Quaderno di Strade Aperte n.9

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I.R.

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Presidente Nazionale MASCI A.E.Nazionale MASCI Segretario Nazionale MASCI Membro del World Committee Dirigente scout

gli autori di questo numero Riccardo Della Rocca

Università Cattolica del S.Cuore di Milano

Mauro Magatti

p. Francesco Compagnoni

Presidente V.I.S. volontariato internaz. per lo sviluppo

Nico Lotta

Alberto Albertini Vicepresidente Eccomi

Francesco De Falchi

Consigliere Nazionale e Adulta scout

Roberto e Annamaria Ursino

Virginia Bonasegale

Mario Sica Adulti Scout

Segretario internazionale Masci

Medico Cooperante e consorte

Adulti Scout

Sergio e Nuccia Zanini

Pedagogista

Clotilde Merlin

Segretaria Regionale Masci Calabria Consigliere Nazionale

Consigliere Nazionale

Marie Josè D’Alessandro

Presidente Associazione intern. per l’educaz. alla pace Senatrice della Repubblica

Francesco Marchetti

Claudio Bissi

Mauro Mellano

Segretario Regionale Masci Sicilia

Carmelo Casano

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Bruno Ficili

Cristina De Luca

Liliana Toscani

Paolo Linati

Segretario Regionale Masci Piemonte

Avvocato del Foro nuorese

Gianfranco Sica

Cristina Maccone

Adulta scout Adulto Scout

Nicola Laporta e Anna Corradini Chiara e Valentina Cardazzo

Presidente Eccomi Adulta Scout

Anna e Ciro Cirillo

Franco Vecchiocattivi

Vice presidente Adulti Scout Austriaci

George Staffella

Consigliere Nazionale

Nuccio Costantino

Direttore Fondazione Brownsea

Antonio Labate

Consigliere Nazionale

Lilli Mustaro

Responsabile Internet e NT. MASCI

Giuliana Accollettati

Stefano Mannironi

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SOMMARIO

PREMESSA

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STAZIONE CURIOSITA’

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LA WORLD CONFERENCE: DALLE RADICI MONDIALI DELLO SCOUTISMO ALLA

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WORLD CONFERENCE - Virginia Buonasegale • •

la semina: testimonianze di una settimana di mondialità

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fraternità internazionale dello scautismo e del guidismo - Mario Sica

16

le News della W. Conference con le determinazioni

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e le risoluzioni - Franco Vecchiocattivi •

A margine della Conferenza Mondiale

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di Como - Sergio e Nuccia Zanini

STAZIONE SPIRITUALITA’

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DI CHE COLORE È LA PELLE DI DIO

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Riflessione sull’immigrazione - gli AS della Calabria

27

Accoglienza - Riccardo Della Rocca

29

E’ di nuovo mattino: partire per camminare sulle creste - Clotilde Merlin

35

Una testimonianza - Cristina Maccone

37

Partire è un po’ morire … - M. Josè D’Alessandro

39

I colori della pelle - Francesco Marchetti

43

La Rupe del Consiglio: esperienze di adesione alla legge - P. Linati, C.

45

Bissi, M. Mellano, C. Casano

STAZIONE CONSAPEVOLEZZA

49

LA GLOBALIZZAZIONE: l’economia della finanza ha soppiantato

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l’economia del lavoro. “ - padre Francesco Compagnoni •

Le resistenze alla globalizzazione - Stefano Mannironi:

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SOMMARIO 1. economiche: la filiera corta, economia di autoconsumo, commercio equo e solidale, agricoltura biologica; 2. politiche: principio di autodeterminazione; 3. culturali: dalla MULTICULTURALITA’ alla INTERCULTURALITA’. Senso di appartenenza e di identità. Per la condivisione dei valori umani.

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La necessità del cambiamento - Mauro Magatti

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I DIRITTI: conoscerli per agire - Nico Lotta

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STAZIONE PRATICA

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SEMI di NOVITA’ 1. per sostenere le FRAGILITA’ 2. per rimuovere le BARRIERE 3. per cambiare le PROSPETTIVE •

in giro per l’Italia: esperienze di solidarietà e cooperazione

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1. Saharawi - Comunità Agape di Termini Imerese (PA);

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2. Burundi - Francesco De Falchi;

79

3. Albania - Comunità di Triggiano;

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4. Mondialità - Paolo Linati;

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5. Il Bene comune - Roberto e Annamaria Ursino;

89

6. Togo - Anna e Ciro Cirillo. •

dall’Italia al mondo:

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1. Progetto di Cooperazione - Francesco De Falchi;

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2. Centro Allamano - Nicola La Porta; Anna Corradini;

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3. In ricordo di Pierangelo Cardazzo;

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4. Esperienze di solidarietà internazionali - Gianfranco Sica.

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SOMMARIO

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EDUCAZIONE ALLA PACE Educazione alla pace - M. Mellano

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La pace nella famiglia, nella società, tra le nazioni - B. Ficili

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• •

Costruire insieme delle alternative nella legalità:

1. Se vuoi la pace, prepara la pace - Cristina De Luca

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2. La mia piccola storia - Lamiaa Zilaf

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ESPERIENZE di MONDIALITA’ nei luoghi del mondo 1. la lampada della pace - Liliana Toscani

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2. Alpe Adria Scout- Georg Strafella (coordinatore Alpe

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Adria) 3. Scautismo e mondialità - Nuccio Costantino

125

4. Esperienza degli scout in Burkina Faso - Nuccio Co-

127

stantino, Alberto Albertini 5. Kenia - Antonio Labate

130

6. Lourdes - Lilli Mustaro

133

APPENDICE Vademecum per un viaggio nei Paesi del Sud del Mondo - Giuliana

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Accollettati I Progetti in corso

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premessa

PREMESSA Commissione Denti

Di che colore è la pelle di Dio? … del colore che noi uomini e donne di ”buona volontà” possiamo e vogliamo dargli quando ci rifiutiamo di ”praticare e diffondere la cultura dell’accoglienza” (cfr. Patto Comunitario 8.3.1). L’articolo 8 del Patto Comunitario ai punti 3.1/ 3.2/ 3.3 sottolinea con vigore che gli A.S. credono fermamente nella ”fraternità di tutti gli uomini in quanto figli di un unico Padre”. Dio Padre che è bontà, amore, misericordia per tutti gli uomini, senza frontiere di colore, perché a sua immagine e somiglianza siamo stati creati (Genesi 2,26), non può avere un colore definito perché il tempo, lo spazio, il colore sono dimensioni fisiche, umane che non Gli appartengono. Tutti siamo uguali davanti a Lui, tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri per condividere gioie e pene; per coloro che lo temono e lo amano non ci può essere differenza di colore. Dio non si dimentica di nessun uomo. Egli ci chiede di impegnarci seriamente per dimostrare che siamo portatori di una speranza grande e vitale: quella di vivere secondo il suo esempio. Solo così possiamo affermare la nostra identità e la nostra appartenenza : il cristiano non è un fallito se incarna e persegue l’esempio di Cristo. Il nostro grande obiettivo, la nuova prospettiva è quella di essere”uomini e donne”che si rinnovano, che hanno un percorso chiaro e definito dentro il Progetto di Dio. Questa è la grande dignità di ogni persona: siamo dentro il Suo progetto, come fratelli che si amano, secondo il destino di pace e di luce che Egli ha previsto per noi. Sulla spiaggia, in un’assolata mattina di mare, mi si è ”fatto prossimo” un pakistano che vendeva collane e bracciali colorati e luminescenti. Bello vedere la sua merce ma più bello ascoltarlo per scoprire ed apprezzare la sua saggezza: ”Dio conosce i miei bisogni... ma conosce anche i vostri” e con queste parole ha ricomposto anni di disuguaglianze e di soprusi: siamo miseramente uguali davanti a Dio, siamo fratelli ugualmente bisognosi di Lui. Ed allora la MONDIALITA’ oggi si presenta su un ventaglio concettuale amplissimo con implicazioni interdisciplinari che ci permettono approcci diversi e, peraltro, tutti molto significativi.

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premessa

Ho iniziato a studiare la geografia dei paesi extra europei circa 40 anni fa; ecco la trasformazione della loro definizione: paesi sottosviluppati, paesi in via di sviluppo, paesi del terzo mondo, sud del mondo. E’ cambiato l’approccio, la terminologia ma, ahimè, l’icona ricorrente nella realtà di questi paesi è: ”in marcia verso la morte nel deserto”. I media parlano sempre di EMERGENZA che richiama concettualmente l’improvviso avvenire di qualcosa di inaspettato,ma il sottotitolo è lapidario: ”la morte per fame e le nostre colpe”. E’ necessaria una riflessione che metta al centro l’uomo e le responsabilità del Nord del mondo. Il 9 novembre del 2010 Toni Cecchini, segretario internazionale, si congedava,al termine della riunione della Pattuglia internazionale, tenutasi presso ”La Principina” in concomitanza con l’ Assemblea Nazionale, con le seguenti parole: “lo scautismo italiano, laicamente oltre che cristianamente, ha capito che le questioni del mondo costituiscono una scelta fondamentale della sua proposta educativa, scelta che si articola su tre distinti filoni. La fraternità internazionale dello scautismo e del guidismo è il filone di partenza: l’idea di B.P. della grande ”marmellata” di ragazzi, fatta propria dallo scautismo adulto che si riconosce nell’ISGF, costituisce il seme che ha dato origine al secondo filone, quello dell’educazione alla mondialità, alla pace, alla solidarietà tra i popoli. Per noi adulti è determinante conoscere prima di agire, prima di portare aiuto a chi è nel bisogno, prima di entrare nel terzo filone, quello della cooperazione internazionale.” E l’assemblea ha richiesto una maggiore incisività nella”nostra apertura al mondo”per sollecitare tutte le comunità ad una azione più efficace, con progetti organici e articolati. E’ stata sottolineata la necessità di affrontare la questione dei Rapporti interculturali, interreligiosi, interetnici per realizzare una vera accoglienza ed integrazione dell’altro. L’Assemblea Nazionale di Principina ha dato al Consiglio Nazionale un preciso mandato: quello di fornire alle Comunità, agli A.S. e a tutti gli adulti attenti e sensibili nei confronti della nostra esperienza, delle TRACCE che indichino un percorso lungo il quale camminare per acquistare nuove consapevolezze, consolidare quelle già possedute e utilizzare al meglio le ”risorse” accumulate negli anni precedenti. Il percorso è segnato da quattro ”stazioni” che vogliono sottolineare i diversi atteggiamenti che si possono assumere nei confronti delle persone che incontriamo….

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stazione curiosità

STAZIONE CURIOSITA’

Francesca è una donna che ha scoperto sé stessa e gli altri… in “12 anni di lunghi viaggi per cercare le costanti dell’essere umano attraverso le sue differenze. Cosa ho trovato? Nessuna risposta definitiva ma milioni di sguardi in cui riconoscermi. Come solo questo? Cos’altro? Troppo! Posso solo cercare di fare ordine in quegli anni fermando le mie esperienze in stazioni immaginarie...4 fasi di ricerca, ognuna della durata di 3 anni. I binari, lo suggerisce la parola, rappresentano l’incontro di due mondi, su un treno senza direzione dove non conta la meta ma il viaggio.

Stazione curiosità - età 16 / 19 anni - direzione Europa e Messico. Sono curiosa e decido di viaggiare. Osservo in modo piuttosto superficiale, quasi da turista, ma mi diverto moltissimo e incontro persone simili a me...viaggiatori. Sono sorpresa per la diversità dei luoghi e degli usi e costumi delle culture che mi ospitano“.

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LA WORLD CONFERENCE

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LA WORLD CONFERENCE Virginia Bonasegale

Abbiamo ritenuto opportuno iniziare il Quaderno dalla World Conference di Como che è stata una formidabile APERTURA al MONDO, con 600 persone, provenienti da 51 paesi aderenti all’ISGF, accomunate dall’Amicizia Internazionale che ha come presupposti imprescindibili gli ideali scout. I due messaggi riportati di seguito sono la testimonianza dell’entusiasmo e della riconoscenza degli A.S. stranieri che hanno evidentemente vissuto a Como un’esperienza indimenticabile per il calore dell’accoglienza e per lo spessore culturale che ha fortemente connotato tutte le attività. Caro Riccardo e Virginia, Caro Stefano Coronese, buona strada Cari Guides e Scouts, Sempre rigraziamento a per tutto! Pietà, grazia, benedizione, pace! Amore per Natale, Buon Capo d’ Anno! Felicita, beneficio, Rispetto ed Ammirazione! Scout – amiche Onore a voi per ogni momento che avete preparato e a cui avete partecipato e per ciascuno Carol, Anne, Fauzia, Riccardo,Virginia e Brett per la grande decisione e lavoro. Non posso dimenticare gli aiutanti della cucina, italiani e di altre nationi. Portiamo con noi le linee portanti e le idee intelligenti. Congratulazioni, è stato il top nel 2011 questa World Conference ISGF - AISG. Scritto da András Dezső Somogyi rappresentante dell’ Ungheria

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virginia bonasegale DALLE RADICI MONDIALI DELLO SCAUTISMO ALLA WORLD CONFERENCE DEL 2011 “Il movimento scout è una fratellanza mondiale. Diventando Scout ti unisci ad una grande moltitudine di ragazzi appartenenti a molte nazionalità ed avrai amici in ogni continente. Ciò avrà un effetto vitale e di lunga portata in tutto il mondo per la causa della pace”. (Baden Powell)

In un clima gioioso, in un ambiente magico ed unico, con uno stile sobrio, essenziale ma curato nei dettagli, certamente scout, i rappresentanti di 46 paesi di tutti i continenti, per un’intera settimana, hanno vissuto un’esperienza ricca di emozioni, di incontri, di scambio di esperienze e di cultura.

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IL MONDO IN CASA E’ veramente bello e significativo che il quaderno sulla mondialità inizi dalla Conferenza Mondiale di Como del 2011. In un clima gioioso, in un ambiente magico ed unico, con uno stile sobrio, essenziale ma curato nei dettagli, certamente scout, i rappresentanti di 46 paesi di tutti i continenti, per un’intera settimana, hanno vissuto un’esperienza ricca di emozioni, di incontri, di scambio di esperienze e di cultura. E’ l’occasione di incontro che l’ISGF, l’Amicizia Internazionale nata nel 1953, ci propone ogni tre anni, è un’esperienza di mondialità che resterà l’unica per molti italiani presenti a Como. A dire il vero, nel MASCI l’aspetto ”internazionale” è stato poco considerato fino a qualche anno fa, almeno fino a quando, nel 2005, Riccardo Della Rocca è diventato Presidente dell’ISGF e Mario Sica è stato eletto membro del Comitato Mondiale nei sei anni successivi. Già nel 1996 la Conferenza Mondiale di Montegrotto aveva coinvolto tutte le regioni d’Italia in un clima vivace e festoso e dalla sigla dell’Amicizia internazionale scompare la parola ”former” (ex scout, antico, vecchio) e diventa ISGF, International Scout and GuideFellowship, an Organization for adults, una scelta molto importante per il Movimento. I partecipanti agli incontri internazionali sono sempre stati pochi, per i costi elevati, per la scarsa conoscenza delle lingue straniere e per la sottovalutazione della straordinaria esperienza che può derivare dal rapporto di amicizia e di collaborazione con tantissimi paesi di tutti i continenti, al di là dell’aspetto turistico legato alle conferenze che si svolgono in Europa e nel mondo. Dopo Montegrotto, gli incontri di Acireale, Vienna, Tavira, e Cipro hanno visto l’adesione di un numero significativo di adulti scout del MASCI, grazie anche ai Segretari Internazionali che hanno saputo mantenere costanti rapporti con il Comitato Mondiale e con l’ufficio di Bruxelles e coinvolgere il consiglio nazionale e le comunità, attraverso la nostra stampa. Nel 2009 prende corpo l’idea o meglio ”la voglia” di organizzare in Italia la Conferenza Mondiale: Riccardo mette gli occhi sulla Lombardia e, trascinati da Bruno Magatti, su Como. Certo, a Como c’erano molte situazioni favorevoli ma anche evidenti difficoltà organizzative, come l’inesistenza di un grande albergo – a costi sostenibili – in grado di ospitare 450/500 persone o l’utilizzo di una Villa prestigiosa, con molti vincoli e divieti.

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LA WORLD CONFERENCE Ma si sa, quando scatta una sana follia, tutto diventa possibile e a Vienna, l’Italia, unica a candidarsi, si aggiudica la World Conference del 2011. Per tre anni la squadra ha lavorato sodo per un’impresa difficile, condividendo tutte le scelte, anche le più audaci e rischiose. Insieme abbiamo coltivato il progetto di proporre alle Amicizie di tutto il mondo una settimana scout, veramente scout, sfoderando le nostre risorse creative, organizzative ed economiche per far vivere alle sorelle ed ai fratelli provenienti dai diversi paesi un’esperienza indimenticabile ed assolutamente diversa rispetto a quelle vissute di solito nei grandi alberghi. L’entusiasmo non è mai mancato e gli inconvenienti sono stati affrontati con calma, uno per volta. Dovevamo assolutamente arrivare ad almeno 400 partecipanti e siamo arrivati quasi a 500. Purtroppo ci sono stati problemi per l’ottenimento del visto d’ingresso da parte di alcuni amici dei paesi dell’Africa e dell’area Asia-pacifica ma molti ce l’hanno fatta. Che dire poi del contesto fantastico di Villa Olmo, nel quale si sono svolti i lavori e tutte le attività serali? L’incanto del lago, poi, e di un cielo costantemente blu, ci hanno stregato e per una settimana abbiamo vissuto più che in un campo scout, con tanto di portale ed alzabandiera, in un angolo di paradiso. Il programma, curato nei dettagli, è stato ricchissimo di attività. Oltre ai lavori della Conferenza, l’organizzazione ha offerto ai presenti cerimonie e serate molto coinvolgenti ed apprezzate, grazie ad un lavoro strepitoso delle comunità lombarde, in particolare di quella di Como. Il tema proposto dall’Italia e condiviso dal Comitato mondiale è stato quello dei BENI COMUNI: terra, aria ed acqua. La città intera è stata contagiata dallo scautismo, anche i giovani dell’Agesci hanno Collaborato gioiosamente al nostro fianco ed abbiamo catturato l’attenzione della stampa locale e nazionale. Dopo diversi mesi, resta vivissimo il ricordo della settimana trascorsa in riva al lago di Como, delle fatiche e delle emozioni, certi di aver fatto del proprio meglio: sicuramente le persone e le comunità che hanno lavorato per la Conference si porteranno nel cuore un’esperienza straordinaria, arricchita dall’incontro con tanti nuovi amici e fratelli scout. E arriviamo al cuore di questa riflessione sulla fratellanza scout. “Fratello” è una parola usata molto spesso con superficialità. La fratellanza si può esprimere con una bella danza di gruppo, con il folklore dei costumi colorati, con la condivisione dei dolcetti del proprio paese ma certamente tutto ciò non basta, sarebbe troppo semplice, bisogna andare oltre. La Conferenza Mondiale ci ha dimostrato che è fondamentale l’incontro, l’ascolto, la conoscenza. Le diversità di colore della pelle, del modo di vestire, di mangiare, di parlare, di pregare, creano inevitabili barriere. Ma noi abbiamo un vantaggio straordinario, quello di condividere un complesso di valori e di elementi di vita che derivano dalla promessa scout e che dovrebbero aiutarci ad eliminare tante perplessità e pregiudizi, a porci sullo stesso piano, alla pari, a lavorare insieme

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virginia bonasegale anziché giudicare e dare consigli”perchè noi sappiamo come fare”.

Le diversità di colore della pelle, del modo di vestire, di mangiare, di parlare, di pregare, creano inevitabili barriere. Ma noi abbiamo un vantaggio straordinario, quello di condividere un complesso di valori e di elementi di vita che derivano dalla promessa scout e che dovrebbero aiutarci ad eliminare tante perplessità e pregiudizi, a porci sullo stesso piano, alla pari, a lavorare insieme anziché giudicare e dare consigli “perchè noi sappiamo come fare”.

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Punti di forza dei paesi membri dell’ISGF possono essere quelli di: a) sostenere interventi concreti per supportare i fratelli dei paesi in difficoltà, promuovendo l’autosviluppo nelle comunità in cui operano, attraverso la condivisione dei bisogni interventi; b) operare per sensibilizzare giovani ed adulti sulle tematiche dei paesi in via di sviluppo; proporre una cooperazione internazionale non assistenziale, basata sul c) rispetto reciproco d) e sul coinvolgimento delle comunità locali, con l’obiettivo di condurle ad una gestione e) autonoma delle attività realizzate; favorire e partecipare a progetti di gemellaggio tra comunità locali o f) Amicizie nazionali. Nelle nostre Conferenze Mondiali si dedica molto spazio a questioni formali statuti, regolamenti, bilanci) e poco alle attività di collaborazione e di formazione. Alla domanda: cosa fate? dovremmo poter rispondere con esperienze concrete di solidarietà. A Como ho colto in molti fratelli il desiderio di farsi conoscere per richiamare l’attenzione del mondo su di loro: molti ci hanno invitato ad andare nei loro paesi per capire meglio la loro situazione e per pensare insieme ad iniziative utili per affrontare i loro immensi problemi, anche con piccoli progetti, purchè condivisi. Probabilmente ha senso parlare di Movimento Internazionale nella misura in cui riusciamo a creare una rete di solidarietà fra tutti i paesi membri dell’ISGF; non può essere sufficiente raccogliere le quote ed inviare i rapporti annuali : occorre fare il salto di qualità per promuovere progetti di cooperazione allo sviluppo, per cercare di ridurre le abissali differenze sociali, economiche e culturali esistenti tra i paesi del nostro pianeta. E’ vero, noi siamo una goccia nel mare dello scautismo ma, come adulti, possiamo coinvolgere anche i giovani e dalla goccia arrivare all’oceano… Solo così potremo, insieme, cercare di mettere in pratica i principi enunciati dalla Costituzione dell’ISGF: a) rispettare la vita ed i diritti umani; b) contribuire alla comprensione internazionale, in particolare tramite l’amicizia, la tolleranza ed il rispetto per gli altri; c) cooperare per la giustizia e la pace al fine di creare un mondo migliore.

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La semina

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LA SEMINA testimonianze di una settimana di Mondialità

L’importante è seminare Semina semina: l’importante è seminare -poco, molto, tuttoil grano della speranza. Semina il tuo sorriso perché splenda intorno a te. Semina le tue energie per affrontare le battaglie della vita. Semina il tuo coraggio per risollevare quello altrui. Semina il tuo entusiasmo, la tua fede, il tuo amore. Semina le più piccole cose, i nonnulla. Semina e abbi fiducia: ogni chicco arricchirà.

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La semina

I beni comuni appartengono a tutti e ognuno, specie nelle società più avanzate, deve rivedere il proprio stile di vita e noi A.S. dobbiamo avere una sensibilità maggiore nell’amore verso il creato e nell’attenzione ai bisogni dell’altro. Tanti sono stati i momenti belli…ogni avvenimento ha lasciato una traccia profonda nel cuore di tutti noi E poi… essere fermati in albergo, per strada, sugli autobus da tante persone curiose di sapere chi fossero questi” turisti particolari” con al collo il fazzolettone, rinnovava nelle nostre risposte la gioia di appartenere alla grande famiglia degli scout di tutti i paesi del mondo senza distinzione alcuna. E’ stato molto interessante l’aver partecipato agli incontri internazionali, dai quali ogni A.S. dovrebbe tornare nel proprio paese con l’impegno di costruire un mondo più giusto e migliore Ritornare a casa con un rinnovato impegno a vivere lo scautismo adulto da cittadini attivi e responsabili. Uscivamo dalla sala abbacinati dalla luce che si rifletteva sul lago, con gli occhi pieni dei colori dei fiori che coprivano le aiuole dell’immenso giardino e la meraviglia per gli incontri con fratelli che provenivano da luoghi lontani, luoghi e culture stampati sui volti che si riconoscevano fra loro nella fratellanza dello scoutismo. Forte era il desiderio di conoscere la provenienza di questi nostri fratelli, le loro usanze, il modo in cui nel loro paese vivono lo scoutismo Ci si ritrovava la sera a tavola meravigliati ed ammirati davanti ai colori e alla bellezza dei costumi tradizionali che parecchi partecipanti esibivano. In queste giornate è aumentato in noi il senso di appartenenza ad un movimento internazionale… dal quale abbiamo riportato nelle nostre comunità la necessità di essere sensibili verso in impegno collettivo. Veramente a Como ci siamo sentiti fratelli di tutti gli scout del mondo.

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Alla Word Conference di Como è stata rilanciata un’idea di cittadinanza che è innanzitutto scambio e confronto tra mondi e culture, approfondimento di valori condivisi, negoziazione, riscrittura di nuove regole, senso condiviso di responsabilità. Idea e pratica di cittadinanza globale nata dalla partecipazione di tutti, che si realizza, a partire dalla condivisione di valori. La Word Conference aperta alle molteplici realtà etniche nella direzione della condivisione, della conoscenza, del riconoscimento delle pari dignità, della valorizzazione delle diversità apportate da molteplici gruppi, minoranze, culture e religioni In questa prospettiva, la diversità non è più interpretata come mancanza e colpa, nei confronti del modello sociale dominante, come sovente accade, ma come risorsa positiva che attinge dalla conoscenza e dalla condivisione di valori. per favorire l’inserimento del singolo individuo nel proprio e nell’altrui contesto. A Como sono diventato amico di Andras Somogjj il nostro fratello ungherese tanto amante dei canti, delle preghiere e delle poesie, che ho aiutato per quanto possibile, a tradurre in italiano e da lui lette al termine delle lodi mattutine a Cavriago dove abbiamo pernottato. Ho raccontato di mie esperienze di vita, di lavoro e di scautismo adulto. Sono la traduzione concreta del mio impegno ad osservare la Legge scout. C’è un canto che sempre mi piace cantare in vari incontri tra noi: “Di più saremo insieme, insieme, insieme, di più saremo insieme più gioia sarà”. Sì la gioia dell’incontro sincero con i fratelli e le sorelle di tutto il mondo allarga le nostre visioni miopi del nostro particolare, abbatte tutte le frontiere (le più difficili sono legate ai pregiudizi), realizza pienamente l’intuizione del nostro fondatore di una movimento mondiale di pace e fraternità, capace di superare ogni diversità, da considerare solo ricchezza e non irrisolvibile impaccio. La World Conference è stata un importante appuntamento che ha creato in ciascuno di noi un senso di appartenenza ad una famiglia estesissima com’è quella dello scautismo ed ha suscitato al tempo stesso il legittimo orgoglio di farne parte. Di che colore è la pelle di Dio

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La World Conference è stata un importante appuntamento che ha creato in ciascuno di noi un senso di appartenenza ad una famiglia estesissima com’è quella dello scautismo ed ha suscitato al tempo stesso il legittimo orgoglio di farne parte.

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FRATERNITÀ INTERNAZIONALE DELLO SCAUTISMO E DEL GUIDISMO MARIO SICA

La mia prima esperienza internazionale scout fu in Inghilterra, a un campo internazionale di squadriglie nel 1955. Ad un certo punto, in una cerimonia era prevista la recita del Padre nostro, di cui ci venne dato un testo inglese da leggere. Ma ad un tratto saltò fuori un sacerdote cattolico inglese il quale disse, a noi cattolici, che le parole finali del Padre nostro anglicano (“perché Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli”) non erano previste, nel testo cattolico della preghiera, e che quindi eravamo tenuti a fare un passo indietro dal cerchio e rimanere in silenzio. Il che disciplinatamente facemmo. Ancora oggi mi dolgo di non essere stato obiettore di coscienza. A parte il fatto che quelle parole finali erano perfettamente accettabili dai cattolici, tanto vero che oggi figurano nel canone della Messa (sia pure non nel Padre nostro), quello che più mi fece male fu il passo indietro dal cerchio e il non pregare insieme con i fratelli scout di altre confessioni. Dietro l’episodio c’era, naturalmente, la conflittualità, specie a quel tempo, dei cattolici inglesi con gli anglicani. Ma a me l’aspetto religioso interessava poco: mi doleva soprattutto il vulnus inferto alla fraternità internazionale dello scautismo. Facevamo tutto insieme con gli altri: cucinavamo insieme, giocavamo insieme, visitavamo Londra e l’Inghilterra insieme, cantavamo insieme nei bivacchi: perché ci era proibito pregare insieme? Più tardi avrei appresi che la fraternità internazionale era stata una dimensione sofferta, nella storia del Movimento, e quindi una vera e propria conquista. Si legge in certi libri di storia che Baden-Powell – B-P per noi – fondò nel 1907 il Movimento scout mondiale. Non è proprio così. Nel 1907 B-P sperimentò, in un campo nell’isola di Brownsea, solo un programma educativo per i ragazzi, che espose l’anno successivo in un manuale, Scouting for Boys. Poi tra il 1908 e il 1909 organizzò un’associazione per i ragazzi inglesi, in Inghilterra e in tutte le altre parti dell’Impero britannico. Non era presente, nella prima edizione di Scouting for Boys, l’idea della fraternità internazionale. Anzi, c’era quella, antitetica, della superiorità

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Fraternità internazionale dello scautismo e del guidismo britannica. E non c’erano, a Brownsea, ragazzi stranieri. Ben presto, tuttavia, il pensiero di B-P sterzò nettamente in senso internazionalista e, dopo la prima guerra mondiale, addirittura pacifista. Due fatti determinarono questa evoluzione. Anzitutto, lo sviluppo spontaneo dello scautismo in molti altri paesi, oltre a quelli dell’Impero britannico. B-P, che non aveva fatto alcuna propaganda al suo metodo all’estero, fu colto di sorpresa, ma subito ne afferrò l’elemento positivo. Il secondo fattore di evoluzione fu lo stesso conflitto mondiale. B-P partecipò pienamente, coi suoi scout, allo sforzo patriottico. Ma alcuni mesi che passò sul fronte delle Fiandre lo impressionarono profondamente. Dopo la guerra, la sua condanna del brutale massacro fu netta, senza appello. Già in piena guerra, nel 1916, egli propose di organizzare un raduno internazionale per far conoscere lo scautismo, ma anche per “promuovere lo spirito di fraternità nelle giovani generazioni in tutto il mondo, dandogli quindi lo spirito che è necessario per fare della Società delle Nazioni una forza vitale”. Non, quindi, un raduno per celebrare la vittoria dell’Impero inglese o dell’Intesa, ma un raduno di fraternità mondiale, esteso non solo ai ragazzi dei Paesi neutrali, ma persino a quelli dei Paesi nemici. Il prolungarsi della guerra impose il rinvio al 1920 del raduno, cui B-P intanto aveva dato il nome di Jamboree, riecheggiante la parola jam: un’allegra marmellata di ragazzi di tutti i Paesi. Nel luglio del 1920 a Londra, nell’arena di Olympia, 8000 Scouts di ventuno Paesi, oltre ai Dominions britannici, ascoltarono la parola del neo-acclamato Capo Scout del Mondo:

Fratelli scout, vi chiedo di fare una scelta solenne. Esistono fra i vari popoli del mondo differenze di idee e di sentimento, così come ne esistono nella lingua e nell’aspetto fisico. La guerra ci ha insegnato che se una nazione cerca di imporre la sua egoistica volontà alle altre, è fatale che ne seguano crudeli reazioni. Il jamboree ci ha invece insegnato che se facciamo prova di mutua tolleranza e siamo aperti allo scambio reciproco, la simpatia e l’armonia sprizzano naturalmente. Se voi lo volete, partiamo di qui con la ferma decisione di voler sviluppare questa solidarietà in noi stessi e tra i nostri ragazzi, attraverso lo spirito mondiale della fraternità scout, così da poter contribuire allo sviluppo della pace e della felicità nel mondo e della buona volontà tra gli uomini. Fratelli scout, rispondetemi: volete unirvi in questo sforzo?

In poche righe, B-P ha delineato un messaggio profetico: “se una nazione cerca di imporre la sua volontà alle altre, una reazione crudele è inevitabile”; una profezia purtroppo avveratasi molte volte da allora, fino a tempi recentissimi. Ma soprattutto ha posto una chiara antitesi tra la guerra e il jamboree. Dunque il jamboree è il contrario della guerra, è il simbolo e lo strumento della pace. Dopo questo discorso, noto nella storia dello scautismo come “la sfida di

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Mario sica Olympia”, il suo messaggio di pace e di fraternità mondiale ritornò ancora ripetutamente, e con particolare efficacia nei jamboree, i grandi raduni di scout di tutti i Paesi, che lo videro presente fino al 1937. In quegli anni cambiò anche il testo dell’art. 4 della Legge scout. Inizialmente era: “Un Esploratore è amico di tutti e fratello di ogni altro Esploratore, quale che sia la classe sociale cui l’altro appartiene”. Ora si disse: “quale che sia il Paese, la classe sociale o la religione cui l’altro appartiene”. Lo scautismo si era allargato ai confini del mondo. Il messaggio internazionalista di B-P non cancella del tutto il patriottismo nazionale: si fonda anzi su di esso, ma al tempo stesso lo supera. L’ideale scout è di “un patriottismo più ampio e più nobile, che riconosca la giustizia e la ragionevolezza delle richieste altrui e porti la nostra nazione al riconoscimento degli altri popoli del mondo ed alla fraternità con essi”. Fin dall’inizio B-P non considerò il pullulare di associazioni scout in tutti i principali paesi come una simpatica coincidenza o come l’emergere parallelo di un’istituzione socialmente utile, come p.es. i pompieri (tutti i paesi li hanno, ma non c’è una fratellanza internazionale dei pompieri). Al contrario, fin dall’inizio B-P colse la portata educativa di questo sviluppo spontaneo: egli si rese conto che era possibile lanciare l’ideale del “cittadino del mondo “proprio sulla base dell’esistenza del Movimento nei vari paesi e, quindi, di una fraternità mondiale degli scout. La fraternità mondiale rimane una dimensione fondamentale dello scautismo e del guidismo. Le varie distinzioni rimangono, continuano ad esistere, ma vengono accantonate dallo spirito scout:

Lo scautismo combatte il pregiudizio che considera “gli altri” come non solo estranei o forestieri o stranieri, ma “strani e buffi”, e quindi, con facile passaggio, “barbari” e, in potenza o in atto, nemici.

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Lo scautismo è una fratellanza: cioè un Movimento che non fa alcun caso, in concreto, di differenze di classe, religione, nazionalità o razza, per lo spirito indefinibile che lo pervade, lo spirito del gentiluomo di Dio. La fraternità scout è quindi il riconoscimento della relatività di ogni modo di essere uomini, di ogni cultura, di ogni religione; è il superamento, in nome dell’attenzione all’altro, della tentazione di assimilarlo; è, soprattutto, l’accettazione del diverso nazionale. Lo scautismo combatte il pregiudizio che considera “gli altri” come non solo estranei o forestieri o stranieri, ma “strani e buffi”, e quindi, con facile passaggio, “barbari” e, in potenza o in atto, nemici. La visione di B-P dello scout “cittadino del mondo” era certamente in anticipo sui suoi tempi, come pure lo era la sua visione del Movimento scout e delle guide come fraternità mondiale, capace di superare patriottismi nazionali e di preparare un avvenire di pace. Occorre pensare agli anni in cui B-P diffondeva questo messaggio: sono quelli che vanno dal 1920 a1 1937 - dal jamboree di Olympia a quello di Voge-

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Fraternità internazionale dello scautismo e del guidismo lenzang - nei quali in quasi tutta l’Europa si afferma il fascismo, seguito dal nazismo, dal franchismo e dai nazionalismi più sfrenati (p. es. nei Balcani). Non solo andava di moda la glorificazione della propria nazione, ma imperversava la stessa esaltazione della guerra, la derisione della pace e dei pacifisti considerati - come li voleva Nietsche, che i fascisti rispolveravano perché faceva loro comodo - deboli e imbelli per difetto di energia vitale. Il razzismo predicava il dominio di una razza privilegiata, il cui destino era di sottomettere le razze inferiori. Lo statalismo sfrenato considerava l’assoggettamento o l’annessione degli Stati più deboli (se necessario con la guerra) come perfettamente legittimi. Un messaggio, quindi, quello di B-P che andava controcorrente e non mancava di coraggio. Un messaggio in cui si mescolavano idealismo e realismo, l’utopia e l’azione concreta del Movimento. B-P morì in Kenya nel gennaio 1941, e le sue ultime parole furono rivolte alla necessità di creare, nel dopoguerra, un mondo di fraternità in cui fosse scongiurato il flagello della guerra. Dopo il 1945 alle due organizzazioni mondiali da lui fondate (WOSM e WAGGGS) – la prima pensata originariamente per i maschi, ma oggi aperta a maschi e femmine; la seconda riservata alle sole femmine – si è aggiunta dal 1953, a un livello di effettivi assai più ridotto, ma con i medesimi valori ideali, l’organizzazione mondiale degli adulti, che oggi ha il nome di AISG (Amicizia Internazionale Scout e Guide) o, in inglese, ISGF (International Scout and Guide Fellowship). Le tre organizzazioni mondiali che si rifanno a B-P hanno continuato a promuovere l’ideale della fraternità mondiale, con le maggiori difficoltà, ma al tempo stesso con le maggiori opportunità, che presenta oggi il nostro mondo globalizzato. In particolare, la nuova facilità dei trasporti e delle comunicazioni ha avuto per effetto di accrescere, in quasi ogni Paese, e in particolare nei paesi più ricchi, la percentuale di popolazione residente immigrata da paesi più poveri. Il fenomeno ha dimensioni globali e, per la nostra epoca, un carattere emblematico che interpella direttamente lo scautismo e il suo ideale di fraternità mondiale. L’identità nazionale di ciascun paese deve rimanere aperta e capace di incontrare altre culture, nella prospettiva di una crescita personale e di gruppo per tutti. Occorre vegliare a che il multiculturalismo, che rimane un ideale, non sia in pratica solo una giustapposizione tra etnie che non dialogano e vivono in ghetti chiusi. La fraternità mondiale dello scautismo può aiutare a creare i meccanismi di una convivenza che, a partire dall’identità di ciascun popolo, divenga capace di incontrare altre identità e di contagiarsi positivamente, con un reciproco arricchimento. È un modo preciso che gli scout hanno, in molti paesi, di mettere concretamente in pratica, nel mondo di oggi, l’ideale di fraternità mondiale di B-P.

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RISOLUZIONI FINALI DELLA CONFERENZA MONDIALE di COMO, SETTEMBRE 2011 Franco Vecchiocattivi

La conferenza mondiale dello ISGF è certamente un occasione bellissima di incontro tra adulti scout di tutti i paesi, di contatto tra culture ed è anche un’esperienza esaltante di fratellanza scout mondiale

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La conferenza mondiale dello ISGF è certamente un occasione bellissima di incontro tra adulti scout di tutti i paesi, di contatto tra culture ed è anche un’esperienza esaltante di fratellanza scout mondiale. Tuttavia, dobbiamo considerare che è prima di tutto un’occasione “statutaria”, poiché in questa occasione, tra le tante cose, si rieleggono le cariche in scadenza, si correggono eventuali articoli dello statuto che necessitano una rinfrescata, si approvano il bilancio dell’organizzazione, in verità abbastanza magro e quello di previsione, ponendo in discussione gli obiettivi di lavoro dei successivi tre anni. Tutti questi aspetti sono anch’essi molto importanti per la vita della fratellanza scout internazionale. Vediamo, da questo punto di vista, come è andata la conferenza ISGF di Como del 2012. Il lavoro dello ISGF è coordinato da un comitato mondiale, che viene eletto dai delegati alla conferenza. Il comitato a sua volta è coordinato da un presidente scelto tra i membri eletti. In questa conferenza è stata rinnovata una metà dei membri del comitato, che adesso, dopo una modifica statutaria, è formato da 8 membri (prima erano 10) e che erano in scadenza. Il nuovo comitato risulta adesso formato da Muftah Mohamed Ajaj (Libia), Virginia Bonasegale (Italia), Nana Gentimi (Grecia), Verna Lopez (Curaçao) Harald Kesselheim (Germania), Paul Lokossou (Benin), Mida Rodrigues (Portogallo) e Abdul-Aziz Ben Said (Marocco). Il comitato si è riunito immediatamente alla fine dei lavori della conferenza, scegliendo Mida Rodrigues quale nuovo presidente. Un’altra importante risoluzione approvata dalla Conferenza è stata quella di accettare quali nuovi membri dello ISGF le associazioni di adulti scout del Burkina Faso e dello Zambia. In questo modo, gli stati membri effettivi diventano 71. Ci sono inoltre gruppi di adulti scout da più di altri trenta stati, che, non essendo membri dello ISGF, compongono una fratellanza internazionale, detta ”Central Branch”. Quindi nello ISGF sono adesso rappresentati, in varia forma, adulti scout di oltre cento stati. Sono stati rivisti alcuni degli articoli dello statuto e tra questi va sottolineato che è stato ribadito che, affinché uno stato possa essere membro dello ISGF, deve avere la sua organizzazione di adulti scout con almeno 125 iscritti e non occorre che siano stati scout o guide da giovani, ma è necessario che, in età

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RISOLUZIONI FINALI adulta, accettino i principi propri dello scautismo e del guidismo. È stato approvato un nuovo protocollo d’intesa tra ISGF e WOSM, rinforzando in questo modo la consonanza di obbiettivi educativi tra lo scautismo adulto e lo scautismo giovanile dello WOSM (World Organization of the Scout Movement) e il guidismo dello WAGGGS (World Association of Girl Guides and Girl Scouts). Un passaggio cruciale è stata la discussione sulle finanze dell’organizzazione. È stato approvato il bilancio consuntivo del passato triennio e quello di previsione per il prossimo. Occorre, su questo punto, rilevare che lo ISGF vive con le quote pagate dai vari stati membri, che sono di un ammontare che dipende dai dati ufficiali del PIL (prodotto interno lordo) dei rispettivi stati: in questo modo, tutti gli stati membri sono divisi in tre categorie e pagano rispettivamente per ciascuna categoria, € 2,04, € 1,36 e € 0,68 per ogni iscritto. L’Italia rientra naturalmente nella categoria più alta. Nonostante quello che appare ad una prima occhiata, non si creda che queste cifre siano una cosa esigua, come dimostra il fatto che molti tra i paesi poveri, membri dello ISGF, sono morosi per carenza di fondi. In certi paesi, anche la quota minima risulta essere molto pesante. Riguardo al piano di lavoro per il prossimo triennio, la Conferenza ha deciso, riassumendo per sommi capi, di puntare tutte le iniziative in due direzioni principali: lo sviluppo dello scautismo adulto, attraverso la sua visibilità e la promozione della sua immagine e la rivitalizzazione ed intensificazione dei contatti tra le varie organizzazioni nazionali di adulti scout (gemellaggi ed incontri). Infine, riguardo alla prossima Conferenza Mondiale dello ISGF, è stato deciso che si terrà nel 2014 a Sidney, in Australia. A proposito della scelta della sede della prossima conferenza mondiale nel 2014, avvenuta per votazione a scrutinio segreto, credo sia opportuno spendere qualche parola in più. Le proposte che erano state presentate erano: Grecia, Ghana, Australia e India. Con sorpresa generale, all’ultimo momento, subito prima di iniziare le votazioni, l’India ha ritirato la sua proposta e le votazioni hanno poi favorito l’Australia. Questa è certamente una buona scelta e con un forte significato, soprattutto se si considera l’importanza e l’estensione che ha lo scautismo adulto australiano. Tuttavia per noi questo significherà anche un costo del viaggio non trascurabile, essendo l’Australia piuttosto lontana da tutti gli altri paesi. Ma io credo che si debba rilevare che forse si è persa una buona occasione di sviluppo e promozione dello scautismo. Infatti la scelta del Ghana avrebbe favorito moltissimo lo scautismo adulto nei paesi africani che, nonostante la povertà di quelle regioni, ha già una estensione notevole Infatti per i paesi africani sarebbe stato più facile ed economico raggiungere il Ghana, piuttosto che l’Australia, ed anche il problema dei visti d’ingresso, che in occasione di questi eventi internazionali non è un aspetto trascurabile, sarebbe stato sicuramente meno rilevante. Speriamo che si possa trovare un sostegno dello scautismo nei paesi poveri affinchè possano essere presenti anche loro alla conferenza del 2014.

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A MARGINE DELLA CONFERENZA MONDIALE DI COMO Sergio e Nuccia Zanini

Ci siamo domandati tante volte perché, quando c’è un avvenimento internazionale nell’ambito dello scautismo adulto, la prima cosa che facciamo è vedere la data e il luogo e valutare se abbiamo la possibilità di parteciparvi sia in termini di tempo che economici. Solo in un secondo tempo vediamo se è una Conferenza mondiale piuttosto che un incontro della Zona Europa o dei Paesi del Mediterraneo, quali sono i programmi, i contenuti e l’ordine dei lavori. La nostra partecipazione alla 26^ Conferenza mondiale dell’ ISGF a Como, tanto più che si svolgeva in Italia, era perciò qualcosa di ampiamente scontato e se a distanza di qualche mese dobbiamo scrivere qualcosa dell’esperienza vissuta e delle sensazioni provate ci vengono spontanei due ricordi particolari. Uno è far ritornare alla mente la prima volta che abbiamo partecipato a quella che allora si chiamava ancora ”Assemblea Generale” che si svolse a Christchurch in Nuova Zelanda: la quindicesima ed era l’anno 1985. L’Austria aveva organizzato un tour pre-assemblea di una settimana che partendo da Singapore toccava Hong Kong, poi l’Indonesia ed infine la Nuova Zelanda: durante queste divagazioni in piccoli gruppi si fanno le conoscenze migliori e si stringono le amicizie più profonde, senza togliere niente a tutte le altre che si intrecciano nel corso delle riunioni ufficiali. Peraltro alcuni dei partecipanti li avevamo già conosciuti al secondo Incontro dei Paesi del Mediterraneo che si tenne in Italia, a Pacognano (Salerno) nel 1982. Aperta questa casella della memoria, una gamma disordinata di paesi e di persone riaffiorano alla mente:

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1. i legami stretti con i tunisini incontrati per diversi anni e protagonisti di tanti Incontri del Mediterraneo; 2. il delegato libanese con la moglie, poi assente agli incontri forse per la grave situazione del suo paese; 3. le infinite foreste del Canada e le imponenti cascate del Niagara; 4. gli esuberanti greci e le amiche tahitiane nei loro coloratissimi costumi sempre pronte a coinvolgerti nelle folcloristiche danze; 5. la Conferenza mondiale di Montegrotto Terme del 1996 rimasta nel cuore di molti amici stranieri che ad ogni incontro successivo ci ricordavano la bellissima esperienza vissuta in Italia, con particolare riferimento alla cena delle Regioni nella piazza del paese; 6. i colori, i profumi, i paesaggi, la gentilezza e il sorriso degli scout indonesiani; 7. il freddo, la pioggia e la nebbia di Coventry (città che era stata distrutta dai bombardamenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale e che aveva allora fatto coniare il termine ”coventrizzare” sinonimo di raso al suolo) e la visita al famoso ed importante campo di Gilwell Park. A questi ricordi fanno contorno tutti gli altri incontri e abbracci delle tante conoscenze acquisite negli anni ed anche le notizie meno belle di chi ci ha già preceduti nel nuovo regno. Il secondo pensiero è la commozione vissuta a Como nell’aver incontrato fra i partecipanti un’amica svizzera della quale da tempo non avevamo notizie dopo che, ad uno degli incontri ai quali era solita partecipare, ebbe un grave malore che la rese handicappata per lungo tempo. Vederla camminare e sentirla parlare, anche se ancora con qualche difficoltà, e abbracciarla come se fosse (e come è) tua sorella è stato più che commovente. E’ ovvio che ci scorre davanti anche tutto lo svolgimento della Conferenza, dall’importanza degli argomenti trattati all’incisività degli spettacoli, dal gioco ideato apposta per stimolare nuove conoscenze alla serata interreligiosa, dalla gita sul lago all’essenzialità tipicamente scout voluta dall’organizzazione. Quello che ora abbiamo cercato di fare è tentare di dare una risposta alla domanda che ci siamo fatta all’inizio, convinti come siamo che nel campo della mondialità sono certamente utili i libri e i documentari che però non potranno mai superare l’esperienza diretta di chi cerca di vedere personalmente per conoscere, sapere e capire.

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nel campo della mondialità sono certamente utili i libri e i documentari che però non potranno mai superare l’esperienza diretta di chi cerca di vedere personalmente per conoscere, sapere e capire.

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STAZIONE SPIRITUALITA’

STAZIONE SPIRITUALITA’

Stazione spiritualità età 20 / 23 anni - Europa, Perù, Ecuador, India, Cuba Sono sola e viaggio in autostop. Meno turista, più osservatrice tanto dell’altro quanto di me stessa in contesti diversi. Inizio a lavorare e quindi mi interfaccio con un più ampio tessuto sociale. Concerti, musei e festivals mi aiutano a farmi un’idea dell’immagine che le diverse cultura hanno di se stesse. All’università sostengo molti esami di sociologia, antropologia e comunicazione interculturale. Consapevole che mia ricerca è troppo ampia, concentro la mia attenzione sugli istinti primari. Analizzo il modo in cui i peruviani lottano per la sopravvivenza, il loro rapporto con la morte. E il cibo per gli indiani, e la religione, e la sessualità a Cuba. Mi lascio travolgere dagli incontri più inaspettati, dalle persone più diverse da me, dai rituali più incomprensibili. Sento di avere la missione di portare nuovi punti di vista nella vita delle persone più umili. Loro mi accolgono a braccia aperte, sono tristi quando vado via e sembrano più consapevoli della grandezza del mondo. Io sono libera e cerco nelle situazioni più estreme nuove chiavi di lettura. Ovviamente non trovo risposte ma ancora voglia di cercare, di viaggiare.

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Premessa “Mi dispiace ma io non voglio fare l’Imperatore, non è il mio mestiere, non voglio governare e conquistare nessuno, vorrei aiutare tutti, ebrei, ariani, uomini neri e bianchi, tutti noi dovremo aiutarci sempre, dovremo soltanto godere della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi, la vita può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca a fare le cose più abbiette, abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformato in cimici, l’avidità ci ha resi duri e cattivi, pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza, senza queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto. L’aviazione e la radio hanno riavvicinato le genti, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà nell’ uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente. A coloro che mi odono, io dico, non disperate! L’avidità che ci comanda è solo un male passeggero, l’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo e qualsiasi mezzo usino la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti uomini che vi disprezzano e vi sfruttano, che vi dicono come vivere, cosa fare, cosa dire, cosa pensare, che vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie. Non vi consegnate a questa gente senza un anima, uomini macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore Voi non siete macchine, voi non siete bestie, siete uomini !!... Ricordate

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DI CHE COLORE E’ LA PELLE DI DIO nel Vangelo di S. Luca è scritto - ‘Il Regno di Dio è nel cuore dell’ uomo’ non di un solo uomo o di un gruppo di uomini, ma di tutti gli uomini. Voi, il popolo avete la forza di creare la macchina, la forza di creare la felicità, avete la forza di fare che la vita sia bella e libera, di fare di questa vita una splendida avventura. Quindi in nome della democrazia uniamo questa forza, uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore, che dia a tutti gli uomini lavoro, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza.. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse, combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere, eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere.”

Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore, che dia a tutti gli uomini lavoro, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza

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Il grande dittatore 1940 (tratto dal film di Charlie Caplin) Una SFIDA…. Possiamo definire il discorso di Chaplin una sfida ad un momento storico di obnubilamento delle menti che faceva in qualche modo presagire l’orrore che di lì a poco avrebbe imperversato. Sono parole di una attualità incredibile, parole fuori da ogni tempo da ogni dimensione spaziale e sono parole dense di speranza. Il divario tra nord e sud del mondo è sempre più aumentato. La povertà di interi continenti spinge i popoli a emigrare e le nostre città, ma anche i nostri paesi, sono sempre più luoghi multirazziali. Il futuro che ci aspetta sarà sempre più pieno di colori e culture diverse. Questa dovrebbe essere una ricchezza invece da alcuni è vista come una disgrazia.

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RIFLESSIONE SULLA IMMIGRAZIONE

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RIFLESSIONE SULLA IMMIGRAZIONE Gli AS della Calabria

“L’A.S. … deve guardare alla propria città e alla società con occhi critici e con spirito propositivo, contribuendo con idee, progetti e attività di servizio con un’attenzione particolare verso i giovani, i più deboli ed emarginati, per educarsi e educare ad una partecipazione attiva alla vita politica del territori. Questo perché la nostra terra è da sempre una terra che vede arrivare i barconi della speranza con uomini, donne e bambini stremati, vinti dalla disperazione. Li abbiamo conosciuti, li abbiamo incontrati e ci hanno raccontato del mondo dal quale fuggono, fatto di povertà, di guerra, di paure ma dove vogliono ritornare per partecipare alla costruzione di un futuro dignitoso. E tanti li abbiamo incontrati nelle nostre case ad occuparsi degli anziani e dei disabili, nelle campagne per i lavori più umili; ci chiedono pane, latte ma anche chiarimenti sulle leggi che regolano il soggiorno. Li abbiamo visti rifiutati in nome di una paura che genera xenofobia, ci siamo indignati nel constatare le condizioni di vita alle quali sono costretti Ma li abbiamo incontrati anche a Riace ( RC) dove è stata avviata un’esperienza che è stata da stimolo ad una legge regionale che incentiva i progetti che includono i rifugiati. La nostra sfida consiste nel continuare ad essere protagonisti di una reale politica di integrazione che possa simboleggiare le parole di San Paolo:”Non siete più stranieri ma concittadini della stessa famiglia umana, la famiglia di Dio“.

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La nostra sfida consiste nel continuare ad essere protagonisti di una reale politica di integrazione che possa simboleggiare le parole di San Paolo :”Non siete più stranieri ma concittadini della stessa famiglia umana, la famiglia di Dio“.

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RIFLESSIONE SULLA IMMIGRAZIONE

“Finisce il giorno, scende la sera io vi racconto una storia vera una storia fatta di bambini fragili e dolci come pulcini. Partono da posti molto lontani viaggian leggeri come gabbiani non hanno valigie o pacchi pesanti solo speranze e sogni giganti. Salpati su barche senza cabine sono stipati come sardine. Sfidano le insidie di un grigio mare con la speranza di non affogare. Poi una volta sbarcati a terra c’è sempre un brigante che li afferra che li costringe a lavorare mentre vorrebbero solo giocare.”

di Sergio Cellucci

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ACCOGLIENZA

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ACCOGLIENZA Riccardo Della Rocca

“Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto”.(Esodo 22:20,26) Ho avuto una vita molto fortunata per le opportunità che mi ha offerto. Il lavoro mi ha portato in tante parti del mondo, non come turista ma a contatto con il mondo del lavoro e con le diverse realtà sociali: con meraviglia a Parigi, come a Londra, a New York, ma anche nella Mosca brezneviana era normale incontrare persone di diverso colore, cultura, etnia, che parlavano lingue diverse; nelle mie lunghe presenze in Medio Oriente e in America Latina ho potuto scoprire la ricchezza di culture e tradizioni lontane dalla nostra. Ho avuto poi la fortuna di vivere la dimensione internazionale dello scautismo: il servizio prestato nel Comitato Mondiale dell’ISGF mi ha portato all’incontro con scout e guide adulti di tutto il mondo. Durante questo servizio è stato soprattutto l’incarico di seguire lo sviluppo dello scautismo degli adulti in Africa che mi ha portato a contatto con una realtà drammatica ma ricchissima di umanità. Nella mia città ho osservato i mutamenti che si sono verificati negli ultimi anni. Sono nato e ho vissuto la mia giovinezza in una realtà ”tutta italiana”, dove tutti parlavano dialetti diversi ma la stessa lingua. Oggi andando al mercato, le poche volte che uso i mezzi pubblici, quando vado a prendere i nipoti a scuola, camminando per le strade vedo donne e uomini che vengono da altre realtà, da paesi lontani, che parlano lingue diverse. Tutto questo mi ha portato a godere di un ”mondo colorato”, a sentirmi sempre di più cittadino del mondo. Ho scoperto che questo mondo multicolore è un’eccezionale opportunità per il futuro dell’umanità se saremo capaci di costruire ponti e non steccati, se sapremo superare l’inconscia paura del diverso.

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Riccardo Della Rocca Contemporaneamente abbiamo tutti assistito ad un’irruzione improvvisa nei nostri paesi del fenomeno migratorio di grande evidenza nelle nostre città, nelle nostre scuole, nelle nostre strade. Non ci saranno regole, pur necessarie, che saranno in grado di arrestarlo, perché dietro questo fenomeno c’è una inaccettabile pressione economica, c’è una inarrestabile pressione demografica: noi apparteniamo a paesi che invecchiano e di fronte a noi ci sono paesi in rapida crescita. C’è inoltre il problema delle comunicazioni di massa globalizzate che creano il miraggio di vicini Paesi di Bengodi. Ed a questo fenomeno inarrestabile sono legate grandi tragedie: il Mediterraneo è divenuto un cimitero di povera gente e si moltiplicano forme di sfruttamento dai caratteri disumani.

Ho scoperto che questo mondo multicolore è un’eccezionale opportunità per il futuro dell’umanità se saremo capaci di costruire ponti e non steccati, se sapremo superare l’inconscia paura del diverso.

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Questo mi ha spinto a guardare con preoccupazione a ciò che accade quotidianamente intorno a noi dove nasce e cresce una cultura collettiva che afferma che la diversità è una minaccia. Al contrario io continuo a sostenere che la diversità è una opportunità e una ricchezza e dobbiamo avere perciò dei comportamenti assolutamente coerenti e dobbiamo essere in grado di affermare ciò pubblicamente in questo tempo in cui si dice esattamente il contrario. In questo irrompere di novità vediamo con preoccupazione il diffondersi di una cultura sempre più identitaria: ”io debbo difendere la mia cultura, la mia identità”. Questa cultura genera atteggiamenti xenofobi se non razzisti. Sul piano educativo, che è il campo di una nostra specifica competenza dobbiamo avere perciò una grande vigilanza perché è un virus che si diffonde molto facilmente e dobbiamo mettere in campo delle iniziative, dei progetti, delle proposte veramente controcorrente. Sentiamo sempre più spesso parlare di scontro delle culture. Si pone oggi una alternativa difficile per il futuro dell’umanità: combattere o cooperare? Noi siamo totalmente schierati per la scelta del cooperare. Vogliamo collaborare al superamento nella nostra società del concetto di multiculturalità in cui più culture convivono nello stesso territorio ma chiuse nella propria identità e isolate tra loro, per giungere a vivere in una società interculturale dove le diverse culture si incontrano, dialogano, progettano insieme un mondo migliore. Le immagini dei drammatici sbarchi di stranieri sulle nostre coste ci portano a pensare che l’immigrazione sia ancora rappresentata unicamente da quei volti disperati di donne, uomini e bambini apparentemente disposti a tutto. Ma l’immigrazione comprende anche la realtà di coloro che, in regola con le leggi, lavorano, risiedono e mandano i figli nelle scuole italiane, costringendoci a fare i conti con la consapevolezza di vivere in una società multietnica e multiculturale. Siamo di fronte a un cammino lungo e complesso, dove le principali diffi-

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coltà riguardano coloro che, lontani dalla propria terra, spesso ammalati di nostalgia, faticano a individuare il giusto equilibrio tra i valori delle loro radici e quelli della nuova vita. Le speranze di una vera integrazione sono quindi nei figli che si trovano, per primi, a fare da ponte tra la cultura delle loro famiglie e quella della società che frequentano. Se infatti gli adulti immigrati hanno alle spalle un’infanzia vissuta nel loro Paese d’origine, un bagaglio di ricordi che li lega a doppio filo con la patria, l’infanzia dei figli (molti sono nati in Italia, altri vi sono giunti piccolissimi) è qua. Abbiamo quindi il dovere di offrire a questi bambini le stesse opportunità dei nostri, che a loro volta devono essere educati ad accogliere chi, solo apparentemente, è diverso. In altre parole dobbiamo offrire loro una cittadinanza piena Per noi italiani già grandi, che non abbiamo mai condiviso il banco con bambini stranieri, è sicuramente più difficile accogliere e integrarsi perché pregiudizi, paure e ignoranza, più o meno consapevoli, sono sempre pronti a fare capolino. Ma i nostri figli, che sin dalla scuola materna sono abituati ai visi e ai nomi stranieri dei loro compagni, hanno la possibilità di essere migliori di noi. Sta, poi, alla scuola, ai suoi insegnanti, ai dirigenti, ai programmi didattici ed educativi creare un clima di serenità, accoglienza e apertura tale da aiutare i bambini a creare le basi di una società realmente interculturale, dove le differenze vengano valutate per quello che realmente sono: risorse per crescere e conoscere. Ma questo è un compito che riguarda non solo la scuola, ma tutte le realtà vive della società, riguarda il Branco dei Lupetti e delle Coccinelle, riguarda i Reparti degli Esploratori e Guide, i Clan dei Rovers e delle Scolte, ma riguarda direttamente le nostre comunità di adulti dove fare esperienza reale di incontro. Infatti non possiamo limitarci all’educazione dei bambini, noi stessi adulti dobbiamo crescere in coscienza e consapevolezza. Dobbiamo essere consapevoli, dei tempi straordinari e difficili che viviamo, che nello stesso periodo storico in cui si costruisce il tempo nuovo, compare la figura di un altro ancora più estraneo, più straniero. La scoperta di questo altro, lo straniero, fa sorgere una dinamica di un riconoscimento diverso. Se il processo della tolleranza si realizza in un sistema di diritti – quelli che hanno al centro la libertà di coscienza e della cittadinanza condivisa – quello dell’accoglienza si inserirà in una prospettiva cosmopolita di cittadinanza universale. Questa visione cosmopolita indica, fiduciosa, il possibile cammino dello sviluppo morale della specie umana. La globalizzazione positiva, ha avuto nonostante tutto importanti conferme, quale la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani promulgata quasi sessant’anni fa. Ma ha anche subìto – e continua a subire – mistificazioni non meno importanti. Non possiamo pensare

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Riccardo Della Rocca alla globalizzazione solo come fenomeno positivo dimenticando ciò che di negativo ha avuto e ha ancora nelle vite di molti membri della nostra specie,. E’ all’interno di questo contesto della globalizzazione, negativo e non solo positivo, che bisogna ripensare oggi all’accoglienza. Essere ospitali nei confronti dell’altro significa accettarlo, aprirgli le porte di casa nostra. Siamo ospitali con chi viene a trovarci o ha bisogno del nostro aiuto. Siamo ospitali con chi non è ”dei nostri”. Chi ci fa visita ha uno status particolare. Magari è solo di passaggio o, forse, farà ritorno in patria. Ma, fintanto che rimane, e pertanto non è più ”in visita”– perché è diventato parte della nostra famiglia o della nostra città – verrà riconosciuto non attraverso la lente dell’accoglienza, ma dei diritti e doveri condivisi, di compartecipazione politica.

Essere ospitali nei confronti dell’altro significa accettarlo, aprirgli le porte di casa nostra. Siamo ospitali con chi viene a trovarci o ha bisogno del nostro aiuto.

La cittadinanza condivisa è nata come movimento di accettazione dell’altro in quanto diverso; ma si trattava sempre di prossimo: un fratello, un vicino. Ora la cittadinanza condivisa ci sembra problematica perché si riferisce all’immigrante, allo straniero: all’immigrante che vive fra noi, che vive in altre società e rivendica i propri stili di vita, il suo modo d’essere e di comportarsi e che noi consideriamo lontanissimi. La cittadinanza condivisa, il problema tolleranza, deve permeare di sé l’accoglienza. Il problema della cittadinanza condivisa, si è trasformato nel terreno in cui nasce la paradossale domanda di tolleranza. O, per dir meglio, la tolleranza – l’accettare la differenza dell’altro nello stesso spazio politico – è diventata problematica perché non sappiamo come gestire le richieste di accoglienza. L’altro, il fratello, il vicino, è diventato diverso da quando ha assunto le sembianze dello straniero. Così le nostre nazioni, i nostri territori si sono trasformati in luoghi del bisogno, della necessità, della tolleranza e dell’accoglienza, come dimostra la crescente immigrazione. Ma, al tempo stesso, la terra intera è terreno degli stessi bisogni, come simboleggia la figura scioccante e tremendamente nitida dei rifugiati e la non meno scioccante immagine delle vittime della guerra. Mi tornano in mente le parole pronunciate da don Lorenzo Milani: “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri e se voi avete il diritto....di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire

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che anche i poveri possono 21e debbono combattere i ricchi e almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere e distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. Don Lorenzo Milani (Lettera ai cappellani militari febbraio 1965) Attraverso questo lungo cammino di esperienze, di osservazione della realtà che cambiava, di nuove riflessioni che si aprivano ho così scoperto il volto nuovo dell’accoglienza; ho scoperto che i nuovi concittadini si presentano con tutte le loro contraddizioni; ho incontrato persone, come tutti noi, generose e persone avide; ho incontrato persone, come tutti noi, violente e persone mansuete; ho incontrato persone, come tutti noi, corrotte e persone oneste. Ma sempre uomini e donne come tutti noi, persone alla faticosa ricerca di un frammento di felicità. Un popolo multicolore in cammino verso un mondo migliore. Donne e uomini con le quali condividere il nostro cammino nella storia. Per questo nel nostro movimento parliamo di ”scautismo senza frontiere”. Mi sembra a questo proposito significativa questa anonima poesia che ho trovato tra i miei pezzi di carta Figlio mio, chiunque tu sia, guarda i miei errori e da essi impara. Ti attrezzeranno per affrontare la tua vita e il seme della sottomissione in te non sboccerà. Chi ha due mani ed un cuore non è mai straniero. Se guardi all’uomo o alla donna come una straniera, occhi umani ti guarderanno come uno straniero. La straniera ha i tuoi stessi occhi, il tuo stesso seno, le tue stesse gambe, il tuo stesso cuore, la tua stessa intelligenza e il tuo stesso desiderio. Prende ciò che gli offri, si adatta alle condizioni che imponi; lei guarda al futuro: e tu? Ogni uomo segue lo stesso sentiero che porta alla morte. Si è sempre compagni di viaggio, sia quando ci si ama che quando ci si combatte. Accogli il viandante perché questo ti fa ricco; offri te stesso in ogni terra in cui vai per arricchire solo

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Riccardo Della Rocca positivo, che bisogna ripensare oggi all’accoglienza. Se caccerai il viandante sarai cacciato da ogni viandante; ti separerai dalla ricchezza del mondo; ti rinchiuderai in una prigione separandoti dalla vita. Non marchiarti con segni di separazione di culture o gruppi che si separano dal consesso sociale; ciò che oggi ti appare glorioso, domani è polvere, ma tu continui nella tua esistenza. Il povero non taglia la mano che lo ha aiutato nelle difficoltà; il possidente disprezza chi non si sottomette. Scegli sempre te stesso. Puoi essere sconfitto in ogni assemblea purché i propositi nascano da te. In questo modo ti prepari a sempre nuove battaglie perché la fonte del tuo cuore fa sgorgare infinite proposte da infiniti desideri e infinite situazioni. [Se sei sconfitto perché hai obbedito o hai creduto la sconfitta ti schiaccia e chiude il futuro nel quale potrebbero scorrere i fiumi delle tue passioni. Quando hai piegato i tuoi desideri ad altri voleri; altri voleri pretenderanno di piegare ancora i tuoi desideri. Quando qualcuno mi disse: “Perché figlio mio ti sei invaghito di una straniera e ti sei stretto al petto un’estranea?” Ho risposto con disprezzo: “Ciò che stringo al mio petto è me stesso! Colei o colui che amo sono ciò che io sono e tu vedi straniero tuo figlio perché né Afrodite né Atena sgorgano dal tuo cuore! Tu, padre, sei straniero al mio cuore. Figlio mio, chiunque tu sia, guarda i miei errori e da essi impara. Ti attrezzeranno per affrontare la tua vita E il seme della sottomissione in te non sboccerà. Sii disciplinato e ad ogni scelta chiediti ”Io che cosa voglio?” La legge scout: per preparare donne e uomini che abiteranno la frontiera, persone consapevoli che ”alberga più verità nei territori di confine e che sugli spartiacque la visuale è più ampia”.

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E’ DI NUOVO MATTINO

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E’ DI NUOVO MATTINO: partire per camminare sulle creste M. Clotilde Merlin

Chi ha familiarità con la montagna conosce molto bene emozioni e immagini che si profilano all’orizzonte del cuore quando si pensa al camminare, al salire in quota, al raggiungere la cima e in particolare a quel percorrere i crinali dei monti, - lo spartiacque appunto-, che spesso è anche territorio di confine. Lo sguardo spazia su ampi orizzonti. Puoi osservare di qua e di là, vedere affinità e cogliere differenze, fare confronti, lasciarti incantare dall’armonia dei due versanti. Lo spartiacque è il luogo della separazione, della differenza, e insieme dell’incontro. Mi piace utilizzare questa metafora cosi familiare alla vita scout per illuminare la realtà dell’incontro interculturale che è al centro della riflessione del Masci. E’ un tema di grande attualità che irrompe con prepotenza nella attuale contingenza storica tra globalizzazione, emigrazioni, crisi mondiale delle tradizionali visioni della società e dell’economia e aspirazioni a una possibile salvezza. Motivo di preoccupazioni personali e di paure collettive ma anche una splendida occasione di crisi rigenerante, come quella del bozzolo che si rompe per lasciare uscire la farfalla. Per chi crede nella forza dello Spirito che alita ancora sul mondo è la Novità che preme come nuova creatura che dilata l’utero materno e pretende di nascere. Il secolo passato ha segnato la esaltazione della scienza che ha tagliato spesso le sue radici dall’intero ergendosi ad assoluto e in tal modo divenendo idolo. Abbiamo visto l’adorazione idolatra dei particolarismi in nome della identità e dei diritti di ognuno avulsi dalla responsabilità per il bene comune. Ogni scienza a sua volta, in nome dell’autonomia e del suo indiscusso prestigio ha considerato con occhio sprezzante le vicine, al meglio ignorandole, spesso denigrandole nella illusione di conquistare nuovi territori alla propria indagine, in una vera guerra di conquista, o almeno di difesa, a denti stretti, del proprio territorio. Cosi tra i popoli, le culture, le religioni. Persino tra fratelli della stessa fede.

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CLotilde merlin Cosi avvenne nella costruzione della torre di Babele. Ma in principio non fu cosi. Il Creatore, per un disegno di amore, creò nell’ordine e nell’armonia e tutto appariva ai suoi occhi buono, molto buono.

E’ la foresta silenziosa che cresce, sono uomini e donne che spendono energie e tempo per lasciare un po’ migliore il mondo, le nuove alleanze per dare risposte alle nuove urgenze, sono i nuovi movimenti internazionali e transnazionali per l’uomo e per tutti gli uomini, lo stile dell’ascolto e del dialogo, gli orizzonti della reciprocità.

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Ma anche oggi è ancora Mattino. C’è un risveglio di sensibilità, di consapevolezza, di desiderio di aprire nuove strade. Chi è particolarmente attento e bravo osservatore coglie le intime trame di una mappa che si sta disegnando a più livelli. Indagine e conoscenza scoprono i territori di confine come terreno fecondo di incontro, dove la specificità delle competenze si misura non tanto nella conquista o nell’arroccamento nel proprio spazio di indagine e nel proprio luogo ma nella meraviglia della scoperta e del rispetto delle specificità dell’altro, nell’incontro e nell’intreccio dei punti di vista sulla realtà. Per essere più se stessi e per arricchire la conoscenza. E’ non solo la multidisciplinarietà ma la interdisciplinarietà e la trans disciplinarietà. Accanto alla esasperata sfrenata esaltazione del sè si aprono strade nuove. Nascono nuove scienze, e soprattutto nuovi modi di intendere la scienza. Per chi apre lo zaino della fede c’è la sorpresa della scienza come dono dello Spirito che dilata la nostra intelligenza. Scienza intesa come discernimento tra essenziale ed effimero, come contestualizzazione della parte nel tutto, tesa non solo al controllo e al dominio ma primariamente al gusto della libera contemplazione della bellezza e della bontà della natura e delle cose che chiamiamo creato e che rimandano al Creatore. Anche l’orizzonte del fare acquista nuovo impulso da una visione diversa del mondo e del rapporto di sé con le cose e con gli altri. La nostra capacità di amare ne esce rafforzata e essa stessa rafforza la volontà di impegnarsi in modi sempre nuovi e sempre più efficaci. Anche qui vige la regola che sui territori di confine tra il pensare e il fare, tra ragionare e credere, tra desiderio e operatività si possono tessere nuove trame e nuovi progetti. Una domanda: Ci accorgiamo che nuove gemme stanno germogliando e che è alle porte una nuova primavera? E’ la foresta silenziosa che cresce, sono uomini e donne che spendono energie e tempo per lasciare un po’ migliore il mondo, le nuove alleanze per dare risposte alle nuove urgenze, sono i nuovi movimenti internazionali e trans- nazionali per l’uomo e per tutti gli uomini, lo stile dell’ascolto e del dialogo, gli orizzonti della reciprocità. Chi conosce veglie e strade e bivacchi e cerchi e fuochi non può rinunciare a essere sentinella che intercetta le nuove luci per passare la staffa e ne accende, ove occorra, essa stessa di nuove.

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UNA TESTIMONIANZA

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UNA TESTIMONIANZA Cristina Maccone

Ricordo vagamente il mio primo contatto con il mondo della solidarietà: nella scuola superiore ho fatto parte di una associazione missionaria che mi ha sicuramente segnato. Profonda era la consapevolezza del privilegio della mia vita. Volevo fare il medico missionario forse influenzata dalle letture sul dottor Schweitzer. Ho fatto il medico ma qui a Roma dove, molto presa dal mio lavoro e dal mio studio, dalla mia famiglia, dal servizio in Agesci, dall’impegno nella politica, ho perso un po’ il contatto con questo mondo. Ma dal 1984 ho ricominciato a viaggiare e il contrasto tra Haiti e Stati Uniti, Colombia e Canada hanno riacceso in me il disagio del divario tra Nord e Sud del mondo, il disagio per la fortuna di essere nata nel Nord del mondo. Poi finalmente il mio sogno: l’Africa sub-sahariana. Sud Africa, Nigeria, Uganda, Benin. Che bei paesi ho visto, che belle persone ho incontrato! È riaffiorato prepotente il desiderio di impegnarmi in questo settore. Francesco De Falchi, della mia comunità Masci, mi ha parlato per anni del Burundi e finalmente nel 2006, alla costituzione dell’associazione Eccomi, ho fatto parte di una piccola delegazione che ha preso contatti con i partner burundesi per la realizzazione di alcuni progetti. Da allora mi sono recata in Burundi altre cinque volte e ho scoperto una natura bellissima, ho conosciuto persone eccezionali provenienti da tanti paesi, ho visto sporcizia, fame, malattie e dolore ma anche sorrisi, gioia, musica e balli. Ho conosciuto l’Associazione Scout del Burundi con la quale collaboriamo per il progetto di 9 scuole dell’infanzia dove più di 1500 bambini imparano a parlare, a cantare e mangiano almeno quel pasto Di che colore è la pelle di Dio

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ho scoperto una natura bellissima, ho conosciuto persone eccezionali provenienti da tanti paesi, ho visto sporcizia, fame, malattie e dolore ma anche sorrisi, gioia, musica e balli.

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Cristina Maccone

tutti i giorni. Ho conosciuto Claudina, missionaria laica della diocesi di Brescia, responsabile della Caritas della Diocesi di Muyinga, con la quale abbiamo collaborato per far riconoscere la dignità del popolo batwa con l’inserimento anagrafico di un gran numero di uomini, donne e bambini, l’inserimento scolastico dei ragazzi e l’avvio di cooperative di donne. Ho visto le case dignitose costruite con il sostegno di Eccomi in un villaggio batwa. Ho conosciuto le difficoltà in questi anni di far decollare il Centro Giovani di Muyinga che finalmente ha cominciato ad essere punto di riferimento per molte attività di giovani. Ho incontrato i nostri bambini e ragazzi adottati da padrini e madrine generosi e pazienti. Ho seguito la nascita e poi lo splendido sviluppo dell’atelier di donne con handicap. Ho accolto nella mia casa Nahi, bambina batwa di 8 anni, cieca con il suo tutore Reverien, per tentare un intervento chirurgico ai suoi occhi. Insomma, questo impegno in Burundi mi appassiona e cerco di coinvolgere quante più persone possibili. Può fornire l’occasione per non compiere azioni isolate di ‘carità’, lodevoli ma non capaci di creare alcun legame con i destinatari e talvolta affidati ad agenzie non controllabili. Nelle missioni a cui partecipo percepisco ogni volta di più che io e i miei fratelli burundesi abbiamo le stesse speranze ma anche le stesse responsabilità. Non voglio essere la buona muzungukazi (donna bianca) che viene da un paese ricco a portare soldi. Desidero offrire loro la mia solidarietà impegnandomi con loro perché con il mio piccolo contributo ci sia maggiore giustizia. Come dice Madre Teresa di Calcutta, sono convinta che ”quello che noi facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non lo facessimo, l’oceano avrebbe una goccia in meno”.

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PARTIRE È UN PO’ MORIRE

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PARTIRE È UN PO’ MORIRE, ma emigrare è morire un po’ per rinascere altrove Marie - José D’Alessandro

“Le radici non hanno da sprofondarsi nel buio atavico delle origini, alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami di una pianta, ad incontrare altre radici e a stringerle come mani” (Édouard Glissant): dilemma tra la paura della globalizzazione che omologa e cancella le diversità e l’esasperazione delle diversità stesse, ognuna delle quali si chiude regressivamente alle altre in un gretto micro-nazionalismo. Le nostre relazioni interpersonali a tutti i livelli ci richiedono sempre più la capacità di accettare e gestire ciò che è diverso da noi stessi: persone, valori, pensieri, culture. Questo inevitabilmente porta il conflitto in una posizione centrale nella nostra esistenza. Questa è la sfida: creare le condizioni affinché le relazioni possano alimentarsi non solo nell’empatia, ma anche nella discordanza e nella diversità. Secondo un vecchio detto degli Indiani d’America: “per capire davvero un altro essere umano, prima bisogna percorrere un chilometro a piedi con i suoi mocassini”. Ma non possiamo camminare con i mocassini di un altro se prima non ci togliamo i nostri. Solo così potremo cogliere l’accettazione incondizionata della diversità dell’altro. Quando poi rientriamo in noi, dopo aver vissuto nella persona e nel mondo di un altro individuo, siamo stati entrambi modificati dalla nostra esperienza e riusciamo a cogliere l’essenza delle nostre diversità. Diceva Paul Valéry: “Arricchiamoci delle nostre reciproche differenze”. Cercare di apprendere a vivere la diversità interpersonale, interreligiosa, interculturale come momento di crescita e non più come un fattore di paura e di minaccia. La diversità perde così la sua connotazione di antagonismo e diventa un elemento evolutivo, di arricchimento. Osservare, entrare dentro e accettare la nostra globalità, ci permette di accogliere tra noi e con noi i “diversi da noi”. La mia esperienza di figlia di emigrati Mi piace ricordare la mia infanzia di figlia di emigrati come un periodo

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Marie - José D’Alessandro difficile e che mi ha segnato nel profondo, ma che ha saputo arricchire il mio zaino di un tesoro inestimabile:, una grande ricchezza di esperienze che mi sono sempre servite per capire meglio un mondo che stava diventando sempre più multietnico. I miei genitori sono emigrati alla fine degli anni 50 da un paese della Lucania, dove terra arida e solleone riducevano i lavoratori a dover partire lontano alla ricerca di un lavoro. Mio padre partì per prima chiamato da un altro migrante che già lavorava a Parigi. Poi si sposò al paese e portò con sé mia madre. Presto diventarono in tre con l’arrivo di mio fratello. A quell’epoca, dopo l’ondata di Magrebini (Algerini, Marocchini e Tunisini) arrivarono per la ricostruzione del paese in seguito alla seconda guerra 1 mondiale, giunsero anche gli Italiani, gli Spagnoli e i Portoghesi . Il miglior modo per avere un alloggio economico era diventare portinaio non si pagava ne affitto né corrente. Mentre i mariti andavano in fabbrica le mogli che, diventando “concierge”, percepivano anche uno stipendio, curavano la posta dei condomini, facevano le pulizie delle scale, portavano fuori le spazzature la mattina presto ecc. Così i miei presero in custodia un palazzo nel pieno centro storico di Parigi. Ricordo che, almeno fino alle scuole medie, di non avere avuto che amiche italiane, spagnole e portoghesi. Le maestre dimostravano insofferenza nei nostri confronti mettendoci da parte come elementi che disturbavano la loro idea di “purezza” del popolo. Noi, figli di emigrati, poiché sapevamo che nessuno ci avrebbe potuto aiutare in casa e che non avremmo avuto la possibilità di consultare altri libri o enciclopedie tranne che quelli della biblioteca comunale, eravamo tutti tra “i primi della classe”, eravamo coscienti che ci dovevamo impegnare più degli altri. Una voglia di applicarsi per non sentirsi di meno, una rivalsa che, con il passare degli anni, si è trasformata nella consapevolezza che la nostra doppia cultura non poteva che essere fonte di arricchimento, apertura versa la tolleranza, visione più ampia del modo e dei suoi confini geografici, comprensione della diversità e dell’isolamento. 1 L’Emigrazione degli Italiani in Francia nella prima meta del novecento. In un paese che si sta industrializzando, le esigenze di mano d’opera hanno portato alle due grandi ondate di arrivi del XX secolo: negli anni venti (1920-1930) per la ricostruzione del paese dopo la prima guerra mondiale e, dal 1945 al 1960, l’emigrazione di massa, proveniente dal Nordest dell’Italia e soprattutto dalle regioni meridionali, come risposta al nuovo sviluppo economico, alla denatalità francese e alla guerra d’Algeria (1954-1962), che avevano notevolmente ridotto la forza lavoro francese. Tra il 1946 ed il 1967 entrano in Francia cinquecento sessantamila italiani. Dal 1962 al 1975, gli Italiani sono stati la prima popolazione immigrante (32%), davanti agli Spagnoli, i Polacchi e gli Algerini. Per organizzare l’abbondantissimo flusso migratorio viene istituito l’ONI, Office National d’Immigration, nel novembre 1945. Decentrato nelle regioni francesi, bisognose di manodopera e nei Paesi stranieri di potenziale offerta, l’ONI ha selezionato e smistato milioni di lavoratori stranieri.

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PARTIRE È UN PO’ MORIRE Lo studiare con passione e curiosità, il lavorare per imparare che la vita è sudore, fatica, conquista, il saper risparmiare per le ristrettezze economiche. Eppure, il sentirsi denigrati, non accettati, scherniti non impedivano agli Italiani emigrati di sentirsi dei “diversi”: i miei genitori facevano ogni sforzo per integrarsi totalmente pur mantenendo la loro identità e la loro peculiarità di uomo e di donna del sud.2 La volontà a non cancellare le proprie origini, tramandando ai figli la memoria delle proprie radici era uno straordinario atto d’amore sia nei confronti della propria famiglia che della propria terra. Affrontavano senza paura e con dignità il rifiuto dei francesi verso gli italiani, chiamati in modo peggiorativo “ritals”. Con le loro forze e con poche risorse economiche si realizzarono pian piano, senza mai dimenticare le loro origini. Conservo ancora il ricordo del loro atteggiamento non remissivo o sottomesso ma rispettoso nell’adattarsi a un paese che aveva dato loro riscatto. Un ambientarsi nel rispetto e nell’osservanza delle regole senza rinnegare mai la propria identità. Si parlava italiano in casa (per meglio dire in dialetto) ogni due anni si tornava in Italia in agosto con le venti ore di viaggio quasi sempre seduti nei corridoi. In Francia eravamo gli Italiani, ma quando arrivavamo in Italia diventavamo stranamente i Francesi. E ci chiedevamo: “Ma allora a chi apparteniamo?” Un viaggio che ci faceva varcare un’altra frontiera, oltre che quella naturale, quella simbolica del passaggio a un’altra cultura fatta di case bianche, di calanche, di terre polverose che portavano al mare ma anche di gente “come noi” dal viso bruno e dalle braccia sempre aperte, sorridenti ed accoglienti. Ogni tanto durante l’anno arrivavano a casa dei pacchi avvolti da carta beige e spago: erano gli “odori e i sapori” del proprio paese, olio d’oliva, salami, formaggi, melanzane sott’olio. I miei amici non erano solo Francesi, e non solo di confessione cattolica erano anche Ebrei e Musulmani, Africani e 2 L’integrazione degli Italiani. I francesi, in un primo tempo, considerarono questo afflusso come una nuova invasione. Secondo le regioni in cui si insediarono, questi nuovi immigrati subirono, come le generazioni precedenti, discriminazione e rifiuto. Ma la partecipazione degli italiani alla ricostruzione della Francia suggellò ancora una volta l’amicizia tra i due popoli: il periodo del dopoguerra è evocato da imprenditori, artigiani, patroni o semplici lavoratori come il tempo dell’orgoglio, del radicamento, della reciproca accettazione dell’inserimento nella società d’accoglienza. Questi forestieri, con poche pretese, scarsa sindacalizzazione e grande capacità di lavoro hanno dato un contributo decisivo allo sviluppo economico della Francia. Presso gli Italiani appare un desiderio di stabilirsi in modo più durevole in Francia. Nel 1962, il loro numero aumenta passando al 52% di stranieri appena naturalizzati francesi. La nuova generazione di italiani nati in Lorena e scolarizzati a livello locale, preferisce andare verso il commercio (30%) o montare una piccola attività commerciale. Per questa seconda generazione e gli immigrati dopo gli anni sessanta, l’inserimento è stato più facile, anche se ci sono differenze significative da una regione a altra. Così, a larga maggioranza (60%), i primi immigrati - arrivati in Francia tra il 1950 e il 1963 ritengono che i francesi li hanno fatto una buona accoglienza. Dal 1960, una gran parte degli immigrati italiani scelse di rimanere permanentemente in Francia.

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Marie - José D’Alessandro Maghrebini, Spagnoli, Portoghesi e ovviamente … Italiani. Un “ meltingpot ” di culture, etnie, religioni, pelle e lingue di colore diverso. Una doppia appartenenza culturale che mi ha dato l’opportunità di vivere sempre a cavallo tra due frontiere prendendo il meglio da ambedue i confini, da cittadina franco italiana a cittadina del mondo. Le nostre radici culturali, tradizioni e costumi non sono sicuramente dei rigidi schemi che separano il falso dal vero, il giusto dallo sbagliato, il brutto dal bello. Sono dei “filtri” emotivi e cognitivi con i quali possiamo provare a vivere con gli altri. Una collettività socialmente matura, consapevole e tollerante nei confronti delle diversità, fiera della sua pluralità umana e culturale La valigia dell’emigrante

Non è grossa, non è pesante la valigia dell’emigrante… Le nostre radici culturali, tradizioni e costumi non sono sicuramente dei rigidi schemi che separano il falso dal vero, il giusto dallo sbagliato, il brutto dal bello.

C’è un po’ di terra del mio villaggio, per non restare solo in viaggio... un vestito, un pane, un frutto, e questo è tutto. Ma il cuore no, non l’ho portato: nella valigia non c’è entrato. Troppa pena aveva a partire, oltre il mare non vuol venire. Lui resta, fedele come un cane, nella terra che non mi dà pane: un piccolo campo, proprio lassù… Ma il treno corre: non si vede più. (Gianni Rodari)

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I colori della pelle

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I COLORI DELLA PELLE Francesco Marchetti

Il caso Rollins v. Alabama dimostra che il colore della pelle che ciascuno di noi percepisce, oltre ad essere il risultato oggettivo di una variabile fisico-chimica, e anche il frutto, a volte avvelenato, di una variabile culturale. Jim Rollins era un afro-americano imprigionato nel 1922 per il crimine di “miscegenation” (matrimonio interrazziale). Tuttavia nello stesso anno, la Corte d’Appello dell’Alabama annulla la sentenza e lo rimette in libertà con la motivazione che non esiste nessuna prova che dimostri chiaramente che la donna in questione, Edith Labue, sia una donna bianca. Edith Labue, infatti, era una immigrata siciliana, quindi, per i giudici dell’Alabama era “inconclusivelywhite” inconsistentemente bianca, era qualcosa in-between. Come afferma lo storico Robert Orsi, il problema della popolazione “in-between”, per gli Italiani del sud immigrati negli USA a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, era basato su precisi fattori, centrati su dati culturali, come l’uso di “categorie razziali”, presente in Italia per distinguere gli italiani del nord da quelli meridionali, ed il far proprio lo stesso concetto da parte dei maggiori commentatori giornalistici americani circa le persone immigrate dal sud Italia. Concetto ribadito anche da noti politici come Henry Cabot Lodge, che distingueva i “Teutonic Italians”, gli Italiani del nord, chiaramente bianchi, dagli Italiani del sud che, a suo dire, erano appunto “in-between” inconsistentemente bianchi, perché di pelle scura. Sempre a proposito di colore della pelle, mi sembra interessante ricordare il terrore che la popolazione di pelle nera ha per le chiazze acroDi che colore è la pelle di Dio

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miche (bianche), retaggio di una ancestrale paura di essere esclusi dalla comunità, perché portatori del morbo di Hansen (lebbra); E per contro la voglia di “nero”, la moda della “tintarella”, che induce molte persone di pelle bianca a modificare, grazie al pigmento melanico, il colore della propria pelle. Penso che quanto fin qui argomentato dimostri chiaramente che il colore della pelle che ciascuno di noi percepisce, oltre ad essere il risultato oggettivo di una variabile fisico-chimica, e anche il frutto (a volte avvelenato) di una variabile culturale. Credo inoltre che sia utile riproporre alla comune riflessione il caso Rollins v. Alabama per capire se anche noi, quando esprimiamo un giudizio sulle persone che incontriamo lungo la nostra strada, valutiamo pregiudizialmente tenendo conto del “colore”… e non solo di quello della pelle… converrete infatti con me che ci sono altri “colori”, riferibili alle persone, che oltre ad essere il risultato di un dato oggettivo, sono il frutto (a volte avvelenato) di una variabile culturale.

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LA RUPE DEL CONSIGLIO

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LA RUPE DEL CONSIGLIO: gli A.S. si confrontano con la legge scout

La Guida e lo Scout: 1 - Pongono il loro onore nel meritare fiducia 2 - Sono leali 3 - Si rendono utili e aiutano gli altri 4 - Sono amici di tutti e fratelli di ogni altra Guida e Scout 5 - Sono cortesi 6 - Amano e rispettano la natura 7 - Sanno obbedire 8 - Sorridono e cantano anche nelle difficoltà 9 - Sono laboriosi ed economi 10 - Sono puri di pensieri, parole ed azioni “Solo alcuni decenni fa, in Italia, appresi ed imparai ad usare una parola nuova, forse un po’ magica: intercultura. Che cosa è? C’entra con la mondialità? Ad ognuno di noi si impone l’incontro e il confronto fra modelli di cultura profondamente differenti; ad esempio, la cultura dei Paesi nordici, la cultura araba, la cultura cinese … Naturalmente intendo per cultura non il complesso delle nozioni studiate a scuola, intendo piuttosto il modo di vivere, i valori a cui ci si riferisce, le tradizioni familiari ecc. La scoperta di culture diverse da quella in cui si è nati e cresciuti, e in cui siamo stati educati, spesso provoca una crisi del nostro modello di formazione e di vita; e richiede ad ognuno di noi di ripensare ai rapporti uomo-mondo, uomo–donna, solidarietà ed individualismo, uso del denaro e dei beni comuni ecc. Parlando con le nostre sorelle e fratelli adulti scout, non dovremmo stupirci nel trovare culture diverse, a volte lontane dalla nostra: ad esempio, in materia di rispetto

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la scommessa dello scoutismo adulto è proprio qui, di riuscire a considerare sorelle e fratelli (4° art. legge scout) anche coloro che possiedono valori molto lontani dai nostri ad esempio nel matrimonio, nei rapporti uomodonna, nella parità di diritti e doveri, nella sussidiarietà

LA RUPE DEL CONSIGLIO della persona, di parità fra uomo e donna, di democrazia, di sussidiarietà. Una volta un adulto scout di religione cristiana, vivente in un Paese di cultura musulmana, mi chiedeva: «Ma posso considerare come fratello scout, come dice la legge, una persona che ha tre mogli, con le quali non è né cortese né cavalleresco (5° art. legge), e con le quali mantiene un rapporto di sopraffazione?». Non ho saputo che cosa rispondere. Ma la scommessa dello scoutismo adulto è proprio qui, di riuscire a considerare sorelle e fratelli (4° art. legge scout) anche coloro che possiedono valori molto lontani dai nostri ad esempio nel matrimonio, nei rapporti uomo-donna, nella parità di diritti e doveri, nella sussidiarietà. Sono questi i tema che qualche anno fa abbiamo affrontato in un convegno tenutosi a Meta di Sorrento “La condizione della donna sulle due sponde del Mediterraneo”, a cui hanno partecipato adulti scout, donne e uomini, di diversi Paesi. Parlando di interculturalità, ci riferiamo ai rapporti e alla crescita di donne e uomini di nazionalità, religione, consuetudini familiari e sociali diverse. Ci riferiamo alla necessità di un confronto e di una reciproca comprensione fra i popoli, riconoscendo il contributo che ogni popolo può dare alla cultura di ogni altro popolo. Riconoscere il patrimonio culturale degli uomini e delle donne di cultura diversa dalla nostra, soprattutto in materia di religione, è prerequisito necessario per parlare di fraternità scout, nel senso trasmessoci da Baden-Powell nel 4° art. della legge scout. È il modo scout per parlare di intercultura.”

Paolo Linati Il mio nome è la mia sola casa Oggi, primo aprile alle ore 19.15 ho appena guardato il TG regionale Emilia-Romagna che ha presentato un servizio su un libro scritto da una signora ravennate impegnata da tento tempo in una casa di accoglienza di Ravenna in cui sono ospiti uomini e donne stranieri. In vista della stesura del libro lei ha chiesto a tutti gli ospiti di disegnare la loro casa che avevano lasciato in patria. Tutti tranne uno l’hanno fatto e alla richiesta dell’autrice del perché non lo faceva il fratello straniero ha scritto il suo nome dicendo “Il mio nome è la mia sola casa”. Sono rimasto colpito da questa affermazione e da qui muovo i miei passi per parlare del mio rapporto con la legge scout riguardante la mondialità. Se la Guida e lo Scout sono amici di tutti e fratelli di ogni altra Guida e Scout (come recita il 4° articolo della Legge) come riesco ad incarnarlo nel mio quotidiano? Io faccio una professione particolare, il medico, che porta naturalmente

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LA RUPE DEL CONSIGLIO all’incontro con le persone alle prese con problemi di salute. Questo è stato vero per me con maggiore continuità negli anni ’80 quando ero medico di famiglia. Erano gli anni in cui arrivavano i primi immigrati africani, tutti ragazzi giovani, soprattutto del Maghreb (Tunisia e Marocco). Mi sono da subito reso disponibile con il Centro Caritas della mia città, situato nei pressi del mio ambulatorio, come medico disponibile per le esigenze di salute di chi si presentava. Devo dire che ho cercato (e a dire di loro ci sono riuscito) ad instaurare un rapporto sereno, caldo, accogliente. La spinta me l’ha data senza dubbio la mia propensione vitale per il dialogo con tutti, a tutti i livelli, a tutto campo (culturale, etnico, religioso) e poi lo scautismo (che ho scoperto già vivevo per gli ideali condivisi da tanto tempo pur senza aver ancora fatto la promessa). Con chi si presentava in ambulatorio io partivo da un semplice domanda: “Da dove vieni?” E loro credendo di avere di fronte un italiano come la stragrande maggioranza, poco attento alla mondialità, dicevano semplicemente la loro nazione. Ma io chiarivo al mia domanda, chiedendo da quale città o villaggio erano provenienti. Vi era sul loro volto un po’ di stupore: “Perchè tu sei stato nel mio Paese?” Io dicevo “No” ma alla loro risposta era come ci fossi stato, data la mia enorme passione per le geografia e la storia, sin dalle scuole elementari, che mi ha permesso più volte di poter confrontarmi anche con tanti amici o conoscenti che il mondo l’avevano o l’anno girato. Chiedevo allora particolari tipo distanza da luoghi conosciuti, capitale, catene montuose, confini di stato. Qualche marocchino diceva “Vengo da Casablanca” ed io di rimando “DharBaidà?”, cioè Casa Bianca in lingua araba, destando la meraviglia dell’interlocutore che chiedeva: “Tu conosci la mia lingua araba?” Con mio rammarico dovevo dire di no. Mi sarebbe piaciuto e tutt’ora mi piacerebbe e allora dicevo e dico “Inshallah (A Dio piacendo) lo imparerò”. Questa apertura semplice di conversazione che si allargava nel tempo anche ad aspetti diversi mi ha permesso di mettere a loro agio nel tempo tanti immigrati. Ho pensato anche subito di procurarmi un testo medico plurilingue per la descrizione medica dei sintomi e brevi domande di tipo generale, perché alcune volte l’interlocutore non conosceva la nostra lingua. Sono stati anni molto belli, costruttori di rapporti sinceri e sereni, ma nel 1995 ho dovuto abbandonare quell’attività, intraprendendo quella di medico del lavoro pubblico. Anche in questo nuovo impegno mi capita di incontrare lavoratori stranieri ed ho mantenuto con loro l’approccio di allora, cosa che noto è molto apprezzata. Io sono anche impegnato in associazioni di volontariato cittadino ed in esse operano o si incontrano persone straniere. La mia naturale propensione al

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LA RUPE DEL CONSIGLIO dialogo mi permette di instaurare con tutti rapporti di fiducia e di collaborazione. In cosa mi aiuta la legge scout? Come ho già detto prima devo dire che io mi ci sono trovato pienamente, perché la mia promessa scout del 1995 non era che il coronamento di quello che sono sempre stato: non è stato quindi nulla di nuovo, era il prosieguo con altra consapevolezza di quello che sono stato, sono e sarò sempre. Tornando al titolo del mio contributo vorrei veramente poter dire che il mio nome (Adulto scout) è la mia casa, cioè la mia sede di affetti, di cordialità, di disponibilità concreta, di apertura mentale, di servizio utile ai fratelli e alle sorelle di tutto il mondo, a cominciare da quelli più vicini a me, gli immigrati nella mia città.

Claudio Bissi Quando, in diverse occasioni, mi è capitato di ragionare sulla nostra Legge ho sempre molto apprezzato il fatto che non pone dei divieti ma esorta a comportamenti “virtuosi”, già questo stile si pone nell’ottica dell’accoglienza. I divieti solitamente allontanano e dividono; i suggerimenti di comportamento creano gruppo e uniscono in una visione comune.

Mauro Mellano Mi sono accostato allo scautismo, e di conseguenza alla Legge scout, da adulto. I dieci articoli in essa contenuti non si sono rivelati come qualcosa di nuovo o innovativo perché già presenti, anche se in forma “negativa”, nei Dieci Comandamenti ed anche nel mio pensiero. Abbracciare la Legge scout non ha richiesto un sacrificio, un disagio, una privazione o una rinuncia: è stato piuttosto una conferma di quanto sperimentato nel mio cammino. Il quarto articolo, in particolare, La Guida e lo Scout sono amici di tutti e fratelli di ogni altra Guida e Scout, mi ha fatto sentire parte di una umanità che, come me, condivide i valori della fraternità, del rispetto e dell’accoglienza dell’altro .

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STAZIONE CONSAPEVOLEZZA

Stazione consapevolezza- età 24/27 anni-Africa del nord- AustraliaMessico-Guatemala. Ormai so come muovermi e non mi lascio trascinare dalla corrente. L’università è finita e devo cercare la mia strada. Decido di fare un dottorato di ricerca in antropologia, geografia e sviluppo ambientale. Ho in mente un progetto che mi permetterà di viaggiare per lavoro. Vado in Australia ma finisco in Toscana ad archiviare quasi un migliaio di ora di video di tutto il mondo. Realizzo l’enorme differenza tra la conoscenza teorica (attraverso lo sguardo altrui) e la conoscenza per esperienza diretta. Parto in Messico per girare un documentario sui viaggiatori. Finalmente sono in pace con me stessa perchè non mi sento più una vagabonda perditempo. Di conseguenza inizio a smettere di criticare le ingiustizie del mondo e mi accorgo che per giudicare la gente d’oltremare dovrei averne una conoscenza profonda almeno quanto quella del mio termine di paragone, la mia cultura. E una vera conoscenza non può che darsi con l’esperienza diretta. E allora quante culture si possono davvero capire in una vita? Se poi si prende in considerazione l’unicità e la complessità di ogni singola persona, si perde la speranza di trovare risposte nel viaggio. Ora ho capito che viaggiare serve a fare esperienza dell’infinita vastità dell’altro da se, per dimensionare la propria posizione nel mondo ma non per capirne il funzionamento. In questi anni mi sentivo sempre più piena, più grande...e ora sono piccola ...ovvero giusta, proporzionata.

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LA GLOBALIZZAZIONE padre Francesco Compagnoni

La globalizzazione: business, cultura, religione. La globalizzazione è un fenomeno globale! Cioè estremamente esteso, multiforme, omni-invasivo. Il francese usa il termine di mondializzazione ma è equivalente. Il termine significa in generale che molti fenomeni legati alla vita dell’uomo sono usciti dai distretti locali, regionali, nazionale, continentali e sono diventati mondiali. A questo va aggiunto l’effetto di feed-back: anche i fenomeni locali risentono della loro relazionalità universale. La globalizzazione è iniziata realmente con le scoperte transoceaniche da parte dei paesi europei che furono realizzate dal XV secolo: circumnavigazione dell’Africa verso l’India,scoperta dell’America, circumnavigazione del globo. Oggi siamo giunti ad una mondializzazione del business, della produzione industriale, della finanza, della comunicazione, delle tecnologia… Quella della cultura non è ancora totale, se si prescinde dal business dell’intertainment che si avvia però velocemente ad una realizzazione completa. La cultura scientifica poi è già da molto tempo in massima parte internazionalizzata. Se vogliamo iniziare dalla globalizzazione del business, allora dobbiamo in primis sottolineare che i flussi di capitali sono oramai slegati dal controllo dei singoli stati - per quanto importanti questi siano - e percorrono le rotte del profitto arrivando in ogni angolo del globo. Si dislocano i centri di produzione alla ricerca delle più vantaggiose situazioni. Vantaggiose per gli investitori, s’intende. Per questo però è necessario che il paese ricevente tragga anche qualche profitto e questo qualche volta è legato alla corruzione delle autorità locali, oppure a leggi molto permissive o per nulla applicate. Il vantaggio delle maestranze locali può comunque essere immediatamente reale; se è anche duraturo, va verificato di volta in volta.

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LA GLOBALIZZAZIONE

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Rispetto allo loro origine. Il manager internazionale parla inglese ed è del tutto irrilevante se è di origine siciliana o cantonese. Quanto più però l’implicato è basso nella scala del business tanto meno ha capacità di resistere a questo processo. Gli albanesi che anni fa vedevano a casa loro la TV italiana si meravigliavano realmente quando arrivavano da noi e vedevano che la vita quotidiana non era come la vedevano sullo schermo ! La globalizzazione in teoria crea condizioni più favorevoli, più desiderabili, per tutti coloro che vi partecipano, ma i suoi processi reali sono estremamente dolorosi. Si pensi alla delocalizzazione dei centri produttivi che rendono povera una regione fino ad allora discretamente benestante. Si pensi alle migrazioni forzate di ingenti masse di persone. Tutto questo implica uno shock culturale: un essere estratto dalle proprie radici e la necessità inderogabile di ripiantarsi. Viene messa in discussione ogni gerarchia di valori personali ed esistenziali: civili, linguistici, professionali, religiosi, scolastici. La persona non ha più un insieme di valori vitali sul quale orientare il proprio comportamento concreto ed ancor più le proprie speranze e quelle dei suoi figli. L’emigrazione degli europei negli ultimi secoli non implicava l’immediata rinuncia totale alla propria cultura. Si pensi anche alla migrazione dei cinesi (ed in qualche modo anche degli ebrei) che per secoli hanno popolato l’Asia senza fondersi culturalmente. Oggi anche loro sono presi nella globalizzazione e molto probabilmente saranno presto integrabili ed integrati nei paesi ospitanti. Un problema particolare pone anche l’incontro delle religioni. Nel passato l’emigrazione europea era verso le Americhe, che in qualche modo erano tutte cristiane. Oggi invece la dislocazione delle persone avviene attraverso tutto il mondo, in modo che, per es., l’agricoltore lombardo cattolico si trova a convivere con una comunità intera di allevatori di bestiame Sikh, con i loro turbanti e la loro religione. E’ evidente che allora sarà tentato di pensare che diverse cose del proprio cattolicesimo tradizionale possono essere cambiate, ma normalmente non ha la strumentazione intellettuale e religiosa per distinguere il fondamentale dal secondario. Davanti ad un mussulmano che sostiene l’unicità di Dio saprà proporre (e proporsi) il significato della Trinità cristiana ? La globalizzazione culturale richiede quindi una riflessione più diretta sulla proprio cultura (compresa quella religiosa, che implicitamente condiziona i valori ultimi legati al senso della vita). Anche la Chiesa, proprio in quanto comunità di credenti, deve al più presto affrontare questo problema: dell’inter-religiosità, dell’interculturalità, della globalizzazione culturale.

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Non si tratta di fare una cultura di ’minimo comune denominatore’, bensì di proporre i propri valori in modo che possano essere integrati con quelli degli altri, alla ricerca di una nuova cultura comune realmente più ricca.

padre Francesco Compagnoni Per poter formulare i problemi, cercare collegialmente delle metodologie di ricerca e schizzare vie di soluzione. Non si tratta di fare una cultura di ’minimo comune denominatore’, bensì di proporre i propri valori in modo che possano essere integrati con quelli degli altri, alla ricerca di una nuova cultura comune realmente più ricca. La base sarà sempre la comune dignità umana, i diritti umani, le grandi fedi monoteiste… I problemi sui quali è necessario ri-orientarsi sono infiniti: famiglia, educazione figli, ruolo della comunità pubblica nella vita privata, posto della religione nella società, il lavoro, la giustizia sociale, lo sviluppo, la sanità, la difesa militare, l’arte… Tutto da ripensare nella nuova ottica, ma senza buttare il bambino con l’acqua sporca. I processi sociali dobbiamo dirigerli, nel senso di fare anche noi la nostra parte al di dentro di essi, e non subirli come un terremoto o uno tsunami. Dobbiamo costruire una cultura globalizzata, accanto ad una nazionale ed ad una personale. Il difficile è individuare e stabilire criteri di discernimento: cosa gettare, cosa cambiare, cosa tenere? Gli slogan come “aprirsi, dialogare, rispettare il diverso” indicano solo un’attitudine interiore di partenza. Ci spingono ad essere disposti a riconoscere la verità, la dignità dell’altro, il bene comune… ma non ci aiutano a decidere sui contenuti materiale o sostanziali dei suoi comportamenti. Il rispetto per l’altro è relativo alla sua dignità di persona, non alle sue idee e alle sue azioni, che dobbiamo invece valutare secondo criteri di verità ed oggettività. Anche un criminale ha la sua dignità che noi dobbiamo rispettare, ma non per questo accettiamo la sua azione criminale ed ancora meno non la impediamo, se è un fatto che riguarda la comunità in qualche modo negativo. Non dobbiamo cioè passare dal fondamentalismo (io ho ragione perché appartengo a questa comunità e tutti gli altri hanno torto perché non sono dei nostri) al relativismo di comodo (tutti hanno ragione, non esiste nulla di valido universalmente, neanche la mia religione). Ci attende dunque un cammino lungo e impegnativo. Auguriamoci di saperlo percorrere per la parte che ci compete. Come scriveva un cristiano al pagano Diogneto verso la fine del secondo secolo dopo Cristo: “ Dio li ha messi [i cristiani] in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare”. E’ la nostra presenza nella storia, l’unica possibile perché unica è la nostra vita su questa terra.

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LE RESISTENZE ALLA GLOBALIZZAZIONE Stefano Mannironi

Resistere alla Globalizzazione Parlare oggi di globalizzazione significa mostrare i limiti di un processo che per oltre venti anni ha posto al centro del mondo la economia nei suoi aspetti più deleteri, confinando al ruolo di meri fattori di produzione sia le persone che la natura e l’ambiente che ci circondano, con i risultati che sono ormai sotto gli occhi di tutti, anche di quelli che hanno sempre visto il Mercato come unico dio da adorare e servire fedelmente. Il processo è stato lungo, complesso e portato avanti silenziosamente da una pletora di fautori del Pensiero Unico che vedevano e vedono nella assenza di regole nella gestione della economia la panacea di tutti i mali del mondo, il rimedio per sopperire alle ingiustizie sociali, alla perequazione delle ricchezze tra il nord ed il sud del mondo, in una girandola di concetti “positivamente” propinati all’opinione pubblica in maniera subdola allo scopo di addolcire una medicina rivelatasi tutt’altro che salvifica. Il crollo del muro di Berlino, nel 1989, ha da un lato rappresentato il trionfo del mercato sul c.d. modello di economia sociale e nel contempo accelerato in maniera impressionante il diffondersi del richiamato Pensiero Unico, consentendo alla economia dei capitali di governare l’intero mondo , riducendo al ruolo di mere comparse i governi dei singoli Stati e gli uomini che in teoria dovrebbero rappresentare dette Nazioni. Gli esempi della Grecia, della Irlanda, della Spagna ed anche della nostra povera Italia, per accennare soltanto a ciò che attualmente accade in Europa, sono soltanto le ultime manifestazioni di un processo che ha ridotto e riduce in miseria gran parte del Genere Umano, con i Governi obbligati a seguire le ricette della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale prettamente finalizzate a consentire di pagare la

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Resistere alla Globalizzazione vuol dire pertanto portare avanti delle azioni che sono alla portata di tutti ogni giorno

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enormità dei debiti contratti dal sistema finanziario non per cercare di migliorare le condizioni dei popoli ma esclusivamente per consentire la sola speculazione nelle Borse operanti nei diversi settori del dio Mercato, dove la legge dei numeri è utilizzata esclusivamente per calcolare i profitti non per determinare le perdite anche di vite umane ogni giorno prodotte da questo sistema perverso. Al concetto di Globalizzazione così inteso si accompagna poi l’incitamento all’acquisto spasmodico di qualsiasi merce o servizio, con una azione mass-mediatica non meno subdola che per lungo tempo ha convinto e convince noi tutti a comprare qualunque cosa anche quando non ne abbiamo necessità, perchè, secondo il Pensiero Unico, il consumo genera ricchezza e soddisfa i nostri bisogni, di fatto artatamente generati da questi abili manipolatori che ci costringono ad uno stato di dipendenza che deve essere continuamente soddisfatta, dove la nostra libera scelta è praticamente inesistente ed il genere umano ridotto ad automa governato dalle decisioni altrui. In questo quadro così velocemente abbozzato un ruolo di non poca importanza ritengo che abbia giocato il silenzio se non addirittura la complicità dei c.d. intellettuali o comunque delle classi colte e benestanti che hanno consentito l’affermarsi del Pensiero Unico divenendone paladini e sostenitori a volte per un mero tornaconto personale ovvero per semplice incapacità di percepire gli effetti devastanti che da esso potevano derivare. Se oggi, infatti, possiamo discutere di Resistenza alla Globalizzazione dobbiamo soltanto ringraziare l’ultimo anello della classe produttiva, e cioè quei lavoratori della terra che sono stati i primi a cadere sotto la mannaia del dio Mercato, sono stati i primi ad organizzarsi tra loro per cercare di salvare le loro economie di sussistenza quando gli è venuto a mancare quel pane quotidiano che tutti dovrebbero poter mangiare ma che in tantissimi purtroppo non hanno. Il movimento è perciò partito dal basso, dal SUD del MONDO, per poi divulgarsi in tutti i continenti via via che gli effetti dirompenti della globalizzazione si sono manifestati anche altrove, anche in quei Paesi come l’Italia che il Pensiero Unico ha nel frattempo ridotto in miseria dopo averne obnubilato le menti allo scopo di non far percepire il fatto che i mali altrui sarebbero presto diventati anche i nostri , con una tecnica rivolta a far ragionare per compartimenti stagni, dove ciascuno di noi doveva occuparsi esclusivamente del proprio giardino dopo aver realizzato un bel muro di cinta così da non poter vedere l’avanzare del deserto intorno.

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In questo suo spirito rivolto a far trionfare la totale assenza di regole il dio Mercato non ha però tenuto conto di due fattori che nel silenzio hanno contribuito e contribuiscono a destabilizzare i principi del Pensiero Unico : la circolazione delle IDEE e delle PERSONE ha infatti consentito e consente lo scambio di esperienze generando quegli anticorpi che se da un lato, qui come altrove, ci permettono di affrontare con cognizione di causa la situazione attuale nel contempo ci fanno sperare in un FUTURO MIGLIORE. Ed infatti la consapevolezza di non essere più soli nella battaglia che ogni giorno cerchiamo di portare avanti ci induce ad auspicare la nascita di un nuovo mondo che abbia al suo centro la PERSONA e non il PROFITTO, il BENE COMUNE e non la RICCHEZZA di una oligarchia di burocrati che si disinteressa del genere umano e dell’ambiente che lo circonda. NOI VOGLIAMO ridiventare padroni del nostro FUTURO, vivere in un mondo la cui regola fondante deve essere quella del RISPETTO del PROSSIMO e della NATURA, principi tutti fino ad oggi calpestati dal Pensiero Unico che noi VOGLIAMO abbattere con la nostra azione quotidiana, costante e silenziosa, ben consapevoli delle potenzialità che le scelte di ciascuno di noi possono avere in questa lotta che deve essere unitaria e coerente perchè possa produrre i suoi frutti benefici QUI ED ORA. Resistere alla Globalizzazione vuol dire pertanto portare avanti delle azioni che sono alla portata di tutti ogni giorno e che possiamo brevemente ricomprendere in tre distinte categorie: a) resistenza economica : mediante il ricorso alla autoproduzione, alla filiera corta ed al commercio equo e solidale. La economia attuale ci induce ad acquistare i beni od i servizi che hanno per noi apparentemente un costo minore ma che in realtà hanno dei costi elevatissimi per la intera società. Acquistare ad es. dell’aglio prodotto in Cina o della frutta o verdura prodotta in nazioni distanti migliaia di km dall’Italia soltanto perchè hanno un prezzo minore rispetto agli stessi beni prodotti nella nostra Nazione da un lato giustifica lo sfruttamento dei lavoratori degli altri Paesi e nel contempo uccide la economia locale che non è comunque in grado di sostenere il prezzo concorrente se non andando in perdita. Di fatto dobbiamo considerare che circa il 70-80% di ciò che noi abitualmente mangiamo non viene più prodotto in Italia, per cui nel momento in cui le nostre famiglie non dovessero avere la disponibilità economica per acquistare i generi alimentari rischiano di non essere

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più in grado di disporre neppure dei più elementari generi di sussistenza (pane, pasta, ecc.), così come è avvenuto all’inizio degli anni 2000 in Argentina dove la gente moriva di fame perchè la produzione era esclusivamente rivolta alla esportazione e non al mercato interno. A tutto ciò si aggiunge il fatto che le merci così trasportate dalle Nazioni lontane producono sia l’inquinamento atmosferico (produzione di CO2 dalle navi che assicurano il trasporto, oltre l’utilizzo di dosi massicce di anticrittogamici per consentire la conservazione dei prodotti alimentari esportati) che dello stesso mare (quale conseguenza del continuo andirivieni di enormi porta-container o petroliere), costi dei quali il singolo utente non tiene usualmente conto ma che gravano comunque sulla intera società in termini tutt’altro che irrisori. L’acquisto del prodotto locale serve pertanto ad evitare il verificarsi di tutti questi effetti perversi, creando nel contempo un rapporto diretto tra il produttore ed il consumatore anche sotto il profilo umano, così mettendo in secondo piano il ruolo delle gradi catene di distribuzione, che senza produrre alcunchè si limitano a sfruttare la produzione imponendo condizioni capestro agli stessi produttori. b) resistenza politica : mediante la salvaguardia del principio della autodeterminazione dei popoli e delle singole Nazioni. La politica economica di ogni singolo Stato deve essere determinata sulla base delle esigenze della popolazione e non del dio Mercato. La permanenza all’interno della Unione Europea deve essere consentita a condizione che vengano rispettati i principi affermati dall’art.3 della Costituzione italiana. Detta norma se da un lato afferma che tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di sesso, etnia, lingua, religione od opinioni politiche, nel contempo obbliga lo Stato a rimuovere tutti gli ostacoli che limitando la loro uguaglianza e libertà possono impedire il pieno sviluppo della persona umana, ponendo così l’UOMO al centro della azione politica. Questo principio in alcun modo può essere limitato dalla normativa sovranazionale che, quanto meno allo stato, appare invece prettamente rivolta a tutelare le regole del Mercato e null’altro. In tal senso la nostra azione deve essere rivolta a creare la consapevolezza nelle persone che ci circondano che coloro che in futuro dovranno rappresentarci nelle sedi istituzionali, da quelle locali a quelle sovranazionali, dovranno uniformarsi a detto principio fondamentale discostandosi dal quale non potranno più avere il nostro sostegno, quale che possano essere e siano le idee politiche di ciascuno di noi. Tutela della persona vuol dire anche rispetto dell’ambiente che ci

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circonda, per cui anche a livello locale, ciò comporterà che tutte le decisioni che riguardano la gestione del territorio debbano essere concordate con i cittadini che dimorano in quella determinata realtà e nei limiti di ciò che la popolazione ritiene effettivamente necessario. In altre parole, oltre all’utilizzo di materiali non inquinanti, di tecnologie rivolte al risparmio energetico, si deve evitare l’inutile consumo del territorio mediante la realizzazione di nuove strutture altrettanto inutili, cercando di recuperare l’esistente rendendolo conforme alle norme ambientalistiche vigenti. c) resistenza culturale : mediante una azione rivolta al sostegno della multiculturalità e della interculturalità. Il Pensiero Unico ha cercato e cerca di uniformare il modo di ragionare di tutto il genere umano al fine di sottoporlo alle regole del Mercato. Un ragazzo di Johannesburg oggi si veste, si muove e pensa in maniera non molto difforme da una sua coetanea di Pechino o di Rio de Janeiro. Le immagini viaggiano infatti veloci nell’etere ed INTERNET con tutte le sue appendici ci consente di essere contestualmente in ogni parte del mondo senza spostarci dalle nostre abitazioni. Ogni hanno però centinaia di culture vengono distrutte perchè assorbite nel Pensiero dominante, con un danno gravissimo per tutti , perchè nella diversità vi sono i suoni, i colori ed i sapori di un mondo che rischia di diventare monotono e di un solo gusto. Dobbiamo, pertanto, coltivare il nostro senso di APPARTENENZA difendendo con i denti la nostra IDENTITA’, non perchè riteniamo di essere migliori degli altri per imporre loro la nostra cultura, ma perchè vogliamo mantenere intatte le nostre radici. Un popolo senza radici rimane in balia del vento e degli umori che lo cavalcano. Il nostro attaccamento alla cultura che ci appartiene ci deve servire per confrontarci con gli altri per migliorarci, acquisendo il frutto delle esperienze altrui così da poter costruire una società che , come l’ARCOBALENO, sia l’espressione di un mondo variopinto e PACIFICO, dove tutti saremo uguali nella diversità. E’ necessario dialogare sempre, a qualunque costo, con tutti. Partendo da un ascolto autentico e da una relazione aperta, essere disposti al confronto, alla negoziazione, alla comprensione reciproca, senza accettare le facili vie della chiusura, del dogmatismo, del pregiudizio. Questa è la sfida dell’interculturalità .

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Rispettare il prossimo vuol dire anche farsi carico dei problemi altrui, perchè quel prossimo siamo noi stessi, in quanto figli di Dio.

L’immigrazione è il frutto delle sperequazioni economiche che attual-

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mente governano il mondo. Chi cerca di arrivare in Italia ed in genere nel mondo occidentale è indotto ad una tale scelta di vita per sottrarsi ad una condizione di estrema povertà quando non rappresenta la necessità di sottrarsi ad una guerra fratricida esistente nel proprio Paese di origine il più delle volte dovuta al controllo delle risorse che potenze straniere, la nostra compresa, vogliono accaparrarsi. La guerra è infatti divenuta lo strumento utilizzato dal Pensiero Unico per sottomettere o ridurre al silenzio coloro i quali si oppongono al dio Mercato.

Conoscere le realtà diverse dalla nostra ci servirà a farci apprezzare quella in cui noi viviamo abitualmente, insegnandoci a liberarci del superfluo dopo aver conosciuto la mancanza dell’essenziale. Laddove spesso manca il pane è la condivisione del poco quella che trionfa e l’amore prevale sull’individualismo, concetti a noi tutti ben noti ma troppo spesso messi da parte per egoismo o semplice pigrizia mentale.

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Rispettare il prossimo vuol dire anche farsi carico dei problemi altrui, perchè quel prossimo siamo noi stessi, in quanto figli di Dio. Non possiamo più restare indifferenti davanti a quei 5 milioni di bambini che ogni anno muoiono di fame o per colpa di malattie che da noi vengono normalmente curate con dei semplici vaccini. La nostra indifferenza ci rende complici di questo genocidio che nel silenzio più totale viene perpetrato lontano dai nostri occhi. In questo senso, sarebbe auspicabile che ciascuno di noi mettesse a disposizione parte del proprio tempo libero dedicandolo al prossimo con continuità e coerenza. Ci sono tante persone che vivono da sole qui in Italia, anziani ed ammalati ai quali con la nostra presenza possiamo essere d’aiuto. E ci sono anche tante realtà all’estero dove la nostra presenza potrebbe servire per sostenere, anche soltanto moralmente, l’opera di quelli che in terra straniera cercano di assicurare un po’ di benessere alle donne ed agli uomini che ne sono privi. Conoscere le realtà diverse dalla nostra ci servirà a farci apprezzare quella in cui noi viviamo abitualmente, insegnandoci a liberarci del superfluo dopo aver conosciuto la mancanza dell’essenziale. Laddove spesso manca il pane è la condivisione del poco quella che trionfa e l’amore prevale sull’individualismo, concetti a noi tutti ben noti ma troppo spesso messi da parte per egoismo o semplice pigrizia mentale. Non disperdiamo le nostre energie e mettiamoci in gioco. Con il nostro operato possiamo oggi cercare di limitare gli effetti nefasti di un mondo che vuole essere a parole globalizzato, salvo poi costruire steccati e muri di recinzione che servono soltanto a non rendere evidenti quelle INGIUSTIZIE SOCIALI che ormai sono sotto gli occhi di tutti !

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LA NECESSITA’ del CAMBIAMENTO

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LA NECESSITA’ del CAMBIAMENTO Mauro Magatti

La crisi nella quale la società attuale è immersa non riguarda soltanto il “caso” italiano, ma si estende al modello di sviluppo del quale anche il Papa parla nella sua ultima enciclica, Caritas in veritate. Naturalmente, è necessario tener presente che il processo è in atto da secoli, benché lo si possa storicamente collocare negli ultimi trent’anni, a partire dalla “crisi prolungata” dell’ultimo quarto del secolo scorso. Gli effetti si sono fatti sentire già nel ventennio conclusivo del Novecento, per raggiungere oggi il loro acme. Il periodo delineato ha dei caratteri ben definiti, che in qualche modo lo distinguono dalle epoche precedenti e, per ragioni di ordine metodologico, è bene suddividere il lasso di tempo che separa l’Occidente dalla Seconda guerra mondiale ad oggi in due momenti: il primo, compreso tra l’immediata fase postbellica ed il 1989; il secondo, iniziato con la crisi degli anni ’70 e protrattosi fino all’inizio del terzo millennio. L’ultimo trentennio si è distinto per la rielaborazione della concezione antropologica affermatasi nei Paesi più evoluti, inscindibile dal modello istituzionale che l’ha accompagnata. Un’utile chiave di lettura per comprendere il suddetto arco temporale, insieme alla crisi nella quale la società postmoderna si trova immersa, insiste sul fatto che, la nuova antropologia, ancorata ad una visione profondamente individualistica dell’essere umano, e il mercato – l’istituzione che l’ha promossa – hanno reso possibile la separazione degli elementi che il modello precedente ha cercato di tenere uniti: le funzioni e i significati. In altri termini, ci troviamo di fronte al perentorio affermarsi di quel fenomeno che ho più volte designato con l’espressione capitalismo tecno-nichilista, che ha portato il mondo occidentale alla ridefinizione dei rapporti sociali, il cui esito è stato la nascita di una nuova concezione di libertà.

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Per meglio comprendere il senso del discorso, occorre fare un breve passo indietro, partendo dal capitalismo societario europeo e nordamericano del secondo dopoguerra. Quale ne fu il senso? Esso rappresentò la nascita, in un quadro di relazioni internazionali, di aggregati ben delineati da un punto di vista territoriale, che ha permesso la coesistenza di una società – dove la cultura era sostanzialmente integrata – di un sistema economico autonomo, come pure di istituzioni formalmente sovrane e democratiche. Oggi, lo scenario è completamente mutato. E il fatto che la crisi si manifesti nell’Occidente progredito non è un dato casuale. Il raggiungimento della maturità economica e il diffuso livello di benessere delle classi medie hanno innescato il detonatore. Si può attribuire al neoliberismo, infatti, l’uso spregiudicato del potere politico per dar vita ad un nuovo modello di governo, tutto teso a ridurre al minimo i significati collettivamente condivisi e a rendere sempre più efficienti le funzioni che enfatizzano il potere di azione individuale. Questo significa, concretamente, che è venuto meno ogni punto di riferimento e il singolo si è eretto a giudice supremo di ogni situazione. La sua azione, peraltro, ha assunto toni parossistici, poiché il processo è avvenuto – e avviene – in assenza di pause. Nessuna struttura può dirsi immutabile e, di conseguenza, in grado di prefigurare un avvenire dotato di senso. La vita – quella personale come quella biologica in generale – si trasforma in una ricerca senza fine, dove l’obiettivo da raggiungere non sarebbe un presunto significato delle cose – una qualche forma di verità, nel senso in cui è stata tradizionalmente intesa –, quanto piuttosto la moltiplicazione delle esperienze. La ratio che sostiene l’intero sistema può essere adeguatamente sintetizzata nell’espressione “purchè la macchina funzioni”, a partire dall’economia, in primis dell’economia finanziaria. Le città contemporanee devono uniformarsi al criterio dell’efficienza, per soddisfare la domanda di beni e di servizi proveniente dalle diverse comunità. D’altro canto, esse hanno bisogno di elaborare e condividere proprio dei significati, vale a dire delle spiegazioni del mondo, del senso della vita, che costituiscono la cornice dei legami e dei rapporti sociali. Nel secondo dopoguerra, come ho già ricordato, il tentativo di non separare le due dimensioni era stato sostenuto dalle strutture dello Stato-Nazione; non solo da quelle afferenti al settore pubblico. Nel privato, la FIAT con le sue grandi fabbriche si è mossa nella stessa

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direzione. In una prospettiva nazionale, lo Stato rappresentava un apparato funzionale – doveva essere efficiente, appunto –, senza sottrarsi all’importante compito di fornire un patrimonio di valori, pensieri e tradizioni ben riconoscibile. Si pensi, per esempio, alla scuola, una realtà preposta alla formazione, la selezione e l’educazione delle giovani generazioni – i futuri cittadini –; una palestra di vita, insomma. Ma ecco che, dagli anni Settanta del Novecento, funzioni e significati hanno progressivamente imboccato strade diverse. Il capitalismo tecnonichilista non sa che farsene di un ordine stabilito; per sua natura, ama lo squilibrio, che stimola l’individuo a superarlo, in una logica dettata dall’accelerazione. La costante non è la ricerca di un punto d’approdo, peraltro giudicata impossibile, bensì il passaggio rapido da uno stato all’altro. Il desiderio di ciascuno assume le sembianze di un godimento senza misura, non di rado estremo. A livello individuale, si va incontro ad una vera e propria frammentazione psichica. Qual è la conseguenza? In mancanza di un fondamento, il ritmo e il divenire occupano il centro della scena; ciò che conta è raggiungere l’effetto. Al mercato non interessano i fini, ma i mezzi, mentre si assiste al passaggio dal potere alla potenza, con un cambiamento del criterio di legittimazione. Se, come afferma Weber, legittimo è il potere che, essendo istituito, è ipso facto limitato; nell’ottica della potenza, legittimo è ciò che va oltre, che apre nuove strade, lascia aperte delle possibilità. Le categorie utilizzate in questa sede consentono di interpretare un fenomeno complesso come la globalizzazione, in nome della quale sono state create delle infrastrutture che non necessitavano più di alcun sostegno politico e culturale, ma avrebbero dovuto alimentarsi a partire dalla loro efficienza tecnica. La memoria corre alla sanità globale, al mercato globale e, in generale, a tutti i settori che le persone percepiscono distintamente non avere più un legame con il territorio, pur rendendo possibili – e in tal senso sono istituzioni – i rapporti tra gli uomini. Sul piano dei significati, tuttavia, il senso conferito all’esistenza quotidiana è limitato alla sfera puramente individuale: ciascuno pensa a sé e s’inventa, di volta in volta, i significati che ritiene migliori. Alla globalizzazione delle infrastrutture, in effetti, si è associata la frammentazione dei significati, al punto che ciascuno sperimenta grande fatica nell’intendersi con gli altri, anche riguardo alle cose più banali. Non v’è dubbio circa il fatto che esistano delle differenze, variabili da contesto a contesto, benché le linee generali appaiano piuttosto chiare. L’uomo come espressione della volontà di potenza è libero di fare

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Il desiderio di ciascuno assume le sembianze di un godimento senza misura, non di rado estremo. A livello individuale, si va incontro ad una vera e propria frammentazione psichica.

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La crisi è stata diagnosticata e tamponata, ma bisogna ricavarne le opportune indicazioni, per avviare un modello di sviluppo che sia sostenibile.

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quello che vuole. Anzi, maggiori sono le opzioni da esercitare, più uno può ritenersi libero. Al contempo, le istituzioni tendono a disancorarsi dalla storia e dalla cultura, cui hanno sempre attinto, e persino dalla stessa legittimazione politica. I fatti parlano da sè: i problemi sorti in questi anni tra economia, politica e governi, con le difficoltà connesse all’esercizio della funzione da parte di questi ultimi, non abbisognano di ulteriori spiegazioni. Il modello illustrato ha incontrato molte resistenze, opposizioni e ritardi, ma si è inesorabilmente radicato, incentivando una crescita economica mai vista prima, una capacità senza eguali di produrre. In Cina, India e Brasile, per citare i casi più eclatanti, centinaia di milioni di persone hanno cambiato le aspettative e le condizioni di vita. E ora? Si è scoperchiato il “vaso di Pandora” e, solo tra qualche anno, saranno visibili gli esiti del processo. Certo è che, la crescita economica, ha subito una battuta d’arresto, un infarto. La metafora è piuttosto suggestiva, perché non si tratta di un banale malessere, curabile in pochi giorni. È il cuore del modello che ha subito dei danni critici; è Wall Street, il luogo dove operano le principali agenzie societarie e finanziarie, il centro propulsore dell’intero meccanismo. Di fronte a un grave problema cardiaco, le reazioni possono essere molteplici. Magari, i medici sono stati tempestivi, riuscendo ad evitare l’irreparabile. Il paziente è sopravvissuto; quale lezione trarrà per l’avvenire? Qualcuno potrebbe cadere in depressione, credendo che la vita non abbia più nulla da offrirgli. Altri, però, continuerebbero probabilmente la routine cui sono avvezzi, pensando di trovarsi in ottima forma e, sfidando quasi il destino, ritornerebbero al “travaglio usato”, per usare un’espressione di leopardiana memoria, come se nulla fosse successo. Infine, ecco un terzo gruppo, quello di chi prende atto che l’infarto c’è stato, e anche piuttosto serio. È evidente che tutto era dovuto allo stile di vita precedente e che un cambiamento s’impone. Forse, non si potranno fare più le stesse cose; il domani non riserverà gli stessi successi. Sono solo congetture, che la persona saggia formula nell’ignoranza di quanto le riserverà la sorte. Se si applica la metafora alla realtà, le tre forme di reazione sono sicuramente visibili. La crisi è stata diagnosticata e tamponata, ma bisogna ricavarne le opportune indicazioni, per avviare un modello di sviluppo che sia sostenibile. Così, si deve francamente condividere, con un vivo senso di riconoscenza, il messaggio che il Santo Padre, Benedetto XVI, ha consegnato con l’enciclica Caritas in veritate, per la lucidità e la lungimiranza dimostrate,

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in un momento straordinariamente propizio. L’enfasi sulla sfera individuale ha avuto, come logica reazione, lo sfilacciamento dei legami e delle relazioni: all’interno e all’esterno della famiglia, ma anche in un orizzonte più vasto. Correlativamente – e non ci si deve stupire –, si sono verificate delle reazioni di chiusura tra le persone. Una solida amicizia mi lega ormai da anni a ZygmuntBaumann, con cui condivido in buona parte l’orizzonte di studio e di ricerca. A lui dobbiamo l’immagine, divenuta molto popolare, della società liquida, espressione impiegata per mettere in rilievo proprio questo effetto di “scioglimento”. Ciascuno rincorre le opportunità che gli si presentano dinanzi e non riesce a fermarsi un poco, a riflettere, a confrontarsi con chi gli è vicino. La sua attenzione è completamente polarizzata dal nuovo scopo da raggiungere. Questa supposta libertà è un evidente ostacolo alla condivisione sincera. Si riesce sempre meno a stringere dei rapporti significativi e duraturi. Sembra, in sostanza, che la libertà sia un’arma a doppio taglio ed abbia agevolato il reciproco sfruttamento delle parti in causa. Nel mondo del lavoro, si è generalmente verificato un indiscutibile peggioramento delle condizioni contrattuali, per non parlare di quelle materiali. In Italia, la precarizzazione ha colpito soprattutto i giovani, che non riescono a formare una famiglia per la crescente instabilità economica – elemento che si aggiunge alle già esistenti motivazioni di tipo culturale, tradizionalmente determinanti per chi si accinge (o non si accinge) a compiere il grande passo –, comportando la mobilitazione di ingenti risorse per ottenere l’agognato accesso al credito. Nel campo affettivo, si sta insieme fino a quando la coppia sperimenta il reciproco benessere. E quando insorgono le prime difficoltà? Quando uno dei due si ammala, che succede? Di fronte alle conseguenze scatenate dalla crisi, è fondamentale capire da chi e in che modo si possa pervenire ad una sorta di regolazione, ad un cambio di rotta, in quanto, nel quadro del capitalismo tecnonichilista, non solo mancano riferimenti teorici e quadri valoriali, ma nemmeno è rintracciabile un soggetto storico capace di inaugurare un new deal. Il modello tecno-nichilista ha messo da parte le grandi ideologie dell’Ottocento, senza rinunciare alla produzione di qualcosa di nuovo, con un’attenta selezione di temi e obiettivi, dominati dalla succitata volontà di potenza individualistica. Peccato che quest’ultima non sappia in che direzione si stia muovendo – né può saperlo – e si

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Crediamo di essere liberi, ma creiamo il deserto intorno a noi

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autocompiaccia del proprio funzionamento. Prima di tentare qualche riflessione finale, vorrei proporre uno spunto di analisi, che parte da una constatazione: a partire dagli anni Sessanta, si è assistito ad un impressionante spostamento dal lavoro al consumo. L’uno non è più centrale, nella società. O meglio, lo è, se si fa riferimento a particolari forme d’impiego, altamente specializzate. L’attività dei più, specie se poco qualificata, ha assunto una rilevanza davvero marginale. Al contrario, il consumo si è tramutato nel nodo di congiunzione tra vita personale ed ed appartenenza societaria. Di recente, mi sono occupato del tema delle periferie; studiandole, mi sono reso conto della pervasività di questo assunto: se indossi un paio di pantaloni firmati o un orologio di marca, appartieni al mondo, acquisisci una certa visibilità. Ovviamente, è un’illusione. Non esiste più il desiderio di impegnarsi per costruire un domani solido. Il consumo è strettamente connesso con la dimensione dell’immediatezza; non sopporta programmi a lunga scadenza. Per concludere, in che modo definire la condizione nella quale ci si trova? Mercatismo? Forse, bisogna trovare un nuovo termine, ma il problema resta. Quella degli anni ’70, è stata una crisi di crescita. Oggi, l’“infarto” cui si è fatto riferimento ricorda che l’attuale modello ha cominciato a produrre delle “falle”, che vanno riempite se non ci si vuole esporre ad una serie di conseguenze negative. Che fare? Innanzitutto, va messo in discussione proprio il principio che fa della “volontà di potenza” l’elemento centrale. L’essere umano è anche fragilità. Rimuoverla, significa creare un mondo disumano, anche se ce la mettiamo tutta per mascherarla, sia come individui sia come collettività. Crediamo di essere liberi, ma creiamo il deserto intorno a noi. Non ci viene in mente che altri ci hanno generato, educato e che siamo debitori nei loro confronti. Dimentichiamo con una certa facilità il fatto che, fin dalla nascita, la nostra umanità è intessuta dell’altro. Chi è convinto di esistere solo in virtù della singolarità di cui è portatore opera una sorta di rimozione. Da questo punto di vista, credo che la critica all’individualismo passi per un recupero profondo dell’idea di persona e per la sua rielaborazione, che molto ha da offrire, nel XXI secolo, se saremo capaci di strutturarla e comunicarla nei termini e nelle parole di chi vive il nostro tempo.

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I DIRITTI

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I DIRITTI: conoscerli per agire. Il bisogno di un nuovo approccio concettuale basato più sui diritti che sui bisogni. Nico Lotta

“Comprendere e conoscere per agire” Dal discorso rivolto ai partecipanti alla Marcia della Pace Perugia – Assisi 2011 Negli ultimi anni mi sono occupato di cooperazione internazionale in una organizzazione non governativa che si chiama V.I.S., Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, promossa dalla famiglia salesiana: un gruppo di laici che con la loro professionalità si mettono accanto alle missioni salesiane del mondo per portare avanti progetti di cooperazione. Organizzazione non governativa nel senso che è una libera associazione, che non dipende dal governo, anche se collabora col Ministero degli Affari Esteri. Vorrei esaminare con voi le basi dell’agire. Partirei proprio dall’appello della marcia 2011 a cui voi tutti parteciperete. Ci sarà anche il VIS con uno stand. Nell’appello si parla di riconoscere i diritti dei più poveri, dei più deboli: costruire la città dei diritti umani, promuovere la globalizzazione dei diritti umani. Normalmente nel nostro mondo, quello del terzo settore, del volontariato e dell’impegno sociale, diritti e diritti umani sono tra i concetti che si usano di più. Io mi chiedo per primo: Quali sono i diritti umani oggi? Fino a che punto dietro a questa espressione sappiamo realmente qual è il cammino fatto, qual è quello da fare e qual è il processo in atto? Proveremo insieme a riflettere su queste tematiche. L’essenza del messaggio sui diritti umani è questo: avere il diritto di sapere, portare gli altri a prendere coscienza di quali sono i propri diritti umani e sentire la responsabilità di farli conoscere. Nello stesso modo comincia l’appello per la marcia della pace, richiamando l’articolo 1: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”

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Quali sono i diritti umani oggi? Fino a che punto dietro a questa espressione sappiamo realmente qual è il cammino fatto, qual è quello da fare e qual è il processo in atto?

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Nico Lotta Questa è la base di quello che si sono detti i capi di stato nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948 adottando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Sono diritti, diritto alla vita, diritto alla salute, diritto alla felicità, che hanno fatto parte da sempre dell’essere umano e che i vari filosofi e storici, nel corso della storia, hanno trattato. Nel 1948, subito dopo la guerra mondiale e alla luce dei disastri provocati, tutte le Nazioni all’epoca riconosciute si sono sedute attorno ad un tavolo e hanno deciso di sancire i diritti di ogni uomo sottoscrivendo 30 articoli. Non è un punto di arrivo ma è un punto di partenza. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo resterà immutata con i suoi 30 articoli ma ulteriori trattati e convenzioni verranno adottati dall’ONU. Vi consiglio di chiedere, prima della Marcia della pace, questo cofanetto realizzato da Amnesty International, che si occupa quasi esclusivamente di protezione dei diritti. Oltre alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo allega tutti i trattati successivi: la convenzione sulla limitazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, datata 1981 e ratificata da 132 stati; la convenzione contro torture e alte pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, e un’altra serie di diritti sanciti fino al trattato più recente, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, datata 2007. Tutte convenzioni che l’Italia ha ratificato ma a cui non sempre tutte le nazioni aderiscono. Quando ho preparato questo incontro, la prima riflessione è stata che il primo difetto di chi si mette in marcia per portare avanti i diritti è quello che noi non sappiamo pienamente quali sono i nostri diritti sanciti. Sappiamo ovviamente quali sono i diritti di base dell’essere umano secondo la nostra impostazione cristiana e il nostro impegno sociale ma non sappiamo esattamente quali sono i diritti sanciti dai documenti ai quali il nostro Governo ha aderito. Vorrei analizzare insieme a voi una di queste convenzioni; per chi fa educazione e per chi è legato al mondo scout penso sia molto importante. Credo sia la convenzione più ratificata nel mondo: la Convenzione internazionale sui i diritti per l’infanzia e dell’adolescenza. I Governi nel 1990 sanciscono i diritti dei bambini e degli adolescenti. La curiosità è che solo due stati non l’hanno a tutt’oggi ratificata: uno è la Somalia, per motivi comprensibili visto che non ha un governo e dove i diritti dei bambini sono ampiamente calpestati, l’altro sono gli Stati Uniti. L’Italia l’ha ratificata nel 1991. È curioso che non l’abbiano ratificata la democrazia peggiore del mondo, la Somalia, e quella che si dice la democrazia più forte, gli Stati Uniti. Mentre la Dichiarazione dei Diritti umani è una dichiarazione di intenti che gli stati firmano nel 1948, qualunque convenzione o trattato firmato impegna legalmente lo stato ad applicarlo. Tra i diritti, ad esempio, c’è quello dell’assistenza sanitaria per i bambini che negli Stati Uniti non è un sistema credibile. Da poco c’è una sanità pubblica e poi ci sono degli esempi per cui gli Stati Uniti tendono a non

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I DIRITTI impegnarsi legalmente quasi mai. Questa è un’impostazione culturale del paese. La distinzione classica dei diritti fondamentali, sia dei bambini che degli adulti, normalmente è: • Diritti di prima generazione, ossia i diritti civili e politici (diritto alla vita, alla libertà dalla schiavitù, all’uguaglianza davanti alla legge, alla presunzione d’innocenza, alla cittadinanza, al matrimonio, alla proprietà); • Diritti di seconda generazione, ossia i diritti economici e sociali che riguardano il mondo del lavoro (diritto al lavoro e alla protezione contro la disoccupazione, di eguale retribuzione per eguale lavoro, al riposo, all’istruzione, alla protezione della maternità e dell’infanzia); • Diritti di terza generazione, ossia i diritti nuovi che spesso non sono ancora stati ratificati (diritto all’ambiente più sano, allo sviluppo umano, alla pace, all’autodeterminazione dei popoli, alla privacy). Dall’inizio della storia dell’uomo passando dal 1948 e ancora in avanti, perché si continua a marciare per i diritti? Da un lato perché non tutti i diritti sanciti sono riconosciuti e dall’altro per cercare di farli ratificare. E questo è un esempio del perché marciare per la pace. I diritti sono universali, quindi sono di ogni essere umano. Cerchiamo, attraverso gli aggettivi classici associati ai diritti, di capirne un po’ di più. Si definiscono normalmente “fondamentali”, “universali, “inviolabili”, “indisponibili” e “interdipendenti”: queste definizioni sono chiare. Fondamentali: perché si fa riferimento all’essenza stessa dell’essere umano (i diritti legati alla vita dell’uomo); universali: perché evidentemente non è possibile riservarli a un’elite ma devono essere estesi a tutti senza alcuna distinzione; inviolabili: perché sono diritti di cui nessun essere umano può essere privato; indisponibili: perché nessuno ci può rinunciare, nessuno può essere costretto a rinunciarvi; anche volendo non è possibile rinunciarvi perché riguardano l’essenza stessa dell’essere umano; interdipendenti: sono legati uno all’altro e non esiste un diritto più importante di un altro. Può sembrare strano all’inizio, ad esempio, che il diritto al tempo libero e il diritto alla vita siano egualmente importanti. In termini di diritti umani, in termini globali, in termini di rispetto della persona il concetto è che qualunque diritto deve essere pienamente godibile senza fare classifiche o conti. Questi sono i limiti della cooperazione tradizionale, non intendendo per cooperazione solo i progetti in Africa o la cooperazione governativa, ma anche l’azione della società civile, delle organizzazioni di volontariato sul territorio, delle persone che si mettono in marcia. Nella nostra tradizione, sia di impostazione culturale che di impostazione cattolica, quali sono gli elementi che non funzionano nell’approccio? Penso ci sia un difetto di partecipazione: c’è qualcuno che decide di fare qualcosa per i più deboli o i più bisognosi e la fa senza ascoltarli; c’è sempre qualcuno che sta al centro dell’azione umanitaria che sia in Italia o all’estero, esempio una

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I diritti sono universali, quindi sono di ogni essere umano

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Spesso si scivola nell’assistenzialismo. Interventi “top down” cioè calati dall’alto, decisi a tavolino

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Nico Lotta O.N.G. (Organizzazione Non Governativa), un’associazione centrale nello stabilire cosa si fa, come si fa, quando si fa e con quali risorse. Spesso si scivola nell’assistenzialismo. Interventi “top down” cioè calati dall’alto, decisi a tavolino. Questi sono i classici interventi che non durano nel tempo. Spesso sono anche i servizi che chiediamo di fare ai nostri ragazzi: per un po’ vanno avanti e dopo un po’ vengono a cadere. Nell’ambito più ampio della cooperazione internazionale sono i classici interventi a pioggia dove si buttano un po’ di soldi. Poi che fine fanno questi soldi non sempre è dato sapere. Ricordate la “Missione Arcobaleno”, il primo scandalo della cooperazione? In moltissimi casi si compiono questi errori. La sfida di questi ultimi tempi è quella di passare dalla cooperazione tradizionale all’Human Rights Based Approach , che significa semplicemente un approccio di agire, di volontariato, di cooperazione che è basato sui diritti umani. Questo è l’approccio che mette al centro la promozione e la protezione dei diritti umani facendo riferimento a degli standard internazionali ratificati in quei documenti che abbiamo visto e non semplicemente alla buona volontà delle persone. Quando si prova ad agire con questo Human Rights Based Approach si cerca di promuovere una partecipazione diretta, cioè di aiutare la persona che abbiamo di fronte coinvolgendola all’interno del meccanismo di aiuto. Si lavora spesso in “rete”. Quello che stiamo facendo qui è un esempio: c’è una O.N.G., una O.N.L.U.S. e il MASCI che si mettono insieme per cercare di collaborare e cooperare rispetto a quelle che sono le tematiche dei diritti umani. Non c’è più il singolo ente che porta avanti se stesso. Si basa sul coinvolgimento della società civile: non ha senso fare dei progetti di cui nessuno sa niente, se non in maniera marginale. Sono, per lo più, processi che si cerca di far nascere dal basso, senza calarli dall’alto. Gli attori locali, le persone che sono i beneficiari, devono avere una propria autonomia, una propria capacità decisionale. Si cerca di mirare allo sviluppo integrale della persona. Non si cerca di mettere “una pezza” all’emergenza di quel momento, ma si cerca di mettere in moto un processo che porti allo sviluppo globale e a godere di tutti i diritti fondamentali. Questa è una piccola matrice che ci fa capire qual è la differenza tra l’approccio basato sui bisogni della persona e l’approccio basato sui diritti. Può sembrare una cosa teorica ma su questa differenza tra il bisogno e il diritto si gioca moltissimo, anche nei trattati internazionali. Ad esempio c’è la battaglia in corso di molte forze sociali, politiche ed economiche, sull’acqua. Alcune di queste vogliono trasportarla dalla colonnina dei diritti alla colonnina dei bisogni. È una cosa reale, è una battaglia politica in atto. Quando c’è un forum, una dibattito, un convegno sull’acqua, c’è sempre qualcuno che dice: “Non possiamo considerarla un diritto, ma deve essere considerata un bisogno”. Questo, evidentemente, stravolge il senso, ad esempio: se diciamo che abbiamo bisogno di un paio di scarpe, ci dobbiamo procurare i soldi per comprarle; se abbiamo diritto

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I DIRITTI a un paio di scarpe qualcuno deve fare in modo che io ce l’abbia. E l’acqua non è paragonabile a un paio di scarpe, evidentemente. L’approccio basato sui bisogni parte dall’assistenzialismo, mentre quello basato sui diritti parte dal pieno sviluppo della persona. L’approccio basato sui bisogni è volontario, è frutto della buona volontà: c’è un povero e io volontariamente l’aiuto. Se noi riconosciamo i diritti di quel povero è obbligatorio per noi aiutarlo. Per noi intendiamo lo stato, la società, ecc. E in questo caso cambia completamente la prospettiva. Quando si parla di bisogni si affrontano i sintomi anziché le radici. Partendo dai bisogni, la prospettiva è di breve periodo, cioè l’aiuto immediato, si perde la prospettiva di lungo periodo, cioè lo sviluppo integrato. Si interviene sui sintomi, quando la necessità è già sorta mentre chi ragiona in termini di diritti prova a fare progetti che prevengono la violazione dei diritti umani. La decisione di quali sono i bisogni è soggettiva. Gli standard internazionali ci dicono esattamente quello a cui ha diritto una persona: non c’è più soggettività, non è più un parere; è una cosa che oggettivamente si va a sancire. Spesso i nostri interventi (è anche un’autocritica) si traducono in distribuzione dei servizi (sindrome di Babbo Natale). Mentre se ragioniamo in termini di diritti dobbiamo ampliare le capacità civili, culturali, economiche, politiche e sociali delle persone con cui cooperiamo. Capite che il tipo di intervento in prospettiva è totalmente diverso. Questo è uno dei rapporti UNDP, è un ufficio delle Nazioni Unite che si occupa di sviluppo. Nel 2000 ha realizzato un rapporto sullo sviluppo umano rivoluzionario perché è la prima volta che entra il concetto di diritti umani nell’ambito del concetto di sviluppo delle Nazioni Unite. Si evidenzia che i diritti umani sono allo stesso tempo fine e mezzo fondamentale per raggiungere e mantenere uno sviluppo umano sostenibile. I diritti umani devono divenire fondamento teorico e approccio pratico di ogni strategia e di ogni azione di cooperazione internazionale. Questa è la sfida: passare da quello che può sembrare un approccio teorico, cioè dirci quali sono i diritti o ragionare sulla storia dei diritti, a trasformarli in approccio pratico, a tutti i livelli, non solo nell’ambito di ministeri o di grosse O.N.G. ma anche nel nostro quotidiano agire, come associazioni come il MASCI o come onlus. Provate ad avere un approccio pratico basato sui diritti e vedrete che cambierà anche il vostro modo di progettare le cose da fare. Quindi diritti umani e sviluppo sono in reciprocità vitale: per la prima volta le Nazioni Unite lo sanciscono nel 2000. Questo è un passaggio molto importante del report del 2000, che ci dice che i diritti umani non sono un premio per aver raggiunto un certo sviluppo economico, piuttosto sono fattori fondamentali per

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i diritti umani sono allo stesso tempo fine e mezzo fondamentale per raggiungere e mantenere uno sviluppo umano sostenibile. I diritti umani devono divenire fondamento teorico e approccio pratico di ogni strategia e di ogni azione di cooperazione internazionale.

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Nico Lotta il raggiungimento dello sviluppo. Ciò significa che i diritti umani non possono permetterseli solo i ricchi. Non è solo per i ricchi far nascere un sindacato, dare lavoro a tutti, garantire il riposo, di garantire la salute, c’è la tentazione nel nostro pensiero: “se stai bene lo fai, se non stai bene non lo fai”. Invece è la comunità internazionale che deve garantire i diritti, non è un premio per chi è ricco, per chi è bravo. È l’obbiettivo da raggiungere da parte di tutti. Questo ovviamente crea responsabilità all’interno delle Nazioni Unite. Avere una dichiarazione così forte senz’altro aiuta e soprattutto inchioda gli stati alle proprie responsabilità. È un invito a ricordare quali sono le responsabilità delle persone verso cui ci rapportiamo. I due elementi fondamentali dell’approccio basato sui diritti umani sono questi: da un lato ci sono i right-holders, che sono i soggetti dei diritti; dall’altra parte quali sono i soggetti dei doveri, in inglese duty-bearers. Quindi dobbiamo vedere quali sono i diritti riconosciuti e quali sono i corrispondenti obblighi. Noi non dobbiamo decidere in quale casella stare, perché ognuno di noi è allo stesso tempo dalla parte di chi ha diritti e dalla parte di chi ha doveri. È questa la cosa fondamentale da fare: capire quali sono i nostri diritti o i diritti delle persone con cui lavoriamo, e capire chi ha il dovere di raggiungere quei diritti, quegli obiettivi. Quindi l’approccio sui diritti umani agisce in entrambe le direzioni: da un lato rafforzare le capacità dei soggetti di sapere quali sono i propri diritti e poi di averli riconosciuti; e dall’altro agisce anche su chi ha il dovere di farli ottenere, capire come si può agire sui responsabili per far sì che ottemperino ai loro obblighi. Quali sono gli obblighi classici correlati ai diritti umani? Il primo è rispettarli in prima persona, quindi non interferire con il loro godimento. Nessuno stato può violare direttamente i diritti umani. L’altro obbligo classico è la protezione: cioè fare in modo che nessun altro li violi. Ed infine, quello che dovremmo fare, renderli effettivi: cioè adottare tutte le misure che permettono il godimento pieno di ogni singolo diritto sancito. Chiudo ribadendo quelli che sono i tre principi fondamentali: 1. la non discriminazione; 2. la responsabilità che è la parola chiave di chiunque si avvicini ai diritti umani (sentirsi ed essere responsabile); 3. la partecipazione, che deve essere attiva, libera e significativa, che è quello che voi vi apprestate a fare con questi incontri e con la Marcia di Perugia.

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Stazione pratica - età 27/29anni - Italia, Oceania, Costa Rica, Terra Parto solo se ho uno scopo specifico, per imparare qualcosa o per lavoro. Intanto decido di gettare l’ancora su una terra fertile, da cui tirar fuori l’essenziale per vivere in modo sano ed equilibrato. . Tutto sembra più semplice e bello ora che so che ogni posto è il centro del mondo. In Australia e Nuova Zelanda faccio un corso approfondito di permacultura e tante esperienze agricole. Ora porto lenti che mi fanno vedere quasi solo la natura e sempre meno la cultura. Anche se ho sempre saputo che tra di esse c’è una profonda interazione, ho un rifiuto quasi totale per chi trova nel viaggio un rifugio morale...uno spazio-tempo in cui è legittimo non prendere posizione e di cui ci si può sentire orgogliosi. Inizio a pensare che tanto più si viaggia quanto più si nutre il proprio ego e tanto meno si accetta il proprio piccolo e importantissimo posto nel mondo. E pensare che 12 anni fa ero sicura di viaggiare per tutta la vita! Ma anche questa è solo una stazione. Sono consapevole che il viaggio non è finito.

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ESPERIENZE DI SOLIDARIETÀ E COOPERAZIONE IN GIRO PER L’ITALIA ... Esperienze di solidarietà e cooperazione - In giro per l’Italia ...dalle Comunità e dagli A.S. I PUNTI di FORZA: l’indignazione per le cose che non vanno bene, il coraggio di cambiarle; essere “Sale della terra”. SEMI di NOVITA’

per SOSTENERE per RIMUOVERE per CAMBIARE

le fragilità le barriere le prospettive

Le fragilità vecchie e nuove : le paure, la situazione delle donne, dei • bambini,la riduzione dei diritti, l’annullamento dei diritti Le barriere : economiche / politiche / culturali • • Le prospettive: l’ ALTRO è colui che ci accoglie, in una logica nuova dove “ il lontano, il reietto, l’emarginato “ diventa il fratello.

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ATTIVITA’ DI ACCOGLIENZA DEI RAGAZZI CELIACI DEL SAHARAWI Comunità “Agape” di Termini Imerese (PA)

La comunità Agape del Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani di Termini Imerese anche quest’anno ha voluto sposare la causa dei bambini celiaci provenienti dalla repubblica del Saharawi che come ogni anno sono ospiti dell’Istituto dei Ciechi di Palermo. Il professore Giuseppe Iacona, responsabile del progetto “Fiori per il deserto”, si preoccupa dell’accoglienza per tutto il periodo estivo di questi bambini. Quest’anno abbiamo cominciato a lavorare a questo progetto con molto anticipo facendo un’attività di autofinanziamento per recuperare un po’ di fondi. L’associazione TipTapOne ha organizzato a sostegno del progetto, una cena di beneficenza.A bbiamo coinvolto il nostro parroco, che ci ha messo a disposizione la struttura parrocchiale; l’Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Termini Imerese; il presidente dell’ASCOM, il Banco Alimentare e la delegazione dell’opera San Vincenzo di Termini Imerese, la locale sezione di Amnesty International ed i ragazzi delle associazioni Novi Familia e AMA che hanno curato l’animazione delle serate, nonché l’assessore provinciale alla Cultura e ai Beni Culturali. I ragazzi sono stati nostri ospiti dal 7 al 13 luglio, durante questo periodo sono state fatte attività ludiche e ricreative realizzando il programma condiviso da tutte le associazioni sopra descritte, curando soprattutto l’aspetto alimentare in quanto i ragazzi affetti da celiachia, intolleranti al glutine non possono mangiare nessun tipo di farinacei. Le attività previste si sono svolte al lago artificiale di Rosa Marina, alla villa Palmeri, ai campetti di san Filippo Neri, al Baby Parking, al maneggio di ARESS Fabiola. Da questa attività ne siamo usciti tutti arricchiti per essere venuti a conoscenza di una realtà di un popolo emarginato ma fiero delle proprie radici, come hanno testimoniato gli stessi ragazzi in questa settimana di coabitazione. Questa nostra attività si inserisce nel progetto nazionale del M.A.S.C.I. sulla “Mondialità”, per dare testimonianza, in un mondo che va verso la globalità, della necessità di un’integrazione tra popoli, razze e religioni consapevoli che oggi più che mai bisogna impegnarsi per “lasciare il mondo migliore di come lo abbiamo trovato”, secondo quanto ci ha insegnato il fondatore dello scoutismo Baden Powell.

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TESTIMONIANZA Francesco De Falchi

Penso che molti di voi ricorderanno la terribile tragedia, avvenuto nel 1994 in Ruanda, del genocidio di circa un milione di morti e della successiva guerra civile, con altri milioni di morti, che ha devastato Paesi e Popolazioni della Regione dei Grandi Laghi in Africa. E’ in un Campo di rifugiati ruandesi allestito dal l’”Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite” nel nord del Burundi che, ai primi di giugno del ’94, ho avuto la ventura di iniziare la mia esperienza di cooperazione internazionale per un intervento di emergenza, esperienza che mi ha poi indotto a tornare in Africa nel ’96 per un programma di sostegno allo sviluppo. Da allora e ancora oggi è stato ed è questo il mio impegno, il mio servizio scout più importante. Per svolgere i compiti affidati all’ONG con la quale sono stato impegnato nel campo di rifugiati ruandesi ho selezionato una trentina di collaboratori tra gli stessi “ospiti” del campo. Tra questi vi erano alcuni giovani ed alcune ragazze scout che hanno pensato di svolgere qualche attività - quelle possibili e consentite dalle autorità civili e militari che presidiavano il campo - con i giovani scout presenti tra i circa 47.000 rifugiati. Si sono perciò rivolti a me per chiedermi se potevo fornire loro la stoffa per potersi fare i fazzolettoni. Ha avuto così inizio una collaborazione che non avrei certo potuto prevedere né sperare. L’intesa è stata immediata, malgrado le difficoltà della lingua, malgrado la tragedia da loro vissuta e il terrore che avevano nel cuore e nel cervello e che era presente nel campo. Ho suggerito loro, a parte gli specifici incarichi che dovevano svolgere in quanto collaboratori dell’ONG, di impegnarsi per organizzare iniziative ed attività non soltanto per gli scout ma, come “servizio”, per tutti i ragazzini che vagavano a frotte nel perenne polverone del campo. Nelle settimane successive era così possibile vedere nei vari quartieri in cui era diviso il campo gruppi di bambini, di ragazzi o anche di giovani che giocavano oppure danzavano e cantavano o semplicemente ascoltavano quanto andava dicendo qualche altro giovane con il fazzolettone al collo. Nella vicina città vi era un gruppo scout con il quale ho constatato la stessa facilità di comprensione reciproca e di comune sentire rispetto ai problemi, alle difficoltà, alle cose che sarebbe possibile fare per continuare a sperare. Così è nata l’impresa nazionale del MASCI “Amahoro Burundi”a cui hanno attivamen-

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te partecipato 108 comunità svoltasi tra il 1998 e il 1999. E’ sulla base di queste esperienze, fatte in un tempo e in una realtà particolarmente tragici, che mi sono convinto che nella prospettiva attuale e futura -della globalizzazione e delle sue inevitabili conseguenze negative- lo scoutismo avrebbe le capacità e gli strumenti - i carismi - per contribuire a rendere meno pesanti le drammatiche disuguaglianze, per contribuire ad una positiva partecipazione nella costruzione di più progredite forme di società civile, per contribuire ad alimentare speranza e volontà positive nei giovani dei sud del mondo.

Dai miei diari sul campo rifugiati ruandesi

Possiamo cominciare a lavorare sul campo. Selezionati gli otto primi collaboratori e il loro coordinatore Emmanuel, ieri abbiamo con loro iniziato il breafing esaminando la scheda dell’HCR-Unicef con la quale censire i bambini non accompagnati presenti nel campo di Mugano per una comune interpretazione dei quesiti previsti. La partecipazione alla discussione è stata particolarmente attenta ed attiva e sono veramente soddisfatto dei collaboratori scelti e della voglia di fare e di impegnarsi che dimostrano. Oggi, secondo il programma da me proposto, dobbiamo completare il breafing sperimentando la rilevazione. Ogni collaboratore-intervistatore, accompagnato da uno di noi volontari, andrà a fare due interviste per definire insieme come affrontare le possibili difficoltà e quindi, domani iniziare il censimento quartiere per quartiere. Vado con Augustin in uno dei quartieri a lui attribuiti nella zona del campo che scende verso la strada quasi di fronte allo stok (magazzino costituito da una enorme tenda da campo) della FICR. E’ Augustin che parla; secondo quanto stabilito chiede del capo quartiere dal quale si fa indicare il blended dove dovrebbe esserci un bambino non accompagnato. Siamo subito circondati da una piccola folla che, nel breve spazio tra i blended, forma un piccolo cerchio. Augustin spiega il motivo della visita, vengono portati due sgabellini in legno per me e per Augustin mentre bambini, ragazzi, donne uomini ed anziani si siedono per terra attenti e partecipi a ciò che accade. Si fa silenzio mentre viene condotta una bambina di fronte a noi. E’ esile e dai lineamenti fini, potrebbe avere 10, 11 anni, le delicate palpebre abbassate nascondono lo sguardo, ma il viso è comunque fortemente espressivo. Sta rigidamente composta quasi sull’attenti, coperta da una tunichetta in pessime condizioni il cui colore è quello oramai della rossa polvere del campo, dello stesso colore che ricopre i bambini che ci sono accanto, i blended vicini e i pochi oggetti di cui dispongono gli abitanti. Immobile aspetta con atteggiamento che esprime antica pazienza e che da al suo piccolo viso infantile la nobiltà dell’infinito, di chi è oramai oltre il tempo. Sotto lo sguardo curioso e interessato di quel piccolo cerchio avverto un certo disagio e i secondi diventano ore. Augustin si rivolge alla bambina e le pone le prime domande, lo fa con voce calma, gentile e affettuosa. Dalla esile figurina, sola in piedi al centro del cerchio, perviene in risposta un “ehm..” appena

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Contribuire a rendere meno pesanti le drammatiche disuguaglianze, per contribuire ad una positiva partecipazione nella costruzione di più progredite forme di società civile, per contribuire ad alimentare speranza e volontà positive nei giovani dei sud del mondo.

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Noi bianchi dobbiamo limitarci a proporre una modalità organizzativa delegando totalmente la realizzazione delle attività ed il rapporto diretto con la gente a loro.”

sussurrato, quasi un sospiro, un gemito. Lo sguardo rivolto a terra il suo viso è immobile, solo un leggero sollevamento delle sopracciglia accompagna il gemito di risposta e una sottile ruga si disegna sulla fronte facendo assumere a quel volto infantile l’espressione di una insondabile, infinita tristezza. Mi sento sempre più a disagio, ma nello stesso tempo sempre più partecipe della situazione, sempre più attratto dall’umanità di questa gente; avverto il dubbio, terribile, di commettere un atto di violenza, come se stessi violando il pudore antico e innocente di quella piccola dolorante esistenza. Augustin a tratti mi traduce in francese ciò che viene detto in Kiniruanda; ad alcune domande infatti rispondono gli adulti della famiglia che ha accolto la bambina, oppure mi chiede suggerimenti su come proseguire l’intervista. Allora l’attenzione di tutti i presenti si dirige su di me ed ho l’impressione di stare vivendo la scena di una tragedia classica in cui l’autore riesce a creare coinvolgente tensione catalizzando l’attenzione, secondo tempi e ritmi sapientemente studiati, alternativamente sulla protagonista, la bambina al centro del cerchio, sul co-protagonista, Augustin, e sugli altri personaggi di rilievo, io, il capo quartiere, il capo famiglia e le donne che intervengono nelle risposte. Avverto tutto il pathos del momento, il sottile dolce gemito e la tenue piega sulla fronte della bambina mi commuovono sempre più profondamente. Finalmente l’intervista ha termine e tra allegri saluti dei bambini e cordiali e deferenti strette di mano degli adulti ci allontaniamo in direzione dell’altro quartiere in cui fare la seconda intervista sperimentale. Al termine di questa esperienza mi convinco ancora più fermamente che noi bianchi dobbiamo limitarci a proporre una modalità organizzativa delegando totalmente la realizzazione delle attività ed il rapporto diretto con la gente a loro.”

Dai miei diari sul progetto fours tunnel

“16-6-96 “ Oramai anche nelle campagne del Burundi la casa sta diventando motivo di desiderio e di prestigio sociale, i tetti in paglia hanno fatto il loro tempo. Bujumbura, con i suoi moderni edifici e le ville dei suoi quartieri residenziali costituisce un riferimento per i burundesi, mentre i programmi per il miglioramento dell’habitat, anche se non realizzati, e le sollecitazioni dei media diffondono la consapevolezza di una possibile diversa qualità dell’abitare. Certo questa aspirazione a migliorare le condizioni abitative sono drammaticamente intralciate dalla precarietà dell’assetto politico, dalla estrema povertà e dai continui scontri e distruzioni, dal perdurare della guerra civile. Finalmente ho potuto raggiungere Gitega con il piccolo aereo del PAM (Programma Alimentare Mondiale) per dare inizio al mio lavoro con i gruppi artigiani che producono tegole con i forni a tunnel. Gitega si trova al centro del Paese e ne è, per dimensioni, la seconda città. Con KarusiGitega è anche la provincia in cui si trovano i forni per la produzione di tegole per i quali mi trovo qui ad operare con un progetto finalizzato al sostegno ed allo sviluppo di queste iniziative di tipo imprenditoriale. Ma proprio Gitega e Karusi sono le due provincie in cui

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ESPERIENZE DI SOLIDARIETÀ E COOPERAZIONE negli ultimi tempi più frequenti e violenti sono stati gli scontri tra “assaillants” e “armé”. A ricevermi al piccolo aeroporto con la pista in terra rossa c’è James, il nostro collaboratore responsabile dei rapporti con gli 11 gruppi artigiani che lavorano agli 11 forni distribuiti tra le colline delle due provincie. E’ già un mese che ha avuto inizio il progetto, ma a causa della situazione di insicurezza in cui ci troviamo ad operare, James ha potuto raggiungere solo otto degli 11 forni. Il progetto ha solleticato immediatamente il mio interesse, l’idea che ne è alla base mi è sembrata corrispondere alle mie convinzioni sul modo più corretto e comunque meno mistificante di intendere la cooperazione per lo sviluppo: sostenere la valorizzazione delle risorse locali a partire dalla risorsa umana con interventi a misura delle esigenze e delle capacità realmente presenti e cioè con interventi poveri a livello finanziario, di tecnologie e di mezzi, con una nostra presenza ridotta allo stretto necessario per sollecitare l’assunzione di responsabilità e l’iniziativa locali, per promuovere uno sviluppo commisurato alle potenzialità che possono essere espresse dalle risorse presenti sul posto. Produrre tegole significa rispondere all’esigenza oramai diffusamente avvertita di migliorare l’habitat , significa valorizzare risorse locali quali l’argilla e il legno riducendo l’importazione di coperture in ondulati di lamiera o vetro cemento, significa sviluppare opportunità di lavoro associato e di piccola imprenditorialità. Questo progetto aveva avuto inizio nel 1991 ed era andato avanti fino al 1995, anno in cui il peggioramento della situazione locale ha costretto i volontari ad abbandonare il territorio. E’ dunque almeno un anno che i gruppi artigiani stanno lavorando –forse- in modo autonomo e senza una assistenza tecnica per un corretto utilizzo ed una manutenzione dei forni. Solo una puntuale rilevazione delle singole situazioni potrà dire in quali condizioni ed a quali ritmi riescono a lavorare, nonché quali problemi di produzione e di mercato vivono i gruppi. Le notizie per ora raccolte sono abbastanza positive anche se emerge l’urgenza di interventi di sostegno e di assistenza tecnica per la manutenzione dei forni. Sono passati solo due giorni dal massacro di Bugendana, località a pochi chilometri da Gitega in cui circa 400 persone sono state uccise dagli assaillants che hanno attaccato il campo di déplacé. Le manifestazioni di lutto e di protesta che si svolgono rendono difficoltoso e forse rischioso muoversi con la nostra camionetta rossa per le strade della città. Gli uffici e le scuole sono chiuse così come i molti negozi e le attività lavorative, lungo la strada principale si susseguono le schiere di giovani che, brandendo bastoni o anche fucili,corrono in formazione urlando e cantando. Il clima è particolarmente teso e sui volti della gente si legge la paura, la rabbia, l’odio; oppure,tra i meno giovani, una triste rassegnazione, una disperata impotenza. Il giorno dopo andiamo a visitare i due forni di Gitega, a circa 25-30 chilometri dalla città. Pochissime le macchine che incrociamo lungo la strada: James continua a tenere la terza marcia, per questo penso in un primo momento consuma tanta

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Sostenere la valorizzazione delle risorse locali a partire dalla risorsa umana con interventi a misura delle esigenze e delle capacità realmente presenti

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Non posso fare a meno di chiedermi che senso possono avere in questa situazione le nostre intenzioni, il nostro impegno, la nostra presenza.

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benzina, vedi contabilità progetto. Poi però, quando non riesco più a frenare la mia presunzione, mi risponde che preferisce mantenere un maggior controllo della macchina per essere pronto ad una qualche imprevedibile manovra si dovesse rendere necessaria in caso di cattivi incontri. Per la strada non c’è quel via vai che, specie a quell’ora del mattino, solitamente anima le strade del Burundi; non si vedono donne e bambini che portano i loro prodotti al mercato, né le biciclette con i loro carichi di banane, di sacchi di carbone o altro. Anche le campagne, i bananeti, le colture e le case sono abbandonate dalla gente fuggita chissà dove; sulla strada soltanto militari che controllano ai frequenti posti di blocco. Lasciamo la strada asfaltata e percorriamo una pista tra bananeti e campi coltivati. Qua e là vediamo case sventrate e capanne abbandonate in un paesaggio ora totalmente deserto e paurosamente silenzioso. Ma ecco, a circa duecento metri, tra la vegetazione, notiamo una figura femminile con un carico sulla testa, appena si accorge della nostra presenza –il rumore del motore- abbandona il carico e fugge terrorizzata. Non posso fare a meno di chiedermi che senso possono avere in questa situazione le nostre intenzioni, il nostro impegno, la nostra presenza; e cresce l’ansia di arrivare a vedere un forno, di incontrare i giovani artigiani che ci lavorano. Mi sembra tuttavia sempre più improbabile che vi possa essere ancora qualcuno. Ecco che la pista comincia a scendere mentre tra gli eucaliptus e i banani si intravede il marè del fondovalle. Siamo arrivati; subito sotto di noi ecco le tettoie che proteggono il forno e l’essiccatoio, ecco le tegole sistemate in bell’ordine pronte per la vendita. Un ragazzo ci viene incontro e ci saluta , è il presidente. Sotto la tettoia altri quattro giovani artigiani impastano l’argilla e poi, con movimenti oramai abituali, danno forma alle tegole e le sistemano sulla apposita rastrelliera ad essiccare. Il presidente giustifica gli assenti: per molti di loro è pericoloso venire a lavorare. Con noi è venuto un possibile acquirente che definisce l’acquisto e concorda l’appuntamento per il trasporto delle tegole. Durante la conversazione, necessariamente essenziale per le difficoltà linguistiche, chiedo al presidente se il suo gruppo può essere interessato a migliorare le proprie competenze e se è disponibile a sacrificare parte del guadagno per contribuire ai costi della formazione. Una breve attenta riflessione, uno scambio con gli altri quattro giovani presenti e poi una convinta risposta affermativa. Parliamo anche di possibili iniziative di promozione commerciale, di questioni di organizzazione del lavoro, di lavori di manutenzione del forno e dei costi di trasporto delle tegole. Ci salutiamo con un cordiale sentito arrivederci e buon lavoro. Come sembra assurdo tutto questo. In così breve spazio di tempo, in quello stesso dolce paesaggio lussureggiante di verdi colline, quattrocento morti ammazzati, la popolazione delle campagne in preda al terrore, le manifestazioni della città che preludono ad altri terribili violenze e poi cinque ragazzi giovani che continuano a lavorare ancora disposti a sperare nel domani.”

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COMUNITÀ DI TRIGGIANO

Una delle attività che ci ha segnati in modo indelebile e ci ha arricchito sotto tutti i punti di vista è quella della Missione in Albania iniziata a settembre 2009 guidati da Don Salvatore. Abbiamo potuto constatare da subito lo stato in cui vivono gli abitanti di questo paese. È incredibile come due stati così vicini siano profondamente distanti per le loro abitudini, usi e cultura; basti pensare che le donne sono succubi degli uomini, lavorano in casa e fuori e sono sfruttate senza avere un minimo riconoscimento, praticamente nascere donna in Albania è una disgrazia. Abbiamo conosciuto Suor Olga, Suor Sara (triggianese) e Suor Roza (albanese), tre coriacee suore che dedicano tutta lo loro vita per la Missione e sono l’aiuto corporale e spirituale di moltissimi bambini e delle loro mamme. Tornati a Triggiano ci siamo imposti, non con poca difficoltà, di trovare obiettivi e progetti attuabili in modo da poter portare aiuto alla Comunità di Mamuras. È doveroso rimarcare quanto è stato fatto dalla Comunità “La Strada” di Triggiano da settembre 2010 a dicembre 2011.

ATTIVITA’ LOGISTICA E MANUTENZIONE

• Sono stati realizzati diversi lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria della struttura con interventi mirati alla eliminazione di copiose infiltrazioni di acqua meteorica dalle coperture, dipintura delle murature dei soffitti per rendere salubri ed igienici alcuni locali destinati al laboratorio medico e sale per le attività scolastiche e di intrattenimento per i bambini. • È stato ristrutturato il locale adibito a centrale termica e spogliatoio con impermeabilizzazione della copertura e pitturazione degli ambiente preventivamente sgombrati da detriti e materiale di varia natura. • Sono stati eseguiti lavori di giardinaggio e potatura delle palme del giardino antistante il complesso. • È stato realizzato un pozzo artesiano che pesca acqua a circa 120,00 mt di profondità e si è provveduto all’automazione e gestione della ricarica della riserva idrica, e l’impianto idrico acqua potabile è stato completato con l’installazione di un depuratore a raggi infrarossi. Quest’opera è stata cofinanziata con i proventi della sagra “U

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Minghiaredd 2011” e da attività svolte nelle Comunità Parrocchiali del Crocifisso (tombolata) e San Giuseppe Moscati (pentolaccia). • Sono stati eseguiti lavori di impianti elettrici sia nella Missione che in alcune abitazioni e si è distribuito vestiario ai bambini ed adulti più bisognosi. A Natale 2011 abbiamo consegnato giocattoli per tutti i bambini. • Abbiamo fatto gioire circa 150 bambini organizzando, a maggio 2011, per loro una “fiesta”, ballando le loro musiche condividendo canzoni e pensieri in italiano e in albanese, preparando insieme a loro i mitici panzerotti e una colomba divisa in mini porzioni “bastata per tutti”. • È stata avviata la formazione di un gruppo scout di ragazzi di Mamurras. • Stiamo realizzando 70 fazzolettoni per la costituenda BRANCA LUPETTI.

ATTIVITA’ SANITARIA Nelle tre precedenti nostre presenze alla Missione cattolica delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo in Mamurras, Albania abbiamo svolto tre tipi di attività sanitarie, secondo le nostre potenzialità e professionalità: 1. Attività medica, consistente in visite mediche ed eventuale erogazione di farmaci, controlli generali. 2. Attività di fisioterapia, soprattutto per i ragazzi con problematiche di tipo scoliotico, quindi ginnastica posturale e psicomotricità. 3. Attività di educazione sanitaria per le ragazze in età adolescenziale.

Ma quello che veramente per loro è il miglior farmaco è osservarci lavorare con estrema disponibilità nei loro confronti, senza chieder loro nulla in cambio, con pieno spirito di servizio e con la voglia di aiutarli ed amarli nel senso più vero della parola.

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Per quanto al primo punto, sono state visitate circa 130 persone di diversa età, e, per alcune di esse è stato programmato un controllo per ogni volta in cui siamo presenti a Mamurras; le patologie prevalenti rilevate sono state soprattutto le infezioni parassitarie intestinali, l’ipertensione arteriosa, patologie venose a carico degli arti inferiori, cardiopatie ischemiche, disturbi del visus (in Albania portare gli occhiali è un grande problema, le donne potrebbero non sposarsi per questo), e, soprattutto, la malnutrizione (benché non sia una patologia, è l’evidenza clinica più importante). La fisioterapia è stata realizzata perché ci siamo resi conto che, sia per l’estrema magrezza di alcuni ragazzi, sia per le posture acquisite per poter studiare (spesso i ragazzi scrivono per terra o, dovunque possano poggiarsi, non hanno, cioè, dei tavoli su cui studiare), era necessario insegnare loro alcuni accorgimenti per tenere tonici i muscoli ed evitare l’insorgenza, o il peggioramento di attitudini scoliotiche. L’attività di educazione sanitaria si è resa necessaria per rendere le adolescenti edotte sulle trasformazioni tipiche di questa età, perché in Albania l’argomento menarca o più in generale sessualità è tabù e quindi spesso le ragazze si ritrovano a non capire cosa sta avvenendo nel loro corpo. Alcune nostre terapiste e infermiere hanno quindi argomentato e discusso con loro di tali problematiche; anche questi incontri sono stati ripetuti ogni qualvolta il MASCI è stato presente a Mamurras. Ma quello che veramente per loro è il miglior farmaco è osservarci lavorare con estrema disponibilità nei loro confronti, senza chieder loro nulla in cambio, con pieno spirito di servizio e con la voglia di aiutarli ed amarli nel senso più vero della parola.

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MONDIALITÀ, IL FILM DEI MIEI RICORDI Paolo Linati

● Mondialità e solidarietà

Un primo incontro con la mondialità lo ebbi, forse, nel 1944. Avevo dieci anni, eravamo nel quarto anno della seconda guerra mondiale. La città dove vivevo, a 5 km dalla Svizzera, era una base operativa nella resistenza partigiana, ma soprattutto una asse di transito di ebrei, ricercati politici, militari e prigionieri di guerra di diversi paesi, che fuggivano in Svizzera. Una sera di dicembre arrivarono a casa tre persone, due che mia madre e mio padre conoscevano: erano “Aquile randagie”, scout che nella clandestinità si opponevano al nazi-fascismo, ed una terza persona: noi bambini avevamo compreso subito che non era italiano. La mattina seguente, alle 4, se ne andarono, per raggiungere la frontiera. Solo dopo, alla fine della guerra, la mamma ci spiegò che il nostro ospite di quella sera di dicembre era un russo, un cosacco, che sfuggiva alle retate nazi-fasciste cercando di raggiungere la Svizzera. A quell’epoca non si parlava di mondialità ma, poco alla volta, capimmo che libertà e solidarietà erano cose che camminavano insieme; forse necessarie per capire il Mondo, per rendersi conto di ciò che accadeva al di fuori della nostra cittadina, al di fuori delle valli e delle pianure della Lombardia.

● Guardare fuori dal proprio Paese Un altro momento d’incontro con la mondialità l’ho avuto molti anni dopo, sul Boeing 707 Air-France, che mi portava da Roma ad Antananarivo, capitale del Madagascar, con sosta al Cairo e a Gibuti. Fu un incontro anzitutto linguistico: a bordo c’era gente che parlava inglese, francese, malagasy, arabo. Conoscevo un po’ d’inglese, meglio il francese, ma non abbastanza per capire tutto quello che diceva al microfono il comandante dell’aereo. Era difficile stabilire un dialogo con gli altri passeggeri. E da qui una prima constatazione: è difficile stabilire un rapporto di mondialità se non si conoscono, almeno un po’, le lingue dell’interlocutore,

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È difficile stabilire un rapporto di mondialità se non si conoscono, almeno un po’, le lingue dell’interlocutore

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ad iniziare dall’inglese. È una difficoltà che si presenta a molti nostri connazionali, e che forse favorisce il provincialismo di noi italiani, Rimasi in Madgascar dal 1962 al 1965. Erano gli anni del Concilio Ecumenico. Insegnavo matematica e fisica in francese in un Liceo, a titolo di “servizio volontario”. Furono anni importanti della mia vita, dal punto di vista professionale, dei rapporti umani, del divenire adulto, dell’acquisire il senso della mondialità. Per chi vuole fare veramente l’esperienza di conoscere una popolazione diversa dalla propria, per chi vuole “vivere” nella mondialità, occorre un periodo un po’ più lungo delle due settimane dedicate ai viaggi o dei mesi dedicati ai campi di lavoro. Infatti il primo contatto con un Paese in fase di sviluppo spesso lascia delusi: si ha un senso di inutilità, di spreco di risorse, di mancanza di iniziativa, a volte di esclusione. Per capire a fondo le persone di un Paese che non conoscevo, per me è stato necessario quasi un anno.

● Servizio internazionale

Un consiglio, che vorrei dare ai giovani che sentono la chiamata del servizio, è la proposta di andare a vivere per 2-3 anni in un Paese diverso dal proprio, usando la lingua di quel Paese, che spesso è l’inglese o il francese, esercitando la propria professione (medico, insegnante, agricoltore, artigiano, animatore culturale…), adottando modalità lavorative e tradizioni culturali di quel Paese. Un Paese qualunque, dell’Europa o ancor meglio un Paese emergente dell’Africa, dell’Americana Latina, dell’Asia, in cui esercitare la propria attività professionale a titolo di semi-volontariato. Si tratta di un servizio un po’ diverso da quelli a cui siamo abituati qui in Italia, nelle comunità di adulti scout o nei clan-fuoco. Qualche volta noi diciamo che il servizio deve essere al di fuori della professione, che non deve essere retribuito: infatti “volontariato” significa proprio quello. Invece io credo che in un Paese lontano, in un Paese in emergenza economica , il servizio più urgente, e forse più significativo sia, prima del volontariato, la testimonianza che si dà esercitando la propria professione: naturalmente senza attendersi i lauti stipendi dei funzionari delle grandi organizzazioni mondiali, ma accontentandosi dello stesso stipendio degli autoctoni. Credo che una esperienza di questo tipo sia la testimonianza primaria da dare alle popolazioni che si vogliono aiutare, e che contribuisca alla formazione professionale ed umana più di qualunque master o di qualunque scuola di specializzazione. E poi, un consiglio che vorrei dare ai genitori di quei giovani che, nel nome della mondialità, vorrebbero impegnarsi per alcuni anni in un servizio fuori d’Italia, in un Paese in emergenza: se vostro figlio fa questa scelta, non contrastatelo, anzi incoraggiatelo, e sostenetelo in tutte le necessità connesse con il vivere lontano da casa. Vostro figlio vi ringrazierà, per avere aiutato il

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suo camminare nel Mondo, per averlo incoraggiato a divenire davvero adulto, al di fuori del senso di sicurezza familiare e sociale, del provincialismo e dell’autoreferenzialità della propria casa e del proprio paese d’origine. Gli anni trascorsi in Madagascar mi hanno insegnato a comprendere una “cultura”, diversa da quella in cui ero nato e cresciuto. Oltre a conoscere uno dei Paesi geograficamente più interessanti del Mondo, insegnavo in lingua francese, seguendo metodi e programmi ispirati alla scuola francese, e constatando la notevole differenza dai programmi e dai metodi in uso in Italia. E questo mi è servito più tardi, nella professione di insegnante, in Italia e in altri Paesi europei. E poi, oltre ad insegnare matematica e fisica, ero chef de communauté (capo-clan) di una comunità di routiers (17-22 anni), della locale associazione scout (i brevetti della wood-badge di Gilwell, presi a Colico e in Svizzera, mi aprirono questa possibilità). Nella mia comunità di routiers c’erano malgasci, francesi, indiani; studenti del liceo nel quale insegnavo, che vivevano con le loro famiglie; alcuni operai, contadini

Mondialità in foresta tropicale

Il Madagascar, un’isola dell’Oceano Indiano, lunga quanto l’Italia e larga come la pianura padana, è formata da un altipiano che attraversa l’intera isola, e poi da una falaise lunga 1500 chilometri e larga 100, che separa gli altipiani dalla costa dell’Oceano Indiano. Una falaise di foresta tropicale primaria, attraversata da solo tre strade, a Nord, al Centro e a Sud. Pochi, anche fra i locali, entravano nella foresta abbandonando le strade carrozzabili, perché era facile perdersi. Con la communaiuté routiers abbiamo attraversato i cento chilometri di foresta due volte, con due routes di una settimana ciascuno: e questo anche se tutti, capi di scout e residenti, ci avessero sconsigliato. Poco tempo prima, alcuni paracadutisti dell’Armée si erano persi, e non erano più stati ritrovati. A quell’epoca non c’erano navigatori satellitari, ma neanche carte topografiche, spesso neanche una strada da seguire: tanto che, al ritorno, consegnammo all’Ufficio Geografico Nazionale le indicazioni topografiche sui percorsi da noi seguiti. Incontravamo qualche volta qualche villaggio, che ci riforniva di alimenti locali (riso, banane, papaie, …), e ci insegnava a conoscere una mondialità tutta speciale, quella delle popolazioni che vivono in una povertà quasi assoluta e nella non-conoscenza di ciò che accade nel resto del Mondo; ci faceva conoscere la capacità di fare uso di “mezzi poveri” per la propria sopravvivenza, al di fuori dello sviluppo economico dei Paesi sviluppati, e al di fuori di ogni preoccupazione di “crescita”. Anche questa è stata una esperienza, che certamente ha contribuito ad una formazione adulta e ad una diversa concezione di mondialità, in me e

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“Educazione allo sviluppo”: cioè la capacità di assumersi la responsabilità della propria crescita, economica e culturale, da parte di tutti, uomini e donne, giovani e adulti; e di non contare esclusivamente sull’aiuto, in denaro e in capacità operative, che arriva dai Paesi più ricchi; a darsi da fare per utilizzare per quanto possibile le risorse disponibili in loco, di mezzi e uomini; ad essere responsabili del proprio futuro, meritando fiducia, nei riguardi di se stessi e nei riguardi degli altri.

Educazione allo sviluppo

Mondialità e migrazioni

Ma gli anni trascorsi in Madagascar, e più tardi in altri Paesi africani, non mi hanno insegnato solo ad attraversare foreste o ad apprendere particolari tradizioni culturali. Mi hanno insegnato qualcosa in tema di “educazione allo sviluppo”. In molti Paesi del mondo (Costa d’Avorio, Sud-Africa, fra quelli a mia conoscenza), il movimento scout sia giovanile sia adulto ha posto fra i propri obiettivi il tema della “Educazione allo sviluppo”: cioè la capacità di assumersi la responsabilità della propria crescita, economica e culturale, da parte di tutti, uomini e donne, giovani e adulti; e di non contare esclusivamente sull’aiuto, in denaro e in capacità operative, che arriva dai Paesi più ricchi; a darsi da fare per utilizzare per quanto possibile le risorse disponibili in loco, di mezzi e uomini; ad essere responsabili del proprio futuro, meritando fiducia, nei riguardi di se stessi e nei riguardi degli altri. La scelta di metodo, che ho imparato vivendo nei “Paesi in via di sviluppo”, sta nella “adozione dei mezzi poveri”: cioè nel rinunciare ad alcune strumentazioni meccaniche, chimiche e biologiche molto progredite, adottate nei Paesi ricchi, e vendute dalle multinazionali o fornite dalle grandi organizzazioni internazionali. E al loro posto adottare gli strumenti che il territorio mette a disposizione. È questo un modo concreto per realizzare quella educazione all’essenzialità, di cui parla il nono articolo della legge scout (essere laborioso ed economo). Forse la situazione di povertà e la situazione economica di questi Paesi dovrebbe essere conosciuta da chi, nei Paesi più ricchi, parla di crescita e decrescita, di tutela del lavoro, di tenore di vita.

Scrive Riccardo Masseo: «Per la prima volta nella storia, ci stiamo rendendo conto che le differenze fra gli esseri umani e l’assenza di un modello universale sono destinate a perdurare. Vivere con gli stranieri, essere esposti all’Altro, non è un’esperienza nuova; il punto è che nel passato si riteneva che coloro i quali erano “alieni” avrebbero perso prima o poi la loro “differenza” e sarebbero stati assimilati accettando gli stessi principi universali che erano, di fatto i nostri valori. Oggigiorno invece non è più così: le persone che si spostano in un altro Paese non desiderano più diventare come i nativi del Paese che li accoglie, che a loro volta non hanno alcuna voglia di assimilarli» . I sociologi che si occupano di migrazioni parlano di mixofobia, cioè

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la paura di avare a che fare con gli stranieri, e di mixofilia, cioè la gioia di venire a contatto con un ambiente umano diverso e stimolante. Forse non è inutile dire che l’adulto scout è iscritto al partito della mixofilia. Nel testo citato in nota, BAUMAN cita Massimo D’ALEMA, attuale Presidente della Fondazione Studi Progressisti: sul numero del 10 Maggio 2011 del quotidiano francese Le Monde, D’ALEMA scriveva: «L’Europa ha bisogno di immigrati. Oggi ci sono 333 milioni di europei che tuttavia, con il tasso di nascite di quest’anno, si ridurranno a 242 milioni nei prossimi quarant’anni. Per colmare un divario del genere, saranno necessari almeno trenta milioni di nuovi arrivi; in caso contrario l’economia europea crollerà e con essa crollerà il nostro amato standard di vita».

Intercultura ed integrazione scolastica

Secondo BAUMAN-MASSEO (testo citato), l’integrazione scolastica (le scuole) e sociale (le associazioni giovanili, e fra queste gli scouts) sono la via più adatta per abituare i nostri figli alla “mixofilia”, e per eliminare la “mixofobia”. A questo proposito occorre ricordare che l’Italia è l’unico Paese al Mondo in cui la piena inclusione scolastica dei minori stranieri è garantita per legge, da quasi quarant’anni; ma non sempre attuata. Da alcuni anni, essendo in pensione, faccio un “corso di sostegno” in una scuola media statale per alunni di terza che hanno difficoltà in matematica, come servizio volontario. Fra i miei alunni e alunne, ho tre cinesi, una peruviana, uno del Marocco, due albanesi, ed alcuni italiani. Due dei tre cinesi, da tempo in Italia, sono piuttosto bravi, soprattutto nei problemi di calcolo delle probabilità, ed aiutano il loro connazionale, che per ora non capisce molto l’italiano. Questa è la scuola di oggi. La scuola della mondialità, della intercultura e del dialogo. E questa è forse l’ultima immagine nel film dei miei ricordi. «Da più di quarant’anni della mia vita a Leeds - scrive il sociologo ZYGMUND BAUMAN nel testo citato – vedo dalle mie finestre i ragazzi e le ragazze che tornano a casa dalla vicina scuola secondaria. È raro che camminino da soli per la strada, preferiscono camminare nel gruppo dei loro amici. Questa consuetudine non è cambiata. Tuttavia, quel che vedo dalle mie finestre è cambiato nel corso degli anni. Quarant’anni fa ciascuno di questi gruppi era di un solo colore; oggi, non lo è più quasi nessuno di essi

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“IL BENE COMUNE” Roberto e Annamaria Ursino

Ogni Comunità aveva la possibilità di scegliere un determinato argomento da sviluppare tra i membri e stendere poi una relazione su quanto era stato fatto e quanto era emerso dall’aver affrontato una specifica tematica. La nostra Comunità ha individuato in “Individuo e Persona” il filone di maggior interesse. Per affrontare l’argomento è venuto spontaneo interrogarci sulla differenza tra le due terminologie: Individuo, colui che è chiuso in se stesso, incapace di tessere relazioni con gli altri, in poche parole un isolato. Persona è colui invece che capisce che da un significato alla sua vita solo se si apre agli altri, si mette in relazione e collabora per creare un bene comune. Essendo convinti che l’umanità sia fatta da persone e individui, abbiamo voluto restringere il campo d’interesse cercando di esaminare la figura dello “straniero” in tutte le sue sfaccettature. Stabilito l’argomento, ci siamo dati un metodo di lavoro, volevamo spaziare il più possibile sui vari aspetti in cui lo straniero è presentato e rappresentato. Abbiamo pertanto, guidati da Padre Paolo dei Carmelitani Scalzi, letto e discusso in comunità alcuni brani dall’Antico Testamento (Genesi, storia di Abramo, libro di Ruth), e la Samaritana dal Nuovo Testamento. Le fonti bibliche ci hanno fatto riflettere sull’abbandono della propria terra, la vita del viandante come metafora della ricerca di Dio.

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Davanti a delle situazioni e comportamenti inconsueti, spesso ci interroghiamo, qualche volta cerchiamo di cambiare, ma spesso non vogliamo correre rischi e per pigrizia non entriamo in relazione con l’altro, giudichiamo e cadiamo nei pre-giudizi. Monsignor Marino Poggi ci ha guidato nella lettura di alcuni art. del cap. 3 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, ed alcuni articoli della Costituzione Italiana. Abbiamo assistito ad alcune proiezioni audiovisive: “L’America”, mostra sulla migrazione per mare degli italiani verso l’America ai primi ‘900. Si tratta di un viaggio virtuale in cui il visitatore in possesso di un biglietto di viaggio e di un passaporto, sale sul piroscafo “Città di Torino” e immedesimandosi nell’emigrante, affronta le difficoltà della traversata che lo porterà da Genova a Ellis Island. Il film “Il vento fa il suo giro” la storia di una famiglia francese, pastori di capre, che allontanatasi dai Pirenei a causa della costruzione di una centrale atomica, tenta inutilmente di inserirsi in Val Maira una valle del cuneese, le difficoltà sorgono subito al suo arrivo, spaziano dal non riuscire a trovare una casa e dei pascoli per le proprie bestie, al non essere accettata dal contesto sociale del luogo, all’essere indicata come causa di tutti i mali che si abbattono sul piccolo paese. Il racconto pone un interessante interrogativo sul futuro delle comunità chiuse e sull’incapacità dell’adattamento all’apporto esterno. Il film “Nuovo mondo” racconta l’esodo di una famiglia siciliana che decide di tentare la sorte in America, lasciando la Sicilia verso la fine dell’800. Il gruppetto abbandona il paesino d’origine, s’imbarca su di una nave che salpando si allontana sempre di più da quella terra ferma, dove erano riposti tutti i pochi tesori e gli affetti del gruppetto. Il viaggio è una tempesta di emozioni e l’arrivo nel nuovo mondo è segnato dalla purificazioni e dall’essere esaminati se degni di costruire il sogno americano. Il film “Gran Torino” narra di un veterano della guerra in Korea, che cerca di correggere il suo giovane vicino di casa, che ha tentato di rubargli l’auto “Gran Torino” del 1972. Il veterano è circondato dai figli che sono arrivati per il funerale della Di che colore è la pelle di Dio

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Tutti siamo stranieri nel mondo, siamo ospitati e ospitanti, noi proiettiamo le nostre paure e le nostre ansie sullo straniero, che invece deve essere visto come fratello perché figli di un unico Padre

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moglie e da un parroco che tenta invano di farlo confessare. Ma la solitudine dovuta al suo isolamento è inviolabile. La famiglia confinante è asiatica e lui non accetta di buon cuore questa vicinanza, ma il giorno in cui lui difende un giovane appartenente alla famiglia asiatica da un’incursione di membri di una gang rivale, pian piano il muro di diffidenza e di astio che si era creato intorno si sbriciola, e saranno proprio i due giovani asiatici a farlo riconciliare con il mondo. Pino Petruzzelli in quel periodo aveva allestito uno spettacolo teatrale sulla sua esperienza con il modo dei Rom, anche quelle scene e quei dialoghi ci hanno svelato un mondo a noi sconosciuto. Abbiamo percepito il messaggio lanciato dall’autore: “Non tutti i gli zingari sono cattivi”, riteniamo questo giudizio importante per superare le nostre diffidenze e le nostre paure, dovute al fatto che conosciamo solo il loro aspetto delinquenziale. La dottoressa Graziella Merletti ci ha guidati nell’affrontare il parallelismo tra il Cristianesimo e l’Islam, l’episodio della torre di Babele non è visto come una punizione, ma come la volontà di Dio di popolare la terra con tanti popoli che ora si allontanano e ora si avvicinano. Abbiamo percepito che le tre fedi, cristiana, ebraica e islamica hanno tutte un deterrente comune: tutte affermano l’esistenza di una Creazione, da parte di un unico Dio che accompagna l’uomo verso una meta finale. Una coppia interreligiosa cristiano islamica ha portato la sua testimonianza, la loro è stata una storia difficile, ma al tempo stesso entusiasmante, entrambi sono riusciti a ricercare l’essenziale e a stabile quindi un rapporto d’amore e di rispetto reciproco pur nelle diversità. Una cena multietnica ci ha svelato i piatti e le prelibatezze di luoghi a noi non noti. Alla fine di questo percorso durato più di un anno siamo consapevoli che: tutti siamo stranieri nel mondo, siamo ospitati e ospitanti, noi proiettiamo le nostre paure e le nostre ansie sullo straniero, che invece deve essere visto come fratello perché figli di un unico Padre

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“TENGO AL TOGO” Anna e Ciro Cirillo

Non siamo del tutto certi che questo nostro intervento, volto a raccontarvi il progetto sanitario che stiamo sostenendo nel piccolo stato africano del Togo dal 2008, segua esattamente le linee guida che ci avete indicato. Tuttavia preferiamo correre il rischio di iniziare andando “fuori tema”, perché non saremmo sinceri né con voi né con noi stessi, se ci limitassimo a descrivere il nostro percorso, trascurando il vero inizio, che è il 14 marzo 2008. Quel giorno nostro figlio Francesco muore in un incidente stradale. Gli esperti di psicologia sostengono che iniziare, subito dopo un lutto di quella portata, un qualsiasi progetto di aiuto nell’ambito del volontariato, può essere controproducente per la riuscita del progetto stesso, ma noi abbiamo voluto cercare, fin dall’inizio e poi giorno dopo giorno, di trasformare una perdita incommensurabile, quale quella di un figlio, in un punto di forza per costruire qualcosa in nome suo. Sostenuti dalla spensieratezza di nostro figlio, dai suoi desideri, che non avevano ancora trovato il modo non solo di realizzarsi, ma neanche di definirsi, abbiamo cercato di uscire dai nostri confini per incontrare gli altri, soprattutto i “lontani” e i “diversi” e per vedere se e come essi avevano bisogno di noi. Noi, sicuramente, avevamo bisogno di loro. Già nel 2007, un anno prima, ci avevano proposto di dare una mano nell’allestimento di un centro sanitario a Tohouédéhoué, in Togo, per garantire l’assistenza sanitaria di base ad una comunità di bambini e giovani, ospiti di un orfanatrofio con annessa scuola. La struttura era stata costruita, nella brousse, a circa 140Km dalla capitale Lomé, per iniziativa di un sacerdote togolese, Padre Filippo Dantodji, che era vissuto per alcuni anni in Italia per studio e ministero. La struttura ospitava, ed ospita tuttora, circa un migliaio di ragazzi, Di che colore è la pelle di Dio

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ai quali era stata data la scuola, ma non ancora l’assistenza sanitaria. Nel giugno 2008 siamo parti per Tohouédéhoué, dopo aver dato un rapido sguardo alla cartina geografica dell’Africa alla ricerca del Togo. Stretto tra il Ghana e il Benin, questo piccolo stato dell’Africa subsahariana si affaccia anche, per un breve tratto di costa sabbiosa, sul mare, il Golfo di Guinea. Qui si trova la capitale, Lomé, che è provvista di un porto di notevole interesse commerciale anche per gli stati confinanti. Andando verso il nord (il Togo è stretto e lungo) troviamo la foresta pluviale e poi la savana, e, sempre andando verso le regioni del nord, vediamo che aumenta anche la povertà. Il Togo è un paese francofono, indipendente dalla Francia dal 1960, relativamente pacifico, anche perché, essendo povero di risorse, è di scarso interesse per i mercati e le potenze economiche estere. L’economia del paese si regge su un’agricoltura non intensiva, basata sulla coltivazione del mais e di pochi altri cereali e legumi. La maggior parte della popolazione vive in ambiente rurale, in quella che, con una punta di disprezzo, viene chiamata la “brousse”. E’ in questo ambiente di villaggi di capanne fatte di argilla, paglia e lamiera che Padre Filippo ha costruito l’orfanatrofio e la scuola ed è qui che noi abbiamo iniziato e stiamo portando avanti il nostro progetto. Si tratta di un piccolo centro sanitario comprendente : un ambulatorio per le visite mediche, una sala di degenza tipo Day Hospital, un laboratorio e una farmacia. Ci siamo impegnati a sostenere economicamente il salario dei sanitari, tutti togolesi, che al momento sono quattro: un assistente medico, un laboratorista, un’ostetrica, un’infermiera, che si occupa anche della farmacia. Sosteniamo anche la fornitura dei farmaci essenziali, per curare la malaria, le parassitosi intestinali, le comuni malattie infettive e le ipovitaminosi. Il nostro obiettivo prioritario è la formazione del personale, che periodicamente affianchiamo, anche in base alle nostre competenze professionali (Anna è medico, Ciro tecnico di laboratorio). Ottenuta una certa stabilità del personale sanitario e garantita l’assistenza alla comunità dell’orfanatrofio e della scuola, stiamo ora cercando di allargare il bacino di utenza del centro medico ai villaggi circostanti e di collaborare col Dispensario governativo che opera in zona, nel cantone di Asrama. In quest’ottica, a febbraio, abbiamo dato il via ad un progetto per l’individuazione dei fattori di rischio della patologia cardio-vascolare, ipertensione e diabete, nella popolazione adulta dei villaggi

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di tutto il cantone di Asrama. La nostra presenza periodica accanto al personale sanitario locale con l’obiettivo di una formazione da realizzarsi soprattutto “lavorando insieme”, ci ha consentito una maturazione importante anche dal punto di vista professionale e ci ha stimolato ad allargare i nostro orizzonti professionali ed umani. Questo perché, quando lavoriamo in Togo, ci troviamo spesso di fronte non solo a malattie che, in Italia, abbiamo studiato solo sui libri, ma anche ad atteggiamenti nei confronti della malattia più rispettosi del rapporto uomo-natura. Questo piccolo pezzo di Africa vicino all’equatore, queste persone povere di beni materiali, ma fondamentalmente ricche di umanità, ci hanno fatto rivedere un po’ i nostri obiettivi , facendoci capire che potevamo realizzare insieme un rapporto molto costruttivo per loro ma anche per noi. L’altro aspetto importante del progetto è rappresentato dalla raccolta fondi, che ha visto coinvolto un gran numero di persone, in ambito associativo, ma anche tra colleghi, amici, conoscenti, che hanno dato e continuano a dare partecipazione attiva a serate musicali, pranzi multietnici, banchetti di sensibilizzazione nelle sagre e feste locali, incontri di sensibilizzazione e informazione in ambito scolastico e parrocchiale. Il senso del nostro progetto, a livello di motivazione, di partecipazione e di consapevolezza, si può sintetizzare proprio nel logo “Tengo al Togo” della nostra associazione, che è emerso da una serata di “brainstorming” tra amici desiderosi di dare un nome al progetto. Ci siamo accorti dopo, quando volevamo tradurlo in francese per gli amici togolesi, che la traduzione più fedele era quella dell’ “I care” di don Milani. Ciò che facciamo ci sta a cuore e Patch Adams esprime bene anche il nostro programma: “Quando curi una persona - dichiara il medico clown – puoi vincere o perdere, quando ti prendi cura di una persona puoi solo vincere”. Questa pensiamo sia la nostra strada nella “mondialità”, una delle “mille strade diverse” che, pur tra difficoltà e momenti di scoraggiamento, ci può portare alla meta comune, che è quella di sentirci, a tutti gli effetti, cittadini del mondo, di un mondo fondato sui valori imprescindibili della tolleranza, del confronto, dell’accoglienza, della solidarietà, della pace. Di che colore è la pelle di Dio

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“Quando curi una persona - dichiara il medico clown – puoi vincere o perdere, quando ti prendi cura di una persona puoi solo vincere”.

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DALL’ITALIA AL MONDO

DALL’ITALIA AL MONDO CON UN PROGETTO DI COOPERAZIONE INTERNAZIONALE. Francesco De Falchi

Come si progetta? Quali competenze? Come progettare nelle diverse realtà politiche,economiche, culturali? Le attenzioni e le consapevolezze. Un piccolo ambizioso intervento di cooperazione in Burundi Si racconta questa esperienza quale contributo alla riflessione sulle modalità di cooperare per lo sviluppo delle popolazioni più svantaggiate. 1- UN RAPPORTO PARITETICO PER COOPERARE La sfida, in fondo, è sempre la stessa. Quella della storia dell’uomo che, malgrado i suoi limiti e le sue debolezze e secondo il disegno divino, può perseguire nel suo cammino fatto di tragiche cadute e di eroiche resurrezioni, il progresso e la pace: il Padre lo ha creato libero affidandogli la responsabilità di scegliere; il Padre gli ha dato fiducia perché pervenga ad essere adulto e cioè capace di discernere per vincere sul male. La sfida della democrazia che confida al popolo, ad ogni cittadino, le scelte per il bene comune della nazione piuttosto che delegare tali scelte ad uno o ad alcuni illuminati. La sfida del genitore e quella di qualsiasi buon educatore che, secondo la pedagogia divina, lascia gradualmente libero il proprio figlio di sperimentare le sue capacità e di verificare i suoi limiti e lo incoraggia e lo sostiene con la propria fiducia chiedendogli di assumersi – e affidandogli - la responsabilità di scegliere. La sfida in fondo è sempre quella di avere il coraggio di rischiare di perdere qualcosa più o meno importante per raggiungere obiettivi di valore confidando, secondo fede, speranza e carità, in ciò che c’è di buono nell’uomo e in ogni uomo.

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A queste cose pensavo nel corso della riunione fatta ai primi di luglio 2001 con i presidenti e i vicepresidenti delle Associazioni di giovani che partecipano al progetto “iniziative di sostegno alla microimprenditorialità giovanile nei quartieri di Bujumbura-Burundi” trovando così una spiegazione per così dire di “alto profilo” all’intuizione che caratterizza l’impostazione metodologica del progetto e apprezzando ancora di più il coraggio della Caritas Italiana che ha condiviso tale impostazione accettando il rischio del necessario sostegno finanziario. Questo coraggio, nell’accezione di quanto detto, è difficilmente riscontrabile negli interventi di altre ONG o anche nei programmi delle Agenzie internazionali generalmente caratterizzati da una particolare attenzione ad evitare i rischi di un coinvolgimento dei locali nelle scelte, nelle decisioni e nella gestione quasi vi fosse una preconcetta diffidenza nei confronti delle loro capacità, della possibilità di un corretto impiego delle risorse. 2- LA SITUAZIONE AMBIENTALE E IL PROBLEMA OGGETTO DELLE ATTIVITA’ Dopo tanti anni di guerra civile l’economia burundese è attualmente allo stremo, priva di risorse e di stimoli che possano consentire una qualche ripresa autonoma; questo proprio quando il processo di globalizzazione delle dinamiche economiche, sociali e politiche -già operante anche in questo piccolo Paese al centro dell’Africa grazie ai midia - richiederebbe maggiori risorse ed iniziative per cercare di soddisfare la disperata domanda della popolazione, domanda indotta dalle diffuse condizioni di povertà e di miseria, ma anche dal miraggio del benessere del modello di civilizzazione occidentale. D’altra parte la lunga consuetudine all’instabilità e all’insicurezza hanno privato le persone della voglia e forse dell’attitudine a pensare al proprio futuro mentre gli interventi umanitari hanno prodotto diffusi atteggiamenti di tipo assistenzialistico La dilagante disoccupazione giovanile rappresenta il più grave pericolo per le prospettive del Paese sia per la miseria materiale e morale che produce sia perché mette a disposizione un crescente numero di giovani a chi ha bisogno di soldati per combattere per una qualsiasi causa. Infatti a fronte della notevole pressione demografica -il Burundi ha una densità per Km molto più elevata di quella italiana-, di un trend demografico con un indice di fecondità del 6,8 (Italia 1,2) e di una popolazione giovanile (meno di 18 anni) di circa il 52% (Italia 14%) sono praticamente assenti le opportunità di lavoro mentre quelle tradizionali agricole interessano sempre meno i giovani a causa della più diffusa scolarizzazione e delle mutate aspettative rispetto all’attività lavorativa. 3- L’approccio metodologico

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DALL’ITALIA AL MONDO Certo la questione del rapporto nord-sud, delle politiche mondiali per una più giusta distribuzione delle risorse mondiali e, più in generale, della globalizzazione è qualcosa di portata epocale e di una complessità senza precedenti; ciò che sta avvenendo da Seattle in poi ne è solo una prima avvisaglia. Tuttavia alcuni principi ed alcune logiche e meccanismi individuabili nella oramai vasta e multiforme esperienza degli aiuti ai PVS e della cooperazione internazionale potrebbero risultare validi fornendo utili orientamenti. E’ universalmente noto il pensiero di Confucio “se vuoi aiutare qualcuno che ha fame non regalargli il pesce piuttosto insegnagli a pescare”. Ma le azioni condotte dalle Agenzie internazionali e dalle ONG con l’intento di aiutare i PVS sono invece generalmente progettate e gestite da “bianchi” (funzionari, esperti, tecnici, missionari, volontari, ecc.) mentre ai locali difficilmente vengono richieste capacità e responsabilità di individuare i problemi, di ricercare ed elaborare possibili soluzioni, di progettare ed organizzare i lavori, di gestire le risorse. Si potrebbe addirittura pensare all’esistenza di una decisione politica, di un accordo più o meno tacito tra i detentori della conoscenza e delle moderne tecnologie diretti ad evitare la diffusione di tali risorse per mantenerne il possesso e il potere. Si pensi a quante poche risorse, rispetto al volume complessivo delle risorse stanziate a livello mondiale per il sud del mondo, sono state destinate alla formazione e al trasferimento di conoscenze e competenze Del resto non è un mistero la pratica del neocolonialismo mediante la semplice formazione di condizioni di dipendenza-economica, politica, culturale, scientifica, tecnologica, ecc. Ciò appare piuttosto evidente in molti Paesi africani in cui gli aiuti internazionali ed umanitari sembrano aver prodotto, oltre agli indubbi benefici rispetto a situazioni e bisogni estremi, una diffusa situazione di dipendenza in cui tali aiuti sono oramai diventati indispensabili con una conseguente deresponsabilizzazione dei locali rispetto ai loro problemi: lo sviluppo del Paese è problema dei “bianchi” e l’instaurarsi di rapporti donatore-assistito in cui il donatore ha la responsabilità e il potere di decidere e di controllare e l’assistito il diritto di ricevere 4- Dall’idea progettuale al progetto Nei quartieri periferici di Bujumbura si sono formate molte associazioni di giovani con l’aspettativa di poter ottenere piccoli contributi e finanziamenti proponendo attività sociali e umanitarie quali l’educazione alla pace, l’educazione e la prevenzione sanitaria e di lotta all’aids, l’assistenza ai bambini e ragazzi di strada, ecc. Tale aspettativa, per quanto ci risulta, resta generalmente delusa per la scarsa informazione che si ha delle procedure per la presentazione delle proposte e per la scarsa credibilità dei proponenti.

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Da alcuni primi contatti che un rappresentante della Coop.OESSE, poi titolare del progetto, ha avuto l’opportunità di avere con alcune di queste associazioni è scaturita l’idea progettuale: sperimentare un intervento rivolto al problema della disoccupazione giovanile cercando di tenere conto degli elementi prima evidenziati e cioè: - instaurare e costruire un rapporto per quanto possibile paritetico con i locali fondato sulla reciproca fiducia, attribuendo ruoli e compiti per i quali i locali si assumevano le responsabilità di scegliere cosa fare, di progettare come fare, di realizzare quanto proposto, di gestire e di controllare le risorse; - restituire dignità e speranza facendo loro provare le loro capacità e la concreta possibilità di pensare e di agire per il loro avvenire, stimolando protagonismo e fierezza nella lotta contro difficoltà e problemi le cui soluzioni non possono venire dall’assistenzialismo; - cercare di svolgere una costante azione formativa basata sul principio dell’imparare facendo e della trasmissione dell’esperienza. Questo poteva essere sperimentato concretamente mediante un impianto organizzativo che per un verso assicurasse la piena soggettività e responsabilità dei locali e che nel contempo fosse in grado di controllare i rischi facilmente prevedibili per le diffuse e gravi condizioni di povertà e per le pressanti esigenze di denaro evidenti nei quartieri e tra i giovani. Nel corso di una prima missione a Bujumbura di Coop OESSE avvenuta tra febbraio e marzo 2000 si è proposto a quattro associazioni di giovani di pensare ad una attività economica che potesse essere occasione di lavoro per loro ed essere anche motivo di promozione sociale per il loro quartiere. Ha così avuto inizio un lavoro a diretto contatto con le associazioni particolarmente interessante mirato alla predisposizione dei progetti esecutivi delle proposte avanzate dai giovani, ma che è stato soprattutto motivo di formazione per far comprendere loro gli elementi più importanti di cui si deve tenere conto per verificare la fattibilità di un progetto e per spiegare come redigere un progetto in modo che sia credibile e convincente. Nel condurre questa azione di formazione e di cooperazione è stata data particolare importanza a valorizzare la coesione e la solidarietà tra i soci delle singole associazioni, coesione e solidarietà come fattori determinanti per il buon esito di una qualsiasi attività economica. Ciò evidentemente ha portato a ragionare di ruoli e responsabilità, di fiducia e di trasparenza, di organizzazione e di compiti. Contemporaneamente si sono verificate le possibilità per un impianto organizzativo che potesse per quanto possibile assicurare il rispetto dei principi che si volevano sperimentare.

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DALL’ITALIA AL MONDO Al termine di questa prima missione è stato così possibile un primo incontro con la Caritas Italiana che ha positivamente accolto la proposta fornendo altresì l’entità del contributo che poteva stanziare, elemento che ha consentito quindi di definire il progetto. Dei nove microprogetti predisposti dalle associazioni è stato possibile accoglierne solo quattro, uno per ciascuna associazione. La durata del progetto è prevista in dieci mesi salvo la possibilità di operare con continuità in considerazione dei rischi di scontri armati a cui sono soggetti i quartieri interessati dal progetto (Cibitoke, Buysa e Nyakabiga). La presenza di Coop OESSE è limitata a tre missioni di circa un mese ciascuna con compiti di supervisione e di consulenza. La realizzazione dei microprogetti è affidata alle associazioni. La responsabilità dell’assistenza tecnica e del controllo amministrativo e contabile è affidata ad una ONG locale l’ASB (Associazione Scout Burundi). Il flusso finanziario è stato previsto a stati di avanzamento sia da Coop OESSE a ASB, sia da ASB a singole associazioni. 5- Le regole di comportamento Nel settembre 2000 si svolge la missione di Coop OESSE per l’avvio operativo del progetto. Alla definizione dei compiti, delle responsabilità e delle regole di comportamento, poi formalizzate con apposite convenzioni tra Coop OESSE e ASB e tra ASB e singole associazioni, è stata attribuita grande importanza ed ha costituito un impegno di particolare interesse. Nel corso delle numerose riunioni prima con le singole associazioni e poi congiunte è infatti riemersa l’aspettativa che fosse Coop OESSE (cioè il “bianco”) a gestire e controllare, aspettativa che veniva espressa dalle associazioni mediante una scarsa fiducia nei confronti di ASB a cui si affidavano anche responsabilità di controllo finanziario. E’ stato dunque necessario spiegare ancora più volte ciò che si voleva sperimentare e che si domandava loro di dimostrare con successive discussioni e riflessioni che hanno costituito interessanti occasioni di informazione e di confronto sulle tematiche del rapporto nord-sud e dunque occasioni di formazione.

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CENTRO ALLAMANO IRINGA- TANZANIA Nicola La Porta – Anna Corradini

Tanzania. Centro Allamano (dal nome del fondatore delle Suore della Consolata beato Giuseppe Allamano) per l’assistenza ai malati di AIDS creato e gestito dalle Suore Missionarie della Consolata di Torino. Esattamente 10 anni fa con il dilagare di questa malattia e in assenza ancora di interventi significativi da parte delle istituzioni governative, le suore iniziarono a prendersi cura di queste persone inizialmente con assistenza sociale nei suoi vari aspetti, nonchè di supporto sanitario e alimentare. Solo successivamente, nel 2006, il governo è intervenuto con la fornitura dei farmaci specifici antiretrovirali permettendo così alle suore di offrire un’assistenza globale. Ed è da allora che un rappresentante del MASCI di Sacile collabora con loro nel ruolo di responsabile medico del CTC (Care and Treatment Centre) con la presenza di periodi mensili distribuiti nel corso dell’anno 1949. Prima ancora dei numeri dell’attività del Centro mi preme qui presentare l’assoluta peculiarità del lavoro delle suore che fin dall’inizio si sono prese cura del malato nel suo insieme e quindi la famiglia di appartenenza, l’ambiente in cui vivevano spesso isolati, l’impossibilità a un minimo di lavoro per il proprio sostentamento, i figli rimasti orfani, l’abbandono negli ultimi terribili periodi di una malattia devastante. Tutte queste attività sono state avviate partendo con poco personale e vari volontari che seguivano a domicilio i casi più gravi, poi sono state create piccole cooperative tra i malati stessi per allevare animali domestici e coltivare piccoli appezzamenti di terreno. Inoltre ci si è preso cura degli orfani dei pazienti deceduti che venivano affidati ad altri membri della famiglia cosiddetta allargata insieme a un sostegno per l’assistenza scolastica e alimentare . Su questo poi si è inserita la cura delle infezioni collaterali spesso gravi nonché della malattia in sé, il tutto senza nessun onere per i pazienti e allora il quadro attuale, a 10 anni di distanza , ci

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fa solo rendere omaggio al lavoro tenace caritatevole e soprattutto silenzioso delle suore. E così oggi succede che le istituzioni governative chiedano al Centro di ampliare gli spazi per dare risposta ai sempre più numerosi pazienti, persone che prima si tenevano alla larga dal Centro per la paura di essere individuati come “malati” e quindi allontanati dai conoscenti, e ora invece chiedono di fare gli esami di screening ed eventualmente la terapia del caso, partecipano agli incontri del sabato dove si raccontano le loro personali esperienze, ricevono formazione, si scambiano consigli e proposte. Attualmente il Centro riceve un parziale aiuto dall’Agenzia americana per la Cooperazione (USAID), i dipendenti istituzionalizzati sono 29, a questi si aggiungono 98 volontari sul territorio (diversi di loro sono pazienti in regolare terapia). A marzo 2012 i malati in terapia antiretrovirale risultano essere 1658 di cui 1114 donne e 544 uomini(di questi il totale in età pediatrica è di 239). A questi si aggiungono altri 3861( donne 2526, uomini 1335; tra questi in età pediatrica 632) che pur essendo sieropositivi non hanno raggiunto ancora un grado di sviluppo di malattia secondo le linee guida nazionali e quindi sono in attesa di iniziarla appena necessario. Gli orfani assistiti nelle famiglie sono 4330 dei quali 618 sono sieropositivi. Le cooperative di microcredito gestite esclusivamente da pazienti sono 12 e ora si sta esportando questa riuscita esperienza in altri quartieri della città su richiesta delle istituzioni locali. Ma mi preme concludere raccontando di una piacevole sorpresa presentataci da un gruppo di questi nostri malati. Hanno creato una cooperativa teatrale,sì proprio teatrale, per presentare in questo modo la loro storia,come e perché si sono ammalati,facendo ironia sulle loro abitudini sbagliate. Alla prima rappresentazione hanno avuto tanti apprezzamenti e applausi convinti e una Coca-Cola in omaggio. Ora hanno già iniziato a girare in altre zone e nessuno ha dubbio sulla loro efficacia educativa…E insomma dalla paura di essere riconosciuti come malati all’accettazione di questa realtà e al desiderio di aiutare gli altri a non cadere come loro. Nell’iniziale programma delle Suore della Consolata questo aspetto della formazione era un punto importante e oggi bisogna davvero dar loro atto dei risultati raggiunti.

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QUEL PEZZETTO DI AFRICA NEL CUORE Dopo vent’anni, papà raccontami ancora dell’Africa. Com’è iniziata quell’avventura? Chiara e Valentino

Spesso abbiamo ricordato proprio quella battuta, quasi detta per caso, di circostanza, diremo… Pierangelo, accompagnando don Tarcisio all’ aeroporto di Venezia, era diretto in Africa, gli disse:«Se te ha bisogno de qualcossa, sen qua!». Chi avrebbe pensato che, a distanza di un anno, quel prete lavoratore e missionario avrebbe preso sul serio una frase che spesso si dice per rendere più leggero l’addio?!

Che cosa ha trascinato in Africa un gruppo di persone che si conosceva appena?

C’era paura, me lo ricordo bene, specialmente per chi da casa aveva letto o ascoltato di uno stato, il Ciad, uscito da poco da un periodo di guerra civile, ma il clima che si era creato tra di noi, costruttivo direi meglio! Molto del merito è di Pier, lui con il suo fare pacato ma cosciente, sapeva che si poteva fare tutto se si fosse appoggiato al primo mattone il secondo e poi il terzo e così via. Nulla è stato affidato al caso, persino gli stuzzicadenti erano nella lista delle cose da portare, la situazione era sotto controllo perché l’apporto serio, concreto e sereno di tanti non è mai mancato.

Quindi, nessun inghippo ha minato la spedizione?

Non proprio! Ci si incontrava spesso, per confrontarci, conoscerci bene e sentirci compagni di viaggio ha fatto la differenza, ma verificare passo-passo l’organizzazione ci rendeva anche sicuri! Nonostante tutta la nostra buona volontà il container che doveva precederci a Sarh è arrivato quando stavamo per rientrare… ecco, trovarci in mezzo all’antica Africa, rossa e calda, senza tutto quello che ci avrebbe permesso di iniziare emotivamente con il piede giusto è stato destabilizzante! Aggiungete il fatto che al nostro arrivo nessun “benvenuto tamburellante”, come quelli che ti aspetti, ci ha accolto! C’era diffidenza, sfiducia e scetticismo, ricordiamoci che Sarh era una colonia francese e di lì passano quelli come noi a rovinare spesso il tesoro naturalistico dell’Africa senza chiedere il permesso e tanto meno ringraziare.

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E poi cosa è cambiato? La prima settimana eravamo veramente scoraggiati! Ad ogni nostra richiesta la risposta era sempre la stessa “attendè” e noi lì, senza strumenti per lavorare prima e senza acqua poi. La nostra voglia di fare e l’essere imprenditori del nostro tempo ci ha spinti a cercare soluzioni in un frangente che, era chiaro, non sarebbe cambiato ad aspettare il carico smarrito. Ma la svolta è arrivata quando don Tarcisio ha deciso di assumere gente locale da affiancare al gruppo. L’ entusiasmo non si leggeva solo sui nostri volti ma anche nei loro, il gruppo ha legato in modo assoluto e bellissimo: si faceva merenda insieme, si sudava della stessa fatica e si guardava il muro alto al tramonto. Questa unione ha spianato la strada verso un costruire insieme. Quello scetticismo che ci aveva accolto si era dissolto, allora è diventato subito facile trovare alcuni di quei materiali che poi ci hanno permesso di proseguire efficientemente nella costruzione del Foyer.

Ti saresti mai immaginato in Africa?

Loro hanno saputo trasmettere un dono grande: la gratuità, ci credo, in loro l’ho riconosciuta e li ringrazio

In verità l’occasione c’era stata, ma in quella proposta non c’era nulla dentro… non c’erano un don Tarcisio ed un Pierangelo! Loro hanno saputo trasmettere un dono grande: la gratuità, ci credo, in loro l’ho riconosciuta e li ringrazio. Mi ricorda Giuliano: “Mancavano anche le pale e quelle trovate avevano il manico corto come quello delle pale militari delle Campagnole, soluzione: si sacrifica un ramo di una pianta di limone selvatico con sagomatura adatta e dopo cena, con Valentino, viene manicata la prima pala decente. Michel che caricava con noi la betoniera, provata la nuova pala, non la mollò più fino alla fine del lavoro dei getti di calcestruzzo e della malta. Interessato e volenteroso, fu preso in simpatia da Pierangelo che, pensando alla cottura precaria dei mattoni, gli diede i primi rudimenti del dare le malte con lo sprizzare con sabbia e cemento le pareti esterne del Foyer perché le piogge non danneggiassero i 18.000 brick posati in opera. Pier era veramente orgoglioso di questo”.

Ma cos’era stare in Africa?

Vivere semplicemente, sentirsi uguali agli altri, dove l’amicizia e la gratitudine si uniscono in un rispetto umano disarmante. L’Africa ti assorbe, il tempo è legato all’immensità dello stesso continente. Ogni cosa ha il suo tempo e noi l ’abbiamo imparato nell’aver visto saltare i nostri piani fatti di tempi minuziosamente calcolati. Abbiamo attraversato un bel pezzo di cielo pensando di fare qualcosa per loro, ma aver costruito con loro è stato entusiasmante tanto da sentirci gente di quel popolo. Penso di interpretare il pensiero di tutti nel dire che nessuno di noi è tornato a casa senza un pezzetto di Africa nel cuore. N.B.: Pierangelo Cardazzo ( comunità di Sacile in provincia di Pordenone )

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ESPERIENZE DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALI Gianfranco Sica

Riferisco alcune personali riflessioni a seguito di due diverse esperienze internazionali di solidarietà vissute in Burundi tra il 1994 e il 2000. La prima da giugno 1994 in un campo di rifugiati ruandesi scampati al genocidio; la seconda per un progetto di sostegno allo sviluppo -1996/2000- per riorganizzare e promuovere l’attività di una dozzina di gruppi artigiani per la produzione di tegole e piastrelle mediante forni a tunnel. Nota- è passato un decennio e più e molta strada è stata fatta -nel bene e nel malenell’ambito della solidarietà internazionale. Queste riflessioni quindi possono apparire datate e forse ovvie. Certo non lo erano a quel tempo.

Esperienza personale (educazione permanente)

L’inserimento in una situazione totalmente differente e nuova guerra civile in un Paese africano povero, con una organizzazione sociale, economica e istituzionale piuttosto semplice, fa prendere coscienza della quantità di conoscenze e di abilità e quindi anche del potere di cui si è in possesso grazie all’essere nati e l’aver vissuto in Italia; fa insomma prendere coscienza della responsabilità che abbiamo nei confronti del prossimo. L’attenzione con cui i locali ti ascoltano e cercano di capire quanto dici o spieghi, la deferenza e il rispetto con cui sei trattato non sono solo dovuti al tipo di educazione che hanno ricevuto, ma anche al fatto che ancora resiste l’idea che noi siamo superiori. C’è chi parla di vero e proprio complesso di inferiorità che inibisce e condiziona il comportamento dei locali nei nostri confronti. Questo d’altra parte spiegherebbe anche la grande difficoltà e fatica che fanno nell’appropriarsi - considerare come cosa loro- di quanto prodotto dai progetti di cooperazione e di sostegno al loro sviluppo e quindi la difficoltà e la fatica ad assumersene la responsabilità -non fidandosi delle loro capacità- per il dopo-progetto. D’altra parte l’essere inserito in una tale situazione stimola l’interesse a cercare di capire cosa c’è al di là del nostro habitat un po’ provinciale e ci fa percepire altre interpretazioni e altre filosofie possibili della vita e della civiltà. Si riscoprono e si rivalutano le competenze acquisite nell’attività professionale svolta e la preziosa formazione avuta con l’attività scout che sono molto utili per superare le varie difficoltà che si incontrano e che possono rendere sorprendente-

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DALL’ITALIA AL MONDO mente facile la comunicazione e l’amicizia oltre che il lavorare con i locali. E’ possibile quindi, specie se si è in età più che adulta, superare la non sempre gradevole ne positiva sensazione di aver esaurito i propri compiti; è possibile sentirsi ancora utili; si rivede la propria vita con una luce diversa che può farci scoprire quante fortune -doni- abbiamo ricevuto dalla vita e può aprire nuove ed insperate prospettive di personale futuro. Certo si corre il rischio di scivolare in atteggiamenti e presunzioni che comunque il rientro, che pure riserva qualche difficoltà, cura rapidamente.

Esperienza di cooperazione internazionale e di rapporto nord/sud

L’entrare in contatto e dover collaborare, proprio a causa di tali eccezionali situazioni, con molte organizzazioni internazionali e persone di buona volontà provenienti dai più diversi Paesi, costituisce motivo e occasione per acquisire una visione meno provinciale degli eventi e delle dinamiche mondiali. Le informazioni che si ricevono con questi rapporti e ciò che si ha occasione di verificare “sul terreno” rendono più crude ed oggettive le ingiustizie, lo sfruttamento, le strumentalizzazioni, il cinismo delle politiche del nord del mondo; l’ipocrisia delle dichiarazioni buoniste dei potenti, la immane e ottusa avidità della grande finanza che pilota o quanto meno condiziona le istituzioni internazionali. Queste, che possono sembrare affermazioni gratuite e superficiali e che richiederebbero di essere sostenute e documentate con circostanziate analisi e dati verificabili, sono comunque confermate dal dilatarsi della forbice delle disuguaglianze tra nord e sud, contrariamente a quanto ci si dovrebbe aspettare per le ingenti risorse gestite dall’ONU e dalle sue Agenzie e per le altre risorse erogate dall’Unione Europea e dai Paesi ricchi. Nota -Oggi, grazie alle azioni, alle campagne e alla diffusione di informazioni e di documentazione da parte delle organizzazioni di volontariato e dei movimenti no-global, si diffonde sempre più la conoscenza e la consapevolezza dì una grave crisi del nostro modello di progresso e di civiltà. Tuttavia ancora non si riesce a correggere la direzione di marcia né a pensare una diversa concezione di civiltà e di progresso, magari accogliendo anche quanto di positivo potrebbe venire dai sud del mondo.

Esperienza con lo scoutismo locale e di potenzialità del metodo scout

Per svolgere i compiti affidati all’ONG per la quale sono stato impegnato nel campo di rifugiati ruandesi ho selezionato una cinquantina di collaboratori tra gli stessi “ospiti” del campo. Tra questi vi erano alcuni giovani ed alcune ragazze scout che hanno pensato di svolgere riunioni ed attività -quelle possibili e consentite dalle autorità civili e militari che presidiavano il campo- con i giovani scout presenti tra i circa 47.000 rifugiati. Si sono perciò rivolti a me per chiedermi se potevo fornire loro la stoffa per potersi fare i fazzolettoni. Ha avuto così inizio una collaborazione che non avrei certo potuto prevedere né sperare. L’intesa è stata immediata,

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ESPERIENZE DI SOLIDARIETÀ E COOPERAZIONE malgrado le difficoltà della lingua, malgrado la tragedia da loro vissuta e il terrore che tuttora avevano nel cuore e nel cervello. Ho suggerito loro, a parte gli specifici incarichi che dovevano svolgere in quanto collaboratori dell’ONG, di impegnarsi per organizzare iniziative ed attività non soltanto per gli scout ma, come “servizio”, per tutti i ragazzini che vagavano a frotte nel perenne polverone del campo. Nelle settimane successive era così possibile vedere nei vari quartieri in cui era diviso il campo gruppi di bambini, di ragazzi o anche di giovani che giocavano oppure danzavano e cantavano o semplicemente ascoltavano quanto andava dicendo qualche altro giovane con il fazzolettone al collo. Nella vicina città vi era un gruppo scout con cui ho fatto amicizia e con il quale ho constatato la stessa facilità di comprensione reciproca e di comune sentire rispetto ai problemi, alle difficoltà, alle cose che sarebbe possibile fare per continuare a sperare. Così è nata l’impresa nazionale del MASCI “Amahoro Burundi”. E’ sulla base di queste esperienze, fatte in un momento e in una realtà particolarmente tragici, che mi sono convinto che nella prospettiva attuale e futura -della globalizzazione e delle sue inevitabili conseguenze negative- lo scoutismo avrebbe le capacità e gli strumenti - i carismi - per contribuire a rendere meno pesanti le drammatiche disuguaglianze, per contribuire ad una positiva partecipazione nella costruzione di più progredite forme di società civile, per contribuire ad alimentare speranza e volontà positive nei giovani dei sud del mondo. Per questo ho cercato di sollecitare lo scoutismo adulto a guardare oltre la storia, la celebrazione del passato e i begli incontri di fraternità internazionale per dedicare energie e risorse anche per costruire insieme imprese di solidarietà internazionali, (abbastanza convinto che oggi B.P. sarebbe dello stesso avviso). Per questo alla fine ho ritenuto necessario proporre una ONG al Masci che operi con stile e spirito scout.

Esperienze di solidarietà e cooperazione : come si progetta? Quali competenze? Come progettare nelle diverse realtà politiche, economiche, culturali? Le attenzioni e le consapevolezze ... all’interno di Eccomi

Eccomi è nata nel 2006 proseguendo attività di cooperazione da anni avviate nel Masci. Da allora numerosi progetti sono stati realizzati e di seguito sono sintetizzati alcuni aspetti progettuali che sono il risultato delle esperienze fatte.

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Eccomi è nata nel 2006 proseguendo attività di cooperazione da anni avviate nel Masci. Da allora numerosi progetti sono stati realizzati e di seguito sono sintetizzati alcuni aspetti progettuali che sono il risultato delle esperienze fatte.

Come si progetta

Fondamentale per il successo di un progetto di cooperazione internazionale è aver centrato l’argomento, il tema, l’oggetto, l’idea progettuale; per la nostra esperienza questa è una delle fasi più difficili e delicate. Alla scelta di un progetto si può arrivare seguendo due percorsi : 1) partire dalle esigenze espresse o presenti nel territori Documenti istituzionali (situazioni problematiche, programmi politici, linee

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DALL’ITALIA AL MONDO programmatiche, valori) Problemi specifici o esigenze espressi da realtà locali (beneficiari) o da • rilevazione diretta da parte di propri corrispondenti del posto o stranieri, anche a seguito di apposite campagne informative . In questi casi bisogna anche fare attenzione alla possibilità che si tratti di una sorta di ” captatio benevolentia” cioè una esigenza espressa dai beneficiari o proponenti in quanto ritenuta gradita all’Organizzazione interessata al Progetto. 2) oppure partire da nostre intuizioni personali che propongono una soluzione che può, però, non corrispondere ad un bisogno primario ma piuttosto ad una nostra proiezione di un bisogno per noi primario. Le differenze culturali, sociali, l’estrema povertà, la nostra conoscenza delle loro abitudini spesso superficiale rendono questa possibilità molto concreta. Anche in questo caso è difficile trovare la verità in quanto ad una proposta di un nuovo progetto la risposta è sempre positiva. Questo secondo approccio, che potremmo definire “soluzioni in cerca di problemi” è secondo la mia esperienza sconsigliabile. Pertanto partendo dai problemi e dalle esigenze espresse o latenti nel territorio, possiamo prevedere un progetto che: 1) non richieda sussidi nazionali o internazionali; di solito piccoli progetti gestibili in autonomia; 2) richieda la partecipazione a bandi per il finanziamento totale o parziale; di solito progetti complessi che coinvolgono una pluralità di soggetti. Nel primo caso (piccoli progetti autogestibili), una volta definito il progetto e l’obiettivo principale, si può procedere alla progettazione di dettaglio seguendo, ad esempio, le fasi di seguito descritte: 1.Definire ed analizzare gli obiettivi del progetto (scomposizione in sotto-obiettivi) a. Obiettivo principale (ottenibile ad esempio girando in positivo il problema che si vuol risolvere ad es. : denutrizione a causa di carestie cicliche ==> nutrire durante le carestie). b. Sotto - obiettivi specifici (strategie complementari o supplementari per realizzare l’obiettivo superiore). 2. Definire e analizzare i prodotti che il progetto deve realizzare (scomposizione in componenti elementari) a. Risultato finale del progetto (tangibile o intangibile). b. I prodotti componenti (distinta base). 3. Definire l’ambito dell’intervento a. Cosa realmente si vuole realizzare. b. Quali sono i vincoli presenti nel contesto. c. Cosa rimane deliberatamente fuori (fattori esterni che possono costituire rischio).

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4. Individuare tutti i soggetti interessati nell’ambito d’intervento del progetto a. Beneficiari (diretti e indiretti). b. Partner . c. Fornitori. d. Sostenitori (pubblici e privati). e. Valutatori/osservatori critici (giudici). f. Oppositori (concorrenti, avversari). 5. Definire ed analizzare le attività necessarie a. Per ottenere i prodotti costituenti del progetto. b. Per superare i vincoli presenti nel territorio (ad esempio mancanza di energia, carenza nelle vie di comunicazione, assenza di infrastrutture per le telecomunicazioni). c. Per gestire i rischi ambientali. d. Per gestire tutti i soggetti interessati al e dal progetto. 6. Definire la qualità e la quantità di risorse (in particolare le competenze) necessarie ad ogni attività per ottenere i risultati di progetto (i prodotti) a. Interne e disponibili nell’Associazione. b. Esterne e da reperire o reclutare (anche nel luogo di intervento). 7. Predisporre il programma temporale e i fattori critici di successo a. Fasi/macroattività/attività/punti di controllo. b. Risultati e prodotti. c. Indicatori chiave. 8. Valutare gli aspetti economici e finanziari e di rischio a. Budget di progetto. b. Flusso finanziario. c. Rischi e relative misure (piano di gestione dei rischi). 9. Presentare il progetto a. Ad una delegazione di beneficiali (sensibilizzazione). b. Ai sostenitori locali e non locali (non necessariamente per ottenere supporti economici). 10. Decidere l’avvio del progetto Nel secondo caso, quando si ravvisi che l’argomento trova corrispondenza in un programma/bando di un ente finanziario pubblico o privato locale, regionale, nazionale o sovranazionale, bisognerà trasformare il progetto in una proposta da presentare per il (co)finanziamento a fondo perduto (meglio in conto spese) o agevolato. In pratica, in aggiunta a quanto prima elencato, occorrerà svolgere ulteriori attività progettuali. 1. L’attività preliminare è quella di individuare l’esistenza dell’opportunità. A tal fine se non si dispone di una competenza specifica che agisca come osservato-

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DALL’ITALIA AL MONDO rio permanente sui programmi di finanziamenti, si può accedere in via telematica a siti pubblici o privati che svolgono tale funzione di solito in forma gratuita. Se la ricerca dà esito positivo ed in particolare il bando ha una scadenza 2. compatibile, si deve procedere alla lettura del bando (ma anche del relativo documento programmatico a cui si riferisce) e della documentazione connessa (formulari, linee guida, ecc) per confermare che il reale obiettivo del programma/bando (ad esempio in ambito UE DCI- Cooperazione allo sviluppo o FES – Fondo Europeo di sviluppo) sia in linea con quello del nostro progetto/proposta e che si posseggano i cosiddetti criteri di eleggibilità. 3. Se necessario o opportuno si costituisce il partenariato (spesso internazionale), ovvero si individuano i partner di progetto pubblico o privato e si stabilisce chi fa cosa con quali ruoli (beneficiario, partner, fornitore) e contributi specifici di progetto. 4. Si redige la proposta come in precedenza indicato ma con in più il rispetto degli specifici requisiti ed indicazioni riportate nei formulari. 5. Si costruisce il budget di progetto ma con una particolare attenzione a quali e quanti sono i costi eleggibili per il (co)finanziamento e valutando il contributo finanziario ottenibile e l’onere economico e finanziario residuo in capo ai diversi partner. 6. Di continuo si consultano nel periodo di apertura del bando tutte le FAQ che integrano le informazioni del bando e forniscono preziose interpretazioni autentiche, per evitare errori ed omissioni. 7. Si acquisiscono i documenti amministrativi necessari. 8. Si presenta la proposta rispettando i vincoli formali e le modalità indicate nel bando. 9. Si avvia il progetto in attesa del finanziamento (se è consentito dal bando e se è sostenibile dal partenariato). 10. Si attende l’esito del finanziamento (con eventuale, molto frequente rinegoziazione).

Quali competenze Un altro punto importante è conoscere le competenze che sono in genere necessarie per i progetti di cooperazione, competenze che vanno ricercate o formate prevalentemente in sede locale. Alcune competenze sono necessarie per tutti i progetti: • Gestione di progetti. • Amministrazione e contabilità. • Comunicazione. Altre sono connesse con l’oggetto specifico del progetto, come a titolo esemplificativo: formazione o formazione ai formatori. •

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ESPERIENZE DI SOLIDARIETÀ E COOPERAZIONE • • • •

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esperti in agricoltura. esperti in opere edili. esperti in ICT. esperti in sanità.

Se si tratta di un progetto proposto anche al finanziamento pubblico tramite bandi occorre disporre di competenze specifiche per: • gestione di progetti finanziati e complessi per partenariato rendicontazione obbligatoria con • • interfacciamento con l’Ente ( co ) finanziatore

Come progettare nelle diverse realtà politiche, economiche e culturali. Le attenzioni e le consapevolezze di Eccomi Un progetto per un territorio deve necessariamente rispettare le condizioni politiche economiche e culturali specifiche. Ad esempio la prima attenzione, per la fase di attuazione di un progetto, deve essere rivolta a superare la barriera linguistica . Per quanto riguarda l’aspetto politico, in alcuni paesi l’instabilità delle istituzioni può creare, in certi periodi, situazioni critiche per la sicurezza degli stranieri e di questo va tenuto conto nel valutare la fattibilità di un progetto. I progetti di Eccomi sono di modesta entità, non richiedono in genere particolari autorizzazioni e quindi la nostra esperienza nei rapporti con i politici è modesta. La scelta di realizzare progetti di dimensioni medio piccole è dovuta alla decisione di operare sempre con partner locali sia nella definizione del progetto sia nella sua esecuzione e non certo per evitare problemi con i politici . In alcuni casi i partner sono piccole Associazioni e possono gestire solo piccoli progetti. Nella gestione di un progetto la rendicontazione è divenuta una fase molto importante. In Italia,infatti, è richiesta una trasparenza totale sull’impiego delle donazioni raccolte e di eventuali finanziamenti ricevuti. Questo comporta la necessità di ottenere anche dai partner un rendiconto dettagliato delle attività da loro svolte. Le condizioni commerciali, gli aspetti culturali e le situazioni organizzative rendono complicato ottenere quanto a noi necessario. Ora da parte nostra dobbiamo avere comprensione ed attenzione ai bisogni, alla cultura alle abitudini ma anche alla necessità di formazione dei nostri partner. Da loro però si deve ottenere trasparenza e rispetto di principi etici imprescindibili. Questo comporta una scelta accurata delle persone e la crescita nel tempo di un rapporto fiduciario reciproco che si ottiene solo con incontri regolari durante i quali si può valutare insieme l’andamento dei progetti, ottimizzare le risorse disponibili,

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DALL’ITALIA AL MONDO superare difficoltà emerse, migliorare la rispettiva conoscenza. Un altro aspetto rilevante nei paesi in cui opera Eccomi è la grande differenza esistente tra le grandi città e le zone rurali. In queste ultime la povertà della quasi totalità delle persone è assoluta e non consente ad alcuno di disporre di denaro. Addirittura spesso non esiste alcuna capacità personale e culturale per far fronte ai cicli stagionali dei beni di sostentamento cosicché anche il ciclo dell’alimentazione è legato al ciclo produttivo della campagna e determina a sua volta il ciclo della carestia. Tutto questo rende ovviamente critico l’avvio di attività commerciali, anche piccole,e rende difficile il loro auto sostentamento. Questa povertà generalizzata spiega anche la necessità da parte di chi è coinvolto nei progetti come volontario di ricevere un piccolo vantaggio economico. Bisogna organizzare le cose in modo che questo sia previsto. Eccomi è particolarmente attento alla istruzione e formazione di giovani. Anche in questo campo un aspetto culturale che ci ha colpito è l’assenza di interesse alla scolarizzazione da parte delle famiglie e dei ragazzi di molte comunità. Per superare queste difficoltà è necessario un’opera di convincimento accompagnata da sistemi incentivanti per la famiglia e motivanti per l’alunno. E’ importante proseguire nell’accompagnamento per un periodo lungo perché il solo aiuto economico nella fase iniziale non evita abbandoni difficili poi da recuperare. Sempre riferendosi all’esperienza di Eccomi , un altro elemento culturale da tener presente nella progettazione e nella realizzazione delle attività è la discriminazione del genere femminile che porta a definire attraverso soggetti maschi le interfacce esterne o rappresentative. Nonostante questo e a dispetto della diffusa convinzione che per i cambiamenti culturali occorre molto tempo ed interventi impegnativi, la nostra esperienza ,senza voler essere presuntuosi, testimonia che almeno in alcune comunità batwa in cui siamo intervenuti è stato possibile verificare una sostanziale modifica del ruolo delle donne e soprattutto delle relazioni tra i generi. Le donne coinvolte in un Progetto, della durata di un anno e mezzo, hanno formato cooperative per lavorare insieme nei semenzai e nei campi comuni, hanno costruito un piccolo negozio per vendere i loro prodotti, hanno sollecitato i figli ad andare a scuola , hanno chiesto di partecipare a corsi di alfabetizzazione per poter leggere e scrivere come i loro figli , hanno coinvolto i loro uomini nella costruzioni di case, sono riuscite in molte a farsi sposare, hanno cominciato a partecipare alle riunioni delle colline a cui prima non erano ammesse, hanno aperto come cooperativa un conto in banca e, adesso che il Progetto è finito, stanno proseguendo con le loro cooperative. Mi piace chiudere questa breve nota con questo esempio che dimostra come, nonostante tutte le difficoltà che si possono incontrare, è comunque possibile ottenere buoni risultati anche con piccoli progetti, purché pensati e realizzati insieme ai partner e beneficiari locali.

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EDUCAZIONE ALLA PACE

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EDUCAZIONE ALLA PACE dal discorso di Paolo VI (VII assemblea nazionale Masci 25 novembre 1966) Mauro Mellano

Lo scritto che segue del Card. Carlo Maria Martini mi pare sia una buona riflessione per il nostro tema. Mi è piaciuto fare un passo in mezzo : non stiamo a guardare, ci coinvolgiamo, stiamo là. Penso anche sia necessario misurare i passi; non dobbiamo mai dimenticare la nostra situazione di partenza; quanto siamo oggi,noi tutti e ciascuno nel nostro quotidiano, pronti alla mondialità, all’ intercultura, alla presenza significativa e importante di altre culture? Quanto siamo pronti a mettere in discussione i nostri stili di vita? Il mondo può essere una unica “nazione” se i principi sono la sconfitta della fame, del sottosviluppo, delle epidemie, dell’analfabetismo, dell’insensata distruzione di risorse. Il riconoscimento dei reciproci interessi di Nord e Sud è il primo passo per intraprendere iniziative concrete.

“ Dove va il mondo? …di che cosa ha bisogno? del buon esempio, con il servizio … Amate i vostri figli, i ragazzi; li troverete nelle scuole, nelle vie, nelle parrocchie …”

«Intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. Intercessione vuol dire allora mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto. Non si tratta quindi solo di articolare un bisogno davanti a Dio (Signore, dacci la pace!), stando al riparo. Si tratta di mettersi in mezzo. Non è neppure semplicemente assumere la funzione di arbitro o di mediatore, cercando di convincere uno dei due che lui ha torto e che deve cedere, oppure invitando tutti e due a farsi qualche concessione reciproca, a giungere a un compromesso. Cosi facendo, saremmo ancora nel campo della politica e delle sue poche risorse. Chi si comporta in questo modo rimane estraneo al conflitto, se ne può andare in qualunque momento, magari lamentando di non essere stato ascoltato. Intercedere è un atteggiamento molto più serio, grave e coinvolgente, è qualcosa di molto più pericoloso. Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando dimettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione.» ( Carlo Maria Martini, Un grido di intercessione, Milano 1991)

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Bruno Ficili

LA PACE NELLA FAMIGLIA, NELLA SOCIETA’, FRA LE NAZIONI E’ UN BENE IRRINUNCIABILE. Bruno Ficili

Con l’apporto generoso di tutti gli uomini di buona volontà si dovrebbe realizzare quel progetto di pace universale, così ricco di contenuti e così fecondo di prospettive, per garantire il necessario per vivere e ogni ausilio richiesto per lo sviluppo proporzionato di tutti gli uomini del nostro tempo e per quelli che verranno.

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Per quanto concerne il tema della pace, l’art. 11 della nostra Costituzione sancisce che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e consente un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Pace che va intesa come un insieme dinamico di rapporti di coesistenza e di cooperazione tra le Nazioni e all’interno di esse, caratterizzato non solo dall’assenza di guerra, ma anche dal rispetto dei valori umani enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nonché dall’impegno di assicurare il maggior benessere possibile per tutti. Con l’apporto generoso di tutti gli uomini di buona volontà si dovrebbe realizzare quel progetto di pace universale, così ricco di contenuti e così fecondo di prospettive, per garantire il necessario per vivere e ogni ausilio richiesto per lo sviluppo proporzionato di tutti gli uomini del nostro tempo e per quelli che verranno. A condizione che sia, soprattutto, sostenuto e perseguito quel nostro personale e coerente impegno di continuare ad amare, per continuare a vivere e a bene operare al servizio della vita, per la costruzione faticosa della civiltà della pace. In questa prospettiva, nei programmi di studio riguardanti le scuole di ogni ordine e grado di tutte le Nazioni si dovrebbero trovare, nelle singole discipline, chiare indicazioni pedagogiche e didattiche su cui possa essere costruito un progetto di educazione alla pacifica convivenza, alla tolleranza, alla non violenza. Oggi, per sopravvivere, dovremmo avere una cultura tale da sentirci, prima di tutto, cittadini del mondo; in secondo luogo cittadini, nel nostro caso, d’Europa; in terzo luogo cittadini del nostro Paese e in quarto luogo della nostra città o comunità locale. Una scuola che non elabori e che non proponga, oggi, un itinerario di edu-

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LA PACE NELLA FAMIGLIA, NELLA SOCIETA’, ... cazione al dialogo, alla pace, diventa, di fatto, complice della cultura della menzogna e della guerra, una educazione bugiarda che fa violenza alle coscienze e che si pone fuori di un orizzonte di verità. Diventa ogni giorno più evidente che la grande sfida che il nuovo contesto mondiale lancia all’educazione è appunto la pace. Se fino a ieri la realtà emergente che sfidava l’educazione era individuabile, senza dubbio, nella rivoluzione tecnologica in atto nella nostra società, già ampiamente industrializzata. Oggi, a questa sfida se ne aggiunge un’altra, costituita dalla nuova situazione planetaria di conflitto e dall’eventualità reale di una catastrofe nucleare. Ciò significa che una educazione, che eviti di misurarsi con questa nuova e complessa realtà, rischia di diventare diseducazione e dunque non educazione alla vita, ma educazione alla morte. Se è vero, come affermano i pessimisti sulla bontà della natura umana, che l’uomo rimane quello che è ed è sempre stato, malvagio, crudele, violento;” uomo del mio tempo” scriveva il poeta Quasimodo,” sei ancora quello della pietra e della fionda. Eri nella carlinga, con le ali maligne: t’ho visto, hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri”. E anche vero però, che l’universo umano ha i suoi astri luminosi: santi, mistici, benefattori, ma anche sapienti, artisti, scienziati e soprattutto uomini di pace, il cui insegnamento è un monito alla coscienza dei giovani, e alla gioventù appartiene l’energia rinnovatrice della vita, perché i giovani sono l’avvenire, il futuro. La scuola deve sapere additare senza equivoci che cosa debbano cambiare innovare, per favorire il passaggio dalla gioventù guerriera di ieri alla gioventù pacifica di domani. Un mondo di pregiudizi di disuguaglianze e di violenze deve essere modificato dai giovani affinché l’amore, la disponibilità, la tolleranza trovino ingresso nel cuore degli uomini. Il tema della pace assume notevole rilevanza, soprattutto in questi tempi, in cui tutti ci sentiamo minacciati. Educare alla convivenza pacifica diventa allora un imperativo categorico, il valore fondamentale della persona. Gli scienziati parlano di disarmo, ma non ci potrà essere, a mio avviso, vero disarmo senza una efficace educazione alla pace. Papa Giovanni Paolo II ammoniva l’uomo, affinché sappia dove stanno le radici della catastrofe nucleare, quando affermava:” Né ieri le spade uccidevano, né oggi i missili uccidono, ma è il cuore dell’uomo che uccide”. Bisogna evidenziare l’unico,vero contenuto dell’educazione alla pace, che deve consistere nella promozione di una coscienza critica, aperta, antidog-

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La scuola deve sapere additare senza equivoci che cosa debbano cambiare innovare, per favorire il passaggio dalla gioventù guerriera di ieri alla gioventù pacifica di domani.

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Bruno Ficili matica, in una educazione che miri a estirpare dalla mente dell’uomo ogni presunzione ideologica, ogni radice di sopraffazione, di divisione, di intolleranza, tutti atteggiamenti che la ragion pura rifiuta e condanna. Discutere, incontrarsi, confrontarsi, ascoltare il punto di vista degli altri, cercare di afferrare le motivazioni della diversità e della opposizione: questo dovrebbe essere il principio sovrano della civile e umana convivenza, capace di scongiurare i conflitti e le guerre. Un principio che dovrebbe regnare tra i popoli e tra le famiglie. Educazione alla criticità, alla tolleranza, educazione antidogmatica: queste le premesse perché si possa parlare realmente e non utopisticamente di educazione alla pace. E certamente, in questa direzione, il messaggio cristiano dell’amore non cessa di avere un suo ruolo e un suo significato. In questo periodo, che per necessità di cose e di eventi ha visto il trionfo della violenza, si avverte sempre più il bisogno di incontrarsi con un mondo di valori che vanno cercati, costruiti, costantemente rafforzati. E’ necessario allora operare per una scuola diversa che allunghi il suo tempo, che abbatta idealmente le sue mura e si apre alla società e alle aspettative del territorio in cui sorge. Una scuola aperta non soltanto alla dimensione del territorio, ma aperta anche ai problemi e alle attese dell’umanità, se è vero che l’uomo si avvia ad essere cittadino del mondo. La scuola di oggi deve imprimere nella mente, nell’anima dei suoi scolari che le differenze di classe, le differenze di colore della pelle non determinano disparità di valore e dignità umana, perché ogni uomo ci è compagno nella avventura terrena, ogni uomo ci è vicino, ogni uomo, ovunque io lo incontri, è mio prossimo. E se questa prossimità è fatta sentire e vivere nella famiglia, nella scuola, nella società, possiamo sperare di compiere notevoli progressi verso quel meraviglioso sogno, verso quella meravigliosa utopia alla quale dobbiamo credere, che si chiama solidarietà, pace, rispetto della dignità della persona umana, fraternità mondiale.

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SE VUOI LA PACE, PREPARA LA PACE

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SE VUOI LA PACE, PREPARA LA PACE Cristina De Luca

COSTRUIRE INSIEME DELLE ALTERNATIVE NELLA LEGALITA’ Educazione alla mondialità Alla fine degli anni 80 ho cominciato a lavorare nel mondo della cooperazione internazionale, dove sono rimasta per moltissimi anni con ruoli diversi, viaggiando molto nei cosiddetti paesi in via di sviluppo e occupandomi in particolar modo di educazione allo sviluppo, ovvero di quel settore d’informazione e sensibilizzazione sui temi della mondialità. Erano tempi diversi nei quali, pur con una presenza già significativa di ONG e associazioni che si occupavano di solidarietà internazionale, erano temi nuovi ancora circoscritti agli addetti del settore o agli appassionati di problemi internazionali. Oggi tutti sanno che cos’è la mondialità, quali sono i problemi che derivano da una profonda diseguaglianza e da uno sviluppo del mondo in cui viviamo che continua a non essere equo. Termini come globalizzazione, sviluppo sostenibile, pace fanno ormai parte del vocabolario comune. È aumentata la conoscenza e la consapevolezza nella gente su questi temi. Le ONG e le associazioni contribuiscono attraverso la loro azione concreta non solo a dare risposte reali alle complesse questioni del rapporto Nord Sud del mondo ma a fare informazione dando conto di ciò che si fa nei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. Le campagne di comunicazione, da quelle per l’adozione a distanza a quella per raccogliere fondi per iniziative nei paesi del Sud, hanno certamente contributo a costruire conoscenza e hanno concorso a rendere comprensibili temi che erano appannaggio di pochi o che erano ritenuti residuali. Ed è significativo notare come negli ultimi anni siano nati Corsi di Laurea, Master, Corsi di Specializzazione che in modo diverso si occupano di Cooperazione allo Sviluppo e che offrono una formazione specifica per chi vuole lavorare in questo ambito. Nonostante questi aspetti siano sicuramente positivi perché permettono di avere una maggiore coscienza dell’importanza di questi argomenti rendendo evidente che non riguardano soltanto i paesi Terzi ma ciascuno di noi, molta strada resta ancora da fare. E’ la ineludibile necessità di un salto culturale, di un cambiamento radicale

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“ La pace è un mio problema personale. Come dice la Costituzione dell’Unesco, inizia nel mio animo. Quando sento la gelosia, la collera, l’arroganza nel mio cuore è come avere una piccola guerra interna, una guerra tra la distruttività e la creatività, tra l’odio e l’amore. Invece, superando questi sentimenti, posso creare la pace sia nel mio animo che nel mio ambiente. Quando desidero la pace nel mondo, ma mi sento impotente va bene ricordarmi che rialzandomi e combattendo per creare la pace dentro di me e nel mio ambiente, sto già mettendo le basi per un mondo pacifico “.

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La ineludibile necessità di un salto culturale, di un cambiamento radicale di atteggiamenti, di cogliere il significato politico e sociale più profondo di alcuni termini oggi particolarmente in uso .

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di atteggiamenti, di cogliere il significato politico e sociale più profondo di alcuni termini oggi particolarmente in uso . Mondialità, globalizzazione, sviluppo, solidarietà, pace sono termini estremamente collegati tra loro, diventati di uso corrente. Tutti conoscono il loro significato, pochi hanno chiaro il senso profondo e le conseguenze che questi fenomeni portano nelle nostre vite. Rileggerli ,anche rapidamente, cercando di comprendere il cammino fatto in questi anni, è un modo per avere più chiaro quali sono oggi i problemi e le priorità da affrontare. La mondialità definisce il modo nuovo in cui i rapporti internazionali si sono venuti a delineare dagli anni ‘70 in poi, periodo in cui uscirono una serie di studi che segnalavano in maniera allarmistica ma reale, nuovi problemi che sino ad allora erano rimasti fuori dall’orizzonte politico ed economico e sociale. La mondialità, non è solo una maggiore vicinanza o scambio tra i popoli. Mondialità è la consapevolezza di essere popoli diversi, inseriti in unico sistema. Perciò parlare di mondialità significa capire che le opportunità e i problemi che ne derivano riguardano tutti e chiedono un’assunzione di responsabilità collettiva. Mondialità non si identifica con i progetti di sviluppo, con gli interventi di emergenza, con l’attenzione alle situazioni di maggiore disagio e povertà, è una visione del mondo, è un’idea di società globale. Al concetto di mondialità si è affiancato, negli ultimi anni, quello di globalizzazione. “La globalizzazione è la questione chiave della nostra epoca - (G. E. Stiglitz, 2002) - è un dato dal quale non si può prescindere; determina radicali cambiamenti nei modi di produrre, lavorare, comunicare, vivere: questi richiami sono condivisi dagli osservatori più diversi, sia che vedano soprattutto le potenzialità sia che vedano soprattutto i pericoli di questa grande trasformazione”. Il problema è che gli effetti di questa trasformazione così pervasiva sono avvertiti confusamente sia dai cittadini sia dal mondo politico provocando visioni a volte distorte delle conseguenze di un processo ineludibile che ci ha resi tutti più piccoli e interdipendenti. Oggi quando parliamo di globalizzazione ci lasciamo trascinare quasi istintivamente a leggerne e a declinarne solo quelli negativi, con un sentimento che spesso è di paura o diffidenza. E’ evidente che la globalizzazione ha portato implicazioni non solo economiche, ha rimesso in discussione sistemi di relazione, ha aumentato l’incertezza rimescolando persone, popoli e situazioni. Occorre però evitare il rischio sempre più presente di interpretare la mondialità come qualcosa di giusto e di corretto e la globalizzazione come un qualcosa che ha prodotto e produce solo problemi. Il problema, ancora una volta, non è tanto la globalizzazione, quanto l’uso che si fa a livello globale di alcune risorse, a cominciare dall’economia, di cui in questi tempi vediamo tutti gli effetti negativi, a quelle - solo per citarne alcune - sui temi ambientali e sul mondo del lavoro nella sua dinamica internazionale. Bisogna inoltre considerare anche un’altra questione che si è affacciata sul nostro orizzonte come una delle conseguenze di questi fenomeni: il multiculturalismo, ovvero l’incontro/scontro tra storie e culture diverse. Ogni giorno assistiamo ai cambiamenti e alle difficoltà che i fenomeni migratori ci portano e alla necessità per

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SE VUOI LA PACE, PREPARA LA PACE tutti di confrontarsi con storie, usi e costumi diversi. Una situazione vissuta spesso con disagio perché l’incontro non è facile, perché si ha la sensazione di perdere la propria identità, perché i diversi problemi legati alla convivenza non sono di semplice soluzione. Capire oggi che la solidarietà non è soltanto un’attenzione all’altro, un farsi carico dei problemi di chi vive situazioni di disagio, ma l’altro nome dello sviluppo è il vero cambio di mentalità che siamo chiamati a fare. Non può esserci sviluppo senza solidarietà, e la solidarietà è comprensione, competenza, formazione, innovazione. Da questi brevi cenni si comprende come ognuno di questi temi porti con sé un bagaglio di problematiche diverse ma riconducibili ad unica grande questione irrisolta: quella del divario tra povertà e ricchezza che purtroppo continua ad aumentare. La misura dei problemi in gioco, può essere letta attraverso le dichiarazioni e gli impegni formali degli stati e le risorse destinate all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS). Il trattato di Lisbona attribuisce agli stati membri responsabilità precise e conferisce alla Cooperazione allo Sviluppo importanza e dignità pari ad altre tematiche “La politica di Cooperazione allo Sviluppo dell’Unione europea avrà come obiettivo primario la riduzione, e nel lungo tempo, l’eradicazione della povertà. L’Unione dovrà tener conto degli obiettivi della Cooperazione allo Sviluppo nelle politiche che realizzerà e che avranno incidenza sui paesi in via di sviluppo” (art. 208 del trattato di Lisbona). Nonostante tutto ciò, soltanto nove paesi degli stati membri hanno realizzato gli obiettivi di aiuto che l’Europa si era data per il 2010 e l’Italia è nel fanalino di coda (nel 2011 ha subito un ulteriore contrazione del 45%). Gli stati membri UE sembrano sempre più critici e riluttanti a sostenere il bilancio dei paesi in via di sviluppo. Eppure, come sostengono i network internazionali che si occupano di cooperazione e di sviluppo, l’ APS è l’unica risorsa in favore dello sviluppo che ha come obiettivo il sostegno delle fasce di popolazioni più marginali il cui 40% viene investito in infrastrutture e servizi come l’educazione primaria, l’assistenza sanitaria, l’accesso all’acqua. Raggiungere un volume di APS pari almeno allo 0,7 % del Pil, per il 2015 appare quasi irrealizzabile. Seppur in questo quadro a tinte fosche emergono dei dati importanti: alcune indagini europee evidenziano come i cittadini europei siano a favore dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Il 64% degli europei pensa che l’aiuto pubblico dovrebbe essere aumentato nonostante la crisi economica e l’89% ritiene importante che l’Europa finanzi attività di aiuto umanitario oltre frontiera. Ciò significa anche un’acquisizione di consapevolezza sulla necessità di scelte e di impegni che vanno oltre i nostri confini e che coinvolgono altri popoli, altri paesi. Una consapevolezza che forse rimane però negli strati superficiali delle persone, nelle scelte individuali e collettive. Un altro esempio è la dichiarazione degli obiettivi del millennio nel 2000 che è stata una pietra miliare nella cooperazione internazionale. 191 capi che hanno firmato l’impegno di raggiungere otto obiettivi entro il 2015: sradicare la povertà, combattere la fame, ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute materna, dare priorità alla sostenibilità ambientale, creare un ampio partenariato mondiale per dare soste-

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Capire oggi che la solidarietà non è soltanto un’attenzione all’altro, un farsi carico dei problemi di chi vive situazioni di disagio, ma l’altro nome dello sviluppo è il vero cambio di mentalità che siamo chiamati a fare

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C’è la necessità di rilanciare una nuova politica di solidarietà e di relazioni comunitarie internazionali che metta al centro gli individui e i loro diritti fondamentali.

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gno allo sviluppo. Obiettivi che rappresentavano e rappresentano bisogni umani e diritti fondamentali di cui ogni persona dovrebbe poter godere. A dieci anni di distanza purtroppo si intravvede con chiarezza l’impossibilità di raggiungere nei tempi previsti l’insieme degli obiettivi del Millennio, a causa della crescita economica indiscriminata, della crisi conseguente di una politica che non ha saputo fino in fondo dar seguito, con scelte concrete, agli impegni presi. Eppure come sottolineava Ban Ki-moon nel progress report del 2011 “centrare gli obiettivi è impegno di tutti…. il raggiungimento degli obiettivi ci metterebbe su una corsia preferenziale per un mondo più stabile più giusto e più sicuro”. In questa storia, in questo percorso, il ruolo delle ONG è stato fondamentale. Se volessimo definirlo in modo semplice e sintetico potremmo dire: interlocutori essenziali, attori primari, antenne sensibili che, dalla risposta ad un problema particolare all’ individuazione di strategie e di linee di azione, giocano un ruolo essenziale nei rapporti e nelle questioni che riguardano lo sviluppo. Attori privilegiati perché sono uno snodo importante di relazioni e di competenze anche loro davanti a uno scenario in continuo cambiamento. Così da chiedere a questi soggetti, che sono stati un vero elemento di innovazione nel panorama internazionale, di ripensare un loro ruolo ed una loro presenza. Soprattutto cercando di superare alcuni limiti che sono apparsi negli anni derivanti dalla difficoltà di reperire risorse, ritrovando una sintesi fra ruolo originario e rapporto con i Governi e con gli Stati, una valutazione attenta dell’impatto degli interventi di cooperazione sulle dinamiche conflittuali presenti nei Paesi dove si opera, evitando finanziamenti governativi che si pongono in contraddizione con le finalità della cooperazione all’interno dello stesso paese e prestando attenzione alla trasparenza ed eticità dei finanziamenti, soprattutto nel caso di paesi in cui avvengono evidenti violazioni dei diritti umani. A che punto siamo allora e cosa possiamo fare? Non basta più oggi lanciare appelli, richiamare all’importanza della posta in gioco, occorre un nuovo forte investimento culturale e politico su questi temi. Un investimento difficile in un momento in cui la crisi economica condiziona scelte e comportamenti e una sorta di individualismo da sopravvivenza rischia di avere supremazia. Siamo consapevoli che non possiamo continuare a vivere secondo l’attuale modello di consumo e di sviluppo poiché è ormai dimostrato che l’esaurimento progressivo delle risorse usate va ad una velocità tale che non riescono a rigenerarsi. C’è la necessità di rilanciare una nuova politica di solidarietà e di relazioni comunitarie internazionali che metta al centro gli individui e i loro diritti fondamentali. E in questo rilancio la società civile può fare ancora molto non confinando tutto ciò nell’alveo degli addetti ai lavori, in primo luogo attraverso un costante e continuo impegno di informazione. Temi come questi, non vanno facilmente sulle pagine dei giornali ma necessitano di divenire patrimonio comune. È ancora fortemente attuale il tema dell’educazione alla mondialità, allo sviluppo, alla cooperazione. Più precisamente di un’educazione che faccia comprendere e assumere l’interdipendenza dei problemi, la connessione tra guerra e povertà, tra uso corretto delle risorse e sostenibilità ambientale, tra sicurezza e sviluppo, tra democrazia e giustizia sociale. Significa riconoscere e far capire come le attività di cooperazione e il ruolo di tanti attori diversi sono stati e sono un importante contributo per la valorizzazione dei

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SE VUOI LA PACE, PREPARA LA PACE contesti territoriali, con il loro patrimonio di relazioni, risorse e competenze e per lo sviluppo delle società civili locali. Significa guardare con attenzione e far conoscere le tante diverse esperienze nate negli anni, i tanti esempi virtuosi che hanno prodotto e stanno producendo risultati dal microcredito, al commercio equo solidale, alla cosiddetta finanza etica che, anche se agiscono su piccola scala, sono dei semi di speranza e sono comunque portatori di novità e che, in un mondo fatto spesso di steccati, possono divenire un patrimonio importante. Significa anche ripensare l’idea di cooperazione internazionale dandole più dignità, indirizzandola con visioni politiche globali e di ampio respiro, confermando la supremazia della solidarietà internazionale e la costruzione di pace come strumenti per arrivare al miglioramento della vita delle persone. Per molti anni si è preteso di condurre i paesi del Sud del mondo sulla via dello “sviluppo” mediante il puro criterio economico, nella convinzione che una maggiore industrializzazione fosse di per sé condizione di benessere. Oggi è evidente come il concetto di sviluppo non possa prescindere da altri parametri: valorizzazione delle situazioni locali, istruzione, formazione alla governance, rafforzamento istituzionale, per assicurare la democrazia, la corretta informazione e la partecipazione attiva a tutti i livelli, anche decisionali, di tutte le componenti della società civile, privilegiando un ruolo pieno per le donne e i giovani. Promuovere e sostenere una forte azione culturale di educazione alla pace, sostenere un’idea di sviluppo diversa, contribuire a costruire percorsi di apprendimento di conoscenza, rimane la strada possibile per un cambiamento che non può continuare con la lentezza e le fatiche che hanno caratterizzato questi ultimi anni. Tutto ciò richiede lungimiranza, coraggio e soprattutto coerenza politica. Una sfida che trova perfetta sintesi nelle parole di Papa Benedetto XVI: “Gli aspetti della crisi e delle sue soluzioni, nonché di un futuro nuovo possibile sviluppo, sono sempre più interconnessi, si implicano a vicenda, richiedono nuovi sforzi di comprensione unitaria e una nuova sintesi umanistica. La complessità e gravità dell’attuale situazione economica giustamente ci preoccupa, ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente.” (Caritas in veritate).

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Promuovere e sostenere una forte azione culturale di educazione alla pace, sostenere un’idea di sviluppo diversa, contribuire a costruire percorsi di apprendimento di conoscenza, rimane la strada possibile per un cambiamento che non può continuare con la lentezza e le fatiche che hanno caratterizzato questi ultimi anni.

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LA MIA PICCOLA STORIA Lamiaa Zilaf

Oggi vi racconto la mia piccola storia: mi chiamo Lamiaa, ho 11anni, sono nata a Reggio Emilia e faccio la prima media. A scuola va tutto bene, stavo benissimo, vivevo felice e serena fino a due anni fa circa, quando un giorno ricevo un 10 in grammatica: ero cosi felice perché non succedeva tutti i giorni, ma il commento della maestra mi lasciò un po’ perplessa. Le sue parole mi fecero riflettere sulla mia identità. Lei mi disse : “Lamiaa sei stata bravissima, hai superato gli italiani!” “Che cosa?”, dicevo fra me e me. “Ma io sono italiana!” Quando tornai a casa, mia mamma notò la mia rabbia: era arrivato il momento della discussione di un argomento che non avevo mai aperto prima d’ora con i miei genitori. Mia mamma in quel giorno mi disse:”Ma non c’è niente di male se ti chiamano straniera.” Perché secondo lei non è affatto un insulto. Ma il problema non era questione di insulto, era da verificare se io sono straniera o meno. Io replicai: “Mamma, ma io non mi sento straniera, sono nata e cresciuta in Italia, io non nego le mie origini, ma casa mia è in Italia e mi sento italiana. Il Marocco lo adoro, sì, però lo sento più come il paese dei miei genitori che mio, non so se mi capisci... Non lo so, io non ci ho mai pensato prima e davo per scontato che io sono italiana!”. E la discussione finì, almeno in quel giorno, con un silenzio che diceva tanto. Passa un anno, e vado alle medie, emozionata e un po’ spaventata dalle novità. Siccome è giusta, la mia insegnante fin dalla prima lezione aveva notato questo e mi disse: “Brava, hai una bella pronuncia, da dove vieni?”. E io pensai in quel momento: “Ancora? Ma cosa vuol dire da dove vengo? Da Reggio Emilia, no?”. Ah, forse voleva dire da dove vengono i miei genitori?. Allora ho detto: “Cara prof, i miei genitori vengono dal Marocco, e io sono nata a Reggio

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LA MIA PICCOLA STORIA Emilia”. Adesso, per favore, chiariamo la faccenda: non chiamatemi mai straniera o immigrata, a voi la scelta, potete chiamarmi italo - araba, oppure italo - marocchina, ma non sono affatto straniera; i miei genitori tanti anni fa hanno scelto di immigrare e sono venuti in Italia. Ma io non ho mai immigrato, sono nata in Italia, per cui mi sento italiana, non so con quale percentuale, però lo sono, perché lo sento dentro e lo credo. Sento come se il Marocco fosse mio papà e l’Italia mia mamma e nessuno potrebbe mai togliermi dal cuore uno dei due. Questa non è solo la mia storia, ma è la storia di tutti i bambini e i ragazzi, figli di immigrati, che sono nati in Italia e, purtroppo, riscontrano oltre a questi stessi miei problemi anche altri problemi…Da qua vorrei lanciare un messaggio: concedete la cittadinanza italiana a tutti i nativi, risparmiateci tutti i problemi inutili che non finiscono mai e smettetela di farci vivere situazioni che ci fanno sentire quelli che non siamo. Lasciateci studiare e costruire il nostro futuro con serenità, e ricordatevi che italiani ci sentiamo dentro per davvero”.

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Lasciateci studiare e costruire il nostro futuro con serenità, e ricordatevi che italiani ci sentiamo dentro per davvero”.

La lettera di Lamiaa, sorprendente per la sua efficacia comunicativa, esprime con un linguaggio essenziale e definito, l’esclusione di molti uomini e donne dall’esercizio concreto del diritto universale ad avere la cittadinanza e a prendere parte al governo del proprio paese. Questi gli obiettivi della campagna di sensibilizzazione “L’Italiasonoanchio” per la raccolta di firme su due progetti di legge di iniziativa popolare per le “ nuove “ cittadinanze e per l’accesso al voto e alle candidature degli immigrati nelle elezioni amministrative. Fra il 2011 e il marzo del 2012 il Masci è stato coinvolto a livello di Consiglio Nazionale che, riunito a Roma il 14 / 16 ottobre del 2011, ha deciso di aderire e sostenere l’iniziativa, caldeggiata dagli A.S. del Masci Lazio. Il 12 marzo 2012 le 50mila firme necessarie per le proposte di legge sono state superate, grazie alla mobilitazione popolare portata avanti con passione da 19 organizzazioni della società civile . Sono state decine di migliaia di cittadini e cittadine che hanno condiviso, con la loro firma, le ragioni della Campagna e hanno dimostrato di voler pacificamente riconoscere negli immigrati i diritti fondamentali. Giugno 2012 : le due proposte di legge sono già approvate in Parlamento. L’iter di discussione parlamentare è già stato messo in calendario. Tutto ciò significa che “ … insieme si fa… strade e pensieri per domani “.

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ESPERIENZE DI MONDIALITA’ NEI LUOGHI DEL MONDO...

LA LAMPADA DELLA PACE Liliana Toscani

Basta spalancare la porta per riuscire ad incontrare gli altri. Solo se la porta è aperta il Mondo può entrare, non occorre andare a cercarlo è subito fuori.

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Sono passati 16 anni da quando ho iniziato l’avventura della “Luce”. Da quel momento sono stata catapultata in un vortice entusiasmante di riunioni organizzative che mi hanno fatto conoscere prima di tutto gli altri scout della mia città. Altri modi di fare scoutismo, altri stili, e anche un’altra lingua, quella slovena degli scout della minoranza slovena di Trieste, ma lo stesso obiettivo: la diffusione della “Pace”. Subito dopo abbiamo pensato di aprirci alle altre religioni e di accogliere la fiammella della pace in un incontro ecumenico che ha visto riunite le religioni cristiane di Trieste. Collaborare con i Pastori protestanti, con il Parroco serbo-ortodosso, con l’Archimandrita greco ortodosso, sostenuta naturalmente dall’Assistente cattolico del Gruppo ecumenico cittadino, è stato emozionante. Ho avuto modo di conoscere l’organizzatore della “Luce” dell’Austria, colui che materialmente ci accende la fiamma ogni anno e siamo diventati amici. Attraverso di lui ho potuto rendermi conto della diffusione di questa iniziativa in Europa e in tutto il mondo. Le volte che ho partecipato all’accensione delle lampade durante la cerimonia ufficiale a Vienna, è stata una festa di colori, di divise e bandiere diverse, di incrociarsi di tante lingue. Con lo scambio della “Luce” con i Paesi della fraternità Alpe Adria Scout ho conosciuto gli scout adulti dei paesi confinanti con la mia regione: Slovenia, Austria, Croazia. La prima volta è accaduto in un piccolo paese di montagna Camporosso vicino a Tarvisio, dove si incontrano i tre confini. Anche quella volta ho provato una forte emozione a partecipare alla Messa in tre lingue e scambiarci la fiamma con tre paesi che nel secolo passato si sono scontrati in guerre che hanno portato dolore e sofferenza tra la nostra gente. La mia formazione scout mi ha reso indubbiamente sensibile ai temi della fratellanza, del dialogo tra diversi e dell’accoglienza. A questa, si è unito il mio desiderio di pace acutizzato dall’essere nata e vissuta in una città circondata da un confine che per fortuna ora non c’è più, ma che ha condizionato non sempre positivamente, me e i miei concittadini per buona parte della nostra vita. La “Luce” mi ha dato la possibilità di poter contribuire con un granellino di sabbia, allo sviluppo della convivenza pacifica nel mio ambiente. E’ stata e continua ad essere un’esperienza di incontro, di costruzione di relazioni, è un mezzo fantastico per avvicinarsi alle persone. Basta spalancare la porta per riuscire ad incontrare gli altri. Solo se la porta è aperta il Mondo può entrare, non occorre andare a cercarlo è subito fuori.

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ALPE ADRIA scout un’ amicizia tra adulti scout (con un problema di lingua) Georg, Coordinatore ALPE ADRIA scout

Was sind meine Erlebnisse und Erfahrungen mit ALPE ADRIA scout? 10 Jahre gelebte Freundschaft im Geiste der Pfadfinderei! Es war einmal im Jahre 2002 in Mte. Sommano - ich wurde von unserem damaligen Distriktgildemeister Hermann Wachmann „zwangsvergattert“ und durfte mit nach Italien zu einem Treffen fahren, weil er nicht allein fahren wollte und ich Italienisch konnte. Uuups, ich habe ja schon wieder auf Deutsch geschrieben… wie sollen das die anderen jetzt nur verstehen. ImmerdasProblemmitderSprache!!! Scusate se ho cominciato in tedesco, ma non me ne sono accorto (è una bugia!!!) è sempre lo stesso problema – la lingua!! Ed è proprio quello che noi nell’ ambito della Fraternità ALPE ADRIA Scout affrontiamo ogni giorno ed ogni volta che noi ci incontriamo. Quali sono le mie esperienze con l’ALPE ADRIA scout!? …sono 10 anni di amicizia vissuta nello spirito dello scautismo! C’era una volta, nel 2002, un giovane adulto scout che fu coinvolto dal suo Capo Distretto che gli chiese di accompagnarlo a Monte Sommano, perchè avrebbe voluto andare da solo ma c’era un problema di lingua e questo giovane (io) conosceva la lingua italiana… è cominciato più o meno cosi. Non sapevo nemmeno cosa doveva succedere: a che tipo di incontro andavamo a partecipare, niente… ! Sapevo, che dovevamo andare in Italia. E il nostro Hermann (così si chiamava il mio Capo Distretto), avendo più o meno 70 anni guidava con una molta prudenza (da far impazzire un giovane come me) sempre la sua pipa in bocca; invece di arrivare alle 19.00, come previsto, siamo arrivati alle 22.00, oramai buio pesto, in un posto in mezzo alle montagne chiamato Bosco di Tretto. Ci stavano già aspettando (da ore) ma lo stesso siamo stati accolti con una cordialità che poche volte ho visto prima: le prime parole di benvenuto e small talk e Hermann che parlava con quel signore, Alberto Albertini, come se fosse stato

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ESPERIENZE DI MONDIALITA’ NEI LUOGHI DEL MONDO... a casa. Gli parlava in tedesco e non se ne accorgeva. Alberto invece, almeno così mi è sembrato, muoveva la testa, annuendo come dire: “si si amico, ti capisco!“ …pur non capendo un “tubo”. Ripensando a quei momenti, ho avuto la sensazione che tutti si trovassero a proprio agio senza alcun imbarazzo e perciò la comunicazione funzionava anche senza conoscere la lingua dell‘ altro – come funziona anche con i bambini d’estate in spiaggia. Questa è stata la prima volta in cui ho avuto questa bella sensazione di amicizia, cordialità, fraternità tipica degli scout che negli anni successivi ho provato ogni volta che mi sono incontrato con gli amici dell‘ ALPE ADRIA sia in Italia, Slovenia, Croazia ed anche in Austria. Ed è proprio questo, io lo chiamo “ lo spirito ALPE ADRIA“ che mi affascina e che mi ha preso sin dall‘ inizio – come un virus. Questa esperienza per me è stata veramente “contagiosa“ e non mi ha più lasciata. In seguito, nel 2008, sono stato nominato coordinatore della Fraternità ALPE ADRIA SCOUT e quest‘ anno ormai festeggiamo il 10° anniversario proprio del primo incontro di cui ho accennato: un‘ idea che è nata dal desiderio di incontro di Scout che vivono nei territori che trovano le comuni radici nel Patriarcato di Aquileia, che nel passato occupava il territorio dell‘Italia settentrionale, l’oltrealpino (Austria, le parti della sud-Germania) l‘Ungheria, e le regioni della Slovenia e della Croazia. E in questi 10 anni ho vissuto tante belle, bellissime esperienze insieme ai miei fratelli e sorelle scout dell’ ALPE ADRIA. A cominciare dallo “scambio” della Luce di Betlemme, che ogni anno si svolge in dicembre in un luogo diverso: in Austria, Italia, Slovenia o Croazia. Pensate: in media, 300 adulti scout si mettono in viaggio prestissimo la mattina per stare insieme qualche oretta con la Luce in mano, per vivere la gioiosa felicità dell’incontro tra fratelli scout di nazioni diverse e condividere con lo spirito tipico della Fraternità ALPE ADRIA la Luce da portare a casa o da donare ad altre persone. In questa occasione si sprecano i moltissimi abbracci tra adulti scout che a volte non si conoscono nemmeno di persona: un miscuglio di parole in italiano, tedesco, sloveno o croato. “Giorgio, cosa ha detto. Non lo capisco…“ ma l’empatia è evidente ! Da 10 anni faccio anche l’interprete (Tedesco-Italiano)nell‘ ambito ALPE ADRIA scout, purtroppo però non capisco ancora nè lo sloveno nè il croato, come del resto quasi tutti noi. Allora proviamo con l’inglese…ma rimangono sempre questi problemi con la lingua!!! L’anno scorso abbiamo organizzato il 2° ALPE ADRIA Jamborette a Kancevci (SLO). Willi, il mio Magister ed anche Capo Distretto della regione Sud della Pfadfindergilde Austria (associazione adulti scout dell’Austria), prima che iniziasse il campo, aveva bisogno di qualcuno con cui parlare perchè si stava

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annoiando, mentre noi, più giovani, eravamo tutti occupati nelle preparazioni del campo. Allora ho chiesto a una amica italiana di prendersi cura di Willi; mi disse: “ma non so il tedesco e l’inglese, l’ho studiato a scuola tanto tempo fa e non ricordo più niente“. Allora le dissi: “provaci... senza aver paura di sbagliare ! Usa i gesti o una penna …non importa!“. Due ore dopo ho incontrato tutti e due e lei mi disse, con un bel sorriso sul volto, che non ci sono stati problemi di comunicazione!!! Visto!! Basta provarci – senza aver paura di fare brutta figura!! Sono proprio queste le belle esperienze per le quali vale la pena darsi da fare con la Fraternità ALPE ADRIA Scout. Due anni fa la mia Gilde (Comunità) di Graz (Austria) ha organizzato un campo mobile ALPE ADRIA (un lungo cammino di quattro giorni fino a Mariazell, quasi 85 km.)e pensate… :un giorno Paolo Modotti mi chiama e mi dice:”Georg, c’è Franco, un siciliano che mi ha chiesto se può partecipare“. Ed allora è diventato un duro campo mobile ALPE ADRIA con partecipazione siciliana!!! Credo che quel campo mobile per tutti i partecipanti sia stata una bellissima e faticosa esperienza (soprattutto per le ginocchia) insieme agli amici scout (tra di quali, oltre agli austriaci, alcuni sloveni, croati e gli italiani: Paolo, Annamaria, Luciana, Paola, Franco). Alla meta di Mariazell (il Santuario dedicato alla Madonna più importante dell’Austria) ci stava già aspettando una piccola delegazione di adulti scout provenienti da altre regioni austriache assieme alla nostra presidente, Andrea Kirchdorfer. Mi rimarrà sempre impressa nella memoria l’immagine di Franco e Dragan, felici di avere raggiunto Mariazell, che insieme si dissetavano con una birra in mano e un bellissimo sorriso di soddisfazione sul volto!! E questa è proprio la mia idea della Fraternità ALPE ADRIA SCOUT… non quella della birra…;-), ma essere un network, una fraternità di adulti scout, aperto a tutti gli (adulti) scout che hanno desiderio di conoscersi, di scambiare culture ed esperienze che evidenziano i nostri diversi stili di vita e che trovano la loro massima espressione durante i nostri incontri e/o attività. E non parlo delle Associazioni, degli organismi regionali/distrettuali o delle Comunità (di solito ancorate a “regole” e “gerarchie”), ma dei singoli adulti scout !!! Speriamo, nel futuro, di riuscire a costruire “un portale” della Fraternità ALPE ADRIA SCOUT, dove raccogliere le varie attività ed iniziative delle Comunità, regioni, ecc., che si desidera condividere tra fratelli scout di paesi diversi e metterle a conoscenza a chiunque possa essere interessato a partecipare (sia come Comunità, gruppo di persone o singolarmente !!)… con le necessarie informazioni e i dati di contatto. Ottimale sarà, se tutte le informazioni potranno essere riportate nelle quattro lingue, evitando così i problemi di interpretazione !! Un altro obiettivo, molto semplice e pratico che può servire a meglio fraternizzare, è la disponibilità di ognuno di noi, partecipanti all‘ ALPE ADRIA scout, ad imparare almeno un paio di parole in ciascuna delle 4 lingue. Tipo: ciao, come stai, mi chiamo…- frasi facili, che però mostrano rispetto verso la cultura

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ESPERIENZE DI MONDIALITA’ NEI LUOGHI DEL MONDO... dell‘ altro e che possono „aprire il portone“ della comunicazione, a volte difficile, se non tentiamo nemmeno, per motivi di imbarazzo o paura di dare una cattiva impressione di se. Altra difficoltà da superare e che ho constatato in questi 10 anni della Fraternità ALPE ADRIA SCOUT…: ad ogni evento con un grande numero di partecipanti durante i momenti comuni (pranzo,cena, ecc..) tutti: gli italiani, gli sloveni … si siedono per gruppi uno accanto all‘ altro (lo so, è più comodo!) invece di mischiarsi e di cercare attivamente la comunicazione con gli altri, pur riconoscendo i possibili problemi di lingua!! E l’esperienza ci ha confortato in questo senso: 5 anni fa durante il 1° Jamborette a Cesclans (IT) abbiamo cercato di fare un esperimento. Abbiamo preparato un quaderno del campo, in tutte le lingue e con un piccolo dizionario alla fine (frasi e parole utili nell‘ ambito di un campo scout), che potesse dare, a ciascuno nella propria lingua, le informazioni utili per capire e vivere bene le varie attività che avevamo preparato e, con grande sorpresa di tutti i partecipanti (circa 100 persone), li abbiamo suddivisi in squadriglie miste di italiani, austriaci, sloveni e croati. Una mossa, che sopra tutto per gli italiani, è stata una grande sfida. Non erano pochi coloro che si lamentavano – tipo: “Non capiamo niente, non c`è un interprete, nell’altra pattuglia c’è qc. che sa l’italiano, è più facile per loro, …“ Allora abbiamo cercato di convincere a sforzarsi e cercare di comunicare in qualsiasi modo pur sapendo che non era facile! Riassumendo: dopo questi tre giorni i componenti delle varie squadriglie si erano così amalgamati tra di loro e, in qualche modo, erano riusciti a capirsi ed a scambiarsi idee ed opinioni tanto da riuscire ad esprimere con un breve messaggio i comuni sentimenti vissuti durante il campo !! Vedendo poi l’entusiasmo e la gioia nei loro volti, alla fine del campo, abbiamo avuto la certezza di aver fatto la cosa giusta. Le varie lingue restano, e la maggior parte di noi probabilmente non le imparerà mai tutte e quattro, ma secondo me questo cosiddetto problema esiste soltanto quanto noi ci nascondiamo nella nostra incertezza e paura di sbagliare. E restano anche le amicizie, la gioia e questo spirito indimenticabile dell’ ALPE ADRIA SCOUT! In questo senso mi auguro, che questa iniziativa incominciata 10 anni fa, superi questi “problemini“ e trovi la sua strada nei cuori di tutti noi che partecipiamo alla Fraternità ALPE ADRIA SCOUT e che possiamo ancora condividere tante belle esperienze, magari anche insieme a nuovi amici adulti scout delle varie regioni d‘ Italia e di altri Paesi!

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SCOUTISMO E MONDIALITÀ

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SCOUTISMO E MONDIALITÀ Nuccio Costantino

La creazione di una fratellanza universale e la conoscenza diretta e reciproca tra le persone assicura il futuro degli uomini e delle donne, “solo mediante la buona volontà e cooperazione il Mondo può prosperare ed essere felice”. (B.P.) L’art. 21 - Dell’educazione alla mondialità e alla pace, del nostro Statuto, recita al primo comma:”Il MASCI è impegnato a sviluppare l’educazione alla mondialità, a promuovere lo scoutismo e il guidismo nel mondo. Al secondo comma: A tal fine ogni livello del Movimento (nazionale, regionale, di comunità è impegnato nella realizzazione di gemellaggi, da realizzare soprattutto con realtà dei paesi in via di sviluppo, dove lo scoutismo ed il guidiamo rappresentano una risorsa preziosa. Il Masci è impegnato a promuovere secondo le indicazioni di B:P: l’ “educazione alla Pace”, a fare del Movimento e di tutto l’ISGF un grande Movimento Mondiale per la Pace e la comprensione trai popoli. Partiamo dalla intima convinzione che il MASCI voglia far diventare questo art. 21 approvato dalla Assemblea Nazionale, non solo una icona di parole scritte, ma fatti reali e tangibili oggi in parte già realizzati (Federazione scout Burkinabe Musulmani e Cattolici e la nascita di un Movimento di Adulti Scout Burkinabe riconosciuta dal ISGF grazie al MASCI) o da realizzare con progetti mirati. Nel 2009 per la prima volta, L’AGESCI ha pensato di coinvolgere il MASCI nel progetto “BURKINA FASO”, in quanto adulti responsabili e credibili, come elemento di arricchimento e di confronto sia per la proposta educativa dei ragazzi e sia per potere interloquire alla pari con i Burkinabe che per cultura riconoscono negli adulti la saggezza dell’esperienza vissuta. Il MASCI, ripensando alla dimensione internazionale espressa nell’art, 21, si è messa in gioco e in azione, con attenzione a quanto succede fuori, alla solidarietà che sbianca le coscienze sporche, ma che è necessaria alla scoperta del lontano che si è fatto vicino, alla responsabilità, alla capacità di

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ESPERIENZE DI MONDIALITA’ NEI LUOGHI DEL MONDO... cogliere le nuove misure del mondo. Tutto ciò per dimensionare le nostre questioni con le questioni più grandi , bisogna modificare le nostre condotte di vita per migliorare la vita degli altri e cercare l’unità nella diversità. Non c’è di meglio del metodo scout, semplice e pensato per i ragazzi di ieri, di oggi e di domani per sperimentare con pratiche utili, dirette, non mediate e sul campo per scoprire, osservare,capire, progettare per educare e sorreggere. Il primo e il secondo anno che siamo andati in Burkina, ci siamo concentrati su alcuni aspetti fondamentali, sulla conoscenza del paese, sulle problematiche sociali che ci sono, sulla globalizzazione generale e sul dialogo interreligioso. Abbiamo conosciuto i referenti nazionali delle guide e siamo stati ospitati nella sede dalle Guidesdu Burkina Faso aderenti alla WAGGGS, abbiamo contattato i referenti nazionali per far rinascere lo scoutismo musulmano riconosciuto dal WOSM ed insieme abbiamo fatto degli incontri con i responsabili nazionali dello scoutismo cattolico per creare una confederazione tra associazioni. In tutti questi momenti sono stati presenti agli incontri Adulti del vecchio scoutismo, che guidati da MrSohme hanno dato vita ad un movimento per adulti riconosciuto dal ISGF (MrSohme è stato presente alla World Conference di Como).In Burkina i Bianchi siamo chiamati “nazara” - non nero - siamo stati accolti a braccia aperte, è stato bellissimo vedere la semplicità della gente che sa essere a volte sconvolgente, abbiamo riscoperto i valori semplici della vita. Nel centro socio-sanitario 8Centre Oasis) abbiamo abbracciato e lavato i bambini malnutriti del CREN (Centro di recupero dei bambini), abbiamo diviso il miglio alle famiglie povere che non avevano niente da mangiare. Siamo andati a vivere la quotidianità ospiti di famiglie che hanno i villaggi in savana, con loro abbiamo condiviso il lavoro, siamo andati ai pozzi a prendere l’acqua, abbiamo raccolto le radici per il mal di pancia, abbiamo giocato con i bambini. Nella quotidianità ci siamo fatti molte domande, cercando di scoprire le risposte con i suoi mille perché. E’ una esperienza nuova e molto significativa per un adulto; ci si trova a dover vivere con equilibrio sia il proprio personale incontro con una realtà tanta diversa, che il fatto che in questa situazione “nuova” si è anche responsabili dei contatti e delle nuove amicizie che si fanno. Il MASCI Nazionale si dovrebbe fare promotore di micro progetti mirati alla lotta della povertà, sostenendo campi di formazione imprenditori per lo scoutismo-rurale, con l’apertura di fattorie dedite alle piantagioni e agli allevamenti.

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L’ESPERIENZA DEGLI SCOUT IN BURKINA FASO

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L’ESPERIENZA DEGLI SCOUT IN BURKINA FASO Ricordare in poche righe le esperienze scout nell’Alto Volta ora Burkina Faso è ricordare un legame sempre vivo con un paese che ha visto lo scautismo francese associato a quello italiano. Alberto Albertini, Nuccio Costantino

Lo scautismo è stato introdotto nel Burkina-Faso dai missionari cattolici; le prime sedi furono aperte a Fada N’gourma, nell’est del paese (1940-1941), a Ouagadougou, la capitale (1940) ed a Bobo-Diulasso (1942). L’associazione degli scout burkinabè era pluriconfessionale e s’ispirava ai valori della società africana e dello scautismo mondiale, nel rispetto e nel dialogo tra le religioni. L’associazione scout burkinabè era membro della Federazione Burkinabe’ dello Scautismo, che raggruppava tre associazioni: due miste (Scout du Burkina e EclaireursEclaireussesdu Burkina) ed una femminile (Guide du Burkina), ed era membro della confederazione internazionale cattolica dello scautismo e del Movimento Mondiale degli Scouts. L’associazione degli scout burkinabè era diretta da una commissione generale aiutata da un ufficio internazionale, e comprendeva otto regioni: Kadiogo, al centro del Paese, dove c’è la capitale del Burkina-Faso; Camoé, al sud-ovest; Houet, all’ovest,capitale economica; Boulgou, al sud-est; Passere-Yatenga, al nord; Mouhoun, al sudovest;Boulkiemde-sanguié, al centro-ovest; Bourgouriba, al sud-ovest. Ogni regione aveva un Commissario regionale assistito da un’equipe di 7 persone; in ogni regione erano presenti gruppi scout composti da:• una muta (4 sestiglie di 6 bambini di 7-11 anni); • una troupe (4 pattuglie di 8 ragazzi o ragazze di 12-16 anni); • un dieklou (il clan, diviso in 4 saka di 6 o più giovani di 17 anni e più). È lo scautismo per giovani contadini, giovani impiegati, studenti delle superiori o universitari. Questi si organizzavano in gruppi di 6 o 10 persone per iniziarsi ai problemi della vita. Il gruppo di rover è detto “Saka.” Più “Saka” possono raggrupparsi, condividere le loro attività all’interno di un gruppo detto “dieklou”, il cui capo è eletto dai rover stessi all’interno del gruppo. Le attività dei rover consistono in seminari e dibattiti sui problemi politici, socio economici, in riflessioni sui problemi dei giovani e sul dialogo con gli adulti, in conferenze sulle questioni più scottanti, in imprese di sviluppo comunitario. Anche se non si poteva partecipare direttamente alle attività,

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ESPERIENZE DI MONDIALITA’ NEI LUOGHI DEL MONDO... si poteva avere un incarico come quadro: lo scautismo era aperto a tutti ed a tutte le età. Nel maggio 2000 l’associazione scout del Burkina-Faso fu sospesa temporaneamente, con una ratifica della conferenza mondiale di Wosm a Durban che divenne definitiva nella successiva riunione del Comitato mondiale Wosm. La ragione principale della sospensione fu il mancato rinnovo delle cariche associative che da più dì sei anni erano ricoperte dalle stesse persone. Lo scoutismo burkinabè è rinato nel 2007, in occasione del centenario dello scautismo, è pluriconfessionale e al momento sta cercando di capire le modalità di collaborazione con lo scautismo cattolico. L’80% del Paese è analfabeta. Nelle zone rurali lo scautismo contribuisce all’istruzione raggiungendo nei villaggi bambini e anziani. Con l’aiuto di associazioni scout straniere sono state costruite alcune scuole. A Reo nella regione Sanguie, una zona centro occidentale del Paese, è stato creato un Centro per la Formazione e l’Avviamento Professionale. Nel 1992 alla scuola elementare di Gango, regione di Kombossiri, nel nord-est, è stato donato materiale didattico; nel 1993 gli scout svizzeri hanno donato una scuola materna a Latouden, nella regione Yago, ed hanno partecipato, in partenariato con quelli burkinabe’, alla ristrutturazione di un’altra. Un contributo importante per l’istruzione, dunque, ma anche un’occasione di socializzazione, soprattutto nei villaggi. Lo scautismo gioca un ruolo importantissimo nello sviluppo del Paese, perché l’educazione va ben al di là della stessa esperienza scout: vivendo l’itinerario educativo scout, i giovani possono imparare a guardare al futuro con coraggio e ottimismo. Lo scautismo rurale si differenzia da quello cittadino in quanto ha obiettivi diversi pur proponendo le stesse attività, per quanto i giovani che fanno scautismo, sono soprattutto i poveri sia in città che in campagna. Nei villaggi le riunioni costituiscono un’occasione di socializzazione tra uomini e donne e ciò favorisce l’emancipazione di queste ultime, il che è ancora un grave problema nelle città di tutta l’Africa. Inoltre, i rover in città realizzano molte iniziative di servizio nelle campagne per la prevenzione dell’Aids o di altre malattie, come, ad esempio, la dissenteria. Oltre mille bambini, sotto i sette anni, muoiono ogni anno per disidratazione dovuta alla diarrea causata dall’acqua non potabile. L’attività dei rover consiste nell’informare la gente dei villaggi di bollire l’acqua prima di bere, di aggiungere sale o zucchero per combattere la disidratazione e anche di identificare le sorgenti infette o inquinate. Ultimamente gli scout si sono occupati anche della deforestazione intensiva e abusiva, un’altra piaga del Paese. Lavorare per micro-progetti condivisi,

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L’ESPERIENZA DEGLI SCOUT IN BURKINA FASO

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è tutt’ora la modalità con cui si interviene non solo in Burkina ma in tutta l’Africa, a partire dalle esigenze/proposte degli scout/guide locali. La caratteristica educativa, il servizio comune e la reciproca conoscenza sul campo lavorando e vivendo insieme con vero spirito scout di condivisione, sono state, sono e saranno le linee guida nei rapporti tra i due Paesi. L’AGESCI negli anni ha proposto sia cantieri nazionali per singoli rover e scolte che campi per clan organici e autonomi, previa formazione prima della partenza a cura della pattuglia nazionale del Settore internazionale. Dal 2008 è nata una collaborazione con il Masci che ha portato alla realizzazione di due route in Burkina Faso, alle quali hanno partecipato sia scout e capi Agesci, che adulti scout del Masci. Il MASCI e l’ AGESCI hanno maturato la convinzione che sia necessaria una maggiore sinergia per un’azione costruttiva in particolare quella del MASCI orientata ad attività di cooperazione e l’Agesci orientata alla formazione dei rover che partecipano ai campi.  Ecco allora la nostra esperienza: Route di formazione composta da alcuni adulti scout e un clan di ragazzi che hanno vissuto questa grande esperienza. Infatti, quando mi è stata presentata la possibilità di partecipare alla Route in Burkina Faso, nonostante le difficoltà oggettive, ho accettato senza ripensamenti. Dopo aver scelto per la Sicilia il tema del Polo dell’Eccellenza “Educazione alla pace e alla mondialità” non potevo rinunciare alla possibilità di “mettere in pratica” quanto discusso e dibattuto per un anno intero con le comunità siciliane. Questa route è stata molto più che un campo della conoscenza della realtà burkinabé: rover e scolte, capi e adulti, tutti insieme, abbiamo portato dei “valori” piuttosto che “valore” (carità). Relazioni intrecciate con i bimbi e le mamme del CREN ( centro di recupero dei bambini ), dei villaggi, della brousse(campagna), con gli scout e le guide di Ouagadougou, con le suore missionarie di Nanoro e di Boussé, con Enzo e gli amici del Centro Oasis di Koudougou, con Gigi e il personale dell’ Ospedale S. Camillo di Nanoro… Non abbiamo cambiato il loro tenore di vita (sono così abituati a dormire e a mangiare per terra, a usare zappette con il manico cortissimo o le scope senza manico) ma sicuramente loro hanno cambiato noi. Porteremo nel nostro zaino i sorrisi, gli abbracci, i volti, gli sguardi, i colori, gli odori, i sapori, le albe, i tramonti, i ritmi, la sabbia rossa, il sole accecante, la pioggia incessante... Per tutto questo e altro ancora, barka (grazie Burkina)

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ESPERIENZE DI MONDIALITA’ NEI LUOGHI DEL MONDO...

KENIA - LA MIA ESPERIENZA IN AFRICA Antonio Labate

Da bambino l’Africa non attirava il mio interesse. Sognavo piuttosto i paesi freddi: la neve, il ghiaccio, gli animali tipici di quei paesaggi. Forse perché, vivendo a Reggio Calabria, il sole ed il caldo mi erano abituali, mentre non avevo mai vista la neve. Ero comunque un appassionato lettore delle riviste missionarie e ammiravo i Padri impegnati nel continente nero fra “uomini e animali selvaggi”. Questo c’era nel mio immaginario. La mia famiglia era molto impegnata nel sostegno alle Missioni in Africa e ospitava i missionari quando venivano a predicare nella nostra parrocchia. L’occasione per visitare quelle terre mi si è presentata in modo del tutto casuale. Volevo fare un viaggio per usare la mia nuova cinepresa. Un amico mi propose di accompagnarlo nella visita ad alcune missioni in Kenya. Era dicembre del 1978. Questo amico era il Capo del Gruppo Scout di Gallarate. Gruppo che da alcuni anni sosteneva una missione dei Padri Passionisti a Ulanda, un villaggio vicino al Lago Vittoria. Quel viaggio è stato per me scioccante. Paesaggi bellissimi, mozzafiato, e una natura incontaminata. Situazione sociale altrettanto forte di povertà assoluta. Popolazioni meravigliose con scarsissimi beni materiali ma ricche di umanità. Altro che “uomini selvaggi” come mi ero immaginato da piccolo! Nacque in me una grande voglia di conoscere meglio quella gente e quella situazione. Sono ritornato a casa pieno di dubbi e molte domande alle quali non riuscivo a dare risposte. Tante mie convinzioni demolite. Avevo visto un mondo molto diverso da quello rappresentato sui giornali e alla televisione. Con gli amici del Gruppo Scout di Gallarate ho iniziato una profonda riflessione sugli stimoli ricevuti in quella mia prima esperienza africana. La complessità degli argomenti era tale da non permetterci di arrivare a delle conclusioni certe. Di una cosa però abbiamo preso coscienza: il tipo di aiuto che veniva dato agli amici africani era profondamente sbagliato. Ovviamente nelle situazioni di normalità. Altra cosa erano e sono le emergenze. Inviare pacchi di medicine, di viveri, di indumenti, non risolve il problema della po-

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vertà. Questo tipo di aiuto rischia di perpetuare la dipendenza, non libera ma incatena. E’ una solidarietà che toglie dignità. I più impegnati andavano a costruire qualche piccolo dispensario o qualche scuola. Insomma “lavorare per loro”. Per persone che non si conoscevano affatto e che neanche si sentiva la necessità di conoscere. Si sapeva già tutto. Da questa presunzione derivavano gli interventi sbagliati e controproducenti. Un “buonismo” che produceva, e purtroppo continua a produrre, danni enormi e che si protraggono nel tempo. Il povero visto come corpo da salvare dalla morte invece che come persona da aiutare a liberarsi dalla fame e dal sottosviluppo e per conquistarsi una vita più dignitosa. Nei viaggi che seguirono, ho maturata la convinzione che il vero aiuto consistesse principalmente in un intelligente intervento nel campo educativo. L’Africa è ricca di risorse umane e materiali, ma non ne beneficia perché in parte non ne è capace e in parte perché tali risorse vengono sfruttate dal Nord del mondo, che poi la ricompensa con le forme di assistenzialismo di cui ho già detto. Quindi un doppio danno. Educazione nel senso più ampio del termine è ciò di cui hanno più bisogno gli africani. Non è difficile capire che questa sia la vera necessità perché anche nella nostra società è così. Basta riferirsi al sud del nostro paese dal quale provengo per trovare tante analogie. Nell’ambito della Fondazione Brownsea, emanazione del Gruppo Scout di Gallarate, abbiamo perciò elaborato un progetto di cooperazione allo sviluppo ispirato alla metodologia scout. Un metodo che mette al centro la crescita delle persone. Un progetto intitolato “Harambee”, parola swahili che può essere tradotta in “lavoriamo insieme”. Lavorare “con” e non lavorare “per”. Cooperare è aiutare i territori e le comunità a riscoprire le risorse endogene, la fiducia in se stessi, la prospettiva di una ripresa in mano del proprio destino. Il valore aggiunto che noi educatori scout possiamo mettere in questo tipo di approccio alla cooperazione allo sviluppo è notevole, anzi direi fondamentale. Purtroppo, spesso mi è capitato di notare che gli scout impegnati in questo ambito di servizio, si omologano ad altri tipi di cooperazione che la realtà dei fatti porta a giudicarli fallimentari o dannosi. Avrei ancora tanto da dire su questo ma sarebbe troppo lungo e non è l’occasione. Da quel mio primo viaggio turistico di cui ho riferito all’inizio, sono passati più di trent’anni e adesso trascorro circa sei mesi all’anno in quei villaggi africani. Il piccolo progetto Harambee è diventato un grande progetto di cui beneficiano decine di migliaia di persone. Ciò indica che la strada seguita è quella giusta, pur con gli errori fatti e tutte le difficoltà che abbiamo dovuto superare. Questa esperienza dimostra che anche un piccolo gruppo e con poche risorse può essere di grande aiuto pure in un contesto difficile sotto vari aspetti, come quello africano. Ci vuole cuore ma anche molta testa. Il cuore

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ESPERIENZE DI MONDIALITA’ NEI LUOGHI DEL MONDO... per la spinta motivazionale e la testa per l’azione concreta. L’errore si commette quando si fa prevalere uno dei due elementi. Confrontando gli approcci più comuni alla cooperazione di alcuni anni fa e di oggi, rilevo un cambiamento della filosofia ma una sostanziale continuità nei comportamenti. Ieri c’erano i pacchi di generi di prima necessità e gli interventi a pioggia: un pozzo di qua, un dispensario di la, una scuola da un’altra parte. Risultato: degenerazione dell’assistenza in assistenzialismo e inefficacia delle opere perché insostenibili. Oggi vedo grandi pericoli nelle nuove forme di intervento anch’esse orientate ad un’assistenza che può facilmente degenerare. Per citarne alcune: le adozioni individuali a distanza (adesso le chiamano “sostegno”); la strumentalizzazione dei bambini per raccogliere soldi; la scelta e i rapporti con i partner locali, siano essi religiosi o laici, non sufficientemente conosciuti; la completa delega senza controlli, a questi partner; i progetti impostati senza la necessaria conoscenza della realtà locale nelle sue varie articolazioni, compresa quella culturale; la fretta di vedere i risultati degli interventi, incompatibile con l’obiettivo della sostenibilità; il condizionamento degli sponsor. Ognuno di questi argomenti meriterebbe una trattazione approfondita. Mi auguro che in coloro che leggono nasca la curiosità di occuparsene. Concludo sintetizzando ciò che ritengo sia cambiato in me nel corso dei trent’anni di esperienza africana: - l’approccio alla quotidianità della vita: sono diventato più pragmatico; più essenziale; più attento ai problemi ed ai bisogni delle persone che mi stanno intorno; meno egoista; più razionale; - ho riscoperto alcuni valori universali molto attenuati o scomparsi nelle società del Nord: il valore del tempo; della solidarietà concepita come condivisione; l’apprezzamento delle piccole cose; l’approccio alla sofferenza, alla vita e alla morte; la tolleranza; ho superato una certa idea sbagliata che avevo sulla popolazione afri- cana. Essa invece possiede la dignità, le potenzialità, la volontà di affrancamento dallo stato d’inferiorità in cui è indotta da certi comportamenti, consci o inconsci, delle popolazioni del Nord; è cambiato nella mia vita l’ordine delle priorità; - - ho maturata la convinzione della necessità di un cambiamento radicale dell’approccio alla cooperazione allo sviluppo che deve puntare più sull’educazione allo sviluppo e meno sull’assistenza materiale che frequentemente degenera in assistenzialismo. E’ necessario imbastire dei rapporti paritari e non paternalistici. E’ necessario esprimere una solidarietà che sia il frutto di una condivisione reale e non a “distanza”.

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LOURDES, ESPERIENZA DI MONDIALITÀ … Lilli Mustaro

È quasi banale affermarlo dal momento che il Santuario è il crocevia privilegiato di etnie e culture diverse. A Lourdes ci si ritrova nella grotta dove la dimensione spaziale e temporale è speciale: il luogo è quello del silenzio, il tempo è scandito dalle stazioni del Rosario, formidabile strumento di vicinanza a Dio, che si fa prossimo grazie all’intercessione della Madonna. La preghiera, nella Grotta ma anche nei viali alberati che guardano il fiume Gave, è sommessa, discreta nella certa convinzione di essere ascoltati e accolti. Lourdes parla al cuore attraverso i simboli della luce e dell’acqua: - “ io sono la luce del mondo” e il pellegrino accende il cero per ricordare le parole di Gesù e per confermare le proprie intenzioni; “ lasciarsi immergere nell’acqua significa lasciarsi purificare dalla - misericordia del Signore “ con un atteggiamento di abbandono e di totale fiducia. E’ dal 1988 che a luglio vado in pellegrinaggio a Lourdes come Foulard Blanc : da circa 10 anni ho la possibilità di fare servizio nelle Piscine. E’ questa un’esperienza unica, di grande pregnanza spirituale che mi permette di guardare e conoscere le persone in un momento irripetibile: quello dell’incontro con la Madonna, un incontro spesso agognato, dove si rivela completamente l’umanità nel suo limite assoluto, nel bisogno incontrollabile di trascendenza. Ogni anno mi prefiggo un obiettivo da perseguire, a seconda del momento esistenziale che sto vivendo; l’anno scorso sentivo forte il bisogno di umiltà e di mitezza, quasi di mortificazione di un “io“ eccessivamente critico e forse un po’ prevaricatore. Mi sono concentrata, durante il servizio nelle Piscine, sui PIEDI delle innumerevoli donne che avevo il privilegio di accompagnare nella vasca per

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ESPERIENZE DI MONDIALITA’ NEI LUOGHI DEL MONDO... l’immersione. Al di là del significato intrinseco della lavanda dei piedi, il gesto di SERVIZIO per eccellenza, voglio centrare l’attenzione su un aspetto inusuale di questo gesto: ho avuto la possibilità di vivere un’esperienza di Mondialità veramente particolare. Ho tolto scarpe, sfilato calze … e ai miei occhi chinati i piedi più vari ed “ espressivi “: - ho visto piedi curati con le unghie perfettamente smaltate - ho visto piedi callosi con le dita storte e ritorte ho visto piedi sofferenti con la unghie nere e incarnite - ho visto piedi stanchi che hanno sopportato esistenze difficili - - ho visto piedi piccoli, di giapponesi che li hanno costretti per anni in fasciature imposte dalla tradizione ho visto piedi scuri, agili - - ho visto piedi grossi da lavoratrice indefessa - ho visto piedi spastici, impossibilitati a camminare ho visto piedi giovani e piedi vecchi - - ho visto piedi poveri ho visto piedi che hanno sorretto esistenze felici - - ho visto piedi impazienti e frementi - ho visto piedi … e ancora una volta lo scoutismo mi è entrato dai piedi, su una strada percorsa da persone che hanno portato nello spazio angusto di una Piscina, il MONDO. Ed allora ho sollevato gli occhi e ho visto le donne che in quei pochi giorni, mi hanno parlato di loro attraverso … i piedi. Piedi scuri e agili, sono quelli delle donne di colore che giungono a Lourdes con le loro tuniche vivaci e appariscenti e portano con sé la gioia di vivere. Ve ne parlo perché vi è una forte volontà internazionale per l’attribuzione del Premio Nobel per la pace nel 2011 alle donne africane che ogni giorno percorrono a PIEDI le strade del Continente alla ricerca di una pace durevole e di una vita dignitosa. Gran parte di loro fanno 10 – 20 Km al giorno, per portare l’acqua alla famiglia. Poi vanno, sempre a piedi, al mercato dove vendono quel po’ che hanno, per portare la sera a casa il necessario per nutrire i propri figli, riproducendo così, ogni giorno, il miracolo della sopravvivenza.

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“ Avanzi maestosa, più che regina, e nei tuoi occhi riflessa sta una forza a te solo conosciuta. E vai, macinando miglia ingoiando polvere, caricando pesi, coltivando sogni e vai con passo fermo segnando tappe per capitoli nuovi di un libro antico. E continui ad andare instancabile venditrice di speranza. Non importa se la pioggia inzuppa le tue ossa se il sole brucia l’anima tua se la polvere impasta il sudore. Nei tuoi occhi gentili Riflessa sta una meta a te solo conosciuta. E vai incontro alla notte ad attenderti le stelle, impazienti di danzare al ritmo dolce del tuo cuore. Poi, prima che spunti il sole, riprendi il cammino anticipando l’alba generando aurore inventando futuro. E vai carica di sogni e popoli riflessi nei tuoi occhi dolci di madre d’Africa e ostinata custode dell’umanità“. Elisa Kidanè

Questo quaderno, nato dalle esigenze riportate in premessa, è una TESTIMONIANZA della grandiosa ricchezza di sensibilità, di passione, di capacità e di competenze, di amore, di fede e di fiducia, di spirito di servizio degli A.S. italiani che in un cammino di educazione permanente incontrano gli “ altri “ per intraprendere, INSIEME, un viaggio nella città dell’uomo. La Commissione Denti che ha curato la stesura di questo Quaderno è composta da : Virginia Bonasegale, Gaetano Buttafarro, Carmelo Casano, Nuccio Costantino, Roberto De Piccoli, Mauro Mellano, Ugo Mucig, Lilli Mustaro, Giovanni Tritto, Franco Vecchiocattivi.

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VADEMECUM PER UN VIAGGIO nei Paesi del Sud del Mondo Giuliana Accollettati

Prima di partire per una vacanza o per un viaggio che ci porta fuori dall’Italia, normalmente ci informiamo sul luogo che ci ospiterà, su cosa incontreremo e sulla lingua parlata. Quando si decide di intraprendere un viaggio in un Paese situato in una delle aree povere del pianeta, come possono essere i paesi del centro Africa o dell’America Latina, è bene essere più prudenti e prepararsi per tempo all’evento. Esistono, su internet vari siti che ci aiutano ad organizzare il viaggio e ci informano sulle eventuali difficoltà che possiamo incontrare nei Paesi dove andremo. Primo tra tutti è il sito www.viaggiaresicuri.it, curato dall’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri in collaborazione con l’ACI, che fornisce informazioni quanto più aggiornate possibile su tutti i Paesi del mondo. Selezionando il Paese dove si intende andare, si aprirà una pagina dove appare in primo piano un AVVISO PARTICOLARE con un aggiornamento sulla situazione corrente, in particolare su specifici problemi di sicurezza, fenomeni atmosferici, epidemie, ecc. Oltre all’Avviso Particolare è disponibile la SCHEDA INFORMATIVA, che fornisce informazioni sul Paese in generale, con indicazioni sulla sicurezza, la situazione sanitaria, viabilità e indirizzi utili anche per gli operatori economici, E’ conveniente controllare questo sito anche poco prima della partenza perché le situazioni di sicurezza dei Paesi esteri e le misure normative e amministrative possono variare rapidamente. Il sito è ag-

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giornato continuamente. Le stesse informazioni possono essere acquisite anche attraverso la Centrale Operativa Telefonica, attiva tutti i giorni (con servizio vocale nell’orario notturno). I numeri da ricordare o segnare sul cellulare sono: dall’Italia 06-491115 dall’Estero +39-06-491115 Ma vediamo quali sono le cose da programmare per tempo. • Di fondamentale importanza, prima della partenza, è informarsi in merito al tipo di documento necessario per entrare nel paese desiderato e che quest’ultimo sia in corso di validità. La tipologia di documento necessario per l’espatrio dipenderà dalla destinazione. In alcuni paesi è sufficiente possedere unicamente la carta d’identità valida per l’espatrio, in altri è necessario il passaporto, per altri ancora è necessario munirsi di un visto d’ingresso. È bene quindi informarsi presso gli uffici competenti (ambasciate, consolati, polizia di stato) e calcolare in anticipo i tempi necessari per sbrigare le eventuali pratiche necessarie al rilascio o al rinnovo di eventuali documenti (in caso, per esempio, di rinnovo del passaporto, i tempi previsti possono raggiungere il mese) • È importante sapere che, all’estero, può essere difficile trovare gli stessi farmaci che abitualmente prendiamo nel nostro paese e che è ancora più difficile trovare medici che possano prescrivere medicine. Per tale motivo è utile farsi prescrivere i farmaci prima della partenza e portarsi dietro una scorta di medicinali sufficiente a coprire la durata viaggio. • Prima di partire è necessario documentarsi sull’obbligo o meno di vaccinarsi contro specifiche malattie o se è necessario eseguire la profilassi raccomandata contro la malaria. Alcune malattie, da tempo eliminate in Italia, sono, infatti, ancora endemiche o epidemiche in alcuni Paesi. E’ sempre opportuno consultare il proprio medico curante. La risposta immunitaria a seguito della introduzione di un vaccino richiede da 2 a 4 settimane per svilupparsi. Alcuni vaccini inducono difese sufficienti anche con una sola inoculazione, altri necessitano di Di che colore è la pelle di Dio

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più somministrazioni (da 2 a 3). I vaccini devono pertanto essere somministrati almeno 1 mese prima della partenza e per alcune infezioni una completa protezione può essere ottenuta soltanto con un ciclo di vaccinazioni della durata di 3-6 mesi. Molti vaccini possono essere somministrati contemporaneamente. Riportiamo di seguito le vaccinazioni raccomandate per i vari Paesi: • Africa Sub-sahariana  Febbre gialla  antiepatite A-B  antimeningite meningococcica  antipneumococcica  antitifico  antidifto-tetano-polio  eventualmente antirabbico pre-esposizione  anticolerico per os. • Cina, Subcontinente Indiano  antiepatite A-B  antidifto-tetano-polio  antimeningite meningococcica  antipneumococcica  antinfluenzale nel periodo epidemico  antiencefalite giapponese (quest’ultimo in base al tempo di permanenza, alla stagione, alla visita in aree rurali, ecc.)  antirabbico pre-esposizione, anticolerico per os. • America Meridionale e Centrale  antiepatite A-B antidifto-tetano-polio  antimeningite meningococcica  antitifico  Febbre gialla (zone amazzoniche)  anticolerico per os. • Sud Est Asiatico, Oceania  antiepatite A-B

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 antidifto-tetano-polio  antimeningite meningococcica  antipneumococcico  antiinfluenzale nel periodo epidemico  antiencefalite giapponese (quest’ultimo in base al tempo di permanenza, alla stagione, alla visita in aree rurali, ecc.)  antirabbico pre-esposizione  anticolerico per os. Per tutte le destinazioni dove ci possono essere rischi signifi• cativi per la salute particolarmente nei paesi in via di sviluppo, dove la disponibilità locale di trattamenti specifici non è certa, occorre sempre avere con sé una piccola farmacia da viaggio, dotata di scorte di farmaci ed altro materiale sanitario sufficienti per fronteggiare tutte le prevedibili necessità per l’intera durata del viaggio. Questa farmacia includerà i farmaci di base per trattare i comuni disturbi, gli strumenti di pronto soccorso ed ogni altro specifico presidio sanitario come siringhe ed aghi di cui si può avere bisogno. Ricordiamo anche che le nostre Rappresentanze diplomatico-consolari all’estero, hanno il compito di assicurare la tutela degli interessi italiani fuori dai confini nazionali ed offrono diversi servizi. Questa tutela riguarda, ad esempio, i casi di decesso, incidente, malattia grave, arresto o detenzione, atti di violenza, assistenza in caso di crisi gravi (catastrofi naturali, disordini civili, conflitti armati, ecc.), rilascio di documenti di viaggio d’emergenza causa perdita o furto del passaporto. Sulla scheda informativa del sito www.viaggiaresicuri.it, relativa al Paese interessato dal nostro viaggio, sono inseriti tutti i recapiti, dall’indirizzo ai numeri di telefono, delle Ambasciate o uffici consolari italiani, che si trovano in quel Paese. Prima di partire è utile anche registrare il nostro viaggio sul sito www. dovesiamonelmondo.it indicando le generalità, l’itinerario del viagDi che colore è la pelle di Dio

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gio ed un numero di cellulare. Grazie alla registrazione del viaggio, l’Unità di Crisi potrà stimare in modo più preciso il numero di italiani presenti in aree di crisi, individuarne l’identità e pianificare gli interventi di assistenza qualora sopraggiunga una grave situazione d’emergenza. In tali circostanze di particolare gravità è evidente l’importanza di essere rintracciati con la massima tempestività consentita e - se necessario saranno assicurati i primi soccorsi. E’ possibile effettuare la segnalazione del nostro viaggio non prima di 30 giorni dalla data di partenza e comunque si potrà comunicare qualsiasi modifica anche durante la permanenza in un paese estero. I dati saranno automaticamente cancellati 2 giorni dopo la data di fine viaggio indicata. Oltre che via internet, ci si può registrare anche con il telefono cellulare, inviando un SMS con un punto interrogativo ? oppure con la parola AIUTO al numero 320 2043424, oppure telefonando al numero 011-2219018 e seguendo le istruzioni.

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I progetti in corso

Progetti di cooperazione e di sostegno del Masci in corso di realizzazione, attraverso la Onlus: Eccomi

Burundi      

Atelier per ragazze con handicap Garderies Adozioni scolastiche Centro Giovani di Muyinga (CDJM), Laboratorio fotografico, Sostegno scolastico ai ragazzi batwa

Burkina Faso  Sostegno al progetto “Amici di Tampellin” per la realizzazione della Maternità  Formazione dei capi scout in Burkina Faso  Ristrutturazione del Centro Guide a Ouagadougu

Togo 

Centro sanitario Di che colore è la pelle di Dio

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Diagnosi e cura del diabete e dell’ipertensione

Zambia  ka

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Tutela e scolarizzazione nel quartiere Kaunda Square a Lusa-

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Profilo del quaderno di strade aperte

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compositionBF

N° 9 - Anno 54 - Settembre 2012 Presidente Nazionale Riccardo Della Rocca Segretario Nazionale Alberto Albertini Direttore Responsabile Pio Cerocchi Direttore Giovanni Morello Stampa T. Zaramella Real. Graf. snc Caselle di Selvazzano (PD) email: tzaram00@zaramella.191.it

Editore, amministrazione e pubblicità Strade Aperte coop a R.L. via Picardi 6 - 00197 Roma tel. 06.8077377 fax 06.8077647

Iscritta al Registro degli Operatori di Comunicazione al n° 4363 Abbonamento a 11 numeri e 3 Quaderni di Strade Aperte: Euro 20,00 da versare sul ccp n° 75364000

intestato:

Strade Aperte coop a R.L. via Picardi 6 - 00197 Roma

Iscritto al Tribunale di Roma al n° 6520/59 del 30/05/1959

Associato all’USPI Tiratura: copie 5.000 Questo numero è stato spedito dall’Ufficio postale di Padova Centrale in data:

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Di che colore è la pelle di Dio STAZIONE CURIOSITA’ LA WORLD CONFERENCE: DALLE RADICI MONDIALI DELLO SCOUTISMO ALLA WORLD CONFERENCE

STAZIONE SPIRITUALITA’ DI CHE COLORE È LA PELLE DI DIO

STAZIONE CONSAPEVOLEZZA LA GLOBALIZZAZIONE

STAZIONE PRATICA SEMI di NOVITA’

APPENDICE

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