L'Antenna sul Nuraghe

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Vincenzo Pira L'antenna sul nuraghe ModernitĂ e tradizione tra locale e globale

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In eterno debito con la terra in cui sono nato.

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1. Introduzione Non sono mai riuscito a fare il turista. Ho sempre odiato il lasciare i posti in cui sono vissuto. Mi è sempre piaciuto più il partecipare che il guardare. Sono nato in Sardegna e qui ho passato i primi i vent’anni della mia vita. Il succedersi e ripetersi delle stesse cose, che la natura e il tempo imponevano, mi dava l'impressione di avere già vissuto tutto e quindi, se il paragone non è temerario, come Ulisse, ricercare qualcosa di nuovo da conoscere, altrove, con cui confrontarsi. Non tutto dipende da te; fin dall’inizio tutto ti porta, quasi ti obbliga, ad assumere una identità condivisa. I processi educativi, l’inculturazione, non sono processi democratici. E tutte le cose che ho imparato la lingua, gli esempi, il cibo, la cultura mi riportano in Sardegna. Per tanti anni ho sentito parlare solo in sardo. E questo ho imparato e questo timbro originario non si può cancellare. Mai. Imparare una lingua è imparare a conoscere. A conoscere in un certo modo. A imparare alcune cose e non altre; a legare i nomi ai loro significati. Nella lingua e nel suo modo di comunicare un popolo esprime la propria anima. Il senso del tempo e dei tempi. L’identità e le identità. I racconti, mettere ordine a ciò che si chiama “sas faulas” 1 e le possibili “verità”. Allo stesso tempo ti accompagna sempre la paura di non avere radici. O di perdere quelle che ti hanno lasciato in eredità. 1

Favole, ma anche bugie.

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Diventare apolidi. Questa parola vuol dire che uno non ha diritti di cittadinanza ma viene usata anche per chi ha perso il riferimento di origine, alla propria cultura e comunità. “Allega pacu po non faddire meda” , “Una uca e duas uricas” e “A paraulas macas uricas surdas”2 . Un invito a pensare e agire più che parlare. “I sardi non amano i propri scrittori. Sanamente io credo. Quando si è nati in una terra abbastanza piccola da riuscire a percepire da ogni suo punto il mare che respira, si capisce che i silenzi sono più importanti delle parole” . 3 Mi consolo assumendo quanto propone, invece, lo scrittore Sergio Atzeni : “Questo è il compito che si devono assumere gli scrittori piccoli, gli scrittori grandi creano le grandi metafore, i capolavori; gli scrittori piccoli hanno il compito più modesto di raccontare, così come sono capaci, le persone che hanno conosciuto.” Ancora si racconta a Dorgali di un tale che, tornato dal continente, voleva parlare solo in italiano. I coetanei prima lo prendevano in giro; poi per obbligarlo a parlare in sardo gli mettevano la testa “in s'alabarzu” – la grossa vasca in cui si facevano bere i buoi. 2 3

Chi poco parla, poco sbaglia – Una bocca e due orecchie - Parole stolte, orecchie sorde. Marcello Fois, In Sardegna non c’è il mare, Laterza, 2008, pag. 103 4


Lo sfidavano : - Se non vuoi affogare devi dire : “Icu de Lampadas” 4. Il poverino sputando l’acqua si rifiutava e non accettava l’obbligo di dover parlare in dorgalese, lingua che non parlava con nessuno da anni. Parlare in sardo appartenere a questa terra. Non ho mai avuto la tentazione di abdicare a questo anzi sento un profondo senso di fierezza e orgoglio. Ma non ho sentito neanche l'esigenza di ostentare ciò. Considerando che, come per altre cose in cui credo, la coerenza e l'autenticità nasca dall'essere e non dall'apparire, forzando un'identità artificialmente costruita che finisce per essere caricatura. Mi sono riconosciuto nelle parole di un prete da cui ho imparato tanto, don Lorenzo Milani, che nella sua lettera ai cappellani militari scriveva : “…Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”... Per questo ho deciso a 18 anni di fare l’obiezione di coscienza al servizio militare e fare il servizio internazionale alternativo per alcuni anni e sono rimasto poi per otto anni in Brasile. Ho imparato con questa esperienza a privilegiare i mondo poveri e ad entrare nelle misere case in tanti posti del mondo :

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Fico di giugno 5


“come un "compagno", come un cercatore d'uomini e di umane e dimenticate storie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità e che vuole rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo”.5 Ho conosciuto popoli e persone che hanno perso la libertà. Ho vissuto direttamente con gli indios dell’Amazzonia brasiliana per otto anni. Li stanno continuando ad ammazzare. Ho conosciuto con loro nuove schiavitù, non obbligatoriamente solo fisiche, ma anche di asservimento culturale. Troppi fermenti di modernizzazione indotta, in poco tempo, non sempre positivi. Il processo è sempre lo stesso: si deridono usi e costumi delle culture ritenute inferiori. Si proibisce l'uso della lingua locale imponendo quella degli invasori. Non cambia nulla ma è quanto è avvenuto e avviene anche in Sardegna con il catalano , lo spagnolo prima; con l'italiano e con l'inglese ora. Con la nuova lingua si veicolano anche modelli di vita diversi, si cambia il modo di pensare, di relazionarsi con gli altri, di vestirsi, di essere. Si creano sempre tensioni e problemi. Ma anche nuove opportunità. I processi di modernizzazione non sempre migliorano la civiltà, la qualità della vita delle persone. Diventano oppressione quando si impongono modi di essere non liberamente scelti. Sono stato via per tanti anni, sentendomi cittadino del mondo - ripetevo a me stesso e ad un tratto, ho sentito l’esigenza di ritrovare radici e conoscenze a cui non ho mai dato importanza.

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Ernesto De Martino, “Etnologia e cultura nazionale negli ultimi 10 anni “ in Società, 3, 1953, 318,319 6


Di impossessarmi di una eredità che credo mi appartenga perché costruita da persone che condividono quel marchio incancellabile che è il legame di sangue da cui non ci si può disfare. Sardo e cittadino del mondo. Come coniugare gli aspetti di appartenenza locale con problemi, anche di identità, che non possono che essere affrontati globalmente ? "Uomo, conosci te stesso e conoscerai l'universo e gli Dei", stava scritto sul tempio dell'Oracolo di Delfi e da questo è iniziato il filosofare. Il cercare di dare un senso positivo all'esistenza e al destino degli uomini. Di questo parleremo in queste pagine. (Vincenzo Pira - Dorgali, agosto 2009)

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2. “Sarditudine e Monditudine” Affrontare la sfida che le nostre comunità stanno vivendo di cambiamenti che sono indispensabili nel ventunesimo secolo, ma senza perdere ciò che la nostra storia ci ha insegnato. Chi deve decidere sul nostro futuro?

Lo stato con le sue leggi?

I mezzi di

comunicazione con le loro pubblicità ? Un tempo il fondamento normativo della cultura in Sardegna stava soprattutto nel senso di appartenenza alla famiglia. - “Izzu de chie ses ?”6 - è la prima domanda che ci ritorna in mente, quasi come esercizio di iniziazione per marcare appartenenza. E nel rispondere ci riferiamo più al nome del babbo che alla mamma. Per tanto tempo, hanno contato solo le leggi della famiglia. Solo dopo quelle del paese e dello stato. Queste ultime più imposte che condivise e questo non ci ha facilitato la vita. Anzi... Norme espresse nei proverbi che venivano ripetuti per fondare comportamenti e modi di essere. Forse andrebbero studiati meglio e conosciuti collocandoli nei tempi di oggi, per educare a valori che non scadono, per condizionare anche le nuove regole a fondamenti eterni.7 Oggi, è difficile capire alcuni proverbi che sono facilmente compresi dalle persone di una certa età e che prima erano sulla bocca di tutti. Cambia il tempo e i tempi. 6 7

Di chi sei figlio ? Cfr. Giovanni Spano, Proverbi sardi, 1871 – Ilisso edizioni, 1997 8


I discorsi troppo lunghi, stancano e non servono; bastano poche parole per esprimere un principio, una consuetudine, dei valori, delle verità, frutto di secoli di esperienza e saggezza tramandate nel tempo. Sono modi di dire che rispecchiano sempre la concretezza e la praticità della vita quotidiana della comunità. Appartenere a una famiglia è una sicurezza ma anche un confine ben delimitato. - “Comente narat su dizzu anticu, su sambene no est abba”8 . E per questo tutti abbiamo un “sambenadu” per essere marchiati per sempre dall'appartenenza familiare. Marchio d’origine indelebile. Rivediamo i modelli di vita tradizionale dei nostri avi. Una vita dura, una perenne lotta con gli eventi della natura, una continua ricerca di senso condiviso. Un processo di civilizzazione in cui vale tutto. Dicevano “Bisione punt'avvisu”9, sogni, visioni illuminanti. Quel che veniva comunicato dopo la mezzanotte, “cando peri su sambene est pasau”10, valeva di più. “Donni unu diat contu de ite cade in sa bertula sua” dice il proverbio.

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Il poeta Montanaru descrive con queste parole il suo stato d’animo di fronte a certi cambiamenti : “Po mi narrere omine civile, m'appo leau noa sa cucina, ma s'anima in secretu poverina, pranghet a tie rusticu ochile”.12

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Come recita l'antico detto - Il sangue non è acqua Sogno premonitore Quando anche il sangue ha riposato Ognuno dia conto di ciò che ha nella sua bisaccia.

Per essere riconosciuto come uomo civile/ ho comprato una cucina moderna/ me la mia povera anima in segreto / ti rimpiange rustico focolare."Sono versi di Antioco Casula, poeta, nato a Desulo nel 1878. Ha cominciato a scrivere nell’ultimo Ottocento, e le sue opere vengono pubblicate nei primi anni del Novecento, con lo pseudonimo di Montanaru. Le due prime raccolte di poesie sono “Boghes de

Barbagia” e “Cantigos d’Ennargentu”. La citazione è presa da Michelangelo Pira, “Sardegna tra due lingue, ed. della Torre, 1986, pag. 29 9


3. Matriarcato - Sas Janas - Erano belle le Janas. Vivevano insieme e avevano la loro regina che in una caverna misteriosa veniva rinchiusa per tre giorni per partorire le nuove creature. Amavano bagnarsi nelle fonti e correre nude per i boschi spesso accompagnate da animali, a volte accompagnate da docili cinghiali. Janas che sapevano volare e invitavano a ballare chiunque le potesse vedere. Usciva da i loro occhi una fortissima ma strana luce che sembrava arrivare dal cielo. Vivevano in case scavate nella roccia. Uscivano solo di notte perchĂŠ i raggi del sole rovinavano la loro candida e delicata pelle. Nelle notti senza luna, si spostavano per andare a pregare nei loro templi e dovevano camminare nei campi ricoperti di cardi e di rovi. Per evitare le spine, le Janas diventavano luminose e per questo erano visibili. Sapevano fare ogni tipo di lavoro domestico: tessere splendide stoffe e preparare un pane molto fine e croccante. Avevano telai d'oro e setacci per la farina fatti d'argento. Insegnavano i lavori alle tante ragazze che riuscivano a fare prigioniere di notte. Alcune ragazze riuscivano a scappare e insegnavano alle loro figlie. Per questo le donne sarde sanno filare, tessere, ricamare, fare il pane e tante altre cose. Lo hanno imparato per prime dalle janas. Le janas erano custodi di un immenso tesoro, fatto di oro, perle, diamanti. Per difendere queste ricchezze comandavano le “muscas macheddasâ€?, creature molto brutte con testa di pecora, un occhio solo al centro della fronte, denti aguzzi, ali corte e, sulla coda, un pungiglione velenoso. 10


Le muscas stavano nascoste dentro una cassa, mischiata a tante altre, contenenti il tesoro. Per questo nessuno deve mai aprire la cassa delle Janas, se non vuole guai. E chi le incontra o diventa ricco o muore. Le Janas accompagnavano il loro lavoro con un bellissimo canto: la melodia si spandeva nell'aria e nelle notti silenziose dava conforto ai viandanti solitari. Da loro le nostre donne hanno imparato a cantare e questo aiuta a far dormire i bambini, a far passare il tempo mentre fanno i lavori di casa, quando pregano e anche nelle feste, mentre si balla. In casa, in paese, hanno comandato e deciso di più sempre le donne. A loro è toccato il compito di badare ai figli piccoli, alla gestione dei beni di famiglia, il grano, l'olio, il formaggio. Il comprare, il vendere o il barattare. Si è, a poco a poco, creato un codice per regolamentare l'esistenza. Anche se non è scritto. Si trasmette con l'educazione. I padri con i figli le madri con le figlie. E sono soprattutto le donne che hanno costruito e dato identità al paese. Un matriarcato che per funzionare non ostentava segni di potere ma che prendeva le decisioni più importanti e durature. Persino alcuni elementi della natura hanno la loro mamma : “Sa Mama ‘e sole”. Quando i bambini disubbidiscono ai loro genitori, questa allunga i suoi raggi fino a raggiungere la sua vittima che può muore carbonizzata. “Sa mamma de ocu”, che provoca gli incendi. Janas immagini di Diana, signora delle foreste, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti, protettrice delle donne, cui assicurava parti non dolorosi, e dispensatrice della sovranità. Diana era una giovane vergine abile nella caccia, irascibile quanto vendicativa - era amante della solitudine e nemica dei banchetti; era solita aggirarsi in luoghi isolati. 11


In nome di Amore aveva fatto voto di castità e per questo motivo si mostrava affabile, se non addirittura protettiva, solo verso chi - come le ninfe - prometteva di mantenere la verginità e si affidava a lei. “ Untanas e Crapicas” - Fontane e capezzoli, acqua e latte – sono le fondamenta della vita. Fontane e grembo femminile su cui nasce il processo civilizzatorio dei sardi. Un programma di vita che pretende che per le giovani, nubili, via sia soprattutto il ballo, il canto, la bellezza e i sogni : Bella mia, no andes a messare ca su sole ti leat sa bellesa ca asi mantenes sa finesa, po ti podere, una die, cosuare.13 Recitavano le giovani di Dorgali questo programma, desiderio, di vita : “Commente dia filare ? Donnia die appo unu irviu Su lunis est vagadiu, Ca est prinzipiu de chida Su martis soe cunsumida, Non besto ucone a buca Su mercuris sa crunnuca, Che la isticco in su pazzarzu Su iovia su telarzu, Lu aco andare in bolos 13

Mia bella, non andare a mietere / perché il sole ti toglie la bellezza / e così puoi mantenere la finezza / per poterti un giorno sposare. 12


Chenapura sos ispolos, Ca mi tocat de resone E sapadu mi cumponet, Mamma sos pilos de testa Ca duminica est festa, E deppo andare a ballare. Comente dia filare ?” 14 Ci sarà , poi, tanto tempo, per la assunzione delle responsabilità che comporta il costruirsi una propria famiglia. Don Zuanni, maestro elementare, poeta dorgalese del primo ‘900, ha scritto anche una commedia dal titolo “Zia Bernarda” in cui descrive momenti della vita quotidiana di Dorgali del suo tempo. Diceva zia Bernarda (sposa di Zuanchinu e mamma di Fortunosa) : Son chinbant'annos de vida e trinta battoro de cadena. Appo gosau sos primos annos de sa pizzinnia e connottu s'ifferru dae tando. In sa titta chene pessamentos e zovanedda chin sas alas. Cando m'ammento. A doichi annos mi pariat de olare. Po mene sa chida fit de ses vacadios e de una duminica. A mamma, sa bon'anima, sa crunnuca, s'orzatu e su tappulonzu; a mimi sos ballos, sar visitas, sos divertimentos. Podiat su sole de lampadas brusare sas ispicas, ma chene offendere sa carena mia. Fipi sambene e latte.

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Come posso mettermi a filare ? Ogni giorno una distrazione / il lunedì è vacanza / perché inizio di settimana / il martedì sono consumata / non posso ingoiare neanche un boccone / il mercoledì la conocchia / la nascondo nel pagliaio/ il giovedì il telaio / lo faccio volar via / venerdì la spola / in quanto è mio diritto / e il sabato ci pettina / nostra madre i capelli in testa / perché domenica è festa / e devo andare a ballare. / Come posso filare ?

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Comente lastimao cuddas chi andana a su messonzu...Ischio a ponnere mutos e los cantao: sa oche mia it de anzelu... Ma si m'attressat Zuanchinu. Aia battordich'annos e sette meses cando l'appo isposau. Dae tando in domo paret ch'appat fattu iocu s'inimicu. Menzus m'essere morta chen'aneddu. Non dia esser a cust'edade abbàttia dae tantos pessamentos... 15 Vivere in famiglia. Appartenere a una rete di protezione che nasce con alleanze. La cultura, tutte le culture, nasce dalle relazioni tra le persone. Si fonda soprattutto sulla proibizione, tabù, dell’incesto. La famiglia esiste per allearsi con altre famiglie. Scegliendo il proprio marito o la propria moglie ? Ma come fare ciò ? I consigli e i riferimenti normativi si tramandano, sinteticamente, in Sardegna, attraverso i proverbi : “Nen femmina nen tela a luche de candela”; - “ Nen femmina in festa, ne omine in ballu”; - “Nem caddu in maiu ne femmina in festa” “Emina risulana o est maca o est vana” “Po andare a sa esta donnia mandrona est lestra”.16

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Sono cinquant'anni di vita e trenta quattro di catene. Ho goduto i primi anni della gioventù e conosciuto l'inferno sin da allora. Allattata senza pensieri e giovincella con le ali. Quanti ricordi... A dodici anni mi sembrava di volare. Per me la settimana era di sei giorni di vacanza e una domenica. Alla buona anima di mia madre il compito di filare, fare il pane e rammendare; a me i balli. Le visite e i divertimenti. Poteva il sole di giugno bruciare le spighe senza offendere minimamente il mio corpo. Ero sangue e latte. Come mi facevano pena quelle andavano a mietere... Sapevo comporre le canzoni e le cantavo : la mia voce era come quella di un angelo... Poi mi si attacca Zuanchinu. Avevo quattordici anni e sette mesi quando l'ho sposato. Da allora in casa sembra che vi abiti il demonio. Quanto era meglio che fossi morta senza anello. Non sarei a questa età abbattuta da tante preoccupazioni. 16 “Non sceglier moglie né comprare tela a luce di candela”; “Non si scegli la moglie in una festa né un marito in un ballo” - “ Non scegliere il cavallo nel mese di maggio né la moglie in una festa” - ” Donna che ride troppo è stupida o è di facili costumi”- “Per andare alla festa ogni poltrona è lesta”.

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Non dare troppa importanza alle apparenze superficiali : “Omine bellu non si misurat a pramos” e “Omine bellu durat pacu”.17 È la condizione sociale che gioca a volte un ruolo importante : “Bae chin pares tuos…”18 aspettando e lottando per tempi migliori e più egualitari. Per le possibili mobilità sociali (anche i figli dei pastori possono diventare dottore) e per una società più aperta e democratica. Don Zuanni Mulas pone in bocca di Fortunosa queste parole : “Nè massaiu, né pastore, omare mia, son cosas de ludu e i sa suchida, chi ieo non dia poder asulare. S'amoradu miu s'intrattenet in fainas prus ziviles e, cantu a interessu, mancari no hapat benes hat dinare”. 19 Altri i modelli del padre Zuanchinu : “ Izza nostra diat essere istà in menzus pannos e cuntentesa s'haiat isposau a Bardile Travalla, chi nde moriat istimandela; zovanu onestu, chin zuu e calavrina e duos oros de tanchita; travallante sanu e saviu: haiat fattu sa vortuna sua e de sa domo...”

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Neanche tutte le ragazze erano discendenti delle belle Janas e per consolare a chi toccava qualcuna bruttina : “Muzzere bella, maridu currudu” come anche : “ Alet prus su zeniu chi non sa bellesa”.21

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“Un uomo bello non si misura a palmi” o “Uomo bello, dura poco”. “Vai insieme ai tuoi simili” 19 “ Né contadino né pastore , mia comare, sono cose il fango e la sporcizia che io non sopporto. Lui fa affari più civili e per quanto riguarda gli interessi anche se non ha beni materiali ha molti soldi”. 20 Nostra figlia sarebbe stata meglio e più contenta se avesse sposato Bardile Travalla, che le voleva un bene da morire, giovane onesto, aveva un paio di buoi e la cavalla e due appezzamenti di terreno; lavoratore sano e saggio: avrebbe fatto la sua fortuna e quella della casa...” 21 “Moglie bella, marito cornuto” o “ Vale più la simpatia della bellezza” 18

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E subito le indicazioni ad essere sobrie : “Sa cuchina minore achet sa domo manna” . Aa non esagerare nel voler comandare e deridere o delegittimare il proprio marito : “Cando cumandat sa muzzere, maridu a culu nudu”.22

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“Quando comanda la moglie il marito finisce a culo nudo”.

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4. L’ovile e il paese - sa cussorza23 - “Solu che fera” 24 è un modo di dire ma era anche la vita nell’ovile. Un modo di vivere comune a chi viveva di caccia e pastorizia, obbligato a stare da solo in campagna per mesi. Ma il vivere in solitudine e il paragonarsi agli animali non è una cosa bella. E si ripropone però anche oggi nella vita delle città dove anziani soli aspettano la morte come liberazione. Si è capito, fin dall'inizio che si sopravvive solo in famiglia e che non è bene che l'uomo viva da solo. “Su sartu e su cuile, sa idda e sa domo ”25. Divisione di compiti e responsabilità tra uomini e donne.

Ovile nel territorio di Dorgali – foto di Suschitzky Wolfgang, 1948

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"Sa cussorza" – Vicinato, spazio abitato da persone che entrano in relazione soprattutto in campagna. 24 Solo come una bestia selvaggia 25 La campagna e l'ovile, il paese e la casa. 17


Non è più solo la campagna lo spazio in cui vivere e nasce il paese, dove si costruiscono regole del come vivere. Nella famiglia si fanno le leggi, nel paese si condividono in un confronto di alleanze e contrasti. Per capire che cos'è la vita dell'uomo occorre conoscere e nominare gli elementi della natura: il sole e la luna; la pioggia e la siccità; l'acqua e il fuoco. Il mondo animale e il mondo vegetale non venivano considerati come cose ma proponevano all’uomo un metodo di pensiero. Una visione e interpretazione del mondo. Altro che adoratori di legna e pietre… "L’equilibrio tra natura e cultura era un valore perseguito dalla scuola impropria.26 Un eccesso della prima sulla seconda agrestaiat (faceva l'uomo agreste, intrattabile asociale, animalesco, non cristiano, disumano); un eccesso di cultura produceva un uomo debole, decadente inadatto alla vita dura dei campi dove l'uomo doveva anche rassegnarsi a vivere a lungo “solu che fera” (solo come un animale selvatico). Il rapporto campagna/centro abitato rifletteva a ben guardare gli elementi essenziali del mito di Edipo: il paese era sopra valutazione della cultura, eccesso di mansuetudine, di comodità. di buone maniere, di cottura dei cibi, di ceneri. Chi appunto stava in paese più del necessario era un chisinosu , un addetto alla cenere. Il Viddaresu era uno che si "moriat in sa chisina" (si spegneva vicino alla cenere, al fuoco domestico, dentro la casa). La donna e gli artigiani che popolavano il paese erano natura sottovalutata.

