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«Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». ART. 10 - COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
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Xmas Project
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Xmas Project è il regalo che vogliamo farci a Natale. E che abbiamo scelto di farci per tutti i Natali. Ci siamo regalati un’idea, la speranza e il coraggio di farla diventare realtà. Le abbiamo dato un nome, Xmas Project, l’abbiamo fatta diventare Associazione, le abbiamo consegnato un compito da portare a termine; faremo un libro, diverso ogni anno. Tutti coloro che desiderano farsi questo regalo: sono loro il Xmas Project. L’idea nasce dalla necessità di dare una soluzione a un vecchio disagio, a un bisogno che non aveva ancora trovato risposta: il disagio del regalo inutile, della forma che ha perso significato, del piacere di donare divenuto sterile. Tutti noi facciamo regali diversi, in occasione del Natale: regali colmi di affetto, regali innamorati, regali pazientemente cercati, regali che non potevamo non fare, regali riciclati, regali “socialmente corretti”, regali di rappresentanza, regali frettolosi. Mille regali. Tanti soldi. Un vecchio e trito discorso. Che si lega a un’altra, solita, considerazione: l’inimmaginabile divario fra il tanto che noi sprechiamo e il poco che altri non hanno. Xmas Project si sostituisce al regalo di Natale, diventa dono, si fa libro che propone un’idea e che contemporaneamente la realizza. Perché il libro racconta di se stesso, del progetto di aiuto che, con i suoi proventi, riesce a realizzare e raccoglie i volti, le frasi, i disegni, le speranze di tutti coloro che hanno contribuito a esso. Puoi scegliere anche tu di regalare e regalarti il Xmas Project, è molto facile: basta credere in un progetto di solidarietà; scegliere all’interno della tua cerchia di parenti, amici, conoscenti, clienti i destinatari di questo dono; quindi acquistare le copie del Librosolidale, alla cui realizzazione hai partecipato con un tuo segno, e contribuire così alla realizzazione del progetto, da un lato finanziandolo, dall’altro diffondendolo. Milano, settembre 2001
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Buon Natale 2009. Molti grandi problemi della contemporaneità sono fenomeni conosciuti, per i quali esistono soluzioni, cure e spesso anche risorse. Ciò che manca per affrontarli adeguatamente è il consenso collettivo, la volontà politica, l’accordo tra nazioni e popoli, la rinuncia all’avidità di pochi per un benessere più diffuso. Mancano la capacità di uscire da schemi mentali precostituiti, la forza di trovare soluzioni innovative, la lungimiranza politica di battersi per ideali e visioni di lungo periodo. L’immigrazione nei paesi sviluppati dell’occidente è una di queste problematiche. È un fenomeno ineluttabile, perché sono i numeri e la logica a dimostrare che questa immigrazione è necessaria, inevitabile e prevedibile. Necessaria alle nostre stesse società, non più fertili e incapaci di produrre forza lavoro. Inevitabile perché è nella natura dell’uomo fuggire dagli stenti, dalla povertà, dalla mancanza di un futuro per coltivare prospettive di crescita personali e famigliari. Prevedibile perché la popolazione del terzo mondo crescerà a ritmi esponenziali nei prossimi venti anni, mentre l’Europa avrà bisogno di accogliere oltre 30 milioni di extracomunitari nei prossimi 20 anni. Come reagiamo di fronte a questa prevedibile emergenza? Come pianifichiamo l’accoglienza e l’integrazione, le uniche due parole che dovrebbero per logica e necessità, non per buonismo o terzomondismo, stare al centro della collettiva attenzione? Nel peggiore dei modi. Non solo per la carenza di risorse umane e finanziarie dedicate a questa emergenza; non solo perché mancano pianificazione e omogeneità delle politiche; ma soprattutto perché qualcuno si ostina a mentire, a voler far credere che il problema si possa e si debba affrontare in altri modi. Negandolo. Arroccandosi in demagogica difesa delle nostre case, delle nostre scuole, del nostro lavoro. Nella politica, in TV e nelle fabbriche, nei condomini e nelle scuole: ovunque c’è l’ottuso che si vanta di difendere l’identità e la tradizione. Ovunque c’è il meschino che cavalca la paura del diverso e alimenta le guerre tra poveri. Ovunque c’è l’interessato che si ricava il suo spazio di potere e di consenso rappresentando gli istinti più bassi della natura umana. Ed è in questo contesto che sulle nostre coste o a pochi chilometri da esse si consuma quotidianamente uno scandalo umanitario. Di fronte all’atroce sofferenza, alla manifesta precarietà, alla commuovente inoffensività di uomini donne e bambini che a bordo di una carretta, dopo aver lasciato tutto e rischiato l’impossibile bussano alle nostre porte, l’Italia, come altri Paesi europei, riesce a voltare la testa da un’altra parte. Peggio: si dota di leggi e regolamenti che l’autorizzano, in palese contraddizione con tutte le convenzioni internazionali, a respingere questa gente, senza neanche tentare di riconoscere chi ha diritto all’asilo, di soccorrere che è in sofferenza. Nonostante non sia certo a bordo dei barconi che la maggior parte degli immigrati (sudamericani, asiatici, ucraini, rumeni) giunge nel nostro Paese; nonostante questa rotta estrema sia percorsa prevalentemente da profughi di zone
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di guerra e di tormento dell’Africa e del medio oriente. Non c’è alcuna razionalità, se non la strumentalizzazione degli opportunisti, a giustificare la politica dei respingimenti. Così come non c’è umanità nel non accogliere con decenza queste persone. Esseri Umani che hanno abbandonato tutto (i famigliari, le case, i pochi averi) per affrontare un viaggio pericoloso, negli stenti e nell’incertezza. Esseri Umani ai quali dovremmo far sentire immediata la nostra solidarietà e la nostra vicinanza e che invece respingiamo come cani randagi o accogliamo in strutture fatiscenti. Per mesi, come avviene anche a Malta, li rinchiudiamo in carceri improvvisate, dilatando ancora il limbo nel quale si trovano, costretti a galleggiare tra la Paura che vorrebbero lasciarsi alle spalle e la Speranza di una vita migliore. A questi Esseri Umani, uomini donne e bambini, è dedicato il Xmas Project di quest’anno. Alla loro Paure e alle loro Speranze sono dedicate le vostre riflessioni e i vostri contributi in questo libro. A costruire una radio per dare loro informazioni, intrattenimento, accoglienza saranno devoluti i fondi raccolti. Da quando esiste il Xmas Project questa è la cosa meno “concreta” che viene finanziata. Da quando esiste il Xmas Project questa è la cosa più sentita e doverosa che vogliamo fare. Buona lettura.
wieħed | tnejn
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Natale 2009, Onde radio ad Hal Far
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Indice Progetto 2009: Onde radio ad Hal Far
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Il budget
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Noi, Xmas Project 2009
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2001-2008: i nostri progetti
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Xmas Project 2010: segnalateci i vostri progetti
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Reportage fotografico realizzato da Francesco Giusti, in esclusiva per il Librosolidale 2009. Grazie Frank!
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Il progetto 2009
ÂŤNel suo nuovo paese un rifugiato non porta con sĂŠ solo un fagotto di poche cose. Einstein era un rifugiato.Âť
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42 milioni di persone in fuga nel mondo. L’80% si trova nei paesi in via di sviluppo Sono 42 milioni, secondo il rapporto statistico annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), - “Global Trends” - pubblicato oggi, le persone costrette alla fuga da guerre e persecuzioni alla fine del 2008. Questa cifra è dovuta ad un brusco rallentamento dei rimpatri e ad una maggior durata dei conflitti, risultante in forme di esilio protratto. Il numero totale comprende 16 milioni di rifugiati e richiedenti asilo e 26 milioni di sfollati all’interno del proprio paese. Secondo il rapporto dell’UNHCR l’80% dei rifugiati del mondo si trova nei paesi in via di sviluppo, così come la stragrande maggioranza degli sfollati - una popolazione nei confronti della quale cresce l’impegno dell’UNHCR. Molte persone sono in esilio da anni senza la prospettiva di una soluzione. Sebbene la cifra totale di 42 milioni sia minore di 700 mila unità rispetto all’anno precedente, i dati provvisori del 2009, non rappresentati nel rapporto, riflettono già un mutamento di tendenza. «Nel 2009 abbiamo già assistito a un consistente movimento forzato di popolazioni, principalmente in Pakistan, Sri Lanka e Somalia», ha detto l’Alto Commissario António Guterres. «Se alcune forme di fuga possono avere breve durata, altre possono durare anni e perfino decenni in attesa di una soluzione. Sono diverse le situazioni di popolazioni sradicate da ormai molto tempo: in Colombia, Iraq, Repubblica Democratica del Congo e Somalia. Ciascuno di questi conflitti ha inoltre generato rifugiati che hanno oltrepassato le frontiere». Almeno 5,7 milioni di rifugiati vivono in un vero e proprio limbo. Si tratta di 29 differenti gruppi composti da oltre 25 mila rifugiati ciascuno che sono in esilio da più di cinque anni in 22 paesi senza che vi sia ancora per loro alcuna prospettiva per una soluzione immediata. Sono circa 2 milioni i rifugiati e gli sfollati che sono potuti tornare a casa nel 2008,
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un numero inferiore rispetto all’anno precedente. Il ritorno a casa dei rifugiati (604 mila rimpatriati) è calato del 17%, mentre per gli sfollati (1,4 milioni) il calo è stato del 34%. Il rimpatrio, tradizionalmente considerata la soluzione durevole più diffusa per i rifugiati, ha raggiunto il secondo livello più basso negli ultimi 15 anni. Questo declino riflette in parte il deterioramento delle condizioni di sicurezza principalmente in Afghanistan e Sudan. «È un’indicazione che i rimpatri su vasta scala del passato hanno subìto una decelerazione», ci dice il rapporto, con circa 11 milioni di rifugiati tornati a casa negli ultimi 10 anni - la maggior parte dei quali con l’assistenza dell’UNHCR. Nel 2008 l’UNHCR ha proposto a 121 mila persone il reinsediamento in paesi terzi e più di 67 mila sono effettivamente partiti. L’UNHCR si occupa di 25 milioni di persone, fra i quali 14.4 milioni di sfollati ben oltre i 13,7 dell’anno precedente - e 10,5 milioni di rifugiati. Gli altri 4,7 milioni di rifugiati sono palestinesi sotto la competenza dell’UNRWA. Nel quadro del recente percorso di riforma umanitaria delle Nazioni Unite, l’UNHCR si è trovato sempre più impegnato nell’assistenza agli sfollati, impegno che va ad aggiungersi a quello previsto dal mandato tradizionale che prevede la protezione e l’assistenza ai rifugiati che hanno attraversato le frontiere internazionali. Dal 2005 il numero degli sfollati di cui si occupa l’agenzia è più che raddoppiato. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), il numero totale di sfollati si è fermato a 26 milioni negli ultimi due anni. Non c’è un’agenzia che ha la responsabilità per tutti gli sfollati, ma le Nazioni Unite hanno introdotto un “approccio settoriale” attraverso il quale a singole organizzazioni sono assegnati ruoli in base alla proprie competenze. Per l’UNHCR, questo si traduce in coordinamento delle misure di protezione, gestione dei campi e alloggio. La Colombia possiede una delle più vaste popolazioni di sfollati, con stime che si aggirano sui 3 milioni di persone. In Iraq, alla fine del 2008, ce n’erano 2.6 milioni - 1,4 milioni dei quali sfollati negli ultimi tre anni. Nella regione del Darfur, in
Sudan, gli sfollati erano più di 2 milioni. La recrudescenza dei conflitti nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo e in Somalia, lo scorso anno, hanno generato rispettivamente 1,5 e 1,3 milioni di sfollati. All’inizio dell’anno abbiamo assistito a massicci movimenti forzati di popolazione in Kenya, mentre il conflitto in Georgia ha messo in fuga 135 mila persone. Il numero di sfollati è altresì aumentato in Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka e Yemen. L’anno scorso, la popolazione di competenza dell’UNHCR è calata per la prima volta dal 2006 a causa della revisione e dell’aggiornamento delle stime riguardanti il numero di rifugiati e di persone in “situazioni simili ai rifugiati” in Iraq e Colombia. Il numero dei rifugiati è sceso dagli 11,4 milioni del 2007 a 10,5 milioni per il 2008. Ma il numero di richiedenti asilo è salito per il secondo anno consecutivo, nel 2008 sono stati 839 mila, con un incremento del 28%. I paesi che hanno ricevuto il maggior numero di domande di asilo sono il Sud Africa (207 mila), gli Stati Uniti (49.600), la Francia (35.400) ed il Sudan (35.100). I paesi in via di sviluppo hanno ospitato l’80% dei rifugiati nel mondo, a sottolineare la sproporzionata pressione che grava su quei paesi che hanno meno mezzi e maggior bisogno si assistenza internazionale. Fra i principali paesi di accoglienza di rifugiati nel 2008 troviamo il Pakistan (1,8 milioni), la Siria (1,1 milioni), l’Iran (980 mila), la Germania (582.700), la Giordania (500.400), il Ciad (330.500), la Tanzania (321.900) e il Kenya (320.600). I principali paesi di origine sono stati l’Afghanistan (2,8 milioni) e l’Iraq (1,9 milioni) paesi che, da soli, rappresentano il 45% dei rifugiati di competenza dell’UNHCR. Altri paesi di origine sono la Somalia (561 mila), il Sudan (419 mila), la Colombia, compresi coloro in situazioni simili ai rifugiati (374 mila) e la Repubblica Democratica del Congo (368 mila). Rapporto annuale Unhcr Il rapporto statistico completo “Global Trends 2008” è disponibile (in inglese) sul sito internet dell’UNHCR: www.unhcr.org/statistics
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Attualmente i rifugiati in Italia sono 47mila e nel 2008 nel paese sono state presentate quasi 31mila domande d’asilo. Negli anni ‘90 l'aumento di richieste d’asilo che si è registrato in tutta Europa come conseguenza di conflitti, sconvolgimenti politici e violazioni dei diritti umani in diverse parti del mondo, si è registrato anche in Italia in misura proporzionalmente elevata. Per quanto riguarda il numero di rifugiati, l'Italia presenta cifre molto basse rispetto ad altri paesi dell'Unione Europea, in termini sia assoluti che relativi. A titolo di comparazione, la Germania accoglie circa 580mila rifugiati ed il Regno Unito circa 290mila, mentre i Paesi Bassi e la Francia ne ospitano rispettivamente 80mila e 160mila. In Danimarca, Paesi Bassi e Svezia i rifugiati sono tra i 4,2 e gli 8,5 ogni 1.000 abitanti, in Germania oltre 7, nel Regno Unito quasi 5, mentre in Italia appena 0,7 ovvero 1 ogni 1.500 abitanti. PRINCIPALI
PAESI D’ORIGINE DEI RICHIEDENTI ASILO IN ITALIA
2006
2007
2008
1. Eritrea
2.151
1. Eritrea
2.260
1. Nigeria
5.333
2. Nigeria
830
2. Nigeria
1.336
2. Somalia
4.473
3. Togo
584
3. Serbia-Montenegro 1.100
3. Eritrea
2.739
4. Serbia-Montenegro 597
4. Costa d’Avorio
982
4. Afghanistan
2.500
5. Ghana
5. Somalia
757
5. Costa d’Avorio
1.844
530
Fonte: Commissione nazionale per il diritto d’asilo
Nel Canale di Sicilia Dal 1988 a oggi nel Canale di Sicilia sono morte almeno 4.183 persone, lungo le rotte che vanno dalla Libia (da Zuwarah, Tripoli e Misratah), dalla Tunisia (da Sousse, Chebba e Mahdia) e dall'Egitto (in particolare la zona di Alessandria) verso le isole di Lampedusa, Pantelleria, Malta e la costa sud orientale della Sicilia, ma anche dall'Egitto e dalla Tur chia alla Calabria. Più della metà (3.059) sono disperse. Altri 138 giovani sono annegati navigando dall'Algeria (Annaba) alla Sardegna. Fonte: Rapporto di Fortresse Europa, Osservatorio sulle vittime delle migrazioni
I rifugiati nel mondo
I rifugiati in Europa e in Italia
sitta | seba’
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Entrare di più nella storia. Perché non trasformare le paure in speranze? Viviamo un momento storico complesso e sconcertante. Alla crisi globale si somma una grave incertezza culturale. Le culture della cittadinanza e dei diritti sono in ritirata e in pochi oggi sembrano credere che la sicurezza sociale si costruisca partendo dalla tutela dei diritti. Siamo in una fase di grande stagnazione della cultura nel nostro Paese. La strada per uscire da questa “notte” ci richiede di entrare di più nella storia e di scommettere sulla forza che viene dalla conoscenza.
Presentiamo qui un estratto dell'intervista a Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele. L’intervista è apparsa sulla rivista “Animazione Sociale” del 4 ottobre 2009 ed è a cura di Roberto Camerlinghi. Abbiamo letto questo articolo mentre elaboravamo il libro e siamo stati subito colpiti dalla vicinanza del suo messaggio con lo spirito del Xmas Project e del progetto che vogliamo supportare per il Natale di quest’anno…
Perché oggi il Gruppo Abele ha concentrato la sua riflessione anche sulla situazione dei migranti? Il Gruppo Abele ha sempre cercato di leggere la realtà sociale, chiedendosi che cosa fare per fare meglio e fare di più. Abbiamo sempre parlato della vita... Anche oggi vogliamo pronunciare parole di vita, in un momento in cui le parole che ci circondano sono parole di morte, di respingimento, di incriminazione delle persone solo perché esiliate dalla fame e dalla povertà. Qualche mese fa si è verificata l'ennesima tragedia nel Canale di Sicilia. Un gommone carico di 78 migranti ha vagato alla deriva per ventun giorni. In settantatré sono morti. La novità in questa tragedia è che il gommone non sarebbe stato soccorso da nessuna delle imbarcazioni che lo avrebbero incrociato ormai alla deriva… Come se stesse penetrando in noi il messaggio che chi arriva via mare sia un vuoto a perdere o, come dice la nuova legge sul reato di clandestinità, un criminale da respingere. Ciò che sta avvenendo è drammatico: – 4299 persone inghiottite dal mare negli ultimi anni, in quel grande cimitero senza lapidi che è il canale di Sicilia, e sono quelli di cui si ha notizia certa... – 18 mila persone che, secondo l'Unione Europea, sono morte nel tentativo disperato di raggiungere la «terra, promessa»: la fortezza Europa. Numeri drammatici, qualcosa di sconcertante che non può lasciarci indifferenti, non può non entrare dentro le coscienze di chi cerca di "fare”. Questo nostro fare, però, oggi ha bisogno di uno scatto in più: uno scatto culturale, politico e anche etico dentro i nostri contesti.
ma di tante persone. Sono il prodotto dell’idea fasulla che la sicurezza dipenda dall'accumulo di proibizioni e non dalla creazione di opportunità. Si fa strada una politica populista che demolisce il senso della solidarietà e incoraggia una guerra tra poveri. Perché oggi le fasce più vulnerabili, anziché chiedere una più equa redistribuzione delle risorse, finiscono per prendersela con chi è più in basso nella scala sociale. Le conseguenze delle ultime leggi non possono lasciare indifferenti. Al punto in cui siamo, non basta più fare qualche manifestazione o inviare dei comunicati stampa... oggi c'è bisogno della nostra forza culturale e politica. Una forza che arriva dalle accoglienze, dalla storia delle persone, una forza che deve portare un contributo a questo Paese. È un momento di grande stagnazione: abbiamo bisogno di parole di vita, abbiamo bisogno di una cultura che proponga percorsi di vita e che generi voglia di cambiamento. Ci vuole più forza da parte di tutti, per trovare il coraggio e rischiare per costruire quella fiducia reciproca che crea vicinanza tra le persone. Dobbiamo anche essere capaci di resistere. Resistere è una parola attiva, vuol dire esistere, stare lì, essere presenti anche nella notte. La notte non è solo buio, è anche il tempo della consapevolezza, dell'attenzione, della veglia, del silenzio, è il tempo del sogno e della riflessione. Ecco perché dobbiamo credere nella proposta culturale, ieri come oggi: perché la cultura fa crescere dentro, dà sapere, dà forza. La forza che viene dalla conoscenza. Ed ecco perché non basta fare: se l'accoglienza non si salda alla dimensione culturale e politica, non usciremo da questa deriva impressionante.
La notte in cui siamo
In ascolto delle paