspetti progettuali di matrice maggiormente pragmatica. La differenza di approccio, che in sé potrebbe essere foriera di nuovi punti di vista e arricchimenti culturali, molto spesso non si risolve in una feconda sintesi, ma in un fumus che: “percorre le vicende e la cultura del mondo occidentale sin dalle origini greche, ed è per lunghi secoli rappresentato come una cesura fra i saperi praticooperativi e quelli teorici. [...] Termini più o meno analoghi si ripropongono oggi [...], al senso dell’educazione e al destino dei saperi classici e umanistici in un mondo che interpreta la formazione sempre più come un percorso in cui si acquisiscono competenze immediatamente spendibili sul mercato del lavoro. Di fronte alla smisurata dissimmetria fra le risorse dedicate ai grandi (e costosi) progetti tecnico-scientifici e le briciole residuali alle discipline umanistiche, questo importante tema ha ripreso respiro sia per il suo peso culturale, sia perché la competizione nell’allocazione dei fondi dedicati ai diversi settori rischia di emarginare la cultura umanistica in una posizione del tutto secondaria nel mondo della formazione superiore e universitaria” (Riccini, 2013).
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ER EI D N SC H BR ET La questione sollevata dalla Riccini, estendibile alla situazione dell’Architettura degli interni, si articola in due punti cruciali: 1) l’affermazione del metodo induttivo nell’apprendimento scolastico: i laboratori offerti già dal primo anno di studio costituiscono una sorta di territorio esperienziale che antepone il learning by doing al learning by studying (e il know how al know why) e che pospone il ruolo della memoria come contenitore di paradigmi critici e teorici e dei sistemi di giudizio e di discernimento deduttivi, a vantaggio di un metodo empirico-induttivo. Su questo punto si è già espressa ampia frangia del pensiero storico occidentale, dimostrandone la non applicabilità nelle sedi universitarie, dal momento che al docente viene necessariamente richiesto il possesso di alcune categorie critiche a priori (cfr. Popper, 1970 e 1974). Nelle recenti riforme del sistema scolastico, in un impeto di democratizzazione, il legislatore auspica invece la proponibilità di questo modello sin dai primi gradi dell’istruzione, con il risultato che oggi l’addestramento deduttivo risulta spesso fuorviato, con la conseguenza del pesante ingresso di istanze di natura pedagogica nel merito della didattica universitaria. È vero che tra le grandi Scuole storiche, che ancor oggi costituiscono un punto di riferimento, foss’altro per aver compreso la necessità di una pedagogia formale, il Bauhaus in particolare ha apparentemente abbracciato il metodo induttivo e la logica laboratoriale, ma è ormai sufficientemente acclarato come si tratti di un metodo di addestramento all’inferenza (cfr. Argan, 1951), né tanto meno antistorico (al limite antistoricista), a giudicare dal cospicuo nucleo teorico che era alla base del Vorkurs e dell’ordinamento didattico della scuola di Weimar/Dessau. Di fatto oggi si chiamano “laboratori” alcuni momenti in cui per la durata di poche ore ci si adopera nel disegno assistito, deprivando però gli allievi della
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sition: it is a matter of identifying that specific point in which the two extremes meet, that interface that allows the relationship between the scale of architecture and the specific one of man. The continuity between the theoretical-critical investigation and the design experimentation has always been a fundamental characteristic of the Interior Architecture, especially the exquisitely Italian approach to the discipline. In 1931, Gio Ponti designed a pendant lamp that, as formal results, had nothing to envy to the table lamp designed by Wagenfeld and Jucker for the Bauhaus. It is evident how in those years the value of the Italian Interior School (Ponti, Scarpa, Albini, Viganò, just to quote the most important architects) not only equaled, but even exceeded the international design dexterity, since to all possible issues it took in serious consideration an unparalleled millennial housing culture. Schinkel had understood it perfectly, when he went to detect the ruins of Pompeii, masterfully emulated by Le Corbusier with his Voyage sketch book. And in fact, already in the semantics of the Italian denomination of the scientific-disciplinary sector the word “architecture” is present, differently than in the Anglo-Saxon “interior design”, in which reference is made to design aspects of a more pragmatic matrix. The difference in approach, which in itself could bring new points of view and cultural enrichment, very often does not result in a fruitful synthesis, but in a fumus that
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Fig. 2 - Carlo Scarpa, Tomba Brion, San Vito d’Altivole, 1969-1978; da: www.archimagazine.com Carlo Scarpa, Brion Tomb, San Vito d’Altivole, 1969-1978; from: www.archimagazine.com
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“covers the events and culture of the Western world since the Greek origins, and is represented for centuries as a gap between practical-operational and theoretical knowledge. [...] More or less similar terms are proposed today [...], the sense of education and the fate of classical and humanistic knowledge in a world that interprets training more and more as a path, in which skills immediately spendable on the labour market must be provided. Faced with the disproportionate disparity between the resources dedicated to large (and expensive) technical-scientific projects and the residual crumbs to the humanities, this important theme has taken breath both for its cultural weight, both because competition in the allocation of funds dedicated to different sectors risks marginalizing humanistic culture in a completely secondary position in the world of higher and university education” (Riccini, 2013). The question raised by Riccini, extending to the situation of Interior Architecture, is divided into two crucial points: 1) the affirmation of the inductive method in school learning: the laboratories offered since the first year of study constitute a sort of experiential territory that puts “learning by doing” before “learning by studying” (and “know-how” before “know why”) and that postpones the role of memory as a container of critical and theoretical paradigms and systems of deductive judgment and discernment, for the benefit of an empirical-inductive method. About this point, a broad fringe of Western historical philosophers has already expressed, demonstrating its non-applicability in university establishments, since the teacher is necessarily required to possess certain critical categories a priori (cf. Popper 1970 and 1974). In the recent reforms of the school system, in an impetus of democratization, the legislator instead imposes this model from the early stages of education, with the result that today deductive training is often misguided, with the consequence of the heavy input of pedagogical issues in the merit of university teaching. It is true that among the great historical Schools, which are still a point of reference today, first of all for having understood the need for a formal pedagogy, the Bauhaus in particular has apparently embraced the inductive method and laboratory logic, but it is now sufficiently acclaimed as it was a method of training in inference (cf. Argan, 1951), much less anti-historical (to the limit anti-historical), judging by the substantial theoretical core that was at the basis of the Vorkurs of the teaching system of the Weimar/ Dessau school. Actually, today are called “workshops” some moments in which for the duration of a few hours, students work on assisted design. In this way, they are progressively deprived of the necessary knowledge of the disciplinary corpus, the Socratic τι ἐστι, so necessary as a prerequisite for any deductive reasoning, at a time when vector design continues to deprive the learners of the mastery of the sense of the scale in the project. 2) excessive dependence on the “world of work market” (and not on the “world of work”, which would be a legitimate concern [cf. Eisenman, 2008]), which saw the Schools run after the companies and bend to their “oscillations of taste”, to quotate Gillo Dorfles (1968), instead of taking the lead, with the result of what he calls “cosmetic operations”. It is absolutely natural that the market and the university culture look at each other with mutual interest and it is equally inevitable that the
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necessaria conoscenza del corpus disciplinare, il τι ἐστι socratico necessario come presupposto di qualsiasi ragionamento deduttivo, in un frangente in cui il disegno vettoriale continua a deprivare i discenti della padronanza della scalarità del progetto. 2) l’eccessiva dipendenza dal ‘mondo del mercato del lavoro’ (e non dal ‘mondo del lavoro’, che invece costituirebbe una legittima preoccupazione, cfr. Eisenman, 2008), che ha visto le Scuole rincorrere le aziende e piegarsi alle loro “oscillazioni del gusto”, per dirla con Gillo Dorfles (1968), anziché ergersene a guida, con il risultato di quelle che egli definisce “operazioni di cosmesi”. È assolutamente naturale che mercato e cultura universitaria e politecnica si guardino con reciproco interesse ed è altrettanto inevitabile che nelle università si cerchi, anche in sede didattica, di curare gli aspetti laboratoriali della trasmissione del sapere. I laboratori sono diventati dunque le sedi privilegiate del metodo induttivo di cui sopra, sostituendosi gradualmente nell’apprendimento alle biblioteche, che invece hanno costituito per millenni le depositarie del sapere ordinato e, grazie alle intuizioni di Aby Warburg, correlato. Benché l’istituzionalizzazione e la codificazione disciplinare della cultura degli interni sia relativamente recente, il tema è evidentemente connaturato all’uomo da sempre. Eppure la dimostrazione della problematicità didattica trova riscontro nella sofferenza delle tradizionali scuole italiane di interni: Venezia, Napoli, Roma, persino Milano, sede privilegiata della Scuola Italiana di Interni, dove, a fronte di fenomeni di riferimento (quali il “Salone del Mobile”), la possibilità di formazione superiore è stata recentemente demandata all’impronta e al ‘curriculum’ di un altro dottorato limitrofo, benché da quasi ogni Ciclo di quello storico Dottorato provenga almeno un docente oggi incardinato nel Settore. La deduzione più logica vede lo Stato come fautore di un sistema distorto, che continuamente parla di investimenti, pur rinunciatario del migliore che dovrebbe attuare, quello formativo e culturale. Il dato, in una lettura più ampia, si colloca all’interno di uno dei problemi atavici dell’ordinamento universitario italiano, in cui i destini incrociati della ricerca e della didattica non sono sanciti dalla legge con sufficiente chiarezza, sebbene storicamente preceduti da notevoli presupposti culturali. È il senso di quella serie di articoli apparsi nel 2008 su Casabella, preceduti da un editoriale di Francesco Dal Co dal titolo Insegnare Architettura, in cui quattro Maestri (Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Pierluigi Nervi e Peter Eisenman si esprimono sul complesso tema dell’insegnamento dell’Architettura: la ricerca scientifica e la trasmissibilità dei suoi esiti sono la prima ragione dell’esistenza del sistema universitario, ed è forse necessario avviare oggi una fase di serena riflessione sulle potenzialità che possono derivare dalla compresenza negli stessi atenei di molte e diverse discipline che guardano al progetto. La compagine dei Convegni di Settore ribadiva l’auspicio per il quale, grazie al supporto teorico sia possibile ancor oggi ritrovare un valore dialettico dell’architettura con il suo contesto, che ne ristabilisca la metafisicità, la capacità di parlare per evocazioni metaforiche e, citando ancóra una volta Cornoldi (2005), che “le discipline degli interni non sono né subalterne né indipendenti, ma costituiscono un approfondimento essenziale dell’Architettura [...]. Indagando in profondità la natura degli spazi, l’architettura degli interni realizza e verifica in essi il senso di un edificio”. Si possono dunque trarre alcune conclusioni, che confermano l’attualità degli indirizzi emersi nelle diverse sedi scientifiche e che oggi possono risultare d’aiuto nel cercare di dare un senso attuale all’ordinamento universitario. Si prova a sintetizzarle per punti. 1. La necessità di ampliare il concetto di “prassi progettuale” a quello di “ricerca progettuale”, dal momento che l’eccesso pragmatico tende a non contemplare più quel processo circolare di cui la Scuola, soprattutto italiana, beneficiava (teoria-prassi-trasmissibilità). 2. L’importanza della Teoria, presupposto della ricerca e della didattica, tramite la quale porre in continuità la storia, o le storie, con la proiezione nel futuro. Ancóra Cornoldi ribadiva il ruolo dei Maestri nella tradizione del sapere e la
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Fig. 4 - Vittoriano Viganò, ampliamento del Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, 19701983; da: www.ordinearchitetti.mi.it Vittoriano Viganò, extending of the Polytechnic Univercity of Milano, Faculty of Architecture, 1970-1983; from: www.ordinearchitetti.mi.it
necessità per ogni formulazione “della narrazione epica di origini, che ne definisce il legame con la storia, e della scrittura delle leggi, che ne garantisce il presente e futuro”. 3. La necessità di ritrovare nella Teoria un vitalismo dinamico che sia strumento di progetto, lievito delle idee, consapevolezza metodologica. Una sorta di auspicio per la fuoriuscita da quel manierismo di cui parla Eisenman, per ritrovare piuttosto la “fase rinascimentale” di cui parla la Riccini: un passaggio maieutico da teoria a prassi, “l’equivalenza (produttiva) tra la scrittura e la lettura” (Roland Barthes), la consequenzialità biunivoca tra “sapere” e “saper fare” che ha sempre contraddistinto la tradizione italiana, dal momento che, come scrive Bossi (2009) “è dal riconoscimento e recupero di queste memorie che bisogna partire nella costruzione di nuovi «oggetti»”. L’insegnamento dovrebbe dunque costituire la ‘fase istruttoria’ dell’apprendimento, senza la quale ogni assunto risulterebbe indimostrabile nella prassi. La ricerca è la “teogonia” disciplinare. L’insegnamento è la sua “teologia”. 4- Il potenziamento del dialogo e del confronto, che, a prescindere dalla scissione burocratica tra i Settori, ricordi la pregnanza del ruolo degli oggetti nell’interno architettonico, fornendo un legante tra topos, memoria collettiva d’uso e persone. 5- L’auspicio che questo dialogo possa avvenire in quelle che per antonomasia sono le sedi del sapere universitario, nella cui didattica laboratoriale la poliedricità dei saperi (confluenza di nozioni) possa trovare riappacificazione con il reciproco arricchimento disciplinare (riscoperta di valori). Già nel 1938, nel suo discorso di insediamento alla direzione del Department of Architecture dell’Armour Institute di Chicago, Ludwig Mies van der Rohe diceva:
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universities try, even in teaching, to take care of the laboratory aspects of the transmission of knowledge. The laboratories have thus become the privileged locations of the inductive method mentioned above, gradually replacing the traditional learning in libraries, which constituted for millennia the repositories of ordered knowledge and, thanks to the prophecy of Aby Warburg, related. Although the institutionalization and disciplinary codification of the interior culture is relatively recent, the subject has obviously always been inherent to man. Yet the demonstration of educational problems is reflected in the suffering of traditional Italian schools of interior: Venice, Naples, Rome, even Milan, the privileged seat of the Italian School of Interior, where, aside phenomena of great reference (such as the “Salone del Mobile”), the possibility of higher education has recently been entrusted to the imprint and curriculum of another neighbouring doctorate, although from almost every cycle of that historical Doctorate at least one teacher of the Sector came out. Although the institutionalization and disciplinary codification of the interior culture is relatively recent, the subject has obviously always been inherent to man. The most logical deduction sees the State as the responsible of a distorted system, which constantly speaks of investment, although it renounces the best that it should implement, the educational and cultural one. The datum, in a broader reading, is placed within one of the atavistic problems of the Italian university system, in which the crossed destinies of research and teaching are not established by law with sufficient clarity, although historically preceded by considerable cultural presuppositions. This is the sense of that series of articles published in 2008 in «Casabella», preceded by an editorial by Francesco Dal Co entitled “Insegnare Architettura [Learning Architecture]”, in which four Masters (Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Pierluigi Nervi and Peter Eisenman express themselves on the complex theme of Architecture teaching: scientific research and the transmissibility of its results are the first reason for the existence of the university system, and it is perhaps necessary to begin today a phase of serene reflection on the potential that may arise from the presence in the same universities of many different disciplines that look to the project, from different points of view. The structure of the Sector Conferences reiterated the wish that, thanks to the theoretical support, it is still possible to find a dialectical value of architecture with its context, which restores its metaphysicality, the ability to speak for metaphorical evocations and, quoting once again Cornoldi (2005), that “the disciplines of the interior are neither subordinate nor independent, but constitute an essential deepening of the Architecture [...]. Investigating in depth the nature of the spaces, the architecture of the interior creates and verifies in them the sense of a building”. It is therefore possible to draw some conclusions which confirm the topicality of the guidelines that have emerged in the various scientific fora and which today can be of help in trying to give a current meaning to the university system. Let us try to synthesize them by points. 1- The need to expand the concept of “design practice” to that of “design research”, since the pragmatic excess tends to no longer contemplate the circular process of which the School, especially Italian, benefited (theory-practice-
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transmissibility). 2- The importance of Theory, the presupposition of research and teaching, through which to put history, or histories, in continuity with the projection into the future. Once again, Cornoldi reiterated the role of the Masters in the knowledge tradition and the need for every formulation “of the epic narrative of origins, which defines its link with history; and of the writing of laws, which guarantees its present and future”. 3- The need to find in the Theory a dynamic vitalism that could be a design tool, leaven of ideas, methodological awareness. A sort of wish for the escape from that Mannerism of which Eisenman speaks, to find instead the Riccini’s “Renaissance phase”: a maieutic passage from theory to praxis, “the (productive) equivalence between writing and reading” (Roland Barthes), the biunivocal consequence between “knowing” and “knowing how to do” that has always distinguished the Italian tradition, as Bossi (2009) writes, since “it is from the recognition and recovery of these memories that we must start in the construction of new «objects»”. Teaching should therefore constitute the ‘continuing education’ phase of learning, without which every assumption would be indivisible in practice. Thus, if the research is the disciplinary “theogony”, teaching is its “theology”. 4- The strengthening of dialogue and confrontation, which, apart from the bureaucratic split between the Sectors, recalls the significance of the role of objects in the architectural interior, providing a link between topos, collective memory and people. 5- The hope that this dialogue may take place in the seats of university knowledge par excellence, in whose laboratory teaching the multifaceted knowledge (confluence of notions) can be reconciled with mutual disciplinary enrichment (rediscovery of values). In 1938, in his inaugural address to the Department of Architecture of the Armour Institute in Chicago, Ludwig Mies van der Rohe said:
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“Pertanto l’insegnamento non ha a che fare soltanto con fini pratici, ma anche con valori. Gli scopi pratici sono strettamente connessi alla peculiare struttura della nostra epoca. I nostri valori, d’altro lato, hanno le loro radici nella natura spirituale dell’uomo. Se l’insegnamento può avere uno scopo, questo è di inculcare il senso della responsabilità e la capacità di introspezione. L’educazione deve portarci dalle opinioni gratuite al giudizio responsabile. Deve condurci dal caso e dall’arbitrarietà alla chiarezza razionale e all’ordine intellettuale”.
Riferimenti bibliografici
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“Therefore, teaching does not have only to deal with practical aspects, but also with values. Practical purposes are closely related to the peculiar structure of our time. Our values, on the other hand, have their roots in the spiritual nature of man. If the teaching can have a purpose, this is to inculcate the sense of responsibility and the capacity for introspection. Education must lead us from free opinions to responsible judgment. It must lead us from chance and arbitrariness to rational clarity and intellectual order”.
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urbanform and design Architettura al presente.
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Fabrizio Toppetti
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DICAR Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura, Politecnico di Bari Email: matteo.ieva@poliba.it
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“Criticare significa soltanto constatare che un concetto svanisce, perde alcune sue componenti o ne acquisisce altre che lo trasformano nel momento in cui viene immerso in un nuovo contenuto. Ma costoro che criticano senza creare, che si limitano a difendere ciò che è svanito senza potergli dare le forze per ritornare in vita, costoro sono la piaga della … omissis … (ndr) architettura”. Questa potente considerazione di Deleuze e Guattari, tratta da Che cos’è la filosofia (trad. it. di A. De Lorenzis, Torino, Einaudi, 2002), offre, in premessa a questa breve recensione, la straordinaria opportunità di condensare in poche righe il contenuto essenziale dell’opera di Fabrizio Toppetti. Piccolo libro, come lo definisce l’autore che “rilegge” le ricerche prodotte nel corso di un decennio – ripercorrendo con un intenso sfondo “critico” i significati che inquadrano il tema della modernità e del contemporaneo in architettura – interessato a costruire una visione basata su un processo di “disincantamento” dei postulati più ricorrenti. Quasi una forma di “profanizzazione” delle verità storiche portate avanti con ostinazione da una consolidata letteratura specializzata che sembra averle, in qualche modo, sacralizzate. Un primo quesito, che mostra l’orizzonte di riflessione cui tende l’articolazione degli scritti, compare già nell’introduzione Moderno contiene contemporaneo in cui si insegue un traguardo problematico teso a scrutare l’interlinea di pensiero e dell’agire in questa fase storica attraverso la componente autocoscienziale. L’interrogarsi sulla “dimensione autoriflessiva” è impiegato con un chiaro proposito: capire se esiste – e qual è – il limite che separa il moderno dal contemporaneo, al fine di constatare quanto l’essere nel nostro tempo disveli una condizione di esistenza ancora agente in una sorta di cono d’ombra del moderno che interagisce col presente. Scorrendo i capitoli di quest’opera molto densa, si percepisce apertamente che la ricerca delle chiavi interpretative è molteplice e l’esposizione degli argomenti esecra paradigmi teorici personali per immettersi in un circuito di dialettica pura. Lo dimostra l’intrecciarsi di differenti occasioni di lettura comparata, con continui richiami ai personaggi del Movimento Moderno e della contemporaneità che hanno contribuito al processo di transizione storica, proposta con lo scopo di indagare – fenomenologicamente, da progettista (aspetto decisamente originale della riflessione) – il problema dell’appartenenza. Ricerca del legame inscindibile con una complessità del reale, difficilmente oggettivabile nel decifrare il rapporto tra un prima e un dopo, prospettata acutamente senza rinunciare a tessere il dato percettivo-soggettivo utile a definire gli “elementi materiali riconducibili ai dati dell’esperienza e dell’immaginazione”. È in questo quadro di valutazioni critiche che l’autore ripercorre il pensiero dei principali esponenti della modernità, specie dei maestri e di coloro che l’hanno narrata, sia ex ante, come premessa alla nascita di una nuova avanguardia culturale, essenziale dal punto di vista del divenire storico, sia come opinione ex post di fenomeni che si sono, sia pure in parte, consumati. Scrive al paragrafo Rapporto con la storia: “… la formazione dei maestri del moderno è intrisa di storia, la negazione strumentale di una memoria collettiva non azzera la profondità culturale e il vissuto dei singoli che emerge prepotentemente nell’agire”. Riconosciuta – per così dire – l’evidenza autoriale, l’appro-
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“To criticize means only to ascertain that a concept vanishes, loses some of its components or acquires others that transform it when it is immersed in new content. But those who criticize without creating, who merely defend what has vanished without being able to give them the strength to return to life, they are the scourge of ... omissis ... architecture”. This powerful consideration made by Deleuze and Guattari, taken from Che cos’è la filosofia (trad. It. By A. De Lorenzis, Turin, Einaudi, 2002), offers, in the introduction to this short review, the extraordinary opportunity to condense in a few lines the essential content of the Fabrizio Toppetti’s work. A small book, as defined by the author who “rereads” the research produced over the course of a decade – retracing with an intense “critical” background the meanings that frame the theme of modernity and contemporary architecture – interested in build a vision based on a process of “disenchantment” of the most recurring postulates. Almost a form of “profanation” of historical truths obstinately carried forward by a consolidated specialized literature that seems to have, in some way, sacralized them. A first question showing the horizon of reflection towards which the articulation of the writings tends, appears already in the introduction “Modern contains contemporaneo?” in which a problematic goal is pursued, aimed at scrutinizing the line of thought and of the action in this historical phase through the self-consciousness component. The questioning of the “self-reflexive dimension” is used with a clear purpose: to understand if there is - and what it is - the limit that separates the modern from the contemporary, in order to ascertain how much the being in our time reveals a condition of existence still acting in a sort of cone of shadow of the modern that interacts with the present. Going through the chapters of this very dense work, it is openly perceived that the search for interpretative keys is manifold and the exposition of the arguments executes personal theoretical paradigms to enter within a circuit of pure dialectics. This is demonstrated by the intertwining of different occasions of comparative reading, with constant references to the characters of the Modern Movement and of the contemporary who contributed to the process of historical transition, proposed with the aim of investigating – phenomenologically, as a designer (a decidedly original aspect of the reflection) – the problem of belonging. Research of the inseparable link with the reality’s complexity, hardly objectible in deciphering the relationship between a before and an after, sharply expected without renouncing to weave the perceptive-subjective data useful for
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Fig. 2 - Copertina dell’edizione spagnola. Cover of the book’s Spain version.