Scuola impropria sono i processi educativi non formali che in casa e in campagna si realizzavano per far diventare i bambini veri uomini e vere donne secondo la propria cultura. 18 26


Gli artigiani erano infatti come Edipo degli impediti, avevano difetti fisici: il fabbro era generalmente zoppo come Vulcano, così anche il calzolaio e il sarto, questi spesso era gobbo; la donna era fisicamente debole per poter affrontare il rigore della natura, aveva in ogni modo i periodi di debolezza, quelli delle gravidanze e delle maternità, in cui aveva bisogno di protezione. Così la cultura si poneva come un effetto del riconoscimento della debolezza dell'uomo nei confronti della natura; la cultura era "una cosa de ‘eminas", una proprietà femminile. Per contro la campagna era natura sopravalutata e dunque sottovalutazione della cultura. Qui l'uomo era sempre sull'orlo della regressione alla condizione ferina, forse era anzi questa regressione, che si interrompeva per qualche giorno con frequenze rade, ogni mese, ogni due mesi. Il rustico era figlio diretto della terra, e dunque ad essa doveva obbedienza. La natura era la sua fonte normativa: egli conosceva poche parole, aveva pochi interlocutori umani, pochi media acquisiti, etc. Comunicava con gli animali, leggeva i loro segni, era capace di punghere sa 'ormina (pungere l'orma, seguire l'orma) di una bestia per chilometri e chilometri ... La natura era tutto, la cultura non aveva spessore. Gli organi sessuali in campagna erano sa natura, la natura appunto, il principio vitale; nel centro abitato erano invece sa irgonza (la vergogna), cioè natura da nascondere, sottovalutata. Gli animali non conoscevano la proibizione dell’incesto, né alcuna qualificazione dei comportamenti sessuali; tutte cose che distinguevano l'uomo dalle bestie appunto, ma che erano sentite come invenzioni del villaggio, anche se il pastore prima di approdare alla campagna aveva fatto in tempo a interiorizzarle; 19


il confronto con il mondo animale privo di quelle leggi era inevitabile, e segnava con forza il distacco della cultura dalla natura. I vecchi appunto avvertivano i ragazzi che la differenza tra l'uomo e gli animali era innanzi tutto da cercare nel diverso comportamento sessuale e mettevano i giovani in guardia dalla mimesi del comportamento sessuale delle bestie. Il ragazzo era esortato continuamente ad imitare molti comportamenti degli animali (correre come il cervo o la lepre, avere lo scatto del cinghiale, la furbizia della volpe che può fingersi morta e non esserlo; avere la forza del bue, la capacità di attenzione del cane e cos' via) con una sola eccezione: non accoppiarsi come gli animali né incestuosamente né omosessualmente. Approfondire l'analisi della scuola impropria della cussorgia, o rustica, significa spingersi sino alla ricerca delle forme più semplici di trasmissione della cultura, in qualche modo procurarsi l’intensa emozione intellettuale e morale di una discesa nelle origini".

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I processi educativi, di socializzazione, o meglio, con un termine antropologico, di inculturazione. Far sì che si diventi un vero uomo, corrispondente al modello ideale che la cultura del posto ti impone. Ogni cultura ha, in relazione al contesto una propria visione sia del mondo sia del come diventare uomini e donne migliori, in quel tempo e in quell’ambiente. In questo senso anche le società in cui non c’erano scuole hanno sviluppato un loro processo educativo specifico tendente a formare il loro “tipo ideale” di uomo. Conoscere e confrontarsi con altri popoli, apprezzare e valorizzare i diversi modi di essere e di vivere. Senza averne paura. 27

Michelangelo Pira, “Rivolta dell’oggetto – Antropologia della Sardegna”, ed. Giuffrè, 1978 pag. 381,383

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“Tanti anni fa, in America, si combatterono varie guerre tra pionieri bianchi e indigeni pellerossa. Dopo una delle tante battaglie, dopo aver firmato un trattato di pace, il rappresentante del governo nazionale chiese ai capi tribù che inviassero alcuni giovani indigeni per studiare nella scuola della città più vicina. I capi rispose rifiutando l’offerta: “Siamo convinti che vogliate il nostro bene e per questo vi ringraziamo. Il saggio riconosce che differenti popoli hanno concezioni diverse delle cose. Speriamo non vi offendiate nel sapere che la vostra idea di educazione non coincide con la nostra”. “Molti dei nostri bravi guerrieri sono stati formati nelle scuole delle vostre città e hanno imparato la vostra scienza. Quando sono rientrati tra noi, erano corridori mediocri, ignoranti della vita della foresta e incapaci di sopportare il freddo e la fame. Non sapevano cacciare i cervi, combattere i nemici, costruire una capanna e parlavano molto male la nostra lingua. Erano, pertanto, completamente inutili. Non servivano né come guerrieri né come cacciatori o consiglieri”. “Siamo grati per la vostra offerta e, nonostante non possiamo accettarla, per dimostrare la nostra gratitudine, vi chiediamo di mandarci alcuni giovani della vostra società, ai quali insegneremo tutto ciò che sappiamo e faremo di loro veri uomini “.

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Come, oggi, la scuola formale, nei suoi diversi livelli (dall’asilo all’università) si pone il problema della elaborazione di cultura e identità condivisa ?

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In Pira Vincenzo, Kanaimé, Ed. Asal, 1986, Roma , pag. 12

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Come si rapporta con gli spazi informali in cui si impara a diventare membri di una comunità ? Oggi con l'epocale processo delle migrazioni le nostre società diventano ogni giorno di più multi etniche, cioè sono composte da persone che provengono da popoli e da culture differenti. Si pone quindi il problema del come convivere tra persone che hanno riferimenti normativi di origine molto diversi tra loro e come coniugare il rispetto dei diritti umani di tutti con comportamenti e leggi fatte per una comunità da secoli omogenea. Che cosa si deve insegnare, oggi, ai sardi per diventare “veri uomini” ? In che lingua ? Come coniugare l’esigenza del “trilinguismo” : il sardo per la comunità, l’italiano come lingua franca per la comunicazione diffusa nel paese / stato e l’inglese per il mondo ? Sono domande a cui non è facile dare risposte definitive. Ma la bellezza del percorso e della sfida sta nel trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza di rafforzare l’identità locale, senza cadere in folclorismo da spettacolo, e rapportarsi con le nuove esigenze che il mondo, diventato “villaggio globale” ci pone. Anche come sardi.

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5. Nuove identità I grandi cambiamenti, nella piccola storia locale dei nostri paesi, sono iniziati con i giovani ritornati dalla diverse guerre in cui sono stati coinvolti.

Soldati sardi

chiamati per andare in Crimea dal Conte Cavour, poi le guerre di indipendenza e le guerre mondiali. Oggi continuano a morire in Iraq o in Afganistan, in nuove guerre di esportazione della nostra democrazia planetaria. Pastori e massai senza terra hanno varcato per la prima volta il mare hanno imparato cose nuove che hanno fatto scuotere la testa ai vecchi rimasti in paese. Tutto cambiava troppo in fretta. Ma sono state la scuola, la radio, la televisione e, oggi, internet gli strumenti e i luoghi più significativi e profondi di tali trasformazioni. Dalla fine della seconda guerra mondiale in tanti abbandonano i vestiti tradizionali e la berrita per indossare panni “ziviles”, alcuni mantengono parti della divisa militare, altri iniziano a portare i gambali, la coppola e i più giovani giacche e persino qualche cravatta. Lo stesso le donne. Le nuove generazioni, dagli anni ‘70, non portano più la tradizionale pettinatura che distingueva, per esempio, la donna di Dorgali da quelle degli altri paesi. "Sos cuccos" sono stati per anni il segno esterno di passaggio da bambina a donna, un rito di iniziazione e vestizione. E come tutti i riti di questo tipo comportava sofferenza e fastidio.

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Oggi le ragazze non sono più educate all'apprezzamento di quella capigliatura e del coprirsi la testa con il velo; ne resta traccia solo nelle donne più anziane e nei momenti in cui le giovani indossano i costumi tradizionali. Cambiamenti avvenuti anche nel modo di vestire, ornarsi e pettinarsi sia degli uomini sia delle donne. I nostri vecchi avevano tutti la barba. Era segno di virilità e di identità. Si diceva "Chie mi tocat sa arva m' est narande currudu" 29 . E come segno di identità e appartenenza era stato proibito dai piemontesi che con un decreto volevano obbligare i sardi a tagliarsi la barba lunga in quanto mascherava la fisionomia della persona rendendola irriconoscibile alle forze dell'ordine. Fino agli anni ‘60 ricordo i tanti vecchi che si ritrovavano nelle scale del mercato e della fontana a provare a resistere, fieri della propria “berrita”, della propria “fraca” della loro barba. Del loro modo di camminare, di gesticolare, tanto diverso da quello degli altri paesi. Ci sarà ancora bisogno di segni identitari del paese, di appartenere a un territorio ? Forse per bisogno, forse per costrizione occulta, stiamo diventando, in negativo, tutti simili. Salvo non avere la pelle nera, non essere zingari o extra comunitari. A tutto c’è un limite! Abbiamo sempre bisogno, per esistere, di qualche nemico o avversario. Meglio trovarlo civilmente tra chi tifa Cagliari e chi tifa Juventus o Inter in un confronto virtuale nei nuovi mezzi di comunicazione ?

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" Chi mi tocca la barba mi sta chiamando cornuto" 24


O come fanno oggi alcuni giovani in Facebook, nuova rete sociale promossa in internet, nei computer, dove si ripropone anche la continua rivalità tra Dorgali e Oliena.30 Forse stanno nascendo nuove appartenenze più globali e non tutte mi convincono. Forse ci pentiremo di aver perso, con troppa facilità e superficialità, l'identità locale e la cercheremo in altri modi. Speriamo di non sbagliare. Per tanti anni i colori, le fogge particolari, il modo di portare i propri abiti e altri indumenti, sono stati l’alimento della fierezza di essere di Dorgali e di conoscere se una uomo o una donna erano di Nuoro, di Bitti, di Baunei, di Orune, di Orgosolo, di Oliena o di Orosei. O continentale. La televisione e gli strumenti di comunicazione della cultura globale dominante impongono nuovi modelli di essere e di vivere. Non è più necessario distinguersi nel vestire dalle persone dei paesi vicini o dai continentali. Ci hanno convinto , e ci siamo convinti, che è ora di accettare nuove comodità sia nel vestire sia nel modo di vivere e di comunicare. Segno di un cambiamento di una nuova epoca che nasce. Porto il nome di mio nonno, una tradizione che finisce, forse,

con la mia

generazione. Forse un filo che si rompe. Continuare a chiamare i figli con il nome dei nonni, Bacchis, Billia, Gavine, Nannai, Manzela - o con nomi nuovi sentiti in televisione o letti nelle riviste - Valentina, Christian, Noemi, Rodolfo ? Oggi si può scegliere come meglio si crede anche se qualcuno, in silenzio, soffre per la mancata considerazione, nell’onorare gli avi perpetuandone i nomi.

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E’ stato costituito un gruppo su Facebook “Quelli che odiano i dorgalesi!!! E si descrive “Qui dentro s'iscrive la gente che odia i rettili dorgalesi...” – Sono soprattutto tifosi di calcio di Oliena a cui si sono iscritti decine di dorgalesi per ribattere.

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Si troveranno altri modi per ricordarli e valorizzarli. “S’onore no est de chie lu rezit, ma de chie lu dade »31 Come porsi il problema dell’identità in perenne trasformazione e del rapporto con le diverse identità simili e completamente altre? La complessità del tema indica diversi filoni da trattare : la storia, parlare di avvenimenti e personaggi significativi per questo tema; la lingua, come elemento fondante della cultura e suo specchio più fedele; i codici e le regole fondanti la famiglia e la comunità. .

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“L’onore non è di chi lo riceve ma di chi lo dà” 26


6. Dio e il diavolo, da pagani a cristiani ? “Deus chi est sapiente e bonu mastru sende unu babbu zustu e imparziale hat dau a tottu dirittu uguale e no hat fattu unu izzu e unu izzastru. No est po nascere in bonu o mal astru si istamus chie ene chie male tuttu dipendet dae sa faccenda de no esser in comune sa sienda”.32 I primi missionari cristiani arrivati al cuore della Sardegna venivano dal nord Africa per cercare di convertire quelli che il loro capo - papa Gregorio I - ha per primo chiamato “barbaricini”, pagani, adoratori di pietre e pezzi di legno.

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Poddiche, Salvatore, “Sa Mondana Commedia”, - “ Dio che è sapiente e buon maestro / essendo un padre giusto e imparziale / ha dato a tutti in modo uguale / e non ha fatto figli e figliastri. / Non è a causa dell’esser nati in buona o cattiva stella / se uno sta bene o male / tutto dipende dalla faccenda / di non essere ben divisa la ricchezza. /

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Riferivano al loro capo mediterraneo Agostino di Ippona : “ancora usano travestimenti, durante le calende di gennaio. Indossano pelli di bestie, altri si adattano sul capo teste di animali, felici ed esultanti se riescono a trasformarsi in forme bestiali, in modo tale da non sembrare più uomini, bevono e resisi somiglianti alle bestie fanno un sacrificio…” - “Hanno strane credenze, usano maschere nere, di pero selvatico, evocano un dio folle che credono porti la pioggia; pregano dicendo – Maimone, Maimone, cheret abba su laore, cheret abba su sicau, siat Maimone laudau” 33 . - Bisogna che capiscano che Maimone non è Dio ma l'incarnazione del Diavolo. Tutto deve cambiare, dicono i nuovi sacerdoti. - “Deum verum nesciunt, ligna et lapides adorant” 34. Credono in un dio che chiamano « Sardus Pater » che invocano per ottenere le piogge. Hanno i loro templi fatti di grandi pietre e i pozzi sacri e difendono l'acqua quasi fosse divinità. - Fanno sacrifici offrendo ai loro dei sia animali, sia, alcune volte, anche giovani vergini che vengono spinte in profondissime « nurre ».35 Lo stesso fanno con i vecchi che non hanno più speranza di vita. Li buttano dentro le nurre.36

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Maimone, Maimone, ha bisogno d'acqua il frumento, ha bisogno d'acqua il terreno secco, sia lodato Maimone. Il termine Maimone deriverebbe dal greco mainomai, sono posseduto, e più in particolare dall'epiteto del Dio Dioniso, Mainoles, il pazzo, il furioso, e viene impiegato, assieme al termine Mamuthone, che presenta la stessa radice, in diversi paesi della Barbagia proprio per indicare le maschere che, rifacendosi al culto dionisiaco, impersonano i seguaci del Dio o il Dio stesso, simbolo di ebbrezza ed estasi. 34 Non conoscono ilo vero Dio ed adorano legni e pietre. San Gregorio papa, Epistulas, IV, 23, maggio 594 35 Nurra – cavità profonda delle montagne sarde.

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Tollerano che alcune donne aiutino i vecchi in fin di vita a favorire, in vari modi, il trapasso all'altra vita. Le chiamano "sas accabadoras". 37 − In certi periodi dell'anno fanno grandi feste che onorano divinità che sembrano somigliare più al diavolo che non al vero Dio. 38 - Uomini e donne che continuano nel tempo ad acconciarsi con pelli e maschere, assumendo forme animalesche, durante alcune feste, nei canti, anche quando nuove situazioni e nuove proposte religiose, nate altrove, vorrebbero che si cambiassero usi e costumi. Ma la testa della gente non è facile da cambiare. E quando le situazioni impongono ciò credenze e convinzioni si nascondono in manifestazioni che usano vestiti nuovi per difendere un antico che non si vuole perdere. Gli antropologi chiamano questo processo "sincretismo ". 39

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Lanternari,V. Preistoria e folclore – Tradizioni etnografiche e religiose della Sardegna, Asfodelo Edizioni, 1984. 37 Accabadoras significa "coloro che portano a fine" 38 La Dea Madre, prima divinità assoluta dei Sardi, identificata con la fertilità – che sembra rappresenti anche la prima religione monoteista al mondo – coincideva anche con il culto del toro: è grande, infatti, la somiglianza del simbolo di quest’ultimo – le corna stilizzate – con l’immagine delle ovaie della donna. Fin dalla notte dei tempi, quindi, il toro è stato considerato sacro per via sia delle sue corna così simili alla forma dell’apparato riproduttore da cui ogni essere umano nasce, sia del suo ruolo di “partner della Madre Terra” nell’arare i campi. 39 Mescolanza, spesso incoerente, di elementi di diverse culture o religioni. Già nelle origini della religione babilonese si possono trovare elementi derivati dalla cultura sumero-accadica. Il primo tentativo organico di integrazione sincretistica può essere fatto risalire a Ciro il Grande. Il suo processo di unificazione politica fu accompagnato da un tentativo di fusione delle divinità dei popoli assoggettati nell'alveo della tradizione religiosa persiana. Anche nelle origini della religione greca componenti religiose elleniche si trovano fuse con elementi pre-greci. Fu comunque l'ellenismo l'epoca classica del sincretismo religioso, in unione a fattori culturali, economici e politici. La cultura tradizionale greca mutò caratteristiche per le forti influenze esterne, in special modo persiane. Venendo a contatto con tradizioni e credenze diverse, la religione greca subì un processo di assimilazione da parte di divinità venerate nell'area mediorientale, avviando in tal modo un processo sincretistico di ampia portata. L'istituzione del culto di Serapide in Egitto, per opera di Tolomeo I, la progressiva infiltrazione di Cibele ed Iside nel pantheon greco, contemporaneamente alla crescita del culto di Dioniso, come nuovo Osiride, l'identificazione di Afrodite con Astarte e quella di Zeus con Amon, sono tra gli elementi di maggior spicco della nuova tendenza.

Anche nella Roma imperiale possono essere trovati elementi tipici del sincretismo religioso nell'incontro della religione romana con le tradizioni orientali, primo fra tutti il Mitraismo. 29


La saggezza del sardo continua a chiedere rispetto per le diverse opinioni. Su tutto. A valorizzare non solo le certezze ma anche i dubbi. “Chentu concas, chentu berritas” 40. Barbari. Questa parola la hanno inventata i greci. Chiamavano così tutti gli altri popoli che parlavano una lingua a loro incomprensibile. “Barbaroi” significa balbuzienti. Hanno chiamato le nostre terre Barbagia e noi barbaricini. Anche se da sempre i sardi hanno avuto una loro lingua. Che hanno usato senza balbettare. Con gli anni è cambiata ma resta sempre un nostro patrimonio che non dobbiamo perdere. Meglio impararne tante. “Medas limbas, meda siessia”. 41 Il papa, i vescovi, i frati avevano esperienza sul come trattare i popoli che loro chiamavano pagani. Senza violenze se non proprio quando è necessario. Facendosi affidare i loro figli che devono essere curati, educati e “istruiti alla vera fede”. - “Lasciate che continuino a fare i loro archi di “proinca”42, lasciate che banchettino e bevano nelle loro feste; il contenuto godimento fisico diventi una più grande e intima gioia dell'anima”. Avevano imparato ciò da Paolo di Tarso, quando, ad Atene, in mezzo all'Areòpago, disse: «Vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d'uomo; 40 41 42

Cento teste, cento diversi copricapo Molte lingue, tanta scienza. Palme e frasche a forma di arco per ingraziarsi il dio della pioggia

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e non è servito dalle mani dell'uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi. Difatti, in lui viviamo, ci muoviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: "Poiché siamo anche sua discendenza". Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall'arte e dall'immaginazione umana. Dio dunque, passando sopra i tempi dell'ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell'uomo ch'egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti».43 I luoghi di culto pagani diventino, quindi, chiese per onorare i santi nel loro giorno di festa; l'acqua pagana diventi fonte del battesimo; il fuoco la luce del Salvatore nostro Zesu Gristu. I preti ci hanno saputo fare . Quando sono arrivati nelle nostre terre hanno portato ospedali, mense, costruito nuove case, chiese. Hanno insegnato che era utile donare alla loro chiesa: “Chie non lu dat a Cristos, lu dat a tristos” 44 Hanno imparato a parlare la nostra lingua. Hanno studiato, hanno capito il modo migliore di convincere i nostri capi antichi. Si sono alleati con loro e ne hanno fatte di tutti i colori. Nel bene e nel male.

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Atti degli Apostoli, 17, 22-34. “ Chi non dà a Cristo lo darà alla desolazione”.

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Hanno insegnato a non diffidare del nuovo: “In nue b’hat istranzu, mancari parzat malu, b’est Deus”45. E soprattutto hanno capito che le prime da convincere dovevano essere le teste delle donne. Le hanno convinte a farsi affidare i figli per mandarli a “scuola”, in “collegio” o in “seminario”. E hanno fatto tutto con calma, non c’era fretta. Avere un prete in famiglia era diventato un importante investimento per il benessere economico dei parenti : «Su preide est su poleddu de domo» come anche “Est menzus Din chi non Don”.

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Ho sentito molte volte raccontare una storia che mi dicono è scritta anche in qualche libro: “ Nelle terre di Ollolai, il capo più potente si chiamava Ospitone. Era pastore. Alto, barbuto, mangiatore di carne, valentissimo cavaliere. Non sapeva né leggere né scrivere. Ospitone e la sua gente, in passato avevano bruciato il convento ai frati, dopo averli coinvolti in un delitto di cui erano innocenti. Di questo si pentì, capendo di aver fatto una cosa sbagliata. Aveva fatto uccidere uomini che non avevano colpa.

45 46

“ Dove c'è uno straniero, anche se sembra malvagio, c'è Dio” “Il prete è l'asino della casa” e anche “ E’ meglio din (Denaro) che non il titolo Don “.

32


I poeti sardi cantano ancora in questo modo : “In Ollolai non cheren a Deus nen prade mannu, nen prade minore, mortu noll’ han su predicadore in sa cappella de Santu Matteu “47 Ospitone, aveva capito che i nuovi arrivati potevano essergli utili. Aveva sentito parlare che nelle terre confinanti, in pianura, si mangiava bene; c'era pane e frutta in abbondanza e perciò permetteva ai suoi uomini di far rapide scorrerie in terre di pianura. Anche da convertito, raccontano che invece di proibire le ruberie, “chiudeva tutti e due gli occhi su quelle imprese o, al meglio, ne chiudeva uno solo”. Ecco la lettera che il papa Gregorio Magno scrisse, in latino, ad Ospitone: “Gregorio ad Ospitone, capo dei Barbaricini. Poiché nessuno della tua gente è Cristiano, per questo so che sei il migliore di tutto il tuo popolo: perché sei Cristiano. Mentre infatti tutti i Barbaricini vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre, tu, per il solo fatto che veneri il vero Dio, hai dimostrato quanto sei superiore a tutti. Ma dovrai mettere in atto la Fede che hai accolto anche con le buone opere e con le parole, e al servizio di Cristo, in cui tu credi; 47

“ Ad Ollolai non voglion Dio / e neanche frati né grandi ne minori / ucciso hanno il predicatore / nella cappella di San Matteo”. Citato in Satta, Antonello, Cronache dal sottosuolo, la Barbagia, Jaca Book, 1991, pag. 15

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dovrai impegnare la tua posizione di preminenza, conducendo a Lui quanti potrai, facendoli battezzare e ammonendoli a prediligere la vita eterna. Se per caso tu stesso non potrai fare ciò perché sei occupato in altro, ti chiedo, salutandoti, di aiutare in tutti i modi gli uomini che abbiamo inviato lì, cioè il mio "fratello" e coepiscopo Felice e il mio "figlio" Ciriaco, servo di Dio consolatore, e di aiutarli nelle loro mansioni, di mostrare la tua devozione nel Signore onnipotente, e Lui stesso sia per te un aiuto nelle buone azioni come tu lo sarai per i servi consolatori in questa buona opera, e tramite loro ti mandiamo veramente la benedizione di San Pietro Apostolo, che ti chiedo di ricevere con buona disposizione d'animo …”48 In poco tempo i cristiani si sentivano pronti a chiedere che gli abitanti venerassero solo e unicamente il vero Dio e abbandonassero, spontaneamente, comportamenti e costumi contrari alla vera fede. Un vescovo divulga un decreto a cui tutti i credenti devono attenersi. E’ dell’anno 940 dell’era cristiana : Decretu : Son proibios ca contrarios a sa dottrina e cussizzos dae su dimoniu. Adorare sos arbores, facher festa in sos litos, ponner dimandas a sos isteddos e a su olu de sos puzones, est proibiu a crere a sas janas a si estire de chervu o de attera bestia in onore de sa mamma manna in sas nottes de luna. Est peccadu a collire erbas pro facher maghias e a las zuccher in trucu intro de sacchitteddos contra a s’ocru malu.49

Gregorio Magno, Epistula ad Hospitonem, Epistula 27, liber IV, Ind. XII – Maii a. 594. Decreto : Sono proibiti perché contrari alla dottrina e consigliati dal Demonio. Adorare gli alberi, far feste nei boschi, porre domande alle stelle e ai voli degli uccelli; è proibito credere alle Janas e vestirsi da cervi o da altre bestie in onore della grande mamma nelle notti di luna. E’ peccato raccogliere erbe per fare magie e mettersele al collo dentro sacchetti contro il malocchio. 34 48

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Non tutti sono diventati cristiani. Anche oggi. Ma tutti battezzano i figli perché credono che sia utile per farli diventare uomini. Pagano per noi è come dire animale, bestia. Il battesimo serve a non essere più come gli animali. E poi in molti, sopratutto le donne, credono che difenda dalle malattie. E hanno paura dell'inferno. Un posto dove si brucia per sempre senza consumarsi. Dei preti si sentono dire cose buone e cose cattive. Alcuni aiutano ma molti erano delinquenti. “ Roba de campana, comente enit, essit, in ora mala”50 "Pappan ostias e caccan diaulos" dicevano alcuni. 51 E cantava un anonimo poeta : “Sedilo, hat fattu a Santu a Costantinu, santu asi b'est issu solu, Arzana achet a Istocchinu, Florinas a Zuanni Tolu e Durgali a Vissente 'Errina. E si non bastaren custos tantos, Orgosolo lo fachet santos tottu cantos”.52

Beni della campana, come arrivano, svaniscono, in malora. Mangiano le ostie e cagano diavoli - Si nutrono di buone intenzioni ma si comportano come un demonio. 52 Sedilo ha santificato a Costantino / un santo così c’è solo lui / Arzana ha fatto santo Stocchino / Florinas , Giovanni Tolu / Dorgali , Vincenzo Berrina / E se questi non vi bastano / Orgosolo li ha fatti santi tutti quanti/ - La satira dei poeti paragona l’imperatore Costantino, personaggio di dubbia santità, a alcuni dei maggiori latitanti sardi del passato. 35 50

51


7. “Chie no hat bistu Cresias adorat sos furros” 53 Fare festa, cantare, mangiare, ballare, far l'amore, non sono comportamenti nuovi. Equilibrare la preghiera e il raccoglimento, la vita austera predicata da alcuni ordini religiosi, con le abitudini pagane originarie dei sardi è una partita sempre aperta e che ha coinvolto sia i religiosi sia i fedeli laici. Dopo le messe e i vespri in onore dei santi si è sempre tollerata la baldoria, la festa civile, il mangiare, bere, ballare... Gomare Saviola Saviola Cantu bor dechet in sinu sa randa Ma sa die chi bor zovio sola Sa ommaria ponimus a banda.54 Cercando, da parte delle autorità religiose e civili di mettere limiti a comportamenti poco coerenti da parte di preti e frati che dimenticavano spesso il rispetto dovuto ai voti solenni che avevano fatto : obbedienza, povertà e castità. Le Chiesette rurali davano rifugio a banditi ricercati dalla giustizia civile. I preti e frati responsabili di tali chiese condividevano e ripartivano tra loro i frutti dei furti di bestiame, la cui carne veniva offerta anche durante le feste campestri.

