LUCA GARGANO Nomade tra i barili - capitolo 2

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Alla Velier manca un rum. Il mio sogno è avere il Bally, che ho nel cuore dai miei primi viaggi nei Caraibi, quando ero ancora alla Spirit ed ero rimasto folgorato da questo rum eccezionale. Compravo all’aeroporto di Fort-de-France una bottiglia di Bally per me, anche se questa cosa era un po’ come un tradimento al mio Saint James. Però comprare questo rum ancora introvabile in Italia era più forte di me. All’epoca Bally era ancora l’unico a millesimare regolarmente i suoi rum, cioè a segnalare l’anno di produzione sulle bottiglie. Ogni anno, compro una bottiglia di un millesimo diverso, iniziando una mia prima piccola collezione di Bally. Mi metto quindi alla sua ricerca. Cerco di contattare la Bally, ma negli anni Ottanta la distilleria era stata chiusa e gli alambicchi trasferiti alla Clement. Provo a contattare telefonicamente il numero in mio possesso, ma senza risultati. Benito Cuppari mi dice che conosce molto bene il vecchio Jean Bally, e che quindi avrebbe parlato con lui. Dopo qualche mese mi porta anche una bottiglia in ufficio. Ma il tempo passa e non riesco a mettermi in contatto con la Bally. E dunque la Velier rimane ancora senza rum, in parte perché volevo solo il mio Bally, anche perché il 25

Alla ricerca del Bally


mercato del rum è ancora così piccolo che non è una priorità averne uno in gamma. E poi anche perché il mio tempo per la ricerca e l’esplorazione è limitato, per via di una nuova esperienza. I viaggi in Polinesia

Infatti nel 1987 inizia la mia fase polinesiana. Voglio far rivivere alle mie tre bambine l’esperienza che io avevo potuto fare da piccolo, nella campagna italiana ancora incontaminata, portarle in un luogo dove possano impregnarsi dei ritmi e delle leggi della natura. In quell’epoca posso viaggiare solo nel mese di agosto, e devo quindi escludere le zone del mondo impraticabili per condizioni climatiche in quel periodo dell’anno. E così mi concentro sull’emisfero sud, l’area della Polinesia, dove ero stato nel 1980. Prendo The Times Atlas of the World, che all’epoca è l’atlante più dettagliato al mondo. Acquisto anche le poche guide disponibili sulle isole del Pacifico, in inglese e francese. Quindi cancello sistematicamente sull’Atlas tutte le isole che trovo sulle guide turistiche. Restano una trentina di isole della Polinesia francese di cui non c’è traccia sulle guide. Allora scrivo una lettera in inglese e francese indirizzata genericamente al sindaco di ogni isola, spiegando la mia intenzione di visitare con la mia famiglia la loro terra e chiedendo informazioni. Dopo alcuni mesi mi rispondono da Anaa, uno sperdutissimo atollo nell’arcipelago delle Tuamotu. Quando mi rivolgo all’istituto per il turismo in Polinesia, che ha sede a Parigi, mi chiedono perché voglia andare proprio su quell’isola, praticamente sperduta e irraggiungibile. Telefono quindi all’Air Polynésie, come si chiamava allora, e mi risponde una ragazza, 26


Eliana, che poi diventerà mia amica, alla quale chiedo il telefono di un pilota che fosse atterrato sull’isola. E, parlando con un pilota, questi mi dice che l’isola di Anaa è stata distrutta da un ciclone nel 1983. Ho insomma la disapprovazione di tutti, anche della mia famiglia che cerca di dissuadermi dal portare le bambine in un posto che potrebbe essere pericoloso ed è comunque tanto difficile da raggiungere. Partiamo quasi alla cieca, con 23 colli, portandoci dietro anche delle casse d’acqua, oltre a tutto il necessario che riesco a prevedere. L’isola di Anaa è collegata una volta al mese con un ATR 42 dell’Air Polynésie. E quando l’aereo arriva sull’atollo, vedo dall’alto l’isola chiusa dalla barriera corallina. La laguna, con il riflesso radiometrico che regala colori incredibili all’acqua e al cielo, sembra il pozzo dell’anima del mondo. Fin dal primo arrivo e per dieci anni, Anaa cambia la mia vita in tutti i sensi, facendomi diventare più umile e semplice. È un atollo senza luce elettrica, senz’acqua se non quella dei cocchi e di una piccola cisterna di fianco a casa che raccoglie quella piovana; nessun negozio: per mangiare bisogna andare a pescare, con l’arpione, alla traina, con il fucile di legno, con la lenza. Vengo ospitato nella casa di Tupana, il miglior pescatore dell’isola, che diventa mio amico e maestro. Si suona l’ukulele sulla spiaggia, la sera tutti insieme, giovani e vecchi. Imparo la loro lingua. Dopo due anni vengo “adottato” secondo la loro tradizione, ovvero con la forma di adozione polinesiana detta faamu. Mi viene dato il nome di Ruruki, che vuol dire Squalo Tigre. 27


Per un decennio tornerò sempre nella mia isola polinesiana, il che ridurrà i miei viaggi nei Caraibi. Nella mia vita polinesiana, il rum occupa solo una microscopica parte. A Tahiti vado a trovare l’ultimo produttore, che ha smesso di distillare qualche anno prima, e che ha ancora in invecchiamento, in fusti di Jack Daniel’s, un rum che si chiama Tamure. Visito anche Antimaono, il luogo eletto per la produzione di canna da zucchero, ma è ormai trasformato in un campo da golf. Dominique De La Guigneraye e l’importazione del Bally

