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Il cambio del secolo per me è anche un passaggio a una seconda fase della vita. È un momento difficile, in cui mi separo dopo venti anni di matrimonio, un fallimento irreparabile che non mi farà mai più sentire perfettamente centrato, e che coincide anche con la fine della mia epoca polinesiana. Come accennavo, l’isola di Anaa in Polinesia ha cambiato radicalmente la mia visione della vita a partire dal 1987. In Polinesia ero già stato nel 1980, in viaggio di nozze, visitando però solo le isole più turistiche. Invece l’isola di Anaa è stata un’esperienza ben diversa, totalizzante, fin da quel primo viaggio, quando ero partito con le mie figlie ancora piccole in cerca di un luogo incontaminato, dove far vivere a loro un contatto con la natura simile a quello della mia infanzia, che qui da noi era ormai impossibile rivivere. In quell’agosto del 1987 siamo i primi bianchi su un atollo di appena 300 abitanti, radunati sul solo chilometro abitato dell’isola, la quale complessivamente si estende per 100 chilometri e che, pochi anni prima, cioè prima dell’uragano che l’aveva distrutta nel 1983, aveva anche altri quattro villaggi, ormai inesistenti. 57
L’inizio di una nuova fase di ricerca
Scendendo dall’aereo, vediamo la prima reazione degli abitanti. Non hanno mai visto un bianco, ai loro occhi siamo come alieni. I bambini scappano infatti terrorizzati. Tutto il villaggio arriva a guardarci e ci accoglie. Dopo cinque giorni, i bambini nel vedermi si scompisciano dalle risate. Non sono più simile a un mostro alieno, adesso, mi vedono invece come un ebete, un buffo essere impacciato, incapace di compiere le azioni per loro più importanti, a partire dal semplice muovermi nella natura e procurare il cibo. Io che mi vedevo come un giovane trentenne già affermato, che legge tutti i giornali ogni giorno, esperto di trattative finanziarie e transazioni internazionali, in quel contesto sono una nullità. Non so camminare scalzo sulle conchiglie, non so salire sui cocchi, non so pescare. Non so fare niente, ma non so nemmeno niente della vita stessa. Tupana, l’uomo che ci ospita e che diventa mio maestro e caro amico, conosce tutte le stelle, tutti i pesci, conosce la sua famiglia fino a dieci generazioni precedenti, e ogni cocco dell’isola, tutto ciò che serve a vivere davvero nel presente, nell’effettivo qui e ora della vita. È uno shock, per me che credevo di essere chissà chi. Mi rendo conto di non sapere niente, di vivere senza conoscere gli alberi del mio giardino, i nomi dei miei vicini di casa, niente. Tupana mi porta a pescare. Lo osservo, con il baricentro abbassato come un guerriero, impugnare un arpione alto un metro e ottanta con le gambe nell’acqua, e lanciarlo a diversi metri di distanza, prendendo pesci di varie dimensioni, che per me sono semplicemente invisibili. Lo seguo portando le foglie delle 58
palme che qui usano per agganciare e trascinare il pescato con sé. Tupana mi spiega che, quando avrò il pesce con me, sicuramente si avvicinerà uno squalo attirato dall’odore del nostro pescato. Mi dà quindi un arpione, spiegandomi che, se ne avvisto uno, non devo fare altro che battere con l’arpione sull’acqua, per spaventarlo e vederlo allontanarsi. E proprio quel giorno, cioè il primo in cui vado a pesca con lui, succede. Uno squalo arriva e inizia a girarmi intorno. Così io faccio come Tupana mi ha detto, batto l’arpione sull’acqua e vedo lo squalo allontanarsi. Poi, però di colpo alzo gli occhi e vedo Tupana agitare le braccia, correndo nell’acqua verso di me. Sta urlando qualcosa, anche se, nel fragore delle onde che si infrangono sulla barriera corallina, io non riesco a sentirlo. I suoi gesti sono comunque inequivocabili: mi sta facendo segno di scappare, correre verso la spiaggia. Così, senza sapere cosa succede, io stringo il pescato al petto e corro fuori dall’acqua inciampando e ferendomi anche. Solo dopo, quando saremo in salvo, Tupana mi dirà che quello che ho allontanato non era uno squaletto, ma uno squalo tigre. Una presenza rarissima nella laguna. Ed è così che mi viene assegnato il mio nome polinesiano, Ruruki, cioè appunto Squalo Tigre. Non, come molti credono, perché io sia in qualche modo associato per similarità a quell’animale, ma per questo episodio, che ha quindi tutto un altro valore. Non è un semplice viaggio, è un bagno di umiltà. La mattina mi sveglio in questo atollo sperduto e me59
