Nomade tra i barili - Capitolo 6

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Comincio con Urska a visitare anche le distillerie dell’America Centrale. Dalle mie ricerche fatte negli anni Novanta, tra gli altri rum avevo individuato anche lo Zacapa, in quegli anni completamente sconosciuto, che viene prodotto in Guatemala. Per diverso tempo ho cercato un contatto con la Zacapa su guide e annuari, ma senza risultati. Avevo però un amico, Paolo Orsi, sposato con una guatemalteca e console onorario del Guatemala a Genova. Per cui chiedo a lui di trovarmi un contatto e di portarmi da uno dei suoi viaggi una bottiglia di Zacapa, che è tra l’altro una bottiglia molto particolare, ricoperta da foglie di palma intrecciate. Ma lui dimentica puntualmente di farlo per diverso tempo, fino a quando vedo che il rum Zacapa arriva in Italia, importato dalla Arnolfini. Scopro poi come è andata. Un nostro cliente, Sergio Galli, proprietario di un ristorante stella Michelin nei pressi di Parma, carissimo amico del nostro agente Antonio Casali, con dei parenti che vivono a Guatemala City, dove gestiscono un negozio di pasta fresca, era entrato in contatto con la Zacapa. Ma, invece di parlarne con la Velier, dal momento che noi avevamo 103

Lo Zacapa e il Guatemala


già tantissimi rum, ne aveva parlato con questo piccolo importatore emiliano, appunto Arnolfini. Poi, dopo una controversia tra la Arnolfini e l’amico di Casali, quest’ultimo contatta me, chiedendomi di andare in Guetamala per parlare con Zacapa. E così decido di partire con Urska. Siamo nel novembre 2001, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. E scopro solo qualche giorno prima della partenza che Urska ha bisogno di un visto, per fare scalo in territorio statunitense. Dal Guatemala ci assicurano che le sarà riservato un trattamento diplomatico, e che quindi possiamo partire tranquilli. Quando però arriviamo a Miami, ci fermano, dicendoci che Urska ha bisogno del visto. Chiedo di chiamare l’immigrazione guatemalteca, parlando del trattamento diplomatico. L’American Airlines chiama, ma ci dicono che non risulta alcun trattamento diplomatico. E così restiamo bloccati all’aeroporto di Miami. Dopo alcune ore vediamo che c’è un nuovo volo in partenza per Guatemala City, e così provo alla disperata a rifare il check-in, dicendo di aver perso il volo precedente, con l’idea di trovare un personale più disponibile. La signorina prende i nostri passaporti, mi guarda, poi mi chiede quale sia la capitale della Slovenia. E io, pronto, le rispondo: «Trieste!» Allora lei controlla sul computer, evidentemente verificando che da Trieste non serve nessun visto, e mi fa: «Ok» e così partiamo. Quando arriviamo in aeroporto ci viene incontro un ometto sbracciandosi e gridando i nostri nomi. È un poliziotto, e io dico a Urka che certamente viene 104


ad accoglierci per via del trattamento diplomatico che ci è stato garantito, invece il poliziotto ci raggiunge e ci dice che siamo entrati illegalmente, che a causa nostra l’American Airlines sarà multata di 10.000 dollari, e ci rinchiudono in un gabbiotto all’Immigration. Quindi cerchiamo di telefonare al nostro contatto alla Zacapa, ma non risponde. Ci lasciano quattro ore lì dentro, insieme a un’agente dell’immigrazione, una donna inviperita per il fatto di essere costretta, a causa nostra, a prolungare il suo turno di lavoro per ore. E che minaccia di espellerci, fino a mezzanotte. A quell’ora, finalmente, Portillo, l’export manager della Zacapa, si mette in contatto con le istituzioni. Alla fine Urska riesce ad avere un visto di 72 ore. Quando però ce lo comunicano, io, nervosissimo dopo quattro ore lì dentro, faccio un colpo di scena e dico: «No! Adesso voglio essere espulso!» facendo impazzire tutti. Ma poi ogni cosa si sistema e, alla fine, siamo in Guatemala. Entriamo in albergo all’una di notte, ancora senza bagaglio. L’indomani, dopo una buona colazione a base di tortillas, andiamo alla Zacapa. Qui mi fanno assaggiare i loro distillati, i rum della Licorera Zacapaneca. In Guatemala, la famiglia Botran ha pian piano acquistato tutte le altre distillerie, creando una grande unità di produzione industriale che si chiama Darsa, una distilleria multicolonna. In questo accorpamento è rientrata anche la Licorera Zacapaneca, una piccola distilleria in altitudine. La Darsa produce quindi adesso lo Zacapa, il Botran, il Colonial e il Venado. 105


