Presmell - Annuario 2019

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Associazione culturale

Walser Riva Valdobbia Valle Vogna



WOHNEN – WOONA

VOGNA

Annuario Caro Lettore, anche quest’anno vogliamo condividere il nostro impegno, i nostri sforzi e le nostre piccole vittorie per questo 2019 che ci ha visto impegnati sul territorio con interdisciplinarietà. Cerchiamo per la nostra bella terra la “terza via”, non solo ricerca nel passato, non solo sguardo verso un futuro sincero, ma un presente di rispetto e tutela . Non camminiamo soli. La compagnia si sta arricchendo di risorse sempre nuove e di nuove collaborazioni. Unisciti a noi, condividiamo l’orgoglio e l’amore per la nostra Valle!

Il Team


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ANNUARIO 2019

AT T IVI TÀ 2 0 1 9 In modo conciso Vi descriviamo, qui di seguito, quanto è accaduto durante quest’anno.

07 Luglio 2019

FESTA DEL PANE DI SEGALE Fraz. Sant’Antonio, Valle Vogna

Gli eventi dell’estate iniziano con un gesto che da secoli unisce le famiglie attorno al forno condividendo la preparazione del pane. Questa manifestazione non vuole essere solo la rappresentazione di un antico saper fare, ma incorpora un importante messaggio esprimendo senso di aggregazione. Ringraziamo tutti gli artigiani intervenuti che hanno reso Speciale questo giorno.

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ANNUARIO 2019

18 Luglio 2019

GLI SCRITTORI (SI) RACCONTANO Riva Valdobbia

Vivere e raccontare la montagna. Un incontro di voci Matteo

Bertone Scrittore

T

re scrittori, tanti amici, un luogo magico. Filo conduttore: la montagna. Grazie a Roberta Locca dell’Associazione Culturale Walser Val Vogna, promotrice dell’evento, il 18 luglio 2019 ho avuto il piacere di partecipare all’incontro “Gli scrittori (si) raccontano”, un dialogo aperto tra le diverse voci di chi vive e racconta la montagna, nella splendida cornice del Relais Regina di Riva Valdobbia, Frazione Cà di Janzo. Insieme a me, lo scrittore valsesiano (non di origini, ma di adozione) Michele Marziani, in veste di moderatore dell’evento, che avrei presto imparato a conoscere e stimare come autore di rara sensibilità e grande talento letterario, e

Max Solinas, bellunese, noto scultore, scrittore e personaggio di esuberante simpatia e cordialità. Nel pomeriggio, al mio arrivo, al Relais non c’era ancora nessuno, e nella quiete che profuma di bosco ho respirato le emozioni dell’estate precedente, della mia prima volta in quel luogo da cui si schiude la Val Vogna, in occasione del trekking “Un filo per tre valli” diretto a Estoul, al festival “Il richiamo della foresta”, trekking che avrei replicato con Roberta e nuovi camminanti la mattina seguente. Posato lo zaino, ho deciso di fare quattro passi e mi sono incamminato lungo la strada che da Ca’ di Janzo si addentra nella valle e prosegue verso le frazioni successive, per poi risalire sull’antico sentiero dei migranti, attraverso borghi che conservano splendidi esempi di case

Walser. E proprio tra le prime case mi sono fatto un amico: un gatto bianco e grigio, che trotterellandomi appresso ha seguito i miei passi per un tratto di strada. Eravamo soli, lui ed io, i boschi, l’aria frizzante e le nuvole. Al ritorno ho trovato ad aspettarmi Michele e Roberta, e poco dopo ho riconosciuto Max che sbucava dal bar del Relais, con il suo gilet da trekking, la barba, gli orecchini e il dente appeso al collo, suoi segni distintivi. Un calice di vino, quattro chiacchiere, ed eccoci pronti a iniziare, già in sintonia, in qualche modo, perché avevamo capito che ognuno di noi portava con sé la sua storia di monMichele Marziani, Matteo Bertone e Max Solinas presso CaJanzo Valle Vogna Relais Regina durante la presentazione letteraria "Gli scrittori si raccontano".

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tagna da raccontare. Nel frattempo un gruppo di ospiti ha raggiunto il Relais per ascoltarci, noi ci siamo seduti intorno a un tavolino, i calici di vino, i sorrisi, i nostri libri impilati al centro, gli appunti di Michele. Gli ospiti hanno preso posto sulle sedie e si sono sparpagliati davanti a noi. Sembrava che fosse un raduno di amici, più che una vera presentazione, e così è stato. Max, col suo libro Il lupo e l’equilibrista, edito da Garzanti, ha raccontato una storia di amicizia, di viaggio interiore, di luoghi in cui riconoscersi, e ha parlato della sua lunga esperienza di scultore, confrontandosi con gli scultori locali Fabio Nicola e Ireneo Passera. Un po’ artista, un po’ attore, un po’ lupo e un po’ guru, non è stato difficile per lui catturare la scena. Max è un fiume in piena, ti travolge e poi ti chiede scusa, ti aiuta a rialzarti, e poi continua ancora a parlare, ti coinvolge e ti stordisce, ma ti offre anche da bere e alla fine della giornata non puoi che essere suo amico. Michele invece è un attento e garbato ascoltatore, la sua scrittura (avrei scoperto in seguito) è limpida e accurata, profonda e lirica come il suono di una goccia in una grotta (nei giorni in cui scrivo è in uscita il suo nuovo libro, Lo sciamano delle Alpi). Ha fatto solo un accenno al suo ultimo libro, Il suono della solitudine, edito da Ediciclo, ha lasciato che parlassimo noi, ma ho percepito fin da subito una sensibilità che ci accomunava. 8

"IO HO RACCONTATO IL MIO RAPPORTO CON LA SCRITTURA E LA MONTAGNA, IL BISOGNO VISCERALE DI CAMMINARE SU E GIÙ PER I SENTIERI - LA FATICA RIPAGATA DALLA BELLEZZA - E L’URGENZA DI NARRARE CERTI LUOGHI, CERTE ESPERIENZE CHE ARRICCHISCONO E CURANO." Io ho raccontato il mio rapporto con la scrittura e la montagna, il bisogno viscerale di camminare su e giù per i sentieri - la fatica ripagata dalla bellezza - e l’urgenza di narrare certi luoghi, certe esperienze che arricchiscono e curano. Così è nato il mio racconto di viaggio sul

trekking a Estoul dell’anno precedente, La storia di quindici camminanti, pubblicato poi su questa rivista. E ho accennato al mio ultimo libro, Le impure, edito da Nero Press, non classificabile come romanzo di montagna, ma ambientato nei boschi delle valli biellesi, perché i boschi sono una delle dimensioni della montagna, oltre alle vette e le pareti rocciose. Max si è detto d’accordo, la dimensione del bosco affascina anche lui, è quella in cui più si sente a suo agio, pur essendo uno scalatore esperto. È nel bosco che Max cammina con il lupo, testimone silenzioso del fascino della natura selvaggia. Abbiamo indagato il linguaggio di chi scrive di montagna: ricco, quello di Max, essenziale, il mio, e poetico quello di Michele, identificando in Mario Rigoni Stern e Dino Buzzati alcuni dei nostri maestri, dei punti di riferimento per quella narrativa che si occupa di trovare le parole per definire e rappresentare le terre alte e chi ci abita, uomini e animali. Poco per volta la luce bassa ha allungato le ombre sulla valle, il raduno si è sciolto, alcuni sono tornati verso il paese di Riva Valdobbia, altri sono rimasti, i camminanti che sarebbero partiti con me e Roberta il giorno seguente. Ancora una volta la montagna ha fatto la sua magia, ha unito spiriti affini, ha creato nuovi legami, ha rinsaldato amicizie, nel suo modo silenzioso fatto di spazi e respiro, di riconoscenza per chi sa rispettarla, valorizzarla e viverla in armonia.


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18/21 Luglio 2019

DI LEGNO DI PIETRA Riva Valdobbia

Nel pomeriggio del 18 Luglio prima della presentazione letteraria si inaugurava, presso la casa parrocchiale di Riva Valdobbia, la mostra di scultura ad opera di Ireneo Passera e Fabio Nicola. Madrina dell’evento la Dott.sa Piera Mazzone che pochi giorni dopo con il contributo degli scultori scriveva cosi….

Inaugurata la mostra degli scultori Fabio Nicola e Ireneo Passera: “Di Legno Di Pietra”

La Dott.sa Piera Mazzone

to sono morbidi e sordi sul legno, dove la sgorbia permette di intagliare e solcare la sua venatura. Gesti sapienti di scultori che rivelano con arte forme nascoste agli ignari presenti che guardano. Fabio ed Ireneo due modi di interagire con la propria materia, pietra e legno, terra e pianta, legame inscindibile di una natura florida e audace di queste terre alte. Come le case Walser, di pietra e di legno e poi ancora di pietra, che chiudono e tutelano il legno caldo e fragile da inverni lunghi e tormentati. Due artisti e modi di scolpire a confronto con l’unico scopo di mostrare l’amore per il proprio lavoro.

NELLA CORTE DI RIVA VALDOBBIA E’ un rumore di laboratorio quello che si è trasferito dalla bassa all’alta Valsesia, in un’accogliente corte a Riva Valdobbia. Rumori dal suono ormai antico, provocati da gesti manuali ripetitivi e dimenticati, si susseguono sovrapposti e continui, perdendosi nell’aria alle spalle di una monumentale chiesa incastonata tra le strettoie di vie acciottolate che, pian piano, mugugnano di voci umane e chiassose auto. Rumori carichi di nostalgia che risvegliano in valle gli antichi mestieri, di cui rimane solo una lontana eco. Tanto sono secchi e decisi sulla pietra che sembra voglia resistere imperturbabile ad ogni colpo di scalpello e mazzuolo, resistente al ferro che la incide, tan-

Questo breve articolo per ringraziare da parte di Fabio Nicola ed Ireneo Passera per essere stati invitati ad esporre quello che amano e fanno col loro “saper fare”. Per avere avuto l’opportunità di esporre le loro sculture nella Casa Parrocchiale, in una suggestiva ed antica dimora nel cuore della straordinaria Riva Valdobbia. Un sentito ringraziamento per tutto l’impegno e la disponibilità a Roberta Locca, ad Attilio Ferla, rappresentanti dell’Associazione Culturale Walser che ha organizzato l’evento “Di legno Di pietra”, a Piera Mazzone, a Don Carlo Elgo, al Comune di Alagna ed alla comunità tutta per averci ospitati. Nel tardo pomeriggio a Cà D’Janzo nel Relais Regina, la CasAlpina

Piera

Mazzone Direttrice della biblioteca “ Farinone Centa” di Varallo

R

oberta Locca con Attilio Ferla dell’Associazione Culturale Walser Valle Vogna, Eco Museo di Riva Valdobbia e della Val Vogna, grazie alla disponibilità del Parroco, Don Carlo Elgo, giovedì 18 luglio hanno organizzato nella suggestiva e discosta Corte della Casa Parrocchiale una mostra di scultura di Fabio Nicola e di Ireneo Passera, che si è conclusa domenica 21 luglio con un laboratorio tenuto da Ireneo Passera: “Scopriamo come scolpire la pietra”. Poche opere riempivano il suggestivo cortile interno, ma assumevano grande rilievo nell’esposizione in plein air, intitolata: “Di legno di pietra”: l'essenza materiale delle case valsesiane, tra tradizione ed esperienze acquisite altrove. Legno-Vita, Pietra- Eternità. Legno-Calore, Pietra-Gelo. Gli opposti si attraggono ed interagiscono per riempire le trame degli Affetti, con un ordito di consapevolezza. Così le opere di Ireneo Passera e Fabio Nicola prendono forma e sostanza nel presente attingendo al passato ed inseguendo il futuro. I due scultori hanno voluto ringraziare gli organizzatori e il pubblico scrivendo le loro impressioni:

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ma non solo, scrivono offrendo ai lettori la possibilità di riconoscersi e sono stati proposti da Marziani a Solinas e Bertone, che li hanno commentati, mettendo a confronto le diverse tipologie di scrittura. Per Max Solinas la letteratura resterà nel “figurativo”, usando una metafora artistica, perché si ha bisogno di riconoscersi nella pagina: “Bisogno di palpare, abbracciare, sentire”. Matteo Bertone nella scrittura cerca qualcosa che deve ancora scoprire. Dopo l’ottima cena a letto presto, perché il mattino dopo il gruppo dei Lettori Camminatori, sarebbe partito per Estoul, facendo tappa all’Ospizio Sottile, ma quella è un’altra storia che sarà raccontata dai protagonisti. che ospitò la Regina Margherita nel 1889, è stata organizzata una tavola rotonda tra scrittori di montagna: Michele Marziani, Matteo Bertone e Max Solinas. L’idea era nata dopo il trekking dello scorso anno a Estoul per partecipare al Festival “Il richiamo della foresta”. Ognuno dei tre scrittori, accomunati dall’amore per il bosco e la montagna, aveva scritto un pezzo per Vogna la rivista annuale dell’Associazione: si era quindi pensato di creare un evento letterario anche in Valsesia. Matteo Bertone, vercellese, è autore di “Impure”: “La scrittura per me qualche volta è un peso al quale vorrei sottrarmi, magari per fare un giro in montagna, e poi mi piace imparare le parole della montagna per dare il nome giusto alle cose”. Max Solinas, scultore bellunese, ha esordito come narratore con il romanzo: “Il lupo e l’equilibrista”: “La

scultura è venuta prima della scrittura. Il lupo è quello che non siamo, ma che vorremmo essere: il lupo è il mio Maestro e la mia guida, perché il vero Maestro è quello che non parla, che condivide il grande fascino della natura, che non ha voce”. Michele Marziani, che ha scelto di vivere in Valsesia da tre anni, ha proposto: “Il suono della solitudine”, libricino inserito in una collana che comprende ormai una quarantina di titoli, spiegando il senso dell’incontro: “Ho già scritto trenta libri, perché questo so fare e insieme con questi amici dialogheremo di libri, di montagna e sentiremo il silenzio”. I tre scrittori hanno parlato delle loro esperienze, che hanno in comune l’"odore della montagna, ma soprattutto quello del bosco, quell’odore di verde che riconosceresti tra mille". Dino Buzzati e Mario Rigoni Stern, scrittori di montagna,

Un ringraziamento davvero speciale ad Ireneo, Fabio e Piera per la passione che hanno riservato al nostro evento, speriamo di continuare questo percorso perché l’arte della scultura, parte integrante della nostra tradizione, va insegnata e trasmessa alle nuove generazioni perché si possa ancora godere della sua bellezza. Durante il pomeriggio di domenica i due scultori si sono resi disponibili a chiunque avesse voluto provare “gli attrezzi del mestiere”, creando un vero e proprio laboratorio. 11


IL TREKKING COMUNE DI ALAGNA VALSESIA

UNIONE MONTANA COMUNI DELLA VALSESIA

TREKKING

A A E VI ND NT del

19-20 Luglio 2019 DALLA VAL VOGNA A ESTOUL

LUNGO I SENTIERI DEI VIANDANTI IN QUOTA, TRA NATURA E STORIA

Vi portiamo lungo un cammino senza tempo, dove il passo si fa lento ed ogni cosa parla della magia della Montagna e degli uomini che l’hanno vissuta. Dalla Val Vogna, in Valsesia, fino a Estoul in Val d’Ayas, passando per la valle di Gressoney, percorreremo un sentiero antico, per secoli crocevia di eventi, alla scoperta dei profondi legami tra le tre valli. Due giorni sulle tracce dei viandanti in quota, della loro cultura e della loro terra, per giungere a Estoul in concomitanza de “Il richiamo della foresta”, festival di arte, libri e musica in montagna. Al termine del primo giorno pernotteremo all’Ospizio Sottile, uno dei più antichi rifugi delle Alpi, risalente agli inizi dell’Ottocento.

IL PROGRAMMA VENERDÌ 19 LUGLIO Ritrovo alla Casa Alpina a Ca’ di Janzo - Valle Vogna Orario di partenza: 9.00 Punto di partenza: Ca’ di Janzo 1345 Punto di arrivo: Ospizio Sottile 2480 Distanza: 9,2 km Tempo di percorrenza: 4,30 h

SABATO 20 LUGLIO Orario di partenza: 8.00 Punto di partenza: Ospizio Sottile Punto di arrivo: Estoul 1832 Distanza: 13 km Tempo di percorrenza: 6 h Rientro in autobus* ore 20.30 *Sabato sera possibilità di dormire in tenda ad Estoul con rientro il giorno successivo. Per maggiori informazioni potete contattarci via email.

328 929 2903 walser.rivavaldobbia@gmail.com www.vallevogna.eu

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07 Luglio 2019

TREKKING DEL VIANDANTE Dalla Valle Vogna a Estoul

Il trekking è giunto alla sua seconda edizione e già in primavera arrivavano richieste per poter partecipare. Anche il famoso Festival Il richiamo della Foresta, che ci attendeva ad Estoul, ne era entusiasta e sin da subito ne ha parlato nelle sue rassegne stampa. Insomma un evento a cui teniamo molto che ci presenta al pubblico di migliaia di partecipanti al Festival, rievoca l’attraversamento delle tre valli da cui arrivano molte delle nostre famiglie e nel lento cammino verso Estoul unisce per-

sone sin dal giorno prima sconosciute. Arrivare al Rifugio Sottile, di cui raccontiamo significato e storia, emoziona sempre. Lui, che guarda amorevolmente la ValVogna e la Valle di Gressoney. Purtroppo l’anno scorso l’Ospizio è rimasto senza gestore anche se, sino all’ultimo, si era sperato in un arrivo fortuito, Così, nonostante le prenotazioni e le richieste al trekking, abbiamo temuto sino all’ultimo di doverlo annullare... È stato allora che, con uno spirito ed un altruismo lodevole,

senza batter ciglio, alcuni volontari si sono offerti di prestare servizio purché il trekking non venisse annullato e l’immagine della Valle non ne risentisse. Graziano Pollet, Michele Anderi, Giuliano DeGaspari e Bruno Pelli hanno lavorato per ripulire, accogliere, riscaldare, cucinare e tutti i partecipanti che hanno goduto di un’accoglienza degna di professionisti del settore. Grazie ragazzi siete stati incredibili, un Team d’eccellenza!

SOPRA: Partenza dal Relais, che ringraziamo per la sincera disponibilità sempre prestata alle nostre iniziative. SOTTO: Il gruppo al Rifugio Sottile, grazie ancora al Super Staff!.

SOPRA: Poesia di Serena Pecchio scritta durante il Trekking, grazie Serena per averla voluta condividere con noi. SOTTO: Arrivo al Festival "Il Richiamo della Foresta".

SOTTO: lo scrittore Paolo Cognetti e Roberta Locca presentano l’iniziativa e la Valle Vogna dal palco del Festival.

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03 Agosto 2019

SCENDE IL DIAVOLO DALLA MONTAGNA Spettacolo Teatrale sulle leggende della Valli del Rosa

Titolo Regia Testo Anno Produzione Attori Altri crediti

Scende il diavolo dalla montagna Andrea Piazza Francesco Toscani 2019 Monterosa Racconta, Compagnia teatrale della Civetta Giulia Amato, Riccardo Bursi, Tobia Dal Corso Spazio scenico Andrea Piazza Arrangiamenti musicali Riccardo Bursi Progetto nato da un'idea di Francesco Deambrogi e Andrea Piazza

SCHEDA ARTISTICA Ogni notte i morti si alzano e iniziano a camminare. Nei boschi, sui ghiacciai, fino alle vette, guardando le luci lontane dei paesi che un tempo furono i loro. Ogni notte queste ombre piene di malinconia sono condannate a vagare finché non avranno scontato la loro pena. E quando la nostalgia della vita che fu diventa troppo forte, ecco che iniziano a raccontarsi storie: sono le leggende ascoltate da bambini e tramandate dai nonni, sono i racconti sentiti nelle osterie, ma anche le cronache delle loro vecchie vite ormai trascorse. Storie di lotte contro il diavolo e di amore per la montagna, di tabù e di fede, di comunità e di coraggio. Storie delle valli del Monte Rosa, che tornano in vita in uno spettacolo teatrale e musicale per grandi e piccini. Nello spazio magico del racconto compaiono allora la suocera strega che per spaventare il pretendente della figlia si trasforma in una scrofa, le astuzie del parroco e della sua perpetua che riescono a ingannare il maligno, il racconto epico della roccia del diavolo e di come una valle intera si salvò dalla distruzione, storie divertenti e avventurose, ma anche commoventi, come il racconto della Stria Gatina, l'ultima strega ammazzata a bastonate in Italia, nella sua casa, nel 1828. I registri si alternano, si passa dal racconto all'azione, le musiche accompagnano la processione e le sue leggende, fino all'ultima storia.

Il progetto di "Scende il diavolo dalla montagna" nasce dalla volontà di riportare alla vita e al pubblico un patrimonio culturale e folklorico ricchissimo e ormai quasi dimenticato, in una messinscena originale e divertente che tra Brecht e Dario Fo saltella tra i generi e le atmosfere per un viaggio in compagnia della processione dei morti delle Alpi occidentali. Interamente realizzato da cinque giovani artisti accomunati dalla frequentazione della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, il progetto è partito da una immersione nella cul-

tura delle valli piemontesi e valdostane del Monte Rosa: da questa prima incursione sono state selezionate le storie popolari che hanno trovato una nuova veste nella drammaturgia originale di Toscani. Lo spettacolo è scaturito infine da un periodo di residenza in un teatro storico ai piedi del Rosa, là dove queste storie sono nate. Durata: 75 minuti. IL GRUPPO Andrea Piazza, laureato in Storia dell’Arte, è stato assistente di Graham Vick al Macerata Opera Festival; nel 2019 ha debuttato a Milano all’Out Off e a LaVerdi rispettivamente con “Non rimpiango nulla” e “Il piccolo Ludwig” Francesco Toscani, laureato in Lettere con lode, il suo primo testo, "La fame" ha vinto la segnalazione speciale FabulamundiPlaywritingEurope al premio Hystrio 2019. Giulia Amato, laureata con lode in Filosofia, è diplomanda alla Paolo Grassi di Milano, corso Recitazione. Ha frequentato diversi stage e seminari di recitazione e canto. Riccardo Bursi, è diplomato in Recitazione alla Paolo Grassi e laureato al Dams; polistrumentista e cantante, ha studiato pianoforte al conservatorio e doppiaggio. Tobia Dal Corso, originario della provincia di Verona, subito dopo il diploma è ammesso al triennio di Recitazione della Paolo Grassi di Milano, dove si laurea nel 2019. 15


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04 Agosto 2019

FESTA AL FORNO DI CA JANZO Pizza e musica al forno di Ca' di Janzo

In collaborazione con Relais Regina, sempre disponibile a collaborare, domenica 4 Agosto si è acceso anche il forno di Ca Janzo. Un bel momento di festa durato sino a tarda serata.

