Associazione culturale
Walser Riva Valdobbia Valle Vogna
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VOGNA ANNUALE - DICEMBRE 2017
Caro Lettore, ci presentiamo con un breve cenno rivolto a quanto l’associazione si prefigge, speriamo di poter approfondire con Te i nostri ideali e Ti ringraziamo sin d’ora per la Tua collaborazione. Quello in cui crediamo è il lavoro di squadra, unico a poter resistere alle difficoltà che “l’oggi” ci presenta, crediamo nel mantenimento di una storia costruita da piccoli gesti quotidiani ed enormi sacrifici, tangibili in ogni angolo della nostra Valle. Crediamo in uno sviluppo sostenibile, quella che chiamiamo la “terza via”, percorsa da visitatori attenti, da un turismo rispettoso, che sia connubio tra amore per la montagna e servizi offerti, servizi che non cannibalizzino il territorio. Ma non dimentichiamo il nostro DNA eco-museale, che ci rende testimoni di un passato storico di rilievo come quello Walser che va salvaguardato, studiato e diffuso. Grazie per l’aiuto ed il sostegno che vorrete dedicarci, ci trovate all’indirizzo email walser.rivavaldobbia@gmail.com e sul sito www.vallevogna.eu
Buon(Il Team) Natale!
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ATTIVITÀ 2017 Un breve cenno a quanto abbiamo vissuto quest’anno… Ripristinata l’associazione culturale a fine primavera 2017, il programma dell’estate trascorsa ha rappresentato solo un primo approccio alle molteplici attività che una Valle come la nostra può offrire…
La Locandina Estate 2017 Benvenuti in Valsesia !! Vi proponiamo un piccolo programma che speriamo possa allietare le vostre vacanze o essere una breve pausa durante il lavoro. Lo scopo dell’Associazione è di condividere le bellezze del nostro territorio, vivendo insieme esperienze diverse che nutrano il nostro spirito in questi luoghi che noi eleggiamo luoghi “dell’anima”. Insieme per: proteggere, percorrere, vivere la nostra Valle. 6 Agosto - MUSIC ALTURA, ALPE PECCIA VALLE VOGNA
Gli amici dell’Associazione Wild portano il loro programma con Music Altura in Valle Vogna. 8 Agosto - PASSEGGIAMO CON IL NOSTRO MIGLIORE AMICO
Il cane è il migliore amico dell’uomo. Ma se viviamo il rapporto con rispetto dell’ambiente e del prossimo è ancora più appagante. Passeggiata con i nostri amici, lungo la Valle Vogna. Accompagnati da due esperte educatrici cinofile di PEC - Progetto Educativo Cinofilo. Parleremo di loro, di noi e di come educarli. 12 Agosto - C’ERA UNA VOLTA… FIORI, FIABE, FELICITÀ!
Giornata dedicata ai bambini e non solo … escursione guidata lungo l’alta via dei Walser alla scoperta della flora e della fauna locale. Arrivo presso Museo Etnografico Walser – Rabernardo, dove rivivremo l’esperienza dei racconti delle fiabe nella stalla. 14 Agosto - PASSEGGIAMO CON IL NOSTRO MIGLIOR AMICO
Ultima opportunità … per ora ... di approfondire la conoscenza del nostro Migliore amico con Ass. PEC - Progetto Educativo Cinofilo. L’escursione si svolgerà come da precedente programma dell’8 Agosto. 16 Agosto - “SULLA VIA DEI MERCANTI”
Fraz. Rabernardo Valle Vogna: spettacolo teatrale itinerante a cura dell’associazione culturale “La Compagnia Itinerante”. 19 Agosto - “MONTAGNA ANTICA, MONTAGNA DA SALVARE”
Escursione a cura del CAI VARALLO lunga l’Alta via dei Walser e sosta al Museo di Rabernardo; rientro nel pomeriggio.
Gli attori de “La Compagnia Itinerante” insieme ai frazionisti di Rabernardo
…L’estate era incominciata con la partecipazione di alcuni nostri rappresentanti ad un importante evento in Austria (Voralberg)… Il 25 giugno 2017, l’associazione Walser Vorarlberg ha festeggiato il suo 50° compleanno a Kleinwalsertal. Dopo la S.Messa nella chiesa parrocchiale di Riezlern è seguito un’agape con musica del villaggio di Davos. Nella sala riunioni della comunità si è svolta in seguito l’assemblea generale annuale. Nel pomeriggio la cerimonia ha avuto luogo nella Walserhaus di Hirschegg con un grande concerto di Walser Choice con dieci cori. Più di 500 i visitatori presenti. …Anche i mesi autunnali sono stati gratificanti: dalla visita di Thomas Gadmer, Segretario dell’Associazione Walser Graubuenden (Canton Grigioni), di cui pubblichiamo una bella lettera che si conclude con un benaugurante arrivederci, alla visita in Valsesia di un team di ricercatori degni di nota, che hanno potuto apprezzare le nostre caratteristiche etnografiche, culturali ed architetto-
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Associazione Culturale Walser Bruno Pelli e Roberta Locca Via Roma 17 I-‐10130 Guardabosone (VC) Davos, 28. November 2017 Grazie per la vostra ospitalità Cari amici dell’ Associazione Culturale Walser del Val Vogna/Riva Valdobbia! Cara Roberta, Caro Bruno! Mi dispiace di scrivere in tedesco – aber es gäid mer vil ringer va der Hand! Am 25. September 2017 besuchte ich auf Einladung von Roberta Locca und Bruno Pelli das Val Vogna. Es war für mich der erste Besuch dieses wundervollen Tals. Das Val Vogna interessiert mich schon lange – nicht zuletzt aufgrund des Buchs von Eberhard Neubronner, das schon meinen Vorgänger Kurt Wanner faszinierte. Zu Fuss zogen Roberta, Bruno und ich bei herrlichem Herbstwetter los: Via Selveglio, Oro, Ca’ Vescovo gelangten wir auf malerischen Walserpfaden zum Weiler Rabernardo. Schon auf dem Weg dahin beeindrucken die vielen wunderschön restaurierten Walserhäuser. Man spürt förmlich die Liebe der Eigentümer zu diesen kulturellen Zeugen der Walserkultur im Val Vogna. Auch die freistehenden Backöfen, Fusswege, Trockenmauern, Gärten usw. werden mit viel Liebe und Sorgfalt gepflegt und instand gehalten. Einen Höhepunkt aber bildet das „Museo Etnografico Walser“ in Rabernardo, das von Robertas Vater gegründet und nun von ihr und Bruno zu neuem Leben erweckt wurde. Im Gegensatz zu den Walserhäusern in Graubünden sind im Val Vogna Haus, Scheune und Stall unter einem Dach und auf mehreren Stockwerken vereinigt – etwas absolut Einzigartiges, das wir in Graubünden eher aus dem Engadin kennen. Die ebenfalls dort zu besichtigende „Stallwohnung“ ist ein ausserordentliches Zeugnis einer archaischen Wohnweise, wie sie in der bäuerlichen Frühkultur Europas weit verbreitet war, heute aber „in der Schweiz nirgends mehr vorkommt“ (Paul Zinsli). Das Museo in Rabernardo bietet einen fantastischen Einblick in die Walserkultur im Val Vogna bis hin zu den kunstvollen Klöppelarbeiten, die im 19./20. Jahrhundert entstanden und weite Verbreitung fanden. Tief beeindruckt von diesem Einblick in die lokale Walserkultur, die mir von Roberta und Bruno vermittelt wurde, trat ich – nach einem gemütlichen Imbiss in San Antonio – den Heimweg an. Es freut mich sehr, wenn der Kontakt der Walservereinigung Graubünden mit der Associazione Culturale Walser im Valsesia gefördert weiter werden kann. Resultat dieses oben beschriebenen Besuchs ist die Idee einer Reise „va Walser zu Walser“ von 73 Graubünden ns Valsesia Jahr 2018. er V orstand er Dischmastr. • 7260 DavosiDorf • Tel. 081im 664 14 42 • FaxD081 664 19 42 • d wvg@walserverein-gr.ch Walservereinigung Graubünden z eigte a n s einer S itzung v om 2 2. N ovember 2017 www.walserverein-gr.ch • Postcheck 70-7821-2 grosses Interesse dafür. Wir freuen uns, die Planung dieser Reise mit euch in Angriff nehmen zu können! Bis bald wieder, im Val Vogna! Herzlich grüsst euch WALSERVEREINIGUNG GRAUBÜNDEN
Thomas Gadmer, Sekretär
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niche… Grazie per la vostra ospitalità Cari amici dell’Associazione Culturale Walser – Valle Vogna/ Riva Valdobbia. Cara Roberta, Caro Bruno! Mi spiace scriverVi in tedesco, ma esce molto meglio dalla mia mano! Il 25 Settembre 2017, su invito di Roberta e Bruno, ho visitato la Valle Vogna. E’ stata per me la prima visita di questa meravigliosa valle. La Val Vogna mi interessa da molto tempo- anche per il libro di Eberhard Neubronner, che affascinò già il mio predecessore, Kurt Wanner. A piedi, in una splendida giornata autunnale, Roberta, Bruno e io ci siamo messi in cammino attraverso Selveglio, Oro e Cà Vescovo, percorrendo sentieri Walser pittoreschi, per arrivare infine al villaggio di Rabernardo. Già lungo il cammino verso quella frazione sono stato impressionato dalle molte abitazioni Walser, tutte meravigliosamente restaurate. Si percepisce proprio l’amore dei proprietari verso queste testimonianze della cultura Walser in Val Vogna. Anche i singoli forni frazionali, i sentieri, i muri a secco, gli orti e tutto il resto sono curati con amore e conservati coscienziosamente. Ma il culmine è costituito dal Museo Etnografico di Rabernardo, fondato dal padre di Roberta e ora riportato a nuova vita da Lei e Bruno. A differenza delle abitazioni walser del Canton Grigioni, in Val Vogna la casa riunisce sotto un unico tetto, e su più piani, stalla, abitazione e fienile. Per noi è una cosa rara, che si riscontra soltanto in Engadina. L’ “abitare nella stalla”, ben evidente al museo, è testimonianza straordinaria di un modo di vivere arcaico, ampiamente diffuso nell’ antica cultura contadina europea, ma che “oggi in Svizzera non esiste più” (Paul Zinsli). Il museo di Rabernardo offre un’immersione fantastica nella cultura Walser, fino ad arrivare ai lavori artistici come il puncetto, che ebbe origine ed ampia diffusione nel XIX e XX secolo. Profondamente impressionato da questo viaggio nella cultura Walser locale, che Roberta e Bruno mi hanno trasmesso, e dopo un accogliente pranzo a Sant’Antonio, mi avviai verso casa. Mi farebbe molto piacere se questo contatto tra il Walservereinigung Graubuenden e l’Associazione Culturale Walser in Valsesia potesse proseguire in futuro. Il risultato di questa mia visita è l’idea per un prossimo viaggio “da Walser a Walser”, dai Grigioni alla Valsesia nel 2018. Il Consiglio di Walservereinigung Graubuenden, durante la riunione del 22 Novembre 2017, ha dimostrato un grande interesse in proposito. Saremo lieti di organizzare questo viaggio insieme a voi. A presto in Val Vogna! Cari saluti a Voi. Thomas Gadmer (Traduzione di Bruno Pelli)
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La Valsesia e le Alpi
Un gruppo di ricercatori alpini in visita al Museo Etnografico di Rabernardo di Roberto Fantoni - (Corriere Valsesiano del 27.10.17)
Nel fine settimana compreso tra venerdì 13 e domenica 15 ottobre hanno visitato la Valsesia alcuni ricercatori alpini. Il gruppo era composto da Enrico Rizzi (storico delle Alpi e della colonizzazione walser), Giovanni Kezich (direttore del Museo degli Usi e Costumi delle Genti Trentine, MUCGT, curatore di atti di convegni e classici dell’etnografia alpina), Antonella Mott (conservatrice del MUCGTe autrice di numerosi saggi di enografia alpina), Alexis Betemps (ex direttore del Centre d’Etudes Francoprovençales, autore di molti libri di cultura alpina) e Claudine Remacle (autrice di saggi e libri sull’architettura alpina). Alcuni di loro avevano già partecipato ad eventi culturali organizzati in Valsesia; per altri è stata la prima occasione per conoscere la valle. A questo gruppo si è aggiunto Emmanuel Desveaux (dirigente dell’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e direttore del Musée du quai Branly, il grande museo di etnografia sorto recentemente ai piedi della Torre Eiffel). L’etnologo e antropologo francese, allievo di Lèvy-Strauss, sta completando la stesura di un libro sulle forme dell’insediamento umano nelle Alpi. A questo gruppo si sono unite alcune persone legate da amicizia ad alcuni ospiti (Johnny Ragozzi, Angela Regis e Marta Sasso). Gli ospiti hanno raggiunto Varallo nel pomeriggio di venerdì. In serata, dopo la cena, hanno avuto modo di esaminare il costume tradizionale valsesiano e la lavorazione del puncetto. Nei due giorni successivi sono state visitate alcune località valsesiane, alternando brevi presentazioni all’osservazione diretta di paesaggi antropici e di forme di cultura materiale. Sabato il gruppo ha visitato Riva Valdobbia. A Ca di Janzo si è parlato della val Vogna, un insediamento sparso di fondazione multietnica, presentando le forme di insediamento permanente e stagionale e discutendo le modalità di colonizzazione tardomedievale. L’escursione è proseguita per le frazioni di versante della valle, raggiungendo le frazioni Oro (dove il gruppo si è soffermato sull’osservazione di un edificio rurale tardomedievale in corso di restauro conservativo), Ca Vescovo e Rabernardo. Dopo l’osservazione di questa frazione, della cappella, del forno e del mulino, il gruppo ha potuto visitare il Museo etnografico. A fine pomeriggio la giornata si è conclusa con la vista al centro storico di Riva. Durante la giornata seguente i ricercatori alpini hanno visitato gli insediamenti alla testata delle valli Egua e Sermenza. La mattinata è stata dedicata a Rima, un insediamento accentrato di fondazione walser. Dopo l’osservazione delle quattro costruzioni tardomedievali in legno presenti nel nucleo centrale dell’abitato la visita guidata
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è proseguita attorno alle case sei-settecentesche disposte a schiera nelle file esterne del paese. L’ingresso in alcune abitazioni ha permesso l’analisi di alcune tipologie costruttive e l’osservazione dei fornetti in pietra verde, una rivoluzione del modo di abitare nelle Alpi che ha introdotto nelle case una stanza riscaldata senza fumo. Ha arricchito la visita l’osservazione dei prati attorno al villaggio, dove sono state illustrate le alpi di Rima e sono state presentate le forme di conduzione del Consorzio dei prati. Nel pomeriggio il gruppo si è trasferito a Carcoforo. Nel corso di una ricca merenda ci si è soffermati anche sulle forme di cultura immateriale, con una breve presentazione sul pane di Natale e sulle miacce di tutti i giorni, accompagnate da una degustazione di questi prodotti alimentari valsesiani. La visita al paese è stata preceduta da un breve inquadramento storico di Carcoforo, un insediamento multietnico accentrato. Il pomeriggio è proseguito con la visita alle costruzioni tardomedievali in legno e alle “torbe mascherate” ubicate nella parte alta dell’insediamento. La giornata si è conclusa con la descrizione delle forme della devozione istituzionale, consortile e pastorale, visitando la chiesa Parrocchiale di S. Croce, l’oratorio di S. Maria delle Grazie e l’oratorio campestre della Madonna della neve. Le attività svolte in questi giorni si inseriscono in un progetto di valorizzazione culturale del laboratorio valsesiano basato su un confronto costante tra la nostra valle e le Alpi. Le modalità di conduzione dell’escursione, in cui le presentazioni basate su attestazioni documentarie si alternavano a osservazioni di forme di cultura materiale, sono state molto apprezzate dagli ospiti. Giovanni Kezich ha voluto denominare quest’escursione, nata in forma privata e spontanea, Seminario etnografico transalpino, lasciandone traccia nel libro dei visitatori del Museo di Rabernardo. La buona riuscita delle giornate è stata possibile solo grazie alla collaborazione di numerose persone che hanno collaborato alle presentazioni o che hanno aperto le loro case: Emma Dellavedova e Ornella Marchi (Varallo); Attilio Ferla, Roberta Locca, Andrea Lombi e Bruno Pelli (val Vogna); Anna Albertario, Pietro Bolongaro, Eugenia Camerlenghi, Sergio Camerlenghi, Michela Fradegradra, Anna Parish Pedeferri e Carlo Raiteri (Rima); Emma, Marta e Maurilio Dellavedova, Marino Sesone (Carcoforo).