raviglioso, ed è come essere nel cuore della vita vera. Dopo un mese, l’isola di Anaa mi cambia la prospettiva su tutto, è come una depurazione totale, mentale e fisica. Dopo pochi mesi di lontananza, sento già la nostalgia e faccio di tutto per tornarci. E così per dieci anni continuo ad andarci. Imparo la lingua, imparo a muovermi, a viverci, a stabilire un sistema di valori e di priorità tutto nuovo, riducendo drasticamente la mia presunzione giovanile, e abbracciando piuttosto una filosofia di vita che è la stessa che conservo ancora oggi. La Polinesia crea una sorta di link con la mia infanzia in campagna, riportandomi alla definizione di una mia filosofia della vita e del lavoro, la stessa in cui ho sempre in qualche modo creduto, ma che adesso si definisce in modo chiarissimo. Questa esperienza porta allo sdoganamento il mio forte legame con la natura e i prodotti originali, incontaminati, facendomi vedere la vita stessa in modo diverso. Capisco che il futuro bisogna cercarlo nel passato e che la qualità dei prodotti non può prescindere dalla loro autenticità naturale e originaria. Purtroppo la vita nasconde delle trappole: l’esperienza unica di Anaa è anche causa della fine del mio matrimonio e, di conseguenza, arriva il momento in cui abbandono la mia isola. Il distacco da Anaa è doloroso e decido quindi di cercare un luogo che la possa sostituire. Ma trovare qualcosa che possa subentrare a un’isola completamente incontaminata, dove si vive ancora in armonia con la natura, e non è facile. Alla fine scelgo Capo Verde, dove vado prima dello 60
sviluppo del turismo. Ci arrivo con Tini, la mia amica polinesiana. Raggiungo prima Boa Vista, poi l’isola di Maio. Sull’isola di Maio si vive nel vento: il vento accompagna i pensieri, forma le dune, si trasforma in energia, ma fa anche entrare la sabbia ovunque, non fa crescere le piante, rende il mare più cattivo. L’isola di Maio è un luogo incontaminato, dove migliaia di tartarughe depongono le uova sulla spiaggia. Ci si arriva via mare, con una nave che parte da Santiago, l’isola principale, o con un twin otter da sedici posti che decolla dal piccolo aeroporto di Praia, sull’isola di Santiago. A Maio la televisione è arrivata da poco, ci sono meno di cento automobili in totale, per un massimo di cinquemila abitanti. L’elettricità è disponibile solo dalle 7.00 alle 24.00; il trasporto più comune è quello pedestre, la gente porta i carichi sulla testa. Proprio nel porticciolo di Villa di Maio c’è un albergo che si chiama Marilù. È una pensione per commessi viaggiatori, non un hotel per turisti. Nel suo piccolo ristorante è affisso un cartello che chiede di ordinare il cibo desiderato con almeno due ore di anticipo. La donna che sta in cucina si chiama Zazie e, prima di mettersi ai fornelli, va lei stessa nel porticciolo, direttamente dai pescatori, a prendere il pesce fresco per i clienti del ristorante. Le camere della pensione Marilù hanno il fascino d’altri tempi, un separé di legno tropicale tra letto e lavandino, un’abat-jour con la candela, le finestre consumate dalla salsedine. 61
La scoperta di Capo Verde