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13 Agosto 2019

CORSO DI FILATURA

V V

Frazione Rabernardo, Valle Vogna

In un mondo che va di corsa e spesso supera i tempi per cui la Natura ci ha creati, sempre più persone cercano un angolo in cui rallentare. Rallentare, guardare, ascoltare e godere di piccole cose che arricchiscono il cuore. Anche la tecnologia sempre più avanzata, a tratti, da spazio ad un ritorno della manualità. Sapiente conoscenza di gesti che lentamente vengono scanditi dal tempo. Cosi per vari motivi tante persone ricercano i manufatti HAND MADE. Pezzi unici perché sono fatti a mano con materiali nobili e pertanto preziosi per la loro unicità. Anche questa è una di quelle che noi chiamiamo terze vie, una ricerca nel presente, guardando al passato ma rivolti al futuro. In quest’ottica, abbiamo voluto affrontare un argomento che ci sta a cuore... Parla di una materia prima

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LANA

VALSESIANA

locale che da sempre è parte integrante della nostra cultura, anzi in alcune zone è diventata famosa per quanto pregiata: la LANA. Sappiamo che difficilmente potrà essere argomento di interesse economico e che il nostro argomentare non aiuterà i nostri amici pastori che, ad ogni tosatura, sono obbligati a gettarla. Ma pensiamo sia utile, ove utilizzata, valorizzarla perché le nostre montagne sono dure ed ogni bene creato qui nasce dalla fatica. Abbiamo quindi creato il Marchio LANA VALSESIANA e pensiamo che farlo conoscere sia un valore aggiunto. In

tal senso vorremmo farci portavoce di iniziative che lo valorizzino, collaborando con chi la lana Valsesiana la utilizza e la vuole promuovere. La prima iniziativa nasce con il Corso di Filatura, in una location d’altri tempi, il Museo Etnografico di Rabernardo Valle Vogna dove abbiamo organizzato una lezione di avvicinamento alla lana. Paola, la nostra maestra, ci ha mostrato diversi campionari di lane locali spiegandoci le prime lavorazioni: pulitura e cardatura per poi iniziare con l’utilizzo del fuso e dimostrazione dell’uso del filarello. Un’esperienza senz’altro da ripetere che ha suscitato interesse. Grazie a Paola Gilardone che non solo ha prestato il suo tempo a nome dell’associazione, ma ha anche contribuito alla raccolta fondi per le nostre attività.


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Come sempre però amiamo che siate Voi a portare le vostre esperienze e ci diate la possibilità di condividerle, solo così acquista valore il nostro lavoro… Condividiamo per questo l’esperienza di Francesca e Alberto che incarna molti dei nostri ideali. Di Francesca Di Donato

Francesca e Alberto di "Valsesia Cashmere", realizzano prodotti in cashmere in frazione Cavaglia di Varallo.

È possibile allevare animali senza stravolgerne la natura? È possibile produrre reddito rispettandone la fisiologia e l'etologia? È possibile condurre un'attività in montagna giovando contemporaneamente al territorio? E poi, è possibile sostenere un'attività di questo tipo senza sacrificare totalmente il tempo per sé, per la famiglia, ed eventualmente per un altro lavoro? Ma soprattutto, è possibile allevare capre cashmere in Valsesia, un ambiente così distante (sia fisicamente che qualitativamente) dal loro luogo di origine? Dopo 12 anni dall'inizio di questa attività/avventura ci sentiamo di poter rispondere che si, parrebbe proprio sia possibile. Valsesia Cashmere nasce nel 2008 un po' per gioco, un po' per sfida, probabilmente anche un po' per follia, con l'arrivo in Valsesia delle prime 5 caprette di razza Cashmere: Anastasia, Andromeda, Artemisia, Adelaide, capeggiate dal baldo Aristotele. Nessuno di noi aveva alcuna esperienza con questi animali e i primi mesi sono stati decisamente di assestamento; abbiamo dovuto imparare - e in fretta - che le capre sono animali curiosi, indomiti, intelligenti, golosi, agili, forti, testardi, poco inclini a rispettare porte chiuse e recinzioni. Contemporaneamente imparavamo anche come funzionava la produzione della loro preziosa fibra: non tutti sanno che il cashmere è il sottopelo di questo tipo di capre, che viene prodotto durante l'autunno come protezione dal freddo e si distacca in primavera per poi ricrescere nuovamente entro l'inverno successivo. Ogni capra produce circa 200-300 grammi di cashmere grezzo all'anno, che poi dovrà essere sottoposto a diverse fasi di lavora-

zione: lavaggio, degiarratura, filatura e ritorcitura; durante questi passaggi viene perso circa il 70% della fibra, per cui la produzione effettiva di una capra si aggira sui 60-90 grammi all'anno. Questi numeri fanno facilmente intuire come il prezzo del cashmere non possa scendere più di tanto, ma d'altra parte il suo costo è ampiamente giustificato dalle sue qualità, impareggiabili e risapute da secoli. Per il nostro allevamento abbiamo cercato un posto che fosse sufficientemente isolato da non arrecare disturbo ai vicini, e che avesse bisogno di una riqualificazione ambientale, e lo abbiamo individuato a Cavaglia, una frazione di Varallo (VC) zona che un tempo era di alpeggio ma ormai raggiunta e soffocata dal bosco in seguito all'abbandono della pastorizia e all'urbanizzazione. Qui abbiamo approntato le basilari strutture necessarie ad un allevamento di tipo semi brado come è il nostro: un recinto solido, una tettoia, un fienile, una mangiatoia. Il lavoro che richiedono è minimo durante quasi tutto l'anno: da giugno a marzo necessitano solo di acqua e fieno, mentre ad aprile/maggio si ha il distacco del cashmere e quindi la necessità di raccoglierlo. La raccolta del cashmere si effettua con semplici pettini e spazzole per cani e gatto, ed è indolore per le capre. Dopo la raccolta viene spedito alle ditte che lo lavorano e ritorna poi a noi sotto forma di gomitoli, a questo punto inizia la produzione dei vari prodotti finiti. Attualmente la nostra produzione vede principalmente: • sciarpe tessute al telaio artigianale, in cashmere puro o unito ad altre fibre di alta qualità, come seta o alpaca; • fasce utilizzabili sia come scaldacollo che come scaldaorecchie, sempre tessute a telaio, con trama in cashmere ed ordito in seta o bambù; • gioielli (orecchini, braccialetti, collane, spille) fatti con la caterinetta in 100% cashmere; • gioielli di cashmere realizzati col puncetto; • cuffie di tutte le taglie e calzette da neonato lavorate a maglia manualmente; • cappelli di feltro prodotti a partire dallo scarto di lavorazione del cashmere. Il latte normalmente viene lasciato a disposizione dei piccoli ma quando occasionalmente è necessario mungerlo viene utilizzato per la produzione artigianale di saponette naturali. Oltre alla soddisfazione di essere riusciti ad impostare un allevamento di questo tipo, e di poter offrire sul mercato un prodotto unico, frutto di un'idea originale ed innovativa, che è quasi a chilometro zero, ed il più sostenibile ed ecologico possibile, si aggiunge l'importante traguardo di aver riqualificato una parte di montagna, grazie all'attività di disboscamento e bonifica operata dalle capre al pascolo, e il fatto che, grazie a loro, viviamo in un contesto più salutare sotto ogni aspetto rispetto a prima. Per chi volesse approfondire rimandiamo al sito www.valsesiacashmere.it o alla pagina Facebook "Valsesia Cashmere". 19


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17 Agosto 2019

ALLA RICERCA DELLE PIANTE ALIMURGICHE Valle Vogna

Con la fortuna di una bella giornata di sole si è svolta la passeggiata che il 17 Agosto ha percorso la Val Vogna da Ca Janzo a Frazione Peccia. Capeggiata dalla Prof. Vicario la passeggiata ha avuto lo scopo di scoprire la flora locale, soprattutto quella utilizzabile in cucina, dando la possibilità anche di parlare di Medicina, ricerca farmacologica e tutto quanto puo’ essere inerente al mondo botanico. Al termine si è tenuto un pranzo in frazione Peccia dove si è approfondita la parte pratica dell’utilizzo delle piante spontanee locali in cucina. Esperienza da ripetere! Grazie Prof!

24 Agosto 2019

“MONTAGNA ANTICA, MONTAGNA DA SALVARE" “Alto sentiero dei Walser”, Valle Vogna con il CAI Varallo - “Sentieri dell’arte 2019”

Una ventina di partecipanti, di diversa provenienza hanno partecipato all'uscita organizzata in collaborazione con il CAI di Varallo lungo l'Alto sentiero dei Walser. Il Sentiero si è presentato complessivamente in ordine e si è avuta la possibilità di visitare gli oratori lungo il cammino. In frazione Rabernardo abbiamo avuto l'occasione per una visita al Museo Walser, gentilmente accolti dai proprietari (famiglia Locca). Accoglienza inaspettata e gradita a Selveglio, da parte di Augusto Carestia e famiglia (con offerta di un rinfresco). 21


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Amici,

vicini e lontani

Chiunque frequenti la Montagna sa che può essere fonte di ispirazione. Mondi intrisi di storie dalle radici profonde e dai paesaggi inebrianti. Nuove esperienze di chi vuole ricominciare qui.. in montagna. O di chi se ne andato ma ha lasciato qui un pezzo di cuore. Dedichiamo parte del nostro annuario proprio a chi è stato ispirato dalla Montagna e con capacità di espressione, ce ne vuole parlare nei suoi racconti. Amici, vicini e lontani... chiunque ci voglia parlare del loro rapporto con le Alte Terre.

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BRICIOLA LUPO

Chi ha paura del lupo cattivo? Piera

Mazzone Direttrice della biblioteca “ Farinone Centa” di Varallo

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a presentazione fatta da Riccardo Rao del suo ultimo libro: “Il tempo dei lupi. Storia e luoghi di un animale favoloso”, mi aveva interessata e incuriosita, tanto che facendo qualche ricerca in Biblioteca e sui giornali locali, scoprii che il 2018 era stato definito: “L’anno del ritorno del lupo in Valsesia”, con il ritrovamento di un esemplare a Mera, deceduto per cause naturali nel dicembre 2017. Il lupo di Mera, tassidermizzato, è esposto nelle sale naturalistiche del Museo Calderini di Varallo, riaperto nel 2017 in occasione del 150° anno dalla sua fondazione. Già vent’anni fa la Rivista regionale “Piemonte Parchi” dedicò un numero monografico alla grande mostra didattica, allestita dal 25 maggio all’11 ottobre di quell’anno presso il Museo di Scienze Naturali di Torino: “Attenti al lupo: la convivenza possibile, mito e realtà”, poiché da alcuni anni il lupo ricolonizzava le montagne piemontesi ed era stato avviato un Progetto Interreg, in collaborazione con la Comunità Europea, per capire e studiare la dinamica delle popolazioni di lupi e gli effetti che tale ripopolamento aveva sulle economie locali. Oggi la domanda: “Chi ha paura del lupo cattivo?” sarebbe tacciata di “politically incorrect”, perché il lupo è un animale selvatico che è stato a rischio di estinzione e soprattutto perché la società è profondamente cambiata dal punto di vista sociale, ma alcune recenti aggressioni di greggi, a Fobello, a Rimella e all’Alpe Laghetto, tra Sabbia e Cravagliana, preoccupano i pastori valsesiani. Ermanno Debiaggi, Presidente dell’Ente di gestione delle aree protette della Valsesia, nella lettera allegata alla consegna di pannelli informativi per escursionisti che frequentano aree con bestiame custodito da cani da guardanìa, scrive: “A partire dalla metà dell'Ottocento, quando venne catturato l'ultimo lupo in Val Sesia, e precisamente nel territorio di Piode, quindi da quasi 170

anni, il sistema di pascolo sul nostro territorio si è evoluto in un contesto di assenza di predatori; ma da alcuni anni (dal 20142015), a seguito della progressiva ricolonizzazione dell'arco alpino occidentale, il lupo ha cominciato a diffondersi anche in Valsesia con esemplari isolati in dispersione da branchi presenti in aree limitrofe (Valle d'Aosta e Val Sessera). Ciò comporta la necessità di modificare la gestione degli animali in alpeggio per far fronte al problema degli attacchi al bestiame monticante. Si è iniziato, quindi, a utilizzare differenti sistemi di prevenzione degli attacchi”. Il ritorno del lupo viene dunque declinato in diverse accezioni: nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi si è creato un “Percorso del lupo”, per conoscere le principali caratteristiche etologiche dell’animale, ma è nato anche il progetto: “Il cane da guardiana nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, con l’obiettivo di mitigare l’impatto della presenza del lupo sulle attività umane nei territori dell’area protetta. Il 14 giugno di quest’anno, la Sezione di Varallo del Club Alpino Italiano, ha presentato la serata divulgativa e informativa: “Parliamo di lupi”. Raffaele Marini, Referente del Gruppo Grandi Carnivori del CAI, ha offerto gli strumenti scientifici per comprendere meglio il presente, e per non avere così tanta paura dei lupi. “Quello del lupo è un tema da affrontare con grande ponderazione ed equilibrio, senza schierarsi, ma cercando di avere una visione laica”. E’ stato spiegato come fa il lupo a percorrere centinaia di chilometri, ottimizzando lo sforzo e impegnando il meno possibile i muscoli: “Fare tanta strada con poca fatica: il lupo è un animale intelligente e flessibile, l’unico animale che l’uomo non è riuscito a domare”. Il lupo fu un “protagonista” nella storia della Valsesia: negli Statuta Crevole del 1289 , è contenuto un vero e proprio vademecum di ricompense per le uccisioni dei lupi: “XCV. Quod comune debeat solvere pro quolibet lupo. Item statuerunt et ordinaverunt quod si aliqua persona de ipsa vicinancia Crevole ceperit aliquem lupum, vel aliquem ipsarum ferarum et consignaverit comuni Crevole ipsum, debeat solvere suprascriptum comune

2018: IL RITORNO DEL LUPO IN VALSESIA

Crevole solidos X imperialium pro quolibet lupo sive lupa, si fuerint vivus vel magna, et si fuerit mortus vel parva, solidos V imperialium pro qualibet vice, et hoc intelligatur si dicti lupi sive lupe capti fuerint super territorium vicinance Crevole, vel territorium consortium”. Si prevedevano quindi ricompense diversificate per chi portasse un esemplare di lupo vivo o morto, piccolo o grande, catturato nel territorio di Crevola (oggi frazione del Comune di Varallo) o nei territori confinanti. In altri casi la ricompensa per la cattura di una lupa era maggiore, perché non avrebbe più potuto procreare. In biblioteca a Varallo lo scritto del poeta Gian Giacomo Massarotti: “La storia del lupo”, comparso sull’Almanacco Storico della Valsesia del 1877, indaga sull’origine di uno dei soprannomi dei Varallesi: “Lupi” scoprendo che, all’osteria della Mantegna, Giuseppe Delzanno conserva una stampa del Gilardoni, “Stampatore del Sacro Monte” del 1781: “Tragica relazione degli assalti, Morsicature ed Offese che fece un fierissimo Lupo nel giorno 17 aprile 1781 nel Borgo di Varallo e circonvicini Luoghi colla successiva uccisione del medesimo”2: NOTE A MARGINE Mor Carlo Guido, La Vicinia di Crevola Sesia, Statuti di Crevola, Novara, Cattaneo, 1924 e Mor Carlo Guido, Statuti della Valsesia del sec. XIV, Valsesia, Borgosesia, Crevola, Quarona, Milano, Hoepli 1932. 1

Luigi Gaetano Gilardoni, era figlio dello stampatore Carlo Francesco, che trasportò a Varallo da Vercelli la stamperia paterna di Pietro Antonio Gilardoni, e si sottoscriveva come il padre: “Stampatore del Sagro Monte”, come scrive Alberto Durio nel prezioso volume: L’Arte della Stampa in Valle Sesia. Dalle sue origini ai giorni nostri, pubblicato a Torino da Casanova nel 1934. Il Durio, op. cit. 1926, scriveva che di quella stampa in folio si conoscevano due esemplari: uno nel Museo Calderini in Varallo ed un altro nella Trattoria Delzanno alla Crosa di Varallo. Oggi presso il Ristorante Delzanno alla Crosa di Varallo, che continua l’attività dell’avo, è ancora esposta una copia in anastatica della stampa del Gilardoni, realizzata dal Lions Club Valsesia, durante la presidenza dell’Avvocato Enzo Barbano, che è stata gentilmente messa a disposizione per la riproduzione. 2

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L'esemplare di lupo rinvenuto a Mera, deceduto per cause naturali nel dicembre 2017. Il lupo, tassidermizzato, è esposto nelle sale naturalistiche del Museo Calderini di Varallo

Negli Atti di morte conservati presso l’Archivio Parrocchiale di Varallo, stesi nel 1781 dal rev. Prevosto can. Don Innocenzo Imbrico e dal canonico penitenziere don Giovanni Battista Galletti, sono riportati i nomi e le date di tutti i dieci deceduti, alcuni immediatamente, altri dopo qualche giorno e un ragazzo di quindici anni addirittura dopo cinquantotto giorni. Gerolamo Lana3 riporta un dettagliato elenco delle “Spese fatte dallo Spedale per la cura de’ morsicati dal lupo arrabbiato”, ammontanti a L. 1.286,9, in cui una voce di spesa ammontante a L. 80 viene riferita agli “eredi del Dr. Agostino De Marta di Camasco che si credé sia morto per aver diseccato il lupo”. Dopo essere stato abbattuto, dall’autopsia si rivelò che il lupo era affetto da rabbia e questa malattia provocò la morte anche del chirurgo che operò i pazienti morsicati ed analizzò il corpo dell’animale. La rabbia è un virus che colpisce tutti gli animali a sangue caldo e si manifesta con una sintomatologia prevalentemente di tipo nervoso, è mortale, se non contrastata in tempi brevi con la vaccinazione post contagio, provoca ancora oggi circa cinquantamila morti all’anno, ed è diffusa soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Si trasmette con la saliva, e ciò spiega perché sono morte molte delle persone morsicate, non a causa delle lacerazioni, ma della rabbia, che ha un tempo di incubazione variabile a seconda del punto di morsicatura, ma può avere un periodo di latenza anche di quindici giorni. La rabbia è detta anche idrofobia, perché dopo il con-

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Il volume "In Valsesia. Note di taccuino" dove l’Avvocato Alberto Durio, sulla copia da lui posseduta annota a piè di pagina di un ex voto raffigurante una donna assalita da un lupo.

tagio il paziente rifugge l’acqua, perché per la sintomatologia nervosa c’è una difficoltà di deglutizione, anche se secondo alcuni l’acqua fungerebbe da specchio e la persona ammalata stenterebbe a riconoscersi. Lo scrittore Axel Munthe ne: “La storia di San Michele” racconta la sua personale esperienza all’Istituto Pasteur di Parigi, dove fu vinta la battaglia contro l’idrofobia, citando il terribile episodio di sei contadini russi

morsi da un branco di lupi impazziti e mandati all’Istituto Pasteur a spese dello Zar. Ancora oggi i cani morsicatori vengono segnalati e visitati, e tenuti controllati per dieci giorni. Dopo gli ultimi focolai di “rabbia silvestre”, manifestatisi in Trentino e Friuli nel 2010, portati dalle volpi, non vi sono state più segnalazioni in Italia. Non è però così remota la possibilità di importare nuovamente la rabbia, visto l’intensificarsi dei traffici di viaggiatori e movimentazioni merci provenienti da paesi in cui l’infezione è ancora presente. Negli animali selvatici, in particolar modo il lupo, la rabbia provoca una maggior “mansuetudine” dell’animale, che tende ad avvicinarsi ai luoghi abitati, avendo così più possibilità di incontrare persone e di assalirle, come accadde al lupo valsesiano. Carlo Gallo4 ricorda che alla Mantegna: “Fu ferito a morte un lupo idrofobo, che nel 17 aprile 1781 tra Varallo e vicinanze avea morsicato ventisei persone, di cui ben ventiquattro morirono”: l’Avvocato Alberto Durio, sulla copia da lui posseduta del volume: “In Valsesia. Note di taccuino”, annota a piè di pagina: “In una piccola cappella che s’incontra prima d’entrare in Cilimo, venendo da Roccapietra, all’inizio della salita per Civiasco, tuttora (anno 1920 aprile) si osserva molto ben conservato un ex voto raffigurante una donna assalita da un lupo e questa iscrizione: 1781, 17 aprile, Ex Voto Grazia Ricevuta Cattarina Longhetti da Cilimo”. Sempre Alberto Durio nel volume Civiasco. Memorie stori-


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che. Contributo alla storia della Valle Sesia3 dedica l’Appendice A a: “Orsi e lupi in Valsesia”, citando il tragico episodio del 1781, riportandolo nei particolari: “Così leggo in un documento interessante scritto con uno stile ampolloso” citando chiaramente la stampa di Gilardoni. Dai documenti presenti nell’Archivio di Stato di Varallo, risulta che le ultime catture sono state effettuate nel 1808-1809 a Varallo e a Rimasco, nel 1821 a Borgosesia, nel 1827 a Camasco e nel 1850 a Piode. Rina Dellarole nel volume “Storie di lupi, di briganti e santi. Valsesia, Biellese e Cusio", pubblicato nel 1997, dedica il capitolo iniziale proprio a: “Lupi tra storia e leggenda”. Arnaldo Colombo in: Rovasenda un feudo nella Baraggia, cita la caccia ai lupi che si verificò nei Cantoni svizzeri nel 1820, che respinse i lupi ai confini, con conseguente invasione delle vallate piemontesi e delle accoglienti baragge del Vercellese. L’intendente per SM della provincia di Vercelli stabilì una ricompensa, variante da venticinque franchi per un “lupotto” a duecento franchi per una “lupa pregna”: per comprovare l’uccisione si chiedeva di presentare le gambe mozze dell’animale. I rovasendesi per ottenere protezione contro le fiere si rivolgevano a San Giulio, santo che ha aggiogato un lupo, come si vede da una scultura lignea policroma conservata nella basilica di San Giulio, nell’omonima isola del lago d’Orta. Il pellegrinaggio annuale traeva proprio origine da un voto fatto a San Giulio in occasione dell’invasione dei lupi nei primi decenni dell’Ottocento. Don Massimo Milano in: "I Santi delle nostre terre ed un eresiarca", dedica un capitolo ai lupi, ricordando che nel 1447 a Gattinara fu eretta la chiesa di San Giulio per ottenere la protezione del cielo contro i lupi. Nell’Ottocento nel “Prato delle ossa” fu sbranato un bambino della famiglia Scribanti, che era andato a portare da mangiare ad una nidiata di merli e pochi giorni dopo un ragazzo della famiglia Lavezzi. A Sostegno il 2 settembre 1816 Angela Maria Tamonino di dieci anni fu sbranata dai lupi nel campo chiamato Bonda e quel punto fu segnato con una croce. La Valsesia, rispetto agli altri luoghi della diocesi gaudenziana, possiede il primato numerico di luoghi di culto intitolati al martire San Defendente6: “L’iconografia lo presenta in abiti militari lo si invoca contro la ferocia dei lupi e la violenza degli incendi”, scriveva il venerabile vescovo Carlo Bascapè nella sua descrizione della Diocesi di Novara percorsa durante le visite pastorali7. Nei Bestiari medievali il lupo rappresentava la rapacità, ma anche la massima forza del male, ovvero il diavolo. All’inizio della Com-

Particolare degli affreschi all’interno della cappella dedicata a San Defendente a Mollia. L’iconografia lo presenta in abiti militari e lo si invoca contro la ferocia dei lupi e la violenza degli incendi.