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Fig. 1 - Stanley Tigerman, Il Titanic, collage, 1978. Stanley Tigerman, The Titanic, collage, 1978.
defining the “material elements attributable to the data of experience and imagination”. It is in this context of critical evaluations that the author retraces the thinking of the main exponents of modernity, especially the masters and those who narrated it, both ex ante, as a premise for the birth of a new cultural avant-garde, essential from the point of view of the historical becoming, both as an ex post opinion of phenomena that have, even in part, been consumed. The author writes in the paragraph relation with history: “... the training of modern masters is steeped in history, the instrumental denial of a collective memory does not eliminate the cultural depth and the experience of the individual who emerges overwhelmingly in acting”. Recognized – so to speak – authorial evidence, the in-depth analysis of the themes offered to the reader reveals the thin reasoning built to clarify the different perspective of the modern world: openness to the future giving life, from the present, to a new by itself as a new and prodigious epochal initiation. Toppetti – by following with a critical spirit the trajectories of the theoretical vision suggested by – leads the reader to gradually become aware of the dissolution of the connections between the concept of modernity and self-understanding of itself in the thought developed in the European cultural context, moreover conscious that the process started by it as uninterrupted progress can be considered, in a certain sense, relativized
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fondimento integrale dei temi offerti al lettore rivela il sottile ragionamento costruito per chiarire la differente prospettiva del mondo moderno: l’apertura al futuro dando vita, dal presente, a un nuovo da sé quale inedito e prodigioso cominciamento epocale. Percorrendo con spirito critico le traiettorie della visione teoretica suggerita dagli stessi artefici, Toppetti porta il lettore a prendere gradualmente coscienza della dissoluzione delle connessioni tra il concetto di modernità e l’autocomprensione di sé stessa nel pensiero sviluppato in ambito culturale europeo, oltretutto consapevole che il processo da questa avviato come avanzamento ininterrotto può considerarsi in un certo senso relativizzato e generalizzato nei suoi effetti se si è in grado di comprenderlo con un’ottica distaccata. In fondo, è con questo orizzonte di pensiero che si potrebbe spiegare l’antinomia teorica proposta nel sottotitolo Moderno contiene contemporaneo, perché la storia delle idee del moderno non è affatto conclusa e non si è ancora – come dire – in una post-storia che può procedere nel cammino arrischiante della sintesi di un corso ormai archiviato. L’incedere su questi temi porta inoltre ad interrogarsi sul concetto di Zeitgeist, letto anche come spirito del luogo, quintessenza evidente dello spirito della civiltà, con cui giunge a chiarire quanto il presente rappresenti un cambiamento (civile) che si consuma nel desiderio di un futuro necessitato (progetto), diverso e animato da un pensiero in corsa verso l’oltre, quale bisogno di un fare – avverte – che si nutre di una coscienza etica. La tematica sui postulati progettuali declina inevitabilmente sulle diverse accezioni del termine progetto e del suo significato. In controtendenza a un pensiero che considera l’azione propositiva dell’architetto ancora basata sulla “cultura delle idee”, quale lascito di una concezione radicata nella post-moMatteo Ieva | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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ER EI D N SC H BR ET dernità, lo studioso tuderte indica la via quaroniana della “cultura del progetto”, considerata quale dispositivo di pensiero in grado di cogliere, mediante un equilibrato a priori intenzionale offerto come “orizzonte di senso”, la possibilità di “mettere in conto anche la perdita di una presunta purezza e integrità. Se necessario rinunciando anche alla propria autonomia in favore di una coscienza eteronoma che restituisca all’architettura la capacità di rispondere adeguatamente, entro i limiti che le sono propri, alle questioni poste dalla società civile”. Queste brevi considerazioni, che offrono un’idea sommaria della vastità degli argomenti sviluppati, abilmente condotti su ambiti impervi e sublimi del sapere (architettura, filosofia, sociologia, arti visive, letteratura, cinema, ecc.), lasciano intuire il complesso legame con cui Toppetti ha costruito l’ordito dei punti di vista che animano il dibattito odierno. L’astuzia del ricercatore si è naturalmente dimostrata anche nel non dare risposte, ma nel porre domande in modo conveniente, specie sugli scenari complessi della contemporaneità. Ritornando all’adagio proposto nell’esergo iniziale, possiamo affermare che l’operazione speculativa dell’autore di Architettura al presente, portata avanti con imperturbabile coerenza affrontando le insidie del mare in burrasca della critica d’architettura e approdando sull’isola incantata della creatività (termine più volte evocato col significato di capacità produttiva della ragione), giunge a suggerire traiettorie di pensiero che intercettano iperboli di dinamismo propositivo confluenti in una febbrile aspirazione ad una coscienza etica dell’architetto portatrice di una “visione sistemica di ampio spettro che riporti l’uomo … al centro del nostro fare” e, allo stesso tempo, annuncia l’opportunità del risveglio di uno spirito ecologista per la conquista di una nuova sen-
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and generalized in its effects if one is able to understand it from a detached perspective. After all, it is with this horizon of thought that one could explain the theoretical antinomy proposed in the subtitle Modern contains contemporary, because the modern’s history ideas is not at all concluded and is not yet – how to say – in a post-history that can proceed along the risky path of the synthesis of a course now archived. Gaiting on these issues also leads to questioning the concept of Zeitgeist, also read as the spirit of the place, an evident quintessence of the civilization spirit, with which to clarify how much the present represents a (civil) change that is consumed in the desire of a future needed (project), different and animated by a thought running towards the beyond, as the need for doing – he warns – that feeds on an ethical conscience. The theme on design postulates inevitably declines on the different meanings of the term “project” and its meaning. By contrasting a thought that considers the architect’s proactive action still based on the “culture of ideas”, as a legacy of a conception rooted in postmodernity, the tuderte scholar indicates the Quaronian way of “design culture”, considered as a thought device capable of grasping – through a deliberate balanced a priori offered as a “horizon of meaning” – the possibility of “taking into account also the loss of an alleged purity and integrity. If necessary, also renouncing to its autonomy in favor of a heteronomous conscience that restores ar-
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Fig. 3 - Toni Servillo in una scena del film “Le conseguenze dell’amore”, regia Paolo Sorrentino, 2004. Toni Servillo in a scene from the film “The consequences of love”, directed by Paolo Sorrentino, 2004.
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chitecture’s ability to respond adequately, within its own limits, to the questions posed by civil society”. Such considerations – which offer a brief idea of the vastness of the topics developed and skillfully conducted on impervious and sublime areas of knowledge (architecture, philosophy, sociology, visual arts, literature, cinema, etc.) –, allow us to guess the complex link with which Toppetti built the warp of the points of view that animate today’s debate. The shrewdness of the researcher has naturally also been shown in not giving answers, but in asking questions in a convenient way, especially on complex contemporary scenarios. Returning to the adage proposed in the initial exergus, we can affirm that the speculative operation of the author of Architecture at the present – carried out with imperturbable consistency by facing the pitfalls of the stormy sea of architectural criticism and landing on the enchanted island of creativity (term repeatedly evoked with the meaning of productive capacity of reason) – comes to suggest trajectories of thought that intercept hyperboles of proactive dynamism converging in a feverish aspiration to an ethical conscience of the architect bearer of a “broad systemic vision specter that brings man back ... to the center of our work “and, at the same time, announces the opportunity to awaken an ecological spirit for the conquest of a new sense of sensitivity capable of making the earth” live with awareness and responsibility “. Prophecy of a state of necessity that can be understood in all its scope in these days of COVID-19 pandemic.
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Fig. 4 - Timothy Greenfield-Sanders, compleanno dei novant’anni di Philiph Johnson, foto di gruppo, ristorante Four Seasons, Seagram Building, New York 1996 (Archivio CCA). TTimothy Greenfield-Sanders, Philip Johnson’s ninetieth birthday, group photo, Four Seasons restaurant, Seagram Building, New York 1996 (CCA Archive).
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sibilità in grado di far “abitare la terra con consapevolezza e responsabilità”. Vaticinio di uno stato di necessità che si intuisce in tutta la sua portata proprio in questi giorni di pandemia COVID-19.
LetteraVentidue, 2018, pp. 168 ISBN: 9788862423045
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Matteo Ieva | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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urbanform and design Landscape as forma mentis. Interpreting
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Nicola Scardigno Marco Trisciuoglio
Department of Architecture and Design, Politecnico di Torino E-mail: marco.trisciuoglio@polito.it
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Sono ancora molto rari gli studi sugli insediamenti umani in Asia orientale che si fondano sull’approccio tipo-morfologico. Se dobbiamo a Jeremy W.R. Whitehand e a Kai Gu l’importantissima apertura di un punto di vista di matrice conzeniana sul tema delle città cinesi e se Fumihiko Maki ha recentemente tradotto in inglese il suo City with a Hidden Past (1980), dove ha tentato l’impossibile sfida di descrivere i “substrata” morfologici della capitale del moderno Giappone, il libro di Chen Fei e Kevin Thwaites su Nanchino (Chinese Urban Design. The Typomorphological Approach) non ha fatto che mostrare una lacuna e allo stesso tempo forse un’opportunità per quel tipo di studi. Probabilmente il congresso mondiale dell’ISUF, celebrato proprio a Nanchino nel luglio del 2016, ha avuto un ruolo cardine nel descrivere al mondo degli studiosi dei nuovi possibili percorsi di ricerca e un futuro di promettenti indagini su quei temi. L’Asia orientale è una realtà complessa, nella quale l’orografia, le infrastrutture e i luoghi sacri (tempi e santuari) hanno giocato ruoli tra i più determinanti nel creare lo spazio abitato. Molto spesso i tessuti urbani sono organizzati in pattern basati su un unico tipo preminente: nelle aree costiere centrali della Cina i centri storici sono letteralmente costruiti attraverso la ripetizione di sistemi di case a corte, così come le periferie delle metropoli “smart & tech” di oggi sono costituite da gruppi di torri multipiano che possono essere lette come le cellule di nuovi sistemi di comunità urbane (mirabilmente studiate di recente da Peter G. Rowe). Il maggiore problema per dei morfologi urbani formatisi in Italia è la mancanza di quei materiali che erano alla base delle ricerche condotte da Saverio Muratori e da Gianfranco Caniggia sulle città italiane: nell’Asia orientale trovare mappe antiche o storiche è spesso frutto di colpi di fortuna, i documenti storici (e tra questi le mappe catastali) non sono facili da reperire, mentre le pratiche sistematiche di rilievo archeologico alla scala urbana e territoriale sono oggi agli albori, senza aver ancora raggiunto risultati che siano fondamentali e imprescindibili. In un contesto del genere, senza il supporto di alcun tipo di strumento conoscitivo tradizionale, solo i dati dell’antropologia culturale e della topografia, insieme ovviamente con la ricerca sul campo attraverso rilievi diretti, può aiutare l’esperto di morfologie ad affrontare lo studio della struttura degli insediamenti asiatici orientali. Il giovane ricercatore Nicola Scardigno è stato due volte coraggioso: nello scegliere gli insediamenti della Mongolia come tema per le sue ricerche e nell’accettare la sfida di lavorare senza il conforto di documenti che non fossero la scarna bibliografia esistente. Il sottotitolo del suo lavoro, Interpreting the integral dimension of the anthropic space, suggerisce come proprio l’interpretazione soggettiva possa diventare, soprattutto in Asia orientale, uno strumento essenziale. La Mongolia è prima una nazione e una regione che uno stato, visto quanto la cultura mongola si è diffusa in Cina, in Russia e anche in Kazakistan. La Mongolia come caso studio mostra da subito di essere il grado zero dell’insediamento urbano, la risposta alla domanda “com’è potuto succedere tutto per la prima volta e quando è successo?”. Si tratta di un paesaggio che, prima di
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The studies on Eastern Asian human settlements based on a typo-morphological approach are still very rare. If we owe to Jeremy W.R. Whitehand and Kai Gu the very important opening of a Conzenian view on the topic of the Chinese cities and if Fumihiko Maki recently translated in English language his City with a Hidden Past (1980), where he tried the impossible challenge of describing the morphologic “substrata” of modern Japan’s capital, the book by CHEN Fei and Kevin Thwaites about Nanjing (Chinese Urban Design. The Typomorphological Approach) showed a lack and maybe at the same time a new opportunity for that kind of studies. Probably the worldwide congress of ISUF, celebrated in Nanjing in July 2016 has had a role in describing new possible research paths and a future of promising investigations. Eastern Asia is a complex reality, where orography, infrastructures and holy places (temples and sanctuaries) played the most important roles in creating the inhabited space. Very often, urban fabrics are organized on one-typology patterns: in China’s coastal areas the historical centres are literally built by the repetition of systems of courtyard-houses, as well as the contemporary peripheries of the “smart & tech” metropolis are made up of group of multi-storeys towers that can be read as the cells of new urban communities’ systems (recently admirably studied by Peter G. Rowe). The main problem for the Italian trained urban morphologists is the lack of the materials that were the basis for the studies driven by Saverio Muratori and Gianfranco Caniggia on Italian cities. In Eastern Asia collecting ancient or historical maps is often linked to the lucky chance, the historical documents (and among them the cadastrian maps) are not easy to be found, while the practice of archaeological surveying at the urban and land scale is now at the rising moment, with not yet fundamental and essential results. In such a context, without any kind of traditional tools, only cultural anthropological and ethnographic data, obviously together with the research on field through direct surveys, can help the morphologist in approaching the typomorphological structure of Eastern Asian settlements The young scholar Nicola Scardigno was brave twice: in choosing Mongolia’s settlements as the theme of his studies and in accepting the challenge to work without the support of documents except for the scarce existing bibliography. The subtitle of his work, Interpreting the integral dimension of the anthropic space, suggests that just the subjective interpretation becomes, overall in Eastern Asia, a fundamental tool.
the integral dimension of the anthropic space. Mongolia
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Fig. 1 - Tre tipologie di isolato urbano degli insediamenti semi-informali (elaborazione grafica di Nicola Scardigno). Three types of semi-informal settlement’s urban block (Nicola Scardigno’s drawings).