I distillati che poi saranno imbottigliati come Zacapa vengono lasciati 3 o 4 anni nei barili da 220 litri in tierra fría, cioè in altitudine, nei vecchi depositi della Licorera Zacapaneca, e poi vengono portati alla Darsa per finire l’invecchiamento. La Darsa ha un contratto con Arnolfini che scade l’anno seguente. Quindi, inizialmente mi propongono un acquisto in parallelo, con un invio del prodotto a Panama, in attesa che il contratto con Arnolfini scada. Da parte mia, chiedo se posso fare alcune selezioni, faccio anche alcuni schizzi per le possibili etichette. Ma poi rinuncio. Essendoci già Arnolfini come importatore in Italia, decido di non entrare in questo affare, che mi sembra per più ragioni poco etico. Me ne torno quindi in Italia senza Zacapa ma con tre tecolotes in ceramica, i gufi portafortuna della bellissima città coloniale di Antigua. Ritorno a Cuba

Nel febbraio del 2002 continuano i viaggi delle Aguilas e portiamo i clienti a Cuba, con noi viene anche mia figlia Alice. Andiamo subito a berci un Mojito alla Bodeguita Del Medio. Poi andiamo a Cienfuegos, Trinidad, e finalmente arriviamo a visitare la distilleria Paraiso di Santo Espiritu, dove scopro che purtroppo il rum a Cuba è scomparso. La distilleria è quasi dismessa, ha circa 5.000 barili. Il rum viene prodotto con fermentazioni super rapide (di 14-16 ore) ed è formato da un blend di una “madre” fatta da vecchio rum più aguardiente (distillata in colonna a 75°) e quello che loro chiamano Ron (distillato a 96°). Poi viene fatto un assemblaggio tra questi due distillati, più una mezcla segreta, che sicuramente contiene anche del vino e dell’uva passa. 106


Durante questo viaggio mi prendo poi una giornata libera per andare a trovare uno dei miei maestri, don Alejandro Robaina, al quale era appena morto il figlio. È la prima volta che incontra Urska ed è molto tenero con lei. La moglie, con altre tre vecchiette, ci serve un magnifico pranzo, nella loro bellissima casetta old style, con enchilada de langosta, igname, pollo criollo e, come sempre, in nostro onore, stappa una bottiglia di vino italiano, che non capisco mai come riesca a procurarsi, e la birra Cristal. Nel frattempo si sono incrinati i miei rapporti con Cuba in relazione ai sigari. Ci siamo quindi separati da Diadema, che aveva la sede nei nostri uffici, e che adesso distribuisce direttamente, dopo aver ridotto il numero degli agenti sul territorio,pur usando ancora alcuni dei nostri. In ogni caso, è in questo periodo che, dopo due anni, finisce la nostra avventura con i sigari cubani. Continuiamo la nostra esplorazione dell’America Centrale, andando a visitare la Flor de Caña in Nicaragua. È un Nicaragua ancora vero, anche se c’è un po’ troppa polizia in giro, rimasuglio del regime dittatoriale del recente passato. Andiamo nella città coloniale di Granada, che non ha ancora subito il maquillage falso conservativo che rende queste bellissime città del centro America dei circus per i turisti. Mangio il pesce guapote e vado a vedere una partita de Los Indios Bauer, la squadra locale di baseball più famosa, e lì mi incontro con Robert Collins, detto Don Roberto, il nuovo export manager della Flor de Caña. 107