Max Solinas, autore del romanzo: “Il lupo e l’equilibrista", offre la sua spiegazione sulle caratteristiche che rendono il lupo un animale speciale.

media (Inferno, I, VV 49-54), la lupa è la terza ed ultima apparizione peccaminosa a cui Dante assiste nella selva, allegoria del peccato originale, utilizzata per rappresentare la cupidigia, o, come leggono altri commentatori, l’incontinenza o la malizia. Lo stesso Plutone, custode demoniaco del III cerchio dell’Inferno, è definito da Virgilio un lupo. Al termine di questa “passeggiata” a ritroso nella storia, ho incontrato lo scultore-scrittore Max Solinas, autore del romanzo: “Il lupo e l’equilibrista”8, che offre la sua spiegazione sulle caratteristiche che rendono il lupo un animale speciale e diverso da tutti gli altri: “Il suo grande fascino risiede nel fatto che essendo un animale furtivo e schivo, timido e indipendente, a volte quasi invisibile, non si fa mai vedere dagli esseri umani, pur vivendoci più vicino di quanto possiamo immaginare. Quante volte lo abbiamo sfiorato senza saperlo? Almeno tante volte quante avremmo voluto vederlo e sentirne l’ululato, la lamentosa voce che ci riporta all’origine della vita”.

NOTE A MARGINE Lana Gerolamo, Origine, traslocazioni, ingrandimenti del Venerando Spedale della SS. Trinità in Varallo, Varallo, Colleoni 1851. 4 Gallo Carlo, In Valsesia. Note di taccuino”, II edizione, Torino, Casanova 1892. 5 Durio Alberto, Civiasco. Memorie storiche. Contributo alla storia della Valle Sesia, Cattaneo, Novara 1926. 6 Pomi Damiano, Farinetti Elisa e Donata, Ballarè Enrica, Uno scrigno prezioso: la Cappella di San Defendente in frazione Giacomolo ad Alagna Valsesia, pubblicazione realizzata su iniziativa del Lions Club Valsesia, Sportello Linguistico Comune di Alagna Valsesia, Tipolitografia di Borgosesia, luglio 2018. 7 Bascapè Carlo, Novaria, terre e vescovi della diocesi, a cura di G. Andenna e D. Tuniz, Novara 2015 8 Max Solinas, Il lupo e l’equilibrista, Garzanti 2019 3

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Arialdo Daverio Lorena

Chiara Guida turistica e ambientale

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rialdo Daverio, un uomo straordinario di cui però è stato difficile disegnarne il profilo… un uomo complesso di grande sensibilità e cultura. Esporrò dei pensieri forse confusi come si sono affacciati alla mia mente. Di lui sappiamo delle cose certe che è nato a Novara nel 1909, ha conseguito la maturità classica, si è laureato in ingegneria presso il Politecnico di Milano nel 1932 e morto ad Alagna nel 1990. Fu definito un ecologista ante litteram, fu esponente della sezione di Italia Nostra, fra i massimi studiosi dell’Antonelli, il massimo esperto della cupola Antonelliana, presidente della fabbrica Lapidea di San Gaudenzio dal 1957 al 1974, a lui si devono molti degli edifici novaresi e sul lago d’Orta. Frequentò a lungo la Val Formazza dove aveva lavorato come ingegnere per le dighe e pubblicò pure una Bibliografia della Val Formazza. Si avvicinò quindi già in età giovanile al mondo walser! Sciatore e camminatore instancabile come lo definì Enrico Rizzi. La montagna fu un grande amore! Se iniziassi un elenco di ciò che ha realizzato potrebbe andare avanti a lungo ma immagino che questo sia noto a tutti. Chiunque si occupi di architettura alpina avrà avuto modo di leggere di lui e le sue pubblicazioni. Ciò che però mi ha maggiormente incuriosito è l’aspetto umano…… difficilmente definibile. Ho avuto più volte occasione di entrare nella sua casa ricolma di libri lungo tutte le pareti e da terra al soffitto. Non ricordo uno spazio libero! E …con un arredamento monacale, essenziale. Proprio dalla sua casa emerge un importante tassello della sua personalità. Poi ve ne sono molti altri…. All’apparenza serioso, schivo e burbero come alcuni uomini di montagna fra i quali aveva deciso di trascorrere parte della sua vita. Un giorno venne in visita al museo un uomo di Novara che lo aveva conosciuto all’inizio del suo percorso lavorativo e lo ha descritto come “fobico”. Ho chiesto perché e mi è stato risposto che era guardingo nei confronti di chi non conosceva perché temeva qualsiasi forma di disonestà e corruzione! La sua sensibilità (architettonica) forse non fu compresa in un primo momento. Si scon-

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trò con lo sviluppo turistico che portava i proprietari di case walser a chiudere parte dei magnifici lobbiali per ricavarne bagni per appartamenti da affittare…verande! Lui odiava le verande, le considerava un obbrobrio. Un certo tipo di sviluppo locale mal si sposava con l’innamoramento di Daverio per la straordinaria architettura walser. Caparbio e determinato con il tempo fece breccia e risvegliò la sensibilità nei pochi

Arialdo Daverio, morto ad Alagna nel gennaio del 1990.

alagnesi in cui era sopita e l’orgoglio per il ricco patrimonio materiale ed immateriale locale. I suoi studi sull’architettura walser lo portarono ad assimilare i lobbiali ed i fald ai moduli dell’uomo Vitruviano. In un primo momento prese casa nella frazione Dosso dove studiò ed approfondì i dettagli dell’architettura e i tipi di legno usati per le costruzioni. In seguito comprò la casa di Pedemonte…. Scendeva in paese con lo zaino e il gatto sulle spalle Si spostava fra Novara e Alagna spesso con pubblici perché non aveva la patente e sempre con il suo fedele gatto al seguito. Fu anche benefattore, sappiamo infatti che pagò gli studi a Novara alle ragazze di una famiglia alagnese e che fece molte consulenze e progettazioni per ristrutturazioni a titolo assolutamente gratuito. Amava i bambini, a loro era permesso tutto: si faceva tagliare i capelli dalle ragazzine che vivevano lì accanto. Permetteva loro di fare

scherzi telefonici dal suo telefono! Emilio Stainer, straordinario personaggio che ha coperto tutti i ruoli nelle varie associazioni cultura walser e che fu amico di Daverio lo paragona al Ruffiner, Ciò che Ruffiner riuscì a fare nel vallese nel ’500 fece Daverio ad Alagna negli anni ’70 ed oltre fino alla morte. Morì ad Alagna lasciando la sua casa, le case di Scarpia di Otro, un importante archivio librario e un fondo in denaro ad Unione Alagnese per quelle che vennero definite le “Gite Daverio”. Era infatti suo desiderio che la popolazione della sua amata Alagna avesse la possibilità di muoversi per andare in visita a località turistiche e storiche per aggiornarsi sempre e rimanere al passo coi tempi senza mai tradire la propria storia e cultura. Il suo corposo e ricco archivio è stato spostato dalla casa di Pedemonte alla sala a lui dedicata presso l’edificio di Unione Alagnese La sua casa sarà oggetto di importante ristrutturazione al fine museale, in chiave multimediale mentre il progetto sulle Case di Scarpia sarà a breve illustrato direttamente dal FAI. Unione Alagnese nel 2017 decide di donare la parte dell’archivio dedicato a Novara al comune della città, ora consultabile presso Biblioteca civica cittadina “C. Negroni”. Nel suo “Censimento delle antiche case in legno” per l’edificio che poi divenne museo scrisse, oltre alla descrizione della struttura: in questa casa abitava un vecchietto. Quando arrivava il sole, si toglieva il cappello e diceva: “Ich griezidich, das benedittis liecht” Ti saluto, benedetta luce. Notizia di Clelia Gabbio….quindi accanto agli aspetti tecnici anche quella dolce umanità. Fra i suoi libri preferiti infatti il Giordani “La colonia tedesca di Alagna Valsesia e il suo dialetto” che definiva un libro piena di poesia! Fu sepolto nel cimitero di Alagna. La sua lapide in legno rappresenta una casetta walser e si legge: Arialdo Daverio Novara 1909 Alagna 1990 UN UOMO… che trovo essere una perfetta sintesi……. Da allora tutte le lapidi del cimitero di Alagna furono realizzate in legno ad imitazione delle architetture walser… con questo ultimo tassello il mosaico comincia a prendere forma ma credo ne occorrano molti altri per avere una visione completa di un uomo così complesso e straordinario”


ANNUARIO 2019

I giovani, il nostro futuro.

DA SINISTRA A DESTRA: Foto di gruppo durante il Walsertreffen. Pierino Ferraris e Giacomo Barbero. L'Associazione ringrazia Giacomo Barbero per la ribebba in ferro battuto che adorna il nostro gagliardetto.

DA SINISTRA A DESTRA: Alcuni momenti del Walsertreffen. Pietro Tapella con la maschera e mentre suona i cucchiai di legno. Roberta Locca porta il gagliardetto di Riva Valdobbia.

6-7-8 SETTEMBRE 2019

Il Walsertreffen Roberta

Locca Curatrice del Museo Walser Valle Vogna

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stato il Loetschantal ad ospitare il 20° raduno delle genti Walser, Walsertreffen. Dopo un estenuante anno di lavoro gli amici del Vallese radunano presso i loro bei villaggi, i comitati rappresentanti le varie località Walser di tutta Europa, in quello che è un appuntamento sempre tanto atteso. Incontro che, in un corollario di colori (i vari costumi), lingue, suoni e tradizioni riunisce diversi paesi, che oggi, condividono abitualmente poco, ma che questa occasione fa’ respirare voglia di aggregazione e sincera condivisione di una storia che è stata comune. "Ammetto, è la prima volta che partecipo ufficialmente ad un Walsertreffen ed ufficialmente vuol dire facendo parte di un gruppo organizzato, che partecipa alla sfilata delle genti Walser. La cosa buffa è che conosco molti dei partecipanti, soprattutto Svizzeri,

ma non conosco nessun del Mio gruppo: Gruppo Folkloristico DieWalser ImLand. Il primo approccio, avuto via mail, è stato formalmente impeccabile il Presidente dell’Associazione si muove con una professionalità e puntiglio degno di un esperto organizzatore di eventi. Concordiamo insieme che debbano essere rappresentate nello stesso gruppo i due gruppi Walser distinti. Alagna Valsesia e Valle Vogna /Riva Valdobbia. Si perché, seppur rappresentando lo stesso territorio, la nostra storia Walser è simile ma non uguale ed è bello presentarci uniti, ma parlando delle nostre differenti peculiarità. I mesi estivi passano veloci sino ad arrivare alla partenza. Venerdì 6 settembre al mattino il pullman parte da Alagna per arrivare attraverso il Passo del Sempione al Vallese e poi risalire verso il Loestchantal. Il viaggio scorre veloce e scopro ben presto cosa vuol dire far parte di questo gruppo… arrivati prima della Dogana usufruiamo di un spazio pubblico al coperto (piove) per fare la colazione. Vedo gesti mirati, perfetti, calcolati che con allenata precisione in un batter d’occhio allestiscono un lussuoso buffet in territorio

sconosciuto… cosi ho la prima idea di chi siano Stefano Marchino e la Sua famiglia…. E di come da anni si occupino con il loro gruppo di studiare e ricercare canti e balli della tradizione facendoli conoscere al pubblico. Il viaggio prosegue sino ad arrivare ad un fresco Vallese che ci terrà svegli e frizzanti per tutto il week end. Non descriverò l’esperienza parlando del dettaglio degli eventi, preferisco lasciarvi il ricordo di bei visi sorridenti sulle foto che qui condivido. Vi parlo invece dell’orgoglio che ho provato guardando i miei compagni di viaggio esibirsi, della gratitudine che provo verso la mia Comunità che mi ha coinvolto con sincera simpatia non facendomi mai sentire estranea, dell’ammirazione verso il Gruppo Folkloristico che non senza fatica organizza con meticolosità i suoi eventi. Cito anche il gruppo di Rimella numerosa ed energica che con Carcoforo e noi ha rappresentato la Valsesia. Ne approfitto per augurare a Stefano Marchino e Bruno Pelli di saper proseguire con impegno e dedizione gli importanti incarichi che proprio in questa occasione gli sono stati ufficializzati dall’Associazione Internazionale Walser (IVfW). Stefano rappresenterà presso il Comitato Internazionale la Valsesia e Bruno i vari Gruppo Walser del Sud delle Alpi… Il fine è valorizzare ancor più la Valsesia oltralpe. La strada sarà lunga, magari in salita, ma noi siamo abituati alle salite!."

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Il restauro del forno di oro

Di Giovanna Majno e Marco Santambrogio

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a vita è sempre stata più dura nelle valli alpine che in pianura e non c’è da stupirsi se tutta la montagna ha vissuto alla fine del ventesimo secolo un periodo difficile — di impoverimento di un’economia già di sussistenza, di emigrazione, di abbandono delle case e dei pascoli. Poi, in al-cune valli ma non in tutte, le cose hanno cominciato a cambiare. Il turismo ha trasformato l’economia e ha riportato indietro molti che erano partiti, le vecchie case sono state acquistate e ripristinate da gente di fuori, nuove strade hanno attraversato i pascoli abbandonati, molti alberi sono cresciuti. Con una metafora informatica, si potrebbe dire che l’hardware della montagna sia stato in parte — forse in gran parte — recuperato. E il software? Il software è il modo in cui erano usate una volta le case, i sentieri, le mulattiere, e anche i forni e le fontane — parti essenziali dei villaggi e delle frazioni montane. Il mondo cambia rapidamente e profondamente e sono molte le cose che una volta non c’erano e a cui nessuno vorrebbe rinunciare. Ma c’erano cose molto belle che si ricordano con nostalgia anche nel mondo di ieri. Vale la pena di registrare i ricordi perché non passerà molto tempo che i ragazzi non riusciranno più a immaginare come vivessero i loro nonni — come noi oggi non riusciamo a immaginare la vita degli antichi Egizi. Poi, non è detto che del mondo di oggi si debba accettare tutto senza discutere. Un piccolo esempio: il comune di Riva si apprestava qual-che anno fa a portare l’illuminazione stradale a Oro, una delle Cinque Frazioni all’inizio della Val Vogna. Concordi, gli abitanti hanno ringraziato e rifiutato. Nelle notti serene, oggi le stelle brillano più luminose a Oro che altrove. Qui vogliamo raccontare come è stato ripristinato il forno di Oro, come fosse usato una volta e come è usato oggi. Alla fine degli anni Novanta, come quasi tutte le altre frazioni della valle, Oro era disabitata. Mario Carmellino era stato l’ultimo abitante. Le sette case della frazione erano state lasciate andare. Un muro della piccola chiesa di San Lorenzo era seriamente lesionato. Quasi tutti i tetti facevano acqua; molti legni erano da sostituire; capre, caprioli e cervi entravano liberamente negli orti incustoditi. La volta del forno era in parte crollata. La fontana funzionava ancora ma le grandi tra-

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Il forno nel 1986 (da Sergio e Roberto Bellosta, Valle Vogna. Censimento delle case di legno.)

vi che avevano resistito a tutto erano sconnesse e qualcuna aveva ormai ceduto. Delle sue tre sorgenti, una si era persa. Poi, col nuovo millennio, le cose hanno cominciato a cambiare e la vita è ripresa. Qualcuno venuto da fuori ha acquistato due case, ha rifatto i tetti e le ha rese abitabili. Silvano Carmellino, che a Oro aveva vissuto la sua giovinezza con i nonni e ora abitava a Scopa, ritornava il sabato e domenica, con la mamma, la moglie Delia, Ivan e Marina che non avevano ancora sette anni. Con gli anni, an-

“SEMBRA, A SENTIRE SILVANO, CHE IL SAPORE DI QUEL PANE SIA INDIMENTICABILE”. che le altre case sono state acquistate e ripristinate. Sono stati piantati alberi da frutto, rimessi in funzione gli orti, sistemate le grandi pietre del sentiero che attraversa la frazione. Verso il 2013, terminati i lavori di ripristino della casa dei nonni e della stalla per i cavalli, piantati i nuovi meli e molte altre piante, Silvano ha cominciato a pensare al forno della frazione. Secondo il rilievo del 1986 riportato nel bel libro di Sergio e Roberto Bellosta, Valle Vogna. Censimento delle case di legno, il forno di Oro, edificio n.12, era una costruzione in muratura a un piano di metri 6 x 3, col tetto

in piode a uno spiovente. Internamente, un unico locale adibito a forno per la cottura del pane. Sul-la cappa in pietra, la data 1634. Lo stato di conservazione era già cattivo, il tetto pericolante e puntellato. All’epoca del grande incendio di Oro, circa il 1909, il forno cuoceva il pane per circa quaranta persone. Erano queste allora le dimensioni della frazione. Quanto spesso lo si accendeva? Raramente, nei ricordi di Silvano: non più di una volta al mese e forse molto meno. Dalla documentazione sul forno di Ronco, sopra Alagna, sembra che lì la panificazione avvenisse solo due volte l’anno, in primavera e in autunno. Si cuoceva solo il pane e qualche torta. Di farina ce n’era poca e per quanto a noi possa apparire strano, anche la legna non era abbondante. Il forno lo mettevano in funzione le donne più anziane. Il pane era nero — noi diremmo integrale che più integrale non si può — e di molti semi. Il pane bianco non si conservava a lungo e il problema della conservazione era serio. Sembra, a sentire Silvano, che il sapore di quel pane sia indimenticabile. Dopo i primi giorni, lo si doveva ammorbidire nell’acqua o nella minestra. Non c’erano i sandwich. La carne — a parte il maiale che c’era in ogni famiglia e si ammazzava in autunno — era soprattutto quella della selvaggina. Ma Silvano ricorda che il nonno, gran cacciatore, non tutti gli anni riusciva a prendere il camoscio che inseguiva per giorni e giorni.


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Nel 2013 Silvano ha dunque deciso di rimettere in funzione il forno. Il tetto e la volta erano in parte crollati. La bella porta in ferro, con maniglie di ferro battuto, era sparita molti anni prima. Mancava-no gli utensili — le pale per infornare, la rastrelliera da appendere al soffitto per conservare le forme di pane al sicuro dai topi, i cassoni per gli impasti e le assi d’appoggio per i pani cotti. Per rifa-re il tetto, la porta, la volta e la pavimentazione del forno in mattoni refrattari, aggiustare i muri e riacquistare gli utensili, serviva una bella somma. E’ doveroso registrare qui, soprattutto perché questi atti di liberalità non sono frequenti, che Silvano l’ha pagata di tasca propria. (Forse gli abitanti di Oro dovrebbero ricordare il gesto con una targa sul forno!) I lavori sono stati eseguiti dallo stesso Silvano. La tecnica che ha seguito per ricostruire la volta del forno è quella tradizionale: si accumula una quantità di terra pressata con la forma della camera di combustione e si dispongono le pietre in una calotta sferica appoggiandole sulla terra. Poi dalla porta del forno si toglie la terra. La porta l’ha costruita lui stesso con una bella pietra in granito e ferri battuti. Ora tutto è quasi esattamente com’era. Le belle travi del tetto potrebbero sostenere una valanga. Sopra il forno si tiene la legna. Davanti, nello spazio libero, stanno la rastrelliera per il pane, le pale per infornare, il tavolo per impastare e, sopra, due enormi teglie in acciaio. Il forno funziona come una volta. Ci vogliono due o tre ore per arrivare alla temperatura giusta che si giudica dal colore delle pietre. Il tiraggio si regola aprendo e chiudendo la porta. Quando il fuoco è spento si raccoglie la cenere che cade, togliendo una pietra all’imboccatura, in una vecchia pentola in terra. L’uso del forno tuttavia è molto diverso da una volta. Invece del pane e delle torte, si cucinano arrosti, costine e pizze. Accenderlo, è una festa per tutta la frazione. Non di rado ci sono ospiti - specialmente quando Ivan e Marina vincono qualche rally. Intorno, molte cose sono cambiate. So-no diversi quasi tutti gli abitanti, diverse le case che hanno l’acqua corrente, i servizi e l’elettricità. Diverso è anche il paesaggio: i campi che scendono da Oro a Ca’J anzo ed erano coltivati a patate, a segale, a pascolo, sono stati invasi da frassini e ciliegi. I quattro cavalli avellinesi che Silvano porta su da maggio a ottobre tengono rasata l’erba solo attorno alle case. Ma una cosa è come prima: a guardare incantati il gran fuoco del forno (ma da lontano!) ci sono di nuovo i bambini.

