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AFFIDIAMO ALLA BELLEZZA IL POTERE DELL’ARMONIA In un momento difficile anche per le Marche dal punto di vista sanitario, turistico e dei trasporti, in seguito al rapido diffondersi del Coronavirus, il nostro periodico controbatte la preoccupazione generale della popolazione con le solite armi: la valorizzazione di arte e cultura, costumi e tradizione, storia e aneddoti. “La bellezza salverà il mondo”, diceva il principe Miškin ne libro “L’idiota” di Dostoevskij. Alla bellezza delle Marche affidiamo il potere di ricomporre in un’unità armonica il disordine e la paura che provengono della realtà. Perché non c’è niente come la bellezza in grado di attraversare i secoli di un territorio, di una regione, di muovere le coscienze, di parlare un linguaggio universale nel tempo e nello spazio. Leggo che il motivo è anche biologico: di fronte a qualcosa di bello il cervello umano attiva dei meccanismi di riconoscimento che le nuove scoperte in ambito neuro-estetico hanno evidenziato. Un motivo in più per visitare luoghi, monumenti, musei, tra la forza e la creatività degli umani che non smettono di sorprenderci.
ALESSANDRO MOSCÈ
WHY MARCHE | 7
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S O M M A R I O
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A GORÀ 10 VINCITRICE X FACTOR 13
A NIMA 26 LA MADONNA DI TUTTI I SANTI 30 LA PASSIONE DI RAFFAELLO 32 BELLEZZA SIMBOLO DELL’AMORE 36 MAPPAMONDO DELLA PACE 38 L’IMPRONTA DI SISTO V 40 ITINERARIO DELLA BELLEZZA (3.0) 44 SIMBOLI TEMPLARI
P RIMO
PIANO
46 DONNE E MESTIERI D’UN TEMPO
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I PERCORSI DI WHY MARCHE
Direttore Responsabile: Alessandro Moscè REDAZIONE Editor Silvia Brunori Fabrizio Cantori Alessandro Carlorosi Stefania Cecconi Ilaria Cofanelli Giuseppe Riccardo Festa Stefano Longhi Alessandra Lucaioli Tommaso Lucchetti Marketing & P.R. Raffaella Scortichini r.scortichini@whymarche.com
M ENTE 54 MARCHIGIANI NEL MONDO 56 MAESTRE E MAESTRI DEL LAVORO
Concept: Theta Edizioni info@whymarche.com
P ERCHÉ 60 VISIT INDUSTRY MARCHE
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S PIRITO
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64 PAESAGGIO MISTERIOSO 66 TANTI RACCONTI, TANTE VITE 68 DEL MONACO, IL SOLE DEPOSTO 70 BARBANERA 72 EVENTI
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A GORÀ
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di Alessandro Carlorosi
SOFIA TORNAMBENE Giovanissima, energica, sorridente, nata a Civitanova Marche 17 anni fa, sogna di cantare per essere felice e ha le idee chiare grazie alla sua umiltà, alla guida dei genitori, dei giudici e del suo coach Sfera Ebbasta. Con un percorso lungo, a tratti impegnativo, si è aggiudicata l’edizione di XFactor 2019. L’ abbiamo intervistata per “Why Marche”.
P
er Sofia XFactor 2019 è stata una grande occasione di crescita che l’ha proiettata nell’olimpo della canzone italiana e internazionale grazie al duetto con la star internazionale Robbie Williams. Giovanissima eccellenza di questa terra che dimostra ancora di dare i natali a personaggi di grande valore culturale, artistico, sportivo e in molti altri ambiti. Un giovane talento che offre un esempio bello e costruttivo incoraggiando i suoi coetanei che desiderano avverare come lei sogni e passioni. Il percorso artistico di Sofia è stato autentico e la spinta è arrivata dalla sua determinazione a raggiungere il sogno di cantare. Un sogno costante che anima ogni giorno della sua vita e guarda al futuro. Sofia è iscritta all’Istituto tecnico per grafico pubblicitario e la musica è la sua passione da quando era piccolissima. Approda a XFactor per far diventare il suo sogno realtà, e tra i 40.000 aspiranti, dall’Italia e dall’estero, vince l’edizione numero tredici aprendo le porte alla carriera artistica che tanto desiderava. Ai casting nazionali di XFactor 2019 hanno partecipato soprattutto ragazzi e tra questi molti minorenni provenienti principalmente dal centro e dal sud Italia pronti a dimostrare il loro talento e rivendicare le loro aspirazioni nel mondo della musica. Abbiamo seguito XFactor 2019 in diretta su Sky Uno, in replica su Tv8 e in streaming su Now Tv nel lungo percorso dal 24 ottobre al 12 dicembre conoscendo la giovane Sofia che con il numero “appiccicato” sulla maglietta ha superato i Casting, le 3 sessioni di Audizioni, i 2 Bootcamp per accaparrarsi una delle 5 sedie a disposizione, poi la serata Home Visit che dava accesso ai 6 Live show e infine la semifinale per arrivare alla finalissima seguita da oltre un milione di spettatori che si è trasformata in festa per la giovanissima Sofia e per tutte le Marche. Al Teatro Rossini di Civitanova Marche, lo scorso 21 febbraio c’è stata la grande festa per Sofia. Un evento organizzato dall’assessorato alla Cultura del Comune di Civitanova Marche per il saluto alla giovane artista ringraziandola per l’ulteriore possibilità di portare la città alla ribalta.
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A GORÀ
12 dicembre 2019, forum di Assago, diretta Sky, finale di X Factor 2019. Che ricordi hai quella magica serata?
La settimana della finale è stata la più bella, ho semplicemente pensato a divertirmi e a godermi ogni istante cercando di imparare da ogni persona con cui lavoravo dando sempre il massimo. La finale è stata a dir poco magica e quando ho sentito il mio nome non riesco a spiegare le emozioni che provavo perché erano troppo forti.
Hai detto che il tuo sogno è cantare per essere felice. Cos’è per te la musica? La musica è la mia vita, l’unica cosa che mi fa sentire libera di esprimermi e di essere me stessa, una cosa senza la quale non potrei vivere.
Cosa ti ha regalato oltre alla vittoria e al contratto il lungo percorso di X Factor13?
Mi ha fatto crescere moltissimo, non solo dal punto di vista professionale ed artistico, ma anche dal punto di vista umano, perché mi ha fatto crescere e maturare, rendendomi più sicura e decisa su chi voglio essere. Ogni giorno che passava faceva crescere in me una voglia matta di vivere di musica. È sicuramente stato un grande inizio.
Cosa hai trovato al tuo rientro nella tua città e nelle Marche?
È stato un rientro veramente bello e caloroso, perché ho sentito il sostegno di tutte le Marche.
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Ph. Virginia Bettoja
Le Marche è una regione veramente bellissima, abbiamo molto da offrire, siamo persone molto impegnate nel lavoro ma anche nelle nostre passioni. Non è vero che i ragazzi di oggi non hanno sogni, occorre sostenerli.
Chi ti ha sostenuto in questa avventura?
La mia famiglia mi ha sempre sostenuto nel mio percorso ad andare avanti, nonostante le difficoltà e i momenti no. Mi hanno incoraggiata anche in questo ultimo periodo di XFactor che non è stato facile . Stavo facendo un’esperienza meravigliosa, attorniata da grandi professionisti, mentre i genitori a casa si trovavano soli senza
avere notizie di me. Infatti non avevamo nessun contatto telefonico o messaggi, eppure mi hanno detto di fare il provino e abbiamo superato direi egregiamente anche questo. Anche i miei amici e parenti mi hanno sostenuta venendo ai live. Sentendo le loro urla e vedendo gli striscioni e le magliette che rappresentavano quella che indossavo alle audition e che poi ho utilizzato per la performance di FIX YOU. Tornando a casa ho saputo che anche tutti i civitanovesi hanno tifato per me. Mi fa piacere perché tutti mi fermano per complimentarsi, anche i bambini. Il mio pubblico è vasto.
Con la tua straordinaria vittoria e il tuo talento cosa porti in questa regione e nella tua Civitanova Marche che non smette di sfoderare talenti dallo sport alla cucina passando per la musica?
Per le Marche è stato un anno veramente importante. La Lube Volley campione del mondo, mi ha invitato alla loro festa e sono stata veramente felice. Così anche Simone Scipioni, vincitore di MasterChef, è stato molto carino e mi ha invitata a pranzare presso la Locanda Fontezoppa.
Cosa ti piace di questa regione e della tua città dove sei nata e cresciuta?
La nostra regione è bella, non ha nulla da invidiare a tante altre cittadine. Abbiamo il mare, la montagna a pochi chilometri e si mangia bene.
Come stai costruendo il futuro?
Ora mi sto impegnando al massimo per continuare il mio percorso musicale, a breve alcune novità. Purtroppo non posso svelare di più…..
Ti senti di dare un messaggio ai giovani della tua età che attraverso la musica si divertono e magari sognano un futuro da professionisti come te? Sono contenta di essere stata un punto di riferimento per molti dei miei
coetanei, il messaggio che volevo dare infatti è proprio quello di credere in ciò che si ama e di impegnarsi al massimo per far sì che si avveri, nel mio caso è stato la musica ma potrebbe essere qualsiasi cosa, e l’importante è farlo accompagnati dalle persone che ti vogliono bene ed essere felice.
Tra i tanti desideri hai espresso quello di duettare con Marco Mengoni. Ti piacerebbe partecipare alla prossima edizione di Risorgimarche e magari condividere il palco proprio con Mengoni già protagonista dell’edizione 2019? Si mi piacerebbe moltissimo, anche quando ho duettato con Tiziano Ferro e Robbie Williams per me è stato un onore, grandi emozioni.
Cosa vi siete detti con Robbie Williams e soprattutto lo hai invitato nelle Marche?
Lui è stato molto carino con me come anche Tiziano Ferro. Mi ha fatto tantissimi complimenti. Penso che non scorderò mai questa meravigliosa esperienza. Ph. Virginia Bettoja
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A NIMA
I V I T S E G 5 SUG I C I R O T CAFFÈ S a Tessadori
Photos Andre
PESARO
ANCONA
CIVITANOVA MARCHE FERMO
ASCOLI PICENO
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I PERCORSI DI WHY MARCHE
I caffè storici nelle Marche non sono semplici locali, ma dei veri gioielli di arte che oltre ad arredi, affreschi e pitture offrono anche delle gustose specialità, ciascuna con proprie peculiarità a seconda della zona di appartenenza. Le stanze di questi locali hanno visto personaggi famosi, ascoltato grandi discussioni e preso parte a importanti decisioni. Visitare i caffè storici nelle Marche non è soltanto, quindi, l’occasione per degustare delizie del posto e concedersi una sosta nel cuore di città d’arte e di cultura ma, è anche la possibilità di entrare in dei veri e propri “musei” dalle ambientazioni eleganti e raffinate. Tanti i locali di prestigio che raccontano la storia delle Marche.
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A NIMA
CASETTA VACCAJ Caffè Nel centro storico di Pesaro, città natia del Maestro Gioacchino Rossini, si trova lo storico Casetta Vaccaj Caffè, adiacente a Palazzo Mosca, sede del museo. Estremamente caratteristici sono gli arredi dell’interno e nei periodi miti il luogo resta gradevole per la sosta nei tavoli esterni. Un punto di ritrovo particolarmente apprezzato per l’ottima selezione di vini e i raffinati cocktail. Non manca anche la gastronomia e degna di nota è la “cena luxury gourmet” in cui il protagonista è l’abbinamento di pietanze gourmet con vini pregiati. E sempre per gli appassionati di vini ma non solo, al di sotto del livello stradale sono ubicate le cantine dove è possibile prenotare una degustazione in un’ambientazione unica e suggestiva che rappresenta un vero e proprio tuffo nel passato. I camminamenti sotterranei risalenti al 1200. Inoltre, in occasione di particolari periodi, si prestano da sfondo all’organizzazione di mostre d’arte contemporanea.
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I PERCORSI DI WHY MARCHE
U n punt o di ri t rov o p ar ti co l arm en t e app r ezz at o p er l ’o t ti m a sel ezi o n e di vini e i raf fi n ati co ck t ai l .
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A NIMA
Il Caffè Giuliani si trova alla fine di Corso Garibaldi ad Ancona ed allieta le mattine degli anconetani dai primi anni del ‘900 con i suoi prodotti di caffetteria, cocktail e pasticceria di alta qualità. Successivamente si è trasformato in punto di aggregazione specie per l’aperitivo e per il dopocena della movida. Dal 1995 offre anche servizi di ristorazione: pizzeria, ristorante e catering con piatti tipici, specialità locali, ma anche etniche, vantando inoltre di una vasta scelta tra oltre 500 etichette. Il locale si trova in un edificio dell’800, l’interno si compone di tre ampie sale climatizzate e si presenta in stile classico con mobilio in legno decorato artigianalmente. I pavimenti sono di marmo e granito. In estate si ha la possibilità di ordinare piatti di terra e di mare anche all’aperto sulla visione del suggestivo porto di Ancona. E proprio per la sua posizione strategica, molto vicino tra l’altro anche al Teatro delle Muse, è particolarmente apprezzato da personaggi illustri, cantanti ed attori famosi.
Caffè Giuliani
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I l l o cal e si t r ova i n u n e di fi ci o de ll’ 8 0, mo lto vi cin o tr a l’ altr o a n ch e al Teatro del l e Mus e , è par ti c o l arm e n t e ap p r ez z a to da p er so n a g g i illust ri, ca ntanti ed at t o ri f amo si .
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Caffè Maretto
Il Caffè Maretto si trova a Civitanova Marche, in Piazza XX Settembre, sotto il loggiato di uno dei palazzi più antichi della cittadina balneare. A confermarne la storicità, la presenza al suo interno di reperti risalenti al 1400 ed addirittura la Bolla di Papa Pio II con cui si ordina la costruzione di quello che oggi è Palazzo Sforza, sede del Comune. Il nome Maretto nasce da Maretto Parmigiani, ultimo proprietario
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storico del locale fondato dal nonno e chiuso nel 1975. Dopo la sua riapertura nel 2001 ad opera della show girl Natasha Stefanenko, varie gestioni ed alcuni anni di inattività è stato riaperto nel settembre del 2014, e la gestione è attualmente affidata alla pasticceria dei fratelli Leonardi di Montegranaro. Gli interni sono raffinati ed eleganti, arricchiti dai bellissimi disegni realizzati su bozzetto di Milo Manara, famoso fumettista e disegnatore italiano. Il locale è aperto per colazioni dove ovviamente non manca una pasticceria ricercata ed artigianale, ed anche per ristorazione a pranzo.
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A co nf erm ar n e l a st o ri ci t à , l a p r esen z a al suo i n t er n o di r ep er ti ri sal en ti al 14 00...
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Gran Caffè Belli
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Il Gran Caffè Belli è lo storico punto di incontro e di riferimento della città di Fermo. La struttura ubicata in Corso Cefalonia e la nuova gestione è stata affidata a Claudio Cognigni, un giovane che dopo un periodo di permanenza in Australia ha preferito rientrare. Apre ai primi del ‘900, per volere della storica famiglia fermana e dal 2016 ha riaperto i suoi battenti in un ambiente rinnovato, dalle linee luminose, essenziali ed eleganti e con prevalenza dei colori bianco e nero con l’intento di promuovere l’accoglienza, il gusto e l’arte. Spesso vengono organizzati eventi di vario tipo, con particolare attenzione verso l’arte e la musica live alle quali si presta in particolar modo il bellissimo terrazzino panoramico dove potersi intrattenere gustando piatti del territorio e curati nei minimi dettagli, capaci di incontrare i gusti di tutti. Ma la sosta è gradevole anche per un semplice caffè o colazione, magari nell’ambito di una passeggiata entro le mura cittadine alla visita delle piscine romane, del duomo, della piazza rinascimentale e dello splendido Teatro dell’Aquila.
… .p unto di inco ntro e di riferimen to d e lla città di Fer mo . WHY MARCHE | 23
A NIMA Conosciuto come “salotto delle idee”, il Caffè Meletti venne inaugurato nel maggio del 1907 ad opera di Silvio Meletti che acquistò il complesso ad un’asta pubblica. Esso si inserisce nello scenario cinquecentesco della prestigiosa Piazza del Popolo ad Ascoli Piceno e rappresenta una delle rare espressione di stile liberty nelle Marche. Il Caffè Meletti è rimasto nello stato originario se non per qualche piccola rivisitazione: la facciata si compone di tre livelli e si presenta di color rosa antico e l’interno con arredi originali, dalle poltrone in velluto verde e tavoli rotondi dai piani di marmo ai grandi specchi a parete, lampadari in ottone e vetro di murano fino alle preziose decorazioni floreali. Il soffitto della sala del piano terra è dedicato all’anisetta ed affrescato da Pio Nardini tra il 1906 e il 1907 con raffigurazioni di putti tra i rami di anice. Nel 1981 è stato dichiarato ‘Locale di interesse storico e artistico’ dal ministero dei Beni culturali e Ambientali. Dopo anni di chiusura, nel 1996 il locale è tornato a splendere e certamente la specialità del posto è l’Anisetta Meletti, un liquore a base di anice ancor oggi prodotto seguendo la ricetta originale di Silvio Meletti, ottimo se bevuto fresco ed accompagnato da un chicco di caffè, la cosiddetta “mosca”.
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Caffè Meletti
“Lo cale di in t er e ss e s to ri c o e ar ti s ti c o ”.
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A NIMA
IL PRODIGIO DELLA MADONNA DEL DUOMO DI ANCONA Una città in preghiera per la salvezza dall’invasione napoleonica
S
ulla sommità del colle Guasco, ad Ancona, sorge il Duomo di San Ciriaco. La chiesa medievale, alto esempio di arte romanica a cui si mescolano elementi bizantini e gotici, domina dall’alto la città dorica e il suo golfo. Luogo di culto dedicato a San Ciriaco, il duomo di Ancona è uno dei simboli della città: grazie alla sua posizione sulla cima del colle che guarda il mare, ha rappresentato e rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per i naviganti, come un faro che dall’alto infonde, a chi proviene dal mare, una forte energia spirituale. Oltre ad essere una delle chiese più interessanti delle Marche dal punto di vista architettonico, il duomo è molto importante anche per la devozione dei fedeli ad un piccolo quadro 26 | WHY MARCHE
raffigurante la Madonna. Il piccolo dipinto, che misura non più di 40 centimetri, è oggi conservato nella cripta della navata destra del duomo, all’interno dell’edicola marmorea realizzata dall’architetto Luigi Vanvitelli. La devozione per questa immagine sacra ha inizio nel 1796, un periodo critico per la storia di Ancona e per l’intera Italia. Napoleone Bonaparte avanza trionfalmente e il destino per la città dorica sembra ormai segnato. Prima di arrivare all’evento miracoloso che riguarda la Madonna di San Ciriaco, occorre tornare indietro per raccontare come e perché questo dipinto sia giunto ad Ancona. Si narra che nel 1615, un capitano veneziano di nome Bartolo, durante una notte di burrasca in mare vide cadere in acqua, © Ph. A. Tessadori
di Stefania Cecconi
trascinato via dalle forti correnti, suo figlio. Disperato, l’uomo si rivolse alla Madonna pregandola di salvarlo. Le preghiere del capitano vennero ascoltate: il giovane sopravvisse miracolosamente e come segno di gratitudine e riconoscenza il padre decise, una volta approdato nel porto di Ancona, di donare al duomo questo semplice quadro. La Madonna raffigurata nel dipinto è ritratta con una corona d’oro, un mantello azzurro e il volto leggermente inclinato verso il basso con gli occhi semichiusi. Con il tempo la Madonna è diventata patrona della città di Ancona e l’immagine ha preso il nome di Madonna di tutti i Santi. Trascorrono gli anni e quando ad Ancona giunge notizia dell’arrivo delle truppe napoleoniche, gli abitanti, preoccupati
per il loro destino, iniziano a pregare implorando interventi divini. Napoleone non solo invaderà la città di Ancona, ma con il suo esercito avrà pieno potere, conferitogli dal Papa, di appropriarsi secondo propria discrezione delle numerose opere d’arte conservate nei luoghi di culto. Il generale Bonaparte, infatti, vittorioso nella sua campagna italiana, costringe il 20 giugno 1796 papa Pio VI a firmare l’armistizio di Bologna, permettendo così l’occupazione di Ancona, insieme alla stessa Bologna e Ferrara, da parte dell’esercito francese. L’arrivo delle nuove idee dell’illuminismo e del giacobinismo e la liberazione dal dominio pontificio portano ad un primo momento di euforia in una fetta di popolazione, sebbene presto ci si rese conto che per sostenere i costi della WHY MARCHE | 27
A NIMA guerra i francesi avrebbero razziato tutti gli edifici cristiani dalle loro opere d’arte, compreso il quadro della Madonna del Duomo. Quando l’esercito francese giunge in città, gli abitanti di Ancona, impauriti dalla notizia delle scorribande francesi, sono riuniti nel duomo in preghiera davanti al dipinto. Mentre chiedono che loro città sia risparmiata, i fedeli notano un cambiamento nel volto della Madonna raffigurata nel piccolo quadro. Gli occhi appaiono aperti e rivolti verso i fedeli, la bocca si apre in un sorriso rassicurante. É il 25 giugno 1796. La notizia del miracolo si sparge: fedeli e curiosi accorrono numerosi. Anche coloro che condannavano i primi astanti di facile credulità o suggestione dovettero ricredersi. Il miracolo si ripeterà per molte volte fino al febbraio del 1797. A fronte dei numerosi testimoni, le autorità avviano un’inchiesta ufficiale, avvalendosi di notai, perizie scientifiche e testimonianze. Dalle indagini non risulta nessuna alterazione del dipinto e il miracolo viene ufficialmente riconosciuto. Tutta la documentazione è ancora oggi conservata negli archivi. Il 10 febbraio 1797 Napoleone giunge ad Ancona, e avvisato di ciò che sta accadendo, raggiunge il duomo con l’intenzione di fermare le preghiere dei fedeli distruggendo quel dipinto che aveva unito e coalizzato l’intera città. Una volta entrato, prende in mano il dipinto, osserva la collana di perle e pietre preziose posta come corona all’immagine della Madonna e, quando sta per afferrarla, il generale si mostra titubante, diventa pallido in volto e, lasciando inaspettatamente il quadro, ordina che venga coperto con un drappo. Che anche lui sia stato testimone del miracolo? Intervento divino o una mossa strategica del generale? Secondo alcuni storici, infatti, i francesi volevano evitare di inasprire gli attriti con la popolazione cattolica. Inoltre, sembrerebbe che la salvaguardia del dipinto fu sostenuta da un esponente filofrancese, che, si narra, anni addietro aveva rimosso un’immagine sacra apposta sulla facciata di un’abitazione da lui acquistata causando forti reazioni nella popolazione. Quello che è certo è che Napoleone lascia il dipinto al suo posto e il fenomeno prodigioso della Madonna del Duomo assume un’eco vastissima generando un ampio fenomeno devozionale, amplificato dalla paura dell’occupazione napoleonica. In quell’anno di sconvolgimenti per l’Italia, furono contate centinaia di immagini, quasi tutte mariane, che muovevano 28 | WHY MARCHE
© Ph. A. Tessadori
gli occhi o mutavano forma e colore. I prodigi avvennero in chiese, case private, conventi e in luoghi aperti dello stato pontificio. Dopo questa prima apparizione avvenuta nel Duomo di San Ciriaco, si stima che complessivamente ad assistere ai miracoli mariani del 1796 furono circa mezzo milione di persone. Ancora oggi, a Roma, Ancona, e in altre città, lapidi e iscrizioni ricordano i miracoli avvenuti nell’anno dell’invasione napoleonica nello stato pontificio. Il 13 maggio 1814 papa Pio VII incoronò il prodigioso quadro e la devozione per l’immagine della Madonna proseguì ininterrotta, almeno fino al 17 dicembre 1936, quando il dipinto venne rubato. Il quadro prodigioso fu ritrovato un mese più tardi, spoglio dei suoi preziosi ornamenti, nella cappella di Tor Mezzavalle ad Albano Laziale. Tornò ad Ancona il 31 gennaio 1937.
A NIMA
RAFFAELLO E LA FORNARINA: UN AMORE IMPOSSIBILE
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di Alessandra Lucaioli
Come Beatrice per Dante e Laura per Petrarca, anche Raffaello ebbe la sua musa ispiratrice, una popolana che ispirò molti dei suoi dipinti e a cui fu espressamente dedicato il suo ultimo capolavoro: la “Fornarina”. Una donna che amò profondamente e da cui fu, a sua volta, amato sebbene, come tutti gli amori impossibili, la loro relazione non culminò con un lieto fine ma solo con il dolore di una morte inaspettata e di un amore stigmatizzato e non riconosciuto dalla società.
L
a passione ardente tra Raffaello Sanzio e la sua amata è nascosta tra i chiaroscuri delle tele, nelle pieghe dell’incarnato della sua modella, nella forma sinuosa dei capelli che le incorniciano il viso. Il pudore e l’eros di una tra le più celebri e tragiche storie d’amore sono racchiusi nei particolari di ogni dipinto in cui l’urbinate ritrae una figura femminile tanto era il desiderio di urlare al mondo l’intensità del suo amore per Margherita Luti. Questo pare fosse il nome reale della donna che, poco più che adolescente, stregò, al primo sguardo, il cuore di Raffaello; “Fornarina”, oltre ad essere il titolo del dipinto che le è dedicato, era invece il soprannome che le venne attribuito, forse perché figlia del fornaio Luti o forse, stando alle dicerie, perché i termini fornaio/forno venivano utilizzati per le cortigiane d’alto bordo. Diverse sono le ipotesi relative al loro primo incontro, avvenuto al tempo in cui Raffaello fu incaricato di affrescare la villa di Agostino Chigi, ovvero villa Farnesina, nella zona di Trastevere. La versione più romantica narra del fatale incrocio di sguardi che i due amanti ebbero modo di scambiarsi durante una pausa dell’urbinate dai lavori nella villa. Galeotta fu la passeggiata nei pressi di via Santa Dorotea quando il fato volle che il pittore, volgendo gli occhi in alto, rimanesse affascinato da una donna intenta a pettinarsi i capelli alla finestra del civico 20. Più piccante e torbida è, invece, la versione fornita da Giorgio Vasari, pittore e celebre storico dell’arte, che racconta di uno sfrontato e malizioso Raffaello, incapace di togliere gli occhi di dosso dalla ragazza svestita e intenta a bagnarsi nelle acque del Tevere. Che si voglia far trionfare la galanteria o la carnalità, poco importa: fu un colpo di fulmine fatale per il pittore che, da quel momento, pretese sempre la ragazza come modella per le sue opere. E non solo: pare che nonostante il suo temperamento solitamente affabile e pacato, l’urbinate fosse arrivato a minacciare l’amico e committente Agostino Chigi di lasciare incompiuti gli affreschi a Villa Farnesina se questi gli avesse impedito di lavorare con Margherita vicino. Alla passione travolgente che li colse fece però da contraltare l’irriverenza del destino. La più accreditata ricostruzione dei fatti storici sostiene che il cardinale Bibbiena, grande estimatore del nostro pittore, volle combinare nel 1514 l’unione coniugale tra sua nipote Maria e Raffaello. Un matrimonio dal quale egli non sarebbe potuto fuggire né avrebbe potuto sottrarsi sebbene non volesse tradire l’amore per Margherita. Ripetuti malesseri fisici porteranno però alla
prematura scomparsa della nipote del cardinale, che verrà seppellita dinanzi agli occhi di tutti nel Pantheon a Roma. La sorte sembra strizzare l’occhio ai due amanti che, tuttavia, non potevano permettersi di vivere alla luce del sole il loro amore, essendo di umili origini lei ed essendo lui destinato a ben altre unioni. Forse, il solo ad essere a conoscenza della relazione era Giulio Romano, artista e allievo della scuola di Raffaello, amico e protettore della musa del suo maestro. Lo stesso che ricoprì un ruolo di primo piano nella famosa “vicenda dell’anello”: pare infatti che i due amanti si fossero sposati in gran segreto e che l’anello al dito della modella, nel celebre dipinto a lei dedicato e denominato, appunto, la “Fornarina” ne fosse la prova schiacciante. Quando però a trentatré anni, nel Venerdì Santo del 6 aprile 1520, l’artista fu trovato morto nel letto della sua Margherita, i suoi allievi, e in particolare il suo erede spirituale Giulio, cancellarono l’anello di rubino dal dipinto per evitare che la morte del pittore potesse essere oscurata dall’ira e dallo stigma dei committenti, primo fra tutti quell’Agostino Chigi, zio della sua promessa sposa. Dalle cronache del tempo le cause del decesso non furono chiare ma l’ipotesi più accreditata è quella di polmonite fulminante. E fu nel corso del funerale dell’artista che si consumò l’ultimo atto di una tragedia che potrebbe essere stata scritta dalla penna di Shakespeare. Raffaello fu seppellito nel Pantheon accanto a Maria, quella che avrebbe dovuto essere la sua sposa. Margherita, devastata dal duplice dolore di un lutto improvviso e di un amore che la società non era disposta a riconoscere, pare che si gettò in mezzo alla folla per dare l’ultimo saluto al suo amato ma venne picchiata, riempita di ingiurie e sputi, cacciata dal Pantheon e quindi allontanata per sempre dal suo Raffaello. E, ancora una volta, fu Giulio Romano che, nel tentativo di salvarle la vita, la condusse nel vicino convento delle suore di Santa Apollonia dove Margherita si ritirò a vita monastica fino alla fine dei suoi giorni, lasciando nelle mani delle sorelle l’anello che sanciva l’unione con il suo amore perduto. Se la passione che legò i due amanti pagò, all’epoca, lo scotto del silenzio e del segreto, oggi potremmo dire che questo sacrificio non fu vissuto invano: a urlare al mondo la grandezza del loro amore resta la magnificenza delle tele del pittore, in ciascuna delle quali è possibile intravedere il dolce e l’amaro di un amore a cui neanche la morte può porre la parola fine. WHY MARCHE | 31
A NIMA
SASSOCORVARO, Il borgo di Sassocorvaro conserva le reliquie di San Valentino
Š Ph. A. Tessadori
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Un borgo di poco meno di quattromila anime, arroccato su un colle che domina la valle del Foglia, unisce la bellezza paesaggistica del territorio con la storia: in questo paese, infatti, sono conservate le reliquie del Santo protettore degli innamorati, San Valentino. Scopriamo quali leggende legano questo suggestivo borgo del pesarese al Santo.
di Ilaria Cofanelli
tra BELLEZZA e LEGGENDA
A SPASSO PER SASSOCORVARO, TRA IL LAGO DI MERCATALE E LA ROCCA UBALDINESCA
Il borgo cittadino è circondato dalla Rocca Ubaldinesca, databile al 1475, dalla singolare forma a testuggine. Tale struttura, realizzata dal celebre architetto Francesco di Giorgio Martini, è il primo esemplare di fortificazione nato con lo scopo di proteggere il territorio dalla bombarda, arma che in quel tempo fece la sua prima apparizione. Trovano collocazione all’interno della fortezza la pinacoteca, che vanta la presenza di oltre diecimila opere di artisti celebri di età umanistica e rinascimentale, da Piero della Francesca a Andrea Mantegna, da Lorenzo Lotto a Raffaello Sanzio e il Museo Arca dell’Arte, sorto per ricordare l’episodio avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale, in cui le opere conservate nella rocca furono nascoste ai nazisti per evitare che venissero trafugate da questi diretti verso la Germania dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. WHY MARCHE | 33
A NIMA A dare il benvenuto a quanti si apprestano a visitare la cittadina è il suggestivo lago di Mercatale, posto tra Sassocorvaro e il paese di Mercatale, appunto. Si tratta di un bacino d’acqua artificiale, chiuso da una diga sul fiume Foglia e sorge alle pendici del colle su cui si innalza il centro storico di Sassocorvaro. Il luogo si presta a essere la meta ideale per chi voglia trascorrere qualche momento di relax: pescatori e canottieri affollano le sue rive, sulle quali, grazie al parco attrezzato con bar e ristoro, è possibile organizzare scampagnate e pic-nic. Panchine, arredi, vialetti curati non fanno che rendere questo luogo ancora più accogliente.
LA CHIESA DI SAN VALENTINO E LA DIATRIBA CON TERNI: DOVE SONO DAVVERO CONSERVATE LE SPOGLIE DEL SANTO?
L’Oratorio della Santissima Trinità di Sassocorvaro, meglio conosciuto come la Chiesa di San Valentino, è incastonato in una suggestiva scalinata, stretta e lunga, che porta fino alla parte del borgo più bassa, da cui è possibile scorgere il luccichio scintillante dell’acqua del lago di Mercatale. Dopo aver percorso parte di tale scalinata, ecco che appare la facciata in laterizio della Chiesa di San Valentino, non facilmente riconoscibile, in realtà, essendo compressa tra le altre case del borgo. L’edificio fu eretto nel 1722, ma, purtroppo, nel 1781 il terremoto che colpì il territorio contribuì a modificare del tutto la struttura e gli interni della stessa. Ma ciò che contribuisce a creare un alone di mistero, un’atmosfera di magia, è la leggenda che aleggia attorno al Santo che dà il nome alla chiesa, San Valentino. Qui, infatti, sono conservate le reliquie del Santo protettore degli innamorati, martire prete romano, in un’urna sigillata e autenticata dal vescovo agostiniano Pietro Alberto Ledrou nel 1696. Tale urna giunse nelle mani di Giovanni Battista Fabbri di Sassocorvaro nel 1726; fu poi aperta dal vicario apostolico Eustachio Carotti nel 1747. Insomma, i santi resti del Santo romano raggiunsero il borgo di Sassocorvaro tramite sigilli
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e atti ufficiali. Tale situazione ha creato una sorta di “contenzioso” con la città di Terni, la quale reclama a sua volta il fatto che le spoglie di San Valentino siano conservate nella città stessa. Degli studiosi hanno infatti supposto che, probabilmente, i Valentino fossero due persone diverse provenienti da Roma (un prete) e da Terni (un vescovo). Certo, le coincidenze ci sono e anche piuttosto strane: oltre a condividere lo stesso nome, i due santi vengono commemorati il 14 febbraio, hanno in comune la medesima data di martirio e lo stesso luogo, soffrono le stesse torture e la sepoltura avvenne per entrambi sulla via Flaminia. Monsignor Corrado Leonardi ha scritto un testo sulla questione, dal titolo “La Reliquia di San Valentino nell’Oratorio della SS.ma Trinità di Sassocorvaro”, arrivando alla conclusione che il Santo fosse uno, quello romano. Il suo culto raggiunse la cittadina umbra tramite la via Flaminia e qui venne “creato” un santo che, in realtà, esiste solo nella tradizione di Terni.
LA LEGGENDA DELLA ROSA DI SAN VALENTINO
Fermo restando, dunque, che i resti del Santo sono conservati a Sassocorvaro, nel borgo annualmente si celebra e si rende omaggio a tale figura. Esiste una leggenda legata al nome di Valentino secondo la quale questi voleva donare ai giovani innamorati che si recavano a fargli visita una rosa colta dal suo giardino. Con quel pensiero, l’amore tra i due veniva consacrato nel matrimonio ricevendo la benedizione divina. Sempre più diffusa divenne la storia di San Valentino, che si sparse velocemente su tutto il territorio italiano, tanto che il Santo si trovò a ricevere un numero sempre più numeroso di giovani che richiedevano la sua benedizione. Valentino decise, allora, di istituire una sola giornata, durante l’anno, in cui poter elargire tale benedizione nuziale. Oggi San Valentino, il Santo dell’amore, il protettore degli innamorati, è ricordato e celebrato il 14 febbraio, ma questa non fu la data scelta dall’uomo per concedere la benedizione nuziale, bensì quella in cui morì, nel 273, secondo un documento ufficiale della Chiesa del V-VI secolo. Il culto di San Valentino è ormai celebrato in tutto il mondo, ma a Sassocorvaro, durante quella festa che cade proprio a metà del mese di febbraio, si respira un’atmosfera speciale. Il borgo, infatti, ogni anno in questa giornata è pronto ad accogliere tante coppie che provengono dai paesi limitrofi per ricevere la speciale benedizione di San Valentino, durante una festa che si protrae per diversi giorni, allietata anche da mostre d’arte, visite guidate del borgo costeggiando la Rocca ubaldina, spettacoli teatrali. Un periodo dell’anno davvero magico, consacrato dall’amore e dalla bellezza.
© Ph. A. Tessadori WHY MARCHE | 35
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UN MAPPAMONDO DA RECORD Il mappamondo della pace di Apecchio Tra le colline intorno ad Apecchio è possibile veder spuntare d’un tratto tra gli alberi un grande mappamondo di 31 metri di circonferenza: è quello costruito quasi in sordina dall’ingegnoso carpentiere Orfeo Bartolucci. Il globo, intitolato dallo stesso autore, “Mappamondo della pace”, in auspicio alla pace tra i popoli, ha un diametro di 10 metri e per la sua eccezionale grandezza è stato riconosciuto come il mappamondo girevole più grande mai costruito, inserito nel Guinness World Record fino al 1998, quando è stata realizzata negli Stati Uniti una sfera di dimensioni maggiori. Questa mega costruzione lascia davvero a bocca aperta ma ancora più sorprendente è scoprire come è avvenuta la creazione del globo e delle altre meraviglie che lo circondano.
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Orfeo Bartolucci (1924-2011), figlio di un carbonaio, dopo anni di lavoro come carpentiere, è diventato imprenditore edile e ha coronato i suoi sforzi acquistando un grande appezzamento di terreno a Colombara, frazione di Apecchio (PU) per la sua numerosa famiglia. Con tempo, ingegno, pazienza e lavoro instancabile, con le sue uniche forze e senza alcun aiuto economico, ha trasformato questa collinetta privata, in cui svetta il grande globo, in un mondo incantato frutto della sua traboccante fantasia. L’ex carpentiere avrebbe maturato l’dea di costruire una maestosa sfera terrestre in seguito alla visita al Palazzo Ducale di Venezia dov’era esposto un mappamondo del diametro di 2 metri. Dopo aver scoperto che il globo più grande al mondo, negli Usa, aveva un diametro di 8 metri, decise di superare il record iniziando la progettazione di uno che ne avesse 10. Orfeo iniziò a lavorare segretamente al “Mappamondo della Pace” nel 1982 con l’idea di farlo svettare nella parte più alta del suo terreno. La prima parte del lavoro avvenne in un laboratorio interrato, la seconda all’interno in un grande capanno, chiamato pagoda dai curiosi che si chiedevano a cosa stesse lavorando l’ex imprenditore con tanto zelo.
di Silvia Brunori
© Ph. A. Tessadori
Orfeo rivelò ai compaesani e al mondo intero il suo progetto solo poco prima dell’inaugurazione, avvenuta nel 1988, dopo 6 anni di instancabile lavoro. Quando il capanno venne smantellato e il mappamondo apparve nella sua interezza sulla collina, suscitò un grande interesse: giornali e programmi tv mostrarono a tutta Italia la genialità del costruttore, l’area si riempì di visitatori e Orfeo Bartolucci fu insignito del prestigioso riconoscimento di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Il mappamondo ha una meravigliosa struttura in legno e una copertura in vetroresina, dove sono fedelmente dipinti a mano oceani e continenti. Ha una circonferenza di 31 metri, pesa circa 180 quintali, può ospitare 600 persone ed è diviso in tre piani: al primo, nella “stanza dei proverbi”, sono scritti e incisi in vari materiali migliaia di proverbi e massime; al secondo nella “stanza dei tesori”, sono esposti souvenir e tavole di tutti gli stati del mondo in cui sono scolpite a mano
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per ognuno confini, bandiera, capitale, religione, superficie e abitanti. Oggi lo si può ammirare solo dall’esterno, l’interno è in attesa di manutenzioni varie che il passare del tempo richiedono. Il globo poggia su una struttura con un meccanismo che consentiva di compiere una rotazione ogni 5 minuti e 20 secondi oppure ogni 24 ore. Questa impressionante costruzione non è la sola realizzata dall’ingegnoso muratore. Il mappamondo è infatti inserito in un vero parco artistico circondato da estrose e affascinanti istallazioni realizzate da Orfeo Bartolucci, con materiali di recupero, in circa vent’anni. Partendo dall’arco di ingresso si segue circa un chilometro di viottoli in cemento in cui Orfeo ha inserito vari messaggi sulla pace, i segni zodiacali, le fasi lunari e alcune massime sulla nostra società. Lungo il sentiero si incontrano visionarie e stupefacenti creazioni tra cui una fontana, un orologio, un albero costituito da un filo di 150.000 bottoni e una luna di 3 metri di diametro a pochi
passi dal mappamondo. Inoltre si può visitare un museo sotterraneo in cui l’autore ha collocato le sue raccolte di oggetti antichi: strumenti contadini, calcolatrici, fisarmoniche e strumenti musicali, bottiglie, chiodi, chiavi ecc. L’instancabile Orfeo ha continuato ad ampliare il suo eclettico parco fino all’età di 84 anni quando ha realizzato la sua ultima opera, un ponte sospeso, “Il ponte del coraggio”, che conduce alla base del mappamondo. Così ha dimostrato che la creatività e la caparbietà non svaniscono con l’avanzare degli anni e il venir meno delle forze fisiche ma che, anzi, si è capaci di realizzare sogni e progetti di qualsiasi portata a ogni età. È proprio questa, penso, l’eredità lasciata da Orfeo Bartolucci. Non solo lo spettacolare mappamondo, le sue raccolte o il suo parco, ma il messaggio di caparbietà, di laboriosità instancabile di chi per una vita ha lavorato sodo, sfidando leggi, buonsenso e talvolta le volontà della famiglia, per tradurre in realtà progetti visionari.
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SISTO V:
IL PAPA CON LE MARCHE NEL CUORE
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La storia delle Marche è strettamente legata con quella della Chiesa e dello Stato Pontificio, che controllò ed esercitò per secoli la sua influenza nei territori della Marca. Questo stretto legame è utile a spiegare come la nostra regione sia stata prodiga di uomini saliti al soglio pontificio. Tra questi, ha lasciato un’impronta particolarmente forte, tanto a Roma quanto nella sua terra d’origine, Papa Sisto V, al secolo Felice Peretti.
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ato a Grottammare il 13 dicembre del 1521, Felice è di umili origini. La famiglia è di Montalto, paese poco distante da Grottammare, da cui fu allontanata in seguito all’occupazione delle truppe del Duca di Urbino Francesco Maria della Rovere in lotta contro Leone X. Il padre fu bandito ed espropriato dei suoi beni, forse per essersi compromesso con un nipote del Duca. L’infanzia di Felice è contraddistinta da condizioni povere. Il lavoro di contadino del padre non basta a sfamare lui e i numerosi fratelli e sorelle. Una via quasi obbligata pare quella di intraprendere la carriera ecclesiastica, in grado di fornirgli istruzione e sostentamento. Felice, ritornato a Montalto con la sua famiglia ad esilio concluso, entra appena dodicenne nell’ordine dei frati minori conventuali sotto l’ala protettrice di un suo zio. La vita del giovane da quel momento è tutta incentrata sullo studio teologico, per cui dimostra grande solerzia e capacità. Nel 1547 fu ordinato sacerdote. La scalata della gerarchia ecclesiastica prosegue, in un percorso che lo porterà a Roma e durante il quale Felice si farà notare come oratore appassionato e brillante, in grado di coinvolgere la platea di fedeli soprattutto durante le sue bellissime prediche quaresimali. Ma Felice è anche uomo di polso e di inflessibile rigore, caratteristiche che finiranno in futuro per stereotiparne la figura, ma che gli furono sicuramente utile per svolgere il ruolo di inquisitore, di cui fu incaricato in diversi momenti della sua vita. Siamo d’altronde nel periodo del Concilio di Trento, la Chiesa Cattolica è scossa dalla Riforma protestante che dilaga e impegna quindi ogni energia per difendere la propria ortodossia. I meriti di Felice lo portano infine ad essere nominato Papa, col nome di Sisto Quinto, nel 1585. Il suo pontificato durerà solo cinque anni, fino alla morte occorsa nel 1590, ma sarà incredibilmente ricco di iniziative che lo consegnano alla storia, oltre che come “Papa di ferro”, per la suddetta severità, anche come il “Papa riformatore”. In questi pochi anni infatti Sisto V, tra l’altro, fa completare la cupola di San Pietro, commissiona la costruzione del nuovo Palazzo Laterano, pone le fondamenta per la nuova Biblioteca Vaticana (lui che per tanti anni si era occupato di confiscare i libri che l’Inquisizione definiva eretici). Promuove anche importanti opere architettoniche e urbanistiche a Roma, dalla costruzione e restaurazione di molti di quegli obelischi che punteggiano tutt’oggi la capitale a fondamentali lavori per la distribuzione idrica. Pur tra i lussuosi fasti della sede pontificia e gli enormi problemi della sua amministrazione, Papa Sisto V non dimenticherà mai
di Fabrizio Cantori
Statua di Sisto V Grottammare Alta
i giorni della sua giovinezza passata tra i colli delle Marche, a cui rimane per tutta la vita estremamente legato. Le reminiscenze di un’infanzia difficile eppure vissuta in un’atmosfera che per bellezza e calore è impossibile dimenticare, lo portano già da cardinale ad aiutare Montalto, che non smetterà mai di chiamare la sua “patria carissima”, con la fondazione di una scuola e una serie di donazioni. Con i poteri conferitegli dal papato, amplia ancora di più la portata della sua opera: dona, sempre a Montalto, un reliquiario di incredibile valore ancora oggi gelosamente conservato nella città e la eleva al rango di diocesi concedendogli anche di essere il centro giuridico e amministrativo del presidiato. Non meno onorata fu la natia Grottammare, dove Sisto V volle fortemente far erigere
© Ph. A. Tessadori
Cattedrale di Santa Maria Assunta - Montalto
la Chiesa di Santa Lucia, nel luogo dove nacque come Felice Peretti e in onore della Santa del suo onomastico. Questi, e tanti altri, sono i segni concreti e indelebili del legame che per tutta la vita, pur trascorsa viaggiando per l’Italia affrontando le difficoltà del suo tempo e dei suoi incarichi, non si allenterà mai tra Felice e la sua terra, che ne porta ancora le tracce. Camminare oggi per Montalto prendendo come punto di partenza la piazza che porta appunto il nome del Papa, può portare infatti ad imbattersi nella casa che fu del padre, accuratamente segnalata da una targa o al convento di San Francesco dove Felice iniziò la sua formazione nella rigidità e nell’osservanza della fede. Poco fuori dal centro cittadino uno splendido mulino fortificato, appartenuto alla sorella di Sisto V, porta il suo nome. Un rapporto indissolubile che ancora oggi inorgoglisce e non smette di esercitare la sua influenza. Non per niente Pericle Fazzini, grandissimo artista che con Sisto V ha condiviso i natali a Grottammare, gli ha dedicato una bellissima scultura di cui ha fatto dono al comune di Montalto. Un’opera che unisce i due luoghi
fondamentali delle origini marchigiane del Papa, che per lungo tempo si sono contesi gli onori di questo cittadino illustre rivendicandone la paternità esclusiva. Con il chiarirsi delle vicende storico-biografiche e soprattutto con una rinnovata volontà di condividere il patrimonio culturale rappresentato da questa grande figura piuttosto che litigarselo, Grottammare e Montalto hanno dato il via all’organizzazione delle celebrazioni per il quinto centenario della sua nascita, che cadrà l’anno prossimo. Si tratta di un progetto di ampia portata, in cui è già stato coinvolto il Vaticano, che segue le tre linee principali del mostrare, ricercare e raccontare Sisto V, per approfondirne le vicende che lo riguardano, avviare studi e dibattiti approfonditi sul suo lascito, e soprattutto divulgare e allargare la conoscenza della sua persona, complessa e ricca di sfaccettature, che non si limita certo alla sola immagine del “Papa di ferro”, austero e inflessibile. Un’iniziativa doverosa e importante, per un uomo che lungo tutta la sua incredibile vita ha portato sempre le Marche nel cuore.
Chiesa di Santa Lucia - Grottammare Alta Monumento a Sisto V di Pericle Fazzini - Montalto
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L’ITINERARIO (3.0) TRA LE BELLEZZE di PESARO e URBINO I progetti vincenti si vedono soprattutto sulla lunga distanza, se resistono e mantengono nel tempo la loro validità. Se poi riescono anche a crescere ed espandersi, allora significa che l’idea che li regge è davvero quella giusta. Con questa premessa, essere arrivati alla terza edizione di “L’Itinerario della Bellezza” nella Provincia di Pesaro e Urbino è motivo di orgoglio e lo spunto per riflettere sull’importanza di raccontare e promuovere il nostro magnifico territorio.
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ato come numero speciale di “WhyMarche” nel 2018, e ora divenuto per la sua importanza una pubblicazione a sé stante, l’Itinerario è il risultato della forte volontà della Confcommercio di Pesaro e Urbino di valorizzare e promuovere la ricchezza della provincia attraverso un prodotto turistico che fosse efficace e moderno. Dopo i cinque comuni presenti nella prima edizione, a cui se ne sono aggiunti tre nella seconda, l’edizione presentata in questo inizio 2020 ha raggiunto quota dodici: Cagli, Colli al Metauro, Fano, Fossombrone, Gabicce Mare, Gradara, Mondavio, Pergola, Pesaro, Sant’Angelo in Vado, Terre Roveresche, Urbino. In quello che è ormai a tutti gli effetti definibile come un libro e non certo un semplice opuscolo (parliamo di 152 pagine) questi comuni sono presentati indicando sei motivi che rendono la loro visita imperdibile. Sono motivi
riconducibili all’interesse storico, a musei e patrimoni culturali di varia natura, allo splendido paesaggio naturale, ai prodotti artigianali e a quelli dell’enogastronomia che li caratterizza, ai grandi eventi che ospitano. All’interno di queste generiche categorie d’interesse ogni comune ha le sue unicità che lo contraddistinguono, rendendolo una tappa obbligatoria dell’itinerario. Proprio il concetto di itinerario è posto in risalto da Amerigo Varotti, direttore della Confcommercio di Pesaro e Urbino. Citando le sue parole: “Quando un turista apre questa guida avverte subito il fascino del viaggio che può intraprendere. Il turismo moderno non è più fatto dalla settimana di vacanza sedentaria in un unico posto. Il turista vuole spostarsi, viaggiare, scoprire. Vuole soprattutto vivere un’esperienza. “L’Itinerario della Bellezza” ha proprio questo che lo rende uno strumento Ipogeo di Piagge Terre Roveresche
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di Fabrizio Cantori
Colli al Metauro Veduta panoramica
Gradara - Veduta panoramica
Š Ph. A. Tessadori
Palazzo Pubblico Cagli
Museo dei Bronzi Dorati Pergola
Affresco Palazzo Mercuri Sant’Angelo in Vado
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A NIMA Urbino, veduta panoramica Palazzo Ducale
Veduta Panoramica Gabicce
© Ph. A. Tessadori
Armando Pomodoro, Sfera Grande Pesaro
Ponte della Concordia Fossombrone
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tanto importante: copre tutte il ventaglio dell’offerta di un territorio molto vasto, raccontandolo e promuovendolo in modo coinvolgente tramite le splendide foto e i testi immersivi”. Questo, continua Varotti, è quindi il segreto del suo successo e il motivo per cui si è deciso per una terza ristampa: “Una guida di questo genere è quasi un unicum nel panorama della promozione territoriale. Viaggiando per le fiere di settore o gli uffici turistici è normale imbattersi in dépliant modesti che hanno scarsa presa sul turista. Questa pubblicazione è un prodotto di portata molto più vasta, e la scelta di proporre il testo in doppia lingua, italiano e inglese, lo rende esportabile in tutto il mondo.” Quest’ultima affermazione ha trovato piena attuazione già con la scorsa edizione, quando lo stesso Varotti ha portato “L’itinerario della Bellezza” letteralmente in giro per il mondo durante una foltissima serie di eventi, permettendo così di allargare enormemente il bacino dei visitatori e portando a risultati che hanno ripagato il grande lavoro svolto. Per questa terza edizione non c’è da aspettarsi niente di meno: presentata alla BIT, la più importante fiera del settore turistico in Italia, e già mostrata ad un evento in Francia, la guida ha in agenda presentazioni a Monaco, Berlino, Mosca, oltre che in tante città italiane. Una pubblicazione di respiro internazionale, eppure al contempo rivolta anche ai marchigiani, che grazie ad essa possono conoscere lati meno noti di grandi città Rocca Roveresca, Mondavio
di Giuseppe Riccardo Festa
Ex Chiesa San Francesco - Fano
come Pesaro, Urbino o Fano, ma anche scoprire del tutto piccoli paesi meno famosi ma che nascondo sorprese stupefacenti. D’altronde, al di là del grande lavoro profuso per la sua realizzazione, il primo e più importante elemento di successo di “L’Itinerario della bellezza” sta nel fascino dei luoghi che promuove. Terre che si adagiano sulle sinuose colline marchigiane come Colli al Metauro, Mondavio e Terre Roveresche, ai piedi di imponenti montagne, vedi Cagli o a ridosso delle acque cristalline dell’Adriatico, come Gabicce Mare. Paesi dalla storia antica e affascinante: si prenda ad esempio la Fano disseminata di tracce romane, una storia che si conserva ancora nelle massicce cinte murarie e nei castelli fortificati, teatri di leggende e grandi storie d’amore, come a Gradara. Luoghi che nascondono capolavori dell’arte tra musei e splendide chiese e che hanno ospitato artisti eccezionali, primo fra tutti Raffaello, figlio prediletto di Urbino, di cui proprio in questo
2020 ricorre il quinto centenario dalla morte, e il maestro Rossini celebrato nella sua Pesaro. Paesi dove l’artigianato sa regalare manufatti unici che rispecchiano le antiche tradizioni e dove vengono servite a tavola prelibatezze con i prodotti tipici del territorio, valorizzati dalle fiere e mostre del Tartufo di Fossombrone, Pergola e Sant’Angelo in Vado. L’incredibile ricchezza di questo mosaico di borghi e città disseminati per Pesaro e Urbino ha fatto sì che “L’Itinerario della Bellezza” sia diventato molto più di una guida, ma un vero e proprio contenitore declinabile di volta in volta in modi diversi per valorizzare ed approfondire alcuni aspetti particolare dell’offerta turistica. Alcuni di questi cluster sono già stati creati, altri vedranno presto la luce. A titolo di esempi, validi a mostrare le potenzialità enormi che la bellezza del territorio riserva: citiamo l’Itinerario dei Castelli Martiniani, cioè quelli realizzati dal grande architetto Francesco di Giorgio Martini, a Urbino, Mondavio e Cagli; l’Itinerario dei
luoghi della fede; quello archeologico e quello del sapore e del gusto. Grande spazio, ci anticipa Varotti, verrà riservato anche a “L’Itinerario della Bellezza” visto sotto il profilo del romanticismo. Partendo dalla Rocca di Gradara, che ospitò l’amore infelice tra Paola e Francesca reso immortale dai versi di Dante, passando per Cagli e Fossombrone, sono numerosi i luoghi che lungo l’itinerario rappresentano per storia e bellezza la cornice ideale per una storia d’amore, motivo per cui diventeranno lo sfondo addirittura per un romanzo e un film. “Grazie alla ricchezza dei contenuti così ben presentati” dice Varotti, “abbiamo potuto sfruttare tutte le leve del marketing, comunicando e promuovendo le fantastiche bellezze del nostro territorio a 360 gradi.” In un’epoca in cui la comunicazione è al centro non solo del turismo, ma di ogni aspetto della vita, raccontare l’incanto che si prova viaggiando per questi dodici gioielli di Pesaro e Urbino è un contributo fondamentale e un gesto d’amore nei loro confronti. WHY MARCHE | 43
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VESTIGIA E SIMBOLI TEMPLARI NELLE MARCHE E’ il 22 Marzo del 1312: con la bolla “ Vox in Excelso” il papa Clemente V, decreta la definitiva soppresso l’Ordine dei Cavalieri Templari. Con una bolla successiva, del 22 maggio dello stesso anno, decreta che tutti i loro beni saranno trasferiti all’ordine degli Ospedalieri, divenuti poi Cavalieri di Malta. Un passo della bolla spiega in maniera pretestuosa il perché dalla sentenza: “Perché essi si sono allontanati dal Signore, loro Dio, che li ha comprati e riscattati, ed hanno seguito Baal ed altri dei e li hanno onorati e adorati. Per questo il Signore ha fatto sì che accadesse loro questa grande disgrazia”. Croce Patente
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a inizio così una persecuzione in tutta l’Europa cristiana. I Cavalieri, in fuga, abbandonarono i castelli, le commende, le chiese e le abbazie alla ricerca di luoghi più nascosti e sicuri. Tutti i beni immobiliari e finanziari dei Templari Marchigiani furono devoluti ai Cavalieri dell’Ordine di Malta. A tutt’oggi presenti nel nostro territorio con funzioni di assistenza degli ammalati. Un esempio tra tutti fu il centro ospedaliero Munzio Gallo di Osimo interamente gestito dai Cavalieri del Sovrano Militare Ordine di Malta (da qui il nome SMOM), chiuso definitivamente nel 1988. Si trattava di un cosiddetto sanatorio, cioè un centro ospedaliero situato su una collinetta boschiva dietro Osimo, una zona favorevole dal punto di vista climatico e attrezzata per la cura di malattie croniche a lunga degenza, come ad esempio la tubercolosi. Molti Templari delle Marche in fuga tentarono la salvezza dirigendosi nell’entroterra, verso i Monti Sibillini dove trovarono rifugio e ristoro presso altri confratelli, principalmente monaci Cistercensi a cui erano legati per origine attraverso il loro fondatore comune San Bernardo da Claivox. Percorrendo la vallata del Chienti trovarono temporanea dimora presso i signori di Tolentino (Castello della Rancia) e presso il Castello di Caldarola dei signori Pallotta. A Sarnano si unirono alla comunità celtica, la cui presenza è attestata fin dal IV secolo, confermata dal ritrovamento del cosiddetto Uovo Celtico, attualmente conservato nel museo civico. Si tratta di una grande pietra ovale scavata sulla sommità, a formare una piccola vasca contenente acqua. Presso gli antichi popoli celtici era usata come schermo per riflettere il cielo notturno e studiarne il moto di particolari costellazioni che determinavano l’inizio dei rituali stagionali druidici. Risalendo le valli dell’Ambro i Templari raggiunsero il paese fortificato di Monte Monaco: un insediamento isolato, di uomini con idee liberarli, che per tutto il Medioevo conservò le tradizioni pagane della sibilla e si costituì quale punto di ritrovo per molti gruppi eretici in fuga. Fondato nel 1118 dall’aristocratico Hugo di Payns, su richiesta di San Bernardo di Chiaravalle, al termine della prima Crociata, l’Ordine dei Templari era originariamente costituito da 11 frati guerrieri francesi con il compito di difendere dagli infedeli i pellegrini in viaggiavano lungo le strade sante che conducevano a Gerusalemme. L’ordine, che aveva sede sul luogo in cui si credeva sorgesse nell’antichità
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il tempio di Salomone (da cui il nome di templari), fu riconosciuto dalla Chiesa nel 1129 e gli vennero in seguito concessi ampi privilegi e ricchezze. Vivevano secondo regole rigidissime, dediti alla castità e alla preghiera, indossavano mantelli bianchi con una croce rossa sulla spalla sinistra e la loro maggiore autorità era il Gran Maestro dell’Ordine. A conoscenza delle tradizioni esoteriche e sapienziali delle maggiori tradizioni mediorientali, mostrarono di possedere un carattere fortemente mistico che contribuì di fatto al fiorire delle leggende che ancora oggi trovano espressione in romanzi, film e speculazioni esoteriche. Per esempio sarebbero entrati in possesso del santo Graal o addirittura dell’Arca dell’Alleanza, e questo avrebbe conferito loro i poteri di un governo occulto, al di sopra degli altri governi. Prosperarono e si diffusero come confraternita e ordine cavalleresco in tutta Europa e in particolare in Italia e nelle Marche dove si contano numerosi resti di vestigia dell’ordine. Autori del trasporto delle sacre pietre della casa di Nazareth a Loreto, secondo la maggioranza degli storici, i Cavalieri Templari erano ricchissimi e potentissimi, al di sopra di ogni controllo e presto divennero un pericoloso ostacolo da sopprimere sia per la Chiesa che per lo Stato imperiale. Le Marche sono piene dei loro simboli, spesso affissi durante il loro passaggio presso le costruzioni di altre confraternite per indicare la loro momentanea presenza o la loro residenza. Tutte le vie che hanno il nome di “Via della Commenda”, rintracciabili in diverse città del nostro territorio, sono vie dove un tempo sorgevano le commende Templari, vere e proprie case-caserme dimora dei cavalieri. Un esempio tra tutti, soprattutto per la sua bellezza paesaggistica, è costituito dall’area collinare su cui sorge la chiesetta di San Filippo in località Casenuove di Osimo. Luogo abitato fin da tempi remoti dalla tribù dei Galli Senoni, divenuta poi proprietà dei Romani con la conquista di Osimo. Alla fine del XII secolo divenne una Precettoria dell’Ordine Templare. Il luogo aveva una sua importanza strategica e commerciale essendo punto di incontro tra due grandi strade: la Salaria proveniente dal mare e la Flaminia proveniente da Roma attraverso la città di Jesi. Sarebbe lungo enumerare i luoghi appartenuti all’ordine: è più interessante dare al lettore alcune indicazioni per riconoscere, durante le sue visite, i segni caratteristici delle costruzioni che furono di proprietà dei Templari.
© A. Tessadori
di Stefano Longhi
Abbazia di Fiastra - Macerata
Fabrizio Bartoli da anni coltiva la storia e la tradizione dei templari delle Marche. Affidiamoci alla sua opera “La simbologia Templare. Significato esoterico, mistico e sapienziale” come guida alla comprensione dei segni identificativi dell’ordine. Il primo e più importante simbolo identificativo dell’Ordine Templare è costituito, senza dubbio dalla Croce Patente, identicata nella forma alla croce rossa cucita sul mantello bianco del cavaliere. Si tratta di un simbolo che unisce l’alto con il basso, il verticale con l’orizzontale in una complementarità, come ci ricorda il libro citato, simile e di identico significato ad altri simboli antichi quali la stella di David, la svastica indiana e lo Yig & Yang Cinese. Generalmente scolpita sulla pietra è posta sopra la porta d’ingresso di edifici sia sacri che profani dell’ordine. Nell’antica Badia di San Pietro, sul Conero è visibile in uno dei capitelli della cripta. Altre Croci Patente sono visibili sia nelle grotte di Osimo che di Camerano: entrambi luoghi di probabile ritualità iniziatica per i Templari. Osimo conserva inoltre una grande tradizione e ricchezza di luoghi templari, troviamo altre Croci Patente sulle mura esterne del Duomo di San Leopardo. In particolare citando direttamente Bartoli: “Recentemente sono state rinvenute nel battistero del duomo, pitture con croci Patente e stellate rosse su sfondo bianco”. Proseguendo lungo la Flaminia in direzione di Roma, altre Croci Patente sono visibili all’interno dell’Abbazia di Santa Croce a Sassoferrato e dell’Abbazia di Sant’Urbano nella zona di Serra San Quirico. Se la Croce Patente è un simbolo identificativo dell’ordine, il Fiore della Vita, un fiore a 6 petali, costituisce il segno caratteristico che attesta la loro tradizione iniziatica sapienziale. Si tratta di un simbolo antichissimo della tradizione gnostica. Lo ritroviamo da millenni in tutte le
Fiore della Vita
culture arcaiche: in Mesopotamia, in Egitto, in India, nei luoghi etruschi e celtici. Ad Osimo un bel fiore della vita è riprodotto sulla parte di tufo nella Grotta di via Pompeiana, e ancora sulle mura del campanile del duomo e sul pavimento interno. Compare sulle mura esterne dell’abbazia di Chiaravalle, fondata nel 1147 proprio da quei monaci cistercensi confratelli dei templari. Altre rappresentazioni del Fiore della Vita, sono presenti presso Badia di San Pietro sul Conero e ancora sopra al portale del Duomo di Fano. Il fiore della vita è una particolare costruzione geometrica interamente ottenuta utilizzando come forma originaria il cerchio, ripetuto poi per sette volte. Simbolicamente potremmo leggere questa sequenza come una formula di creazione che dalla prima forma perfetta (la dimensione cielo-cerchio) genera tutte le cose del mondo. Infatti le figure geometriche fondamentali (triangolo, quadrato, pentagono ed esagono) che costituiscono le forme archetipiche, si realizzano all’intersezione successiva dei cerchi, senza utilizzare, come di consueto, la riga e la squadra che rappresentano pertanto la forma materiale concreta (la dimensione terra-quadrato). Il fiore della vita lo ritroviamo nelle Marche in molte chiese cistercensi, profondamente legate alla fratellanza templare. La regola dei cavalieri fu redatta proprio da San Bernardo di Clairvaux, il quale fu fondatore anche artefice dell’espansione dei cistercensi. Da Clairvaux i cistercensi si diressero in Italia per fondare l’Abbazia di Chiaravalle in Milano e nel 1142 diedero origine a l’Abbazia di S. Maria di Chiaravalle (Ancona) e l’Abbazia di Fiastra (Macerata). WHY MARCHE | 45
N E N DOe
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Un viaggio dentro le Marche alla riscoperta dei mestieri delle donne di un tempo. Mestieri legati principalmente alla manualità. Una manualità che le modificazioni sociali hanno radicalmente scardinato lasciando tracce della loro esistenza. Nelle mani delle donne di allora “arte” oltre che laboriosità, componente significativa anche sul piano economico oltre che storico. Il nostro viaggio si sofferma su alcuni particolari lavori e alcune relative personalità. L’unico grande scopo è fissare il ricordo della memoria. 46 | WHY MARCHE
di Raffaella Scortichini
La FILANDARA Da Fossombrone ad Ascoli Piceno passando per Jesi e Filottrano, le Marche, tra l’’800 e il ‘900, vantavano l’affermarsi della torcitura della seta diventando la terza regione per polo produttivo dopo Piemonte e Lombardia. Erano gli anni in cui soprattutto Jesi concentrava su di sé la maggior parte della produzione: non a caso veniva chiamata la “piccola Milano delle Marche”. Storicamente la filanda era una grande risorsa, perché dava lavoro a tante donne. Le stesse cercavano un’indipendenza economica tutta loro. Lavoravano tanto e guadagnavano molto poco. In questo settore ben oltre il 90% dei lavoratori erano donne, molte delle quali lavoratrici bambine con meno di 12 anni. Non c’erano uomini, l’unico era il direttore. Il lavoro principalmente consisteva nel lavorare il baco da seta. Vestite solitamente con un grembiule blu e una mascherina alla bocca, le operaie della filanda lavavano i bozzoli di seta in acqua molto calda e non appena eliminato il baco dal suo interno, il bozzolo lo attaccavano ad una estremità alla macchina della filatura che ne lavorava il filo. La bravura stava
nel mantenere sempre lo stesso spessore. Chi sbagliava a fare il proprio lavoro, pagava una multa che veniva detratta dalla paga. La seta veniva ammucchiata in matasse e poi inscatolata per essere spedita alle grandi industrie tessili. Chi ha lavorato nel settore della seta, sostiene che era “il calvario delle femmine”. Gli orari erano massacranti. Di solito c’era il suono di una sirena a scandire l’inizio e la fine dell’orario di lavoro che tra mattino e pomeriggio non era mai sotto le dodici ore e serviva anche da orologio. Anche l’ambiente di lavoro era veramente precario. Nella filanda c’era infatti sempre una nebbia. Il vapore delle lavorazioni si condensava tutto verso l’alto e dal soffitto durante il giorno gocciolava sopra le donne che così lavoravano sempre bagnate. Non a caso ci si ammalava facilmente di tubercolosi. Il continuo contatto con l’acqua bollente sbiancava le mani delle operaie e raggrinziva la pelle. Era un lavoraccio, ma per mogli e figlie di operai e artigiani, la massima aspirazione era quella di essere assunte come operaie alla filanda. “Fo ‘a filandràra”, dicevano con orgoglio e soddisfazione. WHY MARCHE | 47
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“Porgea gli orecchi al suon della tua voce, Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela.” da A Silvia - G. Leopardi
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La TESSITRICE Una brava tessitrice aveva un gesto solenne, un movimento mirato e fantasia nel disegnare. Il telaio è apparso, nella storia della donna tessitrice, tremila anni avanti Cristo e da sempre le ha fornito grandi soddisfazioni nel filare, ordire e tessere. Sicuramente ci sarà ancora una nonna che ricorderà il piacere che provava nel tessere quando dopo lo sfaccendare quotidiano si sedeva al telaio, sempre pronto, e tocco su tocco l’intreccio magico dei fili faceva crescere la tela. Un lavoro che disimpegnava la testa e nutriva la creatività tra disegni e colori. L’arte del tessere sin dalla notte dei tempi è stata arte femminile per eccellenza praticata al chiuso nella propria casa. Vi si approcciava sin da piccoli. Nelle famiglie, donne, ragazze e bambine nella quiete delle loro dimore raggomitolavano, filavano e tessevano per il fabbisogno familiare e la preparazione del corredo nuziale. Si lavorava cantando accompagnati dal suono del telaio che diveniva uno straordinario strumento che coinvolgeva le mani, i piedi e la creatività dei “tocchi” della tessitrice capace di trasformare il cotanto ritmico movimento in musica. A monte una ricerca meticolosa delle fibre e degli intrecci, a seconda se erano creazioni artistiche come gli arazzi o se erano tessuti per abbigliamento e accessori. Il prodotto che se ne ricavava aveva la peculiarità di essere unico, irripetibile, senza equivalenti sul mercato. Nel nostro territorio questa attività si è concentrata maggiormente nel territorio maceratese.
La CORONARA
“Quando la preghiera diventa arte”.
Legato alla devozione e alla pietà popolare, il mestiere di confezionare le corone del rosaio era prerogativa della laboriosità della città mariana lauretana. La coronara era la donna che infilava, a mano, i rosari. Già nel ‘700 li componeva pezzo per pezzo e con mani abili e delicate, dava vita a questo oggetto destinato a diventare, attraverso la preghiera, il tramite fra terreno e divino. I rosari da sempre rappresentano un connubio importante tra arte e fede e dimostrano come da un momento intimo possa nascere una cultura profonda capace di ispirare autentiche creazioni e contribuire così anche all’economia quotidiana di una comunità. Per anni le coronare hanno abitato gli usci delle porte di Loreto, sono diventate parte attiva di una cittadina devota al culto di Maria, hanno gettato il seme di una vera e propria economia legata alla realizzazione di oggetti sacri. Il prodotto lauretano è leader mondiale. Un prodotto che colpisce non solo per la qualità e preziosità complessa del risultato, ma anche perché riesce a far bene intuire la laboriosità, la passione e l’esperienza del tanto lavoro artigianale che c’è dietro, che diviene esso stesso preghiera. Oggi questo lavoro trae ancora origini dalla sapiente opera artigianale coniugandosi con le moderne tecnologie innovative divenendo ricostruzione vivente del lavoro delle “coronare”, dal cuore delle Marche, nel cuore del mondo.
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La MERLETTAIA Non è possibile conoscere con certezza quando e come il merletto a tombolo fu introdotto ad Offida. Sembra infatti che fu per opera ed intraprendenza delle monache benedettine che arrivarono qui nel 1644. La musica da allora non fu mai interrotta. Questo borgo di cinquemila anime nell’entroterra marchigiano, a venti minuti dal mare, oggi è “la città del merletto a tombolo”. Nel ‘600 la lavorazione del merletto era una fiorente attività artigianale e fonte di sostentamento per le famiglie del luogo. La lavorazione del merletto nel tempo migliorò in qualità e raffinatezza così che il manufatto fu ricercato ed esportato dai mercanti di allora. Furono in particolar modo le donne che seppero recepire questa nuova forma lavorativa, vedendo in essa un’ulteriore fonte di guadagno, la possibilità di esprimere le loro capacità creative e la
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soddisfazione per un’attività bella ed appagante, che potevano liberamente svolgere in casa o nelle vie del paese, in compagnia di amiche e vicine. Si tratta della lavorazione manuale di un pizzo lavorato su un cartoncino fissato con degli spilli ad un cuscino riempito di segatura che in dialetto offidano viene chiamato “capezzal”, mentre per la realizzazione della trama ci si serve dell’ausilio di fuselli di legno (da sette a diciassette coppie) attorno ai quali viene avvolto il filo. Il sapiente intreccio realizza il prezioso lavoro. Nel 1910 venne istituita la prima scuola di merletto all’interno della scuola comunale, con lezioni tenute dall’insegnante Marina Marinucci. Oggi l’arte del “merletto al tombolo” si candida a patrimonio immateriale dell’Unesco.
La SARTA
“Il velo non fa la monaca”.
Un mestiere antico quello della sarta (o del sarto) ma anche sempre nuovo. Era previsto un periodo di apprendistato in bottega durante il quale la “sartoretta” faceva praticantato per diventare futura sarta. Qui le giovani avevamo modo di imparare i primi rudimenti del mestiere facendo un po’ di tutto. Si iniziava con il soprammano, si proseguiva con le imbastiture e con il punto lento. A quel punto era la sarta che “metteva su” meticolosamente il vestito, cioè completava la confezione e lo passava a macchina. Si toglievano poi le imbastiture, le spille e tutto il resto. Solo in seguito si imparava a fare gli orli e i sottopunti. Proprio nelle grigie e fredde giornate invernali, si aveva la massima unità lavorativa. In genere tutte le donne erano radunate in una grande sala, dove in mezzo campeggiava un lungo e largo tavolo. Questo serviva per stendere il panno, segnarlo con il gessetto e poi tagliarlo. Normalmente l’operazione del taglio, “un taglio a occhio” come si diceva all’epoca, veniva fatta sempre dalla sarta o da qualche esperta sotto la sua stretta osservazione. Di norma si imparava il lavoro guardando, carpendo i segreti facendo attenzione alle varie successioni di confezionamento. Alla fine, quando qualcuna aveva acquisito una certa padronanza dell’arte, allora poteva perfezionarsi e passare al taglio, che rimaneva l’apice dell’apprendimento. Disegnare, modificare, riparare, cucire, confezionare. Erano queste alcune delle attività che la sarta doveva essere in grado di fare nell’arco della sua giornata lavorativa. C’era molta concorrenza e una certa rivalità tra le sarte del paese. Alcune sarte si specializzavano nella sartoria maschile, altre in quella femminile. Di fatto tutte svolgevano un lavoro che richiedeva pazienza, manualità, creatività, fantasia e …anche ideali. Una professionalità che è tutt’ora attuale e irrinunciabile oggi come allora. WHY MARCHE | 51
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La FILATRICE e la MAGLIAIA Due mestieri di famiglia che si sono sviluppati nei primi del ‘900 e nel dopoguerra. Un lavoro domestico eseguito con attrezzi semplici e rudimentali o organizzato con macchinari in veri e propri laboratori. Nell’immediato dopoguerra la bruttezza della guerra aveva infatti denudato le persone e occorreva rifare il guardaroba. Dalle mutante alle sottovesti, alle maglie, ai vestiti. Alzi la mano chi non ha trovato nei cassetti di un vecchio comò foto di nonne o zie sedute a filare d’inverno al caldo del camino o del braciere, d’estate davanti all’uscio della propria abitazione, che sferruzzavano per realizzare maglioni, scarpette di lana, scialli, calze e biancheria intima per neonati e adulti. Dopo aver fatto le faccende di casa o di ritorno dai campi, un po’ per svago un po’ per dovere, le solerti filatrici prima cardavano le fibre vegetali (cotone, lino, canapa) trasformandole in filo e poi con l’ausilio di conocchia e fuso le lavoravano. La matassa, a volte, veniva anche recuperata dai vecchi capi, raggomitolata o messa a stendere sull’aspo per poi essere pronta al nuovo utilizzo. 52 | WHY MARCHE
La VERGARA
Colonna portante multitasking della tradizionale famiglia marchigiana. La donna di casa, la massaia deus ex machina della cucina, centro nevralgico delle attività domestiche e agricole. Matriarca che di solito si caricava dell’incombenza e pesava e dosava la farina con la stessa cura dell’orafo: ogni granello lo considerava un prezioso dono di Dio. Figlia di contadini lavorava nei campi, si prendeva cura degli animali da cortile, delle stalle, dei figli, dei nipoti, della casa e della cucina, e ancora puliva, ricamava e rammendava. La sua crescita culturale arrivava di solito alla quinta elementare, si perché le donne che andavano oltre le elementari erano poche ed erano tutte di paese o di città. La sua iniziazione al divenire vergara, avveniva sin dalla sua giovane età. A sette anni portava l’acqua fresca a chi lavorava nei campi in una brocca di terracotta. Andando avanti con gli anni legava i covoni dopo la mietitura e ancora più avanti, finita la scuola, il suo saper fare si arricchiva andando al convento dalle suore ad imparare l’arte del ricamo mentre a casa vicino alla propria mamma apprendeva come fare l’uncinetto e la maglia. D’estate diventava parte integrante della forza lavoro famigliare nei campi. La domenica andava a messa e la piazza diventava luogo di incontro sociale e occasione per coltivare gli amori. Altre occasioni per relazionarsi erano le festività, la trebbiatura, la scanafogliatura delle pannocchie di granoturco. C’era tanta convivialità tra le persone spossate ma allegre. Il rapporto umano era il fulcro di ogni attività, di ogni pensiero. Essere solidali non richiedeva grandi sforzi, era una pratica quotidiana, naturale. In una parola si era felici. WHY MARCHE | 53
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ASSOCIAZIONI MARCHIGIANI NEL MONDO
oli del globo
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uesto bisogno sta alla base del lavoro che svolgono le associazioni dei marchigiani nel Mondo. Si tratta di più di 60 associazioni che operano in molti stati distribuiti tra 4 continenti (Europa, America, Asia, Oceania), rappresentate da un consiglio a capo del quale c’è il presidente Franco Nicoletti, residente in Lussemburgo. La maggior parte di queste associazioni opera in Argentina, meta prediletta della migrazione nostrana, dove i marchigiani discendenti da coloro che tra fine ‘800 e inizio ‘900 lasciarono la regione sono circa un milione e mezzo. Anche tutto il resto del Sud America accoglie un’ampia rappresentanza di marchigiani, in paesi come Brasile, Uruguay, Venezuela e Paraguay. Non mancano associazioni anche negli Stati Uniti, in Canada, in Giappone, in Australia e ovviamente in molti stati dell’Europa. Le associazioni dei marchigiani sono promotrici e
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ambasciatrici delle Marche nel mondo. Sono il collante fondamentale per mantenere vivo il legame che continua ad unire chi ha deciso di emigrare con la propria regione. Servono per fare in modo che un po’ di Marche continuino a essere presenti ad ogni latitudine del globo. Feste, fiere e manifestazioni di vario genere sono le più evidenti iniziative messe in atto per lo scopo. Ecco allora che le caratteristiche sagre nostrane riverberano all’estero l’odore dei vincisgrassi o della porchetta che si diffonde tanto nella Pampa argentina quanto tra gli alti grattacieli newyorkesi, per non far dimenticare i sapori e le tradizioni più genuine delle Marche a chi è lontano. Ogni anno poi vengono promossi progetti culturali strettamente collegati a quelli marchigiani: solo per rimanere tra i più recenti, le grandi celebrazioni per Rossini, Leopardi e Raffaello hanno avuto un’eco profonda in tutte le comunità marchigiane sparse per il mondo proprio grazie all’attività delle varie associazioni.
di Fabrizio Cantori
Si parte per piacere o per necessità. Si parte per tornare, ma anche per restare. Ogni viaggio ha una sua storia: ciò che li accomuna tutti è che a prescindere dalla destinazione, chiunque parte da un luogo che chiama casa. E ovunque si arrivi è indubbio che quella casa lasci un segno indelebile su chi è partito. È normale quindi che si senta l’assoluta necessità di rimanere in contatto con la propria terra, con le persone e le cose con cui si è cresciuti.
Si deve ad un’iniziativa lanciata dal Consiglio dei Marchigiani nel Mondo anche il rapporto Censis del 2019 sull’emigrazione giovanile marchigiana. Stando ai dati ottenuti, i marchigiani iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) al 31 ottobre 2018 sono 146.094, un +20,5% rispetto al 2014. La crescita interessa tutte le fasce d’età ma è particolarmente accentuata tra i giovani: un campione di 99 ragazzi marchigiani tra i 18 e i 35 anni e residenti all’estero è stato intervistato per approfondire le dinamiche dell’emigrazione, da cui emerge che la principale causa di partenza è il lavoro, che all’estero è spesso più gratificante, sicuro e meglio retribuito. Molto interessante anche il quadro che emerge riguardo la volontà di tornare. Nel complesso il 69,8% tornerebbe in Italia a patto di migliori condizioni di lavoro e di retribuzione. Un’altra parte dell’intervista ha riguardato un campione di residenti nelle Marche: più della metà esprime l’intenzione di restare, adducendo come principale motivazione quella di ritenere le Marche una delle regioni con la qualità di vita più alta. È risultato comunque evidente che a voler rimanere sono soprattutto le persone di età più avanzata, con i giovani che vedono invece di buon occhio l’idea di un trasferimento. Un’indagine di questo tipo è uno strumento fondamentale per la Regione Marche per monitorare il suo stato di salute e capire dove poter
intervenire, sebbene appaia ovvio che molte questioni siano il riflesso di una situazione che riguarda tutta la penisola. La collaborazione con le associazioni dei marchigiani nel mondo è anche, per la regione, una leva fondamentale a livello turistico ed economico, e ancor di più identitario. Raggiunto al telefono, il presidente Nicoletti ci ha parlato infatti con grande emozione di come le varie associazioni si impegnino per mantenere forte la connessione tra i marchigiani sparsi nel mondo, attraverso grandi riunioni la cui difficoltà logistica è oggi superata grazie alla comunicazione tramite internet. Condividere ricordi, storie, problemi e speranze è il modo più efficace per non lasciar sbiadire il senso di appartenenza alle Marche che caratterizza tutti i membri delle associazioni. Per quanto riguarda i giovani, che come visto sono i principali protagonisti della migrazione contemporanea, Nicoletti ha riscontrato da parte di molti di loro una grande voglia di tornare: lasciare le Marche non è mai una decisione facile, si parte per cercare realtà più congeniali al proprio percorso ma una parte di sé rimane sempre con la speranza che si creino le condizioni per poter tornare. Tanti ragazzi sono impazienti di mettere a disposizione delle Marche il know-how acquisito durante la loro esperienza fuori per farle crescere. Il mondo d’altronde è pieno di marchigiani che hanno trovato fortuna all’estero. Nicoletti ci racconta per esempio di una ragazza che ha personalmente conosciuto arrivata ai vertici della Samsung America che però rimane profondamente legata alle sue Marche grazie anche alle attività svolte dal “MIA” (marchigiani in America), un’associazione di New York fatta da giovani e molto attiva nel mantenere vivo lo spirito marchigiano nella grande mela. A Londra invece è marchigiano Rossodisera, il ristorante eletto come il migliore tra gli italiani in tutta la City, che propone al centro di Covent Garden le tipicità della nostra regione, con tartufi, olive all’ascolana e molte ricette della tradizione. Storie di questo tipo sono innumerevoli: in tutte la costante è che chi ha lasciato le Marche continua a portarsene sempre dentro un ricordo profondo. Un sentimento che si può riassumere coi versi dedicati alla sua Tolentino dal Conte Giuseppe Bezzi, emigrato in Brasile e presidente dell’associazione Marchigiani a San Paolo:
“Decisi allora di passar la vita/ quaggiù, in Brasile,/anche se lungi dalla terra Avita./A Tolentino tornai già più volte/e ancora tornerò, se Dio lo vuole:/ci sono nato, è stato il primo amore,/ e il primo amore non si scorda mai.”
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MAESTRE E MAESTRI DEL LAVORO
Dal saper fare al saper essere l’efficienza degli strumenti, delle macchine e dei metodi di lavorazione; c) abbiano contribuito in modo originale al perfezionamento delle misure di sicurezza del lavoro; d) si siano prodigati per istruire e preparare le nuove generazioni nell’attività professionale. 2 . la decorazione comporta il titolo di “Maestro del Lavoro”. Da allora nella società italiana, la federazione opera nel mondo della scuola e del sociale, con una task force di circa 500 MdL (su un totale di circa 13.300 iscritti a livello nazionale).
Blow up su Maestre e Maestri del Lavoro delle Marche
L
a storia, dalle origini al Terzo Millennio Le origini della Federazione Nazionale dei Maestri del Lavoro risalgono al lontano 1954 e a quel tempo potevano aderire solo i decorati della Stella al Merito del Lavoro. Nel 1956 alla federazione fu riconosciuta la figura giuridica quale ente morale e nel 1992 l’allora Presidente della Repubblica Francesco Maurizio Cossiga promulgò la versione aggiornata della Legge Istitutiva (Legge 143/92) detta Nuove norme per la concessione della “Stella al merito del lavoro” all’interno della quale l’Art. 1 cita testualmente: 1. La decorazione della “stella al merito del lavoro”, istituita con il regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3167, è concessa ai lavoratori ed alle lavoratrici dipendenti da imprese private …, che abbiano almeno uno dei seguenti titoli: a) si siano particolarmente distinti per singolari meriti di perizia, laboriosità e di buona condotta morale; b) abbiano con invenzioni o innovazioni nel campo tecnico e produttivo migliorato
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Organizzati in un organigramma ben preciso il “Primo Raduno” a carattere regionale della Comunità Magistrale Marchigiana si tenne nel 1961 su iniziativa del Consolato di Ancona con la collaborazione dei Consolati di Ascoli Piceno, Macerata, Pesaro-Urbino. Oggi son circa 600 gli iscritti di cui circa 60 impegnati nell’attività scuola-lavoro.
di Raffaella Scortichini
Ci sono persone che rappresentano la forza e la virtù civile di milioni di lavoratori del nostro Paese, sono persone partecipi del mondo che cambia e riferimento per gli adulti di domani, esempio di un’esperienza vissuta con esemplare merito riconosciuto. Queste persone sono le Maestre e i Maestri del Lavoro.
“Grazie per ciò che fate a beneficio dei giovani e dell’intero Paese” - Mattarella ai Maestri - 2019
La redazione di Why Marche ha avuto la possibilità di conoscere il Console Provinciale di Ancona Mario Malatesta, grazie al dirigente scolastico dell’IIS Marconi Pieralisi l’Ing. Corrado Marri, e poi con lui la conoscenza si è estesa a Fabrizio Pierdicca, coordinatore regionale e provinciale attività scuola-lavoro e sicurezza, membro della Commissione Nazionale della stessa attività e Bruno Schiavoni, coordinatore di Zona, Jesi. Con loro abbiamo scoperto l’impegno nelle scuole e il loro unico scopo volto a trasmettere agli studenti una serie di principi che sono alla base di un positivo ingresso nel mondo del lavoro e nella società civile, principi che scaturiscono unicamente dalle esperienze di vita e di lavoro dei singoli MdL. “C’è una squadra di persone che unite da una stella, ‘La Stella al Merito del Lavoro’, si sono unite e continuano a muoversi insieme ed implementano le presenze nel tempo”, ci dice soddisfatto Malatesta, “un’alta onorificenza che ci rende davvero orgogliosi in ciò che facciamo.” “Si segue un iter ben preciso per raggiungere quella “Stella” che comporta i titolo di Maestra o Maestro del Lavoro. Tutto parte dalle aziende che sottopongono all’Ispettorato del Lavoro una serie di nominativi di persone over 50 con all’attivo almeno 25 anni di contribuzione, che non abbiano riportato condanne penali ed abbiano operato per il miglioramento delle condizioni di lavoro, della sicurezza e dei processi aziendali. A sua volta l’Ispettorato del Lavoro, dopo una serie di filtri e verifiche, passa tutto al ministero del Lavoro che chiede il decreto nominativo di nomina”, ci spiega Pierdicca. “L’intento è aver sempre più persone che rappresentino modelli di realizzazione professionale nonché personale e che possano costituire degli altrettanti modelli di esempio per le nuove generazioni. Alla base di tutto c’è il lavoro e la scuola è un formidabile ascensore sociale che ha cambiato il nostro Paese da quando è nata la Repubblica, come ha ribadito il Presidente della Repubblica durante il suo intervento alla
celebrazione della Festa del Lavoro 2019. Entrambi hanno costituito lo strumento di eguaglianza sociale più efficace dell’Italia repubblicana, hanno rappresentato e rappresentano il patrimonio di chi non ha ricchezze ma può disporre della propria intelligenza e laboriosità. Senza lavoro rimane incompiuto il diritto stesso di cittadinanza, la dignità dell’individuo ne è mortificata, la solidarietà sociale e la stessa possibilità di sviluppo della società ne risultano compromesse. Il lavoro è il fondamento della nostra Repubblica (art. 1 della Costituzione). Sul lavoro si fondano anche il benessere e lo sviluppo economico e sociale della nostra comunità. Il lavoro è il mezzo per la realizzazione personale e professionale di cui noi MdL siamo dei modelli, dei testimoni. Pertanto la nostra missione si riassume in una testimonianza formativa verso le nuove generazioni capace di descrivere valori e cultura del lavoro. Lavoro inteso sia come fatica, sudore, studio, ma anche come realizzazione personale e professionale per la dignità e libertà di cui sopra.”
Come si muovono i MdL delle Marche per realizzare tutto questo?
Continua Fabrizio Pierdicca nel suo discorso: “Tutto nasce nel rapporto che riusciamo ad istaurare con le scuole grazie ad un accordo con il MIUR. Approcciamo in modo diverso i ragazzi, facendo anzitutto un distinguo tra le scuole secondarie di 1°grado e scuole secondarie di 2° grado, poi anche a parità di età si fa un ulteriore distinguo di indirizzo: commerciale, tecnico industriale, professionale alberghiero, settore agricolo. Si cerca di organizzare con i dirigenti scolastici delle attività che siano continuative nel tempo. Ad esempio con le scuole secondarie di 2° grado ad indirizzo tecnico industriale il nostro intervento inizia dal terzo anno in poi. Dapprima durante il 3° anno, appunto, ci occupiamo di sicurezza, poi dal 4° anno parliamo di qualità. Sicurezza e qualità sono per noi le colonne portanti su cui si basa l’attività imprenditoriale. Al 5° anno affrontiamo il tema del lavoro portando le aziende in classe e successivamente i ragazzi in visita alle aziende. Spieghiamo come funzionano la ricerca e la selezione del personale da parte delle aziende e li aiutiamo ad impostare un curriculum dando loro delle dritte su come sostenere un colloquio. Tutto questo per noi vuol dire interpretare a pieno la nostra missione: portare testimonianza di che cosa è il mondo del lavoro.
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M ENTE Per quanto riguarda gli altri istituti, al 4° anno sostituiamo il modulo qualità con quello deputato all’organizzazione aziendale. Oggi va molto il concetto della supply chain, attività trasversali che coinvolgono marketing, rapporti con i fornitori, approvvigionamenti, produzione, logistica e molto altro ancora. In questo caso si portano nelle scuole figure di riferimento proveniente dalle associazioni di categoria come ad esempio la CNA. Nel caso degli istituti alberghieri, nello specifico, si portano persone che si occupano di turismo, visto che la materia diventa sempre più importante. Per i ragazzi di 12-13 anni, non avendo ancora un interesse immediato al concetto di lavoro, si interagisce con loro facendoli lavorare. Si concorda un tema con gli insegnanti che i ragazzi successivamente, in un paio di mesi, svilupperanno facendo delle ricerche, degli approfondimenti. Dopodiché dovranno portarci i risultati del loro lavoro. Tra i maggiori temi trattati ci sono: ambiente, Costituzione, migrazioni, parità di genere, sicurezza. I ragazzi nel lavorare in gruppo sperimentano alcune di quelle abilità che domani diventeranno competenze trasversali, capiranno che cosa significa negoziare un compromesso, che cosa vuol dire assumersi la responsabilità, sperimenteranno la gestione dell’ansia nel prendere un microfono in mano per raccontare che cosa hanno fatto. In questo modo interpretiamo la nostra missione di testimonianza formativa”. Ogni formatore MdL, viene da realtà diverse dal mondo dell’industria dal mondo dei trasporti, dalla logistica, dal mondo bancario e dei servizi, dalle ferrovie ecc. Non parlano del saper fare ma del saper essere. Ogni MdL ha il compito di mostrare come l’istruzione agisce sul sapere, l’addestramento sul saper fare e la formazione sul saper essere. Ogni MdL spiega cosa significa mettere insieme le abilità tecniche con quelle sociali per arrivare al saper essere. Tra le attività c’è anche quella di ricerca delle aziende. Spiccano nomi importanti come Loccioni, Elica, Fincantieri, Fileni, CNH, Angelini, Caterpillar, Trenitalia e molte altre ancora alle quali si uniscono una serie di piccole imprese.
La testimonianza del IIS Marconi Pieralisi di Jesi (AN) La dichiarazione del dirigente Ing. Corrado Marri: “La collaborazione con i MdL è necessaria e fondamentale per il nostro istituto soprattutto in un momento come questo dove i fondi per l’alternanza scuola-lavoro sono stati ridotti al 50% dei finanziamenti che la scuola aveva fino al 2018. Il loro servizio è volontario e gratuito, i risultati sono molto lusinghieri. Attorno ai MdL ruotano diverse questioni importanti come ad esempio: • la formazione in ambito sicurezza, fondamentale per poter poi fare lo stage in azienda; • grazie ai MdL a scuola si presentano a scuola si presentano aziende importanti che aprono lo sguardo dei nostri ragazzi a vedere oltre; • l’attività non scontata di compilazione dei curriculum viene fatta sulla base di indicazioni ben precise e la simulazione di colloqui di lavoro con rappresentanti HR di aziende del nostro territorio. Quest’anno grazie all’impegno dei MdL siamo riusciti a visitare l’Elica di Fabriano. I ragazzi delle quinte classi hanno avuto modo di conoscere la filosofia di questa azienda internazionale. Una bellissima esperienza
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costruttiva. Un momento di crescita molto forte e l’opportunità di toccare con mano quello che potrebbe essere il loro futuro fuori dall’istituto. Per me i MdL sono dei partner operativi molto importanti a costo zero. Il loro operato in avanscoperta riesce a mantenere vivo il raccordo con il territorio e a farci raggiungere quegli obbiettivi ambiziosi che ci poniamo come mission. Senza contare l’effetto positivo sui ragazzi: c’è empatia da parte loro, riconoscono la professionalità dei MdL, mostrano interesse e attenzione, sono attenti e precisi. Ogni volta ci sono ci sono feedback di apprezzamento sugli interventi e sulle giornate di orientamento ogni volta. Segno di grande maturità. I MdL nonostante l’età anagrafica sono sempre lontani dalla retorica e proprio per questo vengono così apprezzati dai ragazzi. E’ mia intenzione stendere un accordo formale tra la loro associazione ed il mio istituto, per ufficializzare, sedimentare e dettagliare temi e modalità di collaborazione. Ho davvero una grande riconoscenza nei confronti dei Maestri del Lavoro.”
Il loro sogno
Riuscire a creare un’organizzazione, una sorta di struttura pubblico-privata che riesca a prendersi carico dei ragazzi del 4° e 5° anno degli istituti tecnici professionali e li formi direttamente all’interno delle officine di piccoli imprenditori. Ragazzi con la capacità di guidare una macchina a controllo numerico, di prendere in mano un cacciavite e di non farsi troppi scrupoli nello sporcarsi le mani educati e formati per essere pronti ad un ipotetico inserimento all’interno dell’azienda in due, tre anni.
Novità 2020 a livello nazionale
Da luglio 2020 avrà sede a Roma il primo centro formativo nazionale (CFN) per MdL affinché si possa ulteriormente arricchire la propria “sapienza” per offrire migliori contributi alle giovani generazioni, tramite la personale “testimonianza formativa” nel mondo della scuola. Temi centrali saranno la sicurezza, l’etica e la dispersione scolastica a 16-17 anni.
Scuola, impresa, territorio LOCCIONI: impresa della conoscenza
“Prepariamo i giovani non tanto su determinati sbocchi occupazionali, quanto sulle competenze soft. Li stimoliamo ad una formazione continua che coinvolga aspetti trasversali, anzitutto relazionali e comportamentali, prima che tecnici. La competenza del saper essere diventa allora tanto importante quanto il sapere e il saper fare”, afferma Francesco De Stefano responsabile del progetto Vivaio alla Loccioni. Impresa non a caso individuata dai MdL in questo loro raccontarsi. Già negli ’90 la Loccioni fu infatti pioniera con un progetto educativo rivolto agli imprenditori del domani con l’allora Istituto Tecnico Industriale di Jesi. “Oggi”, ci spiega De Stefano, “Loccioni rappresenta l’impresa della conoscenza. Nata nel 1968 per opera di Enrico e Graziella Loccioni, l’impresa con sede nella Vallesina, ha tra i suoi principali obiettivi quello di essere animatore di in un territorio, creare lavoro di qualità e ispirare nuova imprenditorialità. Fin dall’inizio della sua storia, Loccioni ha collaborato con le scuole, le istituzioni, la comunità locale, con la convinzione che il benessere dell’impresa è legato a quello del territorio. Nel corso degli anni, i progetti di integrazione con la scuola (di ogni ordine e grado) sono andati sempre più affinandosi con un duplice obiettivo: da un lato creare il vivaio dei futuri manager Loccioni, dall’altro divulgare una nuova cultura del lavoro, diversa da quella manifatturiera ed agricola: il lavoro della conoscenza. Qui è vietato fare uso della parola ‘dipendenti’ e ‘alternanza’ è stata sostituita con ‘convergenza’ proprio a significare che scuola e lavoro devono convergere e non alternarsi, che per i ragazzi l’opportunità è vivere le due cose in parallelo e non in sequenza. Il seme dell’imprenditorialità si getta a scuola, l’amore per il fare impresa si può scoprire tra i banchi delle aule e i laboratori dell’impresa. E’ quello che si cerca di fare con il progetto Vivaio, selezionato dal MIUR fra i 16 Campioni dell’Alternanza 2016. Questo modo di operare ci avvicina perennemente all’attività che svolgiamo in sinergia con i MdL, soprattutto nelle scuole superiori, in quanto lo scopo finale di entrambi è quello di agevolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Un altro aspetto importante della nostra collaborazione è la partecipazione dell’impresa, da diverso tempo, al riconoscimento della Stella la Merito del Lavoro ai collaboratori che si sono distinti in base ai principi previsti dalla normativa, tanto che al nostro interno esiste un link a loro riservato, in quanto parte pregiata dell’impresa. La partecipazione costante del Cavaliere del Lavoro Enrico Loccioni, nostro amministratore, alle cerimonie del 1° maggio e ai convegni. rafforza il legame tra impresa e Maestri del Lavoro.” WHY MARCHE | 59
P ERCHÉ “Nulla diventa reale finché non è conosciuto per esperienza”. (John Keats)
TURISMO INDUSTRIALE, TRA ESPERIENZA E OPPORTUNITÀ Parole d’ordine intercettare, mostrare, vendere.
Q
ueste parole sono valide sia che si parli di turismo che semplicemente d’impresa. Quale migliore alleanza tra industria del turismo e industria manifatturiera per promuoversi in modo congiunto ed efficace? Il turismo si lega così a filo doppio alle aziende e le aziende al turismo. Il loro trait d’union diventa il paesaggio. Prima di tutto però, occorre sapere di cosa parliamo. La cosa migliore sarebbe quella di affrontare la tematica secondo tre punti di vista: quello del turista, quello delle aziende e quello degli operatori. Per il turista si tratta di andare alla scoperta delle tradizioni produttive dei territori, visitando un’azienda, un’area industriale in modo esperienziale. Il suo identikit corrisponde a turista per piacere o turista business, clienti, studenti uniti dalla voglia di sapere come viene realizzato un prodotto e dove, come si è evoluto nel tempo: insomma la propria storia e il genio che si nasconde dietro. Per l’azienda si tratta di mettere al centro la propria “storia”, ovvero il vero patrimonio aziendale. Un elemento intrigante di valore che spesso le stesse aziende dimenticano di avere e che invece potrebbero inserire tra i tasselli strategici del proprio marketing. Le aziende così possono diventare meta turistica e il tramite per il turista per conoscere il patrimonio industriale ma anche il territorio. È sempre affascinante entrare in fabbrica tra passato e presente… e curiosare un po’ in giro. Per gli operatori e il territorio si tratta di un’opportunità. Qui automaticamente le parole d’ordine diventano consapevolezza, sinergia, rete, visione comune.
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La potenzialità in generale In Brandeburgo, in Germania, il valore generato dal turismo industriale è pari a 50 mila euro l’anno, mentre il reddito annuo che genera il National Railway Museum di York, nel Regno Unito, raggiunge quota 29 mila euro nella contea dello Yorkshire, attirando ogni anno più di 770.000 visitatori. Il dato risulta ancora più interessante se si considerano tutti gli stati dell’Unione: il turismo relativo al patrimonio industriale genera più di 18 milioni di presenze - quindi di soggiorni, con una spesa media sul territorio di 349,00 euro per i turisti internazionali e di 220,00 euro per quelli nazionali. A questi si aggiungono 146 milioni di escursionisti day-user, con una spesa media sul territorio di 28 euro. In Italia il fenomeno del turismo industriale, a fronte delle attuali 412 mila presenze turistiche, ha un valore potenziale pari a un milione e 86 mila presenze, che si traducono in 126 milioni e 500 mila euro per il solo settore ospitale. (I dati sono tratti dalla ricerca “Il turismo industriale”, a cura di JFC Ferruzzi Massimo - 2015 e dalle fonti: NMSI, Yorkshire Tourist Board 2011; Le Tourisme lié au patrimoine Industriel - Parlement Europeén, 2013 Demunter Dìmitrakopoulou, 2012).
di Raffaella Scortichini
Italia, musei d’impresa Sicuramente è una nuova tendenza: creare un turismo industriale, con percorsi tra fabbriche e aziende, per chi voglia conoscere la cultura e la tradizione del territorio anche attraverso il mondo economico. In Italia, con un alto livello di industrializzazione, il fenomeno del turismo industriale potrebbe diventare un plus importante per l’economia turistica nazionale poiché la domanda e dunque la possibilità di mercato è in costante crescita. Scegliere itinerari di turismo industriale vuol dire scoprire zone inesplorate anche in regioni già decisamente famose per il turismo d’arte e cultura. Il fenomeno è ancora poco diffuso in Italia mentre nel resto d’Europa da parecchio tempo è un settore in ascesa con importanti risultati in termini di presenze e valore generato. L’associazione nazionale Museimpresa ha avviato da tempo numerose iniziative sul tema come la collaborazione alla realizzazione della guida del Touring Club Italiano dedicata al turismo industriale in Italia.
Marche, alla scoperta del Made in Italy e dei paesaggi culturali
La Regione Marche è ad oggi la seconda regione più manifatturiera d’Italia e la potenzialità espressa da questo settore diventa particolarmente significativa se alle destinazioni legate al turismo industriale si uniscono il patrimonio culturale, paesaggistico e l’enogastronomia. Il dato è destinato certamente ad incrementarsi. Le produzioni industriali e artigianali delle Marche completano lo straordinario paesaggio marchigiano inteso come elemento di coesione in un panorama economico, sociale, culturale e geografico ricco e articolato che ruota intorno alla centralità della cultura industriale, anima e identità di questa terra. Uno straordinario scenario composto da piccole e medie imprese – molte ormai centenarie - espressione di una matrice che racconta l’identità e i valori che fanno ancora brillare la regione in tutto il mondo. Un patrimonio fatto di luoghi, manufatti, strutture, processi e persone che identificano lo stile di vita e di produzione della Regione Marche. Le Marche propongono eccellenti esperienze di alcuni importanti musei di impresa (Cartiere Miliani, FIAM Italia, Poltrona Frau, Guzzini ed altri) che si stagliano in un tessuto produttivo che ha a disposizione testimonianze e racconti degni di essere conservati e tramandati, preziose competenze artigianali da sperimentare, metodi gestionali o organizzativi da studiare, sistemi di produzione affascinanti e quanto altro può meritare di essere conosciuto e visitato. Luoghi che hanno vissuto direttamente lo sviluppo delle società e che diventano così valori da scoprire, perché qui è forte l’attrattiva evocativa delle esperienze e della cultura del Made in Italy in quanto raccontano di ambienti, prodotti, macchinari, processi e valori che hanno fatto ed in molti casi continuano a fare la storia culturale di un’intera epoca basata sul lavoro in fabbrica. Il turismo industriale rappresenta dunque uno dei migliori campi dove applicare un cross-over tra settori richiedendo per la sua organizzazione e promozione una filiera composta da tre componenti: quella creativa in senso stretto (comunicazione, multimedia, ICT), quella turistica e quella rappresentativa del tessuto manifatturiero e della produzione di qualità.
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P ERCHÉ Il progetto Visit Industry Marche
Dal 2019 nelle Marche è partita l’iniziativa Visit Industry Marche che vuole veicolare al meglio i valori e i caratteri identitari del territorio a partire dal grande e originale patrimonio culturale delle imprese che lo contraddistinguono. Si tratta di un nuovo prodotto turistico che ha l’obiettivo di valorizzazione non solo il patrimonio culturale, la storia, i valori e le identità delle imprese coinvolte, ma anche il patrimonio storico, culturale e paesaggistico dell’intera regione. L’iniziativa si posiziona dunque nel campo del turismo industriale, declinazione del turismo culturale, che rappresenta un’opportunità per le imprese di conservare la loro storia per farne un elemento di valore aggiunto e uno strumento di promozione del territorio. Visit Industry Marche propone un format che trae ispirazione dal diffuso immaginario legato all’industria ed al mondo della produzione marchigiana con percorsi che ruotano attorno ad alcune parole chiave evocative in grado di richiamare le produzioni del miglior manifatturiero regionale e di condurre l’immaginario del turista attraverso itinerari culturali e di valorizzazione del patrimonio materiale e immate-riale della regione.
“Luce”, “Suono”, “Gioco”, “Sapore”, “Lifestyle”, “Futuro”, “Carta” hanno il potere di evocare alcune delle più importanti realtà produttive regionali e al tempo stesso di offrire un legame tematico, simbolico, esperienziale in grado di accompagnare gli itinerari attraverso il paesaggio marchigiano. “Luce” ad esempio è la storia, la produzione, i progetti di importanti realtà industriali ma al tempo stesso rappresenta la spiritualità del santuario di Loreto, la maestria di Lotto a Jesi, le visioni di Giacomelli a Senigallia o quella “luna, in ciel” del Leopardi di Recanati. Lo stesso concept si applica al “Suono” con gli organetti, le fisarmoniche, le chitar-re e gli amplificatori che hanno costruito uno dei distretti dello strumento musicale più importante al mondo e oggi si uniscono al teatro d’opera di Macerata e Pesaro, i festival di musica etc. Sono solo alcuni esempi in un territorio dove le produzioni industriali spaziano dal giocattolo, al settore del mobile e arredamento, della moda, del gioiello, la stampa e l’editoria, l’automazione, l’elettronica e il digitale fino a tutto il settore del food (vino e distillati, agricoltura, alimentari…).
Il target di mercato cui guarda Visit Industry Marche è di turisti leisure, che integrano quest’esperienza nel loro viaggio o ne fanno la motivazione principale, ma sono anche turisti business, ricercatori, studenti, clienti e dealer delle stesse aziende. Le aziende riconoscono il progetto come opportunità di conservazione della loro storia attraverso gli elementi di valore e uno storytelling efficace importante nelle trategia di marketing e dunque parte integrante del business dell’azienda stessa.
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Il contesto locale è assai favorevole per avviare e consolidare quest’idea di business che leghi patrimonio culturale e patrimonio industriale. L’imprenditoria del Made in Marche, se incoraggiata ed accompagnata, potrebbe contribuire a ridurre il ritardo dell’incoming rispetto anche a regioni più avanzate e l’incontro tra imprese manifatturiere e destinazioni turistiche potrebbe costituire un innovativo parametro per le strategie di sviluppo territoriale. Non è un caso che Symbola posizioni le Marche nel 2018 al quinto posto tra le regioni italiane per ruolo del sistema produttivo culturale e creativo con 2,2 miliardi di euro di prodotto interno su un totale pari a 35,2 (il 6,2%) e con 42.200 occupati su un totale di 640.200 (6,6%) ponendosi in entrambi i casi sopra la media nazionale. Per quanto riguarda i beni culturali la regione si caratterizza per un patrimonio storico-architettonico ricco e diffuso su tutto il territorio, con realtà che rappresentano punti di forza della capacità attrattiva del turismo culturale (2500 i beni architettonici vincolati riconosciuti di interesse culturale). Da ultimo appare utile ricordare l’elevato rapporto tra il numero delle imprese e quello della popolazione. Una regione ad altissima densità imprenditoriale con scarsa capacità a favorire la crescita dimensionale ha saputo, nel complesso, reagire alla crisi, innovandosi e riorganizzando i distretti e riposizionandosi anche sui mercati internazionali.
I promotori di Visit Industry Marche
Visit Industry Marche è l’ultimo progresso di un lavoro avviato nel 2005 dall’associazione per la Cultura d’Impresa Il Paesaggio dell’Eccellenza che come intento vuole accrescere la consapevolezza “dell’importanza e della centralità (non solo economica) della cultura produttiva, della sua trasmissione, della necessaria integrazione con la più generale crescita sociale e culturale della regione”. L’opera dell’associazione composta da alcune tra le più rappresentative imprese delle Marche e da alcuni attori territoriali pubblici, si muove osservando il contesto di globalizzazione e di evoluzione in senso metropolitano del sistema delle città del medio Adriatico (in termini di densità, continuità, distribuzione dei servizi sul territorio eccetera). Dalla sua fondazione Il Paesaggio dell’Eccellenza ha ritenuto importante individuare la ricerca di un equilibrio tra l’inevitabile crescita metropolitana e la necessità di conservare o ricreare un sistema di gerarchie e punti di riferimento che razionalizzi flussi e movimenti, che renda comunque possibile la sopravvivenza – o meglio la valorizzazione – delle specifiche qualità di questo territorio, che armonizzi le esigenze della vita contemporanea con la tutela del paesaggio, che salvaguardi l’accessibilità e la possibilità di una fruizione qualificata ed efficiente del luoghi e dei servizi anche al fine di tutelare e valorizzare la fittissima rete di beni storico-ambientali nel quale il nuovo sistema urbano va a inserirsi. Al Paesaggio dell’Eccellenza si uniscono nell’ideazione e sviluppo di Visit Industry Marche altre tre società - tutte marchigiane - che caratterizzano la filiera di questa nuova proposta.
e-Lios è un’azienda giovane e dinamica, che vanta oggi più di 15 dipendenti e oltre un milione di euro fatturato. L’attività di e-Lios è racchiusa in tre aree: smart gov, a supporto della digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni, smart business, per l’innovazione tecnologica delle imprese, e la web agency che si occupa dello sviluppo web e app mobile, particolarmente focalizzata sul settore della cultura e del turismo. Go World, è tra i primi tre tour operator italiani sulle destinazioni programmate. Sviluppa oltre 10 milioni di euro di fatturato con più di 35 membri tra dipendenti e collaboratori. Il gruppo vanta tra i suoi clienti alcune delle più importanti imprese italiane e diverse istituzioni pubbliche. Ma:Design ha progettato e coordinato piani di comunicazione strategica personalizzata per istituzioni pubbliche e private, aziende, enti e associazioni. Ma:Design si occupa di identità aziendale, i suoi progetti sono pubblicati su qualificate pubblicazioni di settore nazionali e internazionali e i suoi manifesti fanno parte di molte collezioni, pubbliche e private. Lo studio è associato all’ADI, Associazione per il Disegno Industriale.
Tra le prospettive del progetto l’ampliamento di Visit Industry Marche che guarda alle aree del cratere sisma dove è pronto un disegno specifico che attraverso la tecnologia e il digitale permetterà di scoprire nuovi itinerari all’interno di questi territori esplorando virtualmente a 360° le imprese e i luoghi più belli e suggestivi.
Intanto Il Paesaggio dell’Eccellenza è la più importante esperienza associativa regionale nel settore della cultura d’impresa ai fini della valorizzazione, conservazione e riscoperta del patrimonio industriale e artigianale marchigiano. Costituiscono l’associazione alcune tra le più importanti aziende private marchigiane insieme a soggetti pubblici nei settori dell’amministrazione, dell’istruzione, della formazione e della ricerca. Il Paesaggio dell’Eccellenza è anche partner di Museimpresa, la rete nazionale che raggruppa musei e archivi d’impresa di alcune tra le più importanti realtà imprenditoriali del Made in Italy. WHY MARCHE | 63
S PIRITO
“Vagheggiare, Vagheggiare, bellissimo verbo scriveva Giacomo Leopardi in una pagina del suo Zibaldone. I superficiali che si affrettano ad appiccicare su questo immenso poeta e pensatore l’etichetta di pessimista disperato e disperante dovrebbero riflettere su questo pensiero il cui senso ritorna spesso nelle creazioni del grande recanatese, anche quelle apparentemente più cupe: ad esempio in Le Ricordanze, là dove egli rievoca il potere dei paesaggi marchigiani di accendere la sua fantasia:
E che pensieri immensi, che dolci sogni mi spirò la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri che di qua scopro e che varcare un giorno io mi pensava, arcani mondi, arcana felicità fingendo al viver mio!
G
ià qui appare quell’idea leopardiana dell’andare al di là della realtà del quotidiano, del trovare oltre il sipario del mondo materiale qualcosa di fantastico e meraviglioso. Questa idea trova la sua più alta espressione nella composizione più perfetta: quella di L’Infinito che rappresenta un vertice poetico assoluto, non solo leopardiano e italiano, e di cui celebriamo il duecentesimo anniversario della creazione. La siepe che da tanta parte il guardo esclude dà modo alla fantasia del poeta di sbrigliarsi e di fingere di là da quella, nel pensiero, interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete: così che ciò che apparentemente è un limite diventa il propulsore dell’immaginazione verso la dimensione dell’infinito. Leopardi esprime con i suoi inarrivabili versi un principio che anima da sempre lo spirito umano. Altre siepi,
bellissimo verbo” non materialmente esistenti ma non per questo meno avvolgenti, hanno generato gli innumerevoli miti che affollano le tradizioni e le culture di tutte le società umane. In verità, di miti e di sogni noi abbiamo sempre avuto un bisogno ineludibile perché la piatta, arida e spietata realtà del vivere quotidiano non ci è mai bastata. C’erano tante cose misteriose: l’alba, il sole che attraversava il cielo, il tramonto, la luna che sorgeva, cambiava, scompariva e riappariva; il mare ora placido e tranquillo ora furibondo e urlante e l’andare e venire delle maree; le stelle, le nuvole cangianti, le ombre della sera, i fruscii e i brontolii nei boschi. E ancora i sogni, che permettevano a chi non c’era più di tornare a visitare i viventi e che rendevano possibili cose irrealizzabili nella veglia come volare, attraversare muri, essere altro da sé. Tutto ciò permetteva di immaginare che esistessero altre realtà e altri mondi: alcuni terrificanti come l’oscurità delle caverne e delle foreste, come il lampo dei fulmini e il fragore del tuono, e abitati da creature mostruose e maligne come i coboldi, i vampiri, i lupi mannari, le streghe. Ma altri sereni, luminosi, amichevoli e affollati di fate, elfi, gnomi e spiritelli gentili come Ariel ne La Tempesta e Puck nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Il mondo di oggi volta le spalle a tutte queste creature, a questi mondi che Leopardi sapeva immaginare oltre il mare lontano e i monti azzurri e oltre la siepe, accanto alla quale sedeva sul Monte Tabor. Il nostro mondo razionale, calcolatore e frettoloso sembra voler negare alle creature del mito il diritto di esistere così condannandole, apparentemente, a svanire nel nulla. «Ci dovrebbe essere una fata per ogni bambino e ogni bambina» dice Peter Pan a Wendy nel romanzo di J.M. Barrie. «Dovrebbe? Non c’è?» gli chiede lei. E lui: «No. Vedi, i bambini sanno così tante cose, ora, che smettono presto di credere nelle fate. E ogni volta che un bambino dice “Io non credo nelle fate” c’è una fata, da qualche parte, che cade a terra morta». Forse, però, non tutto è perduto. Le fate sanno che, in fondo, di loro abbiamo bisogno anche noi figli di questa era tecnologica, quanto e forse più dei nostri nonni e bisnonni.
Disponibile su Amazon 64 | WHY MARCHE
SIBILLA, IL LIBRO Un amico esperto di teatro viene a trovarti per fare quattro chiacchiere e tu gli butti là che hai appena finito un lavoro per “Why Marche” che riguarda, ovviamente, il territorio marchigiano. E lui ti invita a scrivere qualcosa di originale, che so: un testo teatrale, o una storia, che racconti quel territorio e le sue leggende. Tu ci pensi un po’ su e poi raccogli l’invito. Chiami un altro amico, una guida specializzata per le escursioni nel Parco dei Sibillini, e gli chiedi di accompagnarti a fare un giro lassù, sul monte e nel Parco della Sibilla, per dare un’occhiata ai luoghi in cui pensi di ambientare l’embrione di storia che comincia a germogliarti nella mente. Grazie a una dritta di Lucia Tancredi, scrittrice raffinatissima, fra l’altro, di un libro sui luoghi d’arte nel maceratese e più di recente, di una bella storia dello Sferisterio, scopri poi una fonte preziosa, una vera miniera di riferimenti,
di Giuseppe Riccardo Festa
© Ph. P. Bolognini
Lo constatiamo ogni volta che sfogliamo un volume della saga di Harry Potter o ci lasciamo incantare dalle vicende di uomini, nani, hobbit, orchi ed elfi nella Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien, dalle Cronache di Narnia o dai cupi scenari di Il Trono di Spade. Ma perché andare a cercarle, queste creature magiche, in nuove saghe, in altri mondi e altri paesi? Ne abbiamo anche noi qui, di secolari e millenarie sulle spiagge, sulle colline e sui monti delle nostre Marche. D’estate a Portonovo, al tramonto, col frinire dell’ultima cicala Serenella piange il suo Floriano; e d’inverno il diavolo urla e stride dalla sua fossa sul monte della Mattera. Cavalieri erranti come Tannhauser e Guerrin Meschino venivano da lontano a interrogare le fate proprio qui, sui nostri monti. Un tempo là, su quel monte che disegna nel suo profilo il volto della grande Profetessa dormiente, trillavano gli spiritelli ed echeggiavano i canti ammalianti delle fate. Terrorizzando i bambini, i dispettosi mazzamurelli martellavano i loro colpi, nel cuore della notte, contro i muri delle case. Misteriosi ritmi batteva contro i tronchi delle querce il becco del Picchio, il sacro uccellino simbolo della Regione che ha dato il nome gli antichi Piceni. E soprattutto, lassù, nel trepido silenzio degli astanti, risuonavano i responsi e le profezie di lei: la Sibilla Alcina che emergeva maestosa, affascinante e terribile dalle misteriose vastità della sua grotta, figlia immortale di un tempo
nel bel saggio “L’ultima Sibilla” di Maria Luciana Buseghin, pubblicato da Carsa Edizioni. Trovi in Maria Luciana una nuova e carissima amica, tanto ricca di cultura quanto generosa nel condividere questa sua ricchezza. L’embrione di storia intanto ti cresce dentro, matura, sviluppa i suoi meccanismi e acquisisce una sua fisionomia; e alla fine ti metti a scrivere”. È così, racconta Giuseppe Riccardo Festa, che all’insegna della levità, dopo il serioso “Dietro l’altare” e il fanta-catastrofico “Moorea”, nasce “Sibilla”, la sua terza fatica letteraria che, come è precisato in copertina, ama definire “fiaba moderna in forma di romanzo”. Scenario della storia sono i monti e il Parco dei Sibillini che, all’insegna del profitto ipocritamente mascherato dal progresso, politici e affaristi senza scrupoli vogliono stravolgere e snaturare. Ma dovranno vedersela con le Carmenta, le donne di tre
remoto e immemorabile, circondata da una corte di bellissime ancelle pronte a obbedire a ogni suo gesto. Non c’è borgo, altura, gola o corso d’acqua, nelle nostre Marche, che non abbia il suo racconto magico da raccontare e il suo genius loci da far rivivere. E di loro noi abbiamo bisogno, molto ma molto più di quanto non ci piaccia ammettere. Circonda un uomo di angoli retti e lo farai impazzire dice un saggio, critico delle città moderne squadrate, efficienti e prive di anima. Potremmo interpretare questo aforisma in un altro modo: Togli ad un uomo la fantasia e lo condannerai a morte. Le nostre, di città, fortunatamente non sono fatte di angoli retti ma anzi di mura avvolgenti che seguono il profilo delle loro colline, di archi tondeggianti, di vicoli tortuosi e piagge declinanti: sono disegnate a misura d’uomo. Ma le nostre menti tendono, loro sì, a riempirsi di angoli retti, a rifiutare quel pizzico di magia, se non di follia, che rende la vita degna di essere vissuta e che dà la vita alle fate, agli spiriti dei boschi, ai mazzamurelli, alla Sibilla Alcina, alla piangente Serenella e al furibondo diavolo del monte della Mattera. Per questo Giacomo Leopardi adorava vagheggiare. Per questo andava a sedersi accanto a quella siepe e a fingere nel suo pensiero, di là da quella, arcani mondi, interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete. Per questo
generazioni di una famiglia che rappresenta la femminilità in tutta la sua caleidoscopica ricchezza di sapienza ancestrale, determinazione, saggezza, imprevedibilità, spirito pratico, astuzia e, perché no, anche fascino, bellezza e sex-appeal. L’autore non nasconde di ammirare senza condizioni l’universo femminile e pone per questo le donne al centro della vicenda. Senza appesantire il racconto, godibilissimo anche se ci si accosta per la prima volta al mito della Sibilla, Giuseppe Riccardo Festa strizza l’occhio a chi è familiare con quel mito e con la storia, giocando con i suoi personaggi che nel nome e nel carattere alludono ad altri personaggi, storici o leggendari. Ecco così nascere Rino Meschini, Gaetano Iseri detto Tannise’, Fabrizio Marmaldi, don Domenico Cusumani. E soprattutto le tre Carmenta: la vecchia Porrina che parla in quinari ed endecasillabi, sua figlia Amaltea, e soprattutto
Leopardi sapeva parlare alla luna, pur sapendo benissimo che essa non è che un freddo e morto satellite della terra, il cui moto è governato dalle leggi della gravità. Il prisma magico della poesia gli permetteva di vedere accanto a quello reale, arido e materiale, un altro mondo: un mondo nel quale la silenziosa luna diventa una giovinetta immortal che sorge la sera e va, contemplando i deserti. Lui era un poeta, forse il più grande che il mondo abbia mai generato. Grazie al suo insegnamento, e al richiamo del bambino che ci portiamo dentro, anche se spesso di quel bambino ci dimentichiamo, anche noi comuni mortali possiamo vagheggiare. Così teniamo in vita le creature meravigliose che, per esistere, hanno bisogno di noi, di un nostro minuto di ingenuità e di abbandono. In cambio, esse ci donano la gioia della fantasia, la capacità di guardare il mondo con occhi nuovi ma in realtà antichi. Che è poi la meravigliosa possibilità di sentirci, grazie a loro, anche noi poeti. Quindi di essere veramente, intensamente, meravigliosamente vivi.
sua nipote, l’eponima Sibilla. Personaggi legati ai miti che tanto contribuiscono al fascino delle nostre montagne, come Guerrin Meschino e Tannhauser e soprattutto loro, le Sibille: le fate benevole verso chi rispetta e onora le montagne e i boschi, ma spietate con chi le montagne e i boschi vuole stravolgere e snaturare. Immergendosi nel romanzo, il lettore vive momenti di profondo romanticismo e lirismo, di autentico umorismo e di tensione degna di un giallo, con una spruzzatina di erotismo, che non guasta mai. Si sente avvolgere dalla magia, che aleggia costante su ogni pagina. Un romanzo godibile, secondo Maria Luciana Buseghin che di queste cose se ne intende, al punto di indurla a elargire a Giuseppe Riccardo Festa il più bel complimento che un autore possa sperare di ricevere: “Leggere “Sibilla” mi è piaciuto così tanto che mi è dispiaciuto arrivare alla fine”. Recensione di R. Scortichini WHY MARCHE | 65
S PIRITO
A
A FALCONARA: DIVERSI RACCONTI E TANTE VITE IN UNA MOSTRA
Falconara, presso la Sala Mercato, nel mese di febbraio 2020 si è tenuta la mostra “A Falconara oggetti e ricordi si incontrano”, fortemente voluta e sostenuta dall’Università delle Tre Età di Falconara, presieduta da Giuseppina Sidoti Di Giorgio, con il patrocinio dell’amministrazione comunale. Un nutrito gruppo (1500 i visitatori) di portatori diretti ed indiretti di memorie e testimonianze documentarie e materiali ha contribuito a rendere ricco e prezioso l’allestimento. Il percorso espositivo proposto, dedicato a Falconara ed ai luoghi d’origine di molti suoi abitanti, nel corso degli ultimi ottant’anni di storia, ha visualizzato e virtualmente messo in scena i racconti di vita raccolti presso gli iscritti della stessa Unitre, già in parte riportati tre anni fa nel volume “Falconara, luogo di incontro: memorie di quotidianità e vissuti tra terra e mare, strade e ferrovia” (edito da Il Lavoro Editoriale, 2017). È un libro sulla memoria storica di Falconara e di altre realtà dell’entroterra anconetano e maceratese (ma anche con significative escursioni nel resto d’Italia), costruito attraverso le testimonianze orali raccolte con interviste filmate (a cura di Enrico Orsetti) mirate a persone che nel corso del tempo (fino agli ultimi decenni) si sono avvicinate a questa città divenendone cittadini ed abitanti, finendone coinvolti nella vita, nel lavoro, negli affetti, ed infine nel desiderio maturo di approfondimento intellettuale e di ricerca condivisa, rappresentato e proposto dall’Unitre come fortissimo polo di aggregazione sociale e culturale, attraverso i suoi corsi, le sue lezioni, le sue conferenze, i suoi laboratori, le sue attività ricreative. I racconti che si dipanavano dai tracciati biografici individuali hanno saputo indugiare su tutti gli aspetti e le problematiche della vita quotidiana. L’insieme di particolari sulle pratiche e sulle culture materiali di ogni ambito dell’esistenza, impreziosito da considerazioni emotive e riflessioni soggettive, ha così via via delineato un affresco del passato, a tanti ritratti di storie che finivano con il comporre la storia di un territorio che progressivamente si assemblava ed arricchiva con provenienze eterogenee e contributi di ricca diversità. Si delineava così giocoforza la visione di questa comunità come
specchio della storia e delle vicende nazionali, dalla ruralità all’urbanità, con i percorsi individuali motivati dalla ricerca della casa e dal lavoro, attraverso il gioco e la formazione morale e scolastica, fino all’affermazione personale e al radicamento dalla affettività, e con il traino individuale e familiare della devozione e delle ideologie e dei propri bagagli culturali. Il racconto di Falconara scorreva così parallelo al quadro delle trasformazioni sociali e culturali del nostro Paese tra il dopoguerra e l’avvento del nuovo secolo, in un cinquantennio di autentico radicale capovolgimento di prospettive e condizioni di vita per tutti gli italiani, con un conseguente nuovo assetto anche del territorio, del paesaggio, della dimensione urbana (sempre più cittadina di scambi e fermenti, sempre meno borgo paesano) rispetto alle antiche dimensioni naturali del mare e della campagna. Ogni intervistato/protagonista nella sua narrazione ha portato non solo la sua testimonianza a voce ma anche documentazione a sua scelta e discrezione, consistente in pagine manoscritte ed altri documenti testuali, in fotografie dei propri familiari e dei ricordi di casa, assieme anche a cose, utensili o manufatti, veri e proprie prove, tangibili e materiali, dei loro vissuti. Questi “oggetti d’affezione” recano in sé l’aneddotica infinita di storie individuali di memorie personali e familiari, che si va a sommare alla portata universale che già di per sé conservano esempi di esperienza tecnica e materiale del saper fare. Si è così, racconto dopo racconto, composta una virtuale raccolta di testimonianze e reperti che nella dimensione domestica e personale contrassegnavano una volta gli scenari del quotidiano, utensili che poi hanno perso la loro funzione originaria, ma che sono diventati feticci affettivi e reperti della memoria familiare. Da questa collezione di cose parlanti è stato automatico immaginare una mostra che ambisse a raccontare i contesti d’appartenenza e le atmosfere di queste storie individuali nel crocevia della storia universale, partendo dai luoghi di origine così differenti (ma con tratti anche inevitabilmente simili e in comune), per approdare virtualmente a quel microcosmo naturale di incontri e di destini rappresentato da Falconara, dal suo mare, dalla sua linea ferroviaria, dalla vita di quelle strade e quei quartieri antichi ed in progressiva via di costruzione. © Ph. A. Tessadori
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di Tommaso Lucchetti
La mostra racconta infatti di tanti individui che da luoghi ed angoli diversissimi sono giunti nel Dopoguerra in questa cittadina attorno ad un importante snodo ferroviario, unendosi a chi vi abitava da sempre, fondendo le loro storie e memorie in un’unica comunità, trasformando Falconara in un nuovo “luogo d’incontro”. Nella prima stanza vengono disposte le ideali “chiavi” per rientrare in quei luoghi emblematici, tipici dei paesi di campagna, che caratterizzavano molti dei borghi di provenienza ed origine dei narratori/ protagonisti, con tutto il loro valore d’identità e formazione: il campanile, la piazza, la scuola, il mercato, l’osteria, il municipio. Gli oggetti assemblati, attorno ai pannelli con foto e frasi emblematiche delle memorie raccolte, sono tutti feticci di quel tempo trascorso in quei luoghi dove si imparava, nel banco come nella vita: cartelli, quaderni, pagelle, mappamondi e sussidiari per la scuola, le bilance nel vociare dei mercati (luogo di scambio, non solo di prodotti), le tovaglie a scacchi ed i boccali da osteria, assieme a due calendari che rievocano le feroci dualità e diatribe del pettegolezzo, con in questo caso le effigi procaci e prosperose delle iconiche rivali Lollobrigida e Loren. Questa sezione si conclude con un breve camminatoio dedicato al viaggio: il tema è svolto nel senso di strada, tra tragitti e cambiamenti anche radicali, come chi da ragazzina felice ha abbandonato per sempre le colonie d’Africa (portandosi ovunque souvenir di quel magico continente nero ed ammaliante), tra esperienza formative di vita ora estinte (una piccola sezione è dedicata ad utensili di mestieri ambulanti di un tempo), fino al concetto del bagaglio di drammatici vissuti familiari: ecco
così le valigie dei soldati di ritorno dal Fronte, le lettere più disparate e disperate (persino dai campi di concentramento), documenti e cimeli di incontri ravvicinati con la storia, che i racconti e le glorie di famiglia portano ad allungarsi fino alla fine dell’Ottocento (a mostra iniziata sono stati portati in esposizione il cappello rosso di uno dei “Mille” ed un ritratto autografato di Giuseppe Garibaldi). La seconda sezione rievoca il calendario delle stagioni: il trascolorire ciclico ed eterno della campagna, con le pesanti “opere” agrarie, gli odori ed i sapori dei raccolti, le feste sacre e rurali che univano la terra ed il cielo. Assieme ad alcuni notevoli utensili per la lavorazione della terra (alcuni anche decorati ed intagliati), prestati dal museo delle tradizioni contadine di Cingoli (luogo d’origine di due intervistati) per terra sono stati disposti tra i tanti elementi anche dolcetti e merende tipiche sui prati, le uova tinte con le erbe per Pasqua, l’albero di Natale con i mandarini legati ai rami, reperti dell’apicoltura artigianale, della vitivinicoltura, bamboline fatte con le foglie delle pannocchie scartocciate. Dagli esterni della campagna e della vita pubblica alla dimensione degli interni e degli spazi privati: la terza sala racconta la casa e la vita e ci si inoltra così nella dimensione domestica degli interni: la cucina, la sala, la camera, la quotidianità delle piccole cose narranti dell’anima e le grandi tappe dell’esistenza. Accanto a pezzi ormai d’antiquariato, ormai lontanissimi dalla dimensione ordinaria quotidiana (come il “prete” e la “monica” per scaldare il letto, il lavabo con la brocca e la catinella, una vecchissima culla con dentro bambole, sontuose alcune radio rivestite in legno di radica, macinini e mortai) figurano soprammobili
che tradiscono gusti e stili di altre epoche, porcellane e servizi da caffè leziosamente fiorati, scatole di latta per biscotti e cioccolate dai motivi Liberty o Art Deco, che nel tempo da bomboniere vengono adottati come scrigni porta ricordi. E di ricordi golosi sussurrano i molti stampi da dolci in rame e il paiolo da polenta, come anche certi quadernetti con ricette manoscritte e ritagliate da giornali e riviste, che raccontano dinamiche e vicende di scambi ed incontri di famiglia quanto gli album fotografici. E non a caso in questa concezione di mostra “dinamica” si è lasciato un registro per trascrivere le proprie ricette del cuore ad ogni visitatore e spazi bianchi ovunque come bacheche da riempire con foto o altre proprie tracce e memorie a tema, scritte e lasciate su post-it adesivi. In questa sezione poi diversi abiti d’epoca, da sposa o da sera, da bambini e da neonati, assieme a stoffe di corredo da dote ricordano come si stia narrando di persone nel cammino della vita. Nella quarta ed ultima sezione ecco Falconara, l’approdo finale di tutto, di quella corrente portata dal “fiume della storia e dagli affluenti della memoria”, come dalla foce dell’Esino al mare: Falconara Alta, i quartieri e le frazioni, la raffineria e la stazione ferroviaria, i bar e i caffé, la spiaggia, la vita, il lavoro, le vacanze. I cittadini hanno portato elementi che sono autentici vessilli delle identità socio-culturali distintive di questo piccolo centro: dalle carte private del capostazione (compresi i progetti abbozzati per i mitici presepi montati ad ogni fine d’anno) alle dolcezze pubbliche e private ricordate ma purtroppo svanite di Bedetti (tempio sapiente dell’artigianato goloso cittadino), passando per una vela antica come trofeo dell’identità marinara locale, e per alcune gioie da laboratorio quali gentilissimo prestito dell’antica farmacia cittadina a gestione familiare (compreso un mortaio in bronzo dorato, vergognosamente trafugato dalla teca durante la mostra) È lecito davvero sperare che il fiume dei ricordi, e la consapevolezza di come la storia e l’identità culturale partono da iniziative come queste, possa sempre sgorgare da questi oggetti parlanti e da queste atmosfere silenti, per quanti vi hanno direttamente preso parte e per coloro a cui possano appartenere a partire da ora, come recupero di una storia recente, collettiva e condivisa, e di tante singole storie percorse.
Tommaso Lucchetti, curatore scientifico della mostra (Gruppo di lavoro composto da: Gianna Gambelli, Maria Graziosi, Lina Panichelli, Giuliana Pizzi)
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S PIRITO
MARIO DEL MONACO
Nell’interpretazione di Otello che lo rese celebre
I
l suo Otello sarà ricordato negli annali della storia della musica lirica italiana. Definito “o maior tenor do mundo de todos os tempos”, il miglior tenore del mondo di tutti i tempi, dal critico musicale brasiliano Armando Francisco Marengo, Mario Del Monaco deve molto alle Marche, a Pesaro in particolare, che conserva le sue spoglie nel cittadino cimitero dal 1982, anno della sua morte. Ben noto ai pesaresi è il monumentale omaggio che l’artista Giò Pomodoro realizzò al camposanto della città
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marchigiana per celebrare il tenore. La sua tomba si trova proprio all’ingresso del cimitero e ha il titolo di “Sole deposto”. Il cantante riposa in questo luogo insieme alla sua amata moglie, Rina. Chi era Mario Del Monaco? Perché così profondo fu il suo rapporto con la nostra regione e con Pesaro, soprattutto? Sì, perché Del Monaco non nacque nella città marchigiana, bensì a Firenze, il 27 luglio 1915. Figlio d’arte (la madre Flora Giachetti, la sua “prima musa” come ebbe
modo di dichiarare lo stesso Del Monaco, aveva una meravigliosa voce di soprano e il nonno di baritono, mentre il padre Ettore aveva svolto per qualche tempo l’attività di critico musicale a New York), Del Monaco visse la sua infanzia immerso nella musica, tanto che iniziò a studiare violino da autodidatta. Ma la passione per il canto si fece ben presto strada in lui e a Cremona, città in cui tutta la famiglia si era nel frattempo trasferita, iniziò ad apprendere le prime nozioni di canto lirico dal maestro Dondi,
di Ilaria Cofanelli
MARIO DEL MONACO, IL TENORE CHE FU GRANDE GRAZIE ALLE MARCHE docente di pianoforte e solfeggio. A Pesaro la famiglia Del Monaco approdò quando il giovane Mario era un adolescente di tredici anni. Nella città marchigiana il padre si era dovuto trasferire per questioni lavorative e nella culla della musica, Mario si iscrisse al locale liceo musicale, mentre contemporaneamente prendeva lezioni di canto. In quel periodo Pesaro, città di circa quarantamila abitanti, brulicava di vivacità artistica e musicale. Non era raro imbattersi, tra le vie del centro storico e nelle piazze, in pianisti, compositori, violinisti e insegnanti. Proprio qui, nelle Marche, il riservato Mario calcò per la prima volta i palcoscenici: il suo debutto si registrò a Mondolfo, nel Teatro Beniamino Gigli con l’esibizione del pezzo “L’idillio”, contenuto nel Narciso di Massenet. Anche la città dorica, Ancona, potè gustare l’estro e la bravura del cantante, che recitò nel Don Pasquale. L’artista
© A.Tessadori
andò in scena anche a Sant’Angelo in Lizzola, piccola località in provincia di Pesaro-Urbino, con il Normanno e Arturo della Lucia di Lammermoor. Evidente è, dunque, il legame particolare che l’artista aveva instaurato con la regione marchigiana, culla dei suoi primi successi. Già al tempo le cronache cittadine lo ritraevano come “un fenomeno che a giudizio di competenti, in un domani non lontano, sboccerà in un artista dalla voce possente”. Da Pesaro Del Monaco si trasferì nella capitale, chiamato dal Teatro dell’Opera. A Roma, però, la sua voce non raggiunse il successo che meritava in quanto gli insegnanti lo avevano indirizzato verso metodi di lavoro inadatti alla sua capacità vocale. L’incontro con quella che poi diventò la moglie, Rina Filippini, fece sì che la sua carriera e la sua formazione subissero una svolta senz’altro positiva: fu lei a spronarlo a tornare a Pesaro, sotto la guida del maestro Arturo Melocchi, che lo aiutò a riacquistare quella sicurezza che nella capitale era andata scemando. Del Monaco visse anche l’esperienza della guerra: indossò la divisa militare tra Milano e Treviso, dove prestò servizio come autiere. La sera di Capodanno del 1941 debuttò al Teatro Puccini di Milano nel ruolo di Pinkerton. Da quel momento la carriera artistica di Del Monaco decollò e non conobbe soste, se non per un periodo a seguito di un incidente automobilistico nel 1963, da cui si salvò per miracolo dopo un lungo periodo di riabilitazione (aveva riportato fratture al femore e alla tibia). Calcò i palcoscenici di Mosca, New York, Vienna, Londra, Verona, Buenos Aires, Amburgo, ma il cuore dell’artista, che “non è sufficiente ascoltare, ma bisogna vedere” secondo il critico
americano Irvin Kolodin, era legato alle Marche in maniera quasi viscerale. Del Monaco, con una delle sue 427 rappresentazioni di Otello, si era esibito anche al Teatro Pergolesi di Jesi, proprio all’indomani del riconoscimento dello stesso come Teatro della Tradizione, nel 1968. Non fu quella l’unico spettacolo del tenore, che era già stato a Jesi nel 1943 e vi tornò nel 1970. Un uomo, un artista apprezzato in tutto il mondo, che era riuscito a creare con il pubblico un legame unico. Queste le parole che Enzo Biagi pronunciò in occasione di una sua visita all’artista poco prima della malattia (una dialisi renale e un infarto) che lo strapparono alla vita, a Treviso, nel 1982: “Aveva tutto: il fisico, la voce, i modi, le astuzie, forse anche quel tanto di improntitudine che occorre per dominare le platee. Si sentiva, giustamente, l’erede più accreditato di Caruso e di Gigli. E si comportava da divo. La carriera l’aveva costruita da solo. Trentacinque anni in giro per il mondo, a cena da Krusciov o dall’imperatore del Giappone, a caccia con il maresciallo Tito o a prendere il tè dalla regina madre d’Inghilterra. Dischi, films, Rolls-Royce con le maniglie d’oro e ville con piscina, e sempre accanto Rina, la moglie. 427 rappresentazioni di Otello: chi mai arriverà a tanto? Chi ripeterà il suo Andrea Chénier?”. Proprio nell’abito di Otello, da lui stesso disegnato, riposa ora nel cimitero di Pesaro, in quella città che tanto gli donò e a cui tanto restituì. WHY MARCHE | 69
S PIRITO
Il cuore è più forte della testa Un giorno accadde
29 marzo 1946. Viene presentata la celeberrima Vespa, scooter il cui nome diventerà quasi sinonimo della sua azienda produttrice: la Piaggio. Tra gli scooter più famosi al mondo, è stato utilizzato innumerevoli volte quale simbolo del design italiano all’estero. Fu progettato con l’intenzione di creare un motociclo che potesse essere alla portata di tutti. Ad oggi ne sono stati venduti oltre 16 milioni di unità.
Ho sognato…
… una farfalla – 8 – Eterea, impalpabile, variopinta, la farfalla – emblema dell’effimero – incarna la leggerezza degli amori brevi che vengono abbandonati per lasciare spazio a nuove storie. Eppure un tempo rappresentava lo specchio dell’Io: gli antichi vi scorgevano l’emblema della bellezza della natura e dell’immortalità. Simbologia che l’ha resa protagonista dei nostri prati e anche dei nostri sogni. Una farfalla tra i fiori è promessa di prospettive affascinanti e di prosperità, e indica anche inclinazioni artistiche non comuni. Una farfalla che volteggia da sola è messaggera di notizie di amici assenti, ma anche dell’inizio di un legame duraturo.
Barbanera buongustaio Lattuga al Miele
Tempo (min.): 20 Difficoltà: Facile Calorie per porzione: 95 INGREDIENTI (per 4 persone): Una pianta di lattuga - un cucchiaio di miele liquido - 40 g di capperi sott’aceto un cucchiaio di aceto di vino bianco - 4 cucchiai di olio extravergine di oliva - sale. Privare la lattuga delle foglie esterne più sciupate, lavarla bene sotto l’acqua corrente, scolarla e lasciarla asciugare. Nel frattempo unire in una ciotola l’olio, l’aceto, il miele e i capperi finemente tritati, facendo ben amalgamare gli ingredienti tra loro. Tagliare le foglie di lattuga, metterle in un’insalatiera, salarle e cospargerle con il condimento preparato, mescolando accuratamente. Servire subito.
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BUONE ECOPRATICHE
di Primavera
PREZIOSA ACQUA PIOVANA
Se la primavera, marzo in particolare, mese normalmente piuttosto piovoso, regala preziosa acqua piovana, non sprechiamola. Quando ci sono piogge abbondanti mettiamo sul balcone una pentola e raccogliamo un po’ d’acqua piovana, che potremo adoperare subito dopo, a piccole dosi, per irrigare: ne basterà mezzo bicchiere per ogni pianta che abbiamo in casa. Questa operazione va fatta una volta ogni venti giorni. Dopo un giorno dall’irrigazione, si può muovere con un cucchiaio la terra in superficie.
SOSTENIBILI IN CUCINA
Ormai riciclare è la parola d’ordine, anche per quanto riguarda il cibo. Se avanza del riso, lo si può riutilizzare con una ricetta semplice e veloce. Si amalgama il riso con burro, parmigiano e uova, poi si sistema il tutto in una teglia imburrata. Si fa quindi gratinare la torta di riso in forno già caldo per circa dieci minuti. Nello stesso modo è possibile riutilizzare la pasta avanzata. Un’altra variante alla cottura al forno è la frittata, da cuocere con poco olio in padella.
PESCANDO QUA E LÀ!
Primavera, tempo di depurarsi Questa è la stagione più adatta per rimettersi in forma, cominciando con il depurare l’organismo dalle scorie accumulate in inverno. Via libera allora a verdure fresche amare, germogli e yogurt con fermenti lattici vivi. Farà bene, soprattutto in Luna calante (a marzo dal 10 al 23, ad aprile dal 9 al 22), bere una tisana di cicoria, che facilita la digestione e abbassa il tasso glicemico. Soprattutto se selvatica, le sue radici sono ottimi depurativi del sangue, dunque preziose per prevenire anche arteriosclerosi, artrite e affezioni di fegato e reni.
L’oroscopo di Barbanera ARIETE Avete tutti i numeri per divertirvi: vita sociale vivace, tra avventure e inviti a gogò! Fortunato quel che è detto e fatto, in sintonia con la rapidità arietina. TORO Incertezza, sul fronte del cuore. Se una persona vi intriga ma non ne sapete abbastanza, tergiversate prima di accettare un invito. Non siete sicuri dei vostri sentimenti. GEMELLI Tenere amicizie, e per ora vi basta. Non siete in cerca di passioni forti, in mente avete altri progetti. Viaggi e contatti sociali per aumentare il giro di conoscenze. CANCRO Amici che vanno, altri che vengono: qualcuno lo accogliete a braccia aperte, di qualcun altro invece diffidate… Cominciate finalmente a selezionare le frequentazioni. LEONE Da voi stessi pretendete troppo, dedicandovi anima e corpo al lavoro. Trascurando i vostri cari, però, in famiglia si crea qualche tensione: trovate un compromesso. VERGINE Privilegiato il settore commerciale. Sgobbate molto ma guadagnate bene, anche se tanti soldi entrano e tanti ne escono. Vi sentite soddisfatti del vostro tran tran.
BILANCIA Famiglia turbolenta, mentre l’amore, se c’è, rimane segreto per varie ragioni, lavorative o personali. Il vostro sogno è un trasferimento che vi allontani per un po’. SCORPIONE Apprezzare il piacere delle piccole cose è il miglior rimedio per costruirsi la propria serenità e diventare più disponibili verso gli altri. Progetti innovativi. SAGITTARIO La vostra professionalità non fa una grinza: serietà e impegno, binomio irrinunciabile, con un tocco di genialità. L’estero chiama, i vostri progetti non hanno confini. CAPRICORNO Il cielo è dalla vostra e voi, perfetti in ogni occasione, approfittate delle tante situazioni favorevoli. Felici con partner e familiari, contenti con gli amici. ACQUARIO La famiglia vi adora e voi la ricambiate con un solido affetto, ma non sopportate di sentirvi così controllati. Rimpianti per una storia finita per vostra scelta. PESCI Vi basta un’occhiata per stabilire l’affidabilità di certe persone: seguendo il vostro istinto, non correrete rischi. Le stelle favoriscono la nascita di tenere amicizie.
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EVENTI
MARZO - APRILE 2020
COPPA DEL MONDO DI GINNASTICA RITMICA 3 e 5 aprile Pesaro (PU)
FRITTO MISTO 2020 Dal 24 aprile al 3 maggio Ascoli Piceno (AP)
IL TEMPO, LO SBAGLIO, LO SPAZIO: G. DE DOMINICIS Sino al 6 giugno Ascoli Piceno - Forte Malatesta (AP)
ANCONA FLOWER SHOW 2020
4 e 5 aprile Ancona - Mole Vanvitelliana (AN)
SCUOLA DI CANTO BAROCCO Sino al 20 giugno Jesi (AN) - Palazzo Honorati Carotti
LAURETA GO
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V CENTENARIO DELLA MORTE DI RAFFAELLO (1520 -2020) 21 marzo 2020 Urbino (PU) - Palazzo Ducale
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SGUARDI DI NOVECENTO. GIACOMELLI E IL SUO TEMPO Sino al 5 luglio Senigallia (AN) - Palazzo del Duca
RINASCIMENTO MARCHIGIANO Sino al 3 novembre Ascoli Piceno - Forte Malatesta
AA
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PAT R
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ERONA
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CHIAMATI A VOLARE ALTO ARAZZI RAFFAELLESCHI Sino al 31 dicembre Loreto (AN) Museo Pontificio Santa Casa
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Un nuovo Anno di FelicitĂ