Il Flor de Caña in Nicaragua


Andiamo poi allo zuccherificio Ingenio San Antonio, e quindi a vedere la distilleria, attraversando la campagna rigogliosa nicaraguense sulle strade dissestate. La Flor de Caña è un’azienda della famiglia Pellas, originaria di Genova, che ha lo zuccherificio San Antonio e poi, con la melassa, distilla. Hanno un sistema multicolonna, però il distillato esce a 77% di alcol, quindi a una gradazione abbastanza bassa. Purtroppo, controllano la temperatura nei magazzini con l’aria condizionata. Mi incontro con l’ingegner Chamorro, presidente della Flor de Caña. E anche in questo caso penso di fare un imbottigliamento speciale che, però, a oggi non è ancora stato fatto, e forse adesso non farei più. In questo rapido viaggio conosco il pittore Manuel Lopez e ho anche il piacere di incontrare Ernesto Cardenal, poeta, scultore, ex prete, ex ministro della cultura, personaggio-immagine dei sandinisti, con cui passo una bellissima serata parlando non di rum, ma della vita, della politica, dei problemi del Nicaragua. Torno in Guyana, dove imbottiglio il Diamond 1983 e l’Albion 1983. Con il secondo imbottigliamento, studio il packaging che poi sarà quello definitivo per i Demerara. La bottiglia nasce da una di single malt di fine Ottocento, che avevo visto visitando il bar Metro a Milano, di Giorgio D’Ambrosio, uno dei più grandi collezionisti di whisky del mondo. A lui chiedo di darmi questa bottiglia storica per poterne fare lo stampo, e così nasce la bottiglia marrone dei Demerara. Le etichette sono minimaliste, ogni marca ne ha una di un colore diverso, che riporta le indicazioni essenziali: 108


data di distillazione; data di imbottigliamento; numero di barili; numero di bottiglie prodotte; e comincio a inserire la dicitura aged in tropical wheather. Quando visitiamo Grenada, troviamo un’isola dove arrivano ancora poche navi da crociera e in quegli anni conserva quindi la sua bellezza originaria. È l’isola delle spezie, dove si produce la cannella, con le donne ai bordi delle strade che lavorano la corteccia di cinnamomo per ricavarla. A Grenada ci sono ancora tre distillerie. La Grenada Distillers produce il rum più consumato sull’isola, il Clarke’s Court. Poi c’è la Dunfermline, che probabilmente visito nel suo ultimo anno di attività. Sembra abbandonata, ci si arriva percorrendo una strada senza asfalto, due auto arrugginite davanti all’entrata, erbacce dappertutto. Inaspettatamente una voce risponde al nostro richiamo. Entriamo in un piccolo deposito, dove vediamo tre uomini seduti su dei cartoni di rum, in mezzo a sacchi pieni di bottiglie vuote, a far niente. Uno dei tre è figlio del proprietario, ci fa visitare questa distilleria decadente, col mulino ad acqua in mezzo alla sterpaglia. La fermentazione avviene al piano superiore. La distillazione, in un alambicco in pessime condizioni, posto sotto una tettoia, con fuoco a legna. Nessun barile. La terza distilleria, River Antoine, è invece sulla costa nord-ovest dell’isola, dopo la cittadina di Grenville. Qui c’è un ristorante vecchio stile, l’Ebony, al primo piano sopra un supermercato, a cui si accede dal 109

