LUCA GARGANO Nomade tra i barili - capitolo 1

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Luca Gargano

Nomade tra i barili

- www.edizionivelier.it -


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I miei ricordi cominciano in campagna, dai nonni, dove trascorro molto tempo soprattutto in estate. Faccio collezione di piume di uccelli, che raccolgo durante le passeggiate con mio nonno nei campi, nei boschetti. È un’epoca con molti più uccelli di oggi e a me bambino piace trovare le piume, riconoscere le differenze, catalogarle. Sono anni in cui deve ancora nascere l’attuale industria agroalimentare e siamo ancora lontani dall’arrivo dei prodotti chimici nelle coltivazioni. La vita incontaminata mi circonda come la cosa più normale del mondo. L’inizio della mia esistenza coincide con l’ultima fase della vera vita contadina. Mio padre, ex giocatore di rugby e reduce della campagna di Russia nella Seconda Guerra Mondiale, in questi anni lavora in città, alla Salengo di Genova, un’azienda che ha cominciato a importare distillati all’inizio del secolo. Invece delle classiche favole che i padri raccontano ai figli, lui mi parla dei distillati, anche se in forma di storie adatte a un bambino; mi racconta come si fanno la vodka, il gin, il whisky, il rum, a partire dai prodotti della terra, le patate trasportate dai carri nella neve, il frumento, l’orzo, la canna da zucchero. 5

L’infanzia, la campagna, i distillati


Vittorio Salengo, il proprietario dell’azienda in cui lavora, lo vedo quando sono solo un bambino in età pre-scolare. La Salengo è ancora una piccola società a conduzione familiare. Gli uffici sono sul pianerottolo dall’altra parte della casa del dottor Salengo e io, da così piccolo, vengo portato in questi uffici. Conservo ancora il ricordo indelebile del profumo di una cassa di Old Parr blended whisky, una cassa di legno che veniva schiodata inondando la stanza di aromi. In qualche modo, il mio legame sentimentale con il mondo dei distillati inizia da lì, dall’infanzia. E la città in cui cresco è quella giusta per coltivare questa passione in seguito, da ragazzo, negli anni Settanta. Fino al decennio precedente, cioè fino alla fine degli anni Sessanta, Genova era stata la città delle grandi navi che solcavano l’Atlantico, il porto principale italiano, il più importante del Mediterraneo. Tutte le società di navigazione avevano una sede in città. E, prima che si diffondesse il trasporto aereo, la via marittima era l’unica per raggiungere il continente americano, con le nostre celebri navi storiche che avevano fatto per decenni la linea Genova-New York. Su quelle navi lavoravano i barman che poi, d’inverno, cioè nei tempi morti delle navigazioni transoceaniche, lavoravano invece sulle navi da crociera con clientela statunitense nei Caraibi, e per questo ben conoscevano la cultura del bere tipica degli Stati Uniti: quella dei cocktail. Quando, alla fine degli anni Sessanta, era arrivato il trasporto aereo, questo aveva decretato la fine 6


di un mondo. Le grandi navi erano state pian piano dismesse. Con i viaggi transoceanici per via aerea, si velocizzavano e facilitavano enormemente i contatti con il Nuovo Mondo, ma contemporaneamente si lasciavano sulla terraferma le moltissime persone che avevano lavorato per le varie società di navigazione. Tra questi, appunto i barman. Saranno loro i primi a far nascere gli American Bar a Genova, portando nel nostro Paese la nuova cultura dei cocktail. Fino agli anni Sessanta, in Italia non si consumavano cocktail. Ma alla fine di quel decennio, molti dei più importanti barman che avevano imparato il mestiere in America e sulle navi si fermavano a Genova e aprivano un bar. Sono personaggi storici come Benito Cuppari, primo barman della Michelangelo, che apre in via Cesarea lo Shaker Club; Alberto Devoto, che fa nascere il Mixing Glass in piazza Leopardi; Lino Cairoli, detto il Babbo, che apre il suo bar in piazza Alimonda. E Genova è anche la capitale italiana degli importatori, tra i quali la Salengo, la Wax & Vitale, la Soffiantino, la Sposetti, la ancora piccolissima Velier. La Salengo intanto cresce e cambia il suo nome. Diventa la Spirit Spa, inizia a importare il Ballantine’s e diventa l’azienda indipendente numero uno in Italia, superando la Wax & Vitale, che importa il Johnnie Walker. Mio padre ne è amministratore delegato, ed è considerato il miglior manager nel suo settore, quindi i barman genovesi lo conoscono bene e conoscono me di conseguenza, pur essendo io ancora un ragazzino. A sedici anni vado spesso in quei locali. Sono bar raffinati, appunto in stile americano, con poltrone in 7