53

Chi non ha mai visto Chiese, adora i forni. Comare Saviola Saviola / quanto vi sta bene il velo sul seno / ma il giorno che vi incontro da sola / l’esser comare, lo dimentichiamo. 54

36


Il concubinaggio di religiosi con donne del popolo era abbastanza diffuso. Ma si sa i santi sono entità comprensive ed accoglienti che tutto perdonano. “Attu su burdu, a Sant'Antoni” ... - Una volta nato, il figlio di padre sconosciuto, lo si offre a Sant’Antonio. Ma la gerarchia civile e religiosa non può permettere che gli sfugga il controllo dei sudditi. In quegli anni vi è una concorrenza tra diversi paesi per avere il controllo e supremazia degli affari “religiosi”. Tutti

i

paesi

del

circondario

appartenevano alla Diocesi di Galtellì. Dorgali e Oliena, paesi in crescita e di maggior rilievo, si contendevano gli investimenti e la volontà di ospitare la sede episcopale, che fu però, portata a Nuoro. Nel 1760

fu nominato dal Vaticano,

come vicario generale della Diocesi, Monsignor Francesco Cao, scelto per mettere ordine nel clero diocesano. Scelse come propria sede di residenza il paese di Dorgali.

37


“ Al suo arrivo a Dorgali, monsignor Cao, constatate le condizioni del clero locale composto, quasi esclusivamente da persone rotte a tutte le malizie ed infide, si vide costretto a scegliere per suo segretario un laico, anziché un religioso, come sarebbe stato più logico… Il rapporto tra autorità religiose e civili era molto stretto e il sacerdote riferiva al ministro Bogino la situazione nella Diocesi : “ Comunico aver trovato nella mia visita i sacerdoti non solo trascurati nell'adempimento dei loro doveri, senza idea del vero spirito sacerdotale, mancanti di educazione e dei necessari lumi, ma anche scandalosi, occupati interamente in faccende mondane, e giunti all'eccesso di ballare in pubblico coi secolari, i quali perdendo loro il rispetto , né facendo poi caso a quanto potessero sentire dall'altare dalla bocca di quei medesimi che avevano per soci nei disordini, si davano a commettere frequenti delitti senza scrupoli e timore nella divina giustizia.

Il rimanente del popolo, privo di istruzione, del

catechismo e della spiegazione della Santa Dottrina, attaccato alle false devozioni geloso dell'osservanza di continue feste campestri e paesane, nelle quali, per ben figurare, ricorreva a furti e rapine continue...55 Monsignor Cao, sospese a divinis due preti e questi per vendetta lo fecero uccidere a fucilate nella località di Golloi, alla periferia di Dorgali nel 1761. Il ministro Bogino intervenne con al mano pesante.

55

Pisanu, Giuseppe, Dorgali, storia e memoria della comunità, 1340 – 1946, Edizioni della Torre, 1997, pag.52

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Scrisse una lettera mandando arrestare tutti i sospettati; in essa tra l'altro diceva : “ La Diocesi di Galtelly è inquieta e la dita d'Orgally (sic) in cui si commise il delitto, è molto popolata di gente tutta armigera e, ciò che è più grave, il clero indocile, e che, coi mali esempi, fomenta i costumi che vi regnano”. Furono arrestati e condannati tre religiosi coinvolti nell'omicidio di monsignor Cao.

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8. Sant'Antonio e il fuoco Non abbiamo certezze su chi ha portato il fuoco agli uomini. Forse è Omero che diceva che era stato uno che si chiamava Prometeo. Tra noi si racconta che sia stato Sant’Antoni del maialino. “Tanto tempo fa anche la Sardegna era ancora tutta gelata e c’era una sola stagione: l’inverno. Ghiaccio in cielo e ghiaccio in terra, e la vita vi dormiva aspettando che uno la risvegliasse. Venne in mente a Sant’Antoni, di scendere all’inferno con un suo bastone di ferula. Quando bussò alla porta dell’inferno gli aprì il diavolo portinaio. - Vattene con i pari tuoi che per te qui non c’è posto. - Io vengo da parte di Chi comanda cielo e terra, e questo dovrebbe bastarti; in secondo luogo, dato che avrò un’occhiata, ti lascerò subito con tutta questa aria ardente. Tanto per darsi qualche aria d’importanza, il demonio disse indicando la ferula: E il tuo bastone che significato può avere? Che scherzo di legno è che non vale una canna? Sant’Antoni non rispose alla provocazione e vide che nell’inferno c’erano cataste di ginepro che facevano da torce in tanto buio: e a queste egli accostò la sua ferula come a misurare i gradi di calore. Nascose un pezzo di ginepro acceso nella sua ferula e se ne tornò sulla terra. 40


Portò il fuoco agli uomini e in quello stesso momento la terra sorrise, si ridestò dal suo sonno di mille e mille anni, cominciò a germogliare, in poco tempo si popolò d’erbe e d’animali, era la primavera. E anche i sardi, grazie a Sant’Antoni, conoscendo il fuoco cominciarono a mangiare cibo cotto e non più crudo”. Da allora si fa festa a Sant'Antoni, il 17 gennaio. A Dorgali, ancora oggi, si fa il fuoco con il rosmarino. Unico nel mondo.

41


9. Dorgali è in Sardegna Per tanti secoli è stato un territorio che è vissuto nel silenzio. Nei mari vicini succedevano eventi che qualcuno registrava e soltanto lontane eco arrivavano all’interno. Le prime scritte, perché solo la scrittura fa storia duratura, chiamano questo territorio Vìniola. Ma da molto prima ci sono le tracce di gente che ha costruito civiltà nelle terre che oggi sono di Dorgali. I nostri avi più antichi erano uomini e donne arrivati dal mare. Li chiamavano gente “Shardana”, vagavano nel Mediterraneo, nella continua ricerca di qualcosa di migliore. Altre genti erano in Sardegna da più tempo. Forse sono sorte qui. Chissà. Ma alcune genti Shardana hanno trovato asilo prima a Fuili, poi nell'altipiano di Gollei, poi ai piedi del monte Bardia. Cercavano pace e un luogo migliore dell'immensità del mare. Come tanti Ulisse erano, alla fine,

stanchi del solo

navigare. Qui hanno iniziato cambiare vita, a fissare spazi e significati: domos de janas, nurras, tombe dei giganti, nuraghi, pozzi... Caccia e pesca. Poi soprattutto allevamento e agricoltura. E fare cultura: nominare e dare un senso alla loro vita e a quanto vedevano, sentivano, sognavano. E questo è rimasto soprattutto con “sos dizzos” – i proverbi. E anche su questi cerco il senso e il segno di ciò che siamo. Nell’origine del mondo, nel mistero della nascita, nel destino.

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L'uomo prima pescatore, poi cacciatore e allevatore, un poco nomade, col tempo diviso tra i campi e il villaggio. La donna nel villaggio che cura la casa, che mantiene acceso il focolare, che garantisce la continuità della famiglia. I tempi marcati dall'esigenza della sopravvivenza quotidiana e i tempi festivi che danno senso e valore a questa esistenza. Il sacro e il profano. Il bene e il male. Dio e il diavolo. Anche la gente di Dorgali, come in tutto il Mediterraneo, come in tutta la Sardegna, viveva in queste dimensioni. Uomini e donne che afferravano la consapevolezza della propria esistenza in relazione tra loro e la natura che li circonda. E ne cercavano e cercano, da sempre, il senso. Uno spazio finito, in cui costruire esistenza. Che è “Eden” - spazio dei vivi - ma non è “Paradiso”, che apparterrà solo a chi è morto. Avevano scelto le valli ricche d'acqua. Hanno poi messo il monte Bardia a guardia tra loro e il mare, la cui acqua era ed è troppo salata. Sono state le donne che li hanno convinti a rimanere, a costruire vita sulla terra in quanto il mare distrugge, cancella, inghiottisce. Per tanti secoli questo “Eden” cresce senza scossoni in quanto nessun

arrivo, diretto, violento,

esterno impone

trasformazioni non necessarie. Dal loro modo di ridere, di gesticolare, di mimare restano tracce nei nostri muscoli ancora oggi. 43


Un sorriso che rimane quasi sempre nascosto, dominato dagli occhi generalmente profondi e grandi, con iridi solitamente scure. Un sorriso arcaico che sembra avvertire tutti dell'antichità immutata, sebbene nascosta, di una identità che non vuole scomparire, sebbene perseguitata o derisa dagli estranei. Che lo hanno definito con disprezzo “sardonico” 56. Canta e balla la conoscenza e l'imitazione del cosmo. Con le voci "a tenore" e con le “launeddas”.57 Venera gli elementi che gli permettono di vivere. E li ringrazia cantandoli e pregandoli: l'acqua e i pozzi sacri; il legno e il fuoco; il sole e la luna che gli hanno insegnato il senso del tempo; pene, vagina, capezzolo, simboli della procreazione e della continuità della vita. Da venerare erigendo simboli : grandi pietre, dolmen, artefatti, ornamenti, vestiti. Unici, che indicano appartenenza, necessità di identificarsi, distinguersi. Di Dorgali e poi, molto dopo, alla Sardegna. 56

Gli antichi greci conoscevano che vicino alle Colonne d'Ercole c'era l'isola di Sardegna nella quale cresceva una pianta simile al sedano. Dicevano che quanti la assaggiavano venivano colpiti da uno spasmo che li faceva ridere involontariamente, e così morivano. Timeo affermava che là, quando gli uomini diventavano vecchi, venivano offerti in sacrificio a Crono dai loro figli, che ridono e li colpiscono con dei bastoni, spingendoli dal basso verso le sponde con le bocche aperte: per questo motivo dice che è nato il riso sardonico. Altri invece sostengono che quando quei vecchi muoiono, ridono involontariamente guardando la morte disumana che attende anche i loro figli: per questo motivo credono sia nato il detto "riso sardonico". 'Ridere sardonicamente' compare scritto, per la prima volta, in Omero, Odissea, XX, v. 301. 57

Cambosu, Salvatore, Miele Amaro, 1954, Ilisso ried.2004, p.45 : “Agli albori della sua civiltà la Sardegna conosceva le launeddas, strumento simile all’aulós greco, alla dukta russa, allo scitecki cinese, al sur naj persiano, all’otou indiano e all’arghoul egiziano. All’originale e autonoma espressione d’arte architettonica dei nuraghi preistorici e a quella della stessa epoca che riguarda la fusione dei metalli fa riscontro la sua antichissima musica: della stessa età ciclopica se non precedente la statuetta di bronzo la quale rappresenta una deità che suona le launeddas accompagnando o accennando un desiderio di danza. Piccola statuetta, 120 millimetri, di un trenta secoli fa. Il nume impugna lo strumento formato di tre canne convergenti sulle labbra: due di queste canne sono legate e modulate dalla mano sinistra: la prima intona il canto, la seconda lo accompagna; la terza canna, libera, modulata dalla mano destra, accorda un suono grave e perenne”.

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Il confine tra natura e cultura non è mai definito per sempre. La vita degli uomini si confonde con quella degli animali con cui condividono lo spazio e il tempo. Alle volte anche il linguaggio. O meglio è l'uomo che imita il linguaggio della natura, degli animali, del vento, del correre dell'acqua. E lo trasforma, con la sua cultura, in canto, ballo, poesia, bellezza. - All’inizio, le abitazioni dei dorgalesi erano capanne, simili agli ovili, coperte di frasche, tra due torrenti uno che si ricorda come Santu Juanni e l'altro Sa Lepora in un rione chiamato poi “Sa Serra”. In periferia del paese un posto militare in un nuovo rione poi chiamato “Castula”. All'ingresso del villaggio, attraverso “Sa Porta” che da il nome al rione che è poi sorto attorno a quest'uscita. Oltre ai fossati poi si sono costruite mura e dentro e fuori di queste, negli anni, tante chiese.

Dorgali, 1905

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10. “Sa domo est minore ma su coro est mannu”58 . Abbiamo sempre creduto che i forestieri devono essere sempre accolti bene e oggi con il fenomeno epocale delle migrazioni dai mondo poveri il problema si ripropone in termini drammatici : in Italia e in Europa. Anche a Dorgali e in Sardegna si inizia a porre : non passeranno molti anni che vedremo ragazzi dalla pelle nera o con gli occhi a mandorla parlare in sardo. Nuovi cittadini. La Sardegna e il mondo hanno una lunga storia di relazioni. “A tempo degli antichi romani in Sardegna c’era un capo villaggio che si chiamava Amsicora. Non poteva vedere i romani. Per questo si alleò con i cartaginesi di Annibale. Ma il capo dei romani Tito Manlio lo sconfisse in una battaglia che avvenne nel sud della Sardegna. Amsicora avendo saputo della morte del figlio, il giovane Iosto, si uccise sul campo con le vene aperte e con la faccia contro il nemico. Il romano Tito Manlio fece una strage: “Furono uccisi 12 mila sardi e altrettanti cartaginesi, furono fatti prigionieri circa 37.000 uomini e conquistate 27 insegne militari.59 Dopo i romani sono arrivati i turchi. Venivano sempre dal mare. Raccontano che attaccavano i villaggi per rubare cibo e donne. Anche a Dorgali. Per questo, nel Monte Bardia, alla fine della Scala Homines, che da Gurosai porta alla galleria vecchia, c'è un posto di guardia per controllare la discesa verso Gonone 58

La casa è piccola ma il cuore è grande Ho ritrovato questa storia nel libro di Livio, Historiae, XXIII, 40-41 - Dorgali ha intitolato ad Amsicora una delle sue strade, fa angolo con via Eleonora, nel rione Undale. 59

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da dove arrivavano gli invasori turchi. Uno dei più famosi capi dei pirati si chiamava Khaired'In ma tutti lo chiamavano Barbarossa. La tradizione, raccontata fino ad oggi, ricorda una data : la notte del 13 settembre 1792. Quattro grandi barche di turchi sbarcarono nella spiaggia di Gonone. Salirono il monte Bardia verso la Scala Homines per assalire il paese. Mentre salivano il monte, videro un ovile e iniziarono l'assalto. I cani da guardia allertarono i pastori che riuscirono a fuggire. La moglie di uno di essi, giovane e bella, inciampò mentre fuggiva e fu fatta prigioniera. Si chiamava Chiara Sini e il marito Antonio Loi. L'altro pastore, tal Predu Ortale, giovane e agile, corse a Dorgali per dare l'allarme. La fortuna dei dorgalesi fu che il 14 settembre si celebrava la festa dei patroni san Cornelio e Cipriano e quasi tutti gli uomini erano in paese. Vennero richiamati dal suono delle campane e non fu difficile riunire un gruppo di cavalieri armati che si lanciarono all'incontro degli invasori. Questi si accorsero di essere stati scoperti e corsero verso il mare. I dorgalesi si erano organizzati in due gruppi : uno salì la scala Homines e l'altro aggirò la montagna passando per la regione chiamata Littu. I turchi furono presi da due fuochi e si dispersero nella boscaglia. Furono inseguiti e tanti furono uccisi o fatti prigionieri. Anche il loro capo fu catturato e impiccato ad una quercia che i nostri nonni chiamavano “Sa eliche de su Turcu” e che oggi non esiste più. La donna rapita, Chiara Sini, riuscì a fuggire e a tornare sana e salva alla sua famiglia. 60

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Giuseppe Pisanu, Dorgali, storia e memorie della comunità, Ed. della Torre, 1997, pag. 67 - 68 47


11. Tra guerra e pace Molti sardi e molti dorgalesi sono morti in guerra. Altri sono tornati mutilati. Qualcuno è tornato molto cambiato e pensava persino di cambiare il mondo. Giovani pastori - soldati che avevano conosciuto il continente e si vantavano di aver fatto parte della Brigata Sassari; battaglioni 151 e 152. Uomini coraggiosi, abituati al rischio e alla sofferenza. Alcuni temerari e preoccupati di mostrarsi piÚ coraggiosi degli altri. Raccontano le loro "balentias"61. Bevevano acquavite, vino o birra e poi facevano scommesse : Un fiasco di "abbardente" se torno con un austriaco prigioniero. In mezzo agli spari un soldato sardo tornò con due prigionieri e pretendeva due fiaschi di acquavite che gli altri gli negavano. L'accordo era solo per un prigioniero. Per esaltare questo coraggio si cantava : "Orune e Bitti chin zente orgolesa / custos za nde iuchen de pilos in su coro" 62 Per la prima volta, forse, pastori e contadini di diversi paesi si trovavano accomunati da una stessa appartenenza e fieri di venire dalla Sardegna: Si ses italianu faedda in sardu.63 Non volevano "continentali" tra loro. "Bastiamo noi del 151 e 152".

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Atti di coraggio o temerarietĂ . "Orune, Bitti e gente di Orgosolo, loro si che ne hanno di peli nel cuore" Se sei italiano parla in sardo. 48


Peppino Marotta, poeta, pastore e sindacalista di Orgosolo, assassinato il 29 dicembre 2006, scriveva questi versi nel 1970 : “Cussos de sa Brigada Sassaresa, c'han fattu sa guerra europea contan galu s'intrepida impresa de comente ini trattaos in sa trincea chene iscarpas, istires o alimentos mandaos a morrere po una bellicosa idea chene connoschere ene sa resone de inumanos massacros e tradimentos”. 64 Risultano 155 dorgalesi morti nella prima guerra mondiale; 4 nella guerra civile in Spagna; e 42 nella seconda guerra mondiale. Tra questi morti ricordiamo il capitano dell’esercito Mario Cucca, morto in Africa Orientale, nel 1937. Fu decorato medaglia d’oro al valore militare. E Salvatore Fancello, artista di fama nazionale, morto in Albania nel 1941 all’età di 25 anni.

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Quelli della Brigata Sassari / che hanno fatto la guerra europea / ancora raccontano l'intrepida impresa / di come furono trattati in trincea / senza scarpe, vestiti e alimenti / inviati a morire / per una idea bellicosa / senza conoscerne bene la ragione / di tali inumani massacri e tradimenti./ 49


E il pianto delle madri e sorelle e una contestazione che dobbiamo mantenere sempre viva nella nostra memoria : A bois sas medallas, A nois sas ballas, O su izzu miu . A bois sos onores, a nois sos orrores, o su izzu miu. 65 Centinaia i feriti e mutilati segno che le guerre non sono mai la miglior soluzione e ci ha lasciato l’insegnamento da tenere presente per il futuro : “In sa guerra peri chie inchet perdet” 66 . E poi scritto nella costituzione italiana : Articolo 11 : “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali… A futura memoria.

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A voi le medaglie, a noi i proiettili, O figlio mio. A voi gli onori, a noi gli orrori, O figlio mio. “Nella guerra anche chi vince perde” 50


12. Un anarchico di Dorgali A Dorgali, come in tutti i paesi vicini, fino ai primi anni '70, il sindaco, il parroco, il farmacista, l'esattore, il maresciallo, il veterinario, il notaio, il medico, i commercianti, erano sempre del partito del governo. Da sempre, anche se i governi nella storia cambiavano di capo e di colore. La maggior parte della gente pensava a lavorare e a garantire pane e, se possibile, companatico, per la propria famiglia. La politica era un lusso per gli “studiati”. Ma non è mancata l’occasione che, una volta chiamati al voto, i dorgalesi si siano espressi votando contro i candidati filo governativi e scegliendo candidati osteggiati dai proprietari terrieri. Nel 1888 fu fondata a Dorgali la Società Operaia di Mutuo Soccorso, di ispirazione mazziniana e poi radicale. Nel 1896 fu visitata dal parlamentare “garibaldino” Felice Cavallotti che ebbe nel paese, per molto tempo, numerosi seguaci un po' diversi dal resto della popolazione.67 Tra questi figura unica fu Fancello Pasquale “Crodazzu”. Pascale Crodazzu, nasce a Dorgali il 3 novembre 1891. É schedato come "socialista estremista". Di professione muratore, emigra all'estero in cerca di fortuna e lavoro: nel 1921 è in Belgio, poi per qualche periodo si trasferisce in Francia dove, il 26 aprile 1923, è oggetto di un decreto d'espulsione, in seguito al quale poi sarà condannato il 24 novembre 1929 a 15 giorni di carcere per non aver obbedito a tali disposizioni. 67

Cfr. Pisanu, cit. pag. 130 51


Nel 1929 risiede a Bray (Charleroi), dove diffonde il giornale anarchico "Bandiera Nera" (Bruxelles, 17 numeri dall'aprile 1929 al maggio 1931. Espulso del Belgio, vive clandestinamente in Francia, a Brest, dove continua la sua militanza anarchica. E’ sospettato di avere progettato, nel 1934, un attentato contro la barca italiana Artiglio; nella primavera del 1935, a Tolosa, è attivamente ricercato dai servizi segreti italiani. L'anno successivo, dopo le elezioni spagnole di febbraio a cui ha partecipato anche il "Fronte Popolare" e la presa di posizione dei repubblicani spagnoli, si pronuncia senza mezzi termini contro qualsiasi partecipazione dei libertari alle elezioni. Durante la rivoluzione spagnola si sposta frequentemente in Spagna, dove peraltro è presente una cospicua colonia di anarchici sardi, dando il suo contributo alla lotta antifranchista in svariate maniere. A Tolosa è polemico con i comunisti italiani, in particolare con gli stalinisti, da lui considerati quasi più pericolosi dei fascisti stessi. Nel 1941 si hanno notizie della sua presenza in Belgio. Dopo la guerra Pasquale Fancello torna a Dorgali in Sardegna, dove, nel 1947, partecipa attivamente al sostegno dello sciopero dei minatori del carbone del Sulcis-Iglesiente , per questo sarà arrestato insieme ad altri anarchici, tra cui Giuseppe Serra ed i fratelli Montecucco. Come anarchico sardo è stato sempre diffidente verso le autorità e le istituzioni di ogni tipo, specie se provenienti dal “continente”.

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E proclamava una permanente lotta all’ingiustizia e alla difesa degli oppressi : ”Travallae, travallae o poveros de sa viddas po mantennere in sa zittade tantos caddos de istalla. A bois lassan sa pazza e issos pappan solu tricu e pessan sero e manzanu solu a ingrassare”.68 Trasferitosi nella penisola, nel 1950 è condannato dal tribunale di Roma ad otto mesi di prigione per un articolo pubblicato su “Umanità Nova” a favore delle occupazioni delle terre. Le liti e le violenze erano continue. Anche a Dorgali il problema delle terre e dei pascoli provocò momenti drammatici. Uno di questi avvenne nel mese di novembre del 1943 : 500 pastori e contadini occuparono i pascoli di Isalle e Orrule introducendo il loro bestiame. Terre considerate da sempre come comunali furono causa di interminabili vertenze legali e lotte sociali. Per riconoscere “il diritto alla terra a chi la lavora” il 22 di novembre del 1943 alcuni manifestanti occuparono gli uffici municipali e distrussero arredi e documenti. Intervennero i soldati e uno di questi, impaurito, sparò un colpo che colpì un giovane contadino di 28 anni, Leonardo Masuri, che morì la stessa notte nell’ospedale di Nuoro.