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Fig. 2 - Insediamento semi-informale della città di Karakhorum (foto di Nicola Scardigno). Kharakorum’s semi informal settlement (Nicola Scardigno’s picture). Mongolia is a nation and a region, before being a state (Mongol culture spread in China and Russia and even in Kazakistan). Mongolia as study case shows immediately to be the zero degree of urban settlement, the answer to the question: “how could everything have happened for the first time and when did it happen?”. It is a landscape that, before being a “forma mentis”, can be seen as a blank space, physically made up by mountains, steppes and deserts, traditionally crossed by a seasonal nomadic civilization. Studying the human settlement in a country of more than 2.600.000 inhabitants (half of which is living in Ulaanbaator, the capital city, and the other half is living the steppe landscape in a semi-nomadic way) means observing and describing the primary steps of the human stable settlement organisation, looking at the anthropologic rising of the idea itself of urban form. The existing scientific works on the Mongol settlement culture are recent and almost all quoted in the book by Nicola Scardigno. They are very few and mostly based on ethnographic, historic, social and economic data: from the rich volume by Ole Bruun and the Inner Mongol scholar LI Narangoa (2006), overall devoted in describing the Mongolia of the last century until the international researches led by the Italian ethno-archaeologist Francesca Lugli (2013). Some studies published by Mongol scholars can be read through the Italian background of studies on Mongol culture: the essential history written
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essere una “forma mentis”, può essere considerato come uno spazio vuoto da riempire, fatto di montagne, steppe e deserti, tradizionalmente attraversato da una civiltà nomade stagionale. Studiare l’insediamento umano in un paese di più di 2.600.000 abitanti (metà dei quali vive nella capitale Ulaanbaator, e l’altra metà nel paesaggio steppico in un modo semi nomade) significa osservare e descrivere i primi passi dell’organizzazione dell’insediamento stabile umano, guardando alla nascita dell’idea stessa di forma urbana. La lettura scientifica sulla cultura insediativa mongola è recente e quasi tutta citata nel libro di Scardigno. Le opere sono poche e per lo più basate su dati etnografici, storici, sociali ed economici: si va dal ricco volume di Ole Brunn e della studiosa di nazionalità mongola-cinese LI Narangoa (2006), dedicato principalmente a descrivere la Mongolia dell’ultimo secolo, fino alle ricerche internazionali condotte dalla etno-archeologa italiana Francesca Lugli (2013). Alcuni studi pubblicati da studiosi mongoli possono essere letti attraverso la lente di studi italiani sulla cultura mongola: l’imprescindibile storia di Michele Bernardini (2012) e, nel quadro delle opere di Eugenio Turri, il suo indimenticabile libro sugli “uomini delle tende” (2008). Non c’è molto di più. Soltanto negli ultimissimi anni l’attenzione sulle culture mongole sta crescendo e così l’esploratore svizzero Christoph Baumer ha completato nel 2018 la sua History of Central Asia, mentre Rebekah Plueckhahn ha appena pubblicato a UCL, due mesi or sono, il suo Shaping Urban Futures in Mongolia, studio dedicato al ruolo della proprietà dinamica e dei flussi economici nel determinare la forma di Ulaanbaatar. Così, Nicola Scardigno si è trovato a lavorare in un deserto fisico e scientifico allo stesso tempo, ma con quella che è la migliore qualità per un ricercatore: la curiosità. Pagina dopo pagina egli delinea la storia e la cultura delle genti Marco Trisciuoglio | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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Fig. 3 - Fasi costruttive del gher (elaborazione grafica di Nicola Scardigno). Gher’s constructive phases (Nicola Scardigno’s drawings).
che in antico parlavano il turkic, quindi descrive la topografia del territorio mongolo. Il capitolo sulla costruzione della tenda circolare detta “ger” (“yurt” in turkic, “yurta” in russo) diventa cruciale nel mostrare la singola cellula tipologica della cultura insediativa mongola, quasi descrivendo dal vivo il contenuto di molti saggi pubblicati sull’argomento in tutto il mondo (uno dei migliori è apparso nel 2018 sulla rivista “Pollack Periodica”, redatto da alcuni giovani studiosi ungheresi). La descrizione di Scardigno pare guidata da una profonda consapevolezza tettonica, che senza dubbio gli deriva dalla sua formazione dottorale al Politecnico di Bari. Alla fine la Topografia (il paesaggio mongolo così duro da vivere, come si legge nelle interviste condotte dall’autore alla popolazione dei “ger”), la Tipologia (il “ger” e le sue regole d’insediamento stagionale, insieme con il ricovero degli animali e il recinto di pertinenza) e la Tettonica (la descrizione “semperiana” degli elementi base che gli uomini assemblano per creare la loro dimora) sono ancora una volta le tre “T” in grado di descrivere un mondo morfologico. I templi buddisti, nelle loro diverse varianti, e le reti di strade create dal nomadismo interno non ne sono che il corollario. Credo davvero che questo libro, pubblicato da FrancoAngeli nella sua ambiziosa collana Lettura e Progetto, possa anche aggiungere qualche cosa all’idea stessa di paesaggio per come è oggi trattata all’interno della nostra cultura occidentale. Se maestri come Eugenio Turri e Paolo Maretto sono, insieme con Saverio Muratori, un solidissimo punto di partenza che arriva dal passato, è giunto ormai il momento di trovare strumenti concettuali utili per andare più a fondo nel descrivere il paesaggio dal punto di vista antropologico. Questo potrà succedere magari anche in un modo innovativo che possa mantenere da un lato
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by Michele Bernardini (2012) and, in the frame of the works by Eugenio Turri, the unforgettable book on the “people of tents” (2008). No more than this: only during the last few years the attention on Mongol cultures is increasing, so the Swiss explorer Christoph Baumer completed in 2018 his History of Central Asia, while Rebekah Plueckhahn just published at UCL, two months ago, her Shaping Urban Futures in Mongolia, a study devoted to the role of dynamic ownership and economic flux in determining the urban form of Ulaanbaatar. So, Nicola Scardigno works in a physical and scientific desert, but with the best quality for a researcher: curiosity. Page by page he outlines the history and the culture of the Turkic speaking people, then he describes the topography of Mongolia. The chapter about the round building of “ger” (“yurt” in Turkic, “yurta” in Russian) is crucial in showing the single typological cell of the Mongol settlement culture, almost describing live many papers written about that topic all over the world (one of the best ones appeared in 2018 on the magazine “Pollack Periodica”, written by some young Hungarian scholars). But the description by Scardigno is led by a deep tectonic awareness, surely owed to his PhD education at Politecnico di Bari. In the end Topography (the so-hard-to-live Mongol landscape, as it is recognizable in the interviews done by the author with the “ger” people), Typology (the “ger” and its seasonal settlement
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Fig. 4 - Accampamento estivo (foto di Nicola Scardigno). Summer camp (Nicola Scardigno’s picture).
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Fig. 5 - Tipologie dei monasteri buddisti della mongolia (elaborazione grafica di Nicola Scardigno). Typologies of Buddhist monasteries in Mongolia (Nicola Scardigno’s drawing). .
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Fig. 6 - Monastero Buddista di Amarbayasgalant (1727-1736) (foto di Nicola Scardigno). Amarbayasgalant Buddhist Monastery (Nicola Scardigno’s picture).
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la tradizione della scuola italiana e allo stesso tempo andare oltre: adottare la morfologia dell’architettura come uno strumento d’indagine antropologica può servire soprattutto per cercare di scoprire il ruolo dei processi morfogenetici nel dare forma a nuovi tipi insediativi, evidenziando lo sviluppo “transizionale”, nel tempo, delle morfologie urbane e di quelle territoriali.
rules, together with the precinct and the storage for animals) and Tectonics (the “semperian” description of the simple elements that people assemble in order to create their home) are once again the three T-concepts able to describe a morphologic world. The Buddhist temples, in their few variations, and the networks of the nomadic roads are only the corollary. I am confident that this book, published by FrancoAngeli in its ambitious series “Reading and Design”, could also add something to the idea of landscape as it is nowadays treated in our western architectural culture. If masters such as Eugenio Turri and Paolo Maretto, together with Saverio Muratori, are a very solid starting point, coming from the past times, now it’s also the time to find conceptual instruments to go deeper in describing the landscape by the anthropological side. That can be even in a new way that could maintain the tradition of the Italian school and going ahead at the same time: adopting the morphology of architecture as an anthropological tool and overall trying to discover the role of formal processes in shaping the new settlement types, highlighting the “transitional” development in time of the urban and land morphologies.
FrancoAngeli, 2018, pp. 208 ISBN: 9788891768803
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PNUM: dieci anni dopo
Vitor Oliveira
CITTA Research Centre for Territory Transports and Environment, Porto, Portugal E-mail: vitorm@fe.up.pt
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It has been ten years since I had the pleasure of presenting a proposal to the ISUF Council, in the Hamburg conference of 2010, to establish a Portuguese Network of Urban Morphology (PNUM). A paper published at the time, on the study of urban of urban form in Portugal, reported the development of many research projects mainly taken in isolation and also the lack of internationalization of Portuguese urban morphology (Oliveira et al., 2011). Since then, PNUM has expanded from a ‘Portuguese’ to a ‘Portuguese-language’ network, embracing Brazil, it has effectively contributed for the promotion of the study of urban form in the two countries, and it has strengthened the relation of Portuguese-language urban morphologists with members of ISUF and of other regional networks. One of the main activities of PNUM over the last decade has been the organization of annual conferences. Nine conferences, six in Portugal and three in Brazil, have been organized since the first gathering in Porto, back in 2011, under the coordination of Mário Fernandes. I would highlight two of these events. In 2014, in Porto, we have organized the annual conference of the International Seminar on Urban Form (Fig. 1a). It was the first ISUF conference taking place in Portugal and the second occurring in a Portuguese-language country after the successful conference in Ouro Preto, back in 2007, coordinated by Stael Pereira Costa. Until today Porto 2014 has been the largest ISUF conference with almost 400 presentations (from an initial set of 550 submissions), organized under ten tracks under the general theme ‘Our common future in urban morphology’. Last year we have met in the garden city of Maringá, in south Brazil. ‘Urban form and nature’, coordinated by Renato Leão Rego, took place in late August, and has attracted a high participation of researchers (more than 400 submissions), mostly Brazilians, many of whom students. Participants came from 16 of the 26 states of the country. For the reports on these two conferences see Morley (2014) and Meneguetti (2019). Another fundamental element of PNUM is the ‘Revista de Morfologia Urbana’ (http://revistademorfologiaurbana.org/index.php/rmu) (Fig. 1b). The ‘Revista’ started to be published in 2013 in close articulation with ‘Urban Morphology’, benefiting from the advice of the U.M. editor, Jeremy Whitehand. The ‘Revista’ is published in Portuguese, two times a year. Since early 2019 it has been edited by Julio Vargas, Renato Saboya and Vinicius Netto. The last number of the ‘Revista’, published in December, includes twelve papers and six perspectives. All these perspectives are dedicated to Bill
Sono passati dieci anni da quando ho avuto il piacere di presentare la proposta al Consiglio ISUF, nella conferenza di Amburgo del 2010, per istituire una Rete portoghese di morfologia urbana (PNUM). Un documento pubblicato all’epoca, sullo studio delle forme urbane in Portogallo, che riportava lo sviluppo di numerosi progetti di ricerca principalmente isolati e anche la mancanza di internazionalizzazione della morfologia urbana portoghese (Oliveira et al., 2011). Da allora, il PNUM si è esteso da “portoghese” a una rete di “lingua portoghese”, abbracciando il Brasile, ed ha contribuito efficacemente alla promozione dello studio della forma urbana nei due paesi rafforzando il rapporto dei morfologisti urbani del linguaggio portoghese con membri dell’ISUF e di altre reti regionali. Una delle principali attività di PNUM nell’ultimo decennio è stata l’organizzazione di conferenze annuali. Nove conferenze, sei in Portogallo e tre in Brasile, sono state organizzate dal primo incontro a Porto, nel 2011, sotto il coordinamento di Mário Fernandes. Vorrei evidenziare due di questi eventi. Nel 2014, a Porto, abbiamo organizzato la conferenza annuale del seminario internazionale sulla forma urbana (Fig. 1a). È stata la prima conferenza ISUF in Portogallo e la seconda in un paese di lingua portoghese dopo la conferenza di successo a Ouro Preto, nel 2007, coordinata da Stael Pereira Costa. Fino ad oggi Porto 2014 è stata la più grande conferenza ISUF con quasi 400 presentazioni (da una serie iniziale di 550 presentazioni), organizzata su dieci tracce sotto il tema generale “Our common future in urban morphology”. L’anno scorso ci siamo incontrati nella città giardino di Maringá, nel sud del Brasile. “Urban form and nature”, coordinato da Renato Leão Rego, si è svolto a fine agosto e ha attirato un’elevata partecipazione di ricercatori (oltre 400 proposte), principalmente brasiliani, molti dei quali studenti. I partecipanti provenivano da 16 dei 26 stati del paese. Per i rapporti su queste due conferenze vedi Morley (2014) e Meneguetti (2019). Un altro elemento fondamentale di PNUM è la Revista de Morfologia Urbana (http://revistademorfologiaurbana.org/index.php/rmu) (Fig. 1b). La “Revista” ha iniziato a essere pubblicato nel 2013 in stretta collaborazione con Urban Morphology, beneficiando dei consigli dell’U.M. editore, Jeremy Whitehand. “Revista” è pubblicato in portoghese, due volte all’anno. Dall’inizio del 2019 è stato curata da Julio Vargas, Renato Saboya e Vinicius Netto. L’ultimo numero di “Revista”, pubblicato a dicembre, comprende dodici articoli e sei prospettive. Tutte queste prospettive sono dedicate a Bill Hillier, deceduto lo scorso novembre e il cui lavoro ha influenzato tanti autori e lettori della nostra rivista. Infine, l’ultimo evento chiave della rete sono i seminari annuali iniziati nel 2015 (Fig. 1c). L’obiettivo principale dell’evento che ha durata settimanale è passare dal dibattito teorico e concettuale promosso nelle conferenze a un efficace esperimento metodologico e tecnico. I diversi approcci nella morfologia urbana, l’interazione tra natura e forma urbana e la relazione tra ricerca scientifica e pratica professionale sono stati i temi principali di questi seminari che si sono svolti a Porto, Vila Nova de Cerveira, Coruña (in articolazione con i nostri colleghi spagnoli) e Maringá. Va notato che due di questi seminari hanno avuto il supporto attivo dell’editor di U+D urbanform and design, Giuseppe Strappa; prima a Porto 2015, attraverso l’articolazione con ISUF Roma, e se-
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PNUM: ten years after
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Hillier, who has passed way last November, and whose work has influenced so many of the authors and the readers of our journal. Finally, the last key event of the network is the annual workshops. The workshops started in 2015 (Fig. 1c). The main goal of each one-week event is to move from the theoretical and conceptual debate promoted in conferences to effective methodological and technical experiment. The different approaches in urban morphology, the interaction between nature and urban form, and the relation between scientific research and professional practice have been the main themes of these workshops, that have taken place in Porto, Vila Nova de Cerveira, Coruña (in articulation with our Spanish colleagues) and Maringá. It should be noted that two of these workshops had the active support of the editor of ‘Urbanform and design’, Giuseppe Strappa; first in Porto 2015, through articulation with ISUF Rome, and second in Coruña 2017, through teaching of the process typological approach. In 2015 a book on the study of urban form in Portugal has been published, gathering the participation of the founding members of PNUM and offering a national portrait of this field of knowledge (Oliveira et al., 2015). This year, a special number of the journal ‘Urbe’ is devoted to the study of urban form in Brazil, gathering the participation of some of the main Brazilian researchers in urban morphology (texts by Renato Saboya, Renato Leão Rego and colleagues, Frederico de Holanda, and Ana Claudia Cardoso and colleagues, are already uploaded online at the time of writing). Since August 2010, PNUM has grown from a small initiative of fifteen researchers to an established network of scientific study of the physical form of cities. The world has also changed over this decade. Yet, the most dramatic transformation has taken place in the last few months, with the COVID-19 pandemic. This has changed each and every aspect of our daily lives. For PNUM it means an additional challenge in our strategy for the next years, notably in strengthening the relations with our colleagues in Mozambique, widening this fraternal relation between Southern Europe and Latin America to Africa.