… Questi primi mesi di attività sono stati pure confortati dalla nascita di nuove proficue collaborazioni … L’Associazione Dislivelli è nata nella primavera 2009 a Torino, dall’incontro di ricercatori universitari e giornalisti specializzati nel campo delle Alpi e della montagna, allo scopo di favorire l’incontro e la collaborazione di competenze multidisciplinari diverse nell’attività di studio, documentazione e ricerca, ma anche di formazione e informazione sulle terre alte. Dislivelli non si limita allo studio teorico del territorio alpino e dei suoi abitanti, i vecchi e nuovi “montanari”, ma intende impegnarsi direttamente per favorire una visione innovativa della montagna e delle sue risorse, con la costruzione di reti tra ricercatori, amministratori e operatori, la creazione di servizi socio-economici integrati, la proposta di interventi sociali, tecnologici e culturali capaci di futuro. Abbiamo il piacere di pubblicare alcuni articoli che il Direttore di Dislivelli , Maurizio DeMatteis ha voluto condividere con noi.
Dal “Mondo dei vinti” ai “Nuovi montanari” di Maurizio Dematteis
“Viviamo in una civiltà urbana, la civiltà alpina del futuro sarà e deve essere urbana”. Questo paradosso viene espresso dal Professor Giuseppe Dematteis, Presidente di Dislivelli, nel video “Montanari 3.0”, prodotto dall’Associazione per promuovere la sua ricerca intitolata “Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo”. (https://www.youtube.com/watch?v=JcFj4pqwhMk) Il Professor Dematteis, con il suo paradosso, pone il problema di riaffermare nelle Alpi il diritto alla città intesa come civitas, cioè come legami sociali, funzioni, servizi, lasciando a valle le questioni legate all’urbs. Un bisogno sentito particolarmente in un momento storico di forte cambiamento, dettato da una crisi economica, ambientale e culturale in atto che mina in qualche modo la dominante “cultura urbana”, questa volta intesa proprio come urbs, che accompagna i sogni di tutti, giovani compresi, da oltre 50 anni. Un momento storico in cui si è verificata un’inversione di tendenza nei dati demografici relativi alle valli alpine italiane, che dopo decenni di forte spopo-
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lamento vivono oggi una fase di “timido ripopolamento”. Le terre alte ci indicano con chiarezza che quella che ci viene raccontata ancora oggi come una “crisi economica” passeggera è in realtà qualcosa di più complesso, che coinvolge aspetti culturali e sociali profondi, che incombe funesta sulle visioni di futuro, soprattutto dei giovani. Oggi ci troviamo di fronte a un cambiamento di paradigma che cambia drasticamente le prospettive di tutti noi. Parallelamente negli ultimi anni cresce la “fame di montagna”. Nel senso che un numero crescente di persone, soprattutto giovani, sempre di più sono intenzionati a investire i loro progetti di vita nelle terre alte. Più che mai quindi c’è bisogno di istituzioni capaci di offrire a questi “nuovi montanari”, non necessariamente nuovi perché vengono da fuori ma perché portatori di una nuova forma mentis, i vantaggi di una vita civile: cioè lavoro, servizi, legami sociali, offerta culturale. Questa sarà e deve essere il futuro della montagna, ammesso che si voglia accompagnare il fenomeno del ripopolamento in modo tale che questo possa arrivare ad avere numeri significativi. Questa sarà e deve essere il futuro della montagna se si vuole che una popolazione giovane veda una prospettiva di vita futura nelle terre alte. L’INVERSIONE DI TENDENZA Nel 2005 usciva in Italia un libro fondamentale per chi si occupa di temi legati alla montagna italiana: “Le Alpi - una regione unica al centro dell’Europa”, del professor Werner Bätzing, geografo professore presso l’Università di Norimberga in Germania (Bollati Boringhieri editore, Torino 2005, 485 pag., con traduzione italiana a cura di Fabrizio Bartaletti). Il professor Batzing all’interno del volume analizzava i dati demografici del contesto alpino italiano nel decennio 19912001, e spiegava come le Alpi italiane fossero ancora soggette al fenomeno dello spopolamento in maniera pressoché generalizzata. Non più con i tassi drammatici raccontati da Nuto Revelli ne “Il mondo dei vinti” (altro libro fondamentale per leggere il recente passato), ma comunque sempre con segno negativo. Nel 2011 l’Associazione Dislivelli, di cui mi onoro di essere direttore, stampava il volume dal titolo “Montanari per scelta. Indizi di rinascita nella montagna piemontese” (Franco Angeli Editore) con i risultati di una ricerca pilota sui fenomeni demografici all’interno di tre valli piemontesi. Partendo dai dati del censimento Istat del decennio successivo a quello del professor Bätzing, cioè del decennio 2001/2011, la ricerca in maniera sorprendente registrava una battuta d’arresto del fenomeno dello spopolamento, con addirittura numeri positivi per alcuni comuni che fino al decennio prima erano ancora soggetti all’abbandono. Il lavoro di Dislivelli è continuato con una ricerca demografica lungo tutto l’arco alpino italiano, sempre partendo da dati statistici nazionali del decennio 2001-2011, di cui nel 2014 vengono stampati i risultati nel volume, dal titolo “Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo” (Terre Alte-Dislivelli, Franco Angeli editore): per la prima volta dopo decenni la ricerca provava su base scientifica l’inversione di tendenza in atto sulle montagne italiane. La scoperta di Dislivelli, condivisa e confermata da ricerche di altri centri di ricerca alpini italiani, prova per l’appunto “un’inversione di tendenza media” a livello nazionale, ma non certo la fine per le montagne nazionali dei fenomeni di emigrazione e abbandono. Anzi, la ricerca “Nuovi montanari” evidenzia come a fronte di un segno positivo di + 212.656 residenze tra il 2001 e il 2011 nei 1.742 comuni alpini italiani (212.656 su 4,3 milioni di abitanti dell’area alpina/ area Convenzione delle Alpi), ci siano ancora ben 22.000 kmq di tale area (cioè circa la metà) soggetta a spopolamento. Si tratta di ben il 18% del Nord Italia. Se poi si aggiungono gli Appennini e la parte montana delle grandi isole si arriva al 23% del territorio nazionale ancora a rischio spopolamento. CAMBIAMENTO DI PARADIGMA 18% del Nord Italia, 23% del territorio nazionale ancora a rischio spopolamento sono dati davvero allarmanti. Eppure se lasciamo da parte l’interpretazione statistica “dura e pura” per passare a un’analisi più umanistica e psicologica, ci accorgiamo che questo timido ripopolamento (+ 212.656 in dieci anni) fotografa un cambiamento epocale: un passaggio di testimone dal “Mondo dei vinti” a quello dei “Nuovi montanari”. Il “Mondo dei vinti”, che ci siamo recentemente lasciati alle spalle, era contraddistinto da una visone bipolare che vedeva la difesa di un “ambientalismo museale” accanto alla promozione di un turismo di massa con logiche tipicamente industriali. Scriveva l’antropologo Annibale Salsa sul numero di Aprile 2014 della rivista Dislivelli.eu, che si era assistito nel recente passato: “all’emergere prorompente di un certo ambientalismo fondamentalista, di matrice urbano-centrica, polarizzato sulla contrapposizione uomo-ambiente. […] L’atteggiamento che verrà assunto di fronte alle nuove emergenze ambientali sembra individuare, nella presenza sempre più residuale delle popolazioni alpine, un ostacolo alla libera manifestazione della “Natura”. La filosofia gestionale dei Parchi, soprattutto di quelli nazionali, era orientata da visioni prettamente conservazionistiche dove il montanaro veniva percepito quasi alla stregua di un intruso”. Dall’altra
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parte il “Mondo dei vinti” ha assecondato le “voglie di consumo e di divertissement” dei cittadini, che “hanno contribuito - continua Annibale Salsa nell’articolo di Dislivelli.eu - a trasformare alcuni territori in aree loisir, in ‘terreno di gioco’. [...] Ne è derivato un eccesso di ‘sportivizzazione’ dello spazio montano, responsabile della costruzione delle stazioni sciistiche di terza generazione e degli insediamenti rivolti alla pratica dello ski total, svincolati volutamente da ogni legame con le comunità residenti”. Oggi sta invece venendo avanti in maniera prepotente l’epoca dei “Nuovi montanari”, caratterizzata non più da una visione bipolare e in contraddizione, ma dalla nascita di laboratori di innovazione per uno sviluppo endogeno sostenibile che si accompagna alla valorizzazione del paesaggio come bene comune che tiene insieme tutte le attività: sociali, economiche, culturali. Partiamo dai due grossi fenomeni che hanno investito le terre alte negli ultimi 50 anni, trasformandole in quello che possiamo osservare oggi: sono la fine del modello tradizionale, travolto in modo inesorabile dal modello industriale-urbano, e lo spopolamento e abbandono del territorio. Nell’epoca dei “Nuovi montanari”, c’è chi è in grado di leggere questi fenomeni positivamente, con occhi nuovi. E sono i giovani. Perché se il modello tradizionale oggi non esiste più questo fa si che rimangano degli “spazi vuoti” per sperimentare nuove formule, per mettere in atto nuovi laboratori di sviluppo montani (e gli esempi lungo l’intero arco alpino non mancano). E se spopolamento e abbandono mettono in crisi il territorio, e anche vero che oggi in montagna c’è sovrabbondanza di materie prime naturali. Proprio quelle che in altri contesti di pianura scarseggiano sempre più. E che se utilizzate in modo responsabile, possono diventare dei “motori endogeni” per tutte le valli alpine italiane (e anche qui gli esempi non mancano). Questo si intende quando si parla di cambio di paradigma. Perché la crisi economica, cominciata già oltre 50 anni fa, in montagna difficilmente passerà. E allora bisogna pensare ad altri modelli di sviluppo partendo da quello che la montagna ha, da sempre: le materia prime. I NUOVI MONTANARI Ma chi sono questi “Nuovi montanari”? La realtà dei “Nuovi montanari” è una realtà molto variegata, in cui possiamo trovare montanari per nascita che, come si diceva, non necessariamente devono venire da fuori, ma portatori di una nuova forma mentis. Neo-montanari che vengono da altre province, stati o continenti. E ancora pensionati, professionisti, pendolari, stagionali ecc. Per un’analisi più dettagliata del variegato mondo dei “Nuovi montanari” si rimanda al volume “Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo” (Terre Alte-Dislivelli, Franco Angeli editore) realizzato dall’Associazione Dislivelli. Qui mi preme invece sottolineare una delle componenti dei “Nuovi montanari”, e precisamente quella di professionisti e imprenditori legata all’offerta di una nuova forma di turismo esperienziale in montagna. Per fare questo mi avvalgo di alcuni passi di una mia recente pubblicazione dal titolo Via dalla città (derive&Approdi 2017), all’interno della quale ho raccolto la testimonianza di alcuni giovani “Nuovi montanari” che hanno lasciato le tre città simbolo del “Miracolo industriale” italiano, Torino, Milano e Genova, per andare a sperimentarsi in nuovi progetti di vita in montagna. DAL TURISMO “INDUSTRIALE” A QUELLO “ARTIGIANALE” Oggi non si può più parlare genericamente di “turismo alpino” come si è fatto in passato, quando il modello del turismo di massa, o “turismo industriale”, perché segue logiche di tipo industriale, legato allo sci da discesa, era l’unico e il trainante. Oggi, all’epoca dei “Nuovi montanari”, bisogna parlare di “turismi” al plurale, perché i modelli sono due: accanto a quello industriale, che seppur in grossa crisi permane, sta crescendo un tipo di turismo “artigianale”, fatto di b&b, piccoli alberghi e reti vallive che cercano di ospitare il turista e presentargli al meglio la propria realtà montana, puntando sulle caratteristiche proprie di un paesaggio unico. Un passaggio storico ben descritto da Enrico Camanni, scrittore, alpinista e Vicepresidente dell’Associazione Dislivelli, sul numero della rivista Dislivelli.eu di ottobre 2015: “Si vanno sempre più delineando due modelli: l’industriale e l’artigianale – scrive Enrico Camanni -. Difficilmente integrati e integrabili tra loro. Sono due offerte molto lontane e spesso inconciliabili, basate su domande più sfumate ma comunque differenti. Pensiamo per esempio a Sestriere e alla Val Troncea, in alta Val Chisone, oppure a Madonna di Campiglio e alla Val di Genova, tra le Dolomiti di Brenta e l’Adamello. Si tratta di realtà che convivono a pochi chilometri di distanza, ma che si basano su un uso dell’ambiente e una tecnica promozionale agli antipodi. Nel caso di Sestriere e Madonna di Campiglio si tende a ricostruire la città in montagna, con i suoi confort e le sue costruzioni (fisiche e mentali), nel caso della Val Troncea e della Val di Genova si tende a promuovere l’integrità ambientale dei luoghi, vendendo silenzio, natura e quel po’ di fatica che serve per entrarci dentro. A livello di accoglienza, abbiamo grandi alberghi da un lato e rifugi alpini dall’altro. A livello di accesso, auto da una parte e pedule dall’altra. La differenza tra i due modelli salta all’occhio,