Così gli anni passano e, alla fine degli Ottanta, la Velier ancora non ha un rum. Poi, nel 1989, su “Civiltà del bere” e “Vini e liquori”, due riviste di settore dell’epoca, vedo la pubblicità del Bally. È importato da Sarzi Amadè, una società milanese. Quando lo vedo mi viene un colpo. E, nel vederlo importato da un’altra azienda, prendo coscienza di non poter realizzare il mio sogno di importarlo. Ma il destino vuole che un bel giorno mi arrivi un telex dalla Martinica. A scrivermi è un certo Dominique De La Guigneraye, giovane responsabile della Bally e di Trianon, che mi propone questa seconda marca da importare. Per la prima volta incontro sul lavoro qualcuno più giovane di me. Io ho poco più di trent’anni, Dominique non ancora. Gli do appuntamento a Genova e lui arriva nelle nostre due stanze di via Garibaldi a propormi il rum Trianon. È un francese martinichese, un béké, molto educato, di grande classe, imparentato con la famiglia Hayot, proprietaria del rum Clement, e con la famiglia Bally. Con lui chiacchieriamo molto di rum e dei Carai28


bi, e dopo un po’ andiamo a mangiare. Come succede spesso nel nostro settore, si comincia a bere e, se ci si prende in simpatia, si continua fino a tardi, specie quando si hanno venti o trent’anni. Racconto a Dominique la mia storia e le mie avventure nei Caraibi, segnate dall’amore per il rum agricole, e specialmente per Bally. Finiamo la serata a casa mia, in salotto, seduti per terra, dove continuiamo a parlare dei Caraibi e a bere. In quegli anni io sono ancora uno dei pochi europei del nostro settore che ci sia stato, e lui ha quindi piacere di raccontare a me, che conosco la sua terra, di se stesso e di Jean Bally. Fino a che, tra i fumi dell’alcol, Dominique mi dice che è impossibile che il Bally non sia importato da me in Italia. Non conosco Sarzi Amedè, ma non voglio essere scorretto nei suoi confronti. Non trovo etico rubare un prodotto a un’azienda concorrente, anche se naturalmente sono lì con l’acquolina in bocca. Dominique insiste. Alle quattro del mattino, quando siamo praticamente stesi dall’alcol, mi lascio convincere con grande piacere. Quando alle prime luci dell’alba riesce finalmente a tornare in albergo, gli regalo, cosa strana per un ragazzo che vive nei Caraibi, un paio di guanti di cashmere artigianali che avevo trovato in Mongolia. Sarzi Amadè non l’ho mai conosciuto, ma so che ovviamente non gli sono molto simpatico, anche perché credo che lui non sappia che ho fatto una certa resistenza a prendere quel prodotto. In ogni caso, con il Bally, la Velier ha per la prima 29


volta e finalmente un rum, e non solo, visto che ha proprio il rum che avevo sempre amato e che consideravo ormai perso. Inizio a importare i millesimati del Bally, a partire dal 1924 per continuare con il 1929, il 1939, il 1950, il 1960, il 1966, il 1970, il 1975, il 1982, il 1985, il 1989. In quel momento non sono commercializzati da nessun’altra azienda al mondo. E oggi posso dire che la Velier è stata l’azienda che ne ha venduto la quasi totalità. E, quando i migliori ristoranti ed enoteche cominciano ad acquistare i millesimati del Bally, la sua notorietà cresce. Così mi viene l’idea di far nascere una selezione. Qualche anno prima il Rhum Barbancourt aveva creato una selezione con Luigi Veronelli, uno dei più grandi esperti di vino e di cibo nel mondo. Si tratta di un rum di 25 anni, e la selezione è stata chiamata Reserve Veronelli. Così io penso a Peppino Cantarelli, a creare un Bally “Reserve Cantarelli”. Reserve Cantarelli

È il 1990-91 e, dopo la scomparsa di sua moglie Mirella, nel 1982, Peppino Cantarelli ha ormai chiuso la famosa trattoria. Tiene però ancora in vita il suo piccolo e straordinario spaccio alimentare nella bassa padana. Così lo cerco e gli telefono. Gli chiedo se si ricorda di me. Poco dopo vado a visitarlo. Dall’alto della sua storia, Cantarelli è una persona in apparenza semplicissima. Va in giro nella nebbia emiliana con la bicicletta, indossando il pastrano e vendendo i suoi magnifici culatelli. Ma, pur avendo chiuso alla ristorazione, Cantarel30


li, oltre a essere un pezzo di storia della gastronomia italiana, è ancora e sempre un punto di riferimento per i veri gastronomi e amanti del buon bere, che continuano a passare da lui. Ricordo per esempio che un paio d’anni dopo, in una delle mie visite a Samboseto insieme al nostro agente Casali, che era un suo grande amico, mentre eravamo con lui a chiacchierare e bere, arriva Gérard Depardieu, l’attore francese. Sta girando un film in Italia ed è praticamente scappato dal set, facendo diversi chilometri solo per venire da Cantarelli a bere. E beve moltissimo, tanto che a un certo punto si mette sulla strada con una bottiglia in mano, cercando di fermare i camion che sfrecciano sulla statale con l’idea di offrire ai camionisti un bicchiere di vino. In quella giornata ne succedono di tutti i colori, fino a che arriva la segretaria di produzione del film che, urlando e prendendosela con noi, ci accusa di averlo ubriacato. Quel giorno all’inizio degli anni Novanta, faccio assaggiare a Peppino Cantarelli i campioni di diversi millesimi di Bally, e gli propongo di fare un’edizione speciale, che chiameremo Reserve Cantarelli, con il rum da lui selezionato. Lui sceglie il Bally del 1970, invecchiato quindi vent’anni. E così mi metto al lavoro. Per ideare l’etichetta, mi viene un’idea un po’ bizzarra. È appena nato lo scanner, e così decido di scannerizzare il tessuto di un vestitino di mia figlia Maria Margaux, che avevo fatto fare in Martinica con il tipico tessuto tradizionale a quadri rossi, verdi e gialli, 31


fatto con il madras. Così nasce lo sfondo dell’etichetta della bottiglia del Bally Reserve Cantarelli. È il primo imbottigliamento indipendente della Velier, anzi, è la mia prima coproduzione nel mondo del rum, dal momento che l’imbottigliamento resta ufficialmente Bally. Quella del Bally 1970 Reserve Cantarelli è una bottiglia oggi da collezione, che viene battuta a un prezzo molto elevato. Grazie al Bally la Velier si comincia a far conoscere nel mondo del rum. Saint James 1885