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Si ritorna a coltivare la canapa Di Paola Gilardone e Guido Rossi

L

a canapa, pianta annuale della varietà “Cannabis sativa”, veniva seminata alla vigilia di una grande festa, generalmente nel mese di giugno, perché la tradizione voleva che il raccolto fosse più abbondante. La semina veniva fatta a spaglio gettando in alto i semi, il gesto voleva essere di buon auspicio per una canapa con uno stelo e una fibra più lunga1. In generale per germogliare la canapa necessita di quaranta giorni. Nel mese di agosto, dopo il quindici, veniva estirpata il maschio, pianta che ingiallisce prima ed ha una infiorescenza assai modesta a forma di spiga. Pare che la fibra prodotta dalla pianta maschio fosse più morbida, e nello stesso tempo più resistente. Veniva impegnata in modo particolare per trapuntare le suole delle pantofole. Nel mese di settembre/ottobre veniva estirpato anche la femmina, che si presentava con infiorescenze più tozze di colore celeste molto tenue. Gli steli della pianta femmina, e quelli della pianta maschio, separatamente in tempi diversi (agosto maschio e fine settembre femmina), venivano riuniti in piccoli fasci e messi a essiccare lungo una parete soleggiata. Una volta essiccati, dalla pianta femmina venivano estratti i semi che venivano raccolti in contenitori di legno, per essere poi impiegati nella nuova semina. SOTTO: Canapa pettinata di diverso spessore. In primo piano: matassa appena stigliata e pettinata; in secondo piano, a destra: corda per scapini (tràa, in dialetto valsesiano); in secondo piano, a sinistra e sullo sfondo: tre tipi di canapa più fine, per tessitura.

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Nel mese di novembre i fasci venivano messi a macerare in uno stagno, durante la macerazione avviene un processo di disintegrazione della parte collante che tiene unita la fibra allo stelo. Dopo ventun giorni i fasci venivano tolti, e si arrivava verso la fine di novembre, periodo in cui iniziano le prime gelate che, “si dice”, favoriscono questo processo di separazione. Le fascine erano adagiate sul fondo dello stagno, trattenute con pietre affinché rimanessero completamente immerse in modo da favorire meglio la macerazione. Questo lavoro richiedeva un impegno non indifferente, in special modo nell’estrarre i fasci dall’acqua, quando il freddo la rendeva gelida. I fasci di steli ormai macerati, allo scadere del ventunesimo giorno, venivano asportati e messi ad asciugare sotto il tiepido sole invernale, e quindi ritirati in un angolo della stalla. Un po’ per volta venivano messi ad asciugare vicino alla stufa di pietra ollare, nel vano ubicato accanto alla stalla dove si riunivano i famigliari nelle lunghe serate invernali. Quando i fasci erano asciutti aveva inizio la stigliatura, operazione che consisteva nel separare la fibra dallo stelo2. Massima cura si adoperava affinché gli steli fossero mantenuti più lunghi possibili. Gli steli cosi privi della fibra venivano ritirati nel granaio e adibiti a vari usi, per accendere il fuoco nel focolare. La fibra della canapa veniva adoperata per diversi usi. Per l’estrazione della fibra più fine, la canapa veniva adagiata su una pietra a base circolare, sopra la quale ruotava

un cilindro in pietra comandato da un congegno idraulico, questo per ridurre la fibra in morbidi filamenti. Terminata questa operazione, i fasci di fibra stigliata venivano raccolti e passati nel pettine da canapa3, per rendere cosi le fibre parallele e pronte per essere trasformate in filato. Il filato veniva impiegato per vari usi: puncetto, fare pezze di tela quindi lenzuola, camicie, berretti da notte e fasce per bambini. Con il filato meno fine si confezionavano: sacchi da montagna, sacchi per cereali. Per tessere la tela in ogni abitazione esisteva un telaio, sistemato in un angolo della stalla4, dove, dopo il quotidiano lavoro, le donne si apprestavano a tessere il necessario per la famiglia. La parte meno pregiata della fibra veniva impiegata per fare cordicelle per trapuntare le suole delle pantofole. Paola Gilardone, residente a Riva, è una delle poche persone che ha ripreso da alcuni anni


ALCUNI TERMINI DIALETTALI TITZSCHU, RELATIVI ALLA CANAPA E ALLA SUA LAVORAZIONE. Ago: quarill Canapa cardata, pettinata: rista Canapa stigliata: g’spints Filarello: spinnrod Filo per cucire, gugliata: fodu Pettine: hachia Punteruolo, lesina: alesa Rocchetto: spiljatji Scapini: socka Stigliare: hampf

SOPRA A SINISTRA: In primo piano: scapini valsesiani di colore rosso, a punta rotonda, da donna, usati per il costume da festa; in secondo piano: scapini valsesiani neri, a punta rotonda, da uomo; sullo sfondo, a sinistra: due tomaie alagnesi (sono i due pezzi, anteriore e posteriore, che verranno poi tra loro uniti), con punta quadra, per scapini da donna; sullo sfondo, a destra: due suole. IN ALTO: Filato di canapa, avvolto su un rocchetto (spiljatji) di un filarello (spinnrod). SOPRA: Puntuerolo o lesina (alesa); Ago (quarill); Filo per cucire o gugliata (fodu).

la coltivazione della canapa, che poi lavora per ottenere la fibra per corde da scapini. Paola, infatti, realizza scapini che si rifanno ai modelli che si producevano un tempo, possedendo ancora le vecchie sagome (in dialetto valsesiano: medru) usate dalla nonna; in proposito ci ricorda che i veri scapini sono cuciti all’interno e che quelli di Alagna si caratterizzano dell’avere la punta quadrata. Paola ha inoltre fatto i primi tentativi per ottenere del filato dalla canapa.

NOTE A MARGINE La canapa si semina il giorno prima di Pentecoste. La semina è come un lavoro sacro. Quando le donne anziane seminano la canapa, gettano i semi in alto nell’aria e gridano: ”Così alta, così lunga!” Loro credono che la canapa diventi alta come le hanno mostrato. Mentre seminano recitano il Credo. Dicono: ”Io semino e che il buon Dio benedica (il mio lavoro)!” Una volta terminata la semina, si fa una croce con la mano in un angolo del campo. (Emil Balmer, I Walser in Piemonte, Die Walser im Piemont, Edizioni Zeisciu Centro Studi, Alagna Valsesia, 2013, nota 178 di pag.72) 1

La stigliatura veniva fatta alla sera, durante la veglia, dagli uomini.

2

Nel dialetto valsesiano, lo scartàcc, strumento per cardare costituito da un asse con chiodi di diversa misura: fine, grossa e media.

3

L’umidità della stalla favoriva la buona riuscita della tessitura

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Una comunità walser al tempo del coronavirus SOPRA: Vista sulla parete sud del Monte Rosa dall'Alpe Pile di Alagna Valsesia. A DESTRA: Scorcio di Riva Valdobbia. SOTTO: le caldaie del fiume Sesia lungo il sentiero che dalle Cascate dell'Acqua Bianca conduce all'Alpe Pile e al Rifugio Pastore di Alagna Valsesia.

Roberto

Veggi

Sindaco di Alagna Valsesia e Riva Valdobbia

Q

uando guardo fuori dalla finestra di casa o mentre mi trasferisco in Comune in macchina, con la mia mascherina pronta ad essere indossata, e vedo le nostre strade ed i nostri sentieri deserti, mi trovo a riflettere su quanto la nostra società consumistica sia fragile. Una struttura economica basata sul massimo profitto che ci impone di correre e non fermarci mai, e che forse ci ha impedito di godere ed apprezzare veramente ciò che ci circonda. Ma quanto siamo fortunati a vivere qui, mi viene da dire, se pensiamo a tutti coloro che abitano in città? Ma quanta gioia ci dà il guardare fuori dalla finestra e vedere le cime innevate, i ciliegi selvatici in fiore, i prati verdi, l’acqua dei torrenti che scende schiumando verso valle anziché una distesa di

asfalto e cemento? E quanta serenità ci offre il sapere che, quassù nel nostro isolamento geografico, il virus fa più fatica ad arrivare e a diffondersi? Rifletto e penso che forse dobbiamo ripartire proprio da questo: dal nostro territorio e dalla natura che ci circonda! Spesso li abbiamo dati per scontati e, come tutte le cose date per certe, non li abbiamo apprezzati e valorizzati a dovere. E questo è il momento per farlo. Territorio, natura e storia devono essere il vero motore della nostra ripartenza. In un futuro dove il distanziamento sociale sarà la nuova normalità, le passeggiate alla scoperta delle meravigliose ed uniche architetture walser, le escursioni sui sentieri della Val Vogna o nei pascoli al cospetto del nostro Monte Rosa e le attività sportive ed alpinistiche rappresenteranno una ricchezza inestimabile ed il vero valore della nostra economia turistica. La nostra nuova sfida sarà quella di riuscire a far apprezzare la serenità che ci viene re-


FOTO DI CARLO POZZONI / NORDCAP STUDIO

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SOPRA: Panorama aereo di Alagna Valsesia. A SINISTRA: Affresco della parrocchiale di San Michele a Riva Valdobbia. L'affresco occupa l'intera facciata della chiesa con una suggestiva scena del Giudizio Universale di gusto nordico e - posta alla base del vecchio campanile – la figura di un San Cristoforo di dimensioni gigantesche, come era abitudine raffigurare nel Medioevo. SOTTO: case Walser nella frazione Pedemonte (Z'Kantmud in walser) di Alagna Valsesia. Nella foto a sinistra Il Museo Walser, allestito in un'antica casa costruita nel 1628.

galata dalle nostre montagne a tutti coloro che decideranno di raggiungere la nostra comunità, dovremo essere capaci di mettere a disposizione un’offerta turistica sostenibile e salutare ma al contempo intima e profonda, nel segno del rispetto della natura e della convivenza con l’ambiente circostante. I Walser sono stati maestri in questo. Hanno saputo modellare le montagne per garantirsi il sostentamento necessario alla sopravvivenza ed allo sviluppo della loro comunità, ma al contempo hanno avuto grande rispetto del territorio ed hanno imparato a custodire la natura senza depauperarla dalle risorse che rendeva loro disponibili. Essere una comunità walser oggi significa recuperare quel legame con il territorio per favorire lo sviluppo di un turismo sostenibile, capace di far crescere la nostra comunità attraverso la valorizzazione della nostra storia, unica. Dobbiamo ripartire dai nostri giovani, rafforzando in loro il senso di appartenenza a questa comunità ed alla sua origine, dobbiamo farli guardare al futuro con la consapevolezza che saranno il paesaggio ed il territorio a garantire la possibilità di vivere e lavorare qui per tutta la vita. Ma dovranno prendersene cura perché, come si sente dire spesso durante questa emergenza, solo in un Mondo sano può esserci benessere per l’uomo.

Essere una comunità walser ai piedi della “Montagna dei Walser”, ai tempi del coronavirus, significa sapere che nel nostro passato possiamo trovare tutti gli strumenti necessari per guardare con ottimismo al futuro.

Quissi. Ugait et dolor inisl ea core doluptate ex erit dui blan henim venit ullaorp eriusci liquipisim diatie molobore. Quissi. Ugait et dolor inisl ea core doluptate ex erit dui blan henim venit ullaorp erius. Nos aciet ut volessunt. Inum, ea cor sum est, occullu ptatus.

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VOGNA

La nostra storia, la nostra cultura Benvenuti cari amici, i contributi di storia e di cultura locale riguardano quest’anno i seguenti temi, che andiamo a presentare. Uomini e donne della Valle Vogna, 1811. Le stimolanti considerazioni sulla Valle Vogna, che emergono dall’esame del censimento globale della popolazione, svolto dal Dipartimento della Sesia in epoca napoleonica. Leonardo da Vinci, il Monte Rosa e la Fiera di Riva: una suggestiva ipotesi - E’ possibile che la ”sperienza di Momboso” sia maturata durante un viaggio di Leonardo alla fiera di Riva? La comunità walser di Rimella e il suo museo etnografico. Il museo visto come “un luogo che documenti il lavoro e la fatica dell’uomo - e della donna - per vivere e sopravvivere in un territorio decisamente poco generoso”. I forni da pane - Le antiche tecniche per la costruzione dei forni, la ritualità con cui coralmente nei villaggi di montagna gli abitanti partecipavano alla preparazione del pane, indicano l’importanza e la sacralità di questo alimento che rappresentava la vita stessa. La lavorazione della canapa. Le complicate fasi della lavorazione e le principali utilizzazioni della “cànva”, una risorsa importante nell'economia valsesiana di un tempo. “Vocaboli del dialetto che si parla in Riva”. Terza e attesa puntata dedicata al saggio dell’Abate Antonio Carestia: lettere G - I. Vi auguriamo una piacevole lettura!

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Uomini e donne di Vogna (1811)

P

oco più di duecento anni fa, all’apice del periodo francese, mentre l’Impero napoleonico poneva le basi per uno stabile e duraturo governo statale, l’interesse delle autorità dipartimentali per le dinamiche demografiche, anche nelle più marginali aree alpine, era decisamente crescente. Parallelamente all’indagine linguistica1 sulle comunità germanofone stanziate sul versante meridionale del Monte Rosa, avviata dal Dipartimento di statistica del Ministero dell’Interno nel 1806 e poi protrattasi fino al 1812, e sospinto dall’esigenza di un’organica ridefinizione territoriale, anche su basi demografiche, il Dipartimento della Sesia2, a cui appartenevano le comunità di Riva e Vogna in quanto collocate sulla sponda destra della Sesia, predispose una serie di rilevazioni finalizzate al censimento globale della popolazione che, per la prima volta con metodi scientifici, stabilisse con certezza la consistenza degli abitanti, la loro dislocazione sul territorio, le loro attività e infine la loro propensione all’emigrazione. Si trattava di un’operazione complessa e resa difficile sia dalla natura del territorio, sia dalla carenza di dati demografici precedenti, rilevati con criteri moderni; ma al tempo stesso estremamente necessaria, vista la diversa configurazione dello spazio in entità comunali rinnovate e non convenzionali rispetto alla storia dei quattro secoli precedenti. Dopo il decreto dei Consoli dell’11 settembre 1802, l’assetto delle municipalità collocate nelle terre più alte della Val Grande di Sesia era infatti decisamente mutato, essendo il fiume diventato confine di stato e linea di demarcazione tra i due dipartimenti dell’Agogna e della Sesia, pertinenti a due entità statali diverse3. Con l’eliminazione dell’antichissima separazione parrocchiale che risaliva al 1475 e al 1509 (per la parte di Otro e di Pé d’Otro), il ministero dell’Interno dell’Impero Francese aveva creato le due Mairie di Riva e di Pietre Gemelle, aggregando invece tra loro villaggi posti sulla stessa sponda fluviale e in linea

Di Massimo Bonola

Cartolina d'epoca di un abito tradizionale della Val Vogna.

verticale, già appartenuti alle due parrocchie e municipalità di Riva e Alagna. La parte di nostro interesse in questa sede, la Mairie di Riva, comprendeva quindi 14 villaggi della già parrocchia di Alagna4 e 19 di quella rivese, di cui ben 15 in valle Vogna, per un ammontare complessivo di 1123 anime alla data del 26 ottobre 1811. Con quella decisione, causa di molteplici polemiche e delle dimissioni del sindaco stesso

NOTE A MARGINE Per i dettagli di questa inchiesta mi permetto di rinviare a un mio precedente scritto: Un confine invisibile. L’inchiesta napoleonica sulle comunità walser in alta Valsesia (1806-1812), in “de valle sicida”, XVI, 2005, pp.93-128. 2 L’Archivio del Dipartimento della Sesia, da cui sono stati tratti i documenti qui utilizzati, è conservato presso l’Archivio di Stato di Vercelli, Préfecture du département de la Sesia, bb. 641 (1801-1814) con doc. dal 1766). Ringrazio la dott.sa Sabrina Contini per avermi segnalato questa documentazione. Una completa ricognizione statistica coeva al periodo qui considerato è reperibile nell’opuscolo Notice statistique sur le département de la Sesia, redigée par Mr. Liégeard secreraire-general de 1

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di Alagna, il medico Pietro Giordani, era così tramontato il sogno illuminato di costituire un unico dipartimento del Monte Rosa, proposto dal notaio rivese Giacomo Antonio Gabbio5, uomo di spicco del movimento giacobino valsesiano, che avrebbe voluto costituire un territorio amministrativo economicamente e geo-politicamente omogeneo, in grado di governare efficacemente gran parte delle popolazioni del versante meridionale del Monte

la Prefecture, s.l, s.d. (ma 1809). 3 La complessa vicenda che portò allo smembramento del territorio valsesiano con il riconoscimento della Sesia come confine di stato è stato ricostruito in alcune parti del mio volume Valsesia giacobina e liberale (1799-1804). Lions Club Valsesia, Borgosesia 2005, in particolare il capitolo quarto. Ad esso rimando per gli approfondimenti necessari e per una più ampia documentazione bibliografica. 4 Essi erano: Jacomolo, Resiga, Reale, Pedelegno, Porazzo, Stiz, Bonda, Decco, Dosso, Piane, Rusa, Goreto, Montella Merletti, tutti collocati sulla sponda destra della Sesia. 5 Si veda in proposito il suo opuscolo illustrativo del progetto: GABBIO, G. A., Il Dipartimento del Monte Rosa, Fratelli Galletti, Varallo, s.d.


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Rosa. Anche le ripetute e documentate proteste dell’agente municipale di Riva, Pietro Giacomo Gianoli, non ebbero alcun effetto. Dai documenti censitari riferiti alla configurazione delle due entità comunali possiamo quindi estrapolare facilmente i dati riferiti alla popolazione della valle Vogna, che, per quanto ci risulta, non era mai stata così definita come in questa rilevazione, tranne che negli Stati d’Anime della parrocchia di S. Michele, destinati tuttavia a tutt’altra funzione di controllo spirituale. Grande deve essere stato lo stupore dei funzionari per l’estrema dispersione di questi nuclei di popolazione, con una media di 33 persone per cantone, media che si rivelerebbe tuttavia più bassa se si considerassero i soli villaggi di Vogna; ma più ancora nel constatare quali risorse potessero assicurare la sussistenza di queste piccole comunità stanziate lungo una frontiera climatica e ambientale di difficile sostenibilità. Nel suo complesso la Valle Nera infatti risultava ancora in quella fase storica discretamente popolata, e i villaggi situati a monte del ponte Gallo erano ben 15, oltre a 33 alpeggi che vengono dichiarati abitabili nei tre mesi della stagione estiva, con una dislocazione VILLAGGIO

POPOLAZIONE

stagionale di circa 170 valligiani. Mentre la popolazione residente nel capoluogo di Riva risaliva a 170 individui, suddivisi in 49 abitazioni, e il totale comunale rimontava a 1123, ivi compresi i 14 cantoni di Alagna, gli abitanti di Vogna erano 224, suddivisi come indicato in Tabella 1. Gli abitanti della Valle Nera erano quindi circa un terzo in più di quelli residenti nel capoluogo, che neppure con l’addizione delle famiglie residenti a Buzzo e Isolello raggiungeva quella entità. Dobbiamo presumere inoltre che una parte considerevole della popolazione di quella valle

Cartolina d'epoca, Vogna di Riva Valdobbia e il Monte Rosa.

NUM. DELLE ABITAZIONI

SPECIE

Vogna Sotto

17

8

tori

Selveglio

31

13

buoi

Casa Janzo

18

10

6

4

11

8

Sul Sasso

3

6

Casa Morca

7

5

11

8

8

5

S. Antonio

16

7

Rabernardo

32

Cambiaveto

Ca Piacentino All'Oro

Casa Gaja Casa Vescovo

vacche

NUMERO

OSSERVAZIONI

11 702

manzi

6

manze

90

cavalli interi

-

cavalli castrati

-

cavalle

-

12

asine

-

6

3

muli

-

Piane

26

9

mule

7

Peccia

25

11

capre

412

7

8

Totale residenti/ abitazioni

224

117

caproni

65

montoni di razza

62

pecore di lana fina pecore di lana

Tab. 1 Stato della popolazione di Vogna diviso per villaggi e computo delle case abitate.

NOTE A MARGINE Cfr. KELLER, H.E., Ennetbirgische Walsertexte aus del Beginn des 19 Jahrhunderts, cit. in BONOLA, M., Un confine invisibile, op. cit. p. 102. Il saggio in questione contiene anche riferimenti ad ulteriore bibliografia a cui rimandiamo.

ordinaria

I due terzi almeno delle bovine e Minute vanno a svernare nella Repubblica Italiana verso Borgosesia.