Sull’isola di Maio conosco due persone estremamente interessanti. Uno è il professor Luis Felipe Jurado, professore di biologia e zoologia all’Università di Las Palmas, che è lì proprio per studiare le tartarughe marine (anni dopo, nel 2016, riceverà un premio prestigioso per le sue scoperte). La seconda conoscenza interessante è un certo Jorge, un uomo che è lì per costruire un impianto eolico per l’elettricità. Un giorno, pur senza patente, riesco ad affittare una macchina, una Daihatsu, e comincio a vagare meditando sui miei insuccessi familiari e in generale sul mio passato e sul futuro che mi attende. Mentre vago in auto in queste zone deserte vedo luccicare qualcosa in lontananza. Mi avvicino e mi rendo conto che si tratta di un’altra macchina. È il professor Jurado. È rimasto insabbiato con la sua Jeep. Quindi praticamente lo salvo. Nasce un’amicizia e così, conoscendoci, lui mi dice che c’è un distillatore a Figueira Horta che produce un rum moonshine, qui chiamato Grogue. Io non so neanche che esista il rum a Capo Verde, anche perché sull’isola di Maio, che è un’estensione del Sahara spazzata dal vento e quasi deserta, la parte agricola è quasi inesistente. Il professor Jurado mi accompagna lui stesso a Figueira Horta, dove incontro il produttore. In mezzo alle canne da zucchero c’è una piccola costruzione con la pressa, la zona di fermentazione è all’aperto, con alambicco rudimentale, alimentato da un fuoco a legna, e una piccolissima capanna fatta con dei rami di palma secca; i tubi che escono dall’alambicco 62
sembrano tubature dell’acqua e da lì, goccia a goccia, esce il distillato. La sera al Marilù incontro i commessi viaggiatori che arrivavano da Santiago, unici ospiti dell’albergo, e con loro scopro il Grogue, semplice e vero come la sala da pranzo con le tovaglie rosse del Marilù. Il giorno dopo, assisto a un fatto più unico che raro, l’arrivo della pioggia, un temporale che qui è considerato un evento. Tutta la gente si spoglia, si lancia sotto l’acqua, inizia a ballare mentre le madri preparano da mangiare in enormi pentoloni, e parte una festa improvvisata per strada, dove si balla e si beve. La festa dura tre giorni. Mi prendo probabilmente la più grande ciucca della mia vita, bevendo il Grogue da lattine di fagioli. E mi prendo anche un’influenza micidiale, con tutta quella pioggia, dalla quale mi curano proprio con il Grogue, mescolato con dell’aglio schiacciato, del succo di limone, poi flambato e dato da bere ancora caldo, prima di andare a letto. E devo dire che la mattina dopo sono effettivamente guarito. Capo Verde diventa un po’ una mia tappa. Un mese dopo ritorno da solo, trovo due produttori, uno è Joao Monteiro, di S. Antao, l’altro è Ferreira di Santiago, e scopro anche che il Grogue viene invecchiato, che quindi esiste un Grogue vejo. La scoperta casuale del Grogue mi fa capire che esistono ancora al mondo molti distillatori non ancora conosciuti. Non penso ancora di importarlo, ma il Grogue mi fa pensare che posso cercare prodotti unici, speciali, diversi, per arrivare alla definizione stessa di qualità nel mondo del rum. 63
Dopo aver importato i diversi rum dai Caraibi cercando tutti quelli conosciuti, adesso posso concentrarmi sulla ricerca della qualità, l’originalità, in una logica di preservazione e valorizzazione di prodotti più autentici possibile. Adesso, alla fine di questa mia epoca polinesiana, vado a vivere da solo, con le mie figlie, che vengono con me. E così quelli a cavallo del secolo sono per me anni frenetici, pieni di novità, di viaggi e scoperte straordinarie. In questi anni si intrecciano dei percorsi paralleli: la nascita delle “Triple A”, nel mondo dei vini, che mi sarà preziosa anche per il rum, e non solo per quello; l’incontro con i sigari cubani; e quelle avventure che chiameremo “i viaggi delle Aguilas”. Il Protocollo “Triple A” sarà il primo al mondo a definire cosa sia un vero vino, un vino naturale, e quindi a favorire l’unicità e la naturalità del singolo prodotto, in contrasto con la standardizzazione del vino degli ultimi decenni, dovuta all’utilizzo della chimica nel vigneto e dei lieviti selezionati in laboratorio. E, con le “Triple A”, capisco qualcosa che adesso può sembrare banale, ma che in effetti banale non è per niente. Il nostro palato culturale si evolve con l’esperienza. E, così come possiamo abituarci a tutto, alle tasse, alle corna, a sistemi di vita illogici, ugualmente ci abituiamo anche al gusto del caffè bevuto in autostrada, ai vini industriali, al pane che non ha più nulla del pane. Vivendo in un mondo dove coesistono prodotti ben diversi all’interno della stessa categoria merceologica, 64