Ai tempi in cui lavoravo alla Spirit, e quindi avevo Saint James, circolava la leggenda dell’esistenza di uno stock di Saint James del 1885, e di una serie di millesimi degli anni Trenta. Quando i Cointreau vendono alla Rémy-Martin – mi sembra nell’89-90 – nasce una nuova società che si chiama Rémy-Cointreau. Max Cointreau lascia la Cointreau, e io nel frattempo conosco i figli, che hanno comprato una scuola di cucina, la Cordon Bleu, e per questo sono venuti a parlarmi. E così chiedo a loro di questo Saint James molto vecchio di cui ho sentito parlare È uno dei figli di Max Cointreau che mi conferma l’esistenza di uno stock “fantasma” di vecchie bottiglie. Si tratta di una merce che era stoccata nei magazzini della Saint James in Francia ed, essendo vecchia merce, era destinata alla distruzione. Ma Jean-Claude Benoit, il direttore della Saint James che conosco dal 1975, l’aveva salvata, convincendo l’azienda a re-importarla in Martinica. Mi spiega dove trovarla, in un piccolo deposito alla Saint James. 32


Nel frattempo la Cointreau Italiana lascia la Spirit e viene messo a capo del gruppo proprio un ex della Spirit, Maurizio Spadotto, al quale chiedo di fare una ricerca. E lui alla fine riesce a portarmi una bottiglia di Saint James 1885, che stando alle informazioni di Spadotto era stato imbottigliato nel 1952, ancora dalla Ernest Lambert, cioè dai vecchi proprietari della Saint James. Ne porto un campione al ristorante Le Fate di Caponnetto, alla Foce, a Genova. Lì incontro anche Bepi Mongiardino, proprietario della Moon Import, che ha lavorato con me alla fine degli anni Settanta alla Pernod Ricard, che era distribuita da Spirit. La Moon Import è specializzata in prodotti top, molto qualificati, e in questo periodo è considerata l’azienda più qualitativa nel mondo dei distillati. Caponnetto è un artista, un gran gourmet, eccellente cuoco, conoscitore profondo della cucina ligure, grande appassionato ed esperto di vini: quasi un Cantarelli per il mondo ligure. Il suo ristorante dura pochi anni, ma è il primo della nuova generazione che faccia una cucina regionale tradizionale, ma rivisitata, abbinandola a grandi vini e distillati. Con Caponnetto parlo di vino, di champagne. Ero a pranzo da lui, nel 1985, mentre mia moglie stava per partorire la nostra terza bambina, ed essendo davanti a una bottiglia di Chateau Margaux, sono con lui quando decido di chiamare mia figlia Maria Margaux. Per cui porto la bottiglia di Saint James 1885 da Caponnetto, in presenza di Mongiardino, e gli dico 33


di aver trovato questo rum. Subito Mongiardino dice che anche a lui hanno offerto delle bottiglie di Bacardi fine Ottocento. «Ma è comunque un Bacardi bianco», rispondo io. A quel punto Caponnetto apre la bottiglia, assaggia e si mette in ginocchio: «È il più grande distillato che io abbia mai assaggiato nella mia vita», dice. È davvero un rum straordinario, di un’altra epoca, fatto in un altro modo, prodotto non dal succo fresco di canna da zucchero ma da uno sciroppo leggero, il jus cuit, con il quale veniva prodotto il Saint James fino alla Seconda Guerra Mondiale. Mi danno la possibilità di acquistare 600 bottiglie del 1885, ma in questo momento la Velier è ancora una società molto piccola, per cui ritengo che sarebbe un investimento sproporzionato, anche perché siamo entrati nella crisi economica del 91-92. Per cui chiedo a Mongiardino di fare a metà di questo stock, e così facciamo. Lo paghiamo 200 mila lire la bottiglia, e lo vendiamo piano piano, ai più famosi ristoranti italiani, tra il 1.200.000 lire e i 2.000.000 di lire. La crisi dei primi anni Novanta

In questo biennio 91-92, infatti, la Lira si svaluta fino al 50%, creando non poche difficoltà a una società come la Velier. La crisi cambia il nostro mondo. Come sempre succede in casi del genere, le multinazionali proprietarie dei marchi acquistano gli importatori, facendo sparire le società d’importazione storiche come la Salengo, la Soffiantino, la Vax & Vitale. E quindi anche la Velier è a rischio. 34


Ed è però in questo momento che sento la cultura del bere in Europa come ferma in un grigiore vecchio, e che quindi dovrei investire in una nuova direzione. Dopo il Cognac, dagli anni Sessanta è il momento dei whisky e dei single malt, che l’Italia è stato il primo paese a scoprire e consumare. Il whisky e i single malt, che sono considerati il bere di eccellenza, con l’acquisto dei produttori da parte delle multinazionali, hanno cominciato anche a subire il cambio d’immagine dovuto alle tecniche di marketing di massa, e vendono ai supermercati. In generale si abbassa quindi il livello di qualità nella percezione comune. In più, il whisky è molto legato a una generazione precedente. Mentre invece, nel frattempo, per le nuove generazioni sta per esplodere la moda dell’Havana 7 consumato nel Cuba Libre. Per capire meglio cosa accade in questo periodo bisogna inquadrare la situazione che c’è in Italia negli anni in cui l’Havana Club qui da noi è l’unico rum cubano disponibile. Prima che Fidel Castro prendesse il potere, nazionalizzando tutte le distillerie, nel 1960 le marche storiche di rum a Cuba erano tre: Bacardi, Matusalem e Arechabala. Negli anni Cinquanta, Bacardi è la marca leader e ha già aperto una distilleria a Puerto Rico. Il suo avversario è Matusalem, con il Gran Riserva 15 anni, amato da Hemingway. Arechabala è la terza marca e produce, oltre all’Arechabala, anche l’Havana Club, etichetta nata per essere il rum esclusivo del “Club Havana”, fatto edificare da Batista. 35