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è evidente; meno evidente risulta la macchina che ci sta dietro. Non è una questione di etica – di qua i “cattivi”, di là i “buoni” – ma di macchina, appunto. La prima può solo correre e crescere continuamente, perché se si ferma è perduta, l’altra può anche rallentare, ragionare, correggere e ripartire, non perché il suo pubblico sia meno esigente dell’altro, o più “virtuoso”, ma perché è più responsabilizzato, coinvolto e disponibile all’adattamento. La problematicità dell’industria turistica “pesante” risalta in particolar modo nel mondo del turismo della neve, che sopravvive con i finanziamenti pubblici eppure deve costantemente ammodernarsi, investire denaro, ingigantire l’offerta. Il turismo leggero o dolce, al contrario, può permettersi una gestione più misurata e flessibile. In una parola: artigianale. Il primo rischia di cannibalizzare la materia prima – l’ambiente alpino –, il secondo può proporsi di valorizzarlo e proteggerlo al di là di ogni ragionevole guadagno, perché è proprio la qualità dell’ambiente che muove il suo pubblico verso la montagna”. La testimonianza di Roberto, che da Genova decide di andare a vivere in Valle d’Aosta, nella Valle del Lys, fotografa bene questo momento storico di passaggio: “Gira voce in paese, a Saint Jean, che la Monterosa Sky, che da qualche anno ha assorbito la vecchia Sagit, la Società per azioni Gressoney per l’incremento turistico, la prossima stagione voglia tenere aperti gli impianti solo più nei weekend. La chiamano razionalizzazione dei costi, ma per Saint Jean, e per il lavoro di Roberto, sarebbe la fine. Sono scelte da cui non si torna indietro, perché il giorno che si decide di chiudere non si aprirà più, e la valle secondo Roberto è condannata al declino. «Il giorno in cui chiudiamo in settimana diventiamo una località di serie B, e la pacchia è finita per tutti. Niente più polente conce fatte con i piedi a 15 euro. Niente più 15 mila euro al metro quadro per gli immobili in piazza e affitti da 2000 euro a settimana per buchi di caprone con piastrelle anni 60 e il cesso che non funziona”. I NUOVI PROFESSIONISTI DELLA MONTAGNA All’interno della crescente offerta di “turismo artigianale” stanno crescendo nuove professionalità per accompagnate l’ospite alla scoperta di un mondo unico e interessante. Sono giovani generazioni che intendono queste attività come una vera e propria professione, e non come un ripiego o un’attività solo stagionale. Con un etica e un impegno, che vedono il loro lavoro come una missione a servizio di un territorio splendido e fragile. La testimonianza di Bruno, che da Genova si sposta in Piemonte a studiare, e poi diventa rifugista sulle Alpi, dove gestisce un piccolo e splendido rifugio in Valle Varaita, spiega bene come deve comportarsi un professionista della montagna nel XXI secolo. “La decisione è presa e aprono in inverno, in modo da poter lavorare poco e con l’idea di sfruttare il tempo libero per girare e conoscere le realtà locali. Invece va a finire che già il primo anno nei weekend fanno il tutto esaurito e in settimana le prenotazioni non mancano. C’è sempre qualcuno che sale a trovarli e si ferma a mangiare e dormire. Insomma, avevano messo in conto almeno i primi sei mesi in perdita e invece sono partiti alla grande, e adesso che sta per passare il primo anno Maira Paula comincia ad essere conosciuta, anche grazie alle reti costruite con i colleghi, i rifugisti di Piemonte e Valle d’Aosta, e Paola e Bruno cominciano ad ambientarsi. Meira Paula è diventata la loro casa e i gestori tengono aperto tutto l’anno. «Per vivere in queste realtà bisogna fermarsi e capire di cosa si ha veramente bisogno e magari rinunciare a qualcosa di superfluo. Questa riflessione interiore fa bene a chiunque, anche al cittadino, perché poi quando torna giù, ad esempio, si lava i denti chiudendo il rubinetto dell’acqua, mentre prima manco ci pensava. Sono queste le cose che mi fanno capire che il nostro lavoro è importante. Il gestore di rifugio deve cercare di dare il buon esempio sperando che l’ospite lo trasporti giù, giù fino in città. Perché noi montanari, consapevoli della delicatezza dell’ambiente in cui viviamo, cerchiamo di muoverci in punta di piedi per evitare di fare danni. Ma pensa se riuscissimo a far passare questo comportamento anche dove ci sono le masse, cioè in città. Questo è il valore aggiunto del rifugista. Dare un segnale di attenzione all’ambiente in montagna, dove è più facile percepirlo, perché più visibile, sperando che venga trasportato giù, in città. Solo così riusciremo un giorno a capire quello che è sostenibile per tutti”.
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Storia e cultura locale Cari lettori, Vi proponiamo degli scritti interessanti, sotto diversi aspetti, la nostra storia e la nostra cultura: dal ricordo, nel 150° dalla sua morte, di Don Giovanni Gnifetti di Alagna, del quale si pone in evidenza, con una visione innovativa, il profilo sacerdotale rispetto a quello tradizionale di “parroco alpinista”, al dialetto di un tempo, tramandato a noi dal prezioso “vocabolario” redatto da un altro illustre religioso, l’Abate Antonio Carestia; dall’indagine approfondita sugli insediamenti multietnici nella nostra comunità di Riva e della Valle Vogna, all’evoluzione delle modalità di riscaldamento utilizzate nelle case valsesiane, con uno sguardo particolare alle stufe in pietre verdi presenti ad Alagna e Riva; dal costume femminile all’artigianato artistico femminile, di cui il puncetto è una importante ma non unica espressione della capacità di lavoro della donna valsesiana. Grazie per l’attenzione!
Il parroco Giovanni Gnifetti di Massimo Bonola
Nell’ottobre del 1867, centocinquant’anni fa, moriva a Saint Etienne, in Francia, nel corso di uno dei suoi rari viaggi fuori dalla Valsesia, don Giovanni Gnifetti, parroco per 33 anni della comunità di Alagna. In quello stesso anno, a Varallo, un altro sacerdote, don Pietro Calderini, che tuttavia non aveva mai rivestito il ruolo di pastore d’ anime, inaugurava il Museo di Storia Naturale che oggi porta il suo nome. I due eventi, apparentemente senza alcun nesso, rappresentano invece un ideale passaggio delle consegne: lo “scopritore” alpinistico del Monte Rosa lasciava nelle sale del museo varallese l’eredità della montagna scoperta, studiata e tesaurizzata , patrimonio comune della ricchissima e affascinante natura valsesiana che allora, anche grazie alla dedizione scientifica di un altro religioso, l’abate rivese Antonio Carestia, poteva diventare laboratorio sperimentale e fonte di istruzione per le giovani generazioni. Nato proprio in quell’anno 1801 in cui il medico alagnese Pietro Giordani saliva la punta del Monte Rosa oggi a lui dedicata, Gnifetti era stato testimone diretto di quella fase pionieristica in cui i primi alpinisti-scienziati, spesso di lingua tedesca come Parrot, von Welden o Hirzel- Escher, avevano intrapreso i loro viaggi intorno a quella che pochi anni dopo Albert Schott avrebbe definito “ Ein völlig deutscher Berg” (una montagna interamente tedesca); avventurandosi in un ambiente primitivo e selvaggio, nel quale la stessa sopravvivenza umana era oggetto di dubbio, essi avevano contribuito non solo a tracciare una mappa più definita della maestosa montagna, sperimentandone le possibilità di accesso, ma anche a riscoprire nell’identità linguistica la radice culturale di quelle comunità aggrappate alle pendici meridionali del Rosa. Tuttavia la passione per la montagna, e innanzitutto per quella montagna che sovrastava da cinque secoli la vita del suo paese natale, non fu maggiore del sentimento di devozione che don Gnifetti provò, durante tutta la sua formazione sacerdotale, il suo incarico di cappellano prima e poi la lunga conduzione della cura parrocchiale di Alagna, per la gente del suo paese, quel minuscolo villaggio che l’aveva generato, un insieme di circa duecento famiglie che, seguendo un calendario annuale rigorosamente segnato, tra emigrazione stagionale e salita estiva agli alpeggi, si aggregava e disperdeva, con un moto continuo di alternanza, ritrovandosi solo nel cuore dell’inverno riunito in una ragnatela di case in legno disposte intorno alla parrocchiale di San Giovanni. A motivo di questa affezione, derivata certamente della sua stessa appartenenza a una famiglia autoctona, quando
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assunse nel 1834 la carica di parroco, per elezione dei suoi stessi concittadini, Gnifetti avvertì lucidamente il senso della propria missione nel rifondare la parrocchia alagnese, per oltre un ventennio privata di una stabile conduzione pastorale, impoverita dagli espropri dell’epoca francese, decadente e trascurata fin nelle strutture materiali dei suoi oratori, della canonica e della stessa chiesa parrocchiale. Ma insieme a questa missione spirituale, non priva di risvolti drammaticamente materiali, il giovane parroco avvertì altrettanto forte l’esigenza di ripensare anche la società civile, la cui crisi economica, pur nella persistenza di un modello arcaico di tipo agro-pastorale, si stava aggravando nei decenni centrali del nuovo secolo, quello che altrove si manifestava come l’epoca del progresso, dello sviluppo sociale e materiale, del benessere diffuso da nuove forme di lavoro e produzione. Sulla base di queste convinzioni, nei tre decenni della sua cura pastorale operò in altrettante direzioni progettuali, cercando così di disegnare un modello di società futura che potesse, almeno in parte, risolvere le criticità del presente. In primo luogo si assunse il peso dell’istruzione elementare, in lingua italiana e tedesca, elemento imprescindibile per l’emancipazione delle giovani generazioni; affrontò poi , come aveva fatto mezzo secolo prima il canonico Sottile, il più annoso problema storico, la possibile riduzione dei tassi di emigrazione; e infine immaginò per primo la valorizzazione e fruizione turistica di un territorio che, per le sue immense bellezze naturali, veniva ogni giorno di più apprezzato dai primi viaggiatori stranieri, soprattutto inglesi come Samuel W. King ed E. Cole che, anche al di là della specifica passione alpinistica, si mostravano sensibili all’attrazione del paesaggio alpino, nella sua raffinata armonia di natura e cultura. La recente riscoperta, da parte di Elisa Farinetti, del manoscritto di una Guida entro il territorio di Alagna Sesia indicante le cose rimarchevoli di esso, compilato correttamente in italiano e non sicuramente indirizzato ai suoi concittadini, testimonia l’intento di favorire un maggiore afflusso turistico sul territorio delle antiche Pietre Gemelle, non certo con il fine cancellare il tradizionale equilibrio dell’attività agro-pastorale, ma piuttosto con quello di ridurre l’emigrazione stagionale maschile, offrendo un reddito integrativo a una parte di famiglie del paese. La fama del “parroco alpinista”, figura certo assai gradita alla cultura liberale del tardo Ottocento valsesiano, oscurò dopo la sua morte il profilo sacerdotale del più rilevante parroco alagnese dell’età moderna, parroco di un solo luogo, e per una vita intera. La distanza temporale che oggi ci separa da quegli anni penso possa restituirci una visione integrale e più equilibrata della sua opera, in cui certo si colloca anche l’impresa alpinistica, senza che essa possa esaurire in sé il senso del suo messaggio.
Nota – Chi volesse approfondire l’argomento veda, dello stesso autore: Giovanni Gnifetti. Un parroco curato nell’élite del clero valsesiano. Affinità e divergenze all’interno di un paradosso, inserito in: Don Gnifetti 1867 – 2017, 150° dalla morte.
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Il dialetto locale Roberta Locca
Pubblichiamo le prime due lettere dell’importante “vocabolario” dell’Abate. La traduzione è letterale.
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DIALETTO
TRADUZIONE
APPROFONDIMENTO
Alfora
primavera
Alò
fatto sta
Amia
zia
Adré
appresso
Asia
arnese
Arma
Anima nel senso di parte piu interna. Arma d’un bottone. Arma di un frutto, cioè il nocciolo
Artivelle
specie di erba della famiglia delle ombrellifere, cioè l’Heracleum Sphondylium
Artirio
niente
Asna
occhiello trapanato dal manico d’una ……
Arciaja
arnesi
Zappa marcia
Arsouja
infima plebaglia
Crapule dal francese
Arsi
bruciaticcio
Alp
nome generico applicato ad un possessso, ad una capanna tenuta ed abitata da pastori nell’estate sulle nostre montagne
Aspa
Naspo
Angroso
erba imperatoria. Ostruthium
Ardegné
radicare
Arvantise
difendersi
Balma
rupe arcuata
Bovva
biscia
Bourch
biforcuto
Bauzo
masso
Bion
troncone destinato ad essere segato in assi leggo in pergamena del 1465 “resechare super padutam resecham locum tonchos seu biglionos”
Bioso
ghiacciaio e per antonomasia il Monte Rosa
Buzzé
tenere il broncio
Brovvà
cuocere nell’acqua-ravi afarfuli? Brovvà, rape cotte nell’acqua senza sale
Biot
nudo
Brasca
carbone acceso
Bresca
Favo . Dal tedesco
Blicche
ultime stille di latte che si mungono
Brocca
piccolo chiodo
Binda
benda forse da binde tedesco
Bonciò
molto. Forse da Beaucoup francese?
Brasa
cenere infuocata
Bruch
arbusto noto. Gli statuti di Valduggia lo dicono Bruchum
Dal latino Amita
Bozzarée Bozzara Bodma
località di un campo alla peccia valle vogna
Brenghe
località del prato di Brenghis Vogna sotto
Baita
cascinaccia
Bercio
cieco
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Bren
crusca
Bondé
operazione che si fa alle botti, immergendole nell’acqua perché si gonfino e le doghe …
Bonda Boffa
pancia, trippa
Beggo
uomo da poco
Bullo
cicisbeo
Baudro
padrone.
