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Intervista a Roberto Ferrucci e Tiziano Scarpa - Omaggio a Daniele Del Giudice

Ti perdesti una mattina in volo come ci si perde nella vita, senza rendersi conto che ci si smarrisce, scivolando a poco a poco nel non trovarsi più…

(Daniele Del Giudice)

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VOLAMMO DAVVERO

Intervista a Roberto Ferrucci e Tiziano Scarpa

di Elisabetta Gardin

A novembre torna in libreria per Einaudi Lo stadio di Wimbledon, romanzo d’esordio di Daniele Del Giudice, uscito nel 1983 affascinando da subito Italo Calvino, che fu lo scopritore di questo allora giovane talento, sentendolo forse come una sorta di suo erede.

Del Giudice era stato selezionato ben due volte per il Premio Campiello, la prima nel 1994 e successivamente nel 1997. La scorsa estate Walter Veltroni, presidente della Giuria dei letterati del Campiello, aveva annunciato che il Premio alla Carriera sarebbe stato assegnato proprio allo scrittore romano trapiantato in laguna, rendendo così omaggio a uno dei maggiori protagonisti della scena culturale italiana, come sottolineato nelle sue motivazioni: «Daniele Del Giudice ha scritto libri emozionanti e colti, ha indagato l’universo dei sentimenti umani e quello, solo apparentemente lontano, della tecnica e della meccanica. E il premio, davvero alla carriera, onora con immenso affetto uno dei massimi protagonisti della vita letteraria, culturale, civile del nostro tempo».

Purtroppo questo riconoscimento è giunto troppo tardi. Il 2 settembre, infatti, Daniele Del Giudice ci ha tristemente lasciati. Da molti anni era affetto dal morbo di Alzheimer, che aveva costretto la sua mente al buio e al silenzio; ricoverato in una casa di riposo alla Giudecca, viveva grazie al vitalizio della legge Bacchelli. La malattia non gli ha dunque permesso di cogliere questo ulteriore attestato dell’importanza della sua opera e della stima e dell’affetto che lo circondavano.

I suoi romanzi, contraddistinti da una scrittura raffinata ed estremamente curata, sono percorsi da inquietudini e domande. Con uno sguardo originale ha saputo trasmetterci la sua grande cultura e profondità, ma anche la sua leggerezza, perché era mosso sempre dal dubbio e dalla curiosità, dalla ricerca di vedere oltre la forma. Ormai i nostri giorni sono dominati dalle immagini, ma Del Giudice aveva la consapevolezza che nulla poteva rappresentare l’invisibile che costituisce la realtà quanto la parola, per questo aveva la straordinaria capacità di far aderire le parole alle cose con estrema accuratezza e precisione. È stato senza ombra di dubbio uno dei maggiori scrittori del ‘900 italiano. Da Roma, dove era nato nel 1949, si era trasferito in un primo tempo a Milano, ma poi aveva scelto Venezia come città del cuore, la città in cui vivere, dove era stato tra le altre cose promotore anche del progetto culturale “Fondamenta”, festival letterario con un tratto proprio, originale, ben prima che esplodesse il boom dei festival in ogni dove. Aveva un autentico amore per il volo, la sua grande passione; era infatti pilota d’aereo e infaticabile viaggiatore.

Prima di diventare scrittore aveva iniziato come critico letterario nella redazione di «Paese Sera». Nel 1983 aveva pubblicato Lo stadio di Wimbledon. A questo folgorante esordio narrativo era seguito Atlante occidentale nel 1985, per poi scrivere e pubblicare negli anni successivi lavori come Nel museo di Reims, Orizzonte mobile, In questa luce, Raccolte di racconti, Staccando l’ombra da terra, Mania. I suoi romanzi sono stati tradotti in numerose lingue. Tra i suoi saggi letterari troviamo l’introduzione alle Opere complete di Primo Levi. Nel corso della sua carriera ha ottenuto numerosi e importanti riconoscimenti, fra i quali il Premio Viareggio Opera Prima, il Premio Comisso, il Premio Bergamo, il Premio Bagutta, il Premio Feltrinelli.

Lo scrittore aveva fama di uomo riservato, ma era molto legato agli amici. Raccogliamo il ricordo di due di essi, Roberto Ferrucci e Tiziano Scarpa, per i quali è stato anche un maestro, accomunati dal desiderio di trasmettere l’eredità culturale che questo grande e sfortunato autore ci ha lasciato, desiderosi di contribuire a loro modo a riportarlo al più presto tra i lettori, così come merita.

Chi è stato e che cosa rappresenta per voi Daniele Del Giudice?

Roberto Ferrucci_Non è facile rispondere a questa domanda. Daniele è stato all’inizio un romanzo, per me decisivo, che ho letto nel 1983, che non ho mai smesso di rileggere e che da quando ho iniziato a insegnare scrittura creativa all’Università di Padova, nel 2002, è in bibliografia per l’esame: Lo stadio di Wimbledon. È la più grande risposta alla domanda cruciale che ogni scrittore deve porsi: perché scrivere? Poi, una sera del 1985, l’ho incontrato alla Libreria Don Chisciotte di Mestre. Il libraio Billy Lamarmora me lo presentò. Pioveva e Daniele – abitavo ancora con i miei a Carpenedo – si offrì di accompagnarmi a casa a bordo della sua bellissima Peugeot 304 cabriolet color bronzo. Facemmo un giro lunghissimo. «La muovo poco, ti secca se allunghiamo un po’?», mi disse. Diventammo amici, facemmo altri giri con la Peugeot 304, poi prese il brevetto di pilota e volammo insieme, ma una volta soltanto, perché io, pavido, mica mi fidavo così tanto. Fui vittima dei suoi memorabili scherzi ma, soprattutto, divenne un maestro, suo malgrado, perché a Daniele non piaceva affatto quel ruolo. Leggi questo, mi diceva. E io leggevo. Entravo nella sua biblioteca con curiosità, ero la carta assorbente che tutti siamo stati nei nostri vent’anni. Poi lesse il mio primo manoscritto, Terra rossa, e disse…sì. Se scrivo è grazie a lui.