1

asini

Montata

6

parlasse un idioma germanico, come rilevato dall’inchiesta linguistica del 1806 cui prima accennavamo, e che quindi i germanofoni costituissero una parte non trascurabile della nuova Mairie di Riva. Il barone Carlo Giulio, prefetto del dipartimento della Sesia, scriveva infatti nel settembre 1812: “ Cette commune [Alagna] ainsi que celle de Riva a un language particulier qui parait etre un mélange de la langue allemande tres-corrompue et de quelques mots de l’ancien gaulois”6. Dai dati della Tab.1 inoltre si rileva che le località poste ad altezze più elevate e quindi soleggiate, ma anche con maggiore disponibilità di pascoli e coltivi, come Rabernardo, Piane e Peccia, erano le più popolose, mentre quelle di fondovalle, che conservano oggi un numero maggiore di presenze, erano le meno abitate. A proposito invece delle risorse che rendevano possibile la vita di una popolazione stanziale ancora abbastanza numerosa, sarebbe interessante conoscere i dati di consegna delle granaglie ovvero dei cereali prodotti all’interno della valle; ma in assenza di questa documentazione, al momento non disponibile, possiamo almeno guardare al patrimonio zootecnico, rilevato con diligente solerzia, all’inizio del periodo francese, tra il 1802 e il 1803, e riferito all’intero territorio comunale (tab. 2).

-

521

porci

29

oche

2

n. 2000 circa di pecore di proprietà dei pastori biellesi alpano su questi monti dalla metà di giugno a metà di settembre

Tab. 2. Stato del bestiame esistente nei comuni di Riva e Alagna, Mairie di Riva (s.d. ma 1802).

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Cartolina d'epoca, Lago del Maccagno, Val Vogna.

Rilevante ci appare, in questo censimento, la segnalazione di un ingente gregge di pecore che pur monticando stagionalmente i pascoli locali risulta di proprietà di “pastori biellesi”, mentre il dato riferito alle bovine, riguardando l’intera municipalità di Riva, non è scomponibile e non permette quindi di localizzare meglio la disposizione delle mandrie sul vasto territorio. Difficile risulta infine disporre di elementi comparativi di tipo diacronico per verificare l’andamento di crescita o decrescita di questa popolazione alpina, anche se in tempi molto vicini. Un dato comparabile a quelli forniti sopra risulta dal riepilogo del Censimento generale della popolazione al 1^ gennaio 1806, nel quale la popolazione della municipalità di Riva-Alagna, sulla sponda destra ammonta a 1225 persone, oltre cento in più di quello che abbiamo sopra riportato. In questo caso tuttavia non è possibile stabilire quanti di essi fossero residenti di Vogna, anche se si può supporre che nell’arco di cinque soli anni il numero sopra esposto di 224 non poteva cambiare significativamente. Una nota della prefettura riferita invece al 31 marzo 1810 sullo stato della popolazione di

tutte le cinque municipalità collocate sulla sponda italiana della Sesia ( Riva, Campertognetto, Scopello nuovo, Crevola e Parone) attribuisce al comune di Riva 1123 abitanti, la stessa cifra del censimento effettuato l’anno successivo. Ulteriori indagini demografiche potranno essere svolte sul periodo della Restaurazione, quando la pratica dei censimenti diventerà via via più consueta nella moderna ammini-

strazione dello Stato ed i censimenti stessi si svolgeranno con criteri più scientifici, fornendo ragguagli più dettagliati e precisi sulle dinamiche di popolazione. In particolare potrebbe essere interessante osservare se, come nel caso di Rimella , il periodo in oggetto abbia rappresentato l’apice dell’incremento demografico della valle rivese, prima di iniziare una parabola discensiva di cui conosciamo fin troppo bene gli esiti.

Cartolina d'epoca, frazione Sant'Antonio in Valle Vogna.

NOTE A MARGINE 7 Una tabella comparativa della popolazione di Rimella nel periodo francese, con dati dal 1801 al 1830 circa è riportata nel già citato saggio Un confine invisibile, p. 111 (cfr. la nota 1)

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Leonardo sul Monte Rosa Di Roberto Fantoni

Fig. 1. Leonardo da Vinci

I

l Monte Rosa è visibile da tutta la pianura lombarda e piemontese con una prospettiva che fa emergere nettamente la mole del massiccio da tutto il crinale alpino. La montagna non poteva certamente passare inosservata alla curiosità di Leonardo da Vinci (fig. 1), che soggiornò a Milano per tre lunghi periodi: dal 1482 alla fine del 1499, dalla metà del 1506 alla primavera del 1507, dal settembre 1508 al 1513.

Fig. 2. Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnello (Museo del Louvre di Parigi).

Durante il suo soggiorno milanese Leonardo disegnò anche alcune montagne visibili dalla città. I disegni a sanguigna della cosiddetta ‘Serie Rossa’ ritraggono diversi pa-

esaggi di montagna (fig. 3). Recalcati (2013, p. 67) ha recentemente dimostrato come tutti i disegni della ‘Serie Rossa’ eseguiti attorno al 1511 (12410, 12411-13, 12414 di Windsor)1 siano precise raffigurazioni delle Prealpi lecchesi viste da Milano (12410) e dalle rive dell’Adda alcuni km a nord della villa Melzi a Vaprio (12414); tutti i disegni sarebbero stati eseguiti nell’arco di un’intera giornata, come mostra la differente luce utilizzata per illuminate i versanti delle montagne. In passato i disegni furono erroneamente attribuiti al Monte Rosa. Clark (1968, vol. 1, p. 62) riteneva che i disegni fossero stati eseguiti durante la spedizione al Monte Rosa. L’Autore riteneva che i disegni fossero stati fatti proprio “durante la spedizione di Leonardo sulle montagne che dividono la Francia dall’Italia, e al Monte Rosa che egli chiama Monboso”. L’ipotesi fu accettata da Ricci (1977, p. 21); Fini (1979) attribuì il disegno 12410 al Monte Rosa e, sulla sua autorevole scorta, l’ipotesi è entrata acriticamente in letteratura. In un saggio su Leonardo alpinista e il Monte Rosa, i disegni sono stati attribuiti al Monte Rosa da Zanzi

LE MONTAGNE DI LEONARDO Leonar-

do come sfondo di molti soggetti dipinse spesso delle montagne se non reali almeno realistiche. Uno dei migliori esempi è costituito da Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnello (1510-1513 circa; Museo del Louvre di Parigi; fig. 2). L’attenzione di Leonardo per le montagne è attestata anche da disegni e manoscritti. Nei manoscritti leonardeschi vi sono numerose osservazioni sul modo di raffigurare le montagne nell’arte (Uzielli, 1890, pp. 57-61) e sulle montagne come fenomeno naturale (Ricci, 1977, pp. 45-55; Recalcati, 2013, p. 50).

Fig.3. Le prealpi Lecchesi e Bergamasche osservate dalla riva occidentale dell'Adda, a 2 Km a monte di Trezzo, Da destra si riconoscono l'Albenza, il Monte Tesoro, il Resegone, il Grignone con il suo liscio versante SE e l'accidentata Grignetta con il dentellato profilo della cresta Segantini (Recalcati, 1997) (Leonardo da Vinci, 1511, disegno a sanguigna, 15.9 x 24 cm, “Seria Rossa”, Collezioni Reali di Windsor, RL 12414).

NOTE A MARGINE I tre disegni della Seria Rossa sono nelle Collezioni Reali di Windsor e sono catalogati come RL12410 (10,5 x 16), RL 12414 (15.9 x 24) e RL 12411-12413 (5.4 x 18.2, 7.2 x 14.7) (Recalcati, 1997, con bibliografia in nota 12).

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WOHNEN- WOONA - VOGNA (1994, pp. 301-302, 308-310, 317; 2010, p. 32). Nell’errore è incappato anche lo scrivente (Fantoni, 2002).

LA “SPERIENZA DI MONBOSO” Leonardo quindi non ha disegnato il Monte Rosa, da lui chiamato Monboso, ma vi è salito e ha annotato la sua “sperienza” nei suoi manoscritti. La scoperta del riferimento leonardesco ha suscitato una grande attenzione da parte della stampa specializzata a partire dalla fine dell’Ottocento. Il toponimo utilizzato da Leonardo, Monboso, era divenuto ormai desueto e gli Autori hanno associato il nome a diverse montagne della Alpi. La discussione entrò prima nella letteratura di montagna inglese e poi in quella italiana dopo la pubblicazione del codice Leicester in lingua originale e nella traduzione inglese eseguita da Richter (1883, vol. I, p. 161, 163; vol. 2, p. 246), che associava il toponimo al Monte Rosa. Freshfield (1884, p. 336) riteneva invece che si trattasse del Monviso. Coolidge (1889, p. 162) diceva invece di essere incline a credere che il picco in questione fosse il Monbego, nelle Alpi Marittime, di cui sottolinea l’ubicazione sul confine tra Francia e Italia (p. 163). Uzielli (1890, p. 26) ribadiva che il Monboso di Leonardo “era certamente il Monte Rosa”; l’Autore, riguardo ai diversi toponimi con cui era chiamata la montagna, riteneva che il nome Monboso gli fosse dato in Valsesia, ove l’uso perdurava , il nome Monte Rosa fosse aostano, ove ancora era in uso, il nome Monte Silvio fosse una traduzione letteraria cinquecentesca del nome Monboso. Freshfield, dopo la pubblicazione del lavoro di Uzielli, ritenne valida l’ipotesi sostenuta dall’autore italiano (Freshfield, 1892; citato in Hyde, 1917, p. 108, nota 10), mentre Coolidge (1904) e Joutard (1904, citati in Recalcati, 1997, nota 6) ritennero che il Monboso fosse da identificare nel Monte Bo. L’attribuzione dell’esperienza del Monboso al Monte Rosa è avvallata da Almagià (1953, pp. 460-461, citato in Ricci,

1977, p. 63) ed è stata quasi unanimemente accettata nella letteratura successiva. Il confronto con le fonti documentarie e cartografiche non lascia nessun dubbio sull’identificazione del Monboso di Leonardo con il Monte Rosa. Il Monboso viene citato da Leonardo Da Vinci nel Codice Leicester, costituito da 18 bifogli, nella sezione intitolata Del colore dell’aria. Nel manoscritto, redatto attorno al 1508, Leonardo raccolse appunti sulla terra, sulle acqua e sulle montagne relativi ad osservazioni compiute negli anni precedenti (Vecce, 2005, p. 102). In una di queste osservazioni viene citato e descritto il Momboso3: “Dico l’azzurro in che si mostra l’aria non esser suo proprio colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in minutissimi e insensibili attimi, la quale piglia dopo se la percussion de’ razzi solari e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre della regione del fuoco, che di sopra le fa coperchio, e questo vedrà come vid’io, chi andrà sopra monboso giogo dell’alpi che dividono la francia dall’italia la qual montagnia ha la sua basa che parturisce li 4 fiumi che rigan per 4 aspetti contrari tutta l’Europa4, e nessuna montagnia ha sue base in simile altezza; questa si leva in tanta altura che quasi passa tutti li nuvoli e rare volte vi cade neve, ma sol grandine d’istate quando li nuvoli sono nella maggiore altezza, e questa grandine vi si conserva in modo, che se non fusse la raretà del cadervi e del montarvi nuvoli che non accade 2 volte in una età, e vi sarebbe una altissima quantità di

Fig. 4 - “Del colore dell’aria” (Leonardo da Vinci, Codice Leicester; immagine speculare).

NOTE A MARGINE UZIELLI (1890, p. 34) ricordava che il nome era ancora in uso in Valsesia e segnalava (nota 2, p. 39) la citazione del nome in GALLO (1884, p. 222). L’autore accenna al Monte “che nel secolo passato chiamavano nel Vallese Gorner oppure Gletscher e nella Val Sesia Boso o Bioso” e che “i Romani chiamavano Silvio”. Anche Marinelli (1894, citato in Ricci, 1977, p. 25) scriveva che il nome era ancora diffuso in valle. Il termine Boso era ancora usato dal Ravelli (1924, p. 134; 1973, pp. 49-50) quando accenna alla processione del Rosario Fiorito. 3 Il testo relativo al Monboso è riportato nella carta 4A foglio 4r (secondo la numerazione di Pedretti, 1987; citato in Recalcati, 2013, p. 48). 4 Leonardo li indica nella carta 10A, foglio 10r, come Rodano, Reno, Danubio e Po (Recalcati, 2013, p. 49 nota 5). “Quella parte della terra s’è più alienata dal centro 2

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diaccio inalzato da li gradi della grandine, il quale di mezzo luglio vi trovai grossissimo; e vidi l’aria sopra di me tenebrosa e il sole che percotea la montagnia essere più luminoso quivi assai che nelle basse pianure, perché minor grossezza d’aria s’interponea infra la cima d’esso monte e il sole”5 (fig. 4). In un’altra pagina del codice Leonardo richiama poi “la sperienza di Monboso” (carta 1B, foglio 36r; Vecce, 2005, p. 102; Recalcati, 2013, pp. 49-50).

del mondo, la qual s’è fatta più lieve; e quella parte della terra s’è fatta più lieve, per la quale è passato maggior concorso d’acque; e si è adunque fatta più lieve quella parte d’onde scola più numero di fiumi, come l’Alpi che dividono la Magnia e la Francia dalla Italia, dalle quali esce il Rodano a mezzodì, e il Reno a tramontana, il Danubio over Danoja a greco, e’l Po a levante con inumerabili fiumi che con loro s’accompagnano, i quali sempre corrono torbidi dalla terra da loro portata al mare”. Si tratta evidentemente di un errore, ma le conoscenze geografiche delle Alpi erano ancora molto incerte, come dimostrano alcuni errori grossolani ancora presenti nella cartografia cinquecentesca. Era in ogni caso opinione diffusa (presente ancora nel Settecento) che le montagne più alte fossero quelle da cui nascevano i fiumi più lunghi (Ricci, 1977, nota 7, p. 62). 5 Il testo è citato, con piccole differenze di trascrizione, in Ricci (1977, pp. 21-22), Mauri (2012) e Recalcati (2013, p. 49).


Fig. 5 - Il Monte Rosa visto dalla piana di Riva in una giornata di settembre.

LEONARDO SUL MONTE ROSA Nel mano-

scritto raccolto nel Codice Leicester Leonardo scrisse di esser andato “sopra Monboso giogo delle Alpi”. Possiamo affermare con sicurezza che il Monboso, toponimo utilizzato ampiamente tra Quattrocento e Seicento in ambito valsesiano e lombardo, è il Monte Rosa. Leonardo è dunque salito su questa montagna. Oltre questa certezza rimangono però molti dubbi sul periodo in cui fu eseguita l’escursione/ascensione e sulla località raggiunta. Entrambe i punti sono stati oggetto di un’ampia discussione sulla letteratura specializzata. L’ipotesi di una salita nel 1511 è sostenuta dall’Uzielli (1890) ed è accettata da Coolidge (1904, p. 179). I commentatori più recenti associano l’andata di Leonardo al Monboso al 1511 perché all’incirca a quell’anno sono riferiti alcuni disegni della cosiddetta ‘Serie Rossa’ che ritraggono paesaggi di montagna (non ancora noti ai tempi dell’Uzielli) un tempo attribuiti al Monte Rosa (Recalcati, 2013, p. 60). Clark (1968, vol. 1, p. 62) riteneva che i disegni fossero stati eseguiti durante la spedizione al Monte Rosa. Ricci (1977, p. 21), accettando l’ipotesi, ritenne probabile

la correlazione tra i disegni del 1511 e l’anno di salita al Monboso6. Incrociando le informazioni disponibili sulla vita di Leonardo e sulla datazione dei suoi manoscritti, si possono ipotizzare diversi periodi per la salita al Monte Rosa. Leonardo era a Milano dal 1482 alla fine del 1499; dalla metà del 1506 alla primavera del 1507, dal settembre 1508 al 1513 (Recalcati, 2013, p. 59). Il Codice è databile tra 1504 e 1506 (Calvi, 1936) e tra 1506 e 1508 (Pedretti, 1987). Incrociando i dati troviamo che Leonardo avrebbe potuto salire in un mese di luglio compreso tra il 1482 e il 1499 o nel 1506. Recalcati (2013, pp. 59-60) escluderebbe quest’ultima ipotesi in quanto cadrebbe in un periodo di scarsa tranquillità politica, che non avrebbe favorito i viaggi all’interno dello Stato milanese. Inoltre, per le modalità di trascrizione dai taccuini, le vicende descritte sembra che abbiano preceduto di qualche tempo, se non di qualche anno, la redazione del Codice. L’Autore ritiene quindi probabile che Leonardo sia andato sul Monte Rosa nell’ultimo decennio del Quattrocento, quando era nel pieno della sua vigoria fisica. Nonostante l’indetermi-

nazione del testo leonardesco, la letteratura si è sbilanciata anche sul punto raggiunto da Leonardo. Gli Autori ritengono che sia salito sino al Col d’Olen (Freshfield, 1892); sopra lo stesso valico d’Olen “sino al bordo dei ghiacciai” (Castelfranco, 1954, p. 473); ad una vetta non lontana dal colle d’Olen (Gribble, 1899, p. 338); ad una vetta sopra il ghiacciaio di Bors (Ricci, 1977); “a passi e creste d’alta quota, attorno e forse oltre 3000 m”, “nella zone tra Monte Moro e Monte Turlo”, “forse in compagnia di qualche montanaro Walser” (Zanzi, 1994, p. 315); ad altezze tra 3000 e i 3500 m (Baratta, 1903, p. 70); ad un picco superiore ai 3000 m (Solmi, 1919, p. 184); su qualche “alta vetta del Gruppo del Monte Rosa” (Mauri, 2012); “ad una vetta molto alta” (Mazzotti, 1946, p. 75); “ad un picco superiore ai quattromila metri” (Severi, 1954, p. 70).

LEONARDO ALLA FIERA DI RIVA A queste supposizioni fantasiose possiamo aggiungere un’altra ipotesi. Il periodo dell’anno in cui è più probabile vedere sopra il Monboso l’azzurro dell’aria è il mese di settembre. Il punto della valle da cui si vede meglio il

NOTE A MARGINE L’autore (1977, p. 32) riteneva che Leonardo possa esser salito sul Monte Rosa durante il suo primo soggiorno lombardo (tra 1483 e 1499) (anche se la composizione del testo è riferibile agli anni 1504-6) o nel secondo periodo (tra 1506 e 1513), quando fu ospite del governatore francese in Milano e del patrizio Girolamo Melzi a Vaprio; nel luglio del 1511, se fosse esatta l’attribuzione dei disegni 12410 e 12414 a queste montagne.

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FOTO DI CARLO POZZONI / NORDCAP STUDIO

ANNUARIO 2019


WOHNEN- WOONA - VOGNA Monte Rosa è la piana di Riva (fig. 5). Nel mese di settembre, nei giorni prossimi alla festa di San Michele, si svolgeva a Riva un’antica fiera (Fantoni e Ferla, 2019, con bibliografia), che era già riconosciuta agli uomini di Pietre Gemelle da una concessione del duca Filippo Maria Visconti del 1424. Nel documento si precisava che la fiera era antica ed era già stata riconosciuta da Giovanni Galeazzo Visconti; risulta quindi antecedente al 1402, anno della morte del duca. Il 12 luglio 1451 il duca Francesco Sforza confermava agli uomini di Pietre Gemelle il privilegio della fiera. Ma la sua origine è probabilmente molto più antica delle attestazioni in età viscontea a sforzesca. Già nel 1321 era fissato nella festa di san Michele la data per la restituzione di un prestito (Rizzi, 1983, d. 11) e altri contratti dei primi decenni del Trecento sono stipulati super ripam il 29 settembre (Mor, 1933, dd. LXXXX, LXXXIV). È quindi possibile che la ”sperienza di Momboso” sia maturata durante un viaggio di Leonardo con funzionari del Ducato di Milano alla fiera di Riva in un mese di settembre della fine del Quattrocento. Fig. 6 - Atto notarile del 1553 con la citazione del mons apellatus il Boso tra i confini delle alpi di Alagna

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WOHNEN- WOONA - VOGNA

MONBOSO IL NOME DEL MONTE ROSA DI LEONARDO E DEI VALSESIANI Le creste e le cime delle montagne prima dell’arrivo di topografi e alpinisti non avevano nome. Facevano eccezione a questa regola le montagne che costituivano un punto di riferimento locale o regionale. Il Monte Rosa, visibile da tutto il settore centro-occidentale della Pianura Padana, era una di queste eccezioni.