Genova capitale dei cocktail


pelle e banconi in mogano, dove si mangiano i primi club sandwich, per esempio, e dove tutti pestano lime in anni in cui nel resto d’Italia non si sa cosa sia una Caipirinha. Tra l’altro, qui è possibile trovare il vero lime, in questi anni ancora introvabile nel nostro Paese per via di una legge protezionistica che vieta l’importazione di agrumi. A Genova il lime viene portato di contrabbando, proprio per rifornire i barman. Grazie a uomini come Cuppari, Devoto o Cairoli, dei quali divento presto amico, a sedici anni inizio quindi a conoscere una cultura del bere che nel resto d’Italia sarebbe esplosa solo anni dopo. E i barman mi raccontano le loro storie straordinarie, i loro viaggi nei Caraibi, le spiagge, i luoghi che conoscevano e che grazie ai loro racconti crescono nelle mia immaginazione. Gli inizi con Salengo

Sono all’università quando Vittorio Salengo mi propone di iniziare a lavorare. Piccolo, di corporatura estremamente minuta, Salengo è un pèj rûss, come dicono in piemontese, cioè ha i capelli rossi. È nato nel 1905, ed è un uomo di grande intuito. Accetto la sua proposta, anche se un po’ contro la volontà di mio padre, che vorrebbe farmi terminare gli studi e farmi fare esperienza fuori dall’azienda in cui lavora. Salengo non ha figli e, forse anche per questo, mi adotta lavorativamente quando sono ancora un ragazzo e inizia a insegnarmi lui stesso il mestiere dell’importatore. Quando comincio a lavorare alla Spirit è il 1975, lui è ormai già settantenne. Mi fa fare tutte le esperienze possibili, partendo dal magazzino, a scaricare casse, mi manda a Reggio Calabria a vendere i pro8


dotti. «Perché se impari a incassare le fatture a Reggio Calabria», mi dice, «potrai vendere ovunque». Dopo qualche mese, mi prende da parte e mi dice: «Sai che ad Amsterdam, dalla fine della guerra, gli ebrei stanno stoccando barili di rum? Vedrai che un giorno il rum diventerà un distillato importante». E mi propone di occuparmene. Così, a soli 19 anni, vengo nominato product manager, responsabile del rum Saint James. All’epoca in Italia il rum praticamente non esiste. C’è Bacardi, che però è semplicemente il Bacardi, una marca che quasi esula dal mercato del rum; c’è Appleton, il rum giamaicano, distribuito dallo storico importatore Soffiantino; c’è l’haitiano Barbancourt, all’epoca considerato come il Macallan dei rum; e ci sono i rum agricole, come Saint James e Clement, che hanno un piccolo mercato nella ristorazione. Essendo incaricato di occuparmi del Saint James, vado nel piano sotterraneo della nostra sede di quegli anni, nel Palazzo della Borsa, in via XX Settembre a Genova, per raccogliere il materiale necessario a documentarmi. Tra le scartoffie impolverate, trovo un vecchio documento ciclostilato su carta velina leggera, rosa, di quelle che si usavano una volta, dove si promuove il Saint James e si parla di punch e grog, e degli aspetti “salutistici” del rum caldo, utile secondo i medici in caso di febbri e raffreddore. In quegli anni il rum non è per niente visto come oggi. E così io, con l’idea di migliorarne le vendite, penso di organizzare un concorso, con il quale portare i migliori agenti della Spirit in Martinica. Il viaggio permettereà loro non solo di realizzare 9