Banfé
ansare (ansimare)
Banf
ansa
Brella
cacherello
Baratta
arnese per trasportare sassi o altro
Baratté
cambiare
Brevio
abbrividito, intirizzito
Baugo
altalena
Bissa
forse da Bissen pezzetto, piccolo conio , scheggia
Barba
zio: leggo negli statuti di Valduggia Barbari usata in tal senso ??
Brotz
erbe serlvatiche, succulente,che si falciano per farle mangiare alle bovine
Biandel
veste di donna fatta di tela
Bust
veste di donna fatta di panno.
Biam
fieno ridotto in minimi frantumi. Quindi il derivativo verbo sbiammé
Busard
corpetto che veste il seno delle donne.
Binné
arrivare (attivo)
Basla
vaso di metallo o di terra largo e poco alto
Brojja
segale in erba
Blecco
uomo lento
Bottro
ventre pieno e rimpinzato
Bovel
budello
Boccia
palla
Brasa
accesa
Bura
falò
Botta
colpo
Barella
scagno
Bioga Baccioja
facile
Baggiourda
fumo in gergo
Boricch
asino
Bescura e Bescura ‘nversa Bescoré
scoreggiare
Berbesina
rettile innocuo comunissimo, l’anguis fragilis
Bara
stanga
Baggiarola
sbadiglio
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Barella
Ma è più grosso dello scagno, piccola panca
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Belma
sabbia finissima delle alluvioni
Bruggié
gridare, piu di bestie che di uomo
Bruggè
sporcare
Braggié
gridare
Braggio
grido
Braggion
smanioso gridatore
Bischizzio
disgusto.
Beschizzié
disgustare
Boula
betulla pianta
Bernis
cenere infuocata
Benesure
confetti o altro che si regala dagli sposi
Bernass
paletta da fuoco
Bruzz
fracasso
Bisa
vento freddo
Baita
baracca
Balché
cessare
Baggia
spicco, mostra, comparsa. Fè baggia far bella mostra
Borgna
escrescenza morbosa a mò di foruncolo
Boggié
muovere
Boggia
solletico
Bougia
saccoccia
Bruscia
spazzola
Bandé
tendere
Bornel
tubo di legno o tronco forato per condurre acqua 1523 ubi dicitur alborney (selveglio)
Brumma
autunno. Gli statuti della corte superiore parlano di una tassa detta Brumaticum e altra detta Mazaticum
Bariatté
cinguettare
Bariatta
ciarlone
Baggiarola
sbadiglio
Brecha
località di Riva, Gula della Brecha (1529) è il burrone che separa l’alpe stella dai Ronchi
Baricc
cieco o di corta vista
per pulire le mucche
Biassè Bercoi
Bonus Henricus da botanica. Buono a mangiarsi
Bartavella
chiacchiera
Bartavlé
chiacchierare
Bercala
salamandra
Broppin
foglie del larice
Bourenfio
un poco gonfio. Accenna a gonfiare morbosa
Bariencia
brandello di vesti ,di carne.
Bricco
greppo, ciglione di monte
Bedoss,Bebossa
birichino , birichina
Bedossè
fare il birichino
Boura
panna montata
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Riva, le frazioni di fondovalle e la Val Vogna Insediamenti multietnici tardo-medievali sul versante meridionale del Monte Rosa1 di Roberto Fantoni Alagna
Balma 1319, 1347, 1393 C.ma Mutta
Gabbio 1316, 1347 Piana Fuseria 1473
Riva 1217 C.no d’Otro
Casarolo 1401 Vogna di là
Pe d’Alzarella 1300, 1302, 1321, 1325, 1331, 1345
Selveglio Vogna di sotto 1390
Oro Vogna 1325, 1334, 1347
C.no Bianco
Ca Vescovo S. Antonio A. Pissole Rabernardo 1437
P.so di Rissuolo
Alpis Pecie
Isolello 1282, 1308, 1321
Ca di Janzo Ca Piacentino
Ca Morca Ca Verno
Boccorio 1282 Buzzo
A. Stella
Varallo
A. Alzarella
Selletto A. Laghetto Cambiaveto Piane 1437
A. Rissuolo
C.ma d’Alzarella A. Cavallo
Cresta Rossa
C.ma di Janzo
Peccia 1325 P.so di Valdobbiola C.no di Valdobbia
Montata 1437 Larecchio 1399
A. Fornale
M. Palanca
C.le di Valdobbia
P.ta Plaida
C.no Rosso mulattiere strade
A. Camino
Frate della Meja A. Maccagno Berretta del Vescovo
Peccia
insediamenti permanentii e anno della prima attestazione documentaria
A. Camino
alpeggi
Alpis Oltri
alpeggi medievali
Aqua pendent
confini dei grandi alpeggi medievali
La val Vogna, che si estende da Riva Valdobbia ad est (1112 m) allo spartiacque con la valle del Lys ad ovest, costituisce una delle più lunghe valli laterali dell’alta Valsesia, La parte inferiore della valle è caratterizzata dalla presenza di insediamenti permanenti; quella superiore da maggenghi e alpeggi. La storia del suo popolamento è stata sinora limitata all’analisi di alcuni documenti dei primi decenni del Trecento (MOR, 1933), assunti come atti di fondazione (RIZZI, 1983 e segg.). La quantità di documenti disponibili, in gran parte inediti, permette anche la ricostruzione delle fasi immediatamente successive, estremamente interessanti per riesaminare le modalità di occupazione degli spazi disponibili sul versante meridionale del Monte Rosa.
LA COLONIZZAZIONE DELLA MONTAGNA VALSESIANA Il processo di popolamento della montagna valsesiana, che concluse la fase di dissodamento iniziata attorno al Mille nelle aree di pianura, si realizzò in un periodo abbastanza lungo ad opera di coloni walser e valsesiani. Il progetto colonico è chiaramente espresso negli atti di fondazione dei nuovi insediamenti. Nel 1270 il capitolo di S. Giulio d’Orta concedeva a titolo enfiteutico a coloni walser l’alpe Rimella affinché vi potessero costruire case e mulini e impiantare prati e campi (FORNASERI, 1958, d. CXIII). Un’espressione simile era utilizzata nel 1420 dai testimoni al processo informativo sulle alpi del Vescovo di Novara in alta Valsesia, che asserivano che su queste alpi trasformate in insediamenti permanenti i coloni creavano casamenta et haedificia ac prata et campos (FANTONI e FANTONI, 1995, d. 13). L’attuazione di questo progetto, avvenuta tra la metà del Duecento e l’inizio del Quattrocento, permise il popolamento delle testate delle valli sul versante meridionale del Monte Rosa. L’insediamento di coloni latini a Fobello risale ai primi decenni del Duecento (FANTONI, 2003a, con bibliografia). La fondazione collettiva di Rimella, avvenuta a metà Duecento da parte di coloni walser, è documentata dalle pergamene del 1256 e del 1270 (FORNASERI, 1958, dd. C, CXIII). Nello stesso periodo avvenne presumibilmente la colonizzazione di Macugnaga. Ad inizio Trecento risalgono i primi documenti relativi al popolamento delle frazioni alagnesi, da parte di coloni provenienti da Macugnaga, e delle frazioni della val Vogna, da parte di coloni gressonari (RIZZI, 1983). Solo a fine Trecento si realizzò, su beni del vescovo di Novara e di famiglie legate alla mensa vescovile, la colonizzazione multietnica di Carcoforo, della val d’Egua e della val Sermenza a monte di Rimasco (FANTONI e FANTONI, 1995; FANTONI, 2003b) e la fondazione collettiva di Rima da parte di dieci capifamiglia alagnesi (FANTONI e FANTONI, 1995, dd. 8, 16; RIZZI, 2006). 1
L’articolo costituisce un aggiornamento di quanto pubblicato sulla rivista Augusta nel 2008 (FANTONI, 2008).
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1217: RIVA E LE FRAZIONI LUNGO IL SESIA Il giuramento di cittadinanza vercellese prestato dai capifamiglia valsesiani nel 1217 (MOR, 1933, dd. XXIX-XXX; DESSILANI, 2017)consente una ricostruzione approssimativa del limite tra aree con insediamenti permanenti ed aree occupate da alpeggi. Pur con le incertezze ed indeterminazioni dovute alla non obbligatoria coniugazione del nome a una località, alla omonimia di toponimi ed alla stessa variabilità temporale dei toponimi, l’elenco dei firmatari offre utili indicazioni sulla distribuzione degli insediamenti permanenti a monte di Varallo a inizio Duecento. L’ampiezza del campionamento (612 firmatari) permette il riconoscimento di una caratteristica generale del popolamento in Valsesia in questo periodo: l’elevata densità di firmatari nella bassa e media valle e la rarefazione (o l’assenza) nell’alta valle. A monte di Varallo sono documentati 22 firmatari di Valmaggia (472 m), 3 della Balangera (un tempo Camarolo, 481 m), 2 di Morca (?; 558 m), 2 di Vocca (500 m), 1 di Isola (524), 4 di Guaifola (552 m), 2 di Balmuccia (560 m), 6 di Scopetta (601 m), 14 di Scopa (662 m), 14 di Scopello (659 m), 4 di Pila (686 m), 3 di Failungo (704 m), 1 di Piode (752 m), 2 di Campertogno (827 m) ed 1 di Riva2 (1112 m). Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento sono attestate quasi tutte le frazioni di Riva ubicate lungo il corso del Sesia3. LE ALPI DI RIVA E DELLA VAL VOGNA Nel territorio di Riva e della val Vogna in epoca tardomedievale erano presenti quattro grandi alpeggi. L’alpe Alzarella, ubicata sul versante idrografico destro della Valsesia, apparteneva al vescovo di Novara; i suoi confini, citati in documenti d’inizio Quattrocento, erano costituiti dall’alpe Artogna, dalla comunità della Valsesia e dalla gulla rubea (FANTONI e FANTONI, 1995, dd. 6, 13). Secondo RIZZI (2004, p. 118) l’alpe Alzarella, assegnata dal vescovo di Novara ad inizio Quattrocento a Martonolio Della Rocca e Giacomo Clarino, comprendeva anche i valloni laterali della val bassa Vogna. L’alpe Peccia, ubicata in alta val Vogna, era gestita dalla famiglia Bertaglia/Scarognini/d’Adda4. I suoi confini sono indicati in un documento del 1325 (MOR, 1933, d. LXXX): a mane rialis Pixole, a meridie rialis de Calcestro, a sera aqua pendentis et alpis que appaellatur Caminus et a monte alpis que appellatur laregius. Di quest’alpe facevano parte anche i valloni ubicati sul lato idrografico destro della valle; in un documento del 1465 viene infatti citato un alpe “Fornalis superioris de la pecia” (Briciole, p. 46). Le stesse coerenze sono ancora confermate in un documento del 1634 (sASVa, FCa, b. 8h)5. L’alpe, come molte altre unità tardo-medievali valsesiane, si estendeva dunque sui due lati idrografici della valle. Tra le coerenze della Peccia era citato l’alpe Larecchio, la cui proprietà tardomedievale non è sinora nota. I diritti dell’alpe Camino, che occupava tutto il vallone del Maccagno, nel 1337 appartenevano a Tommaso da Boca (Briciole, p. 32; RIZZI, 1983, d. 17)6. 1325: I COLONI GRESSONARI ALLA PECCIA La colonizzazione della val Vogna fu, almeno in parte, opera di coloni di origine gressonari documentati alla frazione Peccia (1449 m) a partire dai primi decenni del Trecento. Le relazioni genealogiche e i percorsi di colonizzazione) sono ricostruibili grazie alla declinazione negli atti notarili del luogo di provenienza, del luogo di residenza (quando risultava diverso dal precedente) e della discendenza patrilineare (con relativa località di origine). In un documento del 29 settembre7 1325 compare un Guiglincinus de la Peccia filius quondam Gualci de Verdobia8, che vende ai suoi fratelli Zanino e Nicolino la metà della nona parte dell’alpe Peccia (MOR, 1933, d. LXXX). Alla Peccia si era trasferita, 2
Guidetus filius Iohannis de Petris zumellis.
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1282. Miletus Imet Guilielmetius de supra Ripa de petris Zumellis riconosce un canone annuo da corrispondere a Berta figlia del fu Giovanni Arrio di Pietre Gemelle per un appezzamento di terra e un mulino a Bucorio ed un pascolo a Isolla (MOR, 1993, d. LVIII). 1300. Maria filia condam Iohanis de Pe de Alzarela riceve da Petro Ferrario de Pe de Alzarela un mutuo di 20 soldi imperiali. Tra i testi compare Zanolus de Pe de Alzarela de Petris Zumellis (MOR, 1933, d. LXIII). 1308. Petrus filius quondam Milani del pont de l’Isolello vende al presbiter Gaspardo filius quondam Zaneti Lantie de Quarona, curatus et beneficialis ecclesie sancti Michaelis loci de Petris Zumellis, un campo canepale cum plantis ceresiis intus nel territorio di Isolello ubi dicitur apud tectum Dominici sive aput furnum (MOR, 1933, d. LXVIII). 4
In un documento del 1334 relativo alla cessione di una quota di beni nel territorio della Peccia viene rimarcato l’obbligo del pagamento del canone annuo di 11 soldi e due denari imperiali e in 2 libbre e 1/3 di formaggio da versare il giorno di S. Martino agli eredi di Giacomo Bertaglia di Varallo (MOR, 1933, d. LXXXIV). Sulle origini della famiglia e sul suo ruolo nella gestione degli alpeggi cfr. FANTONI e FANTONI (1995). 5 Nella parte superiore il pons aque pendentis, in quella inferiore il croso di Cambiaveto (precedentemente nominato come croso pissole), a mattina montes Artonie; verso ovago la sumitates montium Otri Alanie. 6
“Alpis Caminus … cui coheret a mane Montata larechi in parte et in parte aqua pendent et in parte pecia, a meridie artogna et a sero culmen (?) sive alpem Laude”
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Questo contratto e quello successivo del 1334 furono stipulati il 29 settembre, giorno dedicato a S. Michele, santo patrono di Riva. In questa data, nel secolo successivo, è documentata un fiera (RIZZI, 1988). 8
In un documento del 1302 compare un Petrus Gualcius de Petris Gemellis che riceve da Anrigetus Alamanus de Aput Mot la dote di sua figlia Imelda ( MOR, 1933, d. LXIV). Il documento mostra la presenza di un Gualcio di Pietre Gemelle (probabilmente della Peccia) che crea una famiglia con la figlia di un colono della frazione alagnese di Pedemonte, che in altri documento coevi si rivela proveniente da Macugnaga. La scomparsa della discendenza di questo Pietro dalla val Vogna è imputabile al fatto che si impegna a far parte della comunione famigliare.