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“ Lavorate, lavorate / o poveri villani / per mantenere nella città / tanti cavalli da stalla. / A voi lasciano la paglia / e loro mangiano solo grano / e pensano da mattina a sera / unicamente ad ingrassare.” Scritto di Francesco Mannu “ Su patriottu sardu e sos feudatarios “ del 1794 . 53


Poco tempo dopo il soldato che sparò fu assassinato da ignoti, sotto il portico, tra via Roma e Corso Umberto. Nel 1948 avvenne un fatto unico per l’epoca : Pascale bastonò un prete. Raccontano che mentre passeggiava in corso Umberto, passò il prete che benediceva le case. Conoscendo le idee di Pascale

gli buttò addosso l’acqua santa. Pascale reagì

bastonando il prete e coprendolo di insulti. Nel 1950 fu chiamato a Roma a lavorare nel giornale degli anarchici “Umanità Nuova”. Morì nella capitale il 13 febbraio 1953 ed è sepolto al Cimitero Verano. Nella sua tomba si leggono le seguenti parole : “A Pasquale Fancello Che, dalla natia Sardegna, diede alla causa degli oppressi i tesori della sua fede e del suo animo ribelle”. Foto di Pasquale Fancello

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13. Chiudende “Qualunque proprietario potrà liberamente chiudere di siepe, o di muro, o vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana, o d'abbeveratoio. “ Questa “Legge delle Chiudende” , del 1820, provocò rancori, bisticci, e i pastori, i più colpiti dal provvedimento, si rivoltano. Il 7 maggio 1830 il

Re Carlo Felice di Savoia

fissa le seguenti norme di

applicazione: a) chiunque intenda chiudere terreni di sua proprietà ne farà domanda all'Intendente Provinciale, il quale dovrà. far pubblicare nel comune in cui risiedono i beni da chiudere per invitare a presentare le obiezioni; b) trascorso il termine di 20 giorni senza che vi sia stata opposizione il proprietario può liberamente chiudere il terreno; c) per le opposizioni fatte dal comune, riflettenti la libertà e proprietà dei terreni, è competente l'Intendente Provinciale. Arriva, anche a Dorgali, una lettera del re per meglio promuovere le chiusure delle terre : a) si minacciano gravi pene contro coloro che distruggono le chiusure ; b) si vieta d'introdurre bestiame al pascolo in terreno chiuso, sotto gravi pene, che arrivano perfino alla confisca del bestiame stesso; 55


c) si vieta a coloro che hanno formato le chiusure d'introdurre il loro bestiame nel pubblico pascolo, salvo che a ciò non siano autorizzati dall'Intendente Provinciale, tenendo conto della quantità delle terre e del pascolo rimanente libero al pubblico. Non potevano più vagare liberamente senza alcun ostacolo per tutte le parti, per nutrire le greggi nelle terre che erano diventate di altri; il resto della popolazione che vide incorporate nelle tanche non solo i fiumi, dai quali con la pesca traeva abbondante nutrimento, ma perfino le Vie e le sorgenti, occupate dai singoli e dai comuni. Così l'indignazione popolare raggiunse il culmine e la ribellione si diffonde in ogni paese. Con le chiusure dei pascoli comunali si erano illegittimamente incorporati ruscelli, fonti, abbeveratoi pubblici al fine di cedere in affitto i pascoli a prezzi di molto superiori, nonché la riduzione in miseria di popolazioni di interi comuni. I responsabili delle comunità locali dovettero ricorrere alla questua per pagare le spese degli avvocati nelle cause contro i proprietari e i pastori reagirono violentemente tanto che quasi normalmente gli esattori venivano di solito aggrediti all’uscita dei villaggi. Naturalmente gli abusi e le usurpazioni, facilitati dalla incertezza del titolo di proprietà, dal fatto che era sufficiente avere la possibilità di realizzare la chiusura per divenirne proprietario, rompeva un equilibrio di uso comunale delle terre e danneggiava soprattutto i pastori più poveri.

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14. Nobili e banditi Aumenta dal 1832 il fenomeno della latitanza, unico rimedio rimasto ai pastori rivoltosi colpiti, soprattutto nel nuorese, dalle repressioni militari della monarchia sabauda. Repressioni non solo delle forze dell'ordine ma anche di privati al servizio dei feudatari che non volevano perdere i privilegi del passato. Se a queste condizioni vessatorie verso i pastori si aggiunge l’ impotenza od il pregiudizio dello Stato contro il pastore, si comprende lo scatenamento delle vendette derivate dal farsi giustizia da sé degli esclusi. Intere zone della Sardegna precipitano in una condizione di forzata illegalità. Centinaia di omicidi l'anno, accompagnati da rapine, estorsioni, ricatti, furti ed atti di ferocia di ogni genere. Un tipico reato è la bardana, una vera e propria cavalcata di decine di banditi che convergono su un singolo paese, riducono all'impotenza le scarse forze dell'ordine e saccheggiano una banca, l'ufficio postale o una ricca dimora signorile. Una Carta Reale del 28 maggio 1833 concedeva l'indulto a tutti coloro che avevano commesso atti di violenza, durante le sollevazioni popolari. Detto questo è facile fare la seguente constatazione : che in Sardegna la costituzione della proprietà terriera è stata il frutto di una esasperata usurpazione . E ciò sino a tempi recenti.

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Sempre nella reazione si notano i versetti satirico - sarcastici su questo fenomeno scritti da Melchiorre Murenu, poeta cieco di Macomer, assassinato dai feudatari : “Tancas serrada a muru: fattas a s’afferra afferra si su chelu fit in terra l'haian serradu puru”69 Tempo fa ho sentito raccontare da Josè Saramago, scrittore portoghese, premio Nobel, per la letteratura nel 1998, un fatto che ho pensato fosse successo a Dorgali. Lo racconto come lo ricordo : “Era un giorno di festa. Molti pastori e vignaioli di Dorgali si trovavano nelle proprie case o sbrigando qualche lavoretto nell’orto vicino al paese. All'improvviso, si udì il rintocco della campana della chiesa. Allora le campane suonavano molte volte durante il giorno e proprio per questo non avrebbe dovuto essere tanto strano, ma quella campana suonava malinconicamente a morto e, questo sì era sorprendente, nessuno a Dorgali si trovava in punto di morte. Le donne uscirono per strada, e con loro i bambini, gli uomini abbandonarono lavori faccende e in poco tempo tutti si ritrovarono sulla piazza della chiesa, in attesa di sapere chi dovevano piangere. La campana continuò a suonare ancora per qualche minuto prima di interrompersi.

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Pascoli chiusi con i muri, fatti con le ruberie, se il cielo fosse in terra, avrebbero rinchiuso anche quello. 58


Qualche istante dopo si aprì la porta e nell'ombra apparve un vecchio pastore. Ma non essendo quest'ultimo l'uomo che normalmente suonava la campana, si capisce che i paesani domandassero dove si trovasse “su Iàcanu “70 e chi fosse il morto. "Su Iàcanu non è qui, sono io che ho suonato la campana", fu la risposta del pastore. "Ma, allora, non è morto nessuno?" chiese la gente ed il contadino rispose: "Nessuno che avesse nome e faccia di persona,

ho suonato l’agonia perché è morta la

Giustizia. Che cosa era successo? Era accaduto che un ricco signore (qualche barone senza scrupoli) da molto tempo andava costruendo muri di pietre occupando le terre in cui pascolavano le pecore del vecchi pastore. Il vecchio danneggiato cominciò a protestare e reclamare, poi implorò compassione ed infine si decise a rivolgersi alle autorità e chiedere la protezione della giustizia. Tutto senza risultato alcuno, la sottrazione di terreno continuò. Allora, disperato, decise di annunciare a tutti la morte della Giustizia. Forse state pensando che il suo gesto di esaltata indignazione commosse e fece suonare tutte le campane dell'universo, senza distinzione di razza, credo e tradizioni, che tutti, senza eccezione, si unirono al rintocco della morte della Giustizia fino a che questa non fu resuscitata. Che un tale clamore passò di casa in casa, di città in città, scavalcando le frontiere, lanciando ponti sonori su fiumi e mari, tanto da risvegliare il mondo addormentato. Per ricordare per l’eternità : “Beati coloro che hanno sete e fame di giustizia”.

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Sagrestano 59


15. Il generale La Marmora a Dorgali La via principale di Dorgali, “S'istradone”, è chiamata via La Marmora. Alberto Ferrero La Marmora era un soldato piemontese mandato in Sardegna in una specie di esilio o punizione. Da allora è normale sentire la minaccia “Ti sbatto in Sardegna”, come massima punizione. Ho letto le note scritte da La Marmora e questa è la parte che riguarda il suo arrivo nelle terre di Dorgali. … “Durante un mio soggiorno a Dorgali nel 1836, in compagnia del defunto cavalier Mameli ingegnere minerario dell’Isola, proponemmo agli abitanti così sequestrati di aprire ai piedi della Scala Homines una galleria sotterranea che, secondo i nostri calcoli, non avrebbe dovuto avere più di 70/80 metri di lunghezza; li avrebbe liberati da quello scomodo passaggio e avrebbe dato loro la possibilità di andare in carro a Cala Gonone, cioè fino alla riva del mare che non dista dal paese più di quattro chilometri… Il paese di Dorgali è costruito abbastanza bene e le case sono pulite. È irrigato da una fontana abbondante che esce dal punto di congiunzione della roccia calcarea e del granito che la supporta, ma nel paese ci sono anche altre sorgenti. Gli abitanti sono attivi, laboriosi e intelligenti. Questa popolazione è confinata in un luogo al quale si può arrivare, ma attraverso il quale non si passa; a una mezz’ora di strada fuori dal paese verso sudest ci si trova di colpo di fronte a una tremenda salita detta Scala Homines, che finisce sull’altro versante con una discesa altrettanto ripida. 60


Il sentiero è praticato sui fianchi di un monte che non ha meno di sessanta gradi d’inclinazione per parte; malgrado tutti i suoi giri, questa rampa è adatta solo ai pedoni e addirittura è quasi impraticabile anche per i piccoli cavalli locali. Vi è una sorgente che si è fatta strada attraverso il calcare del Monte Tului. Il monte così chiamato deve in parte la sua forma conica al cedimento dei frammenti angolosi e mobili del calcare bianco di cui si compone la massa solida del cono. Il monte calcareo che domina il villaggio a est è una continuazione della catena di cui fa parte anche la Scala Homines; si chiama Monte Bardia, deformazione della parola “Guardia” dovuta alla sorveglianza che vi si faceva un tempo per paura dei Barbareschi che infestavano il paese. A due ore di strada da Dorgali, verso sudovest, si trova la chiesa di Nostra Signora di Buon Cammino, una specie di santuario dove si celebrano nel corso dell’anno due grandi feste, una in maggio, l’altra in ottobre. Le persone che vi partecipano sono invitate e nutrite lautamente, alla maniera del paese. Vengono uccisi allora una vacca, sei becchi e cinque pecore; è superfluo dire che il pane, il vino e il formaggio vengono distribuiti in proporzione. È da lì che passava molto probabilmente l’antica via romana orientale, che arrivava dal litorale di Fanum Carisii (forse Santa Maria del Mare di Orosei) e dopo aver lasciato Viniola vicino a Dorgali entrava nella gola di Silana. Il dialetto dei dorgalesi differisce sostanzialmente da quello degli altri Sardi, sia per alcuni termini che usano in maniera esclusiva e che sembrano di origine araba, sia per una pronuncia gutturale; è per questo che vengono considerati i discendenti degli antichi Saraceni che dominarono nell’Isola per lungo tempo.

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Bisognerebbe che una persona che conosce la lingua araba o moresca venisse sul posto a studiare la questione dell’origine probabilmente africana di questa popolazione. Aggiungerò che, oltre alle differenze evidenti nel linguaggio, gli abitanti del luogo presentano inoltre un tipo di fisionomia molto particolare… È a Dorgali che mi recai nel maggio del 1823, pochi giorni dopo l’avventura con i banditi, diretto a Cagliari dalla strada di Silana. In quell’occasione chiesi ospitalità al parroco e per caso seppi da lui che tra gli individui che mi avevano assalito nella piana di Isalle, c’erano due suoi nipoti ed egli ne era molto confuso. Siccome l’affare non era più un segreto per nessuno, dovetti a mia volta difendere con il prete la causa di quei suoi parenti. Potei avere allora informazioni precise sugli uomini che componevano la banda e conobbi il nome della persona che mi sembrò più umana degli altri. Ero dunque solo, allorché un gruppo di otto o dieci uomini che affrettavano il passo sulla stessa strada vennero a raggiungermi. Io li avevo visti venire, ma non me ne curavo, pensando che avessero più fretta di me nel fare il cammino, né mi avvidi di ciò che fosse, se non quando un gran colpo di calcio di fucile mi fece traboccare per terra. In un batter d’occhio essi mi saltarono sopra coi fucili, colle sciabole e colle pistole dirette sopra il mio petto; il mio fucile, che ancora tenevo in mano, era scarico; d’altronde essi me lo strapparono dalle mani con forza; non vi era dunque altra cosa da fare che procurare di spiegarsi con questa gente. Intanto che io ero così trattenuto per terra (veramente nella posizione dei vinti rappresentati nei teatri), due di essi corsero presso la mia guida che cercava di mettersi in salvo, e lo ricondussero insieme col mio domestico.

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Nel primo momento fu difficile intenderci; io parlavo e capivo troppo male il sardo; d’altronde il gergo di questi uomini era per me affatto incomprensibile. Tutto quello che potei comprendere non era certo per confortarmi, perché intesi distintamente le parole d’un uomo di viso feroce che minacciando con una lunga sciabola di cavalleria sopra di me diceva: “a li segare sa conca”. Il momento era grave, e sebbene fossi stato sette anni al servizio militare sotto l’impero di Napoleone, e per conseguenza fossi familiarizzato con la morte, l’idea che mi si presentava in questo momento non aveva niente a che fare con quella che si prova e che si affronta nel campo di battaglia. Mi vedevo quasi perduto senza poter vendere cara la vita. Alla fine di più di dieci minuti passati in quella posizione drammatica così poco gradevole per chicchessia (ed essa mi parve molto lunga), io potei rialzarmi, perché la maggior parte dei miei assalitori si erano ritirati qualche passo di là, per parlar tra di loro, e senza dubbio per concertare sulla mia sorte, mentre due di essi continuavano a minacciarmi colle armi al menomo movimento che io avessi fatto. Mi venne allora il pensiero che quelle persone, per risparmiare una carica di polvere e una palla di piombo, mi avrebbero sgozzato come un montone, e pensavo alla morte – della quale avevano parlato i giornali - che il signor

Fualdès aveva

incontrato in questo luogo poco tempo prima. In questi tristi pensieri ebbi un momento d’ilarità. Il mio domestico, che fin allora era tenuto a disparte, poté avvicinarsi a me, e con tono pietoso mi disse: Io l’avevo ben previsto che facendo questa vita ci sarebbe infine accaduto questo!

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Mi rivennero allora le parole che Cervantes mette in bocca di Sancio Pansa a Don Chisciotte, e mio malgrado mi misi talmente a ridere che mi avranno creduto diventato pazzo. Questa ilarità fu però di buon augurio. L’unione che i miei aggressori avevano fatto tra di loro con parole molto animate si sciolse, vennero da me, e con modi più umani mi interrogarono sulla mia professione, sul fine della mia gita in questi luoghi, e mi fecero carico perché io avevo ammazzato loro un porco. Effettivamente avevo visto dei porci che pascolavano in mezzo alle macchie d’oleandro, ma io avevo sparato alle meropi che svolazzavano al disopra, e per conseguenza era impossibile aver potuto ferire un porco, e meno ammazzarlo con pallini minuti. Seppi poi che un ragazzo, guardiano dei porci, avendo inteso i due colpi del mio fucile in mezzo al branco dei porci e credendo avessi sparato ad uno dei suoi quadrupedi, si mise a gridare che gli avevo ammazzato uno dei porci. Non lungi di là si trovava una chiesa rurale, S. Giuseppe d’Isalle, dov’erano riuniti diversi banditi di Dorgali, e alle grida del ragazzo essi montarono sul tetto della chiesa per osservare nella pianura. Io ricordo bene di averli veduti appollaiati sopra il tetto di questa chiesa, ma non me ne presi pensiero; e vedendomi allora solo e lontano dal mio domestico e dalla mia guida, determinarono di piombare in fretta sopra di me. Per ritornare all’accusa di aver ammazzato il porco, io avevo un bel dire, mostrando i due uccelli ancora caldi, come pure i pallini di cui facevo uso; essi però persistevano nell’imputazione, ed io, vedendo che non guadagnavo nulla con le negative, proposi loro di pagare il porco, soggiungendo che credevo non valesse la pena togliere la vita a un uomo per quella di una simile bestia. 64


Essi allora tennero un’altra riunione, e dopo qualche minuto m’ingiunsero d’abbandonare il largo della strada, in cui eravamo stati sin allora, per andare ad un luogo vicino dove le rocce e le macchie facevano ombra. Quello di uscire dalla strada battuta per andare a un sito scartato mi sembrò subito di cattivo augurio; ma uno di questi uomini che aveva l’aria più umana e le maniere più dolci mi prese per la mano e mi disse: non temiate, non vi faremo del male, io rispondo sulla mia vita. Quando fummo arrivati in quel luogo scartato per non essere veduti da nessuno nella strada ordinaria, si rinnovò la questione sopra lo scopo del mio viaggio, e mi ripeterono perché io avevo ammazzato il porco. Io mi guardai d’insistere sulla mia innocenza, e fu convenuto che pagassi il valore dell’animale, fissato in 10 scudi sardi, cioè 50 franchi circa. Debbo qui dire che per una prudenza di cui ho avuto molte volte a lodarmi, ho sempre evitato di mostrare il denaro e gli oggetti di valore, come l’orologio d’oro, alle mie guide, ed in generale ai paesani coi quali dovevo trattare. Perciò tutte le mattine, prima della partenza da un luogo, mettevo nella piccola borsa la somma che potevo spendere nella giornata, riponendo il rimanente del denaro nel sacco che mettevo nella bisaccia del cavallo. Di modo che in quell’istante non ero in grado di sborsare i dieci scudi perché in borsa ne avevo cinque circa; bisognava dunque ricorrere al mio tesoro, cioè al sacco che stava nella bisaccia sopra il cavallo che stava lontano;

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il sacco mi fu condotto dal domestico e poteva contenere ancora circa 300 franchi; ma temevo d’aprirlo temendo che alla vista della somma avessi risvegliato la cupidigia di questa gente che avrebbe terminato di prendermi tutto, ed in seguito di disfarsi d’un accusatore e d’un testimonio. Ma la paura fu mal fondata: io non potevo ancora conoscere bene il carattere generale dei Sardi: aprii il sacco, ne cavai i cinque scudi mancanti, lo rimpiazzai nella bisaccia in presenza di tutti, e nessuno mi disse nulla. Dopo il pagamento del porco restava da fare una formalità, ed era di giurare il segreto di quest’affare, ed ecco come si procedette. Si scavò nella terra colle mani una piccola fossa, come l’interno d’una scodella poco profonda, spezzarono due pezzi di rami, e li collocarono a traverso, uno sopra dell’altro a forma di croce, qui mi fecero inginocchiare e porre la mano destra sopra questo segno, giurando di non svelare ad alcuno quest’affare”. Arrivato a Cagliari, avendo dovuto subire l’interrogatorio dell’autorità giudiziaria che era stata informata del fatto, ritenni di dover segnalare il favore resomi da quell’uomo, e attraverso il viceré ottenni la grazia per il bandito, perché, se il crimine per il quale si era reso latitante prima di quell’avventura era grave per la legge, non era però di natura tale da renderlo indegno d’essere graziato. Il crimine consisteva nell’aver concorso con dei compagni a strappare un parente dalle mani della forza pubblica. Tale era il motivo per il quale si ritrovava bandito dal paese e per cui si era dato, come si dice, “alla macchia”. La grazia ottenuta per quest’uomo ebbe una grande ripercussione nel paese; poté rientrare nel suo villaggio; si sposò e io feci da padrino al figlio…

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L’ultima volta che andai in quel luogo (nel 1847) mi venne incontro fino ad Orosei, dove ero sbarcato. Era accompagnato da una trentina di amici o parenti che mi scortarono fino a Dorgali caracollando lungo il percorso e facendo delle vere fantasias alla moda araba; il nostro ingresso nel paese fu accolto con una vera e propria ovazione. Quest’uomo si chiamava Giovanni Gaspare Pira Taula. Divenne uno dei principali consiglieri del Comune dove morì nel 1858. È così che terminò, con un battesimo e con ovazioni, l’avventura del 1823, che aveva rischiato di essermi fatale e che in questo caso avrebbe interrotto definitivamente i miei lavori e le mie ricerche nell’Isola.” (71)

71

La Marmora, Alberto Ferrero, “Itinerario dell’isola di Sardegna” 67


16. Banditi a Dorgali Con la chiusura delle terre comunali, anche a Dorgali, fin dai primi anni, aumentarono gli omicidi e le violenze. Alcuni pastori furono impiccati nelle vicinanze della chiesetta del Carmelo : Salvatore Mula Congiu, Pietro Antonio Mesina e Biagio Branca.

Dopo

l’impiccagione furono tagliate le teste ed inchiodate sulla forca dove rimasero in vista per un mese intero. I loro busti furono divisi in quattro parti. Questi furono poi esposti nei quattro rioni del paese come minaccia per chi non obbedisse alle leggi.72 Siamo dopo il 1890, il territorio di Dorgali era controllato e governato da Vissente Berrina ricercato come bandito dalla giustizia. Era stato denunciato da un proprietario di terre, Antonio Dore, per un furto di buoi. Per vendicarsi gli sparò colpendolo ad un braccio e lasciandolo monco. Per questo era ricercato dai carabinieri e come latitante iniziò a rubare il bestiame del signor Dore. - «Non conoscevo il numero delle mie greggi, né la estensione dei miei campi» doveva poi dire il Dore: «Ora non ho più niente». Il padre del Berrina, era una volta un pastore molto povero; poi condusse numerose greggi e Berrina riscuoteva il fitto di tutti i campi del Dore.

72

In Pisanu, cit. pag. 82 - 84 68


Ecco la storia di un carabiniere, Lorenzo Gasco, che ha legato la sua vita di soldato a quella del bandito Berrina : “ Sono nato in Piemonte, nel paese di Mondovì, nel 1870. Ho fatto le scuole elementari e dopo il servizio militare ho firmato la ferma di cinque anni nell'Arma dei carabinieri. Dopo un periodo di servizio trascorso in Puglia sono stato in Eritrea. Volevo essere sempre in prima linea, e fui mandato a dirigere la nuova caserma di Dorgali in Sardegna, terra di sanguinari banditi. La prima avventura

è stata la cattura, dopo uno spericolato inseguimento del

pericoloso brigante Giovanni Antonio Fonteddu. Poco tempo dopo abbiamo dato al caccia al bandito Alba da Urzulei. Ma il più pericoloso e difficile bandito era un pastore di Dorgali : Vincenzo Fancello detto Berrina. Costui, insieme con altri due malviventi (Giuseppe Pau e Antonio Mulas), aveva creato un vero e proprio feudo del terrore dove aveva la sfrontatezza di emanare dei bandi. Guai a chi non gli obbediva: poteva perdere il bestiame, rischiare di morire di inedia con la famiglia perché, colpito da ostracismo, tutti l'avrebbero sfuggito come un appestato, o poteva perfino essere atrocemente sgozzato. Anche a me arrivarono misteriosi messaggi di morte, intimazioni a lasciare il paese entro pochi giorni. Ma un carabiniere non teme queste minacce e ho raccolto la sfida mandando a dire al delinquente che ero pronto ad affrontarlo, con o senza armi.