Viaggio a Grenada


cortile. Lì mangio per la prima volta l’oil n’ down, piatto tipico di Grenada a base di carne e pesce cotti nel latte di cocco. La distilleria è la più bella che io abbia visitato. È stata fondata nel 1785, ed è ancora in pietra, nella sua versione originale stile coloniale e senza elettricità. È circondata dagli ultimi trenta ettari di canna da zucchero dell’isola, con un fantastico mulino ad acqua, probabilmente dell’Ottocento. La canna viene portata a mano e messa nelle presse, azionate dagli ingranaggi mossi dal mulino ad acqua. La bagasse viene poi spinta a mano con un carrello e portata a trenta metri, dove forma una montagna. La distilleria è straordinariamente silenziosa. Non c’è nessun rumore per via della mancanza di elettricità. E qui c’è probabilmente l’ultima boiling house al mondo, dove è ancora in funzione la batterie, formata da quattro enormi contenitori semisferici, riscaldati dal fuoco della bagasse. Si ottiene ancora un succo concentrato, il cosiddetto jus cuit, lo stesso usato prima della guerra dalla Saint James in Martinica. Dentro tini di fermentazione – che fino a un paio d’anni prima del mio arrivo sono ancora in legno, mentre invece adesso sono in cemento –, avvengono poi le lunghe fermentazioni con i lieviti naturali, che durano più di una settimana. Poi, in vecchi alambicchi double retort pot still di rame, col fuoco diretto, a legna, si distilla questo rum bianco fantastico, prodotto in due versioni, una al 69% di alcol e l’altra al 75%. Una volta imbottigliato, a mano e bottiglia per bottiglia, il rum viene venduto tutto in giornata, con una media di circa 500 bottiglie al giorno. Qui incontro per la prima volta miss Richards, una delle proprietarie, con un desiderio irrefrenabile 110


di comprare la distilleria o almeno di importare e distribuire questo rum in Italia, ma vista la scarsità del prodotto è impossibile. Nel novembre 2002, andiamo a Miami per incontrare la famiglia Alvarez della Matusalem, e firmare un nuovo contratto con scadenza 2007. Andiamo a visitare anche la sua bellissima villa di 5.000 metri quadrati con spiaggia privata. Poi, partendo da Miami, iniziamo un nuovo viaggio nelle Antille. Ritornando a Grenada io e Urska prendiamo il traghetto, l’Osprey, che ci porta a Carriacou, l’isola più a sud delle Grenadine e la più a nord di Grenada, ancora senza turisti, con tutti i suoi rum bar, dove si beve l’Iron Jack. Poiché Carriacou non ha canna da zucchero, importa da Trinidad dei barili di rum che vengono scaricati sul pontile di Hillsborough, e poi subiscono ancora un piccolo invecchiamento nei vari rum bar dove vengono imbottigliati dagli stessi spacci alimentari. Ogni rum bar produce quindi la propria bottiglia e disegna la propria etichetta, tra questi il più conosciuto è Ed Patterson. È quindi un rum imbottigliato ad alto grado e chiamato appunto Iron Jack. Proprio da Patterson incontro Clementia, la figlia del pittore naïf Canute Calliste, che all’epoca ha 89 anni, 26 girlfriends, 24 figli di cui 19 vivi, 101 nipoti e 48 pronipoti, da cui compro diversi quadri. In questo viaggio vengo a sapere da un tassista che, a Grenada, pur non essendoci praticamente canna da zucchero, ci sono moltissimi distillatori illegali, pro111


duttori quindi di un rum moonshine che qui viene chiamato Babash, prodotto facendo fermentare melassa e zucchero in modo estremamente rudimentale, e poi venduto nei rum shop, dove viene richiesto da chi lo acquista usando l’espressione under the counter. Nel 2003 andiamo alla scoperta della cachaça, in Brasile, in occasione del quarto viaggio delle Aguilas. Ritorno più volte anche in Repubblica Dominicana, per coordinare le attività di sviluppo della marca Brugal in Italia. Don Franklin è piuttosto seccato dal fatto che abbiamo preso il Flor de Caña, che lui vede come un suo concorrente. In questo momento la Brugal sta facendo una promozione utilizzando il più grande dirigibile delle Americhe, che è stato denominato 1888, che è la data di fondazione del Brugal. Quindi mi portano alla base aeronautica militare di San Isidro, per fare un giro su questo straordinario dirigibile. Con Nicolas Joly da don Alejandro