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probabilmente con lo stesso Gualcio di Verdobbia, tutta la sua discendenza. In un documento di pochi anni dopo anche Nicolino flius quondam Gualci de Aput Verdobia si dichiarava infatti habitator Pecie (MOR, 1933, d. LXXXIV). In questo atto del 1334 Nicolino, suo figlio Giovanni e i figli di suo fratello Zanino (Giovanni e Giacomo), acquistano la terza parte dei beni e una torba di un altro abitante della Peccia proveniente da Gressoney: Johannes filius quondam Perni Zamponali de Graxoneto. Nello stesso documento compare infine come teste anche un altro rappresentante di quest’ultima famiglia di Gressoney trasferitasi nel territorio di Pietre Gemelle: Johannes filus quondam Anselmini Zamponali. Il 27 aprile 1337 il notaio Alberto Bertaglia e suo nipote Antonio del fu Milano investono Nicholinus filius quondam Gualci de Apud Verdobiam e suo figlio Giovanni, i fratelli Giovanni e Giacomolo figli del fu Zanino Gualcio, Giovanni detto Iano, i fratelli Girardo, i fratelli Giacomo e Guglielmo figli del fu Anselmino Zampognari (anche a nome di Petrino loro fratello), Giovanni fu Giovanni detto Zenero, di una petia terre alpis que appellatur la Pezza in val Vogna per il canone annuo di 20 lire imperiali e cento libbre di formaggio a san Martino (ASVa, FdA, s. I, b. 9). In documenti dell’ultimo decennio del Trecento (MOR, 1993, dd. CXIX, CXXII) viene confermata la presenza alla frazione della discendenza di Nicolino. I documenti di questo periodo, ed in particolare l’atto di investitura del 1337, permettono l’individuazione del gruppo dei fondatori dell’insediamento sorto all’interno del comprensorio tardo-medievale della Peccia, a cui appartenevano: - i figli di Gualcio, provenienti da Verdobbia, con la loro discendenza9. - due appartenenti al casato degli Zamponali, che si dichiarano provenienti da Gressoney - Giovanni de Zano e Giovanni fu Giovanni detto Zenero10 che non dichiarano una provenienza diversa dal luogo di residenza. La provenienza gressonara dei coloni è individuabile anche nei segni culturali, come l’intitolazione a S. Grato della cappella della Peccia, documentata sino dalla fine del Quattrocento11. In questo settore della val Vogna, in cui è documentata la fondazione di insediamenti permanenti da parte di coloni gressonari, sono ancora presenti toponimi di origine tedesca12. L’ESPANSIONE DEI COLONI GRESSONARDI DALLA PECCIA ALLE PIANE Entro i confini tardomedievali dell’alpe Peccia compaiono anche le Piane, due insediamenti permanenti ubicati su un ampio terrazzo morfologico sul versante idrografico sinistro della val Vogna (1480 e 1511 m). Il primo documento in cui compare la frazione risale al 1437 e l’insediamento è citato come “Planis de la petia” (Briciole, p. 150); la stessa forma compare anche in un altro atto nel 1503 (sASVa, FCa, b. 15, c. 199). L’appartenenza della frazione al consorzio della Peccia è continuamente ribadita nel tempo; nel libro del “Livello della Peccia” (sASVa, FCa, b. 8h), in cui sono annotati i pagamenti effettuati agli agenti della famiglia d’Adda e al parroco di Riva compaiono sino al Settecento pagamenti effettuati dai “consorti della Peccia e Piane di Vogna”. Anche il primo abitante documentato, “Zanonus Antonietus de Cauza” (1475, Briciole, p. 46) riafferma la connessione con la Peccia, ove la famiglia Calcia è documentata dal 1388 (Briciole, pp. 46, 146). Seppur in assenza di un’evidenza documentaria diretta si può plausibilmente ritenere quindi che la fondazione delle Piane sia avvenuta da parte dei coloni stanziati alla Peccia ad inizio Trecento. GLI INSEDIAMENTI A MONTE DELLA PECCIA In documenti di fine Trecento e Quattrocento compaiono anche un paio di insediamenti ubicati a monte della Peccia, inseriti all’interno del comprensorio tardomedievale dell’alpe Larecchio. 9
Uno di loro, Nicolino, trasmetterà alla discendenza il primo cognome documentato in val Vogna.
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Anche Giovanni detto Zenero trasmetterà il suo soprannome alla sua discendenza.
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In un documento del 1491 compare “in territorio de la petia subtus capellam S. Grati cui coheret ab una parte strata comunis ab alia strata antiqua” (Briciole, p. 152). L’altro edificio, una cappella che conserva la sua architettura tardomedievale, è dedicata a S. Nicolao, un santo particolarmente diffuso tra le comunità tedesche presenti sul versante meridionale del Monte Rosa.
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I toponimi erano già citati da Carestia (Briciole), che copiava senza commento da documenti della seconda metà del Cinquecento i toponimi “intus Biju (alla Peccia)”, “ad stoch (alla Peccia)”, “ad pratum del Vaut” e “intus Theige” (sempre alla Peccia), “ad pasquerium de grirte”, “a schos”, “ad Stoz”, “intus venghes (In Dinti)” e da GALLO (1881, p. 379), che segnala le voci Wassre, Hoch, Platte, Grabo, Tanne, Stotz, Garte e Scilte. Recentemente alcuni toponimi walser (fat, fiela, garte, grabo, tanne, venghe) sono stati segnalati anche da CARLESI (1987, 1988). Per alcuni toponimi citati esiste anche un’antica attestazione documentaria. La voce grabo, fosso, compare in un documento del 1571 relativo al territorio della Peccia (sASVa, FNV, b. 10420). La voce “tanne”, abete (GIORDANI, 1891, p. 174) compare in un altro atto del 1491 nel territorio della Montata (Bricole). Inoltre due documenti del 1483 (Bricole, p. 23) e del 1589 (sASVa, FCa, b. 17) nominano rispettivamente un appezzamento di terra a prato e campo e un croso de Staffo oltre Vogna. Sulla toponomastica della val Vogna cfr. CARLESI (2016) e FERLA et alii (2016).
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Da metà Quattrocento è attestata la Montata (1638 m)13. Nei documenti il nome della frazione (Montata larechi) è sempre abbinato a quello dell’alpe di appetenza. In un documento del 1399 sembra essere citato come insediamento permanente anche il Larecchio (1900 m)14, successivamente retrocesso prima ad insediamento stagionale e poi ad alpeggio. I documenti, successivi alla fase di fondazione, non forniscono informazioni sulla provenienza di questi coloni, che non sembrano legati da rapporti di parentela con quelli presenti alla Peccia. LA BASSA VAL VOGNA E L’ARRIVO DEI COLONI VALSESIANI DALLE FRAZIONI LUNGO SESIA Un altro polo insediativo è costituito dalla bassa val Vogna. Dal 1325 compaiono persone che si dichiarano de Vogna; con questo nome si identificava probabilmente tutto il territorio che raggruppa le frazioni inferiori. Già nel 1325 i suoi abitanti dichiarano solo la residenza, senza indicare una diversa provenienza, indicando un insediamento risalente perlomeno ad una generazione precedente. Solo dalla fine del secolo iniziano a comparire indicazioni specifiche dei singoli insediamenti. In un documento del 1390 è citato per la prima volta un abitante de vogna inferiore (l’attuale Vogna sotto). Nel 1399 domo inferioris (che assunse poi il nome S. Antonio). Nel 1399 compare il cognome Gaya, indicando probabilmente l’esistenza dell’insediamento che dalla famiglia prese il nome, ubicato poco prima di S. Antonio. Nel 1415 compare un de Morcha de Vogna, che probabilmente trasmise a sua volta il nome alla frazione in cui risiedeva. Nel 1380 compare “Johannes dictus piaxentinus fq Gilglo de ema de Vogna” che trasmise il suo soprannome all’insediamento omonimo, che compare in forma esplicita per la prima volta solo nel 1505 (“domum illorum de piaxentino”). Rabernardo è documentato per la prima volta nel 1440. La prima documentazione di Cambiaveto risale al 1459, di Oro al 1475. L’insediamento “super saxum” compare solo nel 1474 (Briciole; sASVa, FCa, bb. 15-16). Anche per questi insediamenti l’età relativamente tarda della prima documentazione non fornisce informazioni sulla provenienza dei fondatori. Tutte le frazioni sono però caratterizzate, anche nel Quattrocento e Cinquecento, da continui spostamenti di coloni dalle frazioni lungo il Sesia. Nel 1475 si dichiara “habitator ori vogne” Giacomo Giacobini di Pe de Alzarella (Briciole, pp. 46-47). I Verno, documentati alla frazione Balma dal Trecento raggiunsero la val Vogna nel 1516, quando è documentato Pietro Verno del Sasso di Vogna (sASVa, FCa, b. 15, c. 239). Pochi anni dopo comparirà per la prima volta la frazione Ca Verno (1552, sASVa, FCa, b. 16, c. 280)15. La famiglia Carmellino giunse in val Vogna dalla frazione Boccorio. Il cognome si trasmise probabilmente dal soprannome di Inco de Bersano detto Carmellino (1521, sASVa, FCa, b. 16, c. 261)16. Dalle frazioni inferiori giunsero anche gli Jacmino della frazione Boccorio17. LA FONDAZIONE DELLA PARROCCHIA DI RIVA (1325) E LA SEPARAZIONE DA QUELLA DI ALAGNA (1475)
Il 26 novembre 1325 Uguzzone, vescovo di Novara, erige in parrocchia autonoma la chiesa di S. Michele di Pietre Gemelle, separandola da S. Bartolomeo di Scopa, “essendo aumentato il numero delle anime”18 (MOR, 1933, c. LXXXI). L’anno della separazione, il 1325, ha un grande valore simbolico, coincidendo con quello della prima documentazione di coloni negli insediamenti ubicati nei due principali poli dell’alta e bassa valle: Peccia e Vogna. Nel 1475 avviene la separazione parrocchiale di Alagna (ASDN, AVi, v. 185, f. 372; ASPRv, v. 1, f. 1; RAGOZZA, 1983, pp. 61-63; Viazzo e Bodo, 1983, p. 177). Il motivo principale su cui i capifamiglia alagnesi insisteva nella richiesta di separazione era che essi loquuntur lingua 13
1437. Pietro figlio di Guglielmo de la Montata e suo figlio Gaudenzio vendono a Milano figlio di Antonio Guioti di Zanolo di Rabernardo quote sull’alpe Segle (RIZZI, 1983, d. 44). 1456. Antonio Mozia della Montata del Larecchio riceve da Guioto Rainoldi di Larecchio il denaro dovutogli per la vendita di un terreno sito al Larecchio ubi dicitur as rachum (sASVa, FCa, b. 15, c. 105). 1468. Giovanni e Antonio della Montata del Larecchio ricevono da Milano di Vogna il denaro loro dovuto per la vendita di un terreno al Larecchio ubi dicitur ghiazum de Zellet (sASVa, FCa, b. 15. c. 125). 1468. Pietro fu Zanolo Chenobalo di Vogna vende a Comolo figlio di Guidoto abitante alla Montata quote di un bosco all’alpe Larecchio (RIZZI, 1983, d. 56).
14 1399. Guillelmus filius quondam Antonii de Larecchio de Petris Zumellis vende ad Antonio filius quondam Iohannide Vugna inferioris la ogni sua ragione su due appezzamenti di terra a Chanstresio, a cui confinano heredum Zanoli de Miloto, aqua Vogne ed altri, e ad Planas, a cui confinano Johannes Ballin, Johanens Facinus, aqua Vugne heredes Alberti de Venzoto, Orum bruxatum (MOR, 1933, d. 130). 15
Nel 1641 portano questo cognome 4 fuochi a Ca Verno, 1 a Vogna sotto, 1 a Rabernardo; nel 1690 anche alle Piane e alla Peccia (ASPRv, Status animarum).
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Nello Status animarum del 1641 (ASPRv) compaiono solo a Boccorio, ove costituiscono 5 delle 15 famiglie presenti. Nel 1690 i Carmellino a Boccorio sono 59 su 94 abitanti ed un nucleo con questo cognome compare anche ad Oro in val Vogna. Nel 1814 anche a Ca vescovo e alle Piane. 17
Nel 1641 sono documentati a Ca Piacentino, Ca Morca, Oro e Selveglio (ASPRv, Status animarum).
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In un documento del 1308 è però già attestato un presbiter Gaspardo filius quondam Zaneti Lantie de Quarona, curatus et beneficialis ecclesie sancti Michaelis loci de Petris Zumellis (MOR, 1933, d. LXVIII), che acquista un campo canepale con piante di ciliege aput furnum ad Isolello da Pietro di ponte d’Isolello.