Il rum negli anni Settanta


un sogno, ma soprattutto di conoscere il prodotto e promuoverlo al meglio. Quando ne parlo in azienda mi prendono tutti per matto. Bisogna capire che all’epoca i viaggi che gli importatori organizzano per gli agenti e i migliori clienti si svolgevano in macchina, in Champagne oppure a Cognac, e cominciano giusto i primi sporadici viaggi aerei per portare i clienti a conoscere i whisky in Scozia. Solo quest’ultimo sembra già un viaggio lungo e impegnativo. Immaginare di andare in Martinica è come pensare di andare sulla Luna. Il 747, il Jumbo, è arrivato proprio in quegli anni. Sulla linea per la Martinica è impiegato solo dall’anno precedente, quindi non esiste la percezione di poter arrivare in breve tempo in quelle isole. I Caraibi hanno ancora il fascino di una terra molto più lontana di come viene vista oggi. Ma il nuovo collegamento aereo già permette viaggi fino a quel momento impensabili. E così organizziamo il viaggio, che si svolgerà nell’aprile dell’anno successivo. Sarà il mio primo viaggio alla scoperta del rum e dei Caraibi. Primo viaggio in Martinica

Sette agenti vincono il concorso. Tra loro c’è anche Sergio Calcagno di Imperia, l’uomo che tra l’altro è stato uno dei pionieri nella valorizzazione dell’olio extravergine ligure in Italia e nel mondo, anche ideatore della carta che avvolgerà le bottiglie dell’extravergine per preservarne le caratteristiche, portando l’olio d’oliva a essere considerato un prodotto di alta gastronomia. Quel viaggio resta per me un ricordo indelebile. 10


Appena scendo dal 747 dell’Air France, ancora ventenne, ho il mio primo fortissimo impatto con i Caraibi. È un coup de foudre: la beguine, con il suo ritmo da rumba ma più rallentato e allusivo, che fa Ba moin en ti bo / Deux ti bo, trois ti bo / Doudou; i corpi seducenti delle creole; il frusciare delle palme al vento; l’umidità; il sottofondo notturno delle piccole raganelle tropicali che sembra in tutto e per tutto un costante frinire di grilli. Per un ragazzo di vent’anni è impossibile non restare folgorato da questo viaggio. È anche la prima volta che vedo la canna da zucchero. In quegli anni, i campi di canna vengono ancora bruciati, prima della raccolta, che viene fatta manualmente con il machete. Il fuoco è usato per pulire la zona di lavoro e permettere la raccolta, liberandola da serpenti, manguste e altri animali, oltre che dal fogliame e dalle erbacce che nascono spontanee sotto le canne. Con l’arrivo della chimica, animali e erbacce non ce ne saranno più, ma all’epoca si potevano vedere ancora i campi bruciare di fuochi leggeri, con questa tecnica di dépaillage, come dicono i francesi. Tra i Settanta e gli Ottanta, poi, per me il Natale nei Caraibi è identificato dalla fioritura della canna da zucchero. La sua infiorescenza, la flèche, oggi è sempre meno frequente per via dell’utilizzo quasi totale di varietà ibride. All’epoca inonda ancora i campi, con la sua forma di piccolissimo alberello di Natale dai riflessi viola, fucsia, grigi, argentati, che si muovono leggeri al vento, in modo quasi etereo, tendenti al cielo. 11