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conda a Coruña 2017, attraverso l’insegnamento dell’approccio del processo tipologico. Nel 2015 è stato pubblicato un libro sullo studio della forma urbana in Portogallo, che riunisce la partecipazione dei membri fondatori del PNUM e offre un ritratto nazionale di questo campo di conoscenza (Oliveira et al., 2015). Quest’anno, un numero speciale della rivista ‘Urbe’ è dedicato allo studio della forma urbana in Brasile, raccogliendo la partecipazione di alcuni dei principali ricercatori brasiliani sulla morfologia urbana (testi di Renato Saboya, Renato Leão Rego e colleghi, Frederico de Holanda, Ana Claudia Cardoso e colleghi, sono già caricati online al momento della stesura). Dall’agosto 2010, il PNUM è passato da una piccola iniziativa di quindici ricercatori a una rete consolidata di studi scientifici sulla forma fisica delle città. Anche il mondo è cambiato in questo decennio. Tuttavia, la trasformazione più drammatica è avvenuta negli ultimi mesi, con la pandemia di COVID-19. Questo ha cambiato ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Per PNUM significa un’ulteriore sfida nella nostra strategia per i prossimi anni, in particolare nel rafforzamento delle relazioni con i nostri colleghi in Mozambico, ampliando questa relazione fraterna tra l’Europa meridionale e dell’America latina con l’Africa.
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Riferimenti bibliografici
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Meneguetti K. S., (2019) “Eighth Conference of the Portuguese-language Network of Urban Morphology (PNUM)”, in Urban Morphology, n.24, 99-100. Morley I., (2014) “Twenty-First International Seminar on Urban Form”, in Urban Morphology, n.18, 150-152. Oliveira V., Barbosa, M., Pinho P. (2011) “The study of urban form in Portugal”, in Urban Morphology, n.15, 55-66. Oliveira V., Marat-Mendes T., Pinho P. (2015) O estudo da forma urbana em Portugal, UPorto Edições, Porto.
Fig. 1 - a. Locandina di “ISUF 2014” ; b. Copertina della “Revista de Morfologia Urbana”; c. Locandina del “PNUM Workhsop 2015” . a. “ISUF 2014” poster; b. Cover of the “Revista de Morfologia Urbana”; c. “PNUM Workhsop 2015” poster.
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Urban Substrata & City Regeneration. V ISUFitaly International Conference Rome 2020
Paolo Carlotti
Dipartimento di Architettura e Progetto, Università degli Studi di Roma “Sapienza” E-mail: paolo.carlotti@uniroma1.it
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The link between architectural Design and historical and archaeological substrate leaded the papers and debate at the conference held in Rome under the aegis of ISUFitaly. The Italian session of ISUF international has always felt the need to connect morphological studies to the architectural Design; that legacy, which perhaps only Rome can best grasp, between the town of the past and the city of the future, memory and design which – precisely through catch the rules that guided and determined the shape – works to design that will be the city of the future. On the occasion of the Isufitaly conference, the EPUM study day on the topics “Teaching innovation in Urban Morphology” was also held. A day that concluded the EPUM program which saw the cooperation among the University of Cyprus, the University of Porto (FEUP), the University of Rome “Sapienza”, the University of Vienna (SKUOR, TU Vienna) and the Space Syntax Limited of the of the University College London. The meeting has been at the end of several works and research and design experimentation activities opened with greetings of the dean of the Faculty of Architecture of Rome, prof. Anna Maria Giovenale and from the presentation of the works of the prof. Giuseppe Strappa of the Faculty of Architecture of Rome. Five reports were presented on the subject of urban morphology teaching by: Karl Kropf (Design as tools for teaching Urban Morphology), Hanzl Margolzata (The Architecture of the City. Teaching Urban Morphology in Lodz University), Teresa Mara Mendes (Educate for Susteinability: Urban Form & Ecological Urbanism), Nicola Marzot (The Changing role of the architect. Regeneration processes and the teaching of Urban Morphology) and Nadia Caharalambous (Teaching Urban Morphology through Blended Learning. The EPUM digital platform) that has concluded the works. The “Urban Substrata & City Regeneration” International conference (Chairs: Giuseppe Strappa, Paolo Carlotti, Matteo Ieva), held at Rome in the “Palazzo Mattei di Giove” ereited up on the old ruins of the Teatrum Balbi, in one of the best areas of Rome, where the link between present day city and the roots of the ancient substrate are posed in their evidents and even in their contradictions (the Porticus Octaviae, the Teatrum Marcelli, the archaeological area of Largo Argentina). In continuity with previous ISUFitaly meetings, the theme of the Conference has been the fol-
La relazione tra progetto, sostrato storico e sostrato archeologico ha guidato le riflessioni proposte nel convegno del febbraio 2020 svolto a Roma sotto l’egida dell’ISUFitaly. Il network italiano dell’ISUF International ha da sempre avvertito la necessità di legare gli studi morfologici al progetto architettonico; un’eredità che (forse) solo Roma sa cogliere pienamente, tra città del passato e città del futuro, tra memoria e progetto che, proprio attraverso la comprensione delle regole che hanno guidato e determinato la forma, si fa operante per disegnare quella del futuro. In occasione del convegno ISUFitaly si è tenuta anche la giornata di studi EPUM sui temi “Teaching innovation in Urban Morphology”. Una giornata che ha concluso le attività di questa iniziativa che hanno visto collaborare insieme l’Università di Cipro (coord. Prof. N. Charalambous), l’Università di Porto (coord. Prof. V. Oliveira), l’Università di Roma “Sapienza” (coord. Prof. G. Strappa), la TU Wien (coord. Prof. S. Knierbein) e Space Syntax Limited (coord. Prof. K. Karimi). L’incontro che conclude una serie di attività di ricerca e sperimentazione progettuale si è aperto con i saluti della preside della Facoltà di Architettura di Roma, prof. Anna Maria Giovenale e con la presentazione dei lavori del prof. Giuseppe Strappa della Facoltà di Architettura di Roma. Sul tema dell’insegnamento della morfologia urbana sono intervenuti ed hanno presentato le loro relazioni: K. Kropf (Design as tools for teaching Urban Morphology), M. Hanzl (The Architecture of the City. Teaching Urban Morphology in Lodz University), T. M. Mendes (Educate for Susteinability: Urban Form & Ecological Urbanism), N. Marzot (The Changing role of the architect. Regeneration process and the teaching of Urban Morphology) e N. Caharalambous (Teaching Urban Morphology through Blended Learning; The EPUM digital plataform). La conferenza Urban Substrata & City Regeneration (Chairs: G. Strappa, P. Carlotti, M. Ieva), 5a edizione della Conferenza ISUF della sezione italiana, si è svolta nel Palazzo Mattei di Giove, costruito sugli antichi resti del Teatrum Balbi, in una delle aree di Roma in cui il rapporto tra la città attuale e l’antico substrato è più evidente anche nelle sue contraddizioni (il Porticus Octaviae, il Teatrum Marcelli, l’area archeologica di Largo Argentina). In continuità con i precedenti incontri ISUFitaly, il tema della conferenza è stato quello del confronto sugli argomenti della trasformazione delle forme urbane alle diverse scale, ma soprattutto sulla visione critica del patrimonio culturale inteso come elemento su cui sviluppare gli strumenti di progetto. Nella maggioranza dei contributi il substrato, più che una questione specifica, è stato inteso quale realtà costruita utile al progetto contemporaneo. Altro tema proposto, complementare a quello del substrato, è stato quello della rigenerazione urbana. Un tema particolarmente legato al progetto e al sostrato, oggi particolarmente sentito negli studi sulla ricerca urbana e riconsiderato in modo diverso e innovativo sul piano del progetto. Architectural Substrata and Archeological Design è stato il titolo della conferenza di apertura (Chair: P. Carlotti) che ha messo al centro del dibattito quel particolare rapporto tra le architetture della città contemporanea e storica e il disegno matrice dell’insediamento. Tale complessa questione è stata introdotta in maniera magistrale da due esponenti importanti della cultura
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Urban Substrata & City Regeneration. V ISUFitaly International Conference Rome 2020
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| Paolo Carlotti | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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Fig. 1 - Locandina della giornata inaugurale del V Convegno ISUFitaly 2020 e locandina della giornata di studi EPUM a Palazzo Mattei di Giove. Poster of the plenary session of the International Conference and the Side EPUM event. lowing one: to try to connect the topic of the Transformation of the Urban Forms on different scales, to figure out the cultural heritage as basic element to improve the design tools for the architects. In the majority of contributions, the notion of substrate, instead of a specific question, it has been intended as a way of seeing constructed general context for contemporary design. At the same time, another theme complementary to the latter has been represented by the key word of Urban Regeneration. A theme particularly linked to the project and the substrate, and at the present day extremely felt in the urban research and now considered in a different perspective for the project. “Architectural Substrata and Archeological Design” was the title of the opening plenary session (Chair: P. Carlotti) that has been focused on that particular relationship between the contemporary architecture and historical city and the master drawing of settlement of the past introduced from two important exponents of contemporary archaeology and architectural culture: Paolo Carafa and Alexander Schwarz. Paolo Carafa, in his opening speech “Archeology of Architecture and Landscape: History and Storitelling”, explaining the meaning for archaeologists, to offer to all professionals who deal with the city. For the whole history of the city, but above all, for how much every single element means and can mean for the overall and
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archeologica e architettonica contemporanea: il prof. Paolo Carafa e il prof. Alexander Schwarz. Paolo Carafa nel suo intervento di apertura Archeology of Architecture and Landscape: History and Storitelling ha esposto in primo luogo il significato, per gli archeologi ma anche per tutti coloro che si occupano della città. Ha quindi spiegato cosa significhi e possa significare la forma d’insieme e attuale della città, per la storia intera della stessa ma soprattutto per ogni singolo elemento di cui è costituita. Paolo Carafa, uno dei principali esponenti della cultura archeologica romana (ha, con Carandini, composto l’Atlante di Roma Antica), rivolgendosi agli architetti e ai morfologi urbani presenti, ha spiegato in maniera esaustiva quanto un singolo reperto sia più significante se reinserito nel suo contesto originario, nell’insieme dell’organismo urbano. Oltre il singolo indubbio valore storico e documentario, la tessera archeologica può essere infatti particolarmente significante per immaginare lo scenario d’insieme – che purtroppo tantissime volte manca delle connessioni importanti e fondamentali per ridisegnare l’insieme del mosaico architettonico e urbano –, il frammento come essenza comprensibile solo se si riesce nuovamente a dare unità all’immaginare l’insieme che di volta in volta ha guidato la trasformazione, dall’istante in cui sono state definite le prime regole, al presente quando la complessità e il veloce ritmo dei cambiamenti può far apparire questo collegato solo al caso. Qui certamente gli studi di morfologia urbana possono aiutare a comprendere quanto del passato è perso o riutilizzato. Proprio a partire dalle impronte più recenti e ancora perfettamente riconoscibili per sottrazione possiamo, attraverso lo studio della forma edilizia, rimettere in evidenza quanto è rimasto o reintegrato nel presente, e quanto invece è possibile attribuibile ad un passaPaolo Carlotti | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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Fig. 2 - Palazzo Mattei di Giove. Palazzo Mattei di Giove.