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theutonica, che il parroco di Riva non comprende, con grave danno e periclo della salute spirituale degli alagnesi, che sono costretti a confessarsi a mezzo di un interprete (VIAZZO e BODO, 1985, p. 157). Il confine tra le due parrocchie, indicato in un documento del 1525, era costituito dal Riale di Otro (RAGOZZA, 1983, p. 63), che già separava le due comunità. Nel 1509 si separarono dalla parrocchia di Riva le frazioni della val d’Otro e di Piè d’Otro (attuale Resiga) per aggregarsi alla parrocchia di Alagna (ASPRv; sSASVa, FCa, b. 12). Queste forme di aggregazione furono probabilmente originate dalla diversità di fondazione. Quando Alagna si separò da Riva la comunità d’Otro e la frazione Resiga preferirono rimanere legate a Riva, ad una parte della cui comunità li accomunava l’origine gressonara, probabilmente contrapposta all’origine prevalentemente anzaschina del resto d’Alagna. Solo nel 1509 la comunità di Otro, con Piè d’Otro, scelse di separarsi dalla parrocchia di Riva per aggregarsi alla parrocchia di probabilmente preferendo aderire ad una parrocchia di impronta walser piuttosto che rimanere legata ad una comunità che andava velocemente latinizzandosi. Atto di separazione della Parrocchia di Alagna dalla Parrocchia di Riva (1475). INSEDIAMENTI MULTIETNICI SUL VERSANTE MERIDIONALE DEL MONTE ROSA La val Vogna è caratterizzata da diversi centri d’insediamento, in gran parte coincidenti con altrettanti comprensori d’alpeggio tardo-medievali. I fondatori dei diversi poli d’insediamento provengono dalle comunità tedesche della valle del Lys (nel territorio dell’alpe Peccia e, forse, in quello dell’alpe Larecchio) e da quelle valsesiane e multietniche delle frazioni d’oltre Sesia di Riva (nel territorio dell’alpe del vescovo di Novara in bassa val Vogna). La fondazione di questi ultimi insediamenti si è realizzata in un periodo precedente il 1325 di almeno un intervallo generazionale; la fondazione degli insediamenti walser della Peccia nello stesso anno era ancora in corso. La val Vogna costituiva quindi una comunità multietnica alla scala di valle e, probabilmente, anche alla scala del singolo insediamento. Un altro esempio documentato di sovrapposizione di etnie nel territorio di Pietre Gemelle è costituito proprio da una delle frazioni d’oltre Sesia da cui provenivano i colonizzatori della bassa val Vogna. Alla Balma nel Seicento coesistevano famiglie di origine walser e famiglie di origine valsesiana. Le prime, pur assoggettate a Riva nel civile, portavano i loro figli a battezzare nella chiesa parrocchiale d’Alagna19. Gli abitanti di origine tedesca della Balma si attribuivano anche formalmente una pertinenza alagnese, come i “maestri Giovanni e Antonio fratelli Ferro” che nel 1657 si dichiaravano della “Balma di Alagna” (VIAZZO e BODO, 1985, p. 157-158 e nota 33, p. 164)20. La cappella della Balma, documentata dal 1525, quando un contratto è steso coram capella beate Marie Virginis ac santorum Michaelis Archangeli et Iohanni Baptiste, era significativamente dedicata ai santi patroni di Riva e di Alagna (sASVa, FCa,b. 15, c. 280). In Valsesia la presenza di insediamenti multietniche (tanto alla scala di comunità quanto a quella di villaggio) è estremamente diffusa (Carcoforo e l’alta val d’Egua, la Val Sermenza tra Rimasco e Rima; FANTONI e FANTONI, 1995; FANTONI, 2003b). Insediamenti multietnici erano presenti anche nella vicina valle del Lys. BODO e MUSSO (1994) ritengono che gli insediamenti walser di Issime e Gaby si realizzarono su un territorio già parzialmente occupato da popolazioni romanze. Nella valle del Lys, come in Valsesia, in età tardomedievale il popolamento arrivava solo alla media valle; anche qui i coloni walser colonizzarono massivamente le terre alte (Gressoney), ancora privi di insediamenti permanenti, e si stanziarono negli spazi residuali non ancora occupati dalle popolazioni locali nella media valle (Gaby ed Issime). Nei primi secoli dopo la fondazione i gruppi stanziati nelle diverse comunità continuarono a mantenere scambi di proprietà e legami di matrimonio. 19
NNegli atti di battesimo 1582-1612 compaiono cognomi tipicamente valsesiani, cognomi diffusi in val Vogna e cognomi alagnesi (Ferro, Enzio, Gaspo Rinoldi; VIAZZO e BODo, 1985, nota 53, p. 164). Frequenti sono le relazioni matrimoniali tra abitanti della Balma e di Alagna (ASPRv). 20
In un documento del 1623 Zanolus fq Johannis de Ferro si dichiara della Balma loci Alanie (sASVa, FCa, b. 14a, c. 25) e come “alagnese” era uno dei consorti che sfruttavano l’alpe Arnia(sASVa, FCa, b. 14a, c. 24) e li rappresentava nel pagamento dell’affitto annuo dovuto a Pietro Chiarini (sASVa, FCa, b. 14a, c. 25).
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In queste zone interetniche vi erano confinanti che dichiaravano i propri possedimenti in tedesco e altri in romanzo; da un insediamento a macchie di leopardo nel periodo della colonizzazione si è passati ad una progressiva suddivisione e polarizzazione dei centri etnici (Gaby prevalentemente francofono e Issime prevalentemente walser). L’esame del popolamento delle comunità multietniche dimostra come la mappatura del territorio walser affrontata da diversi autori debba essere eseguita con un’analisi che valuti la consistenza numerica della presenza walser e latina delle singole comunità e dei singoli villaggi ed affronti anche l’orizzonte temporale oltre a quello spaziale. RINGRAZIAMENTI L’Autore ringrazia tutti gli amici che lo hanno accompagnato nelle escursioni lungo le strade della val Vogna, aspettandolo pazientemente mentre non finiva mai di prendere appunti. BIBLIOGRAFIA BODO M. e MUSSO M. (1994) – Comunità alemanne e franco-provenzali nel territorio di issime e Gaby: note di toponomastica e demografia storica. In “Campello Monti ed i walser. Atti del Convegno di studi Campello Monti 7 agosto 1993”, Gruppo Walser Campello Monti, s.i.p. CARLESI P. (1987) - Indagine toponomastica in Valle Vogna. 1a parte - area di Peccia. Notiziario C.A.I. Varallo, a. 1, n. 1, pp. 18-24. CARLESI P. (1988) - Indagine toponomastica in Valle Vogna. 2a parte - area della Montata. Notiziario C.A.I. Varallo, a. 2, n. 2, pp. 23-28. CARLESI P. (2016) – Ricerca toponomastica in Valle Vogna (Valsesia). Settecento anni di toponimi locali. In Fantoni R., Cerri R., Carlesi P., Rivoira M. e Cusan F. (a cura di), “I nomi delle montagne prima di cartografi e alpinisti. Atti dei convegni e guida all’escursione (Varallo, 16 ottobre - Milano, 24 ottobre - Val Vogna, 25 ottobre 2015)”, Club Alpino Italiano sezione di Varallo Commissione scientifica ‘Pietro Calderini’, sezione di Milano Commissione scientifica ‘Giuseppe Nangeroni’; Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano, pp. 145-148. DESSILANI F. (2017) - I giuramenti valsesiani di cittadinatico vercellese del 1217 secondo i documenti originali. De Valle Sicida, a. XXVI, pp. 29-58, FANTONI B. e FANTONI R. (1995) - La colonizzazione tardomedioevale delle Valli Sermenza ed Egua (alta Valsesia). de Valle Sicida, a. VI, n. 1, pp. 19-104. FANTONI R. (2003a) – Rimella e Fobello. La competizione latina nella colonizzazione della montagna valsesiana. Remmalju, a. XIV, pp. 19-26. FANTONI R. (2003b) – Origine e sviluppo degli insediamenti della media Val d’Egua. In Fantoni R. e Guglielmetti L. (a cura di), “Fortuna, decadenza e rinascita di un oratorio valsesiano. San Giovanni Battista di Ferrate in Val d’Egua”, Parrocchia di Ferrate, pp. 5-17. FANTONI R. (2008) – La Val Vogna (Alta Valsesia). Un insediamento multietnico tardomedievale sul versante meridionale del Monte Rosa. Augusta, pp. 57-62. FERLA. A., CARLESI P. E FANTONI R. (2016) - Guida all’escursione in val Vogna (alta Valsesia). La microtoponomastica di una valle alpina. In Fantoni R., Cerri R., Carlesi P., Rivoira M. e Cusan F. (a cura di), “I nomi delle montagne prima di cartografi e alpinisti. Atti dei convegni e guida all’escursione (Varallo, 16 ottobre - Milano, 24 ottobre - Val Vogna, 25 ottobre 2015)”, Club Alpino Italiano sezione di Varallo Commissione scientifica ‘Pietro Calderini’, sezione di Milano Commissione scientifica ‘Giuseppe Nangeroni’; Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano, pp. 221-231. FORNASERI G. (1958, a cura di) – Le pergamene di S. Giulio d’Orta dell’archivio di Stato di Torino. Bibl. St. Subalp., v. CLXXX, p. I, pp. 253. GALLO C. (1892) – In Valsesia. Note di taccuino. 2a ed. con aggiunte e itinerari, rist. anast. 1973, S. Giovanni in Persiceto, pp. 371. GIORDANI G. (1891) - La colonia tedesca di Alagna Valsesia e il suo dialetto. Rist. anast. 1974, Sala Bolognese, pp. 201 MOR C.G. (1933) - Carte valsesiane fino al secolo XV. Soc. Vals. Cult., pp. 367 RAGOZZA E. (1983) - Comunità civile. Vita religiosa. Gente di Alagna. In “Alagna Valsesia. Una comunità walser”, pp. 15-56, 57-112, 113-160. RIZZI E. (1983) - Sulla fondazione di Alagna. Boll. St. Prov. Nov., a. LXXIV, n. 2 . RIZZI E. (1991) - Walser regestenbuch. Fonti per la storia degli insediamenti walser. Fondazione Arch. Enrico Monti, pp. 351. RIZZI E. (1994) - I walser a Carcoforo. In “Carcoforo”, Fondazione Arch. Enrico Monti, pp. 14-47. RIZZI E. (2004) – Storia dei walser dell’ovest. Fondazione Arch. Enrico Monti, pp. 222. VIAZZO P.P E BODO M. (1985 a) - “Visibilità” e “invisibilità” nella presenza walser. Alcune osservazioni storico-demografiche. In “Aspetti della ricerca sul medioevo nella regione walser”, Atti della seconda giornata internazionale di studi walser, Fondazione Arch. Enrico Monti, pp. 147-165.
FONTI ARCHIVISTICHE ASCR Archivio Storico del Comune di Riva Valdobbia. ASDN Archivio Storico Diocesano di Novara. ASNo Archivio di Stato di Novara. ASPAl Archivio Storico della Parrocchia di Alagna. ASPRv Archivio Storico della Parrocchia di Riva Valdobbia. AVi Atti di Visita (ASDN). Briciole Briciole di storia patria, manoscritto inedito dell’abate Antonio Carestia, s.d. (ma fine Ottocento) (sAVa, FCa). FCa Fondo Calderini (sASVa). FNV Fondo Notarile Valsesiano (sASVa). FOSo Fondo Ospizio Sottile (ASCRv). sASVa Sezione di Archivio di Stato di Varallo.
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Dal focolare alla stufa Il caldo senza fumo nelle case valsesiane di Roberto Fantoni
Le case “tradizionali” valsesiane presentano una gran differenziazione in senso areale. Il carattere macroscopicamente più evidente è costituito dall’impiego di materiali lapidei nel settore inferiore della valle e di materiali prevalentemente lignei nel settore superiore. Ma le costruzioni attualmente osservabili sono differenziabili, oltre che arealmente, anche cronologicamente. Sulla base delle testimonianze di cultura materiale, dell’analisi delle fonti documentaria e della memorialistica ottocentesca che fissava la memoria storica, in questo articolo viene presentata l’evoluzione delle modalità di riscaldamento utilizzate nelle case valsesiane. LA CA DLA FUM La caratteristica principale dei primi edifici sorti negli insediamenti dell’alta valle era costituita dalla presenza di un focolare aperto, appoggiato direttamente sul pavimento della stanza e collocato in posizione centrale. Le stanze non avevano sistema d’aspirazione; il fumo era libero di espandersi nel locale e veniva dissipato dalle aperture delle pareti (finestre e porte), dalle fessure dei muri a secco e dalle piode del tetto. Gli ambienti con focolare liberoerano ancora ampiamente diffusi ad inizio Ottocento. Il locale che ospitava il focolare, solo in parte equiparabile alla moderna cucina, è ampiamente citato negli atti notarili del Quattrocento e Cinquecento come domus ab igne. DAL FUOCO LIBERO AL CAMINO Una tappa intermedia nel processo di transizione tra fuoco libero e camino è identificabile nello spostamento del focolare verso le pareti d’ambito, generalmente associato ad un rialzo del fuoco,che non ha necessariamente comportato l’immediata comparsa di diverse modalità di dissipazione del fumo. In alcune località questo spostamento fu abbinato all’apertura di uno sfiato a parete. Strutture di questo tipo sono ancora ben conservate, ad esempio, in numerose costruzioni della val Cavaione. L’introduzione del camino, costituito da una cappa montata sopra il fuoco per incanalare il fumo in un condotto che esce all’esterno tramite un comignolo sul tetto, permise l’aspirazione del fumo. La sua comparsa in valle sembra essere relativamente tarda. A Rimella, ad esempio, è documentata nella seconda metà del Settecento. In un atto del 1769 è citata una lite per un camino appena costruito in una casa della frazione Sella ed altri due erano già presenti in altre case della stessa frazione. Un atto di vendita di una casa al Rondo del 1770 riguarda una casa nova con camino. L’introduzione del camino e del sistema d’aspirazione servì a liberare la stanza dal fumo ma aumentò la dissipazione del calore, rendendo ancora più freddo l’ambiente. Ma contemporaneamente allo spostamento del focolare verso le pareti d’ambito in alcune località dell’alta valle fu introdotto l’uso della stufa, una soluzione che cambiò radicalmente il modo di riscaldare alcune case valsesiane, consentendo l’esistenza del caldo senza il fumo. L’INTRODUZIONE DELLA STUFA IN VALSESIA La prima comparsa di quest’ambiente in Valsesia è registrata in un documento del 1456, quando è citata una stuffa nella casa del prete Milano Morondo nella frazione alagnese della Rusa. A fine Quattrocento le stufe erano ampiamente diffuse in tutto il territorio di Pietre Gemelle: nel 1483 è citata una stupha nella casa di Zanolo Ferrari del Riale d’Alagna; nel 1495 nella casa del padre del notaio Bartolomeo de Beto de Supra Rippam; nel 1498 in una casa di Pedis Alanie. Una stupa aveva anche la domus comunis di Alagna citata in diversi documenti dei primi decenni del Cinquecento. Nelle case di Riva le stuve erano talora duplicate e differenziate. Negli atti sopra citati del 1495 relativi alla casa del padre del notaio Beto di Riva compare una stupha superiori, nuovamente documentata nel 1526, quando la casa apparteneva al notaio Antonio de Beto. Nel 1525 compare una stuva magna. Nel 1549 compare una stuva scriptori nella casa del notaio Giovanni de Grandi; successivamente appartenuta al notaio Pietro de Grandi; un’altra stuva scriptori compare pochi anni dopo anche nella casa di un altro notaio di Riva, Pietro Clarino. Nello stesso periodo l’area di distribuzione della stufa raggiungeva anche gli insediamenti della media valle. A
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Piode una stupa è documentata nel 1527 nella casa di Battista de Nigro; a Quare è attestata una stuva in unadomus nova nel 1548; a Campertogno è citata una stuva nella casa di Zanino Arientanel 1578. Anche nelle valli Egua e Sermenza le prime attestazioni di locali con stufe si trovano nelle case di notai. Numerosi atti del notaio Nicolao Mognetti della prima metà del Cinquecento sono rogati nella stuva della casa del padre Bettone a Rimasco. Ma nel Cinquecento anche in queste valli le stufe si diffusero rapidamente: nel 1535 sono documentate a Rima una torba cum stuva e una domus ab igne cum suo stuveto, entrambe di proprietà della famiglia Viotti. Sempre a Rima un atto del 1546 è rogato nella stuva di casa Dellavedova e una stuffa è indicata nella casa Axerio nel 1574.In un documento del 1562 è attestata una stufa cubiculari nella casa di Giovanni Maria Zamboni di Ca Forgotti. Nel 1567 è documentata una casa cum stufiis a Campo Ragozzi. A Carcoforo in un inventario di beni della famiglia Peracini compare nel 1568 una casa cum duabus stuffis una super aliam. Nel 1576, in una divisione di beni tra i figli di Giovanni Silvestro Ragozzi, oltre a una domus cum stupha, compare già una stupha vetere. Una casa cum stufa è documentata a Fervento nel 1559. IL CALDO SENZA FUMO
L’introduzione della stufa ebbe un impatto fortissimo nel modo di abitare nelle case nell’alta valle. Negli atti tardomedievali l’espressione in domo ab igne, che designava non solo l’intera casa ma anche la stanza per eccellenza, fu sostituita da una nuova definizione che identificava il locale che ospitava la stufa: domo sue stuva (ad esempio in un documento del 1498 relativo a Pedis Alanie). Nella gestione del calore l’introduzione nelle case dell’alta valle di un locale completamente privo di fumo ebbe un’importanza nettamente superiore a quello dello spostamento del focolare verso pareti d’ambito e dell’introduzione del camino nelle case della bassa valle. Le attestazioni documentarie indicano inoltre che l’introduzione della stufa non fu successiva a quella del camino; entrambe i fenomeni furono relativamente dilatati nel tempo ma in molte località l’introduzione della stufa precedette lo spostamento verso pareti laterali del fuoco e l’introduzione del camino. I FORNETTI IN PIETRA OLLARE In Valsesia l’affermazione della stufa avvenne tramite l’introduzione di un locale riscaldato dal fornetto, una struttura in lastre di pietra ollare, generalmente collocato contro la parete divisoria con la domus ab igne. La comunicazione con il locale ospitante il focolare permetteva l’alimentazione, tramite uno sportello situato in corrispondenza del camino, con la brace del camino. Il riscaldamento avveniva per irraggiamento del calore dalle lastre. In un documento del 1637, relativo a un edificio di Pietre Marce, è esplicitato la presenza del fornetto nel locale che viene definito come stufa: stupha cum uno fornetto. In un documento del 1720, relativo al mulino di Priami, è descritta una stupha annexa et fornello intus; analogamente si trova una stuffa con il suo fornetto in una casa sul Sasso in Val Vogna nel 1690.Un fornetto compare in un ex voto del 26 febbraio 1888 per lo scampato pericolo da una valanga in una casa di Rima. Le lastre dei fornetti, che venivano spesso arricchite di elementi ornamentali a carattere personale, cronologico o simbolico, erano costituite prevalentemente da diverse varietà di pietra ollare, una categoria sostanzialmente merceologica che raggruppa litotipi costituiti prevalentemente da clorite, talco e serpentino, che godono di una elevata refrattarietà termica (con un lento accumulo ed una lenta restituzione dell’energia calorica) e sono caratterizzati da una durezza molto bassa (che ne favorisce la lavorazione a mano e al tornio). Per i fornetti, oltre ai cloritoscisti, venivano utilizzate anche altre rocce basiche appartenenti al gruppo delle Pietre Verdi, come serpentinoscisti, anfiboliti e prasiniti.