La Martinica non è ancora turistica. Il turismo sta appena nascendo, quindi quando arrivo è ancora tutto molto naïf. Per strada la gente vende pesce appena pescato, e frutti che non ho mai visto, come il mango, la papaya, la carambole, il frutto della passione, l’abricot pays, il corossol, all’epoca sconosciuti in Italia. La Martinica è fatta da piccole stradine, neanche tutte asfaltate, villaggi di case di legno, con le piccole pensioni sparse in tutta l’isola e associate nella petite hôtellerie martiniquaise con annessi ristorantini a conduzione familiare, dove servono piatti della cucina creola e si mangia in modo straordinario, e dove alloggiano i commessi viaggiatori. È un’isola gioiosa. Percorrendo le strade all’interno dell’isola, quando ci si ferma per un semplice acquisto, inizia subito il contatto umano, si chiacchiera, si ride, e come niente si inizia a ballare, a fare musica per strada, a fare festa. Le relazioni umane sono molto più sciolte, più semplici, e ci si fa molti meno problemi. Una notte, mentre ballo con una ragazza in una discoteca all’aperto, un ragazzo si avvicina e si mette a ballare con noi. E io mi innervosisco. Ma lui mi sorride e mi dice di rilassarmi: non siamo mica a Parigi… E poi c’è il Ti’ Punch. In Martinica, appena ci si siede in un qualunque ristorantino, anzitutto si beve Ti’ Punch. Ti fanno scegliere il rum, ovviamente bianco agricole, che inizialmente è sempre a 59% di alcol (poi le gradazioni sono state ridotte per via delle tassazioni). Ti portano quindi la bottiglia sul tavolo, insieme ai piccoli citron vert tagliati in quattro, lo sciroppo di succo di canna, lo zucchero di canna e il ghiaccio. Così ognuno riempie il proprio bicchiere come prefe12


risce, alcuni con lo zucchero altri con lo sciroppo, ma sempre partendo da uno dei due, per poi aggiungere e mescolare il succo del citron vert (che va spremuto prima di versare il rum, altrimenti lo zucchero non si scioglie), per concludere quindi con ghiaccio e rum. Il Ti’ Punch accompagna sempre il finger food che inizia tutti i pasti in Martinica, le acras de morue, simili a frittelle di baccalà, per poi proseguire con gli altri piatti, molte volte continuando a bere Ti’ Punch per tutto il pasto. L’aroma del rum, che sa di canna da zucchero, e il profumo del citron vert si fondono con l’umidità e la temperatura tropicale, diventando un tutt’uno suadente. Quello del Ti’ Punch è una sorta di rito della convivialità, che qui è quotidiano e tipico “da compagnia” un po’ come il bicchiere di vino nella nostra tradizione contadina, e che mi entra subito nel sangue, tanto da essere ancora oggi il mio drink preferito della convivialità. La Saint James, che è già di proprietà dalla Cointreau, ha appena costruito la nuova distilleria a Saint Marie, e ci accoglie in questo primo viaggio, che è anche uno dei primi in Martinica da parte di professionisti alla scoperta del mondo del rum. Ci porta a visitare la distilleria, i luoghi più suggestivi dell’isola, e anche le Grenadines, all’epoca ancora incontaminate. Viaggiamo su un piccolo bimotore. Raggiungiamo l’isola di Union e da lì ci imbarchiamo su un veliero per scoprire questi isolotti e Cays, tra l’isola di Grenada e Saint Vincent. I membri dell’equipaggio si tuffano in mare per pescare con i fucili, e tornano a bordo con pesci di tutti i colori, verdi, rossi, argentati, e lì sul ponte ce li cuociono su un barbecue. Veleggiando, il sole non si sente, 13


il vento rinfresca. È un sogno: pesce appena pescato e Ti’ Punch. Quando ancoriamo davanti all’isola di Petit Saint Vincent, io e Schettini, il nostro agente di Firenze, a bordo di un gommone tender raggiungiamo la spiaggia. L’isola è deserta, un uccellino mi si posa sulla spalla, il mare è di tutti i colori. Addentrandomi nella vegetazione oltre la spiaggia, vedo un bungalow di legno in costruzione, e dei cassoni con la scritta Mr. Robertson. In futuro su quella spiaggia nascerà infatti il famoso resort Petit Saint Vincent, del quale quel bungalow era solo l’inizio. La mia prima vera ciucca di rum la prendo su quel veliero. Sono lì, con il vento, il mare di tutti i colori. Bevo Saint James Paille direttamente dalla bottiglia, appoggiato al ponte, e con la bottiglia mi scalfisco anche un dente, che è ancora oggi scheggiato. Prima di partire, mia madre mi ha regalato un paio di scarpe nuove. Per scendere dal veliero mi rimetto quelle scarpe, ma invece di scendere dalla parte della passerella, scendo da quella opposta e volo in mare. Finisco nel porto di Union, dove c’è una specie di diga, e c’è anche uno squalo martello. Non so come riesco a uscire indenne da questo incidente, però ricordo che poco dopo sto facendo il viaggio di ritorno sul bimotore, nello spazio dei bagagli, quello separato con una rete, con i vestiti ancora bagnati e i postumi di una sbronza micidiale. Dopo questo primo viaggio, ne organizzerò altri tre di seguito, nei tre anni successivi. E in queti tre anni le vendite di Saint James passano da 13.559 a più di 64.000 bottiglie. Poi, nel 1980, il mio amore per i Caraibi mi porta a 14