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Berrina faceva spiare i nostri movimenti e aspettava la occasione per attaccarci. In uno dei nostri viaggi di controllo negli ovili avevamo intuito la presenza dei banditi che si spostavano nascondendosi nelle caverne. Ero a cavallo e mi trovai di fronte i fucili spianati dei tre briganti. Con un balzo repentino saltai giù dal cavallo e mi rifugiai dietro un masso: gli spari fecero accorrere il mio compagno di pattuglia, Sassu, ma anche altri due banditi. Per uscire da quella situazione drammatica, mi ricordai di un trucco vecchissimo, ma sempre efficace. Gridai: - Carabinieri corrette e aprite il fuoco a questi maledetti banditi. Berrina, Pau e Mulas caddero nel tranello e si dettero alla fuga. Per noi, poi, fu facile mettere in trappola i due banditi rimasti (un certo Cossu e un certo Larina). Ma il conto che avevo aperto con Berrina non era destinato a rimanere in sospeso. Questo bandito sanguinario osò mettere un suo proclama a stampa il 15 aprile 1897 sulle porte del Municipio di Dorgali che diceva : “Guardate bene, paese di Dorgali. Nessuno voglio di andare a servire a possessione del signore Dore Antonio, nessuno voglio di portare bestiame alla sua pastura, per niente! Guai al servo che entra in case di Dore! Ascoltate queste parole che io vi voglio bene e per questo lo faccio pubblicare. Se avete volontà di passare la vita con piacere: fate il vostro dovere". Mi firmo delegato speciale di campagna. 70


Il bando era scritto in italiano, ad imitazione degli atti ufficiali del governo. Un giorno, a Gonone, il bracciante toscano Cesare Carrari, che aveva vendemmiato in proprietà Dore, si trovava a lavorare in una fornace di calce. Con lui vi erano circa cinquanta operai. Berrina era arrivato a cavallo con i suoi briganti, aveva ordinato agli operai di allontanarsi e si era rivolto al Carrari: «Hai lavorato? Se non ti ha pagato bene Antonio Dore ti pago io». E gli aveva sparato due colpi. Poi, a cavallo, con i suoi briganti, era ripartito tranquillamente. In breve tempo Vincenzo Fancello detto Berrina si era sostituito al Dore nel potere feudale su Dorgali. Il nostro comandante dei carabinieri della regione, Petella, alla fine di una paziente raccolta di informazioni, aveva preparato in gran segreto un'operazione chiamata da un giornalista dell'epoca "la notte di San Bartolomeo": nella notte tra il 14 ed il 15 maggio 1899 decine di persone, latitanti e complici di ogni genere, vennero tirate giù dal letto e ammanettate. L'allarme, fra i banditi, si propagò fin nei più impervi rifugi: bisognava cambiare aria al più presto. Io fui chiamato a formare una squadriglia di carabinieri scelti comandata dal tenente Antonio Jannello e cercavamo i due banditi che tentavano di raggiungere la spiaggia di Cala Luna per imbarcarsi verso il continente. Uno era Vincenzo Fancello Berrina.

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Li aspettavamo appostati nella strada. Quando arrivò, Berrina, riuscì a vedere la nostra ombra; lui stava dietro un albero e, nonostante fosse buio fitto, sparò contro di me sbagliando, però, la mira. Urlando e sghignazzando mi ricordava le lettere, la sfida, il mancato adempimento alla sua ingiunzione di farmi trasferire e mi preannunciò le torture che mi avrebbe inflitto e la morte che mi avrebbe fatto fare. Con un balzo fulmineo mi avvicinai a lui dietro un macigno, ottimo scudo di fortuna; dietro un altro macigno, a poca distanza, stava il carabiniere Sassu, che sentito da lontano il vociare dei briganti e le loro minacce, corse a darmi man forte, gettandosi da cavallo. La sparatoria cominciò intensissima. La nostra speranza era che l'echeggiare delle fucilate valesse a dare l'allarme alla squadriglia che lì vicino scortava il Pretore. Purtroppo nulla avvenne, e noi rischiavamo di essere sopraffatti e massacrati, se all'ultimo momento, quando mi restava un solo caricatore, non mi fosse balenata l'idea disperata di una finta mossa. Ricaricato il moschetto e gridando a squarciagola: "siete arrivati, avanti, per di qua, sono a sinistra..." e balzai dal mio nascondiglio e corsi verso i briganti sparando all'impazzata gli ultimi colpi imitato in ciò dal mio compagno. Afferrai il Berrina e sempre colluttando i nostri corpi rotolarono per un pendio sassoso. Nessuno dei due aveva più armi da fuoco. Il bandito invece aveva con se ancora, e la impugnò, la terribile "leppa", il caratteristico coltello isolano dalla lama larga e sottile, e tentò di usarla; ma io riuscì a bloccarlo e a continuare la lotta sino all'estremo delle forze.

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Ancora una volta la mano armata del Berrina si alzò per il colpo mortale, ma una palla di moschetto gli congelò la mano e il suo corpo restò inerte e finito sotto il pesante gravame di una ventina di mandati di cattura per delitti contro la persona. A sparare era stato il tenente Jannello, sopraggiunto al momento giusto, per salvarmi la vita”. Così Berrina fa notizia nell’ Unione Sarda del 24 maggio 1899 : “Oggi, in regione Littu ( Dorgali) il latitante Fancellu Berrina - Uccise per vendetta mediante fucilate il capraio Gonanu Michele recidendogli poscia la testa . Il Gonanu, il 22 corrente, attendeva ai lavori nella regione Littu e nel preciso sito S’ abba frisca. A poca distanza vi era il suocero che attendeva ad eguali lavori. Vicino è il bosco comunale, luogo adatto agli agguati. Verso le tre, si notò la presenza di una persona armata che mosse verso il Gonanu, col quale scambiava diverse parole che sembra finissero in alterco, per cui il Gonanu venne fatto segno a due fucilate da parte dell’ incognito. Ferito, il Gonanu, si dava alla fuga verso il suocero che, essendo disarmato, non potea apprestare nessuna difesa, inseguito dall’ incognito che faceva segno a diverse stilettate a cagione delle quali stramazzava a terra. Allora, il feritore, con la massima freddezza recideva la testa del Gonanu; praticava un taglio nella guancia passandovi uno spago e appendendola poscia a un ramo di leccio. Compiuta l’ opera si allontanava cantando verso il bosco vicino mettendosi in salvo.

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Dalla perizia medica è risultato che le ferite sebbene mortali non potevano produrre la morte immediata, per cui il taglio della testa avvenne mentre il Gonanu era ancora vivente". Si venne a sapere che il responsabile dell’omicidio fu Vincenzo Fancello detto Berrina . Berrina aveva deciso di allontanarsi dall’ Isola imbarcandosi sul brigantino Astrea che trovasi ancorato nella baia di Luni per caricare del carbone. Compagno del suo viaggio doveva esserci il famigerato Pau di Oliena. Con questo si avviava sulla spiaggia di notte tempo sotto il chiarore lunare. I carabinieri informati trovansi appiattati. Il carabiniere Gasco che era lungo il sentiero detto Sa codula de Gustui, quando il Berrina si apprestò gli sbarrò la strada. Ne seguì un vivo conflitto ma il coraggioso Gasco, esponendo il petto ai proiettili del bandito coraggiosamente si avanzava e il duello sarebbe finito corpo a corpo se il tenente Iannelli ed il maresciallo Rossi non fossero accorsi in suo aiuto freddando il Berrina con due colpi alla tempia quando stava per infilzare con lo stile il Guasco". Così moriva il leggendario bandito dorgalese Vissente Fancello Berrina e come in tante storie simili si mischiano analisi e valutazioni: era un brigante violento e sanguinario come dicono i carabinieri o opprimeva i pastori, come affermano altri ?

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una vittima del sistema feudale che


17. Il bandito Berrina si racconta " Mi chiamo Vissente Berrina, così mi hanno chiamato i miei genitori, i miei amici, i miei parenti. I carabinieri mi hanno rinominato in una altro modo : Vincenzo Fancello nella loro lingua italiana. Sono nato a Dorgali nel 1865 e in queste terre sono sempre vissuto. Mio padre non ha voluto che andassi a scuola dai preti. Aveva bisogno di me in campagna, per badare alle pecore e ai maiali. Sono cresciuto nell'ovile e in paese andavo solo due volte all'anno. A me piaceva la campagna, passavo le giornate, tempo bello o brutto, sempre dietro agli animali. Loro erano la mia miglior compagnia. Mio babbo era stato per tanto tempo servo pastore; ora aveva poche pecore che a mala pena producevano per pagare i pascoli al padrone delle terre, tal Antonio Dore. Siamo vissuti sempre in povertà, ma onesti. Nel rispetto delle regole che ci hanno insegnato i grandi, i nostri nonni. C’ è un detto tra noi che dice : “Chie furat, furat in domo”

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. Andare a rubare

qualche pecora in terre lontane non era da condannare. Non si ruba al vicino, al parente, al paesano. Per questo molti pastori giovani, per dimostrare che ci sanno fare, che vogliono dimostrare la loro “balentia” sono abituati a rubare qualche agnello, qualche vitello, per fare festa. Alle volte si ruba anche perché si ha fame. Noi lavoriamo solo per pagare i pagare i padroni di pascoli e per pagare al governo. E nelle annate cattive, quando non piove, quando si ammalano le bestie, bisogna pagare lo stesso anche se non si ha nulla. 73

“Chi ruba, ruba in casa”.

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Ed è per questo che noi diciamo che “Su amene no hat lezze”.74 Alle volte io protestavo per questo e ai padroni dei pascoli non piaceva e non mi potevano vedere. Mio padre mi diceva sempre di stare attento perché i padroni avevano “sa zustissia” 75 dalla loro parte e non andava bene provocarli. “Chie zuchet sa coa de pazza non s’appresiedet a su ocu”76 mi diceva sempre. E io tentavo di stare alla larga facendomi gli affari miei. Anche se sapevo che loro stavano sempre aspettando il momento per farmela pagare. Un giorno un mio parente mi ha detto che il padrone Antonio Dore mi aveva denunciato ai soldati per un furto dei suoi buoi.

“Limba mala a su ocu”77 mi

hanno insegnato. Io son tornato in paese e l’ho cercato per dirgli che non avevo rubato nulla. Ma lui appena mi ha visto non mi ha lasciato parlare e ha iniziato a insultare me e la mia famiglia: “Maleitu chie t’hat fattu - Sa pesta niedda colet a tottu s’eressia tua” 78. Mi sono arrabbiato tanto e gli ho sparato per spaventarlo. Il colpo lo ha ferito al braccio e io sono scappato per non essere arrestato dai carabinieri. Sono scappato tra i monti dove è più facile nascondersi.

74 75 76 77 78

“La fame non ha legge” Soldati e carabinieri “Chi ha la coda di paglia, non si avvicini al fuoco” “Lingua cattiva al fuoco” “Maledetto che ti ha generato, che passi la peste nera a tutta la tua famiglia” 76


Il 14 maggio del 1899 soldati e carabinieri sono andati di notte nelle case dei miei parenti per arrestarli e per poi convincermi ad arrendermi. 23 persone sono state portate alla prigione di Nuoro, miei fratelli e sorelle, cugini, zii. Poi ho saputo che lo stesso hanno fatto anche in altri paesi a Bitti, Lula, Orune, Oliena. Hanno chiamato questa operazione “Caccia Grossa”79 come se noi fossimo dei cinghiali e loro cani rognosi. Mandarono centinaia di soldati del 67° reggimento per cercarci in ogni buco o cespuglio della campagna e dei monti di Dorgali, Oliena, Orgosolo. Ci disprezzano peggio delle bestie; ci credono delinquenti fin dalla nascita e per questo ci fanno la guerra. E allora guerra sia. Anche noi ricercati ci siamo messi insieme per difenderci e la mia truppa era fatta da settantadue uomini coraggiosi, pronti a tutto, che non avevano niente da perdere. Dicevamo di fare come loro : non avere pietà di nessuno o amici o nemici. Agli amici protezione ai nemici la morte. Per questo ho fatto scrivere un avviso, in italiano, che ho appeso nella porta del Municipio, avvisando tutti i paesani di non lavorare per i nemici. Pena la morte. Lo dico sempre ai miei compagni : “Sa pinna isparat menzus de su fusile” 80 E per dare un avviso che non scherzavo il primo ad essere punito è stato un continentale chiamato Carrari. Questo era una spia dei Dore e prendeva in giro il mio avviso dicendo che non aveva paura di uno come me, che non sapeva neanche scrivere. 79

Questi avvenimenti sono descritti nel libro di un tenente : Bechi, Giulio, Caccia Grossa, Ed. Fratelli Treves, Milano 1914 – Elisso Edizioni, 1997 80 “ La penna spara meglio del fucile”

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L’ho incontrato al tramonto, mentre tornava a cavallo dalle terre del Dore : "Smonta e inginocchiati", gli ho ordinato. E prima gli ho sparato e poi con la leppa gli ho tagliato la testa. Da allora nessuno ha più lavorato per i Dore e tutti hanno riconosciuto la mia autorità di delegato di campagna. Ma i carabinieri hanno maltrattato chiunque fosse sospettato di aiutarci. Di darci cibo, di avvisarci dei movimenti dei soldati, di avvisare le nostre famiglie sui nostri spostamenti. La nostra vita di banditi non è facile : sempre attenti a non esser scoperti, a dormire poco, con cuscino una pietra ruvida per avere il sonno leggero. Andare senza casa da una grotta a un’altra, non vedere i propri parenti, non poter avere una propria famiglia. E con i carabinieri sempre alle costole. Uno in particolare mi aveva provocato di più degli

altri : un piemontese chiamato

Lorenzo

Gasco che aveva giurato di arrestarmi o di uccidermi. Con altri due miei compagni stiamo pensando di cambiare vita, di andarcene all’estero e vivere tranquilli, sposarci, avere dei figli. Per questo abbiamo contattato il padrone di una barca grande che carica carbone. Una delle prossime notti andremo a

Gonone e ci imbarchiamo per il

continente, dove speriamo di poterci rifare una nuova vita e chissà un giorno poter anche ritornare al nostro paese. Quando tutto sarà dimenticato. Nella foto : Vissente Errina

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18. Su Zaravallu : Il tempo e i tempi Che cos'è il tempo ? L'ordinare e regolamentare la realtà passa per questa non facile definizione. Si chiedeva Sant'Agostino : “Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so . Ma se qualcuno me lo chiede non lo so più. 81 Per noi sardi il tempo ha significato leggere e nominare i cambiamenti naturali : giorno e notte, lune, mesi e stagioni dell'anno. Così canta il tempo dei vecchi sardi il poeta Montanaru : “Sos anticos no ischian nè a lezzere nè a iscriere ini sos largos chelos su mannu libru issoro chene velos. Su currere de sas oras ischian in sa notte misurare vigiles ispettande dae mare sas bellas luminosas auroras”.82

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Le Confessioni di Sant'Agostino Antioco Casula – Montanaru - Gli antichi non sapevano né leggere né scrivere / erano gli immensi cieli il loro grande libro senza veli / il correre delle ore sapevano nella notte misurare / vigili aspettando dal mare / le belle e luminose aurore. 79

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E’ stato per molto tempo diffusa, in Sardegna e anche a Dorgali, la lettura del “Il Gran Pescatore di Chiaravalle”. La prima edizione risale al 1701, ed è l’Almanacco più antico d’Europa. Racconta la quotidianità delle stagioni su una strada che ha attraversato oltre tre secoli: con i suoi proverbi, i suoi aforismi, i gustosi aneddoti. Un almanacco contenente informazioni su sagre, fiere, computo ecclesiastico, feste mobili, curiosità varie legate per lo più al mondo della campagna, lune, vini, agricoltura tradizionale e biologica, tariffe varie, astrologia, cabala del lotto e zodiaco. In sardo è diventato prima “Carra Aulas” - Portatore di bugie – e poi “Zaravallu” per indicare gli almanacchi e i calendari. Come il dialogo tra il pastore e il venditore di almanacchi in versione sarda : Su Pastore e su endidore de Zaravallos Endidore : Zaravallos, su Zaravallu de ocannu . A bollu leais su Zaravallu, zi' ? Pastore : Comente narat ca est s'annu nou ? Endidore : Meravillosu, zi', meravillosu. Pastore : Che a s'annu colau ? Endidore : Meda menzus, meda menzus. Pastore : Dae cantos annos b'est custu Zaravallu ? Endidore : Dae prus de trechentos annos. 80


Pastore : E a cale de custos trechentos annos s'assimizat s'annu chi enit ? Endidore : Solu Deus l'ischit. Su cras est in manos suas. Pastore : E sa Cara de Capidanni 83 semper ona est ? Endidore : E', su poveru ingrassat solu in Capidanni, cando su cuffinu es prenu e sas cupas ghissande . Pastore : Peri sos macos ingrassan a Capidanni. Endidore : Su ‘entu de prima die ‘e Capidanni gruvennat tottu s'annu Pastore : A Santu Aine84, dae manzanu a sero in magasinu Endidore : Semena tricu a Santu Aine, si nono moris a su 'ine 'ine Pastore : Santu Aine che leat peri su macheine. Endidore : Dazie cara ca a Santu Aine sas feminas si 'achen un'ateru tittile Pastore : Sas barras in gattile che balla de fusile. E de Sant'Andria85 ite naramus ? Endidore : A Sant'Andria, amenta sos mortos, e su pedicoccone, ma a Santu Martine ti dat cuffortu ca est fattu su 'inu. Pastore : Po sant'Andria binu 'onu chin allegria. Su pedicoccone chest dau - su culu marteddau, postu in sa 'urredda e fattu a chisinedda .

83

Settembre – primo mese dell'anno agricolo Ottobre – dedicato a San Gavino, la cui festa ricorre il 25 del mese 85 Novembre – dedicato a Sant'Andrea la cui festa ricorre il 30 del mese; Si ricordano le anime defunte (2 novembre) e San Martino (11 novembre) giorno in cui ogni mosto è vino. 84

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Endidore : Nadale, naschinde est su Pippieddu chi est amore: precandelu ti sarvat dae dolore. Pastore : Dae Nadale in cudda die, fritu, famene e chene die. Endidore : Nadale annuau tricu assicurau; Nadale assutu , Pasca iffusta. Pastore : E Gennarzu meda frittu e pacu chiarzu ? Ghennarzu proinosu, massaiu priucosu? Endidore : Sa luna de ennarzu, la timet su porcarzu. Frearzu at duas caras, su chi cheres mi naras Pastore : Frearzu faularzu Endidore: A Frearzu, biadu chie ch’at cosa in s’amarzu e campat s’erveghe e campat s’ervecarzu. Pastore : Frearzu traitore. Fachet totu in una die: abba, ‘entu, sole e nie. Endidore : A Martu e Aprile non che morzas su ‘ochile. Su bintiunu de Martu cantu die cantu notte. Pastore : Sas abbas de Martu e de Aprile fachen bene a su cuile. Si proet in Martu e intas in Maju, fachet annada ‘ona po su pastore e po su massaju. Endidore : Martu abbosu, massaju runzosu. Martu sicu, massaju riccu. Tricu ghettau in Martu no lu messas artu Pastore : Tricu 'ettau in Martu non fachet tant'artu ma non miro sa camba, pezzi s'ispica manna e bene ingraia cantu sa conca mia. 82


Endidore : In Aprile abba chin sole, tricu a muntone; Su sole de Aprile ponet sos cherveddos a buddire. Pastore : Aprile nd’at trinta, ma si proet su trintunu, non pranghet nessunu Endidore : In Maju orrian sos poleddos; chie dromit in Maju e arat solu in Austu, non collit nen pane, nen mustu. Pastore : A Maju ischidat su massaju e ispicat tricu, siat bonu, siat mendicu Endidore : S’abba de Maju imbellit su massaju e Lampadas inzallichinat sas ispicas. Pastore : Lampadas, Triulas e Austu, nen feminas, nen mustu. Endidore : Triulas triuladore, meda grassia dat su sennore; Triulas ch’est finiu e su tricu ch’est colliu Pastore : Triulas depidore, Austu pacadore. A pacare…..a Austu! Austu, su mese de sos dolores. Endidore : Chie arat sa ‘inza in Austu, prenat sa cupa de mustu e si proet in Austu, meda orzu e meda mustu. Pastore : Chie s’iffundet in Austu, non biet mustu Endidore : Leaet su Zaravallu e ais a bivere chene irballu. Pastore : Daeminde duos e torra a bidda s'annu c'at a proere fa' e lardu. Imbonora. Endidore : Inue b'hat faularzu, b'hat sempere testimonzu. Deus bo lu paghet.

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Il Pastore e il venditore di Almanacchi Venditore : Almanacchi, l'Almanacco di quest'anno. Signore, volete comprare l'Almanacco? Pastore : Come prevede sia il nuovo anno ? Venditore : Meraviglioso, mio signore, meraviglioso. Pastore : Come l'anno scorso ? Venditore : Molto meglio, molto meglio. Pastore : Da quanti anni esiste questo Almanacco ? Venditore : Da più di trecento anni. Pastore : E a quale di questi ultimi trecento anni assomiglierà l'anno che viene ? Venditore : Solo Dio lo sa. Il domani è nelle sue mani. Pastore : E come si presenta la faccia di Settembre (Capodanno)? Sempre buona ? Venditore : Il povero ingrassa solo a Settembre, quando i cesti sono pieni e le botti tracimano. Pastore : Anche gli stupidi ingrassano solo a Settembre. Venditore : Il vento del primo giorno di Settembre governerà per l'anno intero. Pastore : Ad Ottobre (San Gavino) da mattino a sera in cantina – a fare il vino - . Venditore : Semina il grano ad Ottobre, se non vuoi morire di stenti. 84


Pastore : Vero, Ottobre si porta via anche la stupidità. Venditore : No, state attento che ad Ottobre le donne cercano nuove comodità. Pastore : Che vi caschino tutti denti ai vostri piedi, come fossero proiettili di fucile. E di Novembre (Sant'Andrea) che diciamo ? Venditore : A Novembre, ricordate i morti e i doni a loro dovuti, ma a San Martino (11 di Novembre) vi sia di conforto che ogni mosto è vino. Pastore : Vero. Per Novembre buon vino con allegria. Il dono è già consegnato, il tuo sedere bastonato, messo a cuocere è diventato cenere. Venditore : Dicembre è Natale, nascerà il Bambino che è amore: pregalo e ti salverà da ogni dolore. Pastore : Da Natale ogni giorno freddo, fame e poche speranze. Venditore : Natale nuvoloso, grano assicurato; Natale secco, Pasqua bagnata. Pastore : E Gennaio? Molto freddo e poco pane? Come anche Gennaio piovoso, contadino pidocchioso? Venditore

:

La

luna

di

Gennaio la teme il padrone del porcile; ma il prossimo anno Gennaio sarà secco e il contadino

ricco.

Febbraio

avrà due facce, e su questo potrai dire ciò che pare. Dorgali via Ponte de Melone tra via Roma 85 e Corso Umberto - 1948


Pastore : Febbraio è bugiardo. Venditore: A Febbraio, sarà contento chi ha qualcosa nell'armadio; camperà sia la pecora sia il pecoraio. Pastore : Febbraio è traditore nello stesso giorno pioggia, vento, sole e neve. Venditore : A Marzo e ad Aprile non spegnere il fuoco. Il 21 di Marzo giorno e notte sono uguali. Pastore : Le piogge di Marzo e di Aprile fanno bene all'ovile. Se piove a Marzo ed anche a maggio, annata buona per il pastore e per il granaio. Venditore : Marzo piovoso, contadino rognoso. Marzo secco, contadino ricco. Grano seminato a Marzo non lo raccoglierai molto alto. Pastore : Grano seminato a Marzo non diventa molto alto, ma io non guardo lo stelo ma la spiga che sia grande e pesante come la testa mia. Venditore : Ad Aprile pioggia e sole, grano in abbondanza. Il sole d' Aprile mette i cervelli a bollire. Pastore : Trenta giorni ha Aprile, ma se piove il trentuno non piange nessuno. Venditore : A Maggio ragliano gli asini; chi dorme a Maggio e ara solo ad Agosto, non coglie né pane né mosto. Pastore : A Maggio si sveglia il contadino e trebbia il grano sia buono sia mezzano. Venditore : La pioggia di Maggio abbellisce il contadino e a Giugno ingialliscono le spighe. 86


Pastore : Lampadas è Giugno, Triulas è Luglio e Austu è Agosto, senza donne e senza mosto. Venditore : Luglio trebbiatore tante grazie a nostro Signore; Luglio è già passato de il grano abbiam trebbiato. Pastore : A Luglio si deve, ad Agosto si paga. Il pagare solo ad Agosto, mese dei dolori. Venditore : Chi ara la vigna ad Agosto riempie la botto di mosto e se piove ad Agosto tanto orzo e tanto mosto. Pastore : Chi si bagna ad Agosto non berrà il mosto. Venditore : Comprate l'Almanacco e vivrete senza sbaglio. Pastore : Datemene due e ripassate in paese l'anno che pioverà fave con lardo. Venditore : Dove c'è il bugiardo appare subito un testimone. Dio vi ricompensi.