to più o meno remoto. Alexander Schwarz ha per controcanto affrontato il difficile rapporto col futuro. Rapporto che ha architettonicamente posto in evidenza attraverso il progetto architettonico di reinvenzione del centro per Berlino. Un progetto che ha mostrato quanto siano importanti le forme e le centralità del passato per ripensare quelle del presente. La relazione di Schwarz, Museuminselsel, Berlin. The invention of an ideal Historic city centre, è stata particolarmente efficace nel mostrare come si possa contribuire a continuare la storia, anche quella di una città moderna e globale come Berlino, e come la storia possa rendersi operante nel progetto architettonico. Nuove strategie, nuove centralità urbane ma anche architetture complesse che vanno ben oltre le semplici definizioni di palazzo o di edificio speciale. Argomenti affrontati, in particolare nella scuola di Roma e in particolare nel Master di II° livello in “Architettura per archeologia”, come ha ampiamente illustrato Alessandra Capuano nella sua conferenza: Paesaggio e archeologia per le nuove narrative metropolitane tenutosi nella giornata inaugurale. Il confronto tra passato e futuro è stato terreno di ulteriore confronto tra i relatori che si sono più direttamente misurati, sotto la direzione del prof. Carlos Coelho che ha, tra i primi, riconosciuto il merito di questo particolare approccio all’ISUFitaly, fin dalla sua prima conferenza internazionale svolta nel 2017 negli spazi della facoltà di architettura di Roma. Numerosi interventi, articolati e composti con contributi simili, sono stati offerti al dibattito e alla ricerca progettuale. La morfologia urbana viene sempre più sentita come uno spazio di confronto tra passato e futuro dove sperimentare nuovi strumenti per la ricerca progettuale, dedicati a coloro che cercano di costruire la città attraverso lo studio delle sue tracce e delle forme residue.
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the current shape of the city. Paolo Carafa – one of the main experts of Roman archaeological culture (he edited “Atlas of the Ancient Rome” with Carandini) – by addressing his speech to an audience of architects and urban morphologists in his inaugural lecture – explained how much a single finding is significant if reinserted in its original context, in the whole of the urban organism. In addition to the single historical and documentary value of archeology tile, it can be truly significant to figure out the scenario as a whole unit – that unfortunately many times lack important and fundamental components to redesign the architecture and urban design – the “essence” that we can understand only if again we are able to put together the different elements that, from time to time, brought in transformation of the unit, especially in a moment like this when the complexity and the rapid rhythm of changes can seem only linked to the chance. Here certainly the studies of urban morphology can be useful to understand how much of the past is lost or reused. Precisely, starting from the most recent and still perfectly recognizable footprints, by subtraction, through the studies of urban morphology, we can highlight what has remained or reintegrated in the present, and what is instead attributable to a more or less remote past. By counterpoint, Alexander Schwarz faced the difficult relationship with the future. A relationship that has architecturally highlighted in the reinvention project for the Berlin’s center. A project that showed how important forms and centrality of the past are for re-defining those of the present. Schwarz’s lecture was entitled “Museuminselsel, Berlin. The invention of an ideal historical center” has been particularly effective in showing how we can assist in continuing the history, even that of a modern and global city like Berlin, and how it will make it operating in the architectural project. New strategies, new urban centralities but also complex architectures that go beyond the simple rules of building and special building. Topics addressed, particularly in the school of Rome and mostly in the II level Master in “Architecture for Archeology” as Alessandra Capuano extensively explained in her lecture: “Landscape and Archeology for New Metropolitan Narratives” held during the inaugural day. A theme that interests the whole world and which goes towards the school of Architecture of Roma, so much so as the school has felt the need to respond to this need by establishing a European master’s degree that gathers important schools such as Athens, Rome etc. The comparison between past and future has been the floor of further comparison between the speakers who have measured themselves more directly, under the direction of Carlos Coelho who has recognized the merit of this particular approach to ISUFitaly since his first international conference held in 2017 within the Faculty of Architecture in Rome. Many interventions and sessions were articulated and composed with similar contributions fed the debate and project research. Urban morphology is increasingly proposed as a field of comparison between past and future where new tools for design research are experimented devoted to those who try to build the city through the study of its traces and of residual forms. Many sessions where unpublished works on contemporary and historical cities were presented (Re-Emerging Substrata - Chai: Carlos Coelho)
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were also addressed to particular and current topics such as those of urban renewal combined with new buildings with a special function and intended – as often in the past – in an urban perspective, as a key role in the contemporary city. Contributions such as those in the session coordinated by Alessandro Camiz (Urban morphology and Educational / Methods and Spaces) or the one that addressed the difficult relationship of the public space coordinated by Sergio Padrao Fernandes (Ancient and New Public Space). Therefore relationships less traditionally linked to typological studies which, however, reflecting on the shape of the ancient substrates, try to draw new scenarios linked to that specific legacy. Nonetheless, by identifying the characters and training criteria through the eyes of the architect (Reading / Design Study Cases, Chair: R. Capozzi). Several sessions were directly measured on the theme of the substrate (Re-Emerging Substrata - Carlos Coelho, chair) and on the study of the physical form of the historical layer which determined – at the end –the shape of the current settlements. Substrate that, even at large scale (Landscape in Transformation - Chair Vitor Oliveira) can offer valuable orientations to the urban project, by those elements under the current built landscape, that no longer have a specific function, but that has contributed to the shape of the building fabric and which through its rules they can prove to be a useful guide for transformation. The presentation of the Urbanform and Design urban morphology journal and the books was proposed by Vitor Oliveira, Fabio Di Carlo and Federica Visconti. Finally, the memory of the Masters – recently passed away – Gianluigi Maffei and Antonio Monestiroli proposed - respectively - by Marco Maretto, Giancarlo Cataldi, Paolo Vaccaro, Ivor Samuels, Matteo Ieva and by Renato Capozzi, Tomaso Monestiroli, Raffaella Neri and Federica Visconti. “Memory of the Masters” was entitled the session (Chair: Marco Maretto) concerning the two important figures of Italian architecture and Morphology studies. It is the rules and outcomes described in the numerous typological studies of G. L. Maffei to represent a useful source of reflections to compose and recompose architectures capable of being inserted, with the spirit of the time, both in the historical context and in the contemporary landscape. The conference, which had an important international participation, has received appreciation from those who participated, mostly for the promising results and for the work done by the Organizing Committee (Anna Rita Amato, Antonio Camporeale, Alessandra Pusceddu, Francesca De Rosa, Nicola Scardigno).
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Molte sessioni in cui sono state presentate opere inedite su città contemporanee e storiche (Sub-Emerging Substrata – Chair: Carlos Coelho), ma hanno anche affrontato temi particolari e attuali come quelli del rinnovo urbano combinati con nuovi edifici dalla funzione speciale e intesi, come spesso in passato, in una prospettiva urbana dal ruolo chiave nella città contemporanea. Contributi analoghi sono stati proposti nella sessione coordinata da Alessandro Camiz (Morfologia urbana ed Didattica/Metodi e spazi) o in quella che ha affrontato la difficile relazione dello spazio pubblico coordinata da Sergio Padrao Fernandes (Spazio pubblico antico e nuovo). Quindi relazioni meno tradizionalmente legate agli studi di tipologia che, tuttavia, riflettendo sulla forma degli antichi sostrati provano a disegnare nuovi scenari legati a quella specifica eredità. Nondimeno identificando i caratteri e i criteri formativi attraverso gli occhi dell’architetto (Reading/Design Study Cases, Chair: R. Capozzi). Diverse sessioni si sono direttamente misurate sul tema del sostrato (ReEmerging Substrata – Carlos Coelho, chair) e sullo studio della forma fisica dello strato storico, che ha determinato la struttura degli attuali insediamenti. Substrato che, anche alla grande scala (Landscape in Transformation – Vitor Oliveira, chair) può offrire preziosi orientamenti al progetto urbano. Quegli elementi sotto l’attuale paesaggio costruito, che non hanno più una funzione specifica ma hanno contribuito alla forma del tessuto edilizio e possono attraverso le sue regole rivelarsi utile guida per la trasformazione. La conferenza si è conclusa con una sessione plenaria a cui hanno preso parte i proff. M. L. Neri, R. Capozzi, F. Visconti, T. Monestiroli, G. Cataldi, I. Samuels, M. Ieva e M. Maretto: “Memory of the Masters” (Chair: Marco Maretto) dedicata a due importanti figure dell’architettura italiana e degli studi di morfologia, recentemente scomparsi, G. L. Maffei e A. Monestiroli. Monestiroli nella sua lunga e significativa ricerca progettuale ha ridisegnato forme e delineato tappe di un processo che ricercatori di morfologia urbana come G. L. Maffei, pazientemente hanno reso esplicito descrivendo dinamiche e regole ripetibili. Le regole e gli esiti descritti nei numerosi studi tipologici di G. L. Maffei che sono stati utili a quanti hanno trovato gli studi di G. L. Maffei che sono stati utili a quanti li hanno trovati come fonte di riflessione fondamentale per comporre e ricomporre architetture capaci di inserirsi, con lo spirito del tempo, nel contesto storico come nel paesaggio contemporaneo. La conferenza, che ha visto una importante partecipazione internazionale, ha ricevuto l’approvazione dei relatori che hanno sottolineato l’ottima organizzazione offerta dal Conference Office e dal Comitato Organizzatore costituito da Anna Rita Donatella Amato, Antonio Camporeale, Alessandra Pusceddu, Francesca De Rosa, Nicola Scardigno.