I rum cubani

Quando Fidel Castro nazionalizza tutte le distillerie, la Bacardi può continuare la sua attività a Puerto Rico e da lì sbarca negli USA, affermando il suo marchio con la produzione di un rum light diretto avversario della vodka, il distillato più consumato negli States. La Matusalem, purtroppo, deve interrompere la produzione. E anche Arechabala, infine, cessa di produrre. A questo punto, Castro, non potendo usare i trademark dei tre prodotti leader, inizia a esportare la marca Caney, che diventa di fatto il rum cubano, importato in Italia dalla Cinzano, che a Cuba esporta il vermouth. Questo succede a cavallo tra gli anni Sessanta e i primi Settanta. Ma il caso vuole che un’azienda piemontese lanci un vino spumante, il Canej Rosé, e provveda a registrare il marchio. Dopodiché fa causa alla Cinzano per impedire al Ron Caney di essere distribuito nel mondo con quel nome. L’esterrefatta Cinzano presenta ricorso, sostenendo che il nome Caney si riferisce alla canna da zucchero mentre Canej è il nome dialettale di Canelli. Ma il magistrato, che non riesce a districarsi tra y e j, boccia il ricorso. Cinzano quindi sostituisce Caney con Havana Club, il marchio di Arechabala libero per l’export. Inizierà importando esclusivamente il 3 anni, bianco/ paglierino, adatto per il Mojito, ed il 5 anni, paglierino/oro, più adatto al Cuba Libre. Ma un bel giorno, a Santa Vittoria, arrivano 600 bottiglie di Havana Club 7 anni. 36


A ordinarle è Marino Sandon, proprietario dello yacht club di Alassio, che frequenta Cuba, è diventato amico di Fidel Castro, e si è innamorato dell’Havana Club 7 anni. Nei primi anni Novanta, Sandon è il solo a spingere per avere l’Havana 7, di conseguenza ne vengono importate piccole quantità che compra tutte lui. Le vende a 30 mila lire l’una nel bar del suo Yacth Club ad Alassio, dove c’è una parete interamente riempita solo da bottiglie di Havana Club 7 anni. La moda del Cuba Libre con l’Havana 7 inizia da qui. I proprietari degli yacht iniziano a berlo nel bar di Sandon e acquistano le bottiglie per il bordo. È tendenza. Cresce con il passaparola, arriva a Rimini, a Milano Marittima, e da lì si espande. Non c’è dietro una strategia. All’inizio alla Cinzano stessa non capiscono questa richiesta improvvisa di Havana 7, per la quale non bastano mai le forniture. Eppure tutti sono ancora scettici: nessuno vede un futuro per il mercato del rum in Europa, mentre io, grazie al successo di Havana 7, avverto arrivare il momento del boom del rum. Ho davanti a me tutto il mondo del rum, e sento come il permesso di iniziare una mia nuova collezione di piume. Così mi metto alla ricerca di nuovi rum in tutti i tropici. Dagli anni ’93-’94, da pionieri, con la Velier iniziamo quindi una caccia frenetica a tutte le marche di rum che sono affermate nei loro paesi di origine, ma non ancora importate in Europa. Il primo Paese a cui mi interesso è naturalmente proprio Cuba. 37

Alla ricerca di altri rum


In questi anni, la Pernod Ricard ha fatto un accordo con il governo cubano e ha acquisito la distribuzione mondiale di Havana Club. Il marchio rimane ai cubani, ma il rum viene distribuito in tutto il mondo dalla Pernod Ricard, che in Italia ha acquisito la Ramazzotti, distributore quindi dell’Havana Club nel nostro Paese. Nel primo contratto che viene fatto tra Havana International e la Pernod Ricard viene stabilito che il governo cubano può commercializzare nel mondo solo due rum. Gli unici che è permesso esportare sono il Caribbean Club e Varadero. L’Italia, a differenza di altri Paesi, ha sempre mantenuto buoni contatti con Cuba, anche per le relazioni tra il governo cubano e il Partito Comunista Italiano. Si erano perciò create diverse relazioni con alcuni imprenditori italiani che avevano iniziato a stringere rapporti con Cuba. Tra questi Ciccone, amico di Fidel Castro e presidente della Società Comei, con il quale noi entriamo in contatto nei primi mesi del 1995, tramite una società collegata, la Treviso Trading, che aveva il mandato di trovare un importatore per il mercato italiano. Quindi entro in contatto con la Tecnoazúcar, nella persona di Dora Ponce Mendoza, poi deceduta in un incidente aereo. Alla sua morte, che avviene in un viaggio da Havana a Santiago di Cuba, a bordo di un Tupolev, continueremo le trattative con Viamonte. Riesco quindi a diventare l’importatore di Caribbean Club, che la Velier inizia a vendere nel maggio 1995. Viaggiamo quindi spesso a Cuba, dove porto Mar38


cello Barberis e i miei agenti di Milano Carelli e Rossi. Cuba è ancora molto chiusa. Habana Vieja è ancora in pessimo stato, ma anche carica del fascino di una città coloniale non ricostruita. Ci sono pochissime auto ed è molto difficile trovare dei buoni posti dove mangiare, perché gli unici sono quelli statali. Non esistono ancora i piccoli ristorantini indipendenti detti paladares. Anche se a Cuba, con qualche dollaro, si riesce sempre a trovare tutto, e si può andare a mangiar bene a casa di qualcuno praticamente di nascosto. Gli unici locali ancora in vita e rimasti uguali sono la Bodeguita del Medio e il Floridita, i due luoghi consacrati da Hamingway come quelli dove si bevevano, rispettivamente, il miglior Mojito e il miglior Daiquiri del mondo; rimasti con lo stesso arredamento, con lo stesso charme. All’Havana cercano di venderti i sigari per strada, e non solo quelli. Parlando con gli intellettuali cubani, è facile sentirsi dire: «Prima eravamo il casino degli Stati Uniti, adesso siamo il casino del mondo», perché le ragazze ti assalgono letteralmente all’uscita dall’albergo, per venderti il loro corpo per pochi dollari o addirittura per qualche bottiglia d’olio o del sapone. Girando le altre zone del paese, nelle cittadine di provincia, il mezzo di trasporto ancora più usato è il calesse trainato da cavalli. È un caribe ancora estremamente bucolico, che fa pensare agli anni Cinquanta, non per scelta ma per le conseguenze della politica castrista. Ed è qui che scopro il Mojito, non ancora arrivato in Europa. Quello originale, fatto con la hierba buena, il tipo di menta che c’è solo a Cuba, e che noi ci portiamo a casa per piantarlo sui nostri poggioli, per 39


farlo assaggiare e conoscere anche ai nostri migliori clienti. In quell’anno trovo poi uno stock di Havana Club di 3, 5 e 7 anni, prodotto prima del 1991 e ceduto da Cuba nell’ambito delle operazioni di compensazione con prodotti italiani, che acquisto in Italia da una distilleria vicino ad Alessandria. Creo quindi un nuovo marchio, che chiamo Ultima Revolution, creando anche il packaging con un’etichetta su cui c’è anche la bandiera cubana. Haiti: Barbancourt e Barlin