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19. Monditudine e i suoi problemi Nelle prossime pagine affronteremo alcuni temi più globali. Riguardano la vita del pianeta e la sua necessità di buon governo. Entrano a far parte della riflessione degli enti locali (Regione, province, comuni) anche in Sardegna. Riguardano le finalità di centinaia di associazioni, sindacati, ONG che se ne occupano anche nelle nostre terre. Per continuare una riflessione e per coniugarla con la creazione di una nuova identità, allo stesso tempo locale e globale, spero possano essere utili a chi ne fosse interessato. Obiettivi di sviluppo del Millennio : Siamo ancora in tempo ? Nel settembre del 2000, con l’approvazione unanime della Dichiarazione del Millennio 189 Capi di Stato e di Governo hanno sottoscritto un patto globale, un global deal, tra paesi ricchi e paesi poveri. Questo patto riconosce che, se si vuole sradicare la povertà e la malnutrizione, se si vogliono arrestare epidemie e virus come l’AIDS, se si vuole garantire istruzione, sanità e acqua potabile per tutti; c’e’ bisogno dell’impegno congiunto di tutti i paesi: dei paesi poveri e soprattutto di quelli ricchi. Dalla Dichiarazione del Millennio sono stati estrapolati otto obiettivi (Millenniun Development Goals – MDGs) che individuano un percorso verso un mondo più giusto, più sicuro e sostenibile entro il 2015. I primi sette obiettivi contengono responsabilità a carico soprattutto (ma non solo) dei paesi più poveri: mandare i bambini e le bambine a scuola, garantire assistenza sanitaria di base, acqua potabile, investire di più nei servizi sanitari e nell’agricoltura. 88


E poi c’e’ l’obiettivo 8 che identifica i compiti e le responsabilità dei paesi ricchi : promuovere un efficace partenariato internazionale. 1.

Dimezzare la povertà e la malnutrizione entro il 2015

2.

Assicurare l’istruzione elementare entro il 2015

3.

Promuovere l’equità nell’educazione non oltre il 2015

4.

Ridurre la mortalità infantile di 2/3 entro il 2015

5.

Ridurre la mortalità materna di ¾ entro il 2015

6.

Arrestare la diffusione del virus HIV/AIDS e di altre malattie entro il 2015

7.

Assicurare la sostenibilità ambientale

8.

Sviluppare una partnership globale a favore dello sviluppo (cooperazione,

riduzione del debito, commercio) In numerose sedi nazionali ed internazionali e’ stato più volte ribadito l’impegno di destinare lo 0,7% del Prodotto Interno Lordo – PIL - alla cooperazione allo sviluppo e alla lotta alla povertà. La media attuale tra tutti i paesi donatori e’ purtroppo solo dello 0,23% che equivale a un importo complessivo di 56 miliardi di dollari all’anno. Stime della Banca Mondiale e dell’ONU affermano che basterebbero 50 miliardi di dollari all’anno in più per realizzare gli obiettivi. Significa sempre raddoppiare la quantità attuale e garantirne la continuità nel tempo. Dopo la conferenza di Monterrey, realizzata nel mese di marzo del 2002, alcuni paesi hanno preso seriamente questi impegni e hanno fissato delle date per lo 0,7%. (l’Irlanda nel 2008, il Belgio, la Finlandia nel 2010 e la Francia e Spagna nel 2012. 89


I paesi membri dell’Unione europea si sono comunque impegnati a raggiungere lo 0,7% del PIL entro il 2012. Una volontà ancora troppo debole per assicurare che gli Obiettivi del millennio siano raggiunti entro il 2015. Il monitoraggio fatto dall’ UNDP (agenzia dell’ONU per lo sviluppo) dimostra che molti paesi ancora non sono in grado di assicurare il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del Millennio – MDGs . Lo studio ha dimostrato infatti che molti tra i paesi più poveri – 34 dei quali fanno parte dell’Africa subsahariana – sono in forte ritardo. Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite, ha affermato che c’è bisogno di ulteriori 40/70 miliardi di dollari l’anno per raggiungere gli Obiettivi del millennio. Il che significa appunto la necessità di raddoppiare gli attuali budget. Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio sono ambiziosi, ma realizzabili, sia da un punto di vista finanziario che tecnologico. La comunità internazionale possiede tutte le risorse necessarie per far si che nel 2015 l’immagine di un migliore diventi una realtà concreta. La vera sfida da affrontare è la mancanza di volontà politica dei Governi. Ecco perché abbiamo bisogno che ogni cittadino si unisca a questo movimento globale per porre fine alla povertà. Le politiche in risposta ai limiti strutturali richiedono interventi simultanei su diversi fronti - unitamente a un maggiore supporto dall’esterno. Vi sono sei insiemi di politiche che possono aiutare i paesi a liberarsi dalle trappole della povertà: investire tempestivamente e ambiziosamente nell’istruzione e nella sanità di base, promuovendo nel contempo l’uguaglianza di genere; aumentare la produttività dei piccoli coltivatori; migliorare le infrastrutture di base;

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creare una politica di sviluppo industriale; promuovere le forme di governo democratiche e i diritti umani; garantire la sostenibilità ambientale e una gestione urbana solida. Ciascun paese deve diagnosticare in modo sistematico quanto gli occorrerà per raggiungere gli Obiettivi. Tale diagnosi deve comprendere le iniziative che i governi dei paesi poveri possono intraprendere, come la mobilitazione di risorse fiscali interne, la riallocazione della spesa a favore dei servizi di base, il ricorso a finanziamenti e all’esperienza dei privati e l’introduzione di riforme della gestione economica. Tutto ciò lascerà ancora un’ampia lacuna di risorse che sarà compito dei governi individuare.

Per

colmarla,

serviranno

cooperazione

finanziaria

e

tecnica

supplementari da parte dei governi ricchi, compresi finanziamenti dei costi ricorrenti, una più consistente riduzione del debito, un miglior accesso ai mercati e un aumento dei trasferimenti di tecnologie. Nulla di tutto questo potrà essere possibile a meno che tutti i paesi, ricchi e poveri, si assumano le proprie responsabilità verso le migliaia di persone povere del pianeta. Si deve imporre la coerenza. Mantenere gli impegni presi. In tal senso la società civile internazionale i mezzi di comunicazione sociale hanno un importante compito nel promuovere attività di advocacy che facciano si che aumenti la consapevolezza e si riesca a mantenere gli impegni presi nei diversi vertici internazionali.

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22. Difendiamo le Nazioni Unite! Le critiche all’ONU e alle sue agenzie si moltiplicano da tutte le parti : accuse di impotenza; di sperperi di risorse, di inefficienza. Molto spesso tali accuse sono fondate e da anni si chiede una riforma che porti a un miglior funzionamento democratico di questa istituzione. Però l’ONU è come la terra, è l’unica che abbiamo. Sapere che è debole e inquinata non ci consente di buttarla via. Ci piacerebbe che le Nazioni Unite fossero più democratiche più efficienti nel rispondere ai fini per i quali sono state costituite: • Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace; • sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto del principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'autodeterminazione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale; • conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione; 92


• costituire un centro per il coordinamento dell'attività delle nazioni volta al conseguimento di questi fini comuni. Purtroppo, per troppo tempo ha funzionato come l’ONU degli Stati e in particolare degli Stati più forti che, dopo aver vinto la seconda guerra mondiale, hanno ottenuto lo status speciale di membri permanenti con il potere di veto. Un potere che troppo spesso è stato usato per difendere interessi di parte; un potere che permette a USA, Inghilterra, Francia, Russia e Cina di non essere vincolati alle stesse regole del gioco degli altri. Ma se una regola non è uguale per tutti, non è più una regola. Così gli stati sono costantemente tentati ad usare l’ONU come e quando corrisponde ai propri desideri: per difendere interessi di parte o per fare quello che non riescono a fare da soli avendo bisogno di un riconoscimento e legittimità basata sul consenso e non sulla forza. Anche gli stati più forti hanno bisogno dell’ONU ma generalmente non tollerano interferenze e intromissioni nei propri affari interni. Così non si può decidere democraticamente di alcuni nodi irrisolti nello scenario internazionale : sia che si tratti del rispetto dei diritti umani in Cina, o delle persecuzioni che il popolo curdo soffre da parte del governo turco; delle risoluzioni per la soluzione del conflitto tra Israele e Palestina o dell’embargo americano contro Cuba. La lista delle atrocità coperte dal principio di non ingerenza è infinita. Da una parte gli Stati approvano quaranta Convenzioni internazionali in materia di diritti umani e dall’altra ignorano al proprio interno senza che le Nazioni Unite possano intervenire. Questa doppiezza è all’origine di tante delle contraddizioni in cui si dibatte l’Organizzazione. Da una parte le si chiede di “assicurare la pace nel mondo” e dall’altra le si negano i mezzi per intervenirle si affida il compito di “promuovere lo sviluppo economico e sociale di tutti i popoli”e poi la si esclude da ogni vero centro decisionale. 93


La si incarica di affrontare tutti i peggiori guai de nostro tempo, di promuovere la libertà e i diritti umani, di regolare la vita internazionale, prevenire i conflitti, soccorrere i profughi, combattere la fame, la povertà, il narcotraffico, ecc. E poi si obbliga il Segretario Generale a dichiarare banca rotta perché i governi membri non pagano le rispettive quote. Così mentre cresce nel mondo la domanda dei servizi dell’ONU, crescono anche le critiche e le accuse di fallimento. Si è capito anche negli Stati Uniti, che la tentazione di decisioni unilaterali sono un fallimento sia per combattere il terrorismo sia per garantire il futuro sostenibile del pianeta. Continua la non ratifica da parte USA di importanti trattati internazionali (da quello di Kioto sulle emissioni di Co2, al controllo del commercio delle armi leggere, delle mine antipersona o l’adesione alla Corte Penale Internazionale) o al differente trattamento dei prigionieri inviati dall’Afganistan e dall’Iraq a Guantanamo a seconda della nazionalità di origine o all’impossibile verifica di ciò che è successo in Palestina per le proibizioni del governo di Israele a controlli ONU che prende atto impotentemente di tutto ciò. Il processo di democratizzazione non è semplice: vi è una forte opposizione al cambiamento da parte di stai che non tollerano alcun controllo sulle proprie politiche interne e internazionali. Per questo è importante riaffermare che l’ONU non è degli Stati ma deve essere realmente dei popoli. E questi ultimi devono fare pressione affinché diventi veramente uno strumento democratico che risponda ai fini per cui è nato.

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Le proposte di riforma interna dell’ONU sono state codificate in quattro punti : la creazione di un Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite; la riforma del Consiglio di sicurezza; la revisione degli strumenti di governo e di controllo della politica economica mondiale; il potenziamento del ruolo delle società civili. Quella della riforma del Consiglio di sicurezza è considerata la principale ma anche la più difficile. I cinque grandi conservano su ciò il loro potere di veto e sono disponibili, forse a cooptare Germania , Giappone o India più per motivi economici che di rappresentatività democratica. Il problema delle regole dell’economia internazionale e del commercio sono altro punto dolente e le critiche a entità quali il WTO, FMI e Banca Mondiale sono le più violente tra le varie entità del sistema ONU. Le Nazioni Unite ci mostrano un mondo i cui dati sono drammatici. Ci descrivono paesi come l’Afghanistan dove l’aspettativa di vita alla nascita è di 44 anni, in cui solo il 16% della popolazione ha accesso ad acqua pulita, o come l’Etiopia dove 173 bambini su 1.000 nati vivi muoiono prima dei cinque anni. 800 milioni di persone soffrono la fame, 36 milioni di persone sono malate di AIDS/HIV, malaria e tubercolosi:

sono solo alcune delle cifre che, all’alba del terzo millennio,

confermano lo scandalo delle timide ed insufficienti misure messe in campo dai governi e dalle agenzie internazionali. Il diritto e la sovranità degli Stati - nazione, hanno ormai hanno ampiamente dimostrato la necessità di dover ricorrere ad istanze sovranazionali per poter garantire la sostenibilità del futuro del pianeta. Ciò impone la ricerca di nuove regole ispirate alla giustizia sociale, nonché al rispetto del diritto inalienabile di ogni uomo ed ogni donna del pianeta di essere soggetto e fine di ogni azione intrapresa e di ogni decisione assunta nei Paesi ricchi così come in quelli dei diversi "Sud del mondo". 95


Un sistema di regole e dei meccanismi decisionali nei quali il più debole abbia gli stessi diritti e le pari opportunità del più forte, dove il criterio di “un dollaro un voto” non sia l’unico che si deve imporre in ogni ambito decisionale. Per questo riconosciamo nel sistema delle Nazioni Unite riformato alla luce di criteri di maggior democraticità, di maggior efficacia ed efficienza e di accresciuta trasparenza il soggetto istituzionale principale nella tutela e nella promozione della pace e della giustizia nel mondo. L’autorevolezza delle Nazioni Unite deve essere accompagnata da una fattiva volontà dei singoli Governi a riconoscerne le decisioni, assumere le proprie responsabilità e mantenere fede agli impegni assunti in sede internazionale. Ma tutto ciò sarebbe vano se non preceduto ed accompagnato da misure concrete messe in opera dai Governi per ripudiare la guerra ed il ricorso alla violenza per la risoluzione dei conflitti nazionali ed internazionali; per la attuazione degli accordi internazionali sulla messa al bando delle mine e delle armi leggere come primo passo verso per la messa al bando di ogni tipo di commercio delle armi e per la riduzione della corsa agli armamenti e delle spese militari in nome di inutili progetti di difesa.

La solidarietà e la cooperazione internazionale promossa dai popoli e dagli Stati devono essere riconosciute e sostenute come le strade più efficaci per il superamento dei conflitti che interessano numerose aree del mondo.

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23. La povertà è illegale Come nel XVII secolo la comunità internazionale ha maturato la convinzione che la schiavitù era immorale e pertanto andava considerata illegale, nel XXI secolo ci si presenta la sfida di dichiarare che è ugualmente illegale la povertà. Come riuscire a fare questo ? Occorre, prima di tutto, che tale convinzione diventi un patrimonio condiviso da chi crede nei principi di eguaglianza, libertà e solidarietà. Da tale convinzione ne deve nascere una piattaforma di lotta politica globale che porti le società civili ad esigere che gli stati assumano tale principio nelle loro costituzioni e legislazioni. Il punto di partenza è l’affermazione che i Diritti umani sono indivisibili. Se non si rispetta uno di questi si infrange il principio di rispetto di tutti. La quasi totalità degli stati ha incorporato pienamente nelle proprie legislazioni la prima generazione di diritti umani: i diritti civili e politici. Nessuno mette in dubbio che deve essere perseguibile e censurabile ogni stato che usi la tortura, l’incarcerazione indebita a causa di opinioni politiche o religiose. Quando avvengono gravi violazioni ai diritti politici e civili l’indignazione è tale che si richiede l’immediata azione di embargo internazionale al paese colpevole o l’intervento di corti internazionali che sanzionino in qualche moto tali delitti.

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Non si capisce perché lo stesso atteggiamento e la stessa enfasi non sia applicata a quelle situazioni in cui milioni di persone muoiono di fame, non hanno possibilità di curarsi, non hanno accesso alla cura, alla possibilità di formarsi, di vivere in una abitazione dignitosa. Insomma non si rispettano quei Diritti denominati Economici, Sociali e Culturali che vogliamo siano chiamati “DESC”. La soluzione

che attualmente viene proposta come risposta da tanti stati è

unicamente la compassione. Noi difendiamo un’altra opzione. “Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assettati...” Non devono essere più opere di misericordia ma di giustizia. La compassione serve a poco se non si considerano le cause che producono la povertà e l’esclusione sociale e se non si chiede che la rimozione di queste sia un compito di tutti. Prima di tutto dello Stato e degli altri enti locali che fanno parte della Repubblica. La Costituzione italiana nell’articolo 2 “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Poi, l’articolo 3° della stessa Costituzione precisa che :

“... È compito della

Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 98


Coerenti con questa indicazione preferiamo, sia a livello locale sia a livello internazionale, richiedere politiche che concorrano a rendere effettivi e permanenti i diritti umani che devono essere goduti da tutti. Il riconoscimento internazionale di tali diritti si basa in primo luogo su un insieme di documenti promossi dall’Organizzazione delle Nazioni Unite – ONU. Tra questi ricordiamo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, il Patto sui Diritti Civili e Politici e il Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. Per convenzione tali diritti vengono distinti in tre generazioni : I diritti civili e politici, o “diritti di prima generazione”, sono contenuti negli articoli 1-21 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU), ed altresì previsti dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (DCP). Realizzano l’autonomia dell’individuo nella società e la partecipazione alla vita politica. Alcuni di questi diritti sono anche definiti tradizionalmente “libertà”. In particolare, si distinguono libertà positive (di fare qualcosa) e libertà negative (di essere esenti da qualcosa). Sono “positive”, ad esempio, le libertà di pensiero, coscienza, religione, associazione, riunione, movimento, stampa. Sono libertà cosiddette “negative” quelle che consistono nel non dover subire tortura, schiavitù, arresto arbitrario, discriminazione. Tali diritti di prima generazione sono quelli che più facilmente sono stati tradotti in forme di tutela giudiziaria.

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I diritti economici, sociali e culturali – DESC - o “diritti di seconda generazione”, sono contenuti negli articoli 22-27 della DUDU. Sono altresì previsti nel Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali (DESC). A questo gruppo appartengono diritti che richiedono un intervento attivo dello stato a sostegno di forme di eguaglianza sostanziale: ad esempio il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, alla tutela sindacale, alle cure mediche, all’educazione (o più in generale alla formazione), a un livello di vita decente, alla partecipazione alla vita culturale. A differenza di quelli di prima generazione sono rimasti per lo più allo stato di principi politici. I diritti di solidarietà, ovvero “emergenti”, o semplicemente “diritti della terza generazione”, sono contenuti negli articoli 28-30 della DUDU, e in parte previsti anche dal Patto sui DESC. Sono, ad esempio, il diritto alla pace, all’autodeterminazione, al godimento delle risorse della terra e dello spazio, ad un ambiente sano ed equilibrato, allo sviluppo economico e sociale, all’aiuto umanitario in caso di catastrofi. Si tratta di diritti ancora difficilmente “azionabili” sul piano giuridico. In qualche caso sono “diritti” in un senso palesemente diverso da quelli delle prime due generazioni, perché hanno come soggetto attivo non individui, ma comunità, popoli, o addirittura l’intera umanità. I diritti fondamentali debbono essere tra loro coordinati per evitare l’effetto perverso di approfondire le disuguaglianze di fatto e i rapporti di dominio. Il movimento internazionale per la difesa e la tutela dei diritti umani è cresciuto notevolmente negli ultimi decenni. 100


Dopo la fine della Guerra Fredda, una sempre maggiore attenzione è stata rivolta ai diritti umani, intesi però solo nella loro accezione di diritti civili e politici, sempre più considerati oggi come presupposti etici e morali della comunità globale. Questa tendenza fa sì che nel mondo i governi, le organizzazioni internazionali e le organizzazioni non governative non si adoperino con la stessa forza e convinzione per tutelare “l’altra metà” dei diritti, ovvero i DESC. Quello di cui oggi c’è urgente bisogno è un approccio integrato che riconosca la stessa importanza a tutti i diritti umani come definiti dai due protocolli, quello sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici, sociali e culturali. Non c’è differenza tra essi, né nessuna priorizzazione è possibile. La negazione di un solo diritto porta alla violazione della dignità umana: qualcosa di inaccettabile. Allo stesso modo, la Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo del 1986 afferma che non esistono gerarchie tra i diritti. Attualmente, c’è in atto un dibattito molto acceso su quali diritti siano i più importanti. Si è creata una rete mondiale di entità che ritengono prioritaria la difesa dei DESC e ritengono che l’esigibilità e giustiziabilità dei DESC sia un diritto delle società civili e un dovere degli Stati. In primo luogo si difende il diritto / dovere a una cooperazione internazionale efficace in relazione alla lotta alla povertà e al rispetto dei diritti umani. Dal punto di vista quantitativo, le risorse disponibili per l'Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) sono progressivamente diminuite negli ultimi anni. 101


La media europea è oggi allo 0,33% del Prodotto Interno Lordo (PIL) ben distanti dallo 0,7 % assunto come percentuale dai governi integranti l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - OCSE. L’Italia è a livelli ancora più bassi (0,15 %). È importante essersi dati degli obiettivi specifici; a niente serve ciò se non vengono monitorati e se non si investono risorse sufficienti per raggiungerli. Vi è poi la carenza di considerare solo aspetti quantitativi del problema. Basta che in Cina e India si mantengano i progressi degli ultimi anni e forse questi obiettivi a livello quantitativo saranno raggiunti. Resterà il problema dell’Africa, del Sud est asiatico o di altre parti del mondo dove milioni di persone saranno ancora esclusi dai diritti umani fondamentali. È limitato definire la povertà unicamente considerando unicamente la quantità di reddito o la sua mancanza. Occorre considerare la povertà come privazione delle capacità fondamentali e non solo in termini di assenza di reddito. Utilizzando tale criterio se la popolazione di un determinato paese è più sana e ha la possibilità di accedere a migliori servizi pubblici, a una migliore educazione senza discriminazioni, questo paese ottiene migliori risultati nella lotta alla povertà. L’efficacia degli strumenti e delle strategie nella lotta contro la povertà non è strettamente legata alla crescita del PIL ma dipende da una miglior distribuzione delle ricchezze.

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È provato che un maggior investimento nella promozione di posti di lavoro stabili, nella formazione delle risorse umane, nell’aumento degli investimenti nei settori dell’educazione e della sanità sono altamente efficaci nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sociale e di lotta alla povertà. Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio si basano sull’assunto che la sola crescita economica non riuscirà a sollevare il mondo dalla povertà che affligge un miliardo di persone. Se non verranno affrontati problemi quali la malnutrizione

e

l’analfabetismo, che sono entrambi causa e sintomo della povertà, gli obiettivi non verranno raggiunti. Le statistiche attuali sono impressionanti: nell’ultimo decennio tredici milioni di bambini sono morti a causa di malattie diarroiche. Ogni anno oltre mezzo milione di donne, una per ogni minuto del giorno, muore durante la gravidanza e il parto. Più di ottocento milioni di persone soffrono di malnutrizione. Molte delle soluzioni ai problemi della fame, delle malattie e dell’analfabetismo sono conosciute – si tratta di zanzariere sui letti per prevenire la malaria, di ostetriche per assistere le donne; di fertilizzanti per accrescere la produttività agricola; di educazione all’igiene per salvaguardare le sorgenti d’acqua potabile. Si tratta di strategie che difficilmente possono essere definite ad alta tecnologia. Ma che combinate potrebbero salvare milioni di vite umane. Vorremo passare, anche in Italia, dalla discussione all’azione trasformatrice che porti in ogni latitudine il rispetto di tutti i diritti e che oltre ai mercati si globalizzi anche la solidarietà e la giustizia.

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24. Adoratori dell’acqua Oggi, nella terra non c’è molta acqua potabile. Più di un miliardo di persone non godono di questo diritto. Il 70 per cento dell'acqua di cui disponiamo viene utilizzato in agricoltura, ma il Consiglio mondiale delle acque sostiene che da qui al 2020 per sfamare il mondo sarà necessario avere almeno il 17 per cento in più dell'acqua attualmente disponibile, diversamente sarà il disastro. Troppa acqua in Europa viene usata per irrigare i campi di foraggio per l’allevamento. In molti ci consigliano che ciò è insostenibile. Dovremo cambiare i nostri modi di vita per poter garantire la sostenibilità dell’ambiente. Dobbiamo, forse abituarci, fin da ora nelle piccole cose, a risparmiare il consumo di acqua potabile nelle nostre case. Per noi è normale alzarci al mattino e aprire i rubinetti. Siamo sicuri che quasi sempre, anche se negli ultimi anni iniziamo ad avere dei dubbi, l’acqua scorre cristallina, pulita, potabile. Non è così in tutti i paesi del mondo. La comunità internazionale si propone di dimezzare entro il 2015 la percentuale della popolazione mondiale che non ha accesso all'acqua. I dati disponibili suggeriscono invece che tale quota e' in aumento: se nel 1995 ben 436 milioni di persone in 29 paesi hanno avuto problemi di approvvigionamento idrico, entro il 2025 - stima la Banca Mondiale - questo problema riguarderà 48 paesi, per un totale di 1,4 miliardi di persone.