Tiziano Scarpa_In assoluto, penso che sia fra gli scrittori più importanti che hanno traghettato le esperienze del Novecento nel nuovo secolo, a livello letterario e di pensiero. Ha capito tante cose grazie alla sua scrittura, come per esempio il fatto che la tecnologia si è sostituita alla politica nel decidere i destini generali, mutazione che lui è riuscito a raccontare in maniera vivida, ammaliante, mostrando come tutto questo si amalgama con la vita dei personaggi, di tutti noi. Per me personalmente è stato un esempio artistico, perché i suoi libri mi hanno dimostrato che la letteratura e i romanzi, con la loro ‘tecnologia’ obsoleta – l’alfabeto! –, possono essere all’altezza della nostra epoca incrostata di elettronica e schermi. Ha aperto delle strade, ha spalancato delle porte, e questo è raro. Ci sono scrittori e scrittrici che percorrono sentieri già battuti e altri che ne dissodano di nuovi. Lui è stato uno di questi.

Un vostro ricordo personale.

R.F._Un giorno mi invita a bere qualcosa alle Zattere per parlare della mia tesi, che stavo scrivendo su di lui e Antonio Tabucchi. Arrivo e vedo che non è solo. Accanto a lui c’è proprio Tabucchi. Lo avevo visto solo in foto, ma non potevo sbagliarmi. Gli occhiali tondi, i baffetti. Balbetterò, mi dico, lo so. Daniele agita la mano, io mi avvicino. I saluti, la sedia, Tabucchi sorride e ricominciano a parlare fra loro. L’accento toscano conferma l’identità del suo ospite. Li guardo, aspetto, ma non accade nulla. Il disagio dura a lungo. Dopo secoli, Daniele si gira verso di me: «Come va la tesi?». Continua a non presentarmi a Tabucchi, che intanto mi guarda, perciò rispondo e d’un fiato aggiungo «e sono contento che ci sia qui anche il signor Tabucchi». Fanno una faccia. Poi con un sorriso Daniele dice: «Ma quale Tabucchi, questo è Mario, lavora qui, alle Poste, viene da Grosseto». E aggiunge, guardandolo, che in effetti ho ragione, un po’ a Tabucchi ci assomiglia. «Me lo hanno già detto», gli dà manforte il suo amico. Mormoro delle scuse, mi tiro indietro sulla sedia. E i due, dopo avermi detto figurati – si figuri, mi dice il sosia di Tabucchi – riprendono a parlare fra loro. Non dura a lungo: scoppiano a ridere, a scompisciarsi quasi, e Mario allunga la mano e dice: «Piacere Roberto, sono Antonio Tabucchi». Li ho mandati a quel paese, tutti e due! È stato il mio primo incontro con Tabucchi. Lo hanno reso letterario, tabucchiano, giocandoci impareggiabilmente quei due.

T.S._Ne avrei tanti. Uno è un rammarico: Daniele mi aveva invitato a volare con lui, che era pilota di piccoli aerei; avremmo dovuto decollare dall’Aeroporto del Lido, ma purtroppo nei periodi in cui entrambi eravamo disponibili non siamo riusciti a metterci d’accordo su appuntamenti e date e l’occasione è sfumata. Poi mi ricordo la prima volta che andai ad ascoltarlo presentare un suo libro, facendogli una domanda tra il pubblico. Dopo la fine dell’incontro lui venne da me chiedendomi se scrivevo. Capito? Fu lui ad avvicinarmi! Una persona generosissima. Io avevo ventidue anni, lui trentasei: volle conoscermi e leggere i miei primi racconti. Per me trovare un interlocutore così raffinato fu un dono del destino.

Perché va assolutamente letto?

R.F._Ogni sua riga va letta e riletta, senza se e senza ma.

T.S._Oltre ai motivi a cui ho già accennato nella mia prima risposta, perché le sue storie sono belle, diverse da quelle che si trovano in giro, e in più ti fanno scoprire tante cose sulla scienza, l’architettura, la percezione sensoriale. I suoi personaggi sono delle persone appassionate di conoscenza, si infervorano non solo per l’amore o per i rapporti di potere, come succede ordinariamente nei romanzi, ma soprattutto per il mondo che li circonda, per le attività di cui si occupano. È una narrativa originale, che, oltre ai personaggi, può farti innamorare degli oggetti e delle loro istruzioni per l’uso. E poi la sua scrittura è elegantissima, fluida, senza una sbavatura, senza effettacci pseudopoetici: è come se le parole fossero alla loro massima potenza, nella capacità di farti ‘vedere’ il mondo attraverso l’immaginazione interiore suscitata dalla lettura.

Il suo libro preferito?

R.F._Racconti, romanzi, saggi, interviste, articoli. Tutto!

T.S._Questa è la domanda più difficile! Mi è impossibile scegliere. Diciamo che posso dare qualche consiglio a chi non l’ha ancora letto. I libri più indicati per cominciare a conoscerlo, secondo me, sono Lo stadio di Wimbledon e Staccando l’ombra da terra. Personalmente sono molto affezionato, anche per miei motivi biografici, al primo capitolo di Orizzonte mobile, che in realtà è un racconto conchiuso e che narra la storia di una spedizione notturna di alcuni scienziati nel gelo antartico, fra i pinguini.

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