mettere insieme un gruppo variegato di persone e fare con loro un altro viaggio in Martinica. Oltre al gruppo, con me ci sono anche i miei genitori e mia figlia Alice appena nata. E c’è il mitico agente Calcagno, che era già venuto con me nel primo viaggio, e anche lui si era innamorato dei Caraibi. Io che sono appassionato di cucina fin da ragazzino, vengo definitivamente sedotto dalla cucina creola. Con una madre che è una cuoca eccezionale, già a 18 anni avevo creato un gruppo di otto amici appassionati di cucina (ci chiamavamo “gli amici dell’uva”) che sono rimasti tali per tutta la vita, con cui ci incontravamo a cadenza fissa e preparavamo dei menu a tema. La cucina creola, pur con una declinazione diversa, ricorda un po’ quella del Mediterraneo. È molto raffinata, molto meno piccante di quanto si potrebbe pensare, ma ricca dei profumi delle spezie, delle erbe aromatiche, e basata sul principio della cottura lunga e lenta, nella quale si fa molto uso del pesce secco, una tradizione importata qui dagli schiavi africani, ma che a me ricorda anche la cucina genovese, dove lo stoccafisso ha ovviamente un ruolo importante. Sono diversi i piatti creoli a base di pesce secco, oltre all’acras de morue, ci sono per esempio la feroce de avocat o la brandade de morue. C’è l’utilizzo dei legumi locali, e di erbe e spezie che vanno dal piccolo cipollotto locale che si chiama oignon pays, al timo, al chiodo di garofano, alla cannella, al bois d’Inde, allo zenzero, all’aglio, al citron vert. È una passione che mi fa anche pensare di creare una “Compagnie des Caraibes” con le persone che sono con me in questo nuovo viaggio. Saremmo cioè 15

Il legame con i Caraibi


sette italiani, e faremmo nascere un nostro ristorante nei Caraibi per andare a lavorarci ciascuno un mese all’anno. Immagino una barca che porta il pesce direttamente sulla spiaggia, con grandi barbecue, grandi pentoloni per le zuppe di pesce. Andiamo anche a cercare il posto, troviamo un possibile locale e iniziamo a lavorare a questo progetto, ma il sogno non diventerà realtà. Caffè alla Cantarelli

Intanto, durante questi primi anni di lavoro con il Saint James, un giorno mi chiama il mio agente Oppici di Parma e mi dice, con il suo accento emiliano: «Luca, ma lo sai che Peppino Cantarelli vuol comprare il rum Saint James, per farci il Caffè alla Cantarelli, un suo classico?» Quello di Cantarelli all’epoca è un nome famosissimo nella ristorazione. Vive nel piccolo paesino di Samboseto, frazione di Busseto, in provincia di Parma, nel nulla della campagna emiliana. In questa landa desolata ha una cascina, una piccola drogheria che vende tappi, datteri, carta igienica e sigarette, ma anche i migliori culatelli del mondo. E dietro lo spaccio c’è la trattoria, dove sua moglie Mirella fa una cucina straordinaria. È anzi una delle migliori cuoche al mondo, nota per la faraona alla crema, il soufflé di lingua al forno, il brasato al barolo, la selvaggina e il famosissimo Savarin di riso, che oggi si può ancora mangiare alla Crepa di Isola Dovarese, che ne ha ereditato la ricetta. Cantarelli ha due stelle Michelin. Grandissimo conoscitore di vini, che abbina con questa grande cucina tradizionale, è anche uno dei primi in Italia, insieme a Giaccone, a importare i primi single malt 16