diventa molto difficile orientarsi. Nel caso del vino, per esempio, la gran parte del mercato è occupata da prodotti industriali che di fatto non hanno molto a che vedere con il vino. E allora diventa quasi impossibile individuare il vino migliore, se il palato si è abituato non al vino, ma a quelle che in realtà sono delle bevande idroalcoliche a base anche di uva, qualcosa che, nella gran parte dei casi, non fermenta con i propri lieviti o viene da uve coltivate con prodotti velenosi. E il discorso è valido non solo per il vino, ma per ogni prodotto alimentare. Se il nostro obiettivo è cercare i migliori prodotti, occorre anzitutto eliminare la confusione, escludendo i prodotti non autentici, che, essendo la maggioranza di quelli offerti dal mercato, hanno alterato il palato culturale, ingannando il gusto. Capisco così che, per orientarsi, occorre anzitutto “resettare” il gusto, e per farlo bisogna creare dei protocolli oggettivi in grado di stabilire le frontiere, i confini concreti dentro i quali deve mantenersi un prodotto perché lo si possa chiamare con il suo nome. Solo a quel punto, cioè solo dopo aver stabilito con precisione cosa sia il vino vero, il pane vero, il rum vero, all’interno di questi confini si potrà decidere – a questo punto anche in modo soggettivo – quali siano i prodotti migliori. Il motto delle “Triple A” è infatti: Non tutti i vini naturali sono buoni, ma nessun vino non naturale è buono sintetizza questo discorso. E mi spinge ad avere un nuovo approccio a qualsiasi prodotto alimentare, portandomi anche a definire le differenze tra i rum. Se da un lato torno indietro, alle radici della mia formazione, sono anche all’inizio di una nuova era, 65
innovativa, in cui realizzo di dover pensare al futuro in modo diverso. È un periodo ricco di approfondimenti sul rum, sulla sua storia, sulla valorizzazione di alcune sue peculiarità in questo periodo ancora nascoste, che mi porterà anche al lavoro da talent scout. Sono mesi frenetici, in cui molte cose accadono tutte insieme. I sigari cubani
Intanto, con la nascita della movida del rum negli anni Novanta, e il boom del turismo nei Caraibi, e specialmente a Cuba, l’interesse da parte dei gourmet italiani verso il mondo dei rum fa nascere anche l’associazione immediata tra rum e sigari. L’Italia è l’ultimo paese a dismettere il Monopolio di Stato, su imposizione della Comunità Europea. È nato l’ETI, Ente Tabacchi Italiano, senza veri cambiamenti sul piano pratico. Il sigaro cubano, come accadeva già con il Monopolio, ha solo una piccola presenza. Nel 1999 pochissime vitolas di Habanos vengono importate in Italia. Molti appassionati comprano quindi i sigari in Francia, Svizzera, Spagna o direttamente a Cuba, e li portano alle degustazioni. Nascono così molti eventi, nei quali vengo coinvolto per via della mia attività con il rum. Tra gli amatori di sigari con cui entro in contatto c’è Andrea Vincenzi, giovane appassionato di vini e di gastronomia, che pubblica la rivista “Torpedo”. Andrea mi chiede delle bottiglie per fare degustazioni di sigari e rum. Ci incontriamo a Bologna, nasce una bella amicizia. E così piano piano, inizio a essere coinvolto in va66