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La fascia di affioramento di queste rocce attraversa con andamento OSO-ENE le testate delle valli del Sesia, restringendosi progressivamente dal confine con la Val d’Aosta (SO) al confine con la Valle Anzasca (NE). Lungo il crinale tra Valsesia e valle del Lys l’unità si estende tra le pendici nord dello Straling e il Corno del Camoscio, con un’appendice settentrionale nella piramide dello Stolenberg. L’area di affioramento si estende poi dai valloni di Otro e Olen sino alla conca di Alagna. Sul crinale tra Valsesia e Val Sermenza si restringe alla zona compresa tra la Bocchetta della Moanda e il versante settentrionale del Tagliaferro. Sul crinale tra Val Sermenza e Val d’Egua è ulteriormente ristretta al solo versante nord della Cima del Tiglio e dal paese di Carcoforo segue in direzione NE una stretta fascia coincidente con l’asse del vallone d’Egua. Cave di questo materiale erano presenti ad Alagna, a monte del centro parrocchiale e sopra l’alpe Stofful; presso l’alpe Lampone, nel territorio di Ferrate; nella Gula del torrente Egua a monte di Carcoforo. In questa località, in una Notta delli prati risalente fine del Seicento, compare, tra le coerenze di un prato al Molino di Minocho,il chroso della stuva, toponimo probabilmente derivato dalla presenza di rocce adatte all’estrazione di materiale per fornetti. Proprio in questa cava venne travolto da una valanga il Cruzzio di Carcoforo, uno degli ultimi cavatori di pietra per fornelli. Nota – L’articolo costituisce l’aggiornamento di un testo pubblicato sulla rivista Le Rive nel 2014.
Le stufe in pietre verdi ad Alagna e Riva di Elisa Farinetti, Zesciu Centro Studi, Alagna Valsesia e Attilio Ferla, Associazione Culturale Walser Riva Valdobbia - Valle Vogna
PIETRE GEMELLE: RIVA E ALAGNA L’antica comunità di Pietre Gemelle si costituì ai piedi del versante sud del Monte Rosa, corrispondente alla testata principale della Valsesia. L’insediamento di Riva compare già nel giuramento di cittadinanza vercellese del 1217. Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento sono attestate quasi tutte le frazioni di Riva ubicate lungo il corso del Sesia Ad inizio Trecento risultano già abitate le frazioni di Alagna, fondate, almeno in parte, da coloni provenienti da Macugnaga, e le frazioni della Val Vogna, fondate da coloni valsesiani e gressonari Nel 1325 si costituì la Parrocchia di Riva, intitolata a S. Michele Arcangelo, con la separazione dalla parrocchia di Scopa. Alagna divenne parrocchia autonoma nel 1475, con il titolo di S. Giovanni Battista, staccandosi da Riva. LA VALLE D’OTRO E LA CAVA La valle d’Otro, appartenente al comune di Alagna Valsesia, è posta sulla destra orografica del Sesia. E’ formata da tre valloni che scendono dallo spartiacque divisorio tra la Valle d’Aosta e la Valsesia, percorsi da tre corsi d’acqua. Nel vallone centrale, ai piedi del Corno Bianco, nasce dal ghiacciaio d’Otro il torrente che dà nome alla valle e che lungo il suo corso raccoglie le acque del rio Tailli, a sinistra, e del rio Foric, a destra. La pietra utilizzata per la produzione delle stufe proveniva presumibilmente dalla cava di Otro (Frazione Scarpia, m. 1726), posta a breve distanza dall’abitato, verso la montagna, in località im Kufer. (Dalle cave di Stofful si estraevano invece pietre verdi destinate alla produzione di macine e pentole). LE STUFE Stufe in pietre verdi sono presenti in molte case delle frazioni appartenenti all’antica comunità di Pietre Gemelle. In questa sede ne presentiamo alcune in dettaglio.
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Riva Valdobbia LA CASA DELL’ABATE
L’Abate Antonio Carestia fu l’ultimo investito del Beneficio Bertolini di S. Maria e dei SS. Pietro e Paolo e, in quanto tale, svolse l’ufficio di cappellano dell’Oratorio di S. Rocco a partire dal 1848, circa, sino alla sua morte, avvenuta nel 1908. Visse nella vicina casa rurale, un edificio di particolare rilievo allora appartenente al Beneficio. (FANTONI, 2013). L’ EDIFICIO L’atto di vendita dell’8 luglio 1920 descrive in dettaglio la costruzione: “Casa civile e rustica nel concentrico di Riva al numero 58 civico, in mappa Rabbini al numero 7909, con annesso giardino cintato – composta detta casa al sotterraneo di due cantine; al pianterreno di atrio d’entrata, piccola stalla, cucina e saletta con altra entrata secondaria e passaggio a notte; al primo piano di cinque stanze ed altra piccola stanzetta; al secondo piano di tre stanze e due piccoli locali con soprastante sottotetto. La casa è murata in pietre e calce, coperta a piode e ha lobbiali in legno a levante” (ASPRv, n. 149, Carte novecentesche – Beneficio Bertolini). LA STUFA La stufa si trova al piano terreno, in una piccola stanza sita nell’ala più antica della casa. La stufa è datata 1770; sulla lastra frontale sono incisi la scritta “Armo Andoli”, e uno stemma così composto: corona, aquila, castello con due torri, decorazione con due volute (stelle alpine, corolle). Il fornetto, costituito da una base più tre pannelli, uno centrale e due laterali, e poggiante su due “gambe”, ha una pianta quasi quadrata (larghezza 46, profondità 44 cm) e presenta un notevole sviluppo in altezza (75 cm).
Riva centro. L’ingresso della casa dove visse l’abate Carestia e la stufa in pietra ollare.
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La Valle Vogna La Valle Vogna è la lunga, ampia, solatia valle appartenente al Comune di Riva Valdobbia, posta alla destra orografica del Sesia e percorsa dal torrente omonimo.
S. ANTONIO. L’EX CASA COADIUTORALE
S. Antonio (1381 m.) è la frazione centrale della bassa val Vogna. La prima attestazione documentaria della frazione risale al 1399, quando l’insediamento è indicato come domo inferiori. Nella Carta del 1759 (PECO, 1988) compare per la prima volta come S. Antonio; voce che ricorre poi nella carta degli Stati sardi del 1852. Nel Settecento si verificò quindi la trasformazione agiotoponomastica. L’abitato è composto di sei case, un forno, una fontana e un oratorio di impianto seicentesco, ampliato a metà Ottocento. Completa l’insediamento l’ex casa coadiutorale, ora adibita a rifugio comunale. L’EDIFICIO L’edificio è costituito di tre piani più un sottotetto. E’ una costruzione interamente in muratura con una balconata in legno all’altezza del sottotetto. Il tetto è in piode a due spioventi. Internamente si trovano: al pianterreno, dove un tempo vi erano le stalle, un vano ad uso sala da pranzo e due cantine con volta in pietra; al primo piano un locale ad uso bar – ristorante, una cucina e un ripostiglio; al secondo piano tre camere e una cucina; nel sottotetto un solaio. L’edificio, nato come casa coadiutorale e luogo di insegnamento per i bambini della valle, divenne poi scuola comunale, operante sino alla metà degli anni settanta; dai primi anni ottanta è stato trasformato in ristorante – rifugio. Al suo interno sono ancora conservate le testimonianze della antica residenza del cappellano, con la stufa in pietra ollare, un ritratto settecentesco e un armadio datato 1775, dove erano custoditi i documenti relativi al Beneficio e alla comunità della Valle Vogna (BELLOSTA e BELLOSTA, 1988, p. 101). Il rifugio è attualmente gestito dai coniugi Silvino Vaira e Silvana Ferraris. LA STUFA Al secondo piano del rifugio si trova una stupenda stufa in pietra ollare con incisa l’aquila, simbolo della Valsesia. La stufa non è datata né siglata; ha una forma squadrata di grandi dimensioni ma di scarsa profondità (altezza 53; piede 67, larghezza 60, profondità 25 cm).
S. Antonio: l’ex casa coaudiutorale, ora rifugio comunale, e la stufa in pietra ollare.
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RABERNARDO. LE CASE GENS – LOCCA La frazione (1500 m.), relativamente grande, è divisa in tre gruppi di case (Tetto di Rabernardo, Rabernardo e Sotto Rabernardo) ed è costituita complessivamente di oltre quindici edifici, tre fontane, tre forni e una cappella dedicata alla Madonna della Neve, datata 1643. Rabernardo è documentato per la prima volta nel 1440. GLI EDIFICI – LA CASA/MUSEO CÀ D’GIACOMIN Si tratta di una casa rurale ora destinata ad uso di museo (privato). E’ composta di tre piani, più una piccola cantina; il loggiato è disposto su due lati. Pianterreno in muratura, primo e secondo piano in legno; tetto in piode con due spioventi. Al pianterreno si trovano la stalla, il soggiorno con la stufa in pietra ollare e la cucina per la lavorazione del latte; al primo piano le camere dì abitazione, al secondo piano il fienile; nei moduli chiusi sulla destra vi sono le camerette per la conservazione dei viveri. Sulla trave di colmo sono incisi la data 1764 e le iniziali PR (BELLOSTA e BELLOSTA. 1988, p. 108). LA STUFA E’ di forma rettangolare. Dimensioni in cm: larghezza 63/65 circa; altezza totale 54 circa; profondità 35 circa. Dimensioni in cm della copertura: larghezza 77; profondità 42; altezza totale zoccoletto 7. Dimensioni in cm della base: larghezza 82; altezza 7; profondità 42. Altezza corpo centrale (rettangolare): 40 cm circa.
Rabernardo. Casa – Museo Locca: soggiorno con la stufa in pietra ollare e veduta esterna GLI EDIFICI - CÀ D’VALENTIN Questa casa rurale è ricordata come la casa del sarto Michele Giacomino. E’ costituita di tre piani, più la cantina; il loggiato è disposto su due lati. Pianterreno in muratura, primo e secondo piano in legno, tetto in piode a due spioventi. Al pianterreno si trovano la stalla, il soggiorno con la stufa in pietra ollare e la cucina per la lavorazione del latte; al primo piano le camere d’abitazione; al secondo piano il fienile con un soppalco e la cameretta per la conservazione dei viveri. Sula trave di colmo sono incisi la data 1735 e le iniziali G.A. (BELLOSTA e BELLOSTA. 1988, p. 109). LA STUFA E’ di forma rettangolare. Dimensioni in cm: larghezza 51; profondità 45; altezza totale 62 cm. Dimensioni in cm della copertura: larghezza 66; spessore 5.
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Rabernardo. Cà d’Valentin. La stufa in pietra ollare e un suo particolare.