Il secondo paese a cui guardo è Haiti. In questi primi anni Novanta, a essere considerato il Macallan dei rum è proprio un rum haitiano, il Barbancourt, importato in Italia dalla D&C, della famiglia Deserti, colleghi storici della mia famiglia, e unica azienda sopravvissuta alla moria di questi anni degli importatori indipendenti. Quindi nemmeno ci penso, a prendere il Barbancourt. Ma io suppongo che non sia l’unico ad Haiti. Entro quindi in contatto con Herbert Linge, proprietario della marca Barlin. Siamo in contatto telefonico, ed Herbert mi racconta di essere il figlio di Jane Barbancourt, vera ultima erede della famiglia cdell’omonimo rum. Quindi mi racconta l’intera storia. La Barbancourt era stata fondata nel 1862 a Damiens, un sobborgo della capitale Port-au-Prince, dai fratelli Labbé e Dupré Barbancourt. Fin da allora, il loro era uno dei migliori rum agricole del mondo. Nel 1906 Labbé si mette in politica, e lascia l’azienda a Dupré e, poiché lui non aveva figli maschi, la Barbancourt viene ereditata da un cugino della mo40


glie, di nome Gardère, il quale poi venderà a un’altra famiglia, che non aveva nessuna relazione di parentela, ma che per un caso di omonimia si chiamava comunque Gardère. Nel dopoguerra, Barbancourt comincia a essere distribuito nei principali paesi del mondo e acquisisce rinomanza internazionale. Subito dopo la guerra, Jane Barbancourt, figlia di Labbé e quindi ultima dei Barbancourt, si sposa con un esperto di profumi tedesco, Rudolf Linge, scappato dalla Germania nazista, e i due decidono insieme di lanciare la marca Jane Barbancourt. Solo che, dopo una lunga battaglia legale, sono naturalmente costretti a cambiare il nome, essendo Barbancourt un marchio già registrato. E lo cambiano in Barlin. In seguito il nome cambierà ancora in Berling e il rum si chiamerà Vieux Labbé. Ma in questo momento degli anni Novanta, ovvero quando io me ne interesso, si chiama ancora Barlin. Mi faccio mandare un campione di un rum di 8 anni. Ma poi, a causa di problemi politici, le linee telefoniche di Haiti non funzionano, dunque non riesco più a contattare Linge, perdo le sue tracce. E così per il momento, cioè in questa fase degli anni Novanta, i miei contatti con Haiti si fermano qui, con un nulla di fatto. Più facile, invece, è esplorare i rum dell’altra parte dell’isola, cioè la Repubblica Dominicana, dove riguardo al rum regnano le famose tre B, ovvero Brugal, Barcelò e Bermudez. Negli ultimi cinquanta anni, la storia del rum della Repubblica Dominicana ha avuto tre fasi. Una, 41

Repubblica Dominicana e Brugal


dove Barcelò è stato il leader incontrastato; una seconda fase, dove il leader è stato Bermudez. Poi, in una terza fase, queste due aziende, avendo aumentato le vendite, non avevano abbastanza stock, e allora è stata la volta del Brugal. Il Brugal è perciò adesso il rum quotidiano dell’isola, di fatto parte integrante della cultura dominicana. È in tutte le case, sempre presente ai matrimoni, alle feste, scandisce la vita dei dominicani dalla nascita ai funerali, addirittura sponsorizza i cartelli stradali. Quando però contatto per la prima volta la Brugal, mi dicono che non riescono a darmi il loro rum, perché hanno iniziato a esportarlo in Spagna con un grande successo commerciale e al momento non possono permettersi di aumentare le vendite, per non ridurre le loro scorte. Cerco quindi gli altri due rum dominicani, il Barcelò e il Bermudez. Quest’ultimo inizieremo a venderlo più avanti, nel luglio del 1996, per un breve periodo, mentre il Barcelò alla fine non lo prenderemo mai, anche perché nel frattempo chiude la distilleria. Dopo alcuni mesi, però, la Brugal decide di aprire le vendite anche in Italia e il loro presidente, George Arzeno Brugal, arriva nel nostro paese per scegliere l’importatore. Vengo a sapere che la Disaronno, azienda ben più grande della mia, il cui proprietario è sposato con una dominicana, è interessata ad acquisirlo. Vado quindi alla riunione con don Arzeno Brugal convinto di avere poche possibilità. Don George ha già più di settanta anni, è un uomo stupendo, presidente della Borsa dominicana, 42


un vero gentleman dei Caraibi, di grande eleganza, distintissimo. Contro la mia stessa previsione, essendo io tra l’altro in jeans e scarpe da tennis, riesco a conquistare don George, che, travolto dalla mia passione e conoscenza del mondo del rum, decide di puntare su di me. Ma prima di ufficializzare l’accordo mi chiede di visitare la distilleria e di conoscere don Franklin Brugal, che di fatto è il capo dell’azienda. Vado quindi con mio fratello Paolo e Marcello Barberis in Repubblica Dominicana. La direzione generale della Brugal è al 57 della Kennedy Avenue a Santo Domingo. All’entrata troneggia un cartello che intima di lasciare tutte le armi da fuoco alla reception, prima di entrare. La Brugal è comunque una delle più importanti aziende della Repubblica Dominicana, da sempre di proprietà della famiglia Brugal. Don George è il presidente onorario, mentre il presidente operativo è don Franklin Baez Brugal, che ci accoglie nel salottino annesso all’ufficio di presidenza. Don Franklin è un vero manager, con la capacità di rendere immediatamente operative le strategie dell’azienda. È ambizioso, sicuro che Brugal possa diventare un importante player nel mercato internazionale del rum. La Brugal vende più di 40 milioni di bottiglie nella Repubblica Dominicana, ed è un’azienda estremamente ben organizzata sul territorio. Sta creando il suo dipartimento export con la stessa mentalità che l’ha portata al successo nel mercato nazionale, dove negli ultimi dieci anni ha annichili43