imbottigliati dalle distillerie scozzesi o selezionati dagli indipendent bottlers italiani. La Trattoria di Giuseppe – detto Peppino – Cantarelli e della moglie Mirella è insomma un’istituzione. Ha scritto una pagina importante nella storia della cucina parmense, italiana e internazionale. Per cui io arrivo, ancora ventenne, ed entro in questa sala piena di fumo e di persone che mangiano, parlano e bevono. Non sono ancora abituato a stare a tavola per ore, questa è una delle mie prime esperienze in quella parte bellissima del mio lavoro che comporta il passare momenti di convivialità lavorando. Bevo vini incredibili e mangio piatti straordinari. Con me ci sono il direttore commerciale della Spirit, Giancarlo Borgarello, e l’agente Oppici. E, alla fine del pasto, arriva Cantarelli, che mi dice: «Voglio fare il Caffè alla Cantarelli, il mio caffè con il rum ambré e la foglia d’alloro, usando il Saint James. E voglio comprarne seicento bottiglie». Mi viene quasi un colpo. Seicento bottiglie sono l’ordine più grande nella storia di Saint James, ma è soprattutto venderle a Cantarelli che è di per sé è un sogno. E poi, a quel punto, Peppino Cantarelli mi dà una lezione di arte commerciale che mi resterà per tutta la vita. Prende di tasca il libretto degli assegni e dice: «Caro Gargano, io conosco suo padre da tanti anni. È un uomo veramente eccezionale, ed è un uomo di grande onestà e professionalità. Sicuramente lei sarà onesto come lui», poi firma un assegno e lo stacca. In bianco: «Il prezzo per le seicento bottiglie lo faccia lei», mi dice. 17


È davvero una grande lezione di arte commerciale. Naturalmente io decido di fargli il prezzo più basso possibile, un prezzo addirittura troppo basso. Il prezzo che gli concedo fa perdere all’azienda qualche centinaio di migliaia di lire. Ma che pubblicità! Pochi mesi dopo, creerò il mio primo folderino-collarino per il rum Saint James, la mia prima opera grafica, che è anche una delle prime comunicazioni sulle qualità intrinseche di un prodotto e sul suo modo di utilizzo, dove inserirò anche la ricetta del Caffè alla Cantarelli. Gli anni Ottanta e la pubblicità

Le vendite di Saint James vanno a gonfie vele, ma sono vendite di un rum ambré. Il rum agricole bianco in Italia vende invece poco, perché è percepito come troppo profumato rispetto a quelli più venduti del momento, molto più neutri. È più caro dei rum di melassa ed è considerato troppo “heavy” per essere usato nei cocktail. Mi viene così un’idea che oggi considererei terribile. Convinco la Cointreau, proprietaria del Saint James, a creare un rum più light, meno ricco di tutte le caratteristiche tipiche di un rum agricole e con un prezzo più vantaggioso. Facciamo nascere il Saint James Light, di cui studio io stesso anche il packaging, e cioè ideo per la loro bottiglia tradizionale carré, mai cambiata dal 1885, un’etichetta argentata, con scritta in blu, molto fredda, molto vodka. E questo rum light per qualche anno viene commercializzato, per fortuna senza grande successo. Oggi mi scatenerei contro chi provasse a fare qualcosa del genere. Ma all’inizio degli anni Ottanta sono 18