IL NOME DELLA MONTAGNA NEI DOCUMENTI MEDIEVALI La documentazione relativa agli alpeggi ubicati alla base del versante meridionale del Monte Rosa è molto ricca. Questa documentazione è stata sinora utilizzata quasi esclusivamente nell’ambito degli studi sulle dinamiche del popolamento alpino da parte di coloni alemanni e non è mai stata utilizzata per uno studio sistematico della toponomastica alpina. L’analisi dei documenti editi, dei testi inediti dei documenti pubblicati sinora solo in regesto e dei documenti totalmente inediti offre la sorprendente citazione dei numerosi nomi del monte, utilizzati nelle valli del versante meridionale del massiccio in età medievale (Fantoni, 2016). Nel più antico documento riguardante la regione del Monte Rosa, la permuta di beni tra la chiesa di S. Pietro di Brebbia e l’abbazia di S. Salvatore di Arona del 999, la regione confinante con le alpi della valle Anzasca viene semplicemente indicata come in glacia (Bianchetti, 1878). In un documento del 1423 tra i confini delle alpi Pedriola e Rosareccia (Macugnaga) compare il culminis Giaziarii (Rizzi, 2006). Tra i confini di queste alpi in un documento del 1451 compaiono nuovamente i ghiacciai; in un altro documento del 1457, tra i confini delle alpi di Macugnaga, compare ancora una cima glazarii (Bertamini, 2005). In una lettera del 1556 il cardinale Madruzzo scriveva ancora che l’Anza nasce da una montagna di giazzo (Bianchetti, 1878). Nella relazione del Cesati, delegato del Magistrato delle regie entrate del governo di Milano del 26 dicembre 1651, veniva citata ancora la montagna del Giacciaro (Bertamini, 2005). Un altro nome generico indicante un ghiacciaio è utilizzato anche in altri luoghi sul versante meridionale del Monte Rosa. In un documento del 1377, tra i confini dell’alpe Orsia (Gressoney), oltre alla sommità e alle creste delle montagne (summitatium montium, crista montium), è citato il riale de Zaval che esce de la rosa. Nel documento compare per la prima volta la voce rosa. Nel patois valdostano il vocabolo, variamente pronunciato (roisa, ruiza, roeza), significa ghiacciaio. Negli attuali gerghi franco-provenzali la voce è scomparsa, ma la rosa è un fossile che risulta ampiamente conservato nella toponomastica dell’intera regione, di cui rimangono anche numerose attestazioni documentarie. Il nome, scritto in minuscolo nel

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documento, non è ancora un nome proprio, è soltanto un nome comune indicante un ghiacciaio da cui esce un ruscello. Pochi decenni dopo, ad Alagna, compariva una voce simile a quella usata a Macugnaga e Gressoney per definire il confine superiore degli alpeggi. Nel processo informativo del 1420 per riconoscere i beni della Mensa vescovile di Novara in Valsesia erano nominate otto alpi con le relative coerenze; tra i confini dell’alpe Auria compariva un generico nevallum (Fantoni e Fantoni, 1995). Anche ad Alagna, come a Macugnaga e a Gressoney, il confine superiore degli alpeggi era individuato soltanto con un termine che specificava le condizioni permanentemente innevate delle montagne. Un termine equivalente (gletscher) era utilizzato anche per il lato vallesano del monte nel 1534 da Egidio Tschudi e nel 1574 da Simler.

IL MONBOSO Nello stesso periodo però, in altri atti riguardanti le alpi appartenenti al vescovo di Novara poste sul versante valsesiano della montagna, comparve per la prima volta un toponimo specifico. In un documento del 1411 relativo alla cessione dell’alpe Bors veniva citato un toponimo apparentemente incomprensibile, il crossuz sue flura de croso Biossuz. Ma altri documenti degli anni immediatamente successivi restituiscono piena comprensione alla voce Biossuz. Un documento del 1413 relativo all’alpe Auria specificava in dettaglio i confini dell’alpe, costituiti dall’alpe Bors, attraverso l’acqua del Sesia, dalla colma di Macugnaga e da lo Biosson. In un altro documento dell’anno successivo lo stesso toponimo (lo Biosson) era usato anche per identificare il confine settentrionale dell’alpe Bors, ubicata sull’altro lato del Sesia rispetto all’alpe Auria (Rizzi, 1983). Negli stessi anni dai notai della Curia novarese era utilizzato il toponimo generico nevallum, descrittivo delle condizioni permanentemente innevate delle montagne a nord dell’alpe. Altri notai locali utilizzavano invece un toponimo con un nome singolare: Biosson. I notai valsesiani continuarono ad usare toponimi simili anche nei secoli successivi. Il Bioso compare come confine di un’alpe in un documento del 1553 e in un atto relativo al pagamento di un affitto del 1564 compare ancora tra i confini delle alpi di Alagna il mons appellatus il Boso (Fantoni, 2008). La prima attestazione letteraria di un nome simile a quello usato dai notai valsesiani si deve al cronista novarese Pietro Azario (nato nel 1312 – morto dopo il 1366), al servizio dei Visconti durante la guerra del Canavese. Nel manoscritto De bello Canepiciano del 1365 (pubblicato dal Muratori nel 1730 nel Rerum italicarum scriptores) parlando della Dora dice che “trae origine dalle Alpi freddissime, sempre ricoperte di ghiacci: cioè dal Monte Bosseno, che sovrasta tutti i monti della Lombardia, e dal quale la neve e i ghiacci mai si ritirarono dall’origine del mondo” e precisa che “Questa

monte ostile è situato in capo alla Valsesia sopra il distretto di Novara”. L’incongruenza con le origini della Dora, dovuta alle scarse conoscenze geografiche dell’epoca, non deve però trarre in inganno; la precisazione finale permette di riconoscere inequivocabilmente nel Monte Rosa la Montanea Boxeni. Un secolo dopo l’erudita forlivese Flavio Biondo (1388-1464), nel capitolo dedicato alla Lombardia dell’Italia illustrata citava il Monboso: “Il monte chiamato Boso, è un promontorio de l’alpe Coccie, ed è il più alto monte d’Italia, e sempre è anco nel mezzo de l’estate coperto di spesse nevi, e non vi si può per via alcuna del mondo andar su”. Il testo del Biondo venne ripreso dal frate domenicano bolognese Leandro Alberti (1479-dopo il 1552). Nella Descrittione di tutta Italia del 1550, dopo aver parlato della pianura novarese, scriveva: “Salendo poscia a gli alti monti, evvi Monte Boso, et più oltre un giogo di tanta altezza, che par superare tutti gli altri monti d’Italia. Onde non mai per verun tempo se vi può passare alla sommità, tanto per la grand’asprezza, quanto per le gran nevi, dalle quali sempre è coperto” Il nome valsesiano della montagna venne utilizzato anche da Leonardo Da Vinci nel Codice Leicester nella sezione intitolata Del colore dell’aria. Nel manoscritto, redatto attorno al 1508, Leonardo raccolse appunti sulla terra, sulle acqua e sulle montagne relativi ad osservazioni compiute negli anni precedenti. In una di queste osservazioni viene citato e descritto il Momboso: “E questo vedrà come vidi’o, chi andrà sopra Monboso giogo dell’Alpi che dividono la Francia. In un’altra pagina del codice Leonardo richiama poi “la sperienza di Monboso”. Nel Seicento il termine venne utilizzato anche in tutte le opere lessicografiche pubblicate in Europa (da Filippo Ferrari a Milano nel 1627, da Johan Jakob Hoffman a Basilea nel 1677, dal Baudrand a Parigi nel 1681, da Thomas Corneille a Parigi nel 1708).

IL MONTE ROSA I notai valsesiani, il “milanese” Leonardo, gli eruditi rinascimentali italiani e i redattori dei dizionari enciclopedici europei utilizzavano tra Trecento e Seicento un solo toponimo: Monboso. Nel Cinquecento fece la sua comparsa nella cartografia geografica anche un toponimo che trasformò il nome generico rosa nel nome proprio Monte Rosa. La voce comparve per la prima volta nella carta del Ducato di Milano (realizzata nel 1560 dal milanese Giovanni Giorgio Settala ed inserita dal 1570 nell’Atlante di Abramo Ortelio) come M. Rosio. Per un paio di secoli nella cartografia europea il Monboso continuò a competere con il Monte Rosa. In alcune carte della prima metà del Settecento i due nomi comparivano ancora affiancati. Ma dalla metà del Settecento il Monboso scomparve definitivamente anche dalle carte geografiche e per tutti rimase un solo nome: Monte Rosa.


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L’UOMO E LA MONTAGNA

Testimonianze di lavoro nel Museo Etnografico Walser di Rimella Di Ornella Maglione

“Nella vicenda storico-culturale che accomuna i gruppi walser del Piemonte, Rimella rappresenta un caso esemplare perché è la comunità che è riuscita a mantenere integre più a lungo le proprie organizzazioni e i propri caratteri tradizionali” (Sibilla 1980, p. 18). Ecco il perché di un museo etnografico a Rimella: un luogo che documenti il lavoro e la fatica dell’uomo - e della donna - per vivere e sopravvivere in un territorio decisamente poco generoso.

IL MUSEO Il Museo è ospitato in una tipica co-

struzione walser realizzata su tre piani a scalare sul terreno, con gli accessi direttamente dall’esterno. Il piano terreno era adibito a stalla (der gàdu), il piano mediano ospitava la cucina (ts virhüüsch) con il caratteristico focolare a pavimento e i locali di abitazione, mentre il piano superiore era usato come fienile (der schtàdàl). I piani seminterrato e terreno hanno strutture portanti in pietra e pareti divisorie in legno; solo il terzo piano è interamente in legno con le pareti perimetrali costituite da travi orizzontali portanti incastrate ortogonalmente

(blockbau). I ballatoi, come è tipico nelle case di Rimella, sono chiusi da assiti verticali quasi a tutt’altezza. Alle pareti sono appesi i chràfe, sorta di ganci ricavati dalle biforcazioni dei rami, che venivano usati per sparpagliare il fieno per una più rapida essiccazione. La casa, ora di proprietà del Comune di Rimella, è stata oggetto di un complesso intervento di restauro. Il percorso museale si articola in tre sale che trattano rispettivamente il tema dell’alimentazione e dell’attività molitoria, delle lavorazioni dei materiali da costruzione, essenzialmente

SOPRA: l’edificio sede del Museo Etnografico Walser di Rimella.

pietra e legno e infine del ciclo agrario (l’alpeggio, la concimazione, la fienagione ...) e dell’allevamento. È un museo di cultura materiale e immateriale in quanto gli oggetti sono resi vivi nel loro contesto descrivendo i cicli e le modalità produttive nei quali sono coinvolti. Due filmati etnografici frutto di un’attenta ricerca sul campo, realizzata anche con il prezioso ausilio dell’intervista, documentano le lavorazioni ancora in uso o quelle di cui si mantiene il ricordo.

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LA LAVORAZIONE DEI CEREALI E I MULINI La coltura dei cereali in territorio rimellese è proibitiva a causa delle condizioni climatiche sfavorevoli: la produzione della segale, attestata nell’Ottocento è abbandonata da più di un secolo. Il cereale che non mancava mai nella dispensa era il granoturco la cui farina, “secca” (proveniente da mais tostato) o normale, veniva usata per preparare il magru o la polenta, alimento fondamentale e sostitutivo del pane. Si faceva anche largo consumo di riso, soprattutto per cucinare minestre. A Rimella non esistevano né forni frazionali né forni casalinghi e il pane si preparava nei

SOPRA: Elaborazione della mappa del Catasto Rabbini del 1864. La mappa originale è conservata in AST, Catasti, Catasto Rabbini, mappa 36.

panifici del Centro, del Grondo e di San Gottardo. Il Grondo, raggiunto dalla carrozzabile proveniente da Varallo nel 1886, era il punto in cui confluivano tutte le derrate e le merci in arrivo e in partenza da e per Rimella. Subito dopo la Guerra vi erano ancora un negozio, un laboratorio di falegnameria, un forno per il pane (“Prestino”) chiuso negli anni Ottanta del Novecento e il “mulino della Laura” per la molitura della meliga. Al Grondo, la più bassa delle frazioni rimelle-

Schema di un mulino a ruota orizzontale (Jorio, Burzio1986, p. 95)

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si, lambita dalle acque del Landwasser si trovavano le attività artigianali. Fino al 1834 vi erano due fucine, un maglio per la lavorazione del ferro un macchinario usato per pestare la canapa, un mulino per cereali e una sega ad acqua. Nel 1864 il Catasto Rabbini censiva in quella frazione, cinque mulini ad acqua, come si può vedere nell’elaborazione dello stralcio di mappa in cui tali edifici sono evidenziati con asterisco. Si tratta di mulini a ruota orizzontale (ritrecine), generalmente diffusi lungo corsi d’acqua con portata scarsa e incostante. Il sistema meccanico è semplice perché tra la ruota e le macine non esistono ingranaggi intermedi che moltiplichino il moto: ad ogni giro di ruota corrisponde un giro della macina. Su di un basamento (banchina) costituito da una trave lignea, in cui è inserita una parte generalmente metallica (bronzina), è imperniato l’albero motore alla cui base inferiore è incastrata una piccola pietra con lo scopo di ridurre l’attrito e nel contempo di resistere all’usura. Nell’albero è inserito il mozzo nel quale sono praticate tante scanalature quante sono le pale della ruota. Il palmento è costituito da una coppia di macine in pietra: quella inferiore (sedile o sottana) è fissa e saldamente ancorata alla struttura lignea che la sorregge mentre quella superiore (corridore o soprana) ruota su se stessa grazie al movimento impressogli dall’albero motore. Entrambe le macine hanno un foro centrale nel quale passa l’albero motore. All’estremità superiore di quest’ultimo è fissato un ferro orizzontale a forma di farfalla (nottola) che trasmette il moto al palmento superiore. Per facilitare la frantumazione dei semi e l'espulsione del macinato, le macine sono dotate di incisioni a raggiera (raggiature) che di frequente dovevano essere "ravvivate". La pietra con cui sono realizzate le macine deve essere dura e omogenea per evitare che, durante la macinazione, si disperda pulviscolo che si mischi alla farina. La distanza delle due mole, dalla quale dipendeva la dimensione del macinato, era regolata da un meccanismo a leva. Una cassa cilindrica di rivestimento in legno, ricopriva il palmento con lo scopo di trattenere la farina e convogliarla verso un cassone o un sacco. Al di sopra della cassa quattro paletti verticali reggevano la tramoggia a forma di piramide tronca capovolta, nella quale veniva introdotto il cereale da macinare. Sotto la bocca inferiore era incernierato un congegno che regolava la caduta dei grani. Molto spesso il mugnaio sistemava nella tramoggia un piccolo disco in legno collegato a una campanella e trattenuto dal cereale da macinare: quando questo terminava lasciava cadere la campanella sulla macina avvisando così l’operatore di fermare le mole perché non macinassero


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a vuoto e si danneggiassero. Nel Museo sono esposte alcune parti di un mulino del Grondo (albero motore, macina superiore, nottola, cassa di rivestimento in legno, tramoggia).

L’ESTRAZIONE E IL TRASPORTO DELLE PIODE Le cave di Rimella producevano ottimo

materiale per coprire i tetti. In prossimità dell’Alpe Pianello si trovavano cave di “piode” (d blàtte) di qualità eccellente: resistenti al gelo e al disgelo, con buone capacità meccaniche, spessore regolare e pezzature adeguate.

SOPRA: Cava di piode nei pressi dell’Alpe Pianello.

L’estrazione non era realizzata da maestranze specializzate, bensì da persone del luogo che vi si dedicavano saltuariamente alternando questo lavoro all’attività agropastorale. Durante la bella stagione si procedeva dapprima alla pulizia del sito e poi all’estrazione. Individuato il filone si facevano alcuni fori con la mazza, poi li si riempivano di polvere pirica che veniva fatta esplodere. Nelle fenditure provocate dalle deflagrazioni si inserivano cunei in ferro che, opportunamente colpiti con la mazza, provocavano il distacco delle lastre. Da queste si ottenevano “piode” e “piodini” che venivano accatastati in un grande mucchio. Il trasporto a valle avveniva nella stagione invernale quando le abbondanti nevicate consentivano l’uso delle slitte. La teleferica iniziò ad essere usata a Rimella intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, ma l’impiego di quella a motore (prima a scoppio e poi elettrico) si diffuse solo un decennio più tardi. Non sempre era inoltre conveniente installare una teleferica soprattutto per tragitti lunghi e complessi e così talora si continuò a preferire la slitta come mezzo di trasporto. In inverno, dopo le prime nevicate, si saliva con la slitta fino alla cava e si scopriva il mucchio di piode reso riconoscibile da un alto bastone saldamente conficcato nella catasta a segnalare, anche sotto metri di neve, la sua presenza. L’intero tragitto veniva suddiviso in varie tappe. Questo perché, siccome il trasporto si protraeva per tutto l’inverno, bisognava

IN ALTO: Un uomo trasporta le piode con la slitta nella valle dell’Enderwasser. SOPRA: Slitta per il trasporto delle piode (der blattu schljettu) esposta nel Museo Etnografico Walser di Rimella.

evitare che le nevicate e le eventuali valanghe rendessero inagibile la traccia già preparata. Così si predisponevano dei tratti, relativamente brevi, che venivano ripuliti e “battuti” in modo da agevolare lo scivolamento della slitta. Ogni volta si caricava la slitta, si percor-

reva il tratto di strada preparato e la si scaricava ammucchiando nuovamente le “piode”, poi si risaliva e si procedeva via via percorrendo per più giorni lo stesso tratto di strada: si facevano anche sette o otto viaggi al giorno e per una settimana sempre lo stesso tragitto. Solo

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WOHNEN- WOONA - VOGNA quando tutte le beole erano state trasportate, allora si poteva procedere a preparare il tratto di strada successivo e proseguire nel trasporto verso valle. La slitta (der blattu schljettu), che una volta carica poteva pesare anche due quintali, era guidata da un solo uomo che si poneva anteriormente tra i pattini ricurvi. Alla parte posteriore della slitta era ancorato un freno (d schtrüŝchu) formato da un legno ricurvo all’interno del quale vi erano della ramaglie. Alcune piode poste al di sopra permettevano con il loro peso di aumentare l’attrito e di rallentare la discesa della slitta. Il trasporto delle piode era un lavoro molto pericoloso e faticoso interrotto solo da una breve pausa per un frugale pranzo costituito da polenta e formaggio che, a inizio giornata, venivano sepolti nella neve per evitare che si indurissero al gelo. Il lungo viaggio di discesa terminava al Grondo che, fino al 1969, era l’unica frazione raggiunta dalla carrozzabile. Qui le piode venivano accatastate e successivamente vendute.

LA POSA IN OPERA DELLE “PIODE” I mastri

rimellesi sono noti in tutta la Valsesia per essere degli ottimi costruttori di tetti in pietra. Le “piode” vengono posate su un’orditura lignea robusta atta a sorreggere il peso delle pesanti lastre e del carico di neve. Quando le beole vengono portate in cantiere il muratore le smista in cataste diverse a seconda della dimensione, della qualità e della regolarità: quelle migliori saranno usate per ricoprire la parte terminale delle falde (gronde) e il colmo. La copertura viene posata in modo parallelo sulle due falde del tetto, un metro per parte, per caricare la struttura in modo simmetrico. Le “piode” vengono posizionate a corsi facendo in modo che i giunti verticali risultino sfalsati per evitare il convogliamento dell’acqua che provocherebbe infiltrazioni. Per prime si posano le “piode di gronda” (d grunde) al di sopra delle quali si posizionano le “piode di pettine” (d zérerà) con funzione SOTTO: Tetto in “piode” particolare del colmo e degli spioventi laterali.

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SOPRA: Tetto in “piode” particolare della parte terminale della falda.

di coprigiunto. Poi si procede alla copertura della falda usando le “piode” di dimensioni minori avendo cura di sovrapporre i vari corsi di almeno cm 10 per evitare infiltrazioni d’acqua. Per la realizzazione del colmo si usano i “copertoni” (d dacchià) e si coprono i giunti coi “pettini”. La parte sottovento del colmo viene mantenuta leggermente più bassa in modo da formare uno scalino che è poi sigillato con cemento e talvolta ricoperto con lastra metallica. In genere la pendenza dei tetti varia a seconda della dimensione delle “piode” a disposizione: più sono grandi le lastre minore sarà la pendenza del tetto.

IL TAGLIO DEL BOSCO E IL TRASPORTO DEL LEGNAME A Rimella i boschi sono costituiti

prevalentemente da abeti, larici e faggi con presenza anche di frassini e aceri. Le fustaie danno poco prodotto e di mediocre qualità: per la loro natura, la loro vecchiaia, lo stato di semi-abbandono e per il carattere impervio del territorio che rende difficile il trasporto del legname. Mentre oggi la risorsa bosco è usata soprattutto per produrre legna da ardere, un tempo forniva anche il legname per costruire le case. In particolare il larice veniva usato per le travature dei blockbau (pareti costituite da travi lignee disposte orizzontalmente), per le orditure orizzontali (solai) e per la carpenteria dei tetti, mentre l’abete, ridotto ad assi, era impiegato nei tamponamenti dei loggiati. Il taglio dei boschi, si praticava durante l’autunno e l’inverno quando gli emigranti tornavano al paese natio.

Il taglio del bosco seguiva scrupolosamente le fasi lunari: si tagliavano in luna crescente gli alberi destinati a legna da ardere, in luna calante quelli da impiegarsi per legname da opera. Prima dell’avvento delle motoseghe, si usava l’ascia da abbattimento (ts biélje) con la quale si praticava nell’albero un’incisione a cuneo, pari a circa 1/3 del diametro, per orientare la caduta. Poi col segone a due manici (der grose tromer) si procedeva sul lato opposto tagliando orizzontalmente sino all’oscillazione decisiva. Se la pianta era di piccole dimensioni si poteva abbattere anche con il solo uso dell’ascia. Nel caso di uso del segone a due manici si doveva poi realizzare intorno al ceppo una “corona” (smussamento della parte della corteccia dove era avvenuto il taglio) in modo che questo potesse germogliare nuovamente. Una volta che l’albero era abbattuto si procedeva con lo sfrondamento usando la scure da sramatura detta “trentina” (ts hànd biélte) o la roncola (d ŝchecchju) nel caso di rami più piccoli. Con il segone a due manici o con la sega ad arco (der tromer) si tagliava il tronco (d burru) secondo la misura desiderata (in genere 4 metri). La legna piccola veniva trasportata con la gerla o con l’apposito attrezzo (d kàvlu) oppure con la teleferica. I tronchi venivano accatastati e portati a valle in inverno con la slitta (der lézzung); in caso di inverni senza neve, si aspettavano le piene primaverili e si facevano scendere a valle immergendoli nei torrenti. Al Grondo i tronchi venivano accatastati “sotto strada” e marchiati in attesa del commerciante: potevano essere


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lunghezza del tronco, poi lo si rigirava sul cavalletto e si ricominciava fino a incontrare i tagli già eseguiti. Per questo le assi antiche recano spesso a metà lunghezza un segno di spezzatura che è il punto di incontro dei due tagli opposti. Per squadrare le travi si usava invece l’ascia da falegname che si caratterizza per un breve manico disassato che evitava all’operatore di ferirsi la mano durante il lavoro e per la larga lama piatta e tagliente.