to i suoi due avversari storici, Bermudez e Barcelò, conquistando l’85% del mercato. Accompagnati da Luis Concepcion, anche lui membro della famiglie Brugal e responsabile della comunicazione, andiamo a visitare la distilleria a San Pedro de Macorìs, sulla costa sud-est dell’isola. È una grande distilleria industriale con impianti multicolonna, che producono un distillato al 95%. Ma pur essendo un rum industriale, Brugal comunque utilizza solo melassa locale, a differenza di altri grandi produttori, e ha uno stock molto importante in invecchiamento a Puerto Plata, nella parte nord del Paese, dove la distilleria è nata nel 1888. Il fondatore Andrés Montanar Brugal fa parte del trio di giovani avventurieri di Sitges, nella Catalogna, a sud di Barcellona, che alla fine dell’Ottocento partirono per il continente americano per andare a far fortuna nei Caraibi producendo rum. Il trio era composto da Facundo Bacardì, Evaristo Alvarez e lo stesso Andrés Brugal. I tre giovani si recarono a Cuba, dove Facundo creò la Bacardi e Alvarez , in società con i fratelli Benjamin e Eduardo Camp, la Matusalem. Andrés Brugal dopo qualche anno preferì invece spostarsi in Repubblica Dominicana, a Puerto Plata, per creare la sua distilleria e avere meno concorrenza. Per questa ragione, la Brugal, pur avendo spostato la distilleria a San Pedro de Macorìs, nella parte sud-est dell’isola, ha mantenuto per ragioni affettive i suoi depositi a Puerto Plata, sede storica dell’azienda. I depositi della Brugal a Puerto Plata sono im44


mensi, e lì riposa in 250.000 botti tutto lo stock dell’azienda. La Repubblica Dominicana è un paese in fermento con quel fascino del caotico caraibico, tra traffico e salsa merengue e bachata ad alto volume, che è il comun denominatore dell’isola. Un popolo molto métissé che, pur essendo già americanizzato, mantiene la sua anima caraibica. Visito la bellissima città coloniale, il Mercado Modelo, uno dei più grandi mercati dei Caraibi dove, dentro le bottiglie di Johnnie Walker o nei magnum di Brugal Carta Dorada, si vende la mamajuana, cioè il rum dove vengono messe in infusioni erbe considerate medicinali, radici, oppure frutti di mare. La mamajuana è il modo tradizionale in cui si consuma il rum, frutto della tradizione e della farmacopea africane, considerata un prodotto afrodisiaco o comunque curativo. Scopro la cucina locale e percepisco l’esistenza di due paesi che coesistono: una Repubblica Dominicana della campagna, dove ancora il Brugal si beve liscio incontrandosi nei piccoli colmadon alla fine della giornata; e Santo Domingo, la capitale, è un po’ la Napoli del caribe, dove iniziano a nascere i bar e le discoteche in stile internazionale e dove il Brugal si beve con la Sprite. Durante questo stesso viaggio, dopo aver visitato la Repubblica Dominicana, ci spostiamo a Puerto Rico. Era stato Benito Cuppari, nelle notti che passavo da ragazzo allo Shaker Club, ad avermi parlato di un rum sconosciuto dei Caraibi, uno dei migliori. Il rum Barrilito di Puerto Rico. 45

Puerto Rico e il Barrilito


Porto Rico è il controsenso del rum della fine del ventesimo secolo. Sede della distilleria più importante della Bacardi, oltre che della ancora indipendente distilleria Serrales, è l’isola che produce più rum al mondo ma, dal 1970, non ha più un ettaro di canna da zucchero. Entro quindi in contatto anche con la famiglia Fernandez, proprietaria della Barrilito. È un’azienda fuori dal tempo, che esiste fin dal 1886, fondata dal nonno degli attuali proprietari. Ha distillato fino al 1950 e poi, chiusa la distilleria, ha continuato a invecchiare e imbottigliare il suo rum “2 stelle” e “3 stelle”. In questa Puerto Rico ormai molto americanizzata, con autostrade e casinò, quando arriviamo alla Barrilito è come tornare indietro di cinquant’anni. Gli uffici sono nell’antico mulino a vento, dove si scrive ancora con una vecchia Remington e le fatture sono registrate in libroni scritti a mano. Nel cortile è parcheggiata una giardinetta rossa d’epoca, ancora in uso. L’azienda è volutamente ferma ai tempi del suo fondatore, con gli stessi metodi di produzione, le stesse etichette che indicano i “2 stelle” e “3 stelle”. I proprietari vogliono lasciare tutto uguale, sono due fratelli e una sorella, già avanti con gli anni, l’aria di tre spagnoli dell’Ottocento. Ci accolgono in modo molto semplice, e ci mostrano i loro magazzini. Uno stock di circa ottomila barili, tra cui delle pipas di porto, delle botti di sherry, addirittura di barolo, oltre a quelle classiche di bourbon. Ed è la prima e unica volta che vedo il grande tino di legno in cui viene fatta la mezcla, la formula della famiglia con cui viene aromatizzato il 46


rum, dove vengono messi in infusione vino, frutta e altri aromi segreti nel tino aperto. Manuel Fernandez mi mostra poi a una botte isolata, che chiama La Doña: «Questa botte», mi dice, «che era la migliore dello stock, la mise da parte mio padre con il proposito di portarla in piazza a San Juan il giorno dell’indipendenza di Puerto Rico, per la grande festa che sarebbe stata fatta». È uno dei migliori rum che abbia mai degustato, e ingenuamente chiedo di comprarlo, proponendo anche un imbottigliamento speciale, ma quella botte è sacra, un ricordo del padre e, insieme, legata al sogno dell’indipendenza mai arrivata di Puerto Rico, e quindi rimasta lì, per essere rabboccata dopo ogni assaggio. Dopo aver mangiato un piatto di mofongo al Caffè Manolin nella San Juan Vieja bevendo piña colada, drink nato proprio a Puerto Rico negli anni Cinquanta, ritorniamo in Italia con l’accordo per l’importazione del Barrilito. Al ritorno da questo viaggio, il Brugal e il Barrilito si aggiungono al Caribbean Club, nella nuova gamma di rum della Velier. Dopo aver acquisito uno dei due rum disponibili all’export di Cuba, la marca leader della Repubblica Dominicana e il Barrilito, entro in contatto con mister Porsius, il responsabile in Europa della DDL, la Demerara Distillers Limited, con base ad Amsterdam, un olandese molto strano, tanto che dopo alcuni anni verrà allontanato per comportamenti controversi. Per 300 anni, il rum Demerera è stato parte integrante del British Royal Navy Rum. Solo nel 1992 47