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Gian Luigi Maffei, assai più che un amico…
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Presidente del Centro Internazionale per lo Studio dei Processi Urbani e Territoriali (CISPUT) E-mail: giancarlo.cataldi@gmail.com
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I met Gian Luigi in the early seventies in Florence, where I had followed – as his teaching assistant – Luigi Vagnetti, who had moved from Genoa to replace Italo Gamberini at the chair of Architectural Composition I. In 1974 both Gian Luigi and I won the public competition to become lecturers at the University of Florence, at the same time when Gianfranco Caniggia, whom I had met as a student in Rome in the Architectural Composition class taught by Saverio Muratori, obtained a full professorship in Florence. During the sixties Muratori had been at the center of the student protests for his non-alignment with the common places of the modern movement. With his theories he had founded a real school of urban and territorial studies. After the turbulent events of 1968, the school was de facto dissolved with the ‘diaspora’ from Rome of its assistents who went teaching in some of the newly established faculties of architecture: in particular Reggio Calabria and Genoa, where I also started my career volunteering as Paolo Maretto’s assistant. In those years I was working simultaneously at Vagnetti’s architectural firm in Rome, looking after the executive project of the Ministry of Post in the Eur district. I therefore enthusiastically accepted Vagnetti’s proposal to follow him as his assistant when he was called to Florence in 1971, finally shortening the distance with Rome after his experiences in Palermo and Genoa. At the same time Gian Luigi bacame assistant to Caniggia, to whom Vagnetti himself had directed him, on the advice of his forwardlooking intuition and proven teaching experience. Caniggia’s teaching in Florence - where Ricci and Savioli’s self-referencing formalisms were in fashion at the time - had the effect of a real Copernican revolution for putting at the center of the project not the building itself but its context, whose ‘reading’ thus became the scientific matrix of the design process of ‘writing’. His already very crowded lessons were also attended by academic fellows interested in his methodological approach. Gian Luigi no doubt contributed to the success of his course, organizing the calendar of lessons and exercises with iron discipline. Within a few years, Gianfranco and Gian Luigi managed to fine-tune the first part of their didactic work, that led to the publication, in 1979, of the first edition of Interpreting Basic Buildings, the famous ‘manual’ unanimously recognized as a milestone in the studies of urban morphology. In 1981, during the process of a new City Master Plan, Gianfranco was commissioned the operational research on the urban structure and building typology of the historic center of Florence. As
Ho conosciuto Gian Luigi nei primi anni Settanta a Firenze, dove avevo seguito come assistente Luigi Vagnetti, che da Genova era stato chiamato a sostituire Italo Gamberini alla cattedra del primo anno di Composizione Architettonica. Nel 1974 siamo divenuti assistenti di ruolo nell’Ateneo fiorentino a seguito dello stesso concorso. In quell’anno era stato chiamato a insegnare a Firenze Gianfranco Caniggia, che avevo conosciuto da studente a Roma nei corsi di Composizione architettonica tenuti da Saverio Muratori. Muratori, che negli anni Sessanta era stato al centro della contestazione studentesca per il suo non allineamento ai luoghi comuni del Movimento moderno, con le sue teorie aveva fondato una vera e propria scuola di studi urbani e territoriali. Dopo gli avvenimenti turbolenti del Sessantotto, la scuola si sciolse di fatto con la ‘diaspora’ da Roma dei suoi assistenti, che andarono a insegnare in alcune delle nuove facoltà di architettura da poco istituite: in particolare a Reggio Calabria e a Genova dove anch’io ho cominciato la carriera come assistente volontario di Paolo Maretto. In quegli anni lavoravo contemporaneamente a Roma nello studio del professor Vagnetti sul progetto esecutivo del Ministero delle Poste all’Eur. Accolsi perciò con entusiasmo la sua proposta di seguirlo allorché egli fu chiamato nel 1971 a Firenze, dopo Palermo e Genova la sua ultima tappa di avvicinamento a Roma. Divenimmo così io assistente di Vagnetti e Gian Luigi di Caniggia, a cui lo aveva indirizzato lo stesso Vagnetti, sulla base del suo intuito lungimirante e della sua comprovata esperienza didattica. L’insegnamento di Caniggia a Firenze – dove andavano allora di moda i formalismi autoreferenziali alla Ricci e alla Savioli – ebbe l’effetto di una vera e propria rivoluzione copernicana per aver messo al centro del progetto, non più l’edificio in sé ma il suo contesto edilizio, la cui ‘lettura’ diveniva così essa stessa la matrice scientifica della ‘scrittura’ progettuale. Le sue lezioni erano affollatissime, ad esse partecipavano anche quei colleghi fiorentini interessati ai principi e agli sviluppi didattici del metodo di Caniggia. Al successo del suo corso di Composizione architettonica del secondo anno, contribuì senza dubbio Gian Luigi, che ebbe il merito di gestire con efficienza il frenetico train-de-vie di Gianfranco, organizzando soprattutto con disciplina ferrea il calendario delle lezioni e delle esercitazioni. Nel giro di qualche anno, Gianfranco e Gian Luigi riuscirono a mettere a punto la prima parte del loro lavoro didattico, che confluì nel 1979 nella prima edizione di Lettura dell’edilizia di base, il celebre ‘manuale’ di Tipologia edilizia, unanimemente riconosciuto come una pietra miliare degli studi di Morfologia urbana. Nell’ambito del nuovo Piano Regolatore di Firenze, Gianfranco nel 1981 ebbe l’incarico di condurre una Ricerca operativa sulla struttura urbanistica e sulla tipologia edilizia del centro storico fiorentino. Come suoi collaboratori per me e Gian Luigi questa fu senza dubbio un’esperienza fondamentale, che dopo la sua scomparsa ci consentì di affrontare autonomamente temi analoghi, tra cui il più importante la ricerca su Cortona e la Valdichiana, coordinata da Paolo Vaccaro e conclusa nel 1987 con una mostra e un voluminoso catalogo. Nel frattempo Gian Luigi era fermamente intenzionato a portare avanti i rimanenti tre libri del ‘manuale’ di Tipologia edilizia: obbiettivo reso ancora più difficile e complicato dalla necessità di tradurre i principali termini del glossario tipologico nelle varie altre lingue interessate al metodo caniggiano.
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Gian Luigi, much more than a friend…
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| Giancarlo Cataldi | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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his collaborators for Gian Luigi and me this was undoubtedly a fundamental experience that allowed us, after his death, to face independently similar themes, the most significant of which being the research on Cortona and the Valdichiana, coordinated by Paolo Vaccaro and concluded in 1987 with an exhibition and a voluminous catalog. In the meantime, Gian Luigi was firmly intent on finishing the remaining three volumes of the “manual” of Building typology: an objective made even more difficult by the need to translate the main terms of the typological glossary into the various other languages involved in the Caniggian method. Gianfranco had been invited (in 1985) by Anne Vernez Moudon as visiting professor in Seattle, at the University of Washington: a circumstance that, as far as I know, should historically represent the first ISUF’s educational background. The meetings in Lausanne in the mid-nineties led to the establishment of this association, with the decisive contribution of Gian Luigi as a representative of our school. It is no coincidence that after the first ‘extended’ conferences in Birmingham and Versailles, held in 1997 and 1998 under the direction of Jeremy Whitehand and Jean Castex, the Isuf conference register records the memorable one for us in Florence organized in 1999 with iron will by Gian Luigi. The annual conferences reveal the painful note of our personal history, the almost absolute impermeability to learning English. We have repeatedly attended courses at the British Institute in Florence to overcome this handicap, that we have painfully dragged on over the years. This fact, in our personal imagination, cost us a whole series of embarassments, among which the first and perhaps the most sensational was the hasty car escape from Birmingham to evade - for fear of English - Jeremy’s kind invitation to participate at his home at the final conference party. Fortunately, this handicap did not affect the esteem of colleagues, who had the goodness to nominate us as presidents of the association one a few years after the other. In this regard, I am pleased to remember our legendary dinner with my wife and Gian Luigi on the beach in Rio de Janeiro, after the Ouro Preto conference in August 2007, to celebrate his fresh appointment as President. This Brazilian reference allows me to conclude by mentioning a non secondary side of Gian Luigi’s personality (that will be confirmed by Paolo Vaccaro’s words about his relationships in Lunigiana). His role of so-called ‘culinary aggregator’, who saw Gian Luigi frequently gather a large group of loyal friends in his Florentine home, in very pleasant convivial meetings that remain now sadly legendary in the memory of those who were there.
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Gianfranco era stato invitato (nel 1985) da Anne Vernez Moudon come visiting professor a Seattle, presso l’università di Washington: circostanza che per quel che ne so dovrebbe rappresentare storicamente l’antefatto formativo dell’Isuf. I primi incontri a Losanna a metà degli anni Novanta portarono infatti al costituirsi della nostra associazione, con il contributo determinante di Gian Luigi come rappresentante della neonata scuola italiana di Morfologia urbana. Non a caso dopo le prime conferenze ‘allargate’ di Birmingham e Versailles, svoltesi nel 1997 e 1998 sotto la direzione di Jeremy Whitehand e Jean Castex, l’albo delle conferenze dell’Isuf registra quella per noi memorabile di Firenze organizzata nel 1999 con ferrea volontà da Gian Luigi. Con le conferenze annuali si manifesta la nota dolente della nostra (mia e sua) storia personale, la pressoché assoluta impermeabilità all’apprendimento dell‘Inglese. Più volte abbiamo frequentato assieme i corsi del British Institute di Firenze per superare questo handicap, che ci siamo dolorosamente trascinati in tutti questi anni. E che nel nostro immaginario personale ci è costato tutta una serie di brutte figure, tra cui la prima e forse la più clamorosa la precipitosa fuga in auto da Birmingham per eludere – per timore dell’inglese – il gentile invito di Jeremy a partecipare a casa sua al party conclusivo della Conferenza. Fortunatamente tale handicap non ha inficiato la stima dei colleghi, che hanno avuto la bontà di nominarci presidenti dell’associazione a pochi anni di distanza l’uno dall’altro. A tale riguardo ricordo con piacere a suggello della nostra amicizia una mitica cena con mia moglie e Gian Luigi sulla spiaggia di Rio de Janeiro, dopo la conferenza di Ouro Preto nell’agosto del 2007, per festeggiare la sua fresca nomina a Presidente. Il riferimento eno-gastronomico brasiliano mi consente di concludere accennando a un aspetto non secondario della personalità di Gian Luigi (che coincide con ciò che ci dirà Paolo Vaccaro su Maffei e la Lunigiana). Quello per così dire di ‘aggregatore culinario’, che ha visto Gian Luigi ospitare frequentemente nella sua casa fiorentina un consistente gruppo di amici affezionati, in piacevolissime riunioni conviviali, divenute purtroppo nella memoria dei partecipanti ormai leggendarie.
Fig. 1 - Copertine dei due volumi pubblicato da Gianluigi Maffei: “Interpreting Basic Buildings” e “Interpreting Specialised Buildings”. Covers of the two books published by Gianluigi Maffei: “Interpreting Basic Buildings” and “Interpreting Specialised Buildings”.
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Claudio D’Amato, un ricordo
Enrico Bordogna
Dip. di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano E-mail: enrico.bordogna@polimi.it
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Indomitable was D’Amato’s passion for school. His indomitable passion for research, for architecture, for teaching, for the organizational and regulatory structure of the educational institution. Above all, the sense of the School and the University as an Institution, as something that for him required rigor, absolute commitment, moral consistency. Even at the cost of often uncomfortable positions and behaviors, which could lead to isolation, to minority basis, countercurrent. His whole life, I believe, is testimony to these values, at least for what result to someone who has had esteem and friendship with him, but certainly less intense visits than those who collaborated with him more closely. For over three decades now, the connection - indeed the real identification - of Claudio’s figure with the School of Bari, the Faculty of architecture of the Polytechnic of his hometown, which he basically founded since 1989, after winning the national competition as professor of architectural composition in 1987 and a short season at the Faculty of Reggio Calabria. It is true that not everyone in Italy, in the varied world of the Italian Faculties of architecture, shared the approach impressed with extreme determination by Claudio in his Faculty, but anyone, I believe, even if far from his vision, recognized to him the primacy of having founded a real school, endowed with an authentic soul, traversed by a clear and legible identity; as were the school of Samonà in Venice, or the Milan school of Rogers and his students, in more noble times, and as few are in the panorama of Italian architecture schools of the last decades. The strong idea of Claudio, his passion cultivated since the time of school and in the long relationship of affection and learner of Paolo Portoghesi, was the search for other ways for modernity. A way fueled by the study of history, by the attention for the theoretical dimension, from the relationship between architecture, city and landscape, from the love for archeology, from the constructive measure of architecture, identified the latter, with authentic originality, in the innovation of traditional building techniques, in particular of stone architecture cutting according to the principles of stereotomy and its updating through contemporary constructive and representative procedures. An interpretative key extended by him, with Attilio Petruccioli, almost to make it a unique identity to the constitutive characteristics of the architectural tradition in the Mediterranean area, without interruption from classical antiquity to modernity. It is proven by the PhD he founded and guided,
Indomabile era la passione di D’Amato per la scuola. Indomabile la sua passione per la ricerca, per l’architettura, per l’insegnamento, per l’assetto anche organizzativo e normativo dell’istituzione scolastica. Soprattutto il senso della Scuola e dell’Università come Istituzione, come qualcosa che per lui imponeva rigore, impegno assoluto, coerenza morale. Anche a costo di posizioni e comportamenti spesso scomodi, che potevano portare a isolamento, a condizione minoritaria, controcorrente. Tutta la sua vita, credo, è testimonianza di questi valori, quanto meno per quello che risulta anche a uno che ha avuto con lui stima e amicizia, ma frequentazioni sicuramente meno intense di chi collaborato con lui più da vicino. Ormai da oltre tre decenni è istintivo il collegamento, la vera e propria identificazione anzi, della figura di Claudio con la Scuola di Bari, la Facoltà di architettura del Politecnico della sua città natale da lui sostanzialmente fondata a partire dal 1989, dopo la vincita del concorso nazionale a professore ordinario di Composizione architettonica nel 1987 e una breve stagione alla Facoltà di Reggio Calabria. È pur vero che non tutti in Italia, nel mondo variegato delle Facoltà di architettura italiane, condividessero l’impostazione impressa con estrema determinazione da Claudio alla sua Facoltà, ma chiunque, credo, anche lontano dalla sua visione, gli riconosceva il primato di avere fondato una scuola vera, dotata di un’anima autentica, percorsa da una identità chiara e leggibile, così come lo erano, in tempi più nobili, la scuola di Venezia di Samonà, o la scuola di Milano di Rogers e dei suoi allievi, e come poche lo sono nel panorama delle scuole di architettura italiane degli ultimi decenni. L’idea forte di Claudio, la sua passione coltivata fin dai tempi della scuola e nel lungo rapporto di affezione e discente di Paolo Portoghesi, è stata la ricerca di altre vie per la modernità, alimentata dallo studio della storia, dalla attenzione alla dimensione teorica, dal rapporto tra architettura, città e paesaggio, dall’amore per l’archeologia, dalla misura costruttiva dell’architettura, identificata quest’ultima, con autentica originalità, nella innovazione delle tecniche tradizionali del costruire, in particolare dell’architettura in pietra da taglio secondo i principi della stereotomia e del suo aggiornamento attraverso procedimenti costruttivi e rappresentativi contemporanei. Chiave interpretativa da lui estesa, in comunione di intenti con Attilio Petruccioli e quasi a farne un’unica identità, ai caratteri costitutivi della tradizione architettonica in area Mediterranea, ricorrenti senza interruzioni dall’antichità classica fino alla modernità. Ne è prova il Dottorato di ricerca da lui fondato e guidato, in alternanza e costante collaborazione appunto con Attilio Petruccioli, tra i migliori e più rigorosi a livello nazionale e internazionale, con il succedersi di tesi che hanno approfondito e dato organicità ai suoi motivi ispiratori, dalle figure di Muratori e Caniggia, indagate in sé e per il rispettivo ruolo nell’insegnamento, alla tradizione dei Compagnons du Devoir e all’architettura in pietra da taglio in area Mediterranea, a maestri-costruttori particolarmente amati e studiati da Portoghesi e tramite lui pervenuti a Claudio, come Guarini e Vittone, a personalità ai margini della modernità ufficiale come Pouillon, o protagonisti della scuola romana come Quaroni, anch’egli indagato per la sua concezione
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Claudio D’Amato, a memory
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| Enrico Bordogna | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020
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Fig. 1 - Claudio D’Amato Guerrieri, copertina del libro “Studiare l’architettura. Un vademecum e un dialogo”, Gangemi, Roma 2014. Claudio D’Amato Guerrieri, cover of the book “Studying architecture. A vademecum and a dialogue”, Gangemi, Rome 2014.