un giovanissimo direttore marketing di una grande azienda, la Spirit. E proprio questa veste, vengo contattato dall’appena nata Fininvest. A cercarmi è Silvio Berlusconi, un imprenditore all’epoca sconosciuto, fondatore della Publitalia, che è qualcosa di assolutamente nuovo nel panorama nazionale. Il piano di Berlusconi è far nascere nel nostro Paese la televisione commerciale, finanziata dalle aziende con gli spot pubblicitari, invece che dallo Stato, come la Rai. È qualcosa che già esiste in America, mentre in Italia la pubblicità televisiva è solo sulle due reti nazionali. La Spirit, già per avere uno spazio negli anni di Carosello, aveva dovuto aspettare diversi anni. Ma anche dopo la scomparsa di Carosello nel 1977, gli spazi continuavano a essere molto limitati. Il progetto che mi viene proposto da Berlusconi sembra perciò ancora fantascienza, e per questo incontro una certa perplessità all’interno dell’azienda. Nessuno sente che è in arrivo una grande innovazione nel mondo dei media. Ma io intuisco che Berlusconi è un uomo capace di sapere oggi cosa farà il mondo domani, un visionario con le idee chiare. Così vinco le titubanze dei manager più anziani e ho l’ok per investire tutto il budget di Ballantine’s, Cointreau, Unicum e Pernod in questo progetto di pubblicità televisiva. Nel 1981, ogni settimana, vado in via Rovani a Milano, dove in quegli anni si trova la sede della Fininvest. Silvio Berlusconi partecipa a tutte le riunioni, che sono spesso molto lunghe, durante le quali mi 19

Glio incontri con Berlusconi


prende in giro per i miei capelli lunghi, lui che già iniziava a perderli. La sua televisione è solo agli inizi, ma lui sembra sapere quel che fa. Dice: «Credo nel mio mezzo televisivo come credevo nel mio corpo quando avevo vent’anni». All’epoca non ha ancora la diretta. Una sera però mi dice che quella notte intende trasmettere proprio in diretta, per la prima volta e in via eccezionale, e mi propone qualcosa di innovativo, che è anche una scommessa. È l’11 giugno del 1982. A notte fonda, visto il fuso orario, ci sarà l’incontro di pugilato per il titolo mondiale dei pesi massimi tra Larry Holmes e Gerry Cooney, uno dei combattimenti più attesi dei primi anni Ottanta. Ed è questo l’evento che Berlusconi intende trasmettere in diretta, con la telecronaca di Rino Tommasi. La sua proposta è di inserire la pubblicità durante la trasmissione. Chiama la sede di Segrate e mi conferma che la cosa è tecnicamente possibile, nonostante non sia mai stata realizzata prima. Si può fare senza interrompere la visione del match, mi dice, usando un nuovo mezzo che permette di far apparire le marche dei prodotti in sovraimpressione negli intervalli tra un round e l’altro. Per questo spazio pubblicitario chiede venti milioni di lire. Si tratta di una scommessa anche perché ovviamente non possiamo sapere quanto durerà l’incontro, potrebbe finire anche per ko al primo round. E la proposta mi viene fatta alle otto di sera, quindi a poche ore dall’inizio del math. Devo decidere in fretta se accettare il rischio. E io accetto. La nostra pubblicità va in onda, du20


rante questa storica diretta di Canale 5. Fortunatamente l’incontro si conclude al 13° round, con la vittoria di Larry Holmes. In questi mesi di collaborazione con Publitalia è la prima volta che mi trovo a fare trattative con delle persone della mia età, e quindi forse anche per il fatto che, a parità di età, ho più esperienza, riesco a fare sempre degli accordi favorevoli, e conquisto la stima di Berlusconi stesso. E così una notte, uscendo dalla sede di Segrate dopo una delle nostre riunioni fiume, il suo collaboratore Marcello Dell’Utri mi prende sottobraccio e mi dice che Berlusconi mi vorrebbe assumere come direttore marketing della Fininvest. Io rifiuto, per via del mio profondo legame con la Spirit. Però questa proposta inaspettata mi fa riflettere. Realizzo di avere altre possibilità, rispetto a quelle che sto portando avanti. Ho 28 anni, sono già direttore marketing di una grossa azienda, ma soffro un po’ le dimensioni, la burocrazia, la diplomazia. Avverto che negli anni a venire le multinazionali compreranno gli importatori. Voglio costruire qualcosa di mio, fuori dagli schemi tradizionali, indipendente e libero. Penso quindi di iniziare una mia attività. Mi accorgo che, nel mondo del vino, stanno nascendo dei piccoli produttori italiani che, grazie al lavoro di Veronelli, iniziano a crescere. Sento che potrei dedicarmi all’esportazione di questi prodotti. Così creo una società che si chiama Brava Srl. Non sapevo che mio padre, in parallelo, stava lavorando al futuro dei suoi figli, e aveva per questo avviato una trattativa con una piccola società, la Velier, 21

L’acquisto della Velier


per prenderne una quota a mio nome, ma senza informarmi. Quando io, giovane direttore marketing e figlio di mio padre, comunico alla Spirit che mi licenzio, me ne vado per aprire una mia società, con grande sorpresa di tutti. A quel punto mio padre mi rivela quanto stava facendo e mi propone, giacché io sono intenzionato ad andarmene dall’azienda, di entrare alla Velier. Procedo quindi con la Brava e poi, nel 1983, entro come socio di questa azienda con il 33%. La Velier è all’epoca una piccola società. È nata nel 1947, fondata da Casimir Chaix, attaché commerciale del consolato francese a Genova, che durante la guerra aveva aiutato le ditte trasportando, con la sua valigetta diplomatica, documenti e altro in territorio francese, a Nizza. Dopo la guerra, Casimir Chaix aveva creato la Velier sfruttando la rete di conoscenze acquisite nel mondo dell’importazione degli alcolici, e poi l’aveva lasciata a suo figlio Natale, il quale l’aveva portata avanti insieme a un socio, Arturo Lupi, tuttora vivente. La sede iniziale della Velier era in uno “scagno” della mitica darsena del porto di Genova, tra stoccafissi e balle di cotone, con l’ufficio di fianco al piccolissimo magazzino. Rispetto alla Spirit, che fatturava qualcosa come 140 miliardi di lire (circa 70 milioni di euro), la Velier era davvero microscopica. Al mio arrivo faceva circa 400 milioni di lire di fatturato (pari a circa 200 mila euro) dopo 36 anni di attività. Alla fine degli anni Settanta, la Velier si era trasferita in via Garibaldi 12, la via aurea della Repubblica di Genova, una delle più belle strade del mondo, nelle 22


stanze con i soffitti affrescati in cui aveva dormito Napoleone. Quando arrivo io, è in due soli locali, con due soci, due impiegate e un magazziniere, Amleto Mori, che oggi è responsabile vendite della Velier. Non ha ancora un computer, anzi nemmeno una fotocopiatrice, la contabilità è tenuta a mano ed elaborata esternamente da un commercialista. In portafoglio ha lo champagne Billecart Salmon, due spumanti, il Freixenet e il Varichon & Clerc; e poi la Marc de Champagne Goyard; e il Nat King, il Cacao Bensdorp e il the Jackson of Piccadilly. E così io, esperto di computer, di marketing e controllo gestione, all’arrivo in Velier perdo praticamente tutto il mio know-how. Passo dall’azienda numero uno in Italia, importatrice di Ballantine’s, Cointreau, Pommery, Pernod, Unicum, Smirnoff, Beefeater, Jim Beam, a una il cui prodotto numero uno è il Varichon & Clerc, che viene spesso scambiato per un orologio. Trovo la Velier in condizioni critiche anche dal punto di vista gestionale. Non c’è una struttura prezzi, non ci sono budget, target, cataloghi prodotto. La contabilità la tiene un commercialista esterno. Io ho già due figlie e presto nasce la terza, Maria Margaux. Dopo l’orario di lavoro, devo fermarmi in ufficio per farmi un quadro della situazione nell’assenza totale di dati. I primi anni mi richiedono un impegno straordinario, tanto in termini organizzativi quanto in termini di ricerca prodotti. Ma questo non mi spaventa. Ho i capelli lunghi, una faccia da schiaffi, idee controcorrente, non porto la cravatta. E parto in questa avventura da imprenditore. 23


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