LE CAVE E LE FORNACI DA CALCE Fino alla

SOPRA: D kàvlu per il trasporto a spalla della legna.

venduti interi o ridotti in assi nella segheria che si trovava nel primo caseggiato verso valle. In alcune zone, invece, dove il trasporto dei tronchi interi era particolarmente difficoltoso si preferiva realizzare gli assi in loco utilizzando la sega a telaio.

PRINCIPALI LAVORAZIONI PER USO CARPENTERIA Se era necessario ricavare delle

assi dal tronco, il taglio si faceva nel bosco utilizzando la sega a telaio. Il tronco era legato sporgente per circa la metà della lunghezza al di sopra di un robusto cavalletto inclinato all’indietro e adeguatamente contrappesato. Un uomo stava in piedi sul tronco, un altro a terra appoggiando la sega alla base del tronco e tirandola dall’alto verso il basso e viceversa. La direzione del taglio era data da un segno lasciato con un cordino precedentemente immerso in una polvere colorante (es. fuligine) posizionato, sollevato e fatto cadere repentinamente in modo da tracciare una linea. Si arrivava con tagli paralleli sino a metà della

metà degli anni Venti del Novecento tutti i materiali da costruzione erano di produzione locale, compresa la calce bianca. Tre erano le cave in cui si estraeva la pietra da calce (calcite), che i rimellesi chiamavano comunemente “marmo” e tre erano le fornaci comunitarie in cui avveniva la cottura. La calce era prodotta solo nei momenti di necessità dagli abitanti di una frazione che si consorziavano per suddividere il lavoro. Il ciclo produttivo prevedeva diverse fasi: estrazione della pietra, frantumazione grossolana e trasporto ai luoghi di cottura, raccolta della legna, preparazione, accensione e continua alimentazione della fornace che doveva ardere per almeno tre giorni e tre notti consecutivi. Molto spesso toccava alle donne tagliare la legna ancora verde pur di riuscire a ultimare la cottura della calce. Al termine della combustione si otteneva la “calce viva” che veniva SOTTO: Casa in frazione Grondo datata 1874 con intonaco in calce di produzione locale.

SOPRA: Fornace da calce. (http://www.archeotaccu.it/Forni.htm)

poi “spenta” con acqua in apposite buche e ripartita tra le famiglie che avevano partecipato alla produzione. Se il prodotto non era impiegato nell’immediato, veniva posto in buche profonde un paio di metri e coperto con uno strato di sabbia e terra e infine con lastre in pietra. Il “grassello di calce” rimaneva così protetto dal gelo e continuamente idratato grazie all’umidità ceduta dal terreno e si manteneva inalterato anche per decenni. Alcuni rimellesi ricordano ancora di aver attinto a tali riserve per riparare le loro abitazioni. Era una calce molto grassa, di ottima qualità, che veniva adeguatamente mischiata con sabbia e acqua.

SOTTO: Uso dell’ascia da falegname (De Toni, Snichelotto 2005, p. 18).

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WOHNEN- WOONA - VOGNA IL CICLO AGRARIO Nel mondo contadino i rit-

mi del ciclo agrario sono scanditi dalle ricorrenze religiose. A Rimella, paese di montagna con sistema produttivo agro-silvo-pastorale, le date fondamentali sono: il 25 aprile festa di San Marco, il 24 giugno festa di San Giovanni Battista e il 29 settembre ricorrenza di San Michele Arcangelo. Il 25 aprile segnava, per tradizione, l’inizio del ciclo agrario. In quel giorno, presso la cappella di San Marco si svolgeva un rito religioso propiziatorio e in frazione Grondo avveniva la fiera in cui si acquistavano e si vendevano animali, attrezzature per il lavoro, stoffe per l’abbigliamento e quant’altro potesse servire. Se le condizioni del tempo lo permettevano si portavano le capre ai pascoli comunitari, seguendo regole molto antiche. Nei 15 giorni che precedono la festa di San Giovanni, incominciano i preparativi per trasferire gli animali all’alpeggio. In genere il 24 giugno avviene la transumanza agli alpeggi, mentre il 29 settembre, festa patronale di Rimella, lo “scarico” dell’alpeggio alto.

L’ALLEVAMENTO Fino circa alla metà del

secolo scorso per la gente di Rimella le fonti di sostentamento derivavano dal lavoro degli emigranti e dall’allevamento. La maggior parte degli uomini praticavano l’emigrazione stagionale: tra il mese di marzo e quello di maggio raggiungevano le loro destinazioni per ritornare al paese natio solo tra la fine di ottobre e i primi di dicembre. Nella bella stagione rimanevano in paese gli anziani, i bambini e le donne su cui gravava gran parte del lavoro: coltivazione dei campi, sfalcio dei prati e dei prati magri, sfogliatura degli alberi e tutte

le attività connesse all’alpeggio. Il patrimonio zootecnico era ed è formato prevalentemente da caprini e bovini con presenza anche di ovini, suini e qualche equino. Ultimamente la tendenza è quella di allevare bestiame minuto, soprattutto capre, che richiedono meno lavoro e comportano rischi minori rispetto all’allevamento dei bovini. Fino alla fine dell’Ottocento, quasi nessuno era in grado di mantenere un animale da soma e il trasporto si faceva esclusivamente a spalla, generalmente da anziane donne che si prestavano in cambio di miseri compensi. L’arrivo della teleferica ha alleviato di molto il loro pesante lavoro.

L’ALPEGGIO Esistono due livelli di alpeggio:

quello mezzano, attorno ai 1200-1500 metri e quello alto, al di sopra dei 1600 metri. Nell’alpeggio mezzano si effettua il “pascolo di transizione” durante la transumanza primaverile e autunnale ovvero nelle mezze stagioni prima di salire e dopo essere scesi dall’alpeggio alto. La giornata in alpeggio iniziava all’alba con la mungitura e la pulizia della stalla. Dopo una frugale colazione, generalmente a base di polentina di “farina secca” (magru) si decideva dove condurre le mucche al pascolo: dipendeva dalle condizioni climatiche e dallo stato dell’erba. Alla sera gli animali venivano riportati nella stalla, abbeverati e nuovamente munti. Era compito dei bambini, controllati a distanza da qualche anziano, badare agli animali durante il giorno. I pascoli migliori erano riservati ai bovini; le SOTTO: Transumanza dall’Alpe Scarpiola (m 1368), 24 giugno 2011.

SOPRA: Donna con carico di fieno.

capre brucavano i prati magri più alti sorvegliate dai cani che le facevano ritornare nelle stalle alla sera. Era invece tassativamente proibito ai maiali uscire dai loro recinti perché il loro grufolare avrebbe danneggiato la cotica erbosa. Le pecore venivano affidate a un pastore forestiero, generalmente biellese, che alcuni giorni prima di salire agli alpeggi, si portava col suo gregge alla Madonna del Rumore, dove avveniva la consegna degli animali preventivamente marchiati. Seguendo un percorso prestabilito, il pastore si recava all’Alpe Capezzone (m 1845) affittatogli dal Comune con contratto novennale. Ai proprietari delle pecore spettavano la lana della tosa agostana e gli agnelli; al pastore toccava il latte. All’alpeggio erano le donne a svolgere gran parte dei lavori, affiancate dai nonni, da qualche vecchia zia e dai bambini che spesso, già all’età di 7-8 anni, venivano affidati a persone conosciute in qualità di garzoni per imparare il mestiere di pastore. I loro compiti erano: mungere le capre, pulire il bestiame, raccogliere la legna per il fuoco, condurre gli animali al pascolo. Per evitare che i più piccoli si allontanassero, gli anziani raccontavano loro antiche credenze in cui le montagne erano animate da: Šafferiene (nani che escono dalla roccia per terrorizzare chi va in giro da solo) e Tokie (piccoli esseri molto dispettosi che abitavano le caverne).

LA COLTURA DEI PRATI Ogni piccolo appez-

zamento di prato o di campo veniva coltivato con cura: la concimazione era importante perché permetteva di aumentare la produttività. Il letame, dopo essere “maturato” per qualche tempo sulla concimaia veniva trasportato con

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le slitte (d meschtkasschjenà) nei luoghi prestabiliti e lì scaricato. Poi si attendeva lo scioglimento della neve e si spargeva. Si dice che un tempo si evitasse di fare questo lavoro il venerdì santo perché altrimenti enormi formicai avrebbero invaso il terreno. Intorno al 24 giugno (San Giovanni) si effettua il primo e talora unico sfalcio del fieno. E’ un lavoro che in genere spettava alla donna che tagliava usando la falce fienaia (d ŝchégerŝchu) o, più spesso, essendo i terreni in forte pendenza, il falcetto (d ŝchecchju). Il fieno viene lavorato (allargato, ammucchiato, allargato nuovamente, rivoltato) fino a raggiungere la completa essiccazione. Poi con le gerle a stecche larghe (d tschìvre) viene portato nel fienile. Il secondo taglio si effettua intorno a metà-fine luglio.

I PRATI MAGRI Un tempo nel mese di agosto si effettuava anche la raccolta del fieno magro sui prati di monte, terreni marginali lontano dall’abitato dove crescono graminacee e altre essenze che forniscono foraggi poco pregiati. Anche questo lavoro spettava alle donne che intorno alle quattro di mattina lasciavano la loro casa portando con sé il falcetto, una fetta di polenta che serviva per il pranzo e la corda per legare il fieno in genere munita di stringinodi in legno (d trigju); sarebbero rientrate solo a sera inoltrata con un pesante fardello portato sul capo e appoggiato alle spalle. Questo sistema di trasporto era preferito, rispetto alla gerla, nei percorsi particolarmente accidentati SOTTO: Triesenberg, Walsertreffen 2010, donna di Rimella in abito da lavoro con gli attrezzi per il taglio del fieno magro.

SOPRA: Rimella, un uomo sta eseguendo la sfogliatura dei frassini

poiché in caso di caduta il carico poteva essere facilmente lasciato evitando di trascinare a valle la persona che lo portava. In genere, prima di accingersi alla raccolta del fieno magro, le donne partecipavano a un rito propiziatorio in cui raggiungevano in forma processionale il cimitero onde assicurarsi la protezione dei defunti. Da alcuni decenni la raccolta del fieno magro non viene più eseguita.

LA SFOGLIATURA DEI FRASSINI Per inte-

grare l’alimentazione animale si usavano le foglie di frassino e di faggio. Affinché non perdessero le qualità nutrizionali, non si attendeva l’appassimento e la successiva essiccazione, ma si raccoglievano ancora ver-

di. Intorno a fine agosto-inizio settembre le donne, in genere, salivano con lunghe scale sulle piante e procedevano al distacco delle foglie. Una volta cadute a terra, le foglie venivano fatte seccare e portate nei fienili. Servivano sia per l’alimentazione invernale di pecore e capre, risparmiando così il foraggio, sia come alimento stimolante la produzione del latte soprattutto se associato al fieno di secondo taglio (ts àmàd), sia per curare i problemi digestivi degli animali. La sfogliatura, specie quella di piccoli alberi, viene praticata ancora oggi perché le foglie “sono una vera e propria medicina”. SOTTO: Rimella, frassini appena sfogliati.

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WOHNEN- WOONA - VOGNA BIBLIOGRAFIA Marco BAUEN, La lingua di Rimella (Valsesia – Piemonte) tra cultura alto tedesca e italiana, traduzione italiana ed aggiornamento di Eugenio Vasina, Rimella, Centro Studi Walser, 1999 CENTRO STUDI WALSER - RIMELLA, Ts Remmaljertittschu. Vocabolario Italiano-Tittschu, Torino, Centro Studi Walser – Rimella, 1995 Silvia DAL NEGRO, CENTRO STUDI WALSER DI RIMELLA, WALSERVEREIN POMATT, Parlare walser in Piemonte. Archivio sonoro delle parlate walser, Vercelli, Edizioni Mercurio, 2006 Ivana DE TONI, Paolo SNICHELOTTO, ASSOCIAZIONE AMICI DEL MUSEO, Museo etnografico sulla lavorazione del legno, San Vito di Leguzzano, Vicenza: guida agli attrezzi e alle fasi di lavorazione, Schio, Grafiche Marcolin, 2005 Roberto FANTONI, La filiera cerealicola valsesiana e il mulino di Rabernardo, in “Vogna”, 2018, pp. 34-40 Giovanni KEZICH, Eriberto EULISSE, Antonella MOTT (a cura di), Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina. Nuova guida illustrata, San Michele all’Adige, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, 2002 Ornella MAGLIONE, Il legno e la pietra: ricordi e racconti di lavoro, in “Remmalju”, 2013, pp. 48-52 Ornella MAGLIONE, Il Museo Etnografico Walser di Rimella, in “Remmalju”, 2010, pp. 13-16 Michela MIRICI CAPPA, Ambiente e sistema edilizio negli insediamenti walser di Alagna Valsesia, Macugnaga e Formazza, Quaderni di Cultura Alpina, Ivrea, Priuli & Verlucca, 1997 Mario REMOGNA, Cibo e attività agropastorale nella vita quotidiana di Rimella, in “Remmalju”, 1994, pp. 17-26 Mario REMOGNA, Pietra e legno: due materiali per la vita, in “Remmalju”, 2004, pp. 32-38 Paul SCHEUERMEIER, Il lavoro dei contadini: cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, traduzione italiana di Isabella Gaudenzi, Katarina Dori Egger, 2° edizione, Milano, Longanesi, 1983 Paolo SIBILLA, I luoghi della memoria: cultura e vita quotidiana nelle testimonianze del contadino valsesiano G. B. Filippa (1778 – 1838), Anzola d’Ossola, Fondazione Arch. Enrico Monti, 1985 Paolo SIBILLA, Una comunità walser delle Alpi: strutture tradizionali e processi culturali, collana “Biblioteca di Lares”, vol. XLVI, Firenze, Olschki, 1980 Piercarlo Jorio, Giorgio Burzio, Gli “altri” mestieri delle valli alpine occidentali, Quaderni di cultura alpina, Ivrea, Priuli & Verlucca, 1986 Augusto VASINA (a cura di), Storia di Rimella in Valsesia, Borgosesia, Centro Studi Walser - Rimella, 2004 Pier Paolo VIAZZO, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Bologna, Il Mulino, 1990

SOPRA: Particolari interni delle sale del Museo Walser di Rimella.

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ANNUARIO 2019

I forni da pane Di arch. Mariagiovanna Casagrande

I

villaggi di alta montagna, per orografia del territorio, in Valle d’Aosta come nel resto dell’arco alpino, erano, un tempo, un universo autonomo e autosufficiente e garantivano la sopravvivenza dei propri abitanti nonostante il rigore del clima e le condizioni ambientali a volte ostili, soprattutto nella stagione invernale. Tutto il territorio era manutenuto: gli appezzamenti di terra meglio soleggiati erano sorretti da muri in pietra costruiti per contrastare la forte pendenza dei fianchi delle montagne. Questi venivano coltivati, a seconda delle condizioni di altimetriche, con grano, segale, orzo e patate, prodotti che, unitamente con i quelli derivati dall’allevamento del bestiame, permettevano la piena autonomia alimentare delle comunità. I muri in pietra di sostegno degli appezzamenti costituivano un riparo dal vento, offrivano un buon drenaggio del terreno e, attraverso l’accumulazione termica dovuta alla loro esposizione verso sud – rilasciavano nottetempo il calore accumulato durante il giorno. Mitigavano la rigidità del clima permettendo la coltivazione e maturazione

di alcune specie botaniche a quote particolarmente elevate. È facile, dunque, intuire lo stupore provato dal reverendo William King che quando giunse nell’alta valle di Champorcher, a oltre 1600 metri s.l.m., così scrisse nei suoi appunti di viaggio: “Fummo sorpresi nel constatare come sui fianchi esposti a mezzogiorno della montagna il frumento fosse già mietuto, il terreno già arato e riseminato, con il giovane frumento che stava spuntando ad una altitudine dove non ci saremmo mai immaginati di trovare colture cerealicole. Forse per la forte esposizione al sole, la situazione doveva essere evidentemente favorevole in modo comunque fuori dell’ordinario1”. I mulini costruiti nelle vicinanze dei corsi d’acqua a cui diversi villaggi facevano riferimento per la macinazione delle granaglie, per lo più segale e i forni da pane, erano, quindi, utensili indispensabili alla sopravvivenza delle comunità alpine, in cui i contatti con il mondo esterno erano ridotti al minimo. I forni da pane erano presenti in tutti i villaggi e, per ragioni di sicurezza, erano siti ai

margini degli insediamenti, a volte come appendice alle abitazioni più grandi o isolate. Questi piccoli fabbricati, costruiti in pietra, sono immediatamente riconoscibili e, dal punto di vista tipologico e costruttivo, sono molto simili sia a quelli presenti in tutti i villaggi della Valle d’Aosta che nelle regioni confinanti, l’Alta Savoia, il Vallese e le valli Piemontesi. Essi sono cateterizzati dalla loro unica apertura, triangolare o arcuata denominata “bocca del forno” che dà accesso alla “camera di cottura”, costituita da una calotta in pietra ribassata realizzata sopra un basamento che supporta il piano di cottura del forno realizzato nella cosiddetta“pietra da forno” o, in tempi più recenti, in mattoni. Un piccolo canale di aerazione, “il respiro del forno”, con funzione di tiraggio, mette in comunicazione la camera di cottura con l’esterno affinché, durante il riscaldamento del forno, la legna bruci in modo uniforme assicurando la temperatura necessaria alla buona cottura del pane. Il tetto può essere a una o due falde con un’avanzata sopra la bocca del forno più o meno grande che, nel caso di alcuni forni di area walser a Gressoney e in valle Vogna, copre lo spazio antistante, chiuso da un assito in legna per contrastare il rigore del clima e a protezione delle operazione di infornare e sfornare i pani. In autunno inoltrato, a raccolto già avvenuto, quando le famiglie dell’intera comunità si riunivano, si accendeva il forno per la cottura del pane che avveniva una sola volta durante l’anno. Il pane veniva conservato essiccandolo per essere consumato con religiosa parsimonia, senza sprechi, razionandolo per farlo durare fino alla prossima panificazione. Esso IN ALTO: la “bocca del forno” in frazione Rabernado, Valle Vogna. SOTTO: vista a sud del Forno in frazione Rabernado, Valle Vogna.

NOTE A MARGINE 1

Viaggiatori inglesi in Valle d’Aosta, a cura di Piero Malvezzi, Edizioni di Comunità,Milano, 1972

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WOHNEN- WOONA - VOGNA

1. pareti perimetrali: realizzate in muratura in pietra che può essere, a seconda dei casi, intonacata,o a faccia a vista; 2. basamento di supporto del piano di cottura: costituito da materiale arido di riempimento, quali scampoli in pietra risultanti dalle lavorazioni dei muri perimetrali con ghiaia e sabbia grossa, come isolamento dal terreno naturale; 3. strato di sabbia fine ben intasata: realizzato per accogliere il successivo strato più fine (un tempo veniva utilizzato il cosiddetto limo glaciale, nel patois di Champorcher chiamato “bianzin” o “terra grassa”); 4. “bianzin” o “terra grassa”, sabbia fine: letto di posa per le pietre del piano di cottura di spessore cm 10- 15; 5. “pietre da forno”: piano di cottura costituito da quadrotte di pietra di spessore variabile da cm 14 a cm 20, posate il più aderenti possibili, ottenendo una superficie molto levigata, pendente verso la bocca del forno per facilitare le operazioni di pulizia e la disposizione dei pani per la cottura; 6. corona di pietre: posate verticalmente “di coltello” di supporto alla volta; 7. volta: calotta o cupola di forma circolare o ellittica, ribassata al centro in pietra, legata con malta di calce lavorata in cerchi concentrici. Per la sua costruzione si modellava, sul piano di cottura, della terra umida e ben battuta che costituiva il cassero su cui venivano posate le pietre. A lavoro ultimato, la terra veniva agevolmente tolta dalla bocca del forno liberando la volta, in pietra a faccia a vista. Molte di queste volte erano così ben costruite che, ancor oggi, anche quando il tetto che le ricopriva è totalmente crollato da molti anni, esse sono, internamente, ancora intatte; 8. “refiail” o “il respiro del forno”: piccolo canale di aerazione rivolto preferibilmente a Nord, collega l’interno del forno con l’esterno ed è collocato in posizione contrapposta alla bocca del forno ad un’altezza media tra l’intradosso della volta ed il piano di cottura. Tale canale di tiraggio era indispensabile affinché la legna potesse bruciare completamente durante le ore di riscaldamento evitando che si annerisse di fuliggine la volta sporcando così i pani. Esso, dopo la fase di riscaldamento viene tappato per evitare la dispersione del calore; 9. “bianzin” o “terra grassa”, sabbia fine: massa refrattaria di riempimento di spessore di cm 30 circa che fa corpo unico con la volta sottostante: svolge funzione di regolatore termico in quanto isola l’interno immagazzinando il calore che poi verrà restituito durante la cottura del pane.

