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Nei miei frequenti viaggi di questo periodo con Lauda Air, Max Donati, appassionato di vino e distillati, capo cabina della business class e ormai diventato mio amico, mi chiede un consiglio. Gli piacerebbe andare per un weekend con la fidanzata, anche lei hostess della Lauda Air, a visitare un produttore, e mi chiede un suggerimento. Gli indico Movia, in Slovenia: hanno una piccola foresteria dove può essere ospitato, e Max ci va. Aleš e Vesna Kristančič, i proprietari della Movia, gli parlano della figlia di una loro amica e dipendente, una certa Urska, giovane e bellissima studentessa di architettura che, dovendo fare un master al Politecnico di Milano, è in cerca di una camera in affitto. Gli chiedono un consiglio e Max si offre di ospitarla a casa loro. Dopo qualche settimana, Max comincia a telefonarmi per dirmi che questa ragazza è la donna della mia vita e devo assolutamente conoscerla. Io che mi sono appena separato, e ho deciso di chiudere con le donne occidentali, sentendomi attratto dalle donne secondo me più autentiche e semplici dei Caraibi, della Polinesia o africane, non voglio saperne niente. Ma Max insiste, fino al giorno in cui mi fa chiama83
L’incontro con Urska
re da lei stessa. Conoscevo sua madre, che lavora da Aleš, e sulle prime, al telefono non capisco chi sia, la scambio per una mia amica hostess della Lauda Air. Poi capisco e la invito a una degustazione, che avevo in programma per il giorno dopo a Pisa. Appena ci vediamo è un colpo di fulmine. La mia relazione con Urska durerà alcuni anni e sarà un motore, che darà una nuova spinta ai viaggi e alle scoperte che, da questo momento, farò anche insieme a lei. Per quattro anni, i primi dei Duemila, si potrebbe dire che vivo con Urska viaggiando. Sarà una esplorazione sistematica, dove visiterò in pratica tutte le distillerie dei Caraibi, in una ricerca meticolosa di informazioni a trecentosessanta gradi sul mondo del rum, cosa che porterà anche alla nascita di nuovi contatti e progetti. Arrivo in Guyana
Il primo viaggio che faccio con Urska è il secondo delle Aguilas, nel marzo 2001, con meta il Venezuela, a cui ci agganciamo per andare finalmente anche a Georgetown, in Guyana. Per la Guyana partiamo il 3 marzo. Arriviamo da Caracas, passando da Trinidad. Prima di atterrare, nel vedere il mitico Demerara River, mi sembra di arrivare nel Far West. È davvero l’ultima frontiera. Nell’aeroporto c’è solo il nostro aereo. Urska è la prima slovena che metta piede in questa terra. In aeroporto mi aspetta Afee, il fedele autista di Yesu Persaud, che ci porta a Georgetown. Già in auto, guardandomi attorno, incontro un paese affascinate, multirazziale, con indiani, musulmani, neri e amerindi che vivono tranquillamente insieme, una città ancora con case coloniali fatte di legno e 84
sopraelevate, quasi su palafitte, per via della pioggia equatoriale. Tra le costruzioni lignee ci sono la St. George’s Cathedral, la più grande chiesa in legno del mondo; e Stabroek Market, Red House, l’ambasciata canadese, quella americana: Georgetown è rimasta forse l’ultima città coloniale ancora nell’era del legno. È come un viaggio nel tempo a ritroso di secoli. Per strada i cavalli trainano ancora i carri, nel profumo di curry e minatori. Arriviamo all’hotel Pegasus e, siccome siamo i primi ospiti stranieri, c’è nei nostri confronti un atteggiamento iperprotettivo, chiesto espressamente da Yesu Persaud. Non ci permettono di uscire da soli, né di viaggiare in auto con il braccio fuori dal finestrino, benché non ci sia nessun pericolo effettivo. Yesu mi affida a George Robinson, il direttore della distilleria, un nero dagli occhi dolci e la barba bianca, che lavora alla Demerara dal 1967, e a Manuel Kanto. Con loro vado a visitare la distilleria, che è giusto dalla parte opposta della strada del Diamond Compound. L’aria è pervasa dal profumo di melassa fermentata. Nella Fermentation House vedo la lavorazione con il sistema pied de cuve. La Demerara ha selezionato da anni i suoi lieviti, che venivano messi in questi piccoli tini di fermentazione, per poi inoculare il risultato nei grandi tini. Da lì, poi, entro nell’area della distilleria vera e propria, dove sono concentrati una moltitudine di alambicchi. E quello che vedo è qualcosa di straordinario. Sembra quasi un museo. La varietà di alambicchi alla Demerara è sorprendente: il wooden coffey still di 85
La distilleria Demerara
Enmore, di colore rosso sbiadito, due colonne che invece di essere di rame o acciaio sono ancora di legno; il wooden pot still di Port Mourant e il vat pot still di Versailles. Vederli cambia per sempre la mia percezione del mondo del rum. Sono alambicchi che risalgono uno al 1700 e gli altri due al 1800, gli alambicchi più vecchi del mondo, mantenuti in perfetto funzionamento da una squadra di manutenzione che nei secoli si è tramandata la conoscenza sulle tecniche di conservazione e uso. La Demerara ha anche due vecchie colonne savalle, tre coffey still e un piccolo alambicco per distillare il gin. Nessuna distilleria al mondo ha una tale varietà di alambicchi. Robinson e Kanto mi illustrano per la prima volta la storia del rum in Guyana e della Demerara Distillers. Storicamente, le diverse distillerie erano annesse alle varie sugar factories sparse sui tre grandi fiumi della Guyana. Dopo la seconda guerra mondiale, in Guyana ci sono ancora 13 distillerie funzionanti, annesse alle sugar factories. Sono Uitvlugt, Skeldon, Albion, La Bonne Intencion, Emmore, Port Mourant, Versailles, Blairmont, Diamond, Rose Hall, Wales, Ogle, Lusignan. Tra la fine della guerra e il 1955, però, cominciano a chiudere gli zuccherifici, e di conseguenza le distillerie. Quando iniziano a chiudere, si rende necessario conservare i marks originali. I marks sono le sigle che compaiono sulla testa di ogni barile, per identificare il rum. In quest’epoca, tutti i rum del Caraibi vengono venduti in barile, non 86
in bottiglie, e di conseguenza ogni rum è riconoscibile grazie a questa sigla, il mark, impressa a fuoco sui barili. Ogni rum ha il suo mark, anche quelli diversi prodotti da una stessa distilleria. E, di conseguenza, a ogni mark corrisponde un rum preciso, con il suo profilo aromatico ben distinto. Sono praticamente il nome con cui ogni rum viene riconosciuto, l’etichetta del barile. Gli acquirenti europei ordinano i diversi marks, con i quali creano il loro prodotto blended, miscelando a loro discrezione i rum originali provenienti da fonti diverse. Da qui nasce la necessità di far corrispondere ai marks originali gli stessi rum con le medesime caratteristiche, in modo che ogni miscela risulti identica. Alla chiusura di ogni distilleria è quindi indispensabile non solo mantenere il mark, inteso come sigla, ma anche riprodurre esattamente il prodotto perfettamente identico al mark originale. Per farlo, se l’alambicco originale è simile ad alambicchi presenti nelle altre distillerie, si riproduce la sola formula (rispettando i tempi di fermentazione, le temperature di riscaldamento dello still, il movimento del vapore alcolico, gli esteri e quant’altro). Ma siccome alcuni rum sono impossibili da riprodurre con precisione in altri alambicchi, per via del fatto che i loro alambicchi sono unici, questi alambicchi unici vengono spostati di necessità da una distilleria all’altra, ogni volta che negli anni una di esse chiude. Le prime a chiudere sono Rose Hall, Wales, Ogle e Lusignan, nei primi anni del dopoguetrra. E così Rose Hall viene riprodotto dalla distilleria Skeldon, Wales da Albion, Ogle da La Bonne Intention e Lusignan da Emmore, che riproduce i marks di coffey still, e 87
anche il KFM, che era il loro mark di vat pot still, un alambicco con la base di legno e il collo di rame, che essendo impossibile da riprodurre viene appunto spostato fisicamente alla Emmore. Negli anni seguenti, cioè tra il 1955 e il 1965, chiudono Skeldon, La Bonne Intention, Blairmont e Port Mourant. E così i rum Skeldon, La Bonne Intencion e Blairmont vengono riprodotti dalla Uitvlugt Distillery, che ha una colonna savalle, molto versatile; mentre il Port Mourant viene trasferito a Albion. A questo punto degli anni Sessanta rimangono quindi 5 distillerie: Albion, Versailles, Emmore, Uitvlugt e Diamond. Nel 1968, chiude anche Albion, che ha il pot di Port Mourant, il quale viene quindi spostato a Uitvlugt. Versailles chiude invece nel 1978, e il pot still va alla Emmore. Quest’ultima chiude nell’aprile del 1994 e i suoi alambicchi vengono spostati a Uitvlugt. Infine, delle ultime due distillerie rimaste a questo punto, cioè Uitvlugt e Diamond, Uitvlugt viene chiusa nel dicembre del 1999 e i suoi alambicchi vengono spostati a Diamond, che è quindi l’ultima distilleria rimasta al mio arrivo. A questo punto, con la fine dell’impero coloniale, il governo aveva raggruppato tutto il mondo del rum nella Demerara Distillers. E quindi Yesu Persaud, da subito a capo della DDL, aveva fatto una grande operazione di accorpamento, portando tutto il materiale alla Diamond. Davanti a questo grande concentramento di alambicchi e riproduzioni di marks in un’unica distilleria, mi sento come un pittore davanti a moltissimi colori. Molti di questi marks fanno parte dei diversi blen88
ded a vari anni di invecchiamento che compongono l’El Dorado. L’attività principale della Demerara Distillers continua a essere la vendita del rum in bulk – in Inghilterra, in Olanda e in tutto il mondo –, sia bianchi che invecchiati, che vengono utilizzati per comporre molte marche storiche, come ad esempio le inglesi Lemon Hart, Lamb’s Navy, O.V.D. Il giorno dopo, insieme a mister Robinson, andiamo in barca sull’Essequibo River. In Guyana ci si sposta infatti quasi esclusivamente in barca. Arriviamo sino a Bartica, navigando questo fiume immenso all’occhio europeo, con l’acqua color nero ferro assolutamente pulita e incontaminata. Bartica è veramente il far west, qui i minatori tornano dopo alcuni mesi passati nell’isolamento delle piccole miniere d’oro sperdute nella foresta amazzonica. La strada principale è un susseguirsi di negozi che vendono di tutto, dove i minatori si riforinscono del necessario spendendo tutti i soldi guadagnati in donne, cassette VHS di film porno e rum El Dorado. Da Bartica, sempre in barca, ci spostiamo al Baganara, un piccolo resort sperduto su un isolotto in mezzo all’Amazzonia, difficilissimo da raggiungere, con bellissime spiagge di sabbia, poco dopo la confluenza del Cuyuni River nell’Essequibo. Quando lo si raggiunge ci si chiede come sia possibile che sia sorto lì, su un isolotto di sabbia in mezzo al fiume, le cui acque sono nere e ferrose. Un posto incredibile dove, clamorosamente, quando arrivo vedo uscire un signore che mi sembra di conoscere, e poi lo riconosco. È Mick Jagger dei Rolling Stones. Si rientra a Georgetown tra mucche, moschee, 89
templi indù, calessi, auto giapponesi. Alla sera, finalmente, incontro Yesu, che mi invita al Georgetown Club, ancora chiamato English Club. Qui ceniamo in un’atmosfera tipicamente coloniale, circondati dalle caratteristiche finestre basculanti Demerara. Yesu mi presenta Komal Samaroo, suo delfino e destinato a essere suo successore. E qui, bevendo Swizzle – e mangiando gamberi al curry, pollo ripieno, macedonie di frutti tropicali –, inizio a parlargli della mia idea. Gli parlo del fatto che i Demerara importati in Europa, importati in Inghilterra per fare dei blend, in effetti cominciavano a essere venduti come single cask a degli indipendent bottlers, e quindi per la prima volta si trovano sul mercato dei Port Mourant, degli Enmore, che però sono invecchiati in Europa e non ai tropici, e oltretutto a prezzi molto superiori a quello del nostro El Dorado. Questi prodotti non sono del tutto originali, perché non invecchiati sul luogo di produzione. Suggerisco quindi a Yesu di imbottigliare lui stesso i suoi veri Demerara originali, mark per mark. Ma Yesu ritiene prematura e troppo complessa per la Demerara una operazione del genere. La DDL non è ancora organizzata per produrre packaging per edizioni limitate e, alla fine del secolo scorso, è difficile prevedere lo sviluppo commerciale di queste release. Gli propongo quindi di farlo io. Posso selezionare i barili, per poi portarli in Olanda, alla sede della DDL in Europa, per il solo imbottigliamento. E Yesu Persaud accetta la mia proposta. 90
Il giorno dopo posso recarmi ai loro magazzini e cominciare a selezionare i primi barili. Nella warehouse numero uno incontro Sue, una cino-guyanese responsabile del laboratorio di analisi della Demerara. I magazzinieri della DDL fanno rotolare i barili e io me li trovo davanti in schiera. Ho l’acquolina in bocca. Con la pipetta vengono presi i campioni e io li assaggio dal bicchiere. Faccio una preselezione, e i barili che scelgo vengono portati nel laboratorio della DDL, dove viene misurato il grado e io faccio la degustazione finale, con la quale scelgo i primi tre che prenderò: il Port Mourant 1982, il Diamond 1982, l’Albion 1984. Qui inizia la storia dei primi imbottigliamenti originali dei differenti marks della Demerara. Dopo la visita alle distillerie, Yesu organizza un pranzo nella sala privata della Demerara Distillers a Diamond, all’ultimo piano della palazzina coloniale. Yesu mangia molto lentamente, in questa bellissima sala di fine Ottocento. Sul buffet ci sono i piatti della cucina guyanese preferiti da Yesu: il dholl, una zuppa di piselli secchi; il dholl puri, che è un pane sempre di piselli; pesce con purè di patate; pollo al curry; riso fritto; bevendo El Dorato 10 anni on the rocks. Si parla della visita recente del principe Carlo alla distilleria. E degustiamo ancora i rum che ho selezionato la mattina. Non sentendomi ancora pronto per imbottigliarli a pieno grado, li riduco a 46° e faccio disegnare da Urska le prime etichette della prima selezione originale dei diversi marks della Demerara totalmente invecchiati nei tropici, prendendo spunto dalle etichette di 91
Le selezini Demerara
un mio precedente imbottigliamento di barili invecchiati in Scozia. Per vendere questa prima selezione impiegherò complessivamente più di tre anni. Sono bottiglie che oggi si venderebbero molto velocemente, ma in quel periodo sono ancora una novità assoluta. Oggi le Selezioni Demerara Velier sono tra i rum più ricercati dai collezionisti di tutto il mondo. Da allora tornerò ogni anno in Guyana, e Yesu a sua volta verrà in Italia ogni anno, a mangiare a casa mia, portandomi sempre in dono una cravatta. Dalla Guyana raggiungiamo quindi le Aguilas in Venezuela, passando da Trinidad. Qui visitiamo tutti insieme la distilleria del Cacique, la DUSA (Destilerias Unidas S.A), molto interessante, anche simbolo di come le multinazionali fino alla fine degli anni Novanta siano ancora attente alla qualità. C’è una varietà di alambicchi, di pot still, di colonne, inusuali per una distilleria di quelle dimensioni, che oggi lavorerebbe in multicolonna. Questo viaggio insieme alle Aguilas resterà memorabile perché, a fronte di tutti i pericoli di cui si parla a proposito del Venezuela, i più pericolosi siamo noi stessi. Ne combiniamo di tutti i colori. A Caracas mi impadronisco addirittura del microfono per intonare il nostro inno agli altoparlanti dell’aeroporto, e al nostro ritorno siamo così sbronzi che in volo il gruppo si mette ad agitare le fiammelle degli accendini come in un concerto, creando il panico tra le hostess. Tanto che all’arrivo, a Roma, troviamo la polizia che ci aspetta schierata in aeroporto. 92
Il periodo di viaggi frenetici continua poi nel mese di luglio, quando torno con Urska a Capo Verde. Rientriamo a Genova per pochi giorni, prima di ripartire diretti in Repubblica Dominicana. È il 21 luglio e troviamo Genova in stato d’assedio. Siamo diretti in farmacia, ma con la nostra macchina restiamo bloccati in mezzo ai manifestanti del G8. Decidiamo di passarci in mezzo, nonostante il pericolo, arriviamo allo sportellino del farmacista, che mi guarda con lo sguardo attonito mentre gli chiedo un farmaco per l’herpes in mezzo ai manifestanti no global. Per anni il farmacista si ricorderà di questo giorno ogni volta che mi rivedrà. Ripartiamo quindi per la Repubblica Dominicana, dove accompagno Cristian Drouin, il proprietario dell’omonima maison produttrice di Calvados, per vedere se la Brugal possa essere interessata a distribuirlo. Andiamo a mangiare alla Maison De Bari, che poi diventa la mia trattoria preferita di Santo Domingo, dove si fa ancora una cucina regionale di casa dominicana, con empanadas, chivo guisado, carnita seca. Poi in auto ci dirigiamo verso la frontiera con Haiti, a sud-ovest della Repubblica Dominicana, dove scopriamo quella che è forse la più bella spiaggia del mondo, ancora completamente incontaminata: Baja Las Aguilas. Un posto straordinario, con l’acqua come quella polinesiana, i pellicani sui pali. Qui incontriamo una piccola tartarughina appena uscita dall’uovo, pronta a intraprendere il suo viaggio nella vita. La chiamiamo Brugalita. Diventerà un colosso da 350 chili ma adesso è ancora troppo tenera. La osserviamo mentre istintivamente sente il mare e 93
La Repubblica Dominicana e Baja Las Aguilass
si dirige verso l’acqua a grande velocità per la sua dimensione. Mi immergo con lei e la seguo anche in acqua. Tra un’ora sarà capace di nuotare nelle profondità dell’oceano. È come se ci fosse nato un figlio. Poi arriviamo a Pedernales, proprio sulla frontiera, dove in mancanza d’altro dormiamo in una topaia, che si chiama Doctor Marchena, con la puzza di muffa, una reception con la scrivania storta sulla moquette stantia; camera di due metri per due, con la sensazione di non dover toccare niente. Lì conosco Junior, che è il giudice di Pedernales, con quale discutiamo degli avvenimenti del G8. Dai media lui ha capito che Genova sia stata messa a ferro e fuoco e praticamente distrutta. Io gli spiego che la città è ancora integra, e quasi litighiamo perché lui sembra credere più ai media che a me, che arrivo direttamente da Genova. E così, discutendo e quasi litigando, dopo cinque o sei mezze di Brugal Carta Dorada, nasce un’amicizia. Con lui prendiamo una barca, andiamo a pescare e, su mia richiesta, approdiamo un attimo illegalmente sulla costa di Haiti, ma torniamo indietro subito. Ho il desiderio di andare ad Haiti fin dalla mia prima visita alla Brugal, anche se don Franklin mi ha sempre vietato di andarci, dicendomi che Haiti è pericolosissima. Ma, avendo scoperto questa zona ancora completamente incontaminata, mi viene voglia di tornare non solo alla Baja Las Aguilas, ma da qui trovare il modo per riuscire ad arrivare ad Haiti. La gamma di rum che ho portato dai Caraibi in questi anni è composta da rum di melassa, prodotti di grandi aziende, gli ingredienti principali di Mojito 94
e Cuba Libre. Adesso vorrei portare alla conoscenza degli appassionati anche i rum agricole prodotti al di fuori della Martinica, con la quale in Italia è identificato generalmente il rum agricole. A ottobre, vado quindi in Guadalupa, per i rum Damoiseau, che ho cominciato a distribuire in Italia, ma senza aver mai visitato la distilleria. Nel 2001 nessuno in Europa, a parte la Francia, conosce il rum della Guadalupa. La Guadalupa è sempre stata un po’ la sorella minore della Martinica, anche dal punto di vista del rum. E Marie-Galante, che è in un certo senso nascosta della doppia insularità, e per questo viene considerata Guadalupa, nessuno la vive come un territorio a parte.Per questo, ingiustamente, i rum di Marie Galante sono sempre negli elenchi dei rum della Guadalupa. Approfitto quindi di questo viaggio per raggiungere finalmente Haiti. Ritorno a Pedernales. Riesco a trovare una stanza in un piccolo alberghetto ristorante consigliato da Junior, perché il Doctor Marchena era stato davvero un’esperienza terribile. Da qui, con Junior, su una strada sterrata, attraversiamo a piedi la frontiera, segnata con una corda tirata tra due alberi nel mezzo di un mercato. Arriviamo così alla prima cittadina di Haiti dopo la frontiera, Anse-à-Pitres. E con Junior andiamo dal sindaco, Marcelin O’Neil. Discutiamo di politica, dell’Italia, di cantanti francesi, e combiniamo per il giorno dopo una spedizione a Jacmel. Non essendoci una strada costiera, prendiamo una piccola barca, con un motore Yamaha 40 cavalli. 95
Primo viaggio ad Haiti
Ci viene emesso un lasciapassare, valido solo 24 ore, dalla giunta municipale, controfirmato da polizia e tribunale, sul quale si richiedeva l’assistenza da parte di tutte le autorità a noi cittadini stranieri durante questo viaggio. Procediamo sulla nostra barca da 40 cavalli, accompagnati da due haitiani. Il primo paesino che passiamo si chiama Adieu au Monde. Quindi arriviamo a Marigot, lì andiamo alla polizia, presentiamo il nostro lasciapassare e prendiamo un taxi collettivo, riuscendo così ad arrivare a Jacmel. Qui andiamo dalla senatrice locale, amica di Junior, il cui marito Basile ha una nuova macchina, una Nissan con i vetri scuri, con la quale si diverte come un matto a portarci in giro. Così mi ritrovo per la prima volta nel cuore di Haiti. E l’impatto è molto forte. Sembra di essere in un altro continente, pure a pochi chilometri di distanza dalla Repubblica Dominicana. Haiti sembra Africa. Gli haitiani sono tutti neri, viaggiano su autobus colorati, trasportando i pesi sulla testa tra animali, asini, polli, in mercati che somigliano in tutto a quelli africani. Le persone in mezzo alla strada sterrata tostano il caffè, che tra parentesi è eccezionale. Fumo le sigarette locali Comme Il Faut e bevo Barbancourt. Compro dei quadri, essendo Jacmel da sempre la capitale artistica di queste terre. Fino a che, allo scadere del nostro lasciapassare, al tramonto, dobbiamo rientrare. Compriamo una pila per ritrovare la nostra barca al buio. Partiamo, abbracciati sotto le stelle, con la scia fosforescente della barca, guardando i fuochi dei villaggi che illuminano la costa in assenza di energia elettrica. 96
Rimaniamo senza gasolio a poche centinaia di metri dalla costa di Anse-à-Pitres, e siamo così costretti a fare l’ultimo tratto a remi. Quindi, come da programma, torniamo in Guadalupa per visitare la Damoiseau. È la prima volta che ho il tempo di approfondire la mia conoscenza dell’isola “a farfalla”, così chiamata perché composta da due isole che somigliano ad ali, separate da un fiume salato, la Rivière Salée, che in realtà è un braccio di mare molto stretto e attraversato da tre ponti stradali. Le due ali della “farfalla” sono la Basse-Terre – che a dispetto del suo nome è in realtà montagnosa, dominata dal vulcano La Soufrière e ricoperta da foresta tropicale pluviale e umida – e la Grande-Terre, che invece è quasi completamente pianeggiante, a parte la zona dei Grands Fonds, fatta di colline e scarpate, percorsa da stradine che fiancheggiano i jardin créole, ovvero gli orti tradizionali della Guadalupa. Siamo ancora nella fase pre-crociere. A parte la zona di Gosier, l’isola è quindi ancora poco inquinata dal turismo. Stranamente, le distillerie sono concentrate nella Basse-Terre, la zona dove c’è meno canna da zucchero, ma dove c’è più acqua. Mentre l’unica distilleria che ancora esiste nella Grande-Terre è appunto quella di Damoiseau. E, riguardo al rum, le due isole sono ancora molto campanilistiche, vale a dire che gli abitanti della Basse-Terre tendono a consumare solo i rum delle loro distillerie, e in particolare a Bologne, mentre quelli della Grande-Terre fanno il tifo per Damoiseau. 97
La Guadalupa e Domiseau
Con Urska andiamo a dormire a La Vieille Tour a Gosier, un bell’albergo sul mare, con un bar tipicamente caraibico, di legno tropicale, con la veranda che si affaccia sugli isolotti, con la vista in lontananza di Marie Galante, e con una carta dei rum che comprende alcune bottiglie della Guadalupa da collezione che non avevo mai degustato. Abbiamo appuntamento a La Moule alle 9,30 del mattino. Chiedo quindi alla reception se c’è una spiaggia isolata, senza turisti e quella mattina ci svegliamo presto, per raggiungere la spiaggia che ci viene indicata. È meravigliosa. Entriamo nell’acqua bassa, passeggiamo, chiacchieriamo per alcuni minuti. Quando torniamo indietro troviamo un buco di fianco alla maniglia della porta. In pochi minuti, non riusciamo a capire come, l’auto è stata scassinata. Dentro c’era un Rolex, le carte di credito, i passaporti. Ma quando apriamo la portiera, vediamo che passaporti, orologio e carte di credito sono ancora lì. Hanno rubato solo i contanti e le mutandine string di Urska. Scoppio a ridere. Solo ai Caraibi può avvenire un furto del genere, penso. E lo prendo come un segno positivo del destino, sento che sarà una giornata fantastica. Finalmente arrivo alla distilleria Damoiseau, l’unica della Grande Terre, all’epoca molto più rudimentale di adesso. Entro nel piccolo ufficio di Damoiseau, e dopo una mezz’ora arriva Damoiseau stesso. È un quarantenne che al telefono mi era sembrato un po’ antipatico, e invece ora scopro che è un tipo 98
interessante. Con lui arriva a sorpresa anche il suo fidanzato. Sulle prime, non crede che io sia Gargano. Questo perché Sylvain Guzzo, l’export manager della Damoiseau, aveva conosciuto mio padre qualche mese prima a Parigi. Di conseguenza, su descrizione di Guzzo, Damoiseau si aspettava di trovare mio padre, ovvero un distinto settantenne, e invece si trova davanti a me. Probabilmente arrivato all’incontro pensando di liquidarmi in pochi minuti, invece si appassiona ascoltandomi. Restiamo a parlare un po’, poi mi invita a pranzo in un ristorantino creolo gestito da un indù, vicino alla distilleria. La gamma di Damoiseau è composta da un 8 anni, un 15 anni, e un 1953. A me sembra strano che non abbia qualcosa tra il 15 anni e il 1953, quindi gli chiedo se non ha altro. E lui conferma di non averne altri. Ma a me continua a sembrare strano, quindi insisto, fino a che lui si fa portare un libro enorme e lo consulta. E qualcosa in effetti trova. Quindi chiede di portarci un campione del 1980, che mi fa assaggiare. Rimango esterrefatto. È un rum straordinario, un 1980 da tre anni in tank. Non è un rum agricole, ma un agricole con aggiunta di melassa. Fantastico nei profumi, ampio nel finale e estremamente morbido, per essere un 60%. Se è rimasto “da parte” è solo per ragioni esterne. Dipende dal fatto che i produttori caraibici francofoni in quell’epoca sono soggetti al cosiddetto Contingent, un vincolo per la detassazione di un certo numero di ettolitri di rum, che possono essere prodotti e inviati in Francia ogni anno. Per raggiungere la quantità 99
stabilita dal Contingent, se non avevano distillato abbastanza canna da zucchero, e quindi non avevano prodotto sufficiente rum agricole, aggiungevano rum di melassa. Così era successo in questo caso. Per cui questo stock era stato fermato durante i controlli, e declassato per via della piccola quantità di melassa che lo rendeva non completamente agricole. Per questo giace da vent’anni abbandonato nei magazzini. Gli chiedo quanto ne abbia, mi risponde che ne ha uno stock abbastanza importante. E io gli dico che lo compro tutto. Sono così entusiasta che non contratto nemmeno sul prezzo, come avrei potuto benissimo fare, non essendo un rum agricole, e quindi di difficile commercializzazione. E così nasce il mio primo imbottigliamento Damoiseau 1980, a 60.3% di alcol, perché lo trovo talmente perfetto, talmente armonico, che non posso ridurne la gradazione. È forse il primo imbottigliamento di rum a barrel proof, cioè a grado di barile. Lo imbottiglio provocatoriamente con una donna nera raffigurata sull’etichetta, essendo Damoiseau un béké, cioè un discendente dei primi coloni francesi arrivati prima degli schiavi. Mettere quindi una donna nera in etichetta è un po’ il mio gesto un po’ provocatorio e anticolonialista. Damoiseau è stupito dal fatto che io lo comperi tutto, e per altro senza contrattare sul prezzo. Dopo qualche mese, un giorno mi telefona e mi dice che i responsabili degli acquisti dell’aeroporto di Parigi avevano assaggiato un campione del nostro rum e volevano acquistarlo. E mi chiede se potevo ri100
vendergliene una parte. Scherzando, io gli rispondo con un secco: «No! Non hai saputo credere in questo tuo prodotto, e adesso non ne avrai più». Ma in realtà poi gliene rivendo una parte. Nasce un’amicizia con Damoiseau, uomo comunque interessante, che vive in questa bellissima casa minimal-colonialiste, nel complesso della distilleria. Diventa una mia tappa fissa nei miei viaggi nei Caraibi. Ci passerò anche un capodanno insieme a Urska, anche se, per colpa della LIAT, resteremo bloccati all’aeroporto di S. Lucia e arriveremo dopo mezzanotte. Damoiseau mi fa sempre bere, oltre al Ti’ Punch, il Punch, tipico delle isole francesi dei Caraibi, cioè il rum bianco con la frutta in infusione. Lui ne fa una varietà con il pomodoro, buonissima, che potrebbe diventare il punch mediterraneo, essendo la nostra terra così ricca di pomodori. Da lui andrò anche con il fotografo Fredi Marcarini che gli scatterà una splendida foto, nella sua piscina, circondato da tutte le etichette, sotto una leggera pioggerellina.
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