rie occasioni. Un fermento di degustazioni e fumate prendono vita nei locali di tendenza. È un mondo di nicchia e in poco tempo entriamo tutti in contatto. I Cavalieri delle Nove Porte, capitanati dal Gran Maestro Maresca, ne sono gli apostoli. Tra i maggiori esperti italiani di sigari c’è Andrea Molinari, amministratore delegato della Lauda Air, che scrive il primo libro italiano davvero influente sui sigari cubani: Sigaro, edito da Idea Libri. Per la presentazione di questo libro viene organizzato un grande evento in una notte piena di stelle, durante una nevicata, in una baita dépendance dell’hotel Perla, a Corvara, in Val Badia. Andrea Vincenzi mi chiede di portare i rum, e io decido di portare, tra gli altri, anche un Saint James 1885. La degustazione entra nella storia. Io, con il mio giubbotto di pelle, in mezzo a tutte queste persone elegantissime in cravatta e abito, conduco questa degustazione che folgora tutti i presenti. A tarda notte, Andrea Molinari mi dice che è in corso una trattativa per importare i sigari cubani in Italia al di fuori del Monopolio di Stato. Mi chiede di entrare nella squadra e, in caso di successo delle trattative, di far diventare la Velier distributrice in Italia dei sigari cubani. Accetto con entusiasmo. E di colpo vengo proiettato nel mondo dei sigari. Molinari mi illustra tutta la situazione, con le varie complicazioni politiche e diplomatiche. Facciamo entrare in squadra anche il giovane Andrea Vincenzi. 67
La trattativa è condotta da Molinari, che ha tutti i contatti con il governo cubano. Cominciamo ad andare molte volte a Cuba. Naturalmente le istituzioni hanno cercato in tutti i modi di rendere più difficile il nostro sogno, promuovendo anche leggi ad hoc per complicare l’importazione dei sigari, la prima al di fuori del monopolio. Impieghiamo quindi quasi due anni per riuscire nel nostro intento. Due anni caratterizzati da innumerevoli viaggi a Cuba, sempre con il 777 di Lauda Air che diventa il nostro bus, con noi che fumiamo nel cockpit quando Niki Lauda non è cabina di pilotaggio. Incontriamo più volte Fidel Castro, il figlio del Che Guevara, ma anche don Alejandro Robaina, leader maximo dei puros cubani, che ci ospita a casa sua, a Pinar del Rio, facendoci trovare sempre in tavola delle aragoste e una bottiglia di vino italiano, pur nella difficoltà di reperirle. Don Alejandro è un ottantenne con il viso solcato dalle righe e gli occhi vispi di un ragazzino. Da prima del governo di Fidel Castro è proprietario del tabacco nella regione di Vuelta Abajo, e con Fidel è uno dei pochi che sia rimasto nella sua proprietà a continuare il suo lavoro, anche se è diventato di fatto un impiegato con un guadagno statale. Riconosciuto come uno dei più grandi produttori di sigari al mondo, è l’unico a cui Castro concede l’onore di usare il suo nome e cognome per una marca di sigari. Curioso, un po’ narcisista e sempre disponibilissimo a trasmettere la sua grande conoscenza, è lui a insegnarmi tutto sui sigari e sul tabacco. 68
Ogni volta che vado a Cuba, ho il mio rito scaramantico: incontrare il primo giorno di ogni viaggio, a La Habana, don Gregorio Fuentes, il pescatore su cui Ernest Hemingway modellò il personaggio di Santiago, protagonista de Il vecchio e il mare. Don Gregorio è infatti incredibilmente ancora vivo, essendo già vecchio nel 1952, all’uscita del romanzo di Hemingway. Ormai centenario, mi accoglie sempre nella sua piccola e dignitosa casetta offrendomi un Havana Club e un sigaro. Un giorno, vedendolo sempre così in salute, gli chiedo quale sia il segreto per arrivare come lui a cento anni. Mi risponde: «Luca, fumarse un puro e tomar un trago de ron». «Uno cada día?» gli chiedo allora io. E lui: «No! Uno cada hora!» Durante le trattative con il governo cubano per i sigari, ho qualche difficoltà per via di uno di quelli che chiamo i miei 5 privilegi, che sono: non portare l’orologio; non avere la patente; non avere il telefonino; non guardare la televisione (non lo faccio dal 1994); non sedermi mai a tavola con un politico. E questo ultimo privilegio, naturalmente, con Fidel Castro è un bel problema. Lo incontro di giorno, durante le trattative condotte prevalentemente da Andrea e in occasioni ufficiali, ma più volte mi arriva l’invito a una cena privata, che devo rifiutare. E certo non posso dire la vera ragione, quindi ogni volta invento delle scuse, malori improvvisi, anche se questo mi costringe a dover stare chiuso 69