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Molte donne in Africa devono fare tanti chilometri per andare al pozzo più vicino per prendere l’acqua. Ore e ore di lavoro per avere quello che per noi è una diritto quasi gratuito. Nel 2035, sempre secondo la Banca Mondiale, 3 miliardi di persone vivranno in Paesi con problemi idrici. In base ai dati del programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, l'area più colpita sarà l'Asia occidentale, che include la Penisola araba, con oltre il 90% della popolazione senz'acqua. Notevoli le differenze nell'accesso alle risorse idriche tra città e campagne nei Paesi in via di sviluppo. L'Unicef calcola che nell'Africa subsahariana solo il 39% della popolazione dispone di acqua potabile contro il 77% della popolazione urbana. Purtroppo non è fuori luogo pensare che in futuro si faranno tante guerre per controllare la disponibilità dell’acqua. Molti fiumi scorrono in più paesi e il controllo di tale bene provoca tensioni e lotte tra le diverse nazioni. L'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che il 19% delle morti per malattie infettive sia dovuto alla scarsità di acqua. nel decennio 1980-1990 una nuova teoria di reidratazione ha salvato tre milioni di bambini da morte certa per malattie infantili come la diarrea. Secondo il programma delle Nazioni Unite per l'acqua (World Water Assessment Programme) ammonterebbero a 180 miliardi di dollari l'anno per trent'anni gli investimenti minimi per garantire la sicurezza idrica a livello mondiale. Attualmente gli investimenti in questo settore arrivano a meno della metà del necessario.

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Purtroppo le risorse per la solidarietà e cooperazione internazionale sono poche e insufficienti a garantire il raggiungimento degli obiettivi prefissati per il 2015 nella Dichiarazione del Millennio firmata dai capi di stato di 190 paesi nel 2000. Il mondo è uno e uno solo. Ed è solo insieme, con l’integrazione e la cooperazione, che troveremo le risposte. Cominciamo da quelle che sembrano piccole, perché magari riguardano qualche migliaia di persone, e che invece sono grandi, sono importanti, perché cambiano la situazione reale. A un passo ne potrà seguire un altro, e un altro ancora. E forse un giorno potremo dire che la povertà, la mancanza di acqua e di cibo, non sono fatalità, condizioni insuperabili, ma qualcosa che può diminuire fino a sparire. E anche noi possiamo fare qualcosa di concreto. Possiamo chiedere al sindaco delle nostre comunità che, come è stato già fatto da qualcuno, scriva a ogni cittadino una lettera facendogli la seguente proposta: Caro cittadino , L’acqua potabile è un bene prezioso la cui disponibilità non è garantita a tutti. La disponibilità pro capite di acqua, che era di oltre 17mila m3 annui, è scesa oggi a meno di 7.500 m3 all’anno e tale disponibilità è molto diversa nelle varie zone del nostro pianeta; essa scende dai 14 milioni di km3 annuali dell’Asia, ai meno di 4 milioni di km3 annui dell’Africa. Anche il consumo varia enormemente: si va, ad esempio, dai meno di 50 litri procapite di un villaggio agricolo di un qualsiasi Paese sottosviluppato, ai quasi 4000 litri a persona di un cittadino californiano. 106


Se un cittadino statunitense, consuma in media circa 1700 m3 all’anno, un africano ne dispone di meno di 250 m3. In Italia, 1° consumatore di acqua in Europa e 3° nel mondo, il consumo totale è di oltre 8 miliardi di m3 erogati all’anno, equivalenti a circa 1100 m3 annui ad abitante. In Africa, dove l’80% delle malattie sono dovute alla mancanza d’acqua, solo meno del 40% della popolazione vi ha accesso. Sono oggi esclusi dal diritto all’acqua, oltre 1,4 miliardi di persone, che rischiano di diventare 3 miliardi entro il 2020, se non si interverrà per rendere l’acqua un autentico diritto di tutto il genere umano. Per far ciò e per far sì che tutte le risorse naturali del pianeta non divengano proprietà esclusiva di alcuni, ma rimangano patrimonio comune dell’umanità. hanno richiesto che l’aziendalizzazione del servizio idrico passi anche attraverso un vero atto di solidarietà verso tutte quelle popolazioni che, oggi, non hanno accesso all’acqua. Questo atto di solidarietà si concretizza in 1 Centesimo di Euro per ogni m3 (mille litri) di acqua consumata. L’Amministrazione comunale si rivolge alla cittadinanza per chiedere un atto di volontà solidale: la disponibilità, in ogni nucleo familiare, a versare 1 Centesimo di Euro per ogni mille litri di acqua consumata. Si può pensare che tutti i cittadini possano contribuire e con questi fondi costruire nuovi pozzi e garantire la manutenzione in tante zone aride del mondo. Se pensate sia una cosa fattibile coinvolgiamoci insieme e facciamo in modo che tale sogno, sognato insieme, diventi una realtà. “Il segreto è nei piccoli cambiamenti locali, è a livello locale che possono avvenire i cambiamenti più sostanziali”. E ognuno di noi può fare qualcosa.

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25. Difendere l’ambiente La popolazione umana è cresciuta dal 1992 di oltre 500 milioni; le emissioni annuali di carbonio, principale responsabile dell’effetto serra, sono aumentate ulteriormente, come ha dimostrato la Conferenza di Kyoto. La ricchezza biologica del Pianeta è diminuita rapidamente e in maniera irreversibile; oltre 1 miliardo e 300 milioni di persone nel mondo non è in grado di soddisfare i propri bisogni primari: alimentarsi e procurarsi un riparo. In molti Paesi i problemi ambientali e sociali esacerbano le tensioni etniche, creando milioni di rifugiati e talvolta originando conflitti violenti. Tuttavia la maggioranza dei Governi persegue ancora la crescita economica fine a sé stessa. Il mondo non è ancora riuscito a integrare le strategie ambientali e le politiche economiche. La soluzione più praticabile per invertire questa pericolosa rotta appare quella costituita da un insieme di azioni rispetto alle quali è fondamentale l’apporto degli Enti Locali. "Ogni autorità locale deve aprire un dialogo con i propri cittadini, con le associazioni locali e con le imprese private ed adottare una Agenda 21 Locale." Il ruolo chiave degli Enti Locali è delineato nel capitolo 28 dell’Agenda 21 dove i leaders del mondo invitavano tutte le autorità locali a intraprendere il processo consultivo per avviare Agende 21 Locali . La biodiversità - la varietà di piante e specie animali presenti nell'ambiente naturale - non è solo necessaria per la qualità dell'esistenza umana. E' essenziale per l'umana sopravvivenza. 108


Beni e servizi quali cibo, vestiario, abitazioni e medicine, derivano da diverse risorse biologiche. I progressi compiuti nel ramo della biotecnologia hanno a loro volta condotto a numerose nuove applicazioni mediche ed agricole, tutte dipendenti da fonti biologicamente diverse. Foreste, pascoli, tundre, deserti, fiumi, laghi e mari sono le abitazioni della maggior parte delle diverse specie biologiche della terra; tuttavia, la varietà delle specie che vivono sulla terra è minacciata principalmente dal deterioramento dell'ambiente. Con sempre maggiore frequenza in tutto il mondo vengono riferiti casi di estinzioni di massa, con una velocità che supera di gran lunga la comparsa di nuove specie. La scomparsa degli habitat naturali, ed in special modo delle foreste tropicali, è la ragione principale dell'estinzione delle specie. Questa è principalmente causata dalle attività umane: deforestazione, inquinamento dell'aria e delle acque, scarico nell'oceano di rifiuti e scorie inquinanti, oltre agli effetti collaterali dello sviluppo in generale - ognuno dei quali è legato, direttamente od in qualche altra maniera, alla crescita della popolazione umana. Dagli inizi sino a metà degli anni '80, scomparivano ogni anno più o meno 25 milioni di acri (10 milioni di ettari) di foreste pluviali tropicali, appena al di sotto dell'uno per cento complessivo. Queste foreste coprono solamente il 7 per cento della superficie terrestre ma costituiscono l'habitat di una percentuale variabile tra il 50 e l'80 per cento delle specie del pianeta. Per esempio, in un'area tipo di 2.500 acri di foresta pluviale tropicale si possono trovare circa 1.500 specie di piante da fiore, 750 differenti specie di alberi, 400 specie di uccelli e 150 differenti farfalle. Il termine "desertificazione" indica la diminuzione o la scomparsa della produttività delle terre coltivabili, dei pascoli e delle foreste che si trovano nelle zone aride, semiaride e subumide secche del pianeta. 109


La desertificazione non deriva quindi solo dall’espansione dei deserti esistenti, ma dalla fragilità dell’ecosistema delle terre aride e semi-aride (più di un terzo delle terre emerse). Le principali cause della desertificazione sono lo sfruttamento eccessivo dei pascoli, il taglio delle foreste, l’agricoltura e l’allevamento intensivi, la povertà e l’instabilità sociale. Una causa più generale è la pressione sui paesi poveri ad integrarsi nel mercato mondiale spingendoli verso le coltivazioni per l’esportazione: monocolture che richiedono alte dosi di fertilizzanti e pesticidi, causa di deterioramento chimico e conseguente perdita dei principi nutritivi del suolo. La desertificazione è un fenomeno di degrado del suolo delle zone aride, semi-aride e subumide, risultante da vari fattori, inclusi i mutamenti climatici e le attività umane. In pratica si tratta di un processo di progressiva riduzione della capacità degli ecosistemi di sostenere la vita animale e vegetale. L’eccessivo sfruttamento dei terreni da pascolo è una delle cause principali della desertificazione: quando il carico di bestiame è superiore a quello che i pascoli possono sostenere, ha inizio il degrado del territorio. Alle specie vegetali perenni si sostituiscono presto specie annuali e arbusti poco graditi al bestiame; successivamente regrediscono le specie erbacee, il calpestio degli animali distrugge quel poco che rimane e il suolo resta, così, scoperto all’azione erosiva dei venti e delle acque. In maniera quasi analoga, l’eccessivo sfruttamento dei terreni agricoli porta a un impoverimento progressivo dei terreni, che una volta esaurita la propria riserva di sostanze nutritive rimangono esposti agli agenti meteorologici e vanno, quindi, soggetti a erosione. 110


Il processo di desertificazione può essere innescato anche dall’indiscriminato abbattimento del manto forestale o dalla cattiva gestione dei sistemi di irrigazione, che in molte regioni è causa della salinizzazione dei terreni. I terreni che non vengono lasciati "riposare" (cioè che non vengono lasciati incolti o "a maggese" per lunghi periodi), quelli che vengono lavorati troppo in profondità con mezzi meccanici e quelli coltivati a monocoltura, perdono progressivamente la propria fertilità e possono andare soggetti a fenomeni di erosione. Agli inizi degli anni Trenta, vaste aree delle praterie semiaride delle Grandi Pianure, negli Stati Uniti, vennero arate in profondità per avviare la coltivazione estensiva dei cereali. Quando le Grandi Pianure, nel 1931, furono colpite dalla siccità, l’erosione del vento produsse tempeste di sabbia di dimensioni mai viste. Una catastrofe ecologica analoga si verificò negli anni Cinquanta in Unione Sovietica, in conseguenza dell’applicazione di un piano per la trasformazione delle terre vergini in terreni agricoli. L’abbattimento delle foreste operato dalle popolazioni locali per creare spazi da destinare all’agricoltura e alla pastorizia, e soprattutto per reperire legna da ardere (pratica diffusa in molte regioni aride dei paesi in via di sviluppo), è una delle cause primarie della desertificazione di vaste aree. Particolarmente drammatico è il caso del Sahel, la regione più colpita dal fenomeno, dove il diboscamento del retroterra urbano, dovuto al bisogno di soddisfare la domanda di legna da ardere, ha portato alla quasi totale scomparsa degli alberi intorno alle città principali. La stessa sorte è toccata alle aree circostanti Ouagadougou (nel Burkina Faso), Dakar (nel Senegal) e Khartoum (nel Sudan), in questo caso l’area deforestata intorno alla città ha raggiunto un raggio di 90 km.

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In che misura gli interventi dell’uomo sull’ambiente siano responsabili della desertificazione di alcune regioni risulta evidente se si prende in considerazione un fenomeno quale la salinizzazione dei terreni, una "calamità", indotta dalla cattiva gestione dei sistemi di irrigazione, che interessa un quinto dei terreni agricoli dell’Australia e degli Stati Uniti, un terzo dei terreni agricoli dell’Egitto, del Pakistan e della Siria e metà dei terreni agricoli dell’Iraq. Non è facile riuscire a distinguere gli effetti prodotti sull’ambiente dalla cattiva gestione delle risorse e dalle attività antropiche, da quelli derivanti dal naturale processo di trasformazione degli ecosistemi. L’assetto dei deserti e dei territori confinanti è naturalmente soggetto a mutamenti legati all’andamento delle precipitazioni (che spesso sono molto instabili e possono variare di giorno in giorno o di stagione in stagione) e al perdurare di lunghi periodi di siccità (che spesso si protraggono anche per decenni). Nel caso del Sahel, ad esempio, non è facile stabilire in che misura il lungo periodo di siccità che ha colpito la regione a partire dagli anni Sessanta abbia concorso a determinare la scomparsa della vegetazione e il degrado del suolo. Secondo alcuni le dimensioni del problema a livello planetario sono state sopravvalutate anche a causa delle difficoltà di stimare con precisione la superficie totale messa a rischio dalle attività umane. D’altro canto, secondo alcuni il fenomeno non viene ancora preso in dovuta considerazione e viene, anzi, spesso sottovalutato dagli organismi internazionali, che solo di recente hanno cercato di proporre soluzioni concrete varando progetti di azione congiunta per il risanamento o la conservazione delle aree a rischio.

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Pur tuttavia, i provvedimenti per cercare di arginare il fenomeno sono spesso inadeguati e fondati su un’interpretazione errata delle forme in cui si manifesta il problema. Nell’immaginario collettivo il fenomeno viene spesso associato all’idea di dune sabbiose che avanzano, divorando aree verdi e fertili. In realtà la "sterilizzazione" dei terreni riguarda anche aree fortemente irrigate o situate a latitudini ben lontane dalle regioni desertiche. Ad esempio, il 33% della superficie dell’Europa è minacciato dalla desertificazione, mentre il 10% e il 31% delle terre italiane sono, rispettivamente, a forte e a medio rischio di erosione (dati della Commissione Europea per l’Ambiente). Alcune iniziative hanno, comunque, effettivamente contribuito a frenare il processo di desertificazione: in alcune regioni poste ai margini del Sahara sono state, ad esempio, impiantate "cinture vegetali" formate da schiere di alberi particolarmente resistenti, e nel Sahel tale pratica ha consentito di strappare alla desertificazione 620 ettari di terreno (60 dei quali sono stati addirittura recuperati all’agricoltura) e di salvare alcuni villaggi che altrimenti sarebbero scomparsi. Spesso, le soluzioni adottate più di recente si differenziano radicalmente da alcune impostazioni precedenti. In particolare si tende a valorizzare maggiormente ipotesi di lavoro studiate appositamente per un determinato territorio, dando maggiore rilievo al coinvolgimento delle comunità locali, al ripristino di preziose pratiche tradizionali e alla rivalutazione del ruolo delle comunità rurali per evitare il degrado del territorio. Inoltre, mentre in passato si tendeva a cercare soluzioni prevalentemente di tipo tecnico, oggi si tende ad affrontare la globalità del problema, dovuto anche alla continua crescita demografica, nonché a fattori di natura politica e socioeconomica. 113


Le foreste tropicali contengono la metà delle specie della fauna e della flora mondiali, forniscono materie prime, e contribuiscono a mantenere le riserve d'acqua, prevengono l'erosione del suolo , l'interramento delle dighe e le inondazioni . Il clima globale , regionale e locale è correlato alla salute delle foreste tropicali . La deforestazione è ritenuta responsabile del 20-25% delle emissioni globali legate ad attività umane di biossido di carbonio e del 10-40% di quelle totali (naturali ed antropiche) di metano ; essa contribuisce inoltre alle concentrazioni di ossido nitroso, ozono, monossido di carbonio ed altri gas responsabili del riscaldamento planetario. A livello regionale , la deforestazione può ostacolare il trasferimento di umidità e di calore latente dai tropici alle latitudini più elevate, influenzando il clima delle zone temperate. A livello locale, la parziale o totale rimozione del manto forestale può provocare l'inaridimento del microclima, dando luogo ad un aumento degli incendi di origine spontanea che impediscono la naturale rigenerazione della foresta. Le tre principali cause della deforestazione sono : la conversione del suolo all'agricoltura ed al pascolo, il taglio del legno per uso combustibile o per altro uso ; i progetti di sviluppo pubblici e privati quali, ad esempio, l'industria del legno , le miniere , le strade e le dighe. Nei tropici semi aridi la perdita di foreste e i conflitti sull'uso del suolo sono collegabili alla desertificazione sia naturale che provocata dall'uomo. All'inizio degli anni ottanta L'estensione della desertificazione in Africa, Asia (esclusa la ex Unione Sovietica) ed America Latina ammontava, secondo stime del World Resources Institute , a circa 1,54 miliardi di ettari.

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La deforestazione nei tropici umidi è dovuta principalmente al disboscamento per fini agricoli, mentre in montagna e nelle regioni aride una sostanziale aliquota della deforestazione può essere attribuita alla necessità di abbattere alberi come legna da ardere e per il foraggio. Il legno prelevato dalle foreste tropicali è usato per due scopi principali: come legna da ardere e come carbone di legna (87%), e per l'industria del legno (11% di cui 13% per uso locale e 4% per l'esportazione). Le pratiche di taglio del legno per uso commerciale danneggiano, comunque, una rilevante aliquota di alberi che restano in piedi, provocando un danno complessivo alla foresta molto maggiore rispetto ai tassi di rimozione propri di un taglio selettivo.

Maputo, Mozambico - Discarica cittadina

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26. Prevenire è meglio che curare “ Perché i soldi per le bare si trovano sempre e per le medicine mai “ ? Recita una tragica domanda che ci poniamo sempre tardi. Si chiude la stalla quando i buoi sono scappati, avvertiva la saggezza contadina di un tempo. Perché ci si ricorda della prevenzione solo dopo che avvengono catastrofi e mai prima ? Abbiamo ancora davanti agli occhi le tragiche immagini della distruzione, avvenuta nel 2009, ad aprile il terremoto in Abruzzo e a settembre la frana nella frana a Messina. Purtroppo non sono stati adeguatamente sentiti i richiami di chi, da anni, sostiene l’idea che prevenire è meglio che curare; che dobbiamo andare alle radici dei problemi e non semplicemente ai sintomi. Negli ultimi decenni è aumentato il numero e la gravità delle catastrofi naturali causate sia dai cambiamenti climatici sia dall'incuria e follia dell'umanità. Inondazioni, terremoti e tormente hanno causato, nel mondo, la morte di decine di migliaia di persone e sradicato milioni di altre. Occorre capire le cause come primo passo per promuovere una efficace politica di prevenzione.

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Le risposte non sono semplici ma è oggi chiaro che le conseguenze mortali delle catastrofi sono ampliate per responsabilità che devono essere attribuite alla mancanza di seria prevenzione e di rispetto di norme di sicurezza. Pratiche di sviluppo insostenibili contribuiscono ad avere un impatto negativo sui pericoli naturali. Il taglio massivo di alberi riduce la capacità del suolo di assorbire la caduta eccessiva di acqua piovana, rendendo l’erosione e le inondazioni molto più possibili. La distruzione delle zone paludose riduce la capacità del suolo di assorbire gli eccessi di acqua, cosa che a sua volta favorisce i rischi di inondazioni. I terremoti distruggono case e palazzi mal costruiti ed è questo che provoca la morte di centinaia di persone. Strategie di prevenzione più efficaci risparmierebbero non solo decine di miliardi di euro, ma anche centinaia di migliaia di vite umane. I fondi attualmente spesi per gli interventi di aiuti potrebbero essere invece investiti nella promozione dello sviluppo equo e sostenibile, il che ridurrebbe il rischio delle catastrofi e ridurrebbe considerevolmente il numero delle vittime umane. Tuttavia, non è facile costruire una cultura di prevenzione. Mentre i costi della prevenzione devono essere pagati nel presente, i benefici non si riscontrano immediatamente ma nel futuro anche lontano. Inoltre, i benefici non sono tangibili; sono i disastri che non accadono. Per tanto non ci dovrebbe sorprendere che le politiche di prevenzione ricevano un sostegno che è più spesso retorico anziché reale. Sfortunatamente, le burocrazie nazionali ed internazionali devono ancora sradicare le barriere istituzionali per costruire una cooperazione tra i diversi settori che è indispensabile per una efficace prevenzione.

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Con la prevenzione dei disastri si cerca di ridurre la vulnerabilità delle comunità rispetto agli effetti dei disastri naturali e anche di individuarne le cause imputabili all’uomo. Il tempestivo avvertimento dell’imminente pericolo è importante specialmente per la prevenzione di breve periodo. L’avvertimento preventivo del pericolo di siccità facilita le operazioni di soccorso; conoscere in anticipo l’approssimarsi di tormente e di inondazioni aiuta a sgomberare la popolazione dalle zone a rischio. I passi in avanti fatti nell’area delle tecnologie satellitari di sorveglianza di vaste zone stanno rivoluzionando la raccolta dati relativa agli avvertimenti di prevenzione dei disastri. Limiti più severi dovrebbero essere imposti alla crescita residenziale e commerciale nelle aree a rischio - pianure vulnerabili soggette ad allagamento, fianchi di colline a rischio di slittamenti e zone soggette a terremoti. Le regole previste in campo edile dovrebbero assicurare una maggiore elasticità agli edifici e a quelle infrastrutture in grado di fornire i servizi essenziali anche nel momento del disastro. Naturalmente tali regole vanno rafforzate. Allo stesso tempo si ha bisogno di pratiche ambientali più sane, in particolare in tema di deforestazione dei fianchi montuosi e di protezione delle aree a rischio idro geologico e di frane. Il passaggio da una cultura della reazione ad una cultura della prevenzione non è semplice ma la difficoltà di tale sfida non ne riduce la forte necessità. Guerre e disastri naturali restano le maggiori minacce alla sicurezza delle persone e delle comunità umane in tutto il mondo.

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Il maggior dovere per le generazioni future è quello di ridurre queste minacce. Sappiamo cosa deve essere fatto. Ciò di cui adesso c’è bisogno è la lungimiranza e la volontà politica di agire con costanza e coerenza. Per le generazioni future e non per apparire e poter vincere unicamente le prossime elezioni. Il ripetercelo spesso può servire a convincerci di questo ed evitare catastrofi future.

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27. Razze e culture Tempo fa un gruppo di scienziati italiani ha pubblicato un manifesto in cui si affronta il tema del razzismo lanciando l'allarme sulle conseguenze che esso può avere nella nostra società e sul futuro dell'umanità intera. Il primo enunciato, non scontato nell'opinione pubblica e nei modi di dire, è che le razze umane non esistono. L'esistenza delle razze umane è una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze "psicologiche" e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in "migliori" e "peggiori" e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi. Gli esseri umani si aggregano in gruppi d'individui, comunità locali, etnie, nazioni, civiltà; ma questo non avviene in quanto hanno gli stessi geni ma perché condividono storie di vita, ideali e religioni, costumi e comportamenti, arti e stili di vita, ovvero culture. Non esiste una razza italiana ma esiste un popolo italiano. L'Italia come Nazione si é unificata solo nel 1860 e ancora adesso diversi milioni di italiani, in passato emigrati e spesso concentrati in città e quartieri stranieri, si dicono e sono tali. Una delle nostre maggiori ricchezze, è quella di avere mescolato tanti popoli e avere scambiato con loro culture proprio "incrociandoci" fisicamente e culturalmente.

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Attribuire ad una inesistente "purezza del sangue" la "nobiltà" della "Nazione" significa ridurre alla omogeneità di una supposta componente biologica e agli abitanti dell'attuale territorio italiano, un patrimonio millenario ed esteso di culture. Il razzismo discrimina, nega i collegamenti, intravede minacce nei pensieri e nei comportamenti diversi. Per i difensori della razza italiana l'Africa appare come una paurosa minaccia e il Mediterraneo è il mare che nello stesso tempo separa e unisce. Per questo i razzisti sostengono che non esiste una "comune razza mediterranea". Per spingere più indietro l'Africa gli scienziati razzisti erigono una barriera contro "semiti" e "camiti", con cui più facilmente si può entrare in contatto. La scienza ha chiarito che non esiste una chiara distinzione genetica fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall'altra. Sono state assolutamente dimostrate, dal punto di vista paleontologico e da quello genetico, le teorie che sostengono l'origine africana dei popoli della terra e li comprendono tutti in un'unica razza. Un'Italia razzista che si frammentasse in "etnie" separate come la ex-Jugoslavia sarebbe devastata e devastante ora e per il futuro. Le conseguenze del razzismo sono infatti epocali: significano perdita di cultura e di plasticità, omicidio e suicidio, frammentazione e implosione non controllabili perché originate dalla ripulsa indiscriminata per chiunque consideriamo "altro da noi". Rifletterci su e discuterne civilmente non può che farci bene.