La Guyana e i Demerara


la Demerara Distillers decide di metterlo in bottiglia ed esportarlo sotto il marchio El Dorado. Divento così il primo importatore in Europa di El Dorado. E presto verrà a trovarmi in Italia Yesu Persaud, il presidente della DDL, portandomi in dono una cravatta, un regalo che diventerà poi una consuetudine annuale. Yesu Persaud è un uomo straordinario, sulla settantina, di grande carisma, pur piccolo di corporatura. Di origine indiana, mascella alla Marlon Brando, è diventato uno dei principali personaggi del Paese. È il presidente della DDL dalla fine della fase coloniale inglese, lo è stato quindi anche nel periodo in cui la Guyana era una repubblica maoista, dove lo chiamano semplicemente The Chairman, ovvero “Il Presidente”. Ricopre poi molte altre cariche ed è un grande filantropo. È tra l’altro il fondatore e presidente dell’Institute of Private Enterprise Development (IPED), un’istituzione che stimola e finanzia gli imprenditori e le piccole e micro-imprese del Paese, nonché fondatore della prima banca privata indigena della Guyana, la Demerara Bank Ltd. Durante questa prima visita nasce una spontanea amicizia tra me e Yesu Persaud, che grazie al suo carisma e alla profonda conoscenza, diventa il mio guru nel mondo del rum. Felice di essere il primo importatore dell’El Dorado, inizio quindi la mia opera divulgativa informando la forza vendita e visitando i clienti italiani più importanti. Ma da loro mi arriva la sorpresa. Nell’ambiente italiano si ritiene che i veri Demerara siano quelli imbottigliati dalla Moon Import. Essendo tra l’altro 48


più cari del nostro El Dorado, vengono percepiti di qualità superiore. La Moon Import di Mongiardino imbottiglia dei Demerara comprati in Inghilterra, tra l’altro sbagliando clamorosamente le etichette e definendolo rum agricole, quando il rum agricole, distillato dal puro succo fresco di canna, non è mai stato prodotto in Guyana. Lo distribuisce comunque molto bene, selezionando enoteche e ristoranti italiani tra i più famosi, e così regalando una buona fama ai rum Demerara, fino ad allora sconosciuti in Italia. Non sono però i Demerara originali, come è invece l’El Dorado importato da noi. Vengono infatti invecchiati e imbottigliati in Scozia, anche se portano i “marks” in etichetta di alcuni degli alambicchi più mitici della storia del rum: Port Mourant, Versailles ed Enmore. L’arrivo di El Dorado completa il pokerissimo con Caribbean, Brugal, Barrilito e Bally. L’El Dorado ha come prodotto di punta il 15 anni (davvero invecchiato 15 anni), ed è la prima volta al di fuori del rum agricole che si affaccia al mercato italiano un rum di melassa con un invecchiamento estremamente prolungato. In pochi mesi Velier diventa l’azienda che presenta la più vasta gamma di rum in Italia. Piove sul bagnato, quando, sfogliando la rivista “Drinks International”, vedo la pubblicità del Matusalem 15 anni, con la sua vecchia bottiglia originale, l’etichetta originale, mi metto subito in moto. La marca cubana Matusalem era scomparsa 49

Il Matusalem 15 anni


nell’anno stesso in cui Castro aveva preso il potere, quando erano morti don Alvarez e suo cugino, i due proprietari storici, lasciando le vedove con il piccolo Claudio di sette anni. Gli Alvarez erano quindi emigrati negli Stati Uniti, portando con loro la ricetta del rum originale. Fidel Castro, nei primi anni Sessanta, proverà a commercializzare nel mondo un rum con il marchio Matusalem, ovviamente realizzato con un’altra ricetta, di cui viene bloccata l’esportazione. Continuerà a venderlo solo su territorio cubano. Nel frattempo, dopo vent’anni di battaglie, Claudio Alvarez, cresciuto da esule negli Stati Uniti, e diventato un medico apprezzato, proprietario di una clinica di successo, era riuscito ad acquistare la totalità della proprietà del marchio, che era stata divisa tra gli eredi, e a realizzare il sogno di rifare il Matusalem originale. Mi metto quindi in contatto con la 1872 Holdings, l’azienda proprietaria di Matusalem, e vado a Miami con mio fratello Paolo, dove lo incontro insieme al suo braccio destro Willy Rosell, un ex dipendente della Bacardi, imparentato anzi proprio con la famiglia Bacardi. In questo incontro ci dicono di non essere ancora pronti. Hanno disponibile il Matusalem Gran Reserva, invecchiato 15 anni con il metodo Solera, ma non ancora la gamma 3, 5 e 7 anni. Per cui ci propongono di aspettare la gamma completa. Ma io chiedo di darmi solo il 15 anni, da importare subito. Così nell’autunno 1997 iniziamo a vendere il Matusalem, offrendo solo il Gran Reserva. Ed è stata una fortuna, perché nel panorama di offerte che arrivavano fino ai rum di 7 anni, il nostro Matusalem 50