in albergo, per non farmi vedere in giro dagli uomini di Fidel. In uno dei miei innumerevoli viaggi, un giorno di primissima mattina mi chiamano dalla reception dell’Hotel Cohiba e mi dicono che di sotto ci sono delle persone che vogliono parlarmi. Sono gli avvocati di Habanos. Mi riferiscono che a Fidel non piace per niente il nome Ultima Revolution, che ho usato per una partita di Havana Club acquistata anni prima, per non parlare della presenza della bandiera cubana sulle etichette. E allora sono costretto a ritirare dal mercato tutte le bottiglie di Ultima Revolution. Sono bottiglie che ho ancora in magazzino, e credo che prima o poi le rimetterò in commercio. Alla fine, in ogni caso, riusciamo a portare a termine le trattative. Il 12 marzo 2000 viene costituita la società Diadema, con sede in via Byron 14 a Genova, al piano superiore della Velier, con presidente Andrea Vincenzi. Velier viene nominata agente generale esclusivo di Habanos. E così diventa l’agente generale dei sigari cubani in Italia. Questa acquisizione porta la Velier sulle prime pagine dei giornali, specialmente economici. Inizia un periodo ricco di attività. Andrea Molinari ha creato il Cigair, a Milano, in via Molino delle Armi, che poi diventa La Casa del Habano, il fulcro di tutta la movida sui sigari e sui rum in Italia. Presidente onorario è Mike Bongiorno; Luciano Pavarotti ne è un ospite fisso. 70
Organizziamo corsi sui distillati a cui partecipano i Cavalieri delle Nove Porte. Si svolgono delle grandi serate di gala, con i Buena Vista Social Club, don Alejandro Robaina, il giovane ministro degli esteri cubano Felipe Pérez Roque. Pensiamo che nasca una legge che permetta la vendita diretta dei sigari da parte dei locali di ristorazione. Invece poi succede che proprio in questo periodo la nuova legge proibisce il fumo nei locali pubblici. Portiamo comunque i migliori tabaccai italiani a Cuba, partecipiamo a Habanos 2000, il grande festival dove interviene anche Fidel Castro, e dove Andrea Molinari comprerà lo humidor personale di Che Guevara. In questo periodo continuo a viaggiare in tutti i tropici, non solo a Cuba. Grazie ad Andrea Molinari e alla Lauda Air, riesco a spostarmi gratuitamente, molto in fretta e quasi a piacimento nei Caraibi. Eleggo a mio buen retiro una piccola comunità della Repubblica Dominicana, denominata Castillo. Fuori dalla capitale, ho scoperto un Paese ancora genuino, naturale, le cui attività prevalenti sono da sempre legate all’agricoltura e alla pesca. A Castillo ci si arriva da Puerto Plata, percorrendo la statale che porta a Santiago de los Caballeros; arrivati a Imbert si devia su una strada magnifica senza traffico che scorre come un toboga tra palme reali e canna da zucchero; poi, passato Luperon, un villaggio in una baia riparata dal vento, uno degli attracchi più sicuri dei Caraibi, si arriva costeggiando il mare alla piccola chiesa di La Isabela, prima chiesa cattolica nel Nuovo Mondo, sorta nel sito considerato il primo vero insediamento europeo nelle Americhe, fatta edificare 71
Il mio buen retiro in Repubblica Domenicana
da Cristoforo Colombo in onore della regina Isabella di Castiglia, durante il secondo viaggio del 1493. A pochi metri sulla destra, su uno sterrato, c’è il colmadon di doña Milagro, dove si fa la spesa e dove, si incontrano i campesiños nel tardo pomeriggio, quando il sole si fa dolce. Siedono ai tavoli di una veranda chiusa da inferriate in ferro battuto, con la musica caraibica sparata ad alto volume dagli amplificatori, bevendo mezze bottiglie di Brugal Extra Viejo e giochicchiando con la retina che le avvolge, qui usata un po’ come uno scoubidou per tenere occupate le mani mentre si chiacchiera. Doña Milagro sul retro ha una piccola cucina, dove prepara il pesce e il pollo ruspante cotti sulle braci. In questa piccola comunità incontro Mariza, una ragazza india morena di 21 anni, figlia