Fig. 2 - Claudio D’Amato Guerrieri, “Giardino delle Ore”, Roma, 1993. Claudio D’Amato Guerrieri, “Garden of the hours”, Rome, 1993. in alternation and constant collaboration with Attilio Petruccioli, among the best and most rigorous at national and international level, with the succession of theses that have deepened and given organicity to his inspiring motifs, from the figures of Muratori and Caniggia, investigated in themselves and for their respective role in teaching; to the tradition of the Compagnons du Devoir and to the cut stone architecture in the Mediterranean area, to master-builders particularly loved and studied by Portoghesi and through this latter arrived to Claudio, like Guarini and Vittone; to personalities on the margins of official modernity such as Pouillon, or protagonists of the Roman school like Quaroni, also investigated for his conception of the teaching of architecture. All Theses, these and numerous others, of great depth and rigor, with precious materials and original application checks, which anyone would love to have in the own library. D’Amato conducted, both the School and the Doctorate, with extreme and demanding severity, which was sometimes perhaps oppressive to some PhD student, and perhaps partisan or sectarian to some of his PhD student, who however today understand more objectively both the purpose and the disinterested rigor. Summa of this founding research is the care for the 10th Venice Architecture Biennale of “The stone city” exhibition of 2006, for which, as part of the so-called “South Project” - created by himself - he had mobilized from all the Italian fac-
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della didattica dell’architettura. Tutte tesi, queste e numerose altre, di grande profondità e rigore, con materiali preziosi e verifiche applicative originali, che chiunque amerebbe avere nella propria biblioteca. Sia la Scuola che il Dottorato D’Amato li conduceva con estrema ed esigente severità, risultata talvolta forse oppressiva a qualche dottorando, e magari faziosa o settaria a qualche suo collega docente, che tuttavia oggi credo ne comprendano più oggettivamente la finalità e il rigore disinteressato. Summa di questa sua ricerca fondativa è la cura per la X Biennale di Architettura di Venezia della Mostra “La città di pietra”, del 2006, per la quale, nell’ambito del cosiddetto “Progetto Sud” da lui ideato, aveva mobilitato da tutte le Facoltà italiane e da molte straniere allievi, colleghi e maestri che stimava, che avevano risposto con entusiasmo al suo invito e che avevano prodotto una grande quantità di proposte che avevano dato vita a una mostra di architettura tra le più interessanti degli ultimi anni, degna memoria di quella “Strada Novissima” che da giovane, insieme a Francesco Cellini e sotto la direzione di Paolo Portoghesi, aveva contribuito a realizzare quasi trent’anni prima. Il portale e l’obelisco realizzati per l’ingresso della mostra, allestita alle Artiglierie dell’Arsenale, sono una dimostrazione dal vivo della sua convinzione della valenza ancora operante della tradizione costruttiva dell’architettura in pietra da taglio, da lui rivisitata attraverso una intensa sperimentazione digitale, e qui messa in atto con due piccole opere, il Portale Abeille e l’Obelisco Alexandros, a mio avviso tra le sue più cariche di fascino, così come il Giardino delle Ore, realizzato a Roma nel 1993, o l’Escalier Ridolfi, per la fiera veronese Marmomacc del 2005, dedicata alla figura di un maestro da sempre amato, sulla cui opera aveva curato poco tempo prima, frutto di un lavoro di anni con Francesco Cellini, una bellissima pubblicazione dei disegni custoditi all’AccaEnrico Bordogna | ISSN 2384-9207 _ISBN 978-88-913-2088-9_n.13-2020 |
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Fig. 3 - Claudio D’Amato Guerrieri, Facoltà di Agraria, Reggio Calabria, 1986/1993. Interno. Claudio D’Amato Guerrieri, Faculty of Agriculture, Reggio Calabria, 1986/1993. Internal view.
demia Nazionale di San Luca. Nonostante la malattia che negli ultimi anni lo aveva duramente colpito, Claudio ha continuato a lavorare con una protervia ammirevole, portando a compimento tre pubblicazioni preziose, in cui ha riassunto, quasi con inconscia volontà testamentaria, l’essenza del suo insegnamento, la sintesi degli interessi a cui ha dedicato una vita intera. In Studiare l’architettura. Un vademecum e un dialogo, del 2014, traccia l’importanza dello studio della storia e della teoria dell’architettura, e del loro risvolto applicativo nel progetto, ai fini di una formazione delle giovani generazioni più consapevole e attrezzata criticamente, cui fa da riscontro un lungo dialogo, di tono intimamente pedagogico, con Paolo Portoghesi, sulla scuola, l’insegnamento, il mestiere, la natura dell’architettura, rivelando ancora una volta come al centro di tutto il suo agire fosse la didattica, la scuola, la formazione. Mentre la corposa monografia, pubblicata nel 2018 a cura di Francesco Moschini per conto dell’Accademia Nazionale di San Luca Claudio D’Amato Guerrieri, in occasione del conferimento, nel 2016, da parte del presidente Sergio Mattarella del Premio Presidente della Repubblica 2014 per l’Architettura, raccoglie una silloge sistematica della sua lunga attività di docente, architetto, progettista, teorico dell’architettura, uomo di scuola e delle istituzioni (toccante era stata la cerimonia al Quirinale nel marzo 2016, con Claudio già parzialmente provato dalla malattia, la stretta di mano con il Presidente Mattarella, i molti amici e colleghi intorno). Ancora nella primavera del 2019, pochi mesi prima della scomparsa, pubblica l’ultima sua fatica, La scuola italiana di architettura 1919-2012, presentata all’Accademia di San Luca che finalmente lo aveva accolto tra i suoi membri, in cui condensa la storia, e la sua visione, della scuola di architettura in Ita-
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ulties and by many foreign students, colleagues and teachers whom he esteemed, who had enthusiastically responded to his invitation and who had produced a large amount of proposals that had given rise to one of the most interesting architectural exhibitions of recent years; worthy memory of that “Strada Novissima” which as a young man, together with Francesco Cellini and under the direction of Paolo Portoghesi, had contributed to building almost thirty years earlier. The portal and the obelisk created for the entrance of the exhibition, set up at the Arsenale’s Artillery, are a live demonstration of his conviction of the still operative value of the construction tradition of cut stone architecture, which he revisited through an intense digital experimentation, carried out here with two small works, the Abeille Portal and the Alexandros Obelisk, in my opinion among its most fascinating, as well as the Giardino delle Ore, created in Rome in 1993, or the Escalier Ridolfi for the Veronese Marmomacc fair in 2005, dedicated to the figure of a master he has always loved, on whose work he had edited a short time before - the result of years of work with Francesco Cellini - a beautiful publication of the drawings kept at the National Academy of San Luca. Despite the illness that had severely affected him in recent years, Claudio continued to work with admirable pride, completing three valuable publications, in which he summarized, almost with unconscious testament will, the essence of his
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Fig. 4 - Claudio D’Amato Guerrieri, Facoltà di Agraria, Reggio Calabria, 1986/1993. Pianta del piano terreno. Claudio D’Amato Guerrieri, Faculty of Agriculture, Reggio Calabria, 1986/1993. Ground floor plan.
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teaching, the synthesis of the interests to which he has dedicated an entire life. In Studiare l’architettura. Un vademecum e un dialogo of the 2014 he traces the importance of studying the history and theory of architecture, and their application in the project, for the purpose of training the younger generations more consciously and critically equipped; this is reflected by a long dialogue, with an intimately pedagogical tone, with Paolo Portoghesi, on school, teaching, craft, the nature of architecture, revealing once again that teaching, school and training were at the center of all his actions. While the full-bodied monograph Claudio D’Amato Guerrieri, published in 2018 by Francesco Moschini on behalf of the Accademia Nazionale di San Luca - in the occasion of the award, in 2016, by President Sergio Mattarella of the President of the Republic Award 2014 for the ‘Architecture - collects a systematic outline of his long career as a teacher, architect, designer, architectural theorist, school and institutions man (very touching was the ceremony at the Quirinale in March 2016, with Claudio already partially tried by the disease, the handshake with President Mattarella, the many friends and colleagues around). Still in the spring of 2019, a few months before his death, he published his last effort, The Italian school of architecture 1919-2012, presented at the Accademia di San Luca which had finally welcomed him among its members, in which he condenses history, and his vision, of the school of architecture in Italy, from Giovanni’s birth in 1919 to the somewhat babelic dispersion following the so-called Gelmini reform of 2012. Book meticulously documented, both in the general section and, above all, in the one dedicated monographically to School of Bari, intended to constitute a point of reference for anyone who wants to deal with the history and differentiated characters, and future prospects, of teaching architecture in Italy in the future. To Claudio liked to be at the table, like many valuable people I have known. Closing these few lines in his memory, two particularly dconvivial occasions come to mind, a dinner in Trani and a lunch in Meina on Lake Maggiore, both with him, Guido Canella and Attilio Petruccioli, spent by talking, between serious topics and more light, in a warm and friendly atmosphere, which showed mutual respect and sympathy also in the diversity of points of view, attitudes that in my eyes, younger, identify a non secondary aspect of a real school, as was “his” school in Bari. All this was Claudio, and for all this who has had the good fortune to know him and be his friend will long retain a warm memory and a fond regret.
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Fig. 5 - Claudio D’Amato Guerrieri, Facoltà di Agraria, Reggio Calabria, 1986/1993. Claudio D’Amato Guerrieri, Faculty of Agriculture, Reggio Calabria, 1986/1993.
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lia, dalla nascita giovannoniana nel 1919 fino alla dispersione un po’ babelica conseguente alla cosiddetta riforma Gelmini del 2012. Libro puntigliosamente documentato, sia nella sezione generale sia, soprattutto, in quella dedicata monograficamente alla Scuola di Bari, destinato a costituire un punto di riferimento per chiunque voglia in futuro occuparsi della storia e dei caratteri differenziati, e delle prospettive future, dell’insegnamento dell’architettura in Italia. A Claudio piaceva stare a tavola, come a molti personaggi di valore che ho conosciuto. Chiudendo queste poche righe in suo ricordo, mi tornano in mente due occasioni conviviali particolarmente care, una cena a Trani e un pranzo a Meina sul Lago Maggiore, entrambe con lui, Guido Canella e Attilio Petruccioli, passate conversando, tra argomenti seri ed altri più leggeri, in un clima caldo e cordiale, che lasciava trasparire stima e simpatia reciproche anche nella diversità dei punti di vista, attitudini che ai mei occhi, più giovane, identificano un aspetto non secondario di una vera scuola, come lo era la “sua” di Bari. Tutto questo è stato Claudio, e per tutto questo chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ed essergli amico ne serberà a lungo un caldo ricordo e un affezionato rimpianto.
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Finito di stampare nel mese di agosto 2020 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER da CSC Grafica s.r.l. - via Antonio Meucci, 28 Guidonia Montecelio (RM)