La nascita delle “Triple A” ha portato una collaborazione strettissima con Nicolas Joly, proprietario de La Coulée de Serrant, uno dei vini più famosi del mondo, fondatore del movimento “Renaissance des AOC”, che riunisce i produttori biodinamici di vino, e il cui protocollo è molto simile a quello delle “Triple A”. Io sono da poco uscito dal mondo dei sigari e, parlandone con lui, nasce l’idea di portare la biodinamica nella coltivazione del tabacco. Insieme ad Andrea Molinari organizziamo quindi un viaggio per far incontrare don Alejandro Robaina e Nicolas Joly. Poiché Nicolas viaggia con due bacchette metalli112


che, strumento “da rabdomante” proprio della biodinamica, quando arriviamo al controllo dell’aeroporto di Avana, le sue bacchette fanno scattare il metal detector e Nicolas viene fermato e portato nelle stanze sotterranee dell’aeroporto, insieme al bagaglio. Con la scusa di fare da interprete, io lo accompagno. E lì, all’apertura dei bagagli, trovano i preparati biodinamici 500 e 501, che gli vengono immediatamente sequestrati. Proviamo a inventarci che quei preparati servono per una conferenza che deve tenere a Mexico City dopo il viaggio a Cuba, ma ci rispondono che, se è così, allora possiamo lasciarli in aeroporto e riprenderli alla ripartenza. Quando usciamo dalla stanza, sono quindi certo che i preparati non arriveranno mai a don Alejiandro. Ma sorprendentemente Nicolas mi si accosta a un orecchio e mi dice: «Andiamo, andiamo. Ce li ho in tasca, andiamo!» Non ho mai capito come sia riuscito a infilarsi in tasca parte dei preparati, eppure lo ha fatto proprio lì davanti a tutti, come il più abile dei prestigiatori, in una stanzetta minuscola, dove eravamo solo noi con la polizia cubana e un tavolo in mezzo. Andiamo quindi da don Alejandro, dove passiamo una giornata indimenticabile, con il nostro pranzo a base di aragosta e vino italiano. Don Alejandro ha sempre la sua storica Bentley del ’59, un pezzo da museo che anche il ministro delle comunicazioni cubano vorrebbe, tanto da avergli promesso di mettergli un’antenna per il cellulare in cambio dell’auto, ma che lui non ha ceduto. Ci mettiamo a lavoro sotto il sole cocente, per fare 113


le preparazioni e spargere il concime. L’occorrente per le preparazioni da agricoltura biodinamica non è tanto facile da reperire, ma riusciamo ad avere tutto. Nicolas incarica il nipote di don Alejiandro, un ragazzone atletico, di fare il lavoro più faticoso sotto il sole. Lo mette a mescolare il preparato dandogli le direttive: dovrà girare il mastello di legno per un’ora in senso orario, per poi cambiare rotazione. Il ragazzo, dopo un quarto d’ora, fa notare che il preparato sarebbe già perfettamente sciolto e chiede quindi di poter smettere. Ma Nicolas gli dice di no. La biodinamica ha delle precise regole. Ci ha raggiunto anche un ospite di don Alejandro, un artista che ha realizzato, tra le altre cose, uno humidor bellissimo, di due metri, che riproduce la casa di don Alejandro, e che io sono ancora pentito di non aver comprato. E lui ci spiega che con i colori accade qualcosa di simile: cambiare per esempio la direzione con cui si mescolano due colori fa cambiare leggermente il colore che si ottiene. Ne nasce una bellissima discussione con Nicolas, che sottolinea quanto questo principio appartenga alla biodinamica. Racconta che per esempio Stradivari sceglieva il legno per i suoi strumenti andando a studiarsi l’albero stesso, l’esposizione e le caratteristiche nell’ambiente. «E non solo questo!» gli risponde l’artista: «Stradivari batteva con la mano sul tronco e chiedeva all’albero se volesse diventare un violino o un violoncello». Discorsi molto belli e divertenti, dei quali io ho il piacere di fare da interprete, in cui Nicolas scopre anche le mucche di don Alejandro, il quale gli fa notare che può chiamarle e farle avvicinare da lontano con un fischio. 114


È quindi una giornata splendida, nella quale facciamo partire questo sogno, che poi purtroppo non realizzeremo, di portare don Alejandro alla biodinamica. L’anno successivo, in occasione del quinto viaggio delle Aguilas, come sempre insieme a Urska, decido di far venire anche il fotografo Fredi Marcarini. Fredi l’ho conosciuto nell’epoca dei sigari, dal momento che lui partecipava agli eventi legati ai sigari in veste di fotografo di “Class”. Con lui e Urska viaggiamo per raccogliere informazioni sulle produzioni, le distillerie, le persone e la cultura dei luoghi che visitiamo, documentando il tutto fotograficamente con Fredi, in modo da raccogliere materiali esaustivi per un libro sui rum. Ho l’idea di documentare fotograficamente, e non solo, tutte le distillerie dei Caraibi. Per questo con Marcarini iniziamo a viaggiare raccogliendo immagini e informazioni. Il lavoro porta come conseguenza il desiderio di scrivere un libro sul rum e sui Caraibi. Comincio quindi un lavoro molto approfondito di studio della storia della canna da zucchero e del rum. Raccolgo tutte le informazioni possibili, cercando anche le pubblicazioni più antiche e di fatto quasi introvabili, creando una collezione importante di documenti e libri. Entro in possesso delle edizioni originali di fine Ottocento e primi Novecento dei primi studiosi inviati nei Caraibi dalla Francia e dall’Inghilterra a fare analisi riguardanti i rum, le coltivazioni, le tecniche di produzione. Riesco ad avere anche il rarissimo History of Sugar 115

In viaggio con Fredi Marcarini


di Noel Deer e molti altri volumi d’epoca, come Rhums et eaux-de-Vie de canne, di D. Kervégant, del 1946. Gli studi di McCluskera

Nella bibliografia del bellissimo Histoire du rhum (1997) di Alain Huetz de Lemps trovo citato più volte il nome di un certo McClusker, del quale però non sembrano rintracciabili le pubblicazioni citate. Mi metto quindi alla ricerca di McClusker e lo trovo, su Internet, entrandoci in contatto. Gli chiedo come rintracciare i suoi studi che Huetz de Lemps ha usato come fonti. McClusker, ora docente universitario a San Antonio in Texas, mi spiega che gli studi citati da Huetz de Lemps sono quelli della sua tesi di laurea, conseguita all’Università di Pittsburgh nel 1970. Del testo non esiste quindi una edizione pubblicata che sia acquistabile. Esiste però il microfilm negli archivi della UMI (University Microfilms International), come di tutte le tesi negli Stati Uniti. Il testo può quindi essere reperito tramite un codice di riconoscimento. Ne faccio richiesta e, dopo qualche settimana, mi viene inviato. Si intitola The Rum Trade and the Balance of Payments of the Thirteen Continental Colonies, 16501775. McClusker ha cioè ricostruito, consultando archivi delle varie isole, la storia delle distillerie a partire dal XVII secolo. Sono settecento pagine di informazioni fantastiche, che da allora diventano per me fondamentali, un testo che praticamente nessuno possiede e che fa da raccordo a tutto il resto del materiale storico che ho reperito. Il mio intento è scrivere il primo libro davvero esaustivo su tutte le distillerie dei Caraibi, con la loro storia completa. 116


Questa ricerca viene rallentata, però, quando leggo il Code Noir, approfondendo la realtà storica degli schiavi. Studiare lo schiavismo dei periodi storici in cui gli africani venivano usati per la raccolta della canna da zucchero, mi frena. I documenti parlano di come gli uomini venivano trattati e gestiti, e non riesco a continuare il lavoro su quel libro. In questi anni di viaggi, con l’arrivo dell’era Bush, ho deciso di darmi un sesto privilegio temporaneo, ovvero non mettere piede negli Stati Uniti, nemmeno per cambiare volo. Il mio sesto privilegio durerà appunto solo per gli otto anni di presidenza di Bush Jr., quando tra l’altro conio l’espressione son of a Bush, con cui prendo in giro i cittadini americani. Per questa ragione ho spesso il problema di dover trovare soluzioni di viaggio alternative, non senza disavventure e inconvenienti, come la volta in cui sono costretto a passare da Puerto Rico. Mi dicono che si tratta di un passaggio solo in transito. Quindi accetto di farlo. Invece, con le nuove norme, dopo l’11 settembre, scopro che non si può più fare un semplice transito, ma occorre comunque passare dall’Immigration statumitense. Al che io, al check-in, ho un’espressione piuttosto incazzata. Mi chiedono quindi cos’abbia, e io rispondo dicendo la verità, ovvero che non ho alcun piacere di essere nel loro Paese, ma che sono costretto a passarci. Non finisco neanche di dirlo, che ci prendono, anche Fredi, ci impacchettano, ci portano in una specie di prigione momentanea, facendoci perdere l’aereo. Ritornando in Guyana, visitiamo la Dominica, 117


poco prima dell’arrivo delle prime navi da crociera. La Dominica è ancora un po’ tagliata fuori dalle isole di colonizzazione inglese, perché è tra la Martinica e la Guadalupa, cioè tra due isole francofone. Diversa da tutte le altre isole dei Caraibi, piena d’acqua e ricoperta dalla foresta tropicale, molto lussureggiante, praticamente non ha spiagge, e quindi non ha quasi turismo. Visitiamo, sulla costa nord-est dell’isola, una piccola area protetta dove vivono gli ultimi caribe, l’ultimo migliaio di persone discendenti dagli indigeni provenienti dall’Amazzonia, che abitavano i Caraibi prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo. Ci fermiamo anche a mangiare con loro. Somiglia molto a una riserva indiana del Nord America, con i residenti in qualche modo un po’ alienati. Ci fermiamo a mangiare da Thiay, una ragazza madre con sei figli avuto da sei uomini diversi che, mentre ci cucina su un piccolo fuoco in terra, allatta il suo ultimo bambino e ci offre le squisite banane rosse tipiche della Dominica. Nell’isola mangiamo anche i gamberi di fiume, gli ultimi selvatici in quest’epoca in cui quelli che si trovano altrove nei Caraibi sono ormai tutti allevati. E le ultime mountain frogs prima che vengano vietate. Shillingford è l’unica distilleria dell’isola, sulla costa ovest, di proprietà di Clifford “Dense” Shillingford, che benché di origine scozzese è nero, ed è quindi l’unico proprietario nero di una distilleria nei Caraibi. La sua famiglia ha prodotto i lime della Dominica e lui, solo negli anni Novanta, si era dedicato alla distillazione. 118


Dalla sua splendida abitazione, è visibile la piccola distilleria, molto raccolta, ancora con il mulino ad acqua e con gli ultimi dodici ettari di canna da zucchero della Dominica. In Dominica la marca principale di rum è il Red Cup, della Belfast Distillery, che però aveva smesso di distillare ormai negli anni Settanta, quindi il Red Cup è prodotto importando del rum ad alto grado che poi viene imbottigliato nella ex distilleria. Invece Shillingford produce un rum interamente agricole. Poi, in una zona impervia nel sud-est dell’isola, a picco sul mare, trovo alcuni produttori di rum moonshine, che qui chiamano stranamente “zaid”, non è chiaro l’origine di questo nome. Così scopro che in tutti i Caraibi esistono i produttori moonshine. In tutti questi viaggi usiamo i voli locali della LIAT, il cui acronimo parafrasiamo in Lost In Airport Transit, perché i voli sono sempre costantemente in ritardo. Spostandoci con la LIAT facciamo spesso scalo a Saint Lucia, dove quindi ci fermiamo diverse volte. A Saint Lucia l’unica distilleria è la Saint Lucia Distillers. È nata dalla fusione di due distillerie degli anni Settanta, la Dennery e la Geest, a cui capo c’è Mr. Barnard, con il quale non entro però in contatto, limitandomi a visitare semplicemente la distilleria. Mi fermo comunque spesso sull’isola, dove divento amico di un tassista, che si fa chiamare Doctor Secret, e che ci porta sempre a visitarla, e dove scopro il mio amore per il saltfish, una specie di stoccafisso con il peperoncino, che qui si mangia al mattino. 119


A Saint Vincent ci sono ancora i garifunas, discendenti dei maroons, cioè degli schiavi che scappavano in questa isola molto montagnosa, e che poi si sono mescolati con i caribe. La Saint Vincent Distillers produce la marca Sunset, venduta solo localmente, a 151 proof. Un rum a 75°. I caraibici bevono infatti prevalentemente rum bianco ad alto grado, per cui si può dire che specialmente nei Caraibi inglesi il rum bianco è per i neri e quello scuro per i bianchi. Tutti gli anni torno in Guyana nel mese di febbraio, per selezionare i barili che Yesu mi mette a disposizione, e questa data sul mio calendario è sempre molto attesa. Nel viaggio del 2004, girando nei magazzini, dove andavo ad assaggiare i rum direttamente dai barili, vengo attratto da un barile bianco con un bordo rosso, mi intrufolo e lo raggiungo. Non conosco il mark, ma l’anno è 1978, lo stesso anno di nascita di Urska. Quindi lo assaggio, con l’idea che quell’incontro sia una specie di segno del destino. Ed è una cosa strepitosa. Uno Skeldon, uno dei migliori rum che abbia mai degustato. Yesu mi invia un campione. Ma quando il campione arriva, assolutamente fantastico, sento comunque che non era lo stesso Skeldon 78 che avevo assaggiato. Siccome il barile che avevo assaggiato era quasi scolmo, Yesu Persaud, da gran signore, lo aveva mischiato con uno Skeldon del 1973. E io ci rimango male, perché avevo ancora in bocca il gusto di quel 120


barile del 1978. E così questo colpo di testa mi farà fermare per più di un anno, durante il quale non mi decido a imbottigliare questo prodotto, che sarà imbottigliato quindi solo nel 2005. Gli imbottigliamenti originali Demerara mi porteranno per più di quindici anni a visitare costantemente questo Paese e a stringere un vero rapporto di amicizia con quell’uomo straordinario che è Yesu Persaud, il quale mi ha anche dato il privilegio nel 2006 di acquistare delle quote della DDL, da unico straniero, e della Demerara Bank. Yesu mi propone poi anche di acquistare a un valore irrisorio una delle bellissime case all’interno della Demerara Compound, che io purtroppo alla fine non prenderò, ma che lui mi tiene ferma per tre anni. Un giorno, nella sala privata del ristorante cinese in cui mi porta a mangiare almeno una volta durante ognuno dei nostri viaggi, Yesu, uomo di poche parole, mi dice una frase che non dimenticherò, e che per me resta ancora oggi una medaglia: «Luca, you are my friend, you are my brother, you are my son».

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