10. apertura: di larghezza variabile attraverso cui vengono fatti cadere cenere e braci dal piano di cottura nel cinerario: il calore che si sprigiona dalle braci impedisce all’aria fredda di entrare nel forno; 11. cinerario: si tratta di una nicchia posta sotto la bocca del forno in cui vengono raccolte le ceneri e le braci dopo il fuoco di riscaldamento o di mantenimento della temperatura prima di ogni sfornata; 12. porta della bocca del forno: anticamente essa era costituita da una losa in pietra montata su supporto in legno fissato alla facciata del forno per

rappresentava per ogni famiglia, da un lato, il frutto del lavoro durante l’anno trascorso e, dall’altro, il sostentamento per quello a venire. L’accensione del fuoco nel forno richiedeva organizzazione e solidarietà e si presentava anche come un momento di aggregazione e di allegria tra tutte le famiglie di ogni villaggio: il procedimento per la preparazione del pane e la sua cottura si protraeva per settimane, nelle

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agevolarne la movimentazione, successivamente viene realizzata in ferro;

13. pietra forata murata sopra la bocca del forno: in essa viene infisso uno spezzone di legno appuntito per mantenere accostata la pietra di chiusura;

14. pietra parafiamma: losa in pietra rettangolare posizionata in modo da proteggere la trave di colmo ed i travetti in legno del tetto dall’eccessivo calore e dalle scintille che si sprigionano dal fuoco e durante le operazioni di riscaldamento e di pulizia del forno. In alcuni casi, in questa posizione, si trova un camino per una migliore evacuazione dei fumi e per una maggiore sicurezza; 15. travi, travetti in legno: costituiscono la struttura portante del tetto. In alcuni casi il tetto avanza di 2/3 metri oltre la facciata principale del forno e per proteggere dalla pioggia e dalla neve lo spazio riservato alle operazioni dell’infornare e dello sfornare. In alcuni casi veniva chiuso da un tamponamento con assi di legno come nel forno di Rabernardo; 16. tavole in legno: vi si appoggiavano i pani prima della loro cottura per trasportarli dal locale in cui avveniva la lavorazione dell'impasto al forno; 17. “caviglie”: spezzoni in legno infissi ad un montante verticale in legno o nella muratura in cui si appoggiavano le tavole con i pani;

Pietra da forno: Pietra del complesso di formazione delle così dette pietre verdi denominata Prasinite (roccia scistosa basica composta da feldspato plagioclasio con uno o più elementi colorati del gruppo degli Anfiboli, Cloriti o Epidoti). Essa ha un elevato peso specifico (superiore a kg/decimetrocubo 2,8). Per questo motivo possiede un’elevata inerzia termica che le consente di immagazzinare e di cedere lentamente il calore. E’ costituita da una pasta a tessitura molto fine con una scistosità poco marcata che consente alla pietra di sopportare i cicli termici di riscaldamento e raffreddamento riducendo al minimo le possibilità di incrinature e o di scagliature. E’, inoltre, caratterizzata da una notevole durezza e quindi poco usurabile in esercizio. Bianzin: Il “bianzin”, o “terra grassa”, è un materiale limoso prodotto dall’alterazione di rocce appartenenti alla formazione delle così dette “pietre verdi”, ovvero si tratta di materiale di frizione prodotto dallo scorrimento delle rocce stesse. Si trova a strati in terreni detritici e come riempimento di fratture nell’ammasso roccioso un po’ in tutta la Valle d’Aosta. E’ costituito da miche, silicati, feldspati. Tra i materiali per l’edilizia può essere assimilato al calinto. Nei villaggi di montagna e negli alpeggi, proprio perché era un materiale che si trovava sul luogo assieme alla pietra ed al legno, il “bianzin” era utilizzato, mescolato con acqua e sabbia, come legante delle pietre nelle costruzioni. Nei forni da pane esso è stato usato in diversi modi: per le sue caratteristiche refrattarie come sottofondo per la posa e sigillatura del piano di cottura e come legante impastato con sabbia, nella costruzione della volta in pietra. La sua funzione primaria è pero quella di riempimento isolante di spessore variabile cm 20/30, sopra la volta del forno per garantire la tenuta del calore e quindi la buona cottura del pane.

frazioni più abitate, senza interruzioni, essendo indispensabile che il forno non si raffreddasse. Gli uomini curavano il forno e si occupavano del suo riscaldamento, della cottura del pane e della preparazione dell’impasto, mentre le donne e le ragazze erano impegnate intorno al tavolo, con i bordi rialzati perché nella preparazione delle pagnotte la farina non si perdesse a terra. Le antiche tecniche per la

costruzione dei forni da pane, la ritualità con cui coralmente nei villaggi di montagna gli abitanti partecipavano alla preparazione, lievitazione dell’impasto e la sua lavorazione, con l’abilità del fornaio di capire la temperatura del forno affinché il pane, allora principalmente di segale, cuocesse in modo ottimale, indicano l’importanza e la sacralità di questo alimento che rappresentava allora la vita stessa.


ANNUARIO 2019

La lavorazione della canapa Di Gianni Molino

L

a canapa (cànva) rappresentava un tempo un elemento importante nell'economia della Valsesia e la sua coltivazione era largamente diffusa. Oggi la sua coltura è completamente scomparsa, ma le complicate fasi della sua lavorazione e le sue principali applicazioni meritano di essere ricordate. La canapa è una pianta dioica: ne esistono cioè una forma staminifera maschile (cànva) e una pistillifera femminile (canvùň). In alta Valgrande essa era seminata in aprile-maggio, avendo cura di deporre i semi fittamente, allo scopo di facilitare lo sviluppo di steli lunghi e sottili. La crescita era particolarmente favorita dal clima umido e dalla ventilazione relativamente modesta. Già a metà agosto, tradizionalmente attorno alla festa di San Rocco, si era soliti selezionare (cèrni) e raccogliere (argòji) il fusto staminifero, che a quell'epoca tende a ingiallire, per ricavarne la fibra tessile. A settembre era invece raccolto il fusto pistillifero, che matura solo in autunno, per raccoglierne i semi (canvóša), ma anche per trarne una fibra più grossolana. La lavorazione della fibra di canapa iniziava con l'essiccatura e la sfogliatura dei fusti mediante battitura. Legati in mannelli, i fusti venivano quindi posti a macerare in acqua in apposite fosse (bôri), assicurandone la completa immersione con grosse pietre. Dopo 2-3 settimane di macerazione i manelli venivano ritirati, lavati e posti ad asciugare all’aria nel loggiato (lòbbia) in posizione verticale. L'operazione successiva di stigliatura (stiê) consisteva nella separazione della fibra grezza, che veniva staccata dallo stelo spezzandone le estremità e scortecciandolo. Ne residuava un fusto legnoso cavo, biancastro e leggerissimo, il canapule (caniùň), che era in genere utilizzato, talvolta dopo averne intinto l'estremità nello zolfo (fiór ‘d sólfu), per attizzare il fuoco dalla brace residua del camino o per trasferire la fiamma alla lucerna (lümm), al sigaro (cigàla) o alla pipa (pìppa). La fibra grezza così prodotta era trattata al frantoio (pësta), sottoposta quindi a cardatura su pettini di forma caratteristica (scardàċċi o spinàiċ) e infine selezionata per

Resti di un bóru, maceratoio per la canapa, in Frazione Tetti (Campertogno).

gli usi più diversi in relazione alla finezza delle fibre. Le fibre grezze si raccoglievano in matasse grossolane, quelle stigliate e cardate in matasse accuratamente annodate (paniséll). Le fibre erano infine sottoposte a filatura, mentre quelle più grossolane erano usate direttamente per preparare cordami (còrdi) mediante ritorcitura, generalmente eseguita nella bassa valle, o per l’incordatura della

Attrezzi (scardàċċi o spinàiċ) usati per la cardatura della canapa

suola delle caratteristiche calzature locali (scapìň). Questa era fatta mediante cucitura a punto continuo con andamento parallelo al bordo (antralê) dei vari strati di tessuto della suola con una lunga gugliata (trâ) di fibre, usando un grosso ago (cuaréll) . La fibra grezza era anche usata per preparare i larghi spallacci (panòğği) delle gerle e di ogni attrezzo da spalla. La filatura delle fibre più fini veniva esegui-

ta con la conocchia (ròcca) e il fuso (füs), a braccio, o con la conocchia e il filatoio (filaréll) . La procedura era più o meno la stessa usata per filare la lana. La conocchia, nella sua forma più semplice, era un bastone diritto, di nocciolo o di salice, della lunghezza di circa un metro, scortecciato e talvolta decorato a fuoco o con disegni colorati: essa poteva essere offerta alle ragazze come pegno di amore. Veniva usata appoggiandola al fianco e fissandola al corpetto del costume con apposito fermaglio ad anello o semplicemente con un nastro . Alla sua estremità veniva fissato un grosso batuffolo (rucâ) di canapa cardata, dalla quale le fibre venivano tirate e filate con le dita della mano sinistra inumidite con saliva per ridurle a filo fine (fil) o più rustico (fil ‘d la cavàgña), quest’ultimo così chiamato perche lo si teneva in una cesta (cavàgña). Per facilitare la produzione di saliva si teneva in bocca una castagna secca (castìgña biànca). Nella filatura a braccio il filo era avvolto sul fuso prillato, cioè posto in movimento rotatorio con la mano destra. Quando invece si usava il filatoio il filo tratto dalla rucâ veniva avvolto su una bobina la cui rapida rotazione era determinata dal movimento della ruota dello strumento mossa a pedale. Il filo così prodotto era avvolto in matas-

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se (fišö) usando l'arcolaio (vìndu) e talora sbiancato a caldo sottoponendolo a bucato con cenere bianca (di legno dolce e non resinoso). Asciugato, il filo era avvolto a gomitolo (gamiséll) utilizzando l'aspo (àspu), per essere poi impiegato nella confezione del merletto caratteristico (punčëtt), dell'ordito del tipico panno locale (mèšalàna) o della tela (téila da cà), prodotta al telaio (télê) in pezza (pèssa o dràp) di varia larghezza e di circa 7 m di lunghezza. L'ordito della tela era preparato all'aperto, tra due pali, con fili di pari lunghezza: esso era quindi trasferito sul telaio, formato da una solida incastellatura di legno con licci sospesi azionati da

un sistema di corde, dal pettine, dai cilindri per l'avvolgimento di ordito e tela e dai pedali. La navetta di legno, caricata con la spoletta (spulëtta) preparata con appositi strumenti, veniva fatta scorrere dalla tessitrice tra i fili dell'ordito. Poiché la tela, anche se prodotta con filo sbiancato e lavata a sua volta con cenere, manteneva un colore giallastro, si provvedeva a un ulteriore rudimentale candeggio esponendola al sole, possibilmente sulla neve. Il trasporto delle pezze di tela meno larghe, caratteristicamente avvolte a rullo, avveniva mediante una gerla (ċivéra o carpiùň) o con una caratteristica portantina a

Strumento con il quale si caricavano di filo di canapa le spolette utilizzate poi nel telaio per la tessitura delle pezze di tela.

traliccio (càula); tutti questi strumenti per il trasporto a spalla erano provvisti di spallacci (panòğği) intessuti con canapa grezza. Le pezze di tela entravano tradizionalmente a far parte del corredo (dòtta o schèrpa) della sposa. Le pezze di minore larghezza erano conservate avvolte in rulli, legati con un nastrino colorato. Quando invece le pezze di tela erano più larghe esse erano conservate ripiegandole con cura . Con la tela venivano confezionati indumenti, quali camicie (camìši) e mutande (bràghi) e biancheria di uso domestico, come lenzuola (lansöi), tovaglie (tuàjji), tovaglioli (mantìň), federe (fudrëtti) e asciugamani (sügamàň). Di tela era anche il caratteristico copricapo che le consorelle delle confraternite indossavano in chiesa, esso pure chiamato tuàjja. La tela era considerata un bene prezioso, tanto che per antica tradizione i parenti dei defunti donavano 1/4 di pezza di tela (circa due metri di tessuto) ai vicini o parenti poveri ed ai bambini (capüċìň) che accompagnavano i funerali indossandola ripiegata a tracolla. Caratteristiche confezioni delle pezze di tela di canapa tessute sui telai locali.


ANNUARIO 2019

CURIOSITÀ Alcune persone anziane ricordavano che le foglie di canapa essiccate erano talvolta usate per confezionare sigarette, che pare avessero un effetto euforizzante. Per ulteriori dettagli sull’argomento si rinvia ai precedenti lavori [Molino 1985, Molino 2006].

Con il filo di canapa, previa tintura a colori vivaci, abili mani di donna (tarċulàtta) intrecciavano in Val Sermenza e in Valle Strona delle fettuccie multicolori (tarċòli) e con esso si confezionavano la piccola fettuccia (strupàll) usata per legare le trecce dell’acconciatura femminile. Quanto alla pianta pistillifera (canvùň), erroneamente ritenuta nella tradizione popolare la parte maschile, se ne ricavavano per battitura i frutti (canvôša). Questi erano utilizzati come granaglia per il pollame, da usare tuttavia con una certa parsimonia, in quanto si riteneva che in quantità eccessiva potessero disturbare (scaudê) gli animali, forse per la presenza di sostanze eccitanti. Come si è detto, la canvôša era anche usata per la preparazione, mediante maciullamento al frantoio (pesta) e spremitura al torchio (tòrču), di un olio (öliu 'd canvôša) abitualmente utilizzato per l’illuminazione. Era coltivato, sia pure in minore quantità, anche il lino (lìň), da cui si ricavava una fibra più pregiata di quella della canapa, che veniva usata nella preparazione di tele a trama fine.

PAROLE DIALETTALI USATE NEL TESTO antralē

incordare (la suola degli scapìň)

àrca

mobile tradizionale in cui si riponevano le pezze di tela

argòjji

raccogliere (le piante di canappa)

àspu

aspo, arcolaio a perno verticale per dipanare

bóru

maceratoio per la canapa

bràghi

mutande di tela; pantaloni di mèšalàna

camìša

camicia di tela

caniùň

canapule, fusto legnoso scortecciato

cànva

canapa

canvôša

seme della canapa

canvùň

pianta seminifera della canapa

capucìň

bambino che accompagna il funerale indossando a tracolla una pezza di tela di canapa ripiegata (tradizionale)

cass

sottoveste di panno scuro (mèšalàna) del costume femminile

casùň

cassapanca in cui si riponevano le pezze di tela

càula

trespolo di legno con perni di appoggio e spallacci usato per trasportare le pezze di tela sul prato a imbiancare al sole

cavàgña

cesta di vimini con manico usato per contenere il necessario per lavori di cucito tra cui il fil 'd la cavàgña

cèrni

ripulire le piante prima del raccolto

ċigàla

sigaro toscano (che si accendeva trasferendo la fiamma con il canapule)

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WOHNEN- WOONA - VOGNA Prodotti della lavorazione della fibra di canapa: a sinistra corde (còrdi) di varie dimensioni; a destra una matassa di fibra cardata (paniséll) e alcuni gomitoli di filo rustico (fil ‘d la cavàgña).

civéra

gerla tipica fatta di strisce di legno a fitto intreccio

cuaréll

ago a grossa cruna per antralê le suole degli scapìň con un fascetto di fibre di canapa (trâ)

drapp

pezza di tela che l'Opera Pia offriva tradizionalmente alle spose

fil 'd la cavàgña

filo di canapa rustico

fìl

filo

filaréll

filatoio

fiór ‘d sólfu

zolfo in polvere con cui si sporcava l'estremità del canapule per renderlo infiammabile

fisö

matassa grezza di fibre di canapa

füs

fuso di legno usato per filare

gamiséll

gomitolo

lansö

lenzuolo

lòbbia

loggiato tipico di legno nel quale si asciugavano i mannelli

lümm

lucerna alimentata con öliu 'd canvôša

mantìň

tovagliolo

mèšalàna

panno di lana tessuto localmente su ordito di canapa

öliu 'd canvôša

olio di semi di canapa, usato per illuminazione

paniséll

fascio di fibre pronte per essere lavorate

panòğğa

bretella di filo di canapa per gerla, spallaccio

pèssa

pezza di tela tessuta al telaio che in genere si conservava arrotolata

pësta

frantoio per la maciullatura delle fibre

pìppa

pipa

punčëtt

puncetto (tipica trina valsesiana)

ròcca

conocchia

rucâ

matassa grezza che si pone in cima alla ròcca per essere filata

scapìň

calzatura caratteristica di panno, con suola cucita fittamente con fascetti fibre di canapa (trài)

scardàċċi

(pl) strumenti per cardare (anche spinàiċ)

scaudē

scaldare, eccitare (si dice dell'effetto eccitante dei semi di canapa sul pollame)

spinàiċ

(pl) strumenti per cardare (anche scardàċċi)

stiê

stigliare, separara la fibra dal fusto della canapa

sugamàň

ascuganami

tarċòla

treccia o fettuccia di filo di canapa di vari colori

téila da cà

tela di canapa tessuta in casa

tèlê

telaio

tòrču

torchio

trâ

gugliata di fibre grezze usata per incordare la suola degli scapìň

tuàjia

tovaglia; velo chiesastico muliebre di tela usato dalle confraternite

vìndu

matassatrice a perno orizzontale con manovella

BIBLIOGRAFIA Tonetti F., Sulle condizioni agricole della Valsesia. Colleoni, Varallo (1884). Molino G., Campertogno. Vita, arte e tradizione di un paese di montagna e della sua gente. Edizioni EDA, Torino, 1985. Molino G., Campertogno. Storia e tradizioni di una comunità dell'alta Valsesia. Centro Studi Zeisciu, Magenta (2006).

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ANNUARIO 2019

RIVA VALDOBBIA

Il dialetto locale A cura di Roberta Locca

Pubblichiamo le lettere da G a I dell’importante “vocabolario” dell’Abate. La traduzione è letterale.

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WOHNEN- WOONA - VOGNA DIALETTO

TRADUZIONE

Gassa

occhiello

Gavia

ciottola

Govieu

zangola

Govei

tino del bucato

Gaviet

ciottola

Gerbio

immaturo. Anche pascolo incolto.

Gheddo

portamento

Geria

arnese simile ad una brenta con coperchio per trasportare latte

Garavella

giuntura dalla mano al braccio

Groppè

allacciare

Gropp

laccio, nodo

Garon

calcagno

Giavera, Giavazza, Giavaron, Giavaraa, Giaverè

valgono : linguacciuto, sproloquio, straparlare.

Giacc

Forse da agghiaccio luogo dove i pastori rinchiudevano il gregge per passarvi la notte.

Grabo

località

Garuff

vale cane

Ghero

localita di un prato in Selveglio

Grigheu

vale sciatto , dappoco

Gnoss

malinconico vedi Nec

Galupp

ghiottone

Greghè

governare le bovine

Gamiscel

gomitolo

Gionna

strobilo dei botanici

Giavina

trovo Glavina in atto del 1300, Giavina 1403

Galuria

ingordo, pacchione

Gisalba

diavolo sembra voca di gergo

Give'

versare

Ghiddo

melenso

Galeffro

impertinente,beffardo

Griccia

filza,fila, serie

Gambis

collare in legno, in ferro o cuoio in cui si appendono le squille delle bovine

Gebbio

cionno lento nel lavoro

Gabbio

greto

Gram

cattivo, ma anche magro.

Gilard

lucido

Grouviggio

Freddo che fa venire la pelle d'oca. Brivido

Ghenna

fame, gheutza

Goura

salice

Grivla

nome di un piccolo arbusto

Vacciunium vitis idaea

Garolla

ciottolo.

Dal tedesco Gerolle

Garbaccia

palmento

Garbuttè

dar spintoni

Gnaffro

infelice nelle fattezze

Ghespa

ciottola ampia in cui si lascia il latte perché si formi la panna

Gego

dappoco

Gioch

staggio su cui dormono le galline

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APPROFONDIMENTO

Pare tedesco

Frutto dei pini, larici

Dal tedesco Gram, vedi vocabolario Dantesco del Blanc.


ANNUARIO 2019

Gaggio Gabbè

lodare con un poco di adulazione.

Gabba

lode

Garbiebe

accapigliarsi

Gorner

località nel M.Rosa

Gnerro

brontolone, piagnuccolone.

Gorza

vale ghiottone dal francese gorge gola

Garei

località.

Giabba

eterno parlatore

Grampa'

manata

Gabbese lodarsi

Chi piange brontolando Tal nome esiste anche in altri paesi. In Riva applicato ad un alpe ed esteso ad una selva di abeti alquanto estesa e rivolta a Nord.

Gardion Gardeja, Gardion

trachea per metafora o meglio antonomasia

Gardeja

vale ghiottone, confondendo trachea con il tubo alimentare

Giuppon

corset dei francesi

Giobbia

giovedi dallo spagnolo

Garzen Garza

pelo fine che copre la pelle di vari animali in inverno

Garsa

puttana

Greva

sciopero dal francese

Greve'

aver malinconia

Griccia

serie,fila

Gorgolé

tubare dei fagiani

Gargotta

taverna

Impara'

disposto

Inguze'

adescare

Incasiese

radicarsi

dal francese Garce

Ingazi Inse'

dar l'assaggio ad una cosa ancora intatta

Inzighe'

stuzzicare, aizzare.

Inciavin

resina dell'abete

Invi'

mal volentieri.

Da invitus latino

Ingrosc

specie d'erba.

Imperatoria Ostruthium

Innogie'

rinfacciare

Inig

malcontento

Incalle'

ardire

Innighe'

dimostrarsi malcontento

Inserri

dicasi per chi con irritazione alla laringe stenta a parlare

Inserma'

bramoso

Inborzighe'

stuzzicare

Inponsi'

aizzare

Inaulo

malignita' nelle piaghe.

Inprimme'

prendere in prestito

Inverri

Fornicare.

Da Verres ?

Interpio

imbarazzo, chi e' d'impiccio.

sostantivo dal latino interpedio

Iam

letame

Incricche'

dar ad intendere

Inpaccie'

impedire

S'ag va dinte l'inaulo tno gai par 'n ponno. Se tende al maligno ne hai per un pezzo

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WOHNEN- WOONA - VOGNA

L’associazione ringrazia l’Unione Montana dei Comuni della Valsesia, il Comune di Alagna Valsesia, il Museo Etnografico di Rabernardo, Don Carlo Elgo e tutti quanti hanno sostenuto le nostre iniziative.

WOHNEN – WOONA – VOGNA. Annuale dell’Associazione Culturale Walser Riva ValdobAssociazione culturale

Walser Riva Valdobbia Valle Vogna

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bia - Valle Vogna. Anno 2019. A cura del Comitato Direttivo. Presidente: Attilio Ferla; Vice Presidente: Roberta Locca; Segretario: Guido Rossi. REALIZZAZIONE GRAFICA: NORDCAP STUDIO, Borgosesia - www.nordcapstudio.it



Associazione culturale

Walser Riva Valdobbia Valle Vogna

WOHNEN – WOONA – VOGNA. Annuale dell’Associazione Culturale Walser Riva Valdobbia - Valle Vogna. Anno 2019.


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