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28. Zingari d’Italia Ogni popolo crede che la propria cultura sia la migliore e la usa come modello di paragone per tutte le altre. Generalmente si usa per sé una auto - denominazione positiva (tanti popoli si definiscono con parole che significano “i veri uomini”, “coloro che sanno” “i prediletti da Dio”, ecc.

e si usano per gli altri popoli

denominazioni negative che ne sottolineino l’inferiorità o la diversità. Chiamiamo ciò “etnocentrismo” una visione del mondo per cui la propria cultura si presenta come centro dell’universo intero e tutte le altre sono classificate (come inferiori ovviamente) in rapporto ad essa. Se in linea di massima possiamo dire che tutti i popoli sono “etnocentrici” dobbiamo distinguere comportamenti in cui ciò si esprime come attitudine psicologica per affermare e consolidare la propria identità con quelli in cui assume una funzione ideologica totalizzante e tende ad imporre la propria cultura non solo come la migliore, ma come “unica” imponendo norme culturali a cui tutti devono attenersi. E’ questa la storia del colonialismo ed è il pericolo dell’attuale processo di globalizzazione dove l’occidente e la sua società tecnologica si pongono al vertice di una ipotetica scala di valori e impongono un processo omogeneizzante a cui ogni popolo deve adeguarsi assumendo una nuova e comune identità (esportare il proprio modello di democrazia ovunque, il proprio modo

di produzione, la propria

tecnologia, vestire tutti allo stesso modo, mangiare ovunque Mc Donald, etc.) Tale omologazione ha provocato una reazione contraria favorendo localismi e forti difese delle culture regionali o addirittura campanilistiche. 122


Tale processo coinvolge fortemente, in tutta Europa, la questione delle minoranze etniche e in particolare di quelle nomadi o semi nomadi. Sono chiamati zingari e anche tale parola mette in cattiva luce chi porta questo nome: zingaro viene infatti dal greco ATHINGANOI, nome di una setta eretica che praticava la magia nera. Altri dicono che la parola zingaro derivi dai Tchinganes, popolazione dell’Indo famosa per ladroneggi e rapine e la sostanza non cambia . In realtà sono molti i nomi con i quali vengono chiamati i nomadi : in Francia vengono chiamati Bohemiens, perché quando queste popolazioni arrivarono in Francia, poterono esibire un salvacondotto donato loro dall' Imperatore Sigismondo il quale era anche re di Boemia. Molti altri termini con i quali vengono chiamati gli zingari rimandano ad una errata identificazione con esiliati egiziani che a causa della loro fede religiosa erano stati cacciati dalla terra d'Egitto. Gitani, Gitans, Gypsies. Spesso anche il modo di vivere ha determinato il loro nome. In Sicilia si usa ancora il nome Camminanti. Questi appellativi generalizzano una caratteristica, quella di non avere fissa dimora, a tutto un popolo anche se la maggior parte è attualmente stanziale. Rom è il nome che ormai usano per designare tutto il loro popolo anche se alcuni nomadi che nelle loro migrazioni arrivarono in Occidente nel tardo medioevo ( XIVXV secolo ) preferiscono essere chiamati Sinti.

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Questo nome deriva da Sindh: la regione del Pakistan occidentale, attraversata dal fiume Indo, dalla quale erano partiti. Da notare poi che, per fare un esempio, gli zingari dell'Iran non conoscono e quindi non usano il nome rom, quelli di Spagna preferiscono chiamarsi Kalo e quelli dell'Armenia usano per se stessi il termine Lom. Questo popolo, che per molto tempo ha abitato le regioni dei Balcani, usa inoltre chiamarsi con altri nomi che ricordano il lavoro che facevano in quelle regioni. Così troviamo i nomi Lovara, dalla radice linguistica ungherese lov che significa cavallo e che ci ricorda che erano bravi allevatori di cavalli, e Kalderas, dal tardo latino usato in Romania caldaria che significa paiolo; molti zingari lavoravano infatti come fabbri. Tentare di trovare un nome comune che vada bene per tutti i gruppi, molto diversi tra loro, che compongono questo popolo, risulta dunque molto difficile. E prevale il denominarli zingari dimenticando l’origine negativa del termine. Crediamo sia più corretto utilizzare l’autodenominazione che ogni popolo si dà (il termine Rom, ad esempio, significa “uomo”, “persona”). In Italia vi sono circa 140.000 tra Rom e Sinti e di questi circa 70.000 sono italiani e lo sono da secoli. Altri 30.000 Rom hanno passaporto rumeno (e fanno quindi parte dell’Unione Europea) e gli altri 40.000 provengono dalla ex Jugoslavia e non hanno avuto riconoscimento dai nuovi stati sorti negli ultimi anni nella regione balcanica. È importante ribadire ciò perché vi è la tendenza a considerarli tutti stranieri e extracomunitari. 124


La maggior parte delle comunità Rom presenti in Italia è passata progressivamente negli ultimi trenta anni da un sistema di vita prevalentemente nomade a uno seminomade fino ad arrivare ad oggi, con l’adozione di un sistema di vita sedentario. Sono pochissime quelle che ancora attuano un nomadismo stagionale, alternando viaggi nel nord Italia nel periodo estivo per poi trascorrere l’inverno nelle residenze abituali, completamente estinte le famiglie nomadi. La scomparsa del nomadismo incide fortemente anche sui rapporti con gli altri gruppi. Anche i Rom hanno dovuto adattare la loro vita ai cambi epocali che l’Italia ha fatto nell’ultimo secolo: da una società prevalentemente agricola al forte processo di industrializzazione, e oggi di prevalente terziarizzazione. Sul piano sociale e politico nel corso degli ultimi anni si è andata delineando una maturazione che ha suscitato la nascita di forme associative e di movimenti di portata internazionale. Da oltre 40 anni esiste la fondazione dell’Unione Internazionale Romaní nata per difendere i diritti di questi popoli e tutelare la loro cultura. Alcune di esse vedono la partecipazione congiunta di Rom e gagé (così sono chiamati dai Rom le persone appartenenti ad altre etnie). In mezzo a situazioni di disgregazione sociale ed alla perdita di identità sorgono segnali contrapposti di speranza e di rinnovamento che testimoniano di una ribellione ad un destino amaro. Per fare un esempio specifico, tradizionalmente i Rom abruzzesi si occupavano di artigianato, commercio e allevamento dei cavalli e attività connesse.

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Queste attività, esercitate nelle fiere di diverse città italiane, alle porte delle quali i Rom si accampavano per diversi giorni, esigevano un continuo girovagare ed erano fonte di guadagno. Con la progressiva riduzione delle attività tradizionali e la conversione delle stesse in attività più redditizie (commercio di auto usate) o che richiedevano maggiore stabilita in un luogo, il nomadismo è oggi praticamente scomparso tra i Rom abruzzesi. Un apporto determinante è stato dato anche dalle politiche locali votate ad una maggior apertura nei confronti dei Rom e Sinti con l’assegnazione di case popolari. In questo lasso di tempo, infatti, i Rom abruzzesi hanno cambiato il loro tenore di vita e molte famiglie, oggi, le stesse alle quali un tempo le autorità non permettevano di entrare nelle fiere perché prive di documenti e di stabile dimora, sono ricche, alcune ricchissime. Sono veramente poche, pochissime, le famiglie che non hanno un tenore di vita accettabile. Così i Rom abruzzesi, come pure i Sinti italiani, che esercitano le tradizionali attività di giostrai e circensi, che nel loro insieme rappresentano i Rom di antico insediamento in Italia, grazie alle condizioni di vita raggiunte, vorrebbero ben “apparire” ed essere ben considerati dall’opinione pubblica, anche in relazione alle loro attività. Per questi motivi il recente e recentissimo arrivo in Italia dei Rom provenienti dai territori della ex Jugoslavia e dalla Romania ha riproposto problematiche che si credevano superate.

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Si ritorna ad affermare che i Rom sono inadatti al vivere in società, che non vogliono lavorare, che vogliono solo vagabondare, che sono avvezzi a tali miserie per tradizione o costume e che perciò scelgono di vivere in tal modo. Nulla di più falso, nessun essere umano sceglie di vivere di stenti, di miserie e di sporcizia se non è costretto. Molti vivono stipati nei campi nomadi, veri e propri ghetti dall’aspetto ripugnante, situati nei quartieri degradati delle città, sovraffollati, in condizioni igienico-sanitarie precarie, costretti a condividere uno spazio vitale con comunità estranee, rifiutati, disprezzati, minacciati dai residenti. I Rom della ex Jugoslavia e della Romania, hanno l’abitudine di chiedere l’elemosina facendo tremare le mani, vengono chiamati anche “Tremaròle” e da qualcuno, con disprezzo, anche “gavalé”. Quest’ultimo termine ha un’accezione fortemente dispregiativa e si avvicina al significato di “miserabile”. Esso e utilizzato in maniera impropria perché è un aggettivo che deriva dal sostantivo gàve che significa “villaggio, paese” ed e quindi sinonimo di gagé (non rom), ma resta invariato il peso del disprezzo che questo termine comporta. Gli attriti che si elevano come barriere divisorie anche fra le stesse comunità rom sono, in ultima analisi, il risultato di un insieme di cause fra le quali possiamo sicuramente citare: le politiche attuate contro i Rom dalle autorità, basate da sempre sul rifiuto di riconoscere alle culture rom una propria dignità e dirette alla frantumazione delle comunità. La scarsissima conoscenza della propria storia e delle proprie origini da parte degli stessi Rom e Sinti impedisce loro di avere un quadro completo del loro mondo e dell’importanza della propria identità culturale;

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la dilagante disinformazione sul mondo rom genera stereotipi negativi e pregiudizi che sono, a loro volta, alla base delle manifestazioni razziste e xenofobe contro i rom. Come ogni popolo, anche i Rom e i Sinti chiedono agli stati europei, di cui sono cittadini, di potersi organizzare autonomamente e di poter decidere liberamente della loro vita e non seguire i modelli culturali imposti dall’esterno. Tutte le costituzioni europee e le legislazioni comunitarie prevedono la difesa delle minoranze etniche e linguistiche come patrimonio nazionale che va riconosciuto e valorizzato. Così anche i Rom, Sinti e altri popoli con cui condividono l’origine, devono avere l’opportunità di scegliere i sistemi di vita più adatti e rispondenti alle proprie esigenze e a quelle delle proprie famiglie. Chi decide di votare la propria vita al nomadismo, abbia la possibilità di poter educare i propri figli (anche attraverso l’insegnamento a distanza) e di trovare possibilità di sosta non in campi illegali e di fortuna, espressione di ghettizzazione e di rifiuto da parte della cosiddetta società civile e democratica, ma in aree di sosta attrezzate, ampie, aperte e sicure. In alcune città già esistono e funzionano bene. Aree custodite, ma che non sopprimano la libertà individuale o la privacy familiare, che possano essere punto di incontro, di scambio, di crescita fra chi usufruisce civilmente delle strutture a disposizione, e non un luogo di rastrellamento, di controllo e di discriminazione. Strutture flessibili, quindi, adattabili alla situazione e che evitino l’emarginazione. Aree siffatte, favorirebbero nel Rom il rispetto per se e per gli altri e abbasserebbero il livello di conflittualità fra il mondo romanó e la società. 128


E’ compito delle istituzioni affrontare in modo coerente e strategico la questione dei diritti di cittadinanza che riguardano anche il resto della popolazione. Diritti fondamentali che riguardano prioritariamente la casa, l’istruzione (la scolarizzazione dei bambini o la formazione a distanza per i gruppi nomadi); il diritto al lavoro e al riconoscimento delle peculiarità culturali di questi popoli.

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29. L'antenna sul nuraghe −

Adesso si sta esagerando. Mettere l'antenna proprio nella collina

“ su

Craminu”, e un'altra sul Monte Tului. Domani avremo antenne dovunque anche sopra i nuraghi. E' una profanazione, una fonte di inquinamento che porterà solo malattie e gente che morirà di tumore. Un asservimento a imprese che pensano solo a far soldi e della salute e della difesa dell’ambiente non interessa nulla. Si continua a discutere da anni, a Dorgali, delle concessioni a mettere una potente antenna nel colle del Carmelo,

che permette ai mezzi di comunicazione di

trasmettere efficientemente in tutta la regione. Diverse posizioni e diversi interessi si scontrano in uno scenario in cui sacro e profano, valori e denaro, tradizione e modernità fanno da sottofondo a una battaglia che rischia di finire nei tribunali. Da una parte gli apostoli del moderno : − Si vuole negare una libertà sancita nell'articolo 21 della Costituzione italiana : “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” - E i nuovi mezzi di comunicazione hanno bisogno di nuove tecnologie, come l'antenna, che permetteranno a radio, televisioni, telefonini e computer di funzionare. Di sacro qui conosco solo il diritto della gente a lavorare e quello di non intralciare la modernità in nome di tradizioni che non hanno più nessun senso. Si vuole la televisione, internet, banda larga, e poi non si permette di mettere una antenna che, la scienza lo dimostra, non provoca direttamente nessuna malattia. E non saranno quattro nostalgici a poter fermare il progresso. 130


− Si riempiono la testa di “Sarditudine”, di “Contos de Ochile” di “Sardinna Indipendente” ma è come voler tappare il sole con un setaccio. − I tempi moderni chiedono nuove scelte e non si può tornare indietro. Chi ha la macchina non rimpiange il carro dei buoi o l'asino. Oggi anche il pastore guarda la televisione satellitare nel proprio ovile e ha in tasca il telefonino. E usa internet e facebook per promuovere la propria azienda che non è più solo mungere e far formaggio ma anche agriturismo e agricoltura biologica. Indietro non si torna. Di tutt’altra posizione chi tenta di opporsi alle imposizioni di imprese industriali e delle nuove comunicazioni che cercano, in nome della modernità, di imporre un modo di essere estraneo che non tiene presente i valori tradizionali della cultura locale ritenendoli obsoleti e anacronistici.. Si confrontano visioni del mondo diverse e la lotta, finora solo verbale, porta a considerare la storia tutta della Sardegna, della comunità locale di Dorgali, ma anche il suo futuro. Vedere le antenne sopra i nuraghi. Per alcuni è una profanazione e un rischio per la salute della gente; per altri una bella sintesi di passato e futuro con una stessa e coerente funzione : migliorare la vita delle persone. Tradizione e modernità, locale e globale, sarditurdine e monditudine. “Ndamus a bidere de donnia colore …“86 Speriamo sia un arcobaleno di pace e felicità per la Sardegna e per il mondo.

86

“Ne vedremo di ogni colore”

131


30. Poesie : Durgali

(Don Zuanni Mulas)

Sedet in pes de Bardia,

Seduta ai piedi del Bardia

pagu attesu dae su mare opalinu,

poco lontano dal mare opalino

e hat de fronte zigantes

ha di fronte giganti

de larghissumu orizzonte

di larghissimo orizzonte

Mont'Albo, s'Ortobene e s'Orgolesu.

Mont'Albo, l'Ortobene e l'Orgolese

Li riet su sole e l'est in mesu garrula

Gli ride il sole e in mezzo garrula

de perenne alba una vonte

d'alba perenne una fonte

creschet s'aranzu, s'ulumu

crescono gli aranci e l'alamo

su listincu d'oro accesu

il listinco d'oro acceso

Hat buscos e pasturas

ha boschi e pascoli

una ricchesa disvelantesi ancora

una ricchezza ancora da scoprire

a frore 'e terra

ha fior di terre

e binos dignos de regale mesa.

e vini degni di regali mense

Fizzos chi s'aspru logu 'ortana

Figli che gli aspri luoghi cambiano

in serra de ridente coltura,

in serre di ridente coltura

e chin fieresa ischin

e con fierezza sanno

bincher o morrer oje in gherra.

Vincere o morire oggi in guerra. 132


Durgali (Larettu Loi) In fundu de unu monte collocà

Distesa in fondo a un monte

tra s'Ozzastra, Barbagia e Baronia,

tra l'Ogliastra, Barbagia e Baronia

a sas vonas usanzas attacà

legata alla buone usanze

ser bella e ospitale idda!

Sei bella ed ospitale città mia.

Turistas, emigrantes, istranzos

Turisti, immigrati, forestieri

de coro ti hane semper visittà

con affetto ti hanno sempre visitata

gasi ti lassan chin malinconia

e ti lasciano con malinconia

nemos ti podet ae irmenticà.

Nessuno ti potrà dimenticare.

Sos fizzos tuos son travalladores

Lavoratori son i figli tuoi

coltivan campos e binzas issoro

coltivan campi e vigne loro

i' sas campagnas prenas de colores

E le campagne piene di colori

Har zente sana, onesta 'e bonu coro

Hai gente sana, onesta e di cuor buono

artigianos, massajos e pastores

artigiani, braccianti e pastori

son connotos po juche manos de oro.

Famosi per aver d'oro le mani.

133


Dorgali (Salvatore Fancello) Dae 'enas de Bardia ammaustia

Dalle sorgenti di Bardia dissettata

chi l'allattan e li dan ispera,

che l'allattano e gli dan speranza

s'isterret dae Goritto a contonera

si stende da Goritto a cantoniera

in brazzos de Marinu, sa 'idda mia.

Nelle braccia del marino paese mio.

E in ierru paret isticchia

Nell'inverno sembra si nasconda

a ocros de zente furistera,

agli occhi della gente forestiera,

e naran ca est bella e critichera

e dicono sia bella e criticona

onesta, ma pomposa e presumia.

Onesta, ma sfarzosa e presentuosa.

E la 'asat sa luna dae monte,

La bacia la luna dal monte

cando 'essit sa zente in passizada

quando esce la gente a passeggiare

e sas nottes de istade paren die,

e le notti d'estate sembran giorno

e paret chi si frimet in Su ponte

e sembra che si fermino nel Ponte

pittulande massiddas de granada

pizzicando guance di melograno

e sinos tundos candidos che nie.

E seni tondi candidi come la neve.

134


A sos amigos de Durgali 87 - (Montanaru) Amigos mios fortes e bellos de Durgali Ieo sempere bos’amo d’affettu naturale, E bos’amento sempere, cantu istis bonos, Che i sa terra ostra de cantos e de sonos. Oh! Durgali graniticu, sa perla de sa Sardinna, Cando curriat a rios su inu in donnia inza E passaian superbas comente ’e imperadoras De oriente sas tuas brunas binnennadoras E a sos ultimos seros, tepidos, luminosos, De capidanni enian sos carros gloriosos De achina niedda e mustu, de mustu prepotente, Buddinde chei su sambene de custa brava zente. E dae amicu amicu, a fine de Sant’Andria, Mudaos andaian in manna cumpannia A istupare cuntentos sas nòdidas carradas De inu veru, de annos e annos aragaddadas, In sos fundagos friscos nieddos aranzolados

87

Riscritta in dorgalese (n.d.r.)

135


Mai dae sa lughe e su sole disturbados. E monte Ardia avvesu a tottu cussas festas Dae sas altas biancas e poderosas crestas, Che unu Deus anticu de forza e d’energia Beneighiad’a tie terra de Baronia Beneighiat sas serras lontanas de Nuoro Desoladas comente su nostru forte coro. E cantaian cuntentas sas bellas durgalesas De te cuddas’anticas e liberas impresas Contr’e sos Corsaros crudeles de Turchia, Cando pesad’in armas curriat Baronia Abochinande in sos montes chin ira e maiestade Morte a su Turcu! o frades, vivat sa libertade! Oie però sas vinzas sone isperdias malamente. Prus che a prima alligra no est sa bona zente; Oie prus non buddit su inu in sos cupones E sas binnennadoras non cantan prus canzones. Ma isperae, isperae frades de Baronia Ca mai eterna durat nessuna maladia. 136


Coment’in donnia coro siccau in su dolore A frorire torrad’isplendidu s’amore, Gasi sas vinzas vostras a nou ane a torrare E i su inu famosu in summa de buffare A sos frundacos friscos, nieddos aranzolados Mai dae sa lugh’e su sole disturbaos. De nou in sas binnennas brunas binnennadoras Comente una troppa de Janas incantadoras Depen passare ponende in briu sa cussorza Ettande coinzolos de achina a sa cracadolza Inue lizeru, siccu, fieru e cambi nudu Unu catticadore ezzu, arvi canudu, Serenu che i s’atonzu tebiu de Durgali Li s’hat a narrer: «Bellas mai bos tocchet male E sien sos fizzos vostros riccos de coro e fide, Comente ricca de achina occannu fit sa ide!».

137


AGLI AMICI DI DORGALI Amici miei, forti e belli di Dorgali, vi amo sempre con affetto spontaneo e sempre vi ricordo, perchÊ siete stati buoni davvero, come la vostra terra di canti e suoni. O granitico Dorgali, perla della Sardegna, quando scorreva il vino a fiumi in ogni vigna e le tue brune vendemmiatrici passavano superbe come imperatrici d’Oriente! E nelle ultime sere tiepide e luminose di settembre, venivano i carri gloriosi di uva nera e mosto, di mosto prepotente, che bolle come il sangue di questa brava gente. E dagli amici, alla fine di novembre, vestiti a nuovo, si andava in grande compagnia a stappare felici le straordinarie botti di vino vero, incrostate dagli anni, nelle cantine fresche, buie e piene di ragnatele, che mai venivano turbate dalla luce del sole.

138


E il monte Bardia abituato a tutte quelle feste, dalle alte e bianche e poderose creste, come un dio antico di forza e di energia, benediceva te, terra di Baronia, benediceva le terre lontane di Nuoro desolate come il nostro forte cuore. E le belle dorgalesi cantavano contente quelle antiche imprese di libertà contro i corsari crudeli di Turchia, quando, sollevatasi in armi, correva la Baronia gridando fra i monti con rabbia e maestà: «Morte al turco! Fratelli, viva la libertà!». Oggi però le vigne sono malamente rovinate. La brava gente non è più allegra come prima. Oggi non fermenta più il vino nei tini e le vendemmiatrici non cantano più canzoni. Ma sperate, sperate, fratelli di Baronia, ché eterna non dura nessuna malattia. Come in ogni cuore seccato dal dolore torna sempre a fiorire uno splendido amore, così le vostre vigne guariranno, e il vino famoso deve tornare alle fresche cantine buie e piene di tele di ragno mai turbate dalla luce del sole. 139


Nuovamente, durante le vendemmie, le brune vendemmiatrici, come una truppa di fate incantatrici, devono passare rallegrando la campagna, gettando cesti pieni d’uva alla folla, dove dritto, secco e fiero, a gambe nude, un vecchio pigiatore, dalla barba bianca, sereno come il tiepido autunno di Dorgali, dirà loro: «Belle, nessun male vi colpisca mai, e i vostri figli siano ricchi di coraggio e di fede, come ricca d’uva quest’anno è stata la vite!».

Nuraghe Mannu

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Su cantu de su teracu pastore (Fabrizio De Andrè) In nue frorit su romasinu / b'hat una untana iscura / a nue andat su destinu / unu ilu de tristura / cale est sa manu zusta / non mi l'ane mai imparau / cale est su numene eru / alu non mi l'han contau. Cando sa luna perdet sa lana / e su puzzone sa gana / donnia anzelu in cadenas / e donnia cane appeddat

/ pica sa tristura in manos / e ghettachela a frumene / esti de ozzas su dolore / e

prenalu de prumas. In donnia ozza de lidone / dae neco a mare / c'appo lassau carchi pilu / in donnia eliche un'iscrittu / de sas resorzas mias / s'amore de domo / s'amore de biancu istiu / no l'appo mai connotu / no l'appo mai traiu . Babbai astore,

/ mammai pazzarzu / in pittu de sa collina /

sos ocros chene undu /

accumpanzan sa luna / notte notte notte sola / sola che focu / pone sa conca tua / in su coro miu / e a pacu a pacu / lassalu morrere.

Il Canto del servo pastore Dove fiorisce il rosmarino / c'è una fontana scura / dove cammina il mio destino / c'è un filo di paura / qual è la direzione / nessuno me lo imparò / qual è il mio vero nome / ancora non lo so . Quando la luna perde la lana / e il passero la strada / quando ogni angelo è alla catena / ed ogni cane abbaia / prendi la tua tristezza in mano / e soffiala nel fiume /vesti di foglie il tuo dolore / e coprilo di piume. Sopra ogni cisto da qui al mare/ c'è un po' dei miei capelli / sopra ogni sughera il disegno / di tutti i miei coltelli / l'amore delle case / l'amore bianco vestito / io non l'ho mai saputo / e non l'ho mai tradito . / Mio padre un falco mia madre un pagliaio / stanno sulla collina / i loro occhi senza fondo / seguono la mia luna / notte notte notte sola /sola come il mio fuoco / piega la testa sul mio cuore / e spegnilo poco a poco.

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