PIANE SOPRA. LA CASA POLLET – GIANOLI La frazione Piane è costituita da due gruppi distinti di case: Piane di sopra (1511 m) e Piane di sotto (1480 m). Il primo documento in cui compare la frazione risale al 1437 e l’insediamento è citato come “Planis de la petia”; la stessa forma compare anche in un altro atto nel 1503. Attualmente la frazione, ancora abitata durante l’inverno, è costituita di nove case rurali, circondate dai pascoli posti sull’unico tratto relativamente pianeggiante della valle. Un tempo erano presenti il forno da pane e delle fontane in muro a secco con tetto a spiovente. Gli antichi abitanti costruirono nel 1560 un paravalanghe in pietrame, ancora oggi visibile a monte delle Piane di sopra. L’EDIFICIO La casa Pollet – Gianoli è un edificio rurale ora destinato ad altri usi, composto di quattro piani. Il pianterreno è in muratura, gli altri piani sono in legno. Il tetto, in piode, ha due spioventi sul lato sud e altri due sul lato ovest, con spioventino all’apice di tipo savoiardo. Sulla trave di colmo la data 1645. L’interno era originariamente costituito da: al pianterreno la stalla; al primo piano le camere d’abitazione, il soggiorno con la bella stufa in pietra ollare e il cucinino per la lavorazione del latte; al secondo piano il fienile; al terzo piano un altro fienile e due camerette per la conservazione dei viveri: una per il pane e le granaglie e una per la carne e gli insaccati. In tempi lontani è stato demolito il comparto destro della casa, mentre a sinistra si è aggiunto un corpo della dimensione di due moduli; all’interno sono presenti delle ristrutturazioni recenti. (BELLOSTA e BELLOSTA. 1988, p. 123). LA STUFA La stufa, ubicata nel soggiorno/cucinino, è datata 1737 e siglata G.C. Tra le due iniziali è presente un segno grafico, probabilmente attestante l’antica proprietà famigliare. Il fornetto ha una forma squadrata (altezza 55, larghezza 44 e profondità 50 cm) ed è coperto da una lastra larga 52 e profonda 50 cm.
Piane di sopra. Casa Pollet – Gianoli. Veduta esterna e la stufa in pietra ollare.
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Alagna Valsesia CASA FERRARIS
In frazione Centro (Zar Chilchu), a poca distanza dalla Parrocchiale cinquecentesca dedicata a S. Giovanni Battista, si trova un edificio in legno distribuito su tre piani. Nel censimento DAVERIO (1988, p. 87, n. 134) è descritto con “fronte irregolare, forse per trasformazioni posteriori. Annesso casottino in pietra”. Sulla trave di colmo è riportata la data 1674, mentre internamente si può ancora scorgere 1732. Già appartenuta all’antica famiglia Montella, la costruzione in parte modificata è attualmente di proprietà Ferraris. Il primo piano è da anni adibito a calzoleria; sul retro del negozio si apre un ampio locale, dove trova collocazione una stufa in pietra ollare, a forma semicircolare, senza datazione, di altezza notevole (profondità 43; larghezza 58; altezza 82 cm). Alagna centro. Casa Ferraris: veduta esterna e la stufa in pietra ollare.
PEDEMONTE, ALAGNA. CASA DE PAULIS In frazione Pedemonte (Z’Kantmud), a fianco della chiesetta settecentesca dedicata a San Nicolao, si trova l’abitazione della famiglia Depaulis. E’ censita da DAVERIO (1988, p. 165) col n. 270. E’ una casa in legno, modificata con l’aggiunta di verande. Attualmente appartiene ai discendenti per parte materna dei costruttori dell’edificio, famiglia Degasparis. La stufa in pietra ollare si trova nella camera da letto del secondo piano; ha forma cilindrica ed è composta di tre parti, con altezza di 75 e diametro di 70 cm.
Pedemonte. Casa De Paulis: la stufa in pietra ollare e veduta esterna della casa.
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Wittine. Casa Bendotti: veduta esterna e la stufa in pietra ollare.
WITTINE, ALAGNA. CASA BENDOTTI In frazione Wittine, a 1596 metri di quota, si trova una casa senza datazione ma presumibilmente del 1876, censita da DAVERIO (1988, p. 132) coi nn. 227-228. Metà dell’edificio, già appartenuto alle famiglie Rimella, Giordano e Chiara, è attualmente della famiglia Bendotti. La stufa in pietra ollare, recante la stessa data del 1876, si trova ancora nello stand originario; è di forma rettangolare con altezza di 52, larghezza di 48 e profondità di 43 cm. Nell’altra metà della casa, attualmente di proprietà del sig. Tofi, troviamo una seconda stufa in pietra ollare simile alla prima per forma e dimensioni.
BONDA INFERIORE, ALAGNA. CASA RIMELLA
Segnaliamo pure, brevemente, la stufa presente nella casa di Ada Rimella (frazione Bonda Inferiore, In d’Bundu); è datata 1898 e siglata R.A., iniziali di Rimella Antonio, nonno di Ada.
Bonda Inferiore. Casa Rimella Ada: particolare della stufa in pietra ollare. Si ringraziano, per la gentile collaborazione: • la famiglia Bendotti e il sig. Tofi (casa Bendotti, Alagna, frazione Wittine); • la signora Manuela Carmellino, erede della cara signora Felicina Andoli Carmellino, (casa dell’Abate, Riva centro); • la famiglia Degasparis (casa Depaulis, Alagna, frazione Pedemonte, Z’Kantmud); • la famiglia Ferraris (casa Ferraris, Alagna, frazione Centro, Zar Chilchu); • i signori coniugi Carlo Locca e Tersilla Gens, la figlia Roberta (case Gens – Locca, Valle Vogna, Rabernardo); • la signora Angiolina Pollet e il figlio, sig. Piero Gianoli (casa Pollet – Gianoli, Valle Vogna, Piane sopra); • la signora Ada Rimella (casa Rimella, Alagna, frazione Bonda Inferiore, In d’Bundu); • i signori coniugi Silvino Vaira e Silvana Ferraris (ex casa coadiutorale, ora rifugio comunale, Valle Vogna, S. Antonio); • la signora Stefania Ferraris (immagini e notizie relative ad Alagna). Nota - Il testo, in forma più estesa, è stato presentato a Carcoforo il mese di luglio 2016, nell’ambito del Convegno sulla Pietra ollare.
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L’abi to valsesiano di Lorena Chiara
La provincia piemontese di Vercelli racchiude in se molteplici e differenti aspetti, da quelli morfologici a quelli culturali. Alla civiltà contadina di pianura si contrappone quella valligiana dell’unica sua valle alpina che vede l’apice ai piedi del massiccio del Monte Rosa, la Valsesia. Territori questi che hanno tutti sviluppato una forte personalità con culture e colture proprie, una varietà tale che ha sviluppato lo slogan “Dal riso al rosa”. Il luogo però dove alcuni caratteri si sono mantenuti quasi inalterati fino ad oggi è la Valsesia. Una valle poco conosciuta ma fra le più intatte dell’arco alpino. La sua posizione defilata dai più importanti passaggi e il suo conseguente isolamento, se ne hanno impedito il boom del turismo di massa, hanno però contribuito al mantenimento del territorio e della sua cultura. Esempio di questo è l’abito tradizionale femminile che viene ancora indossato in ogni momento di festa o di ritualità che si protraggono da secoli. Difficile parlare però al singolare. Il toponimo Valsesia, storicamente, va ad identificare un territorio che, partendo da Romagnano Sesia, termina ad Alagna. La “porzione di valle dove però ancora si è mantenuto l’uso dell’abito è molto più ridotta ed interessa le frazioni di Varallo, compreso il comune di Civiasco, e le tre valli: Val Mastallone, Val Sermenza (entrambe prendono il nome dal fiume che le percorre) e Val Grande. Ognuna di queste tre ramificazioni ha proprie peculiarità e abiti differenti. A questo si aggiunga poi che le testate delle tre valli sono state interessate dalla colonizzazione del popolo Walser fra la metà del 1200 e tutto il 1300. Altra cultura quindi molto differente da quella romanza già esistente in valle. Queste poche righe per rendere la complessità ma al tempo pure la ricchezza culturale del territorio. Ad oggi se dovessimo trovare un elemento comune dell’abito sarebbe senz’altro il “puncett”, preziosissima trina valsesiana. “Puncett” ovvero piccolo punto le cui origini non sono illuminate da provati dati storici, qualcuno ipotizza un retaggio della cultura araba derivante dalle invasioni del X secolo. Altro nome con cui è conosciuto è infatti “punto saraceno”. Si tratta di un merletto ricavato solo con ago e filo e piccoli nodi che in un gioco di pieni e vuoti, buona vista e tanta pazienza ci regalano pezzi di altissimo artigianato. Forse per secoli le donne che lo hanno realizzato ad ornamento dei propri abiti al lume di lampade a olio o durante il pascolo, non hanno avuto la percezione dell’eccezionalità del loro lavoro ma quando la regina Margherita di Savoia ne venne a conoscenza, lo introdusse a corte e lo fece conoscere anche in Francia ed in Inghilterra creando così una piccola economia al femminile legata alla produzione del “piccolo punto”1. Altro aspetto comune dei vari abiti è la distinzione di colori in base allo stato civile della donna in: bambina, donna nubile, sposata o vedova. Ai piedi delle donne per secoli solo gli scofoni o “scapin”. Sebbene ora usate come pantofole, un tempo erano calzature vere e proprie, confezionate dalle donne stesse con panno o velluto usando avanzi di stoffe, cucite insieme con corde di canapa che rendeva la suola impermeabile e quindi adatta anche per camminare sul bagnato. Ogni “costume” meriterebbe un dettagliato approfondimento perché racchiude in sé la storia e la fierezza delle donne valsesiane ma semplificando sottolineeremo solo le più evidenti particolarità. La val Mastallone è senz’altro il luogo dove vi è il più importante impiego e si raggiunge un’ altissima espressione dell’arte del puncetto con una perfetta armonia di cromie attraverso l’uso di fili multicolore nelle decorazioni del grembiule mentre monocromo è il puncetto della camicia. In “Val piccola” altro nome con cui è conosciuta la “Val Sermenza” troviamo una netta distinzione fra la parte alta colonizzata dal popolo walser nel XIV sec. (dove le linee generali dell’abito sono assimilabili a quello della Val Mastallone) e quella bassa dove la vicinanza con la Val Grande ne ha influenzato il vestire. 1 Nasce così in Val Vogna quella che venne definita “Industria del pizzo” come testimonia la pubblicazione del 1905 “Valle Vogna and its lace industry – verses, notes, and press notices, of the lace, place and people” di Miss Emily Lynch, viaggiatrice Irlandese in Val Vogna.
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La Val Grande è l’unica ramificazione di valle dove si è fortemente mantenuto l’utilizzo dell’acconciatura femminile. I capelli vengono divisi in due trecce raccolte attorno ad un cerchio di metallo al quale si appendono nastri colorati (solitamente dello stesso colore del corpetto), chiamati quazze o laciöi fermati poi con spilloni d’argento. In ogni abito inoltre ritroviamo il “busard”, un corsetto chiuso sul davanti e imbottito per camuffare eventuali mancanze. Da qui il termine “busard” ovvero bugiardo! In una società contadino-montanara in cui l’emigrazione maschile lascia scoperto un importante ruolo, le donne si ritrovano ad esserne il fondamentale motore. Gli indumenti sono prodotti in casa e il “taglio abiti” deve essere al servizio degli impegni quotidiani di cura dei campi, degli animali e della famiglia. L’abito “principe” quindi è quello del lavoro. I momenti di festa e di socialità sono pochi: la messa della domenica, la discesa in paese con i prodotti della caseificazione un giorno alla settimana, il ballo (2 volte all’anno?). In quelle occasioni la donna finalmente ha la possibilità di indossare l’”Abito della festa” (uno solo) realizzato con amore e attenzione, ognuno secondo le proprie capacità economiche e il proprio gusto. Curioso che il grembiule rimanga sia nella versione da lavoro che in quella della festa, particolarità che ben ci racconta quale fosse la visione che le donne avevano della vita! Ai tessuti realizzati al telaio in casa possono anche sostituirsi stoffe preziose e particolari portate dagli uomini di ritorno dall’emigrazione stagionale. La valle si apre alle influenze esterne soprattutto nell’800 e l’abito femminile conosce una profonda e definitiva modificazione con una sostanziale unificazione del colore dello scamiciato, in nero. Discorso a parte l’abito di Borgosesia, collegabile ad una tradizione differente. E’ caratterizzato da maniche allacciate in stile secentesco e rimane di colore rosso, non conosce quindi i cambiamenti dell’ottocento perché probabilmente già non più utilizzato in quel periodo. Pochi i gioielli, spesso gli stessi da generazioni, passati da madre in figlia oppure doni dell’amato. Le pietre presenti erano soprattutto i granati, di cui la valle era ricca, incastonati in montature d’oro giallo, rosso o di argento. Gioielli questi prodotti ancora oggi. Il più classico però dei preziosi al collo delle donne, era il Lüchet, una sorta di tubo perlopiù ottagonale di colore oro rosso o giallo, inciso o traforato, vuoto all’interno e collegato a collana da una catenina d’oro o da un nastro di raso o velluto. Molto importante anche la filigrana d’argento, utilizzata per la realizzazione di croci e negli spilloni dell’acconciatura. Infine se per gli uomini completava l’abito l’orologio da tasca, la versione al femminile era un piccolo orologio da collo fissato sul busard da un fermaglio. La fin troppo semplicistica descrizione fin qui fatta è relativa all’abbigliamento festivo, sebbene in particolari occasioni si indossino ancora gli antichi abiti da lavoro, in realtà la tradizione viene rinnovata con quello delle grandi occasioni. Fortunatamente nuove maestre puncettaie e sarte fanno rivivere un pezzo importante della nostra storia.
L’associazione ringrazia: l’Unione Montana Valsesia e il Comune di Riva Valdobbia, per la considerazione e il sostegno economico; il Comune di Alagna Valsesia e le associazioni alagnesi per l’invito alla presentazione del volume su Don Gnifetti nel 150° dalla morte; i frazionisti della Valle Vogna, il Museo Etnografico di Rabernardo, “La Compagnia Itinerante” e il Progetto Educazione Cinofila, che hanno collaborato con energia ed entusiasmo alla buona riuscita delle manifestazioni.
Associazione culturale
Walser Riva Valdobbia Valle Vogna
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WOHNEN – WOONA – VOGNA. Annuale dell’Associazione Culturale Walser Riva Valdobbia – Valle Vogna. Dicembre 2017. A cura del Comitato Direttivo. Presidente: Attilio Ferla; Vice Presidente: Roberta Locca; Segretario: Guido Rossi.