di 15 anni andava immediatamente a collocarsi sopra gli altri, come prodotto immediatamente percepito di qualità superiore. Il sistema di distribuzione che ha la Velier è di grande precisione. Selezioniamo i migliori bar, le migliori enoteche e ristoranti, e questo fa sì che il Matusalem venga distribuito nei locali più stimati. In questo modo prende una posizione ancora più elevata, dandogli un’aura di prestigio anche grazie al fatto che il suo invecchiamento maggiore lo rende un rum da degustazione, che si può bere liscio, mentre l’Havana 7 è in gran parte bevuto nei Cuba Libre. Il Matusalem può essere collocato nello spazio che tradizionalmente è occupato dai whisky, dai cognac, dai distillati di grande pregio. E così diventa presto un marchio cool, nuovo, moderno, qualitativo. E ci permette di metterci direttamente a concorrere contro Havana Club. Creiamo veramente un successo, con un marchio che presto fa tendenza. Vendiamo 200.000 bottiglie, rendendo l’Italia il più grande mercato al mondo per il Matusalem. Il pokerissimo si arricchisce con l’acquisizione del Cacique del Venezuela, di proprietà della Seagram, che iniziamo a distribuire da aprile del 1997. Dal 1997 la Velier ha quindi la sua gamma di rum, con un ventaglio di marche per le quali oggi sarebbe impossibile avere un unico distributore, e che includerà, oltre ai “magnifici cinque”, il Tondeña delle Filippine, il Medellin della Colombia, il Bermudez, e a seguire il Gosling delle Bermuda, il Flor de Caña del Nicaragua e il Santa Teresa del Venezuela dai primi anni 2000. 51


Questa “sventagliata” per il momento interessa i soli rum di melassa, che rappresentano il 98% della produzione mondiale, ovvero il mondo dei rum che ruota intorno a Bacardi e Havana Club. Mentre Bally rimane l’unico rum agricole in catalogo della Velier. Siamo i pionieri. Diventiamo la locomotiva, il punto di riferimento dei rum in Italia. Cavalchiamo questa nuova movida del rum. Procediamo comunque il nostro lavoro metodico di ricerca dei rum nei tropici. Il nostro obiettivo non è tanto selettivo, quanto inclusivo. Abbiamo cioè il desiderio di far conoscere proprio i vari rum ancora sconosciuti delle diverse terre tropicali. Il concetto delle differenze di qualità non esiste ancora nel mercato del rum. Ci concentriamo sull’informazione e l’educazione, per far conoscere in Italia non solo i rum, ma la cultura dei Caraibi in generale, i cocktail, il modo locale di consumo del rum, la cucina, la musica, sponsorizzando anche le scuole di ballo di musica latino americana. Sui nostri cataloghi ci sono le mappe dei Caraibi, dove indichiamo le distillerie con le loro tecniche di produzione e le loro storie. Una prima classificazione dei rum

È allora che creo una prima classificazione dei rum, oggi superata, ma che all’epoca viene utilizzata sul catalogo natalizio della Metro, la grande catena di Cash and Carry. La classificazione parte dal concetto di differenziare le tre aree di colonizzazione dei Caraibi, distinguendo quindi i rum di stile spagnolo, inglese e 52


francese, oltre ai Demerara, che considero uno stile a parte. Geograficamente, i Caraibi sembrano infatti un’area unica, con le isole raggruppate a breve distanza, ma in realtà gli effetti della colonizzazione dei tre diversi paesi europei hanno fatto sviluppare nel tempo tre culture ben distinte. Sono tre aree che non comunicano davvero tra loro, sia per stili di vita, sia per cultura, sia per i trasporti e quindi per scambi di ogni genere. La differenza è evidente anche solo osservando i tratti somatici, le etnie molto diverse ancora oggi, pur trattandosi di terre così contigue. Sono tre culture separate, il cui unico punto di unione è proprio il rum. Le zone di colonizzazione francese fanno però prevalentemente rum agricole, anche se non solo. Gli spagnoli non sanno niente del rum agricole, anzi lo considerano troppo ricco, dicono che fa male alla testa. I francesi, che fanno solo agricole, chiamano l’altro “rum industriale”. Gli inglesi ritengono di essere i soli a fare il miglior rum al mondo. Sono mondi distanti quindi non solo dal punto di vista dei consumatori, ma anche da quello dei produttori. Non so se sono stato solo capace di salire sull’onda al momento giusto o se sono stato io a crearla, ma comunque c’è una congiuntura tra disponibilità della nostra gamma di rum e l’esigenza di spostarsi dal mercato del cognac e del whisky verso qualcosa di più solare. Fatto sta che parte la movida del rum degli anni 53


Novanta. Il mercato si decuplica. Tutti i ragazzi nati negli anni Settanta bevono Mojito e Cuba Libre e, quando vogliono un distillato liscio, chiedono il Matusalem o El Dorado. E così gli altri importatori iniziano anche loro a dedicarsi al rum. Molto velocemente tutte le marche disponibili all’export vengono importate in Italia, che forse anche per il fatto di non essere stato un paese coloniale nei Caraibi, è il primo Paese europeo che democraticamente consuma i rum provenienti da ogni regione. La convivenza tra Matusalem e Caribbean Club è molto delicata, per il fatto che la famiglia Alvarez di Matusalem, costretta ad andare in esilio a Miami, è chiaramente anti-castrista. Per questo creo una società che si chiama Cigar Depot. Così ufficialmente faccio importare il Caribbean Club dalla Cigar Depot, di modo che Velier non risulti l’importatore ufficiale. Faremo in questo modo sino a quando, nel 2004, la Pernod Ricard, distributore mondiale di Havana Club, troverà che il nome Caribbean Club sia in conflitto con quello dell’’Havana Club. Convincerà perciò Cuba a dismettere la marca. E questo mi offrirà l’occasione per smettere di distribuire il Caribbean Club. Nel frattempo, in questi anni, internet diventa un mezzo di uso comune, segnando un cambiamento importante nel mio lavoro. Infatti con l’avvento del web tutto il vantaggio che 54


ho acquisito nella mia lunga fase di ricerca, diventa facilmente accessibile a tutti. Chiunque, dalla metà degli anni Novanta, può trovare rum e distillerie, informarsi sui Caraibi, su prodotti e produttori. Per questo, penso alla mia esperienza lavorativa dividendola in due grandi periodi, che chiamo Before Internet e After Internet. Dopo Internet, inizia una nuova fase, per me. Quella in cui capisco che per andare oltre Internet devo esplorare, cercare, viaggiare in territori ancora sconosciuti ai più. La prima fase di divulgazione è terminata. È il momento di partire con il secondo tempo.

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