di un pescatore che vive in una capanna vegetale. Con Mariza farò anche un viaggio a Cuba dove incontrerò Maradona, ma questa è un’altra storia. In questo luogo sperduto, a pochi metri da Doña Milagro, c’è anche l’alberghetto Rancho del Sol, di una coppia belga-domenicana, dove vado a dormire. È un ambiente molto naïf, dove quando torno la sera trovo il guardiano che difende il posto, armato di una carabina degli anni Cinquanta, un piccolo uomo che di giorno va in cerca di manufatti pre-ispanici e alla sera me li mostra. Qui torno ogni volta che posso, a volte per diversi weekend di fila. Un taxi scassato viene a prendermi dal Castillo in aeroporto, e con questo taxi attraverso l’isola fino alla piccola comunità, dove resto a dormire e mangiare, e così entro nella vita quotidiana della 72
Repubblica Dominicana, con le sue abitudini, la sua musica e le sue feste. Nei weekend si prendono dei bidoni della spazzatura, si riempiono di ghiaccio per tenere al fresco le bottiglie di Brugal e di Presidente, la birra locale, e le si carica sui pickup per andare nella bellissima spiaggia di Punta Rucia, che al weekend viene quindi inondata di persone e musica. Tutta la gente di Luperon o di Puerto Plata arriva, posteggia i pickup e scarica cibo, birra e rum, fa partire la musica. I pescatori cucinano il pesce fresco, i frutti di mare, le aragoste, ci si tuffa in acqua, si gioca e si balla tutti insieme, come in una grande festa. In uno di questi miei weekend dominicani, ho un problema con l’aereo di linea. Il mio volo è stato cancellato e ho una riunione importantissima a Genova. Non so come fare, chiamo quindi Andrea Molinari, il quale mi dice che c’è un volo della Lauda Air di ritorno in Italia da Cuba. È un aereo vuoto, con a bordo il solo equipaggio. Quindi Andrea lo fa dirottare a Puerto Plata, dove io arrivo con una corsa in taxi da Luperon, attraversando l’isola. Essendo un volo vuoto, vengo imbarcato senza essere registrato. E quindi mi ritrovo unico passeggero in questo grande aereo, a notare il tremolio assordante delle cappelliere vuote, con le hostess che conosco tutte e che, avendo solo me tra i passeggeri, per scherzo si offrono di farmi uno striptease. Quando arriviamo alla Malpensa, mi beccano come passeggero di questo volo, registrato senza passeggeri, e così multano la Lauda Air per avermi riportato in Italia. 73
In viaggio con la troupe televisiva
Marie Galante
In questi anni così pieni di avvenimenti, c’è poi anche un altro progetto che mi porta a viaggiare nei Caraibi. Un progetto televisivo. Da qualche anno ho iniziato a partecipare come ospite a molte trasmissioni in onda su Gambero Rosso Channel, il primo canale tematico di Rai Sat dedicato al cibo e al bere, e uno dei conduttori che più spesso mi coinvolge è Luca Managlia. Passato a Telemontecarlo, ora Luca mi propone questo nuovo progetto: un documentario sul mondo del rum, alla scoperta delle distillerie e dei produttori. Prima di partire con le riprese, inizio i miei viaggi di ricognizione. Pensando alle riprese che dovremmo fare in Guadalupa, mi rivolgo alla mia amica Claudia, una bellissima ragazza, atleta e originaria appunto della Guadalupa, che ho conosciuto tempo prima a Parigi. Le chiedo di portarmi con lei in a visitare il suo Paese. Con lei potrò conoscere meglio i luoghi che dovremo tornare a visitare per girare il documentario. È lei che mi porta per la prima volta a Marie-Galante. Quando ci arrivo è un colpo di fulmine. È come un viaggio a ritroso nel tempo. Visito Saint-Louis, con le “cases“ coloniali di legno, i ristorantini a conduzione familiare, i buoi, i piccoli appezzamenti agricoli, nessuna costruzione oltre i due piani, pochissime auto, e tre distillerie: Marie-Galante è estremamente simile alla Martinica che ho conosciuto nei miei primi viaggi del 1975. Un’isola il cui 30% della superficie, coltivabile al 98%, è coltivato a canna da zucchero; paesaggi bucolici anche nei centri abitati, spiagge incontaminate con la vegetazione an74
cora naturale e nessun albergo, una media di un bovino e un maiale per ogni abitante. Nelle piccole trattorie creole, le donne sono ancora vestite di madras. Qui si produce un rum ideale per il Ti’ Punch, ancora a 59°, come era in tutte le Antille sino agli anni ’70. Dopo, con l’aumento della tassa sull’alcol, pian piano tutti i produttori di rum agricole hanno abbassato la gradazione, invece a Marie Galante si è rimasti fedeli ai 59°. Insieme a Claudia, visito la Père Labat, dove incontro il responsabile, Ned Renault. Per me è un’emozione visitare la Père Labat, antica e decadente distilleria dell’isola, che conserva ancora una vecchia colonna creole degli anni Trenta. La distilleria prende il nome da Jean-Baptiste Labat, chiamato semplicemente Père Labat, religioso, botanico, scrittore ed esploratore francese vissuto a cavallo tra il Seicento e il Settecento, il primo a portare il concetto di doppia distillazione. Ideò anche nuovi metodi per la produzione dello zucchero, che rimasero in uso per molto tempo, e pubblicò i libri sull’America più letti all’epoca, in particolare il famoso Nouveau voyage aux iles de l’Amerique (1722). Chiedo a Ned Renault se può darmi dei barili di rum invecchiato, non ancora importato. Ne sopravvivono ancora pochi che lui vende solo a condizione che io prenda anche del rum bianco, che in Italia non ha mercato. A fine settembre, insieme agli operatori di ripresa, facciamo il viaggio per girare il documentario. In una settimana visitiamo Repubblica Dominicana, Puerto Rico, Barbados, Martinica. Li porto a filmare distille75
Visita alla Père Labat
rie e cucine di strada, a mangiare nei ristorantini. Registriamo dei video con le musiche, la cultura caraibica, i combattimenti di galli, visitiamo anche i locali e le discoteche più famose. A Barbados incontriamo Jean-Noël Reynaud, che avevo conosciuto anni prima come export manager della Cointreau, diventato nel frattempo l’amministratore delegato della Mount Gay, ora acquisita dal gruppo Rémy-Cointreau. È la prima distilleria che viene incorporata da una multinazionale, e quindi un po’ l’inizio della ricolonizzazione delle distillerie del Caraibi, con una multinazionale come la Rémy-Cointreau che comincia ad acquisire le grandi distillerie storiche delle grandi famiglie dei Caraibi. Qui conosco anche la prima persona che si sia sposata conoscendo il futuro marito su internet, ovvero la segretaria di Jean-Noël. All’arrivo in Martinica, c’è il mio incontro memorabile con Jean Bally all’Habitation Lajous, che per me è da sempre un po’ il simbolo dei Caraibi. Da anni l’avevo negli occhi, per averla vista in una storica cartolina promozionale, e ora che finalmente posso entrare in questa splendida residenza in legno bianco, con la distilleria ancora lì di fianco, anche se ormai dismessa, per me è un’emozione unica. Mi presento a Jean Bally come l’importatore italiano del Bally. E da lì nasce una bellissima intervista, l’unica riguardante il rum che abbia mai rilasciato Jean Bally, che è un uomo politico. Jean Bally ha venduto ormai da molti anni la sua distilleria, prima al gruppo Clement, e poi da quest’ultimo ceduta al gruppo Saint James. Quindi lui è fuori 76
dal nostro lavoro, ma continua a vivere all’Habitation Lajous, che è la casa coloniale con la distilleria dismessa. Ma Jean Bally rimane l’ultimo erede della storia del rum agricole che per la prima volta fu millesimato da suo padre. Questo incontro, che dovrebbe durare pochi minuti, si protrae invece per ore e ore, fino a tarda sera, tra profumi e sapori, cullati dal canto delle raganelle che ci circondano. Alla fine di questi straordinari giorni pieni di viaggi e incontri, torniamo in Italia con dieci ore di girato. Purtroppo però, nel frattempo, Telemontecarlo viene ceduta a La7, e anche se il nostro materiale è praticamente completo, quel documentario non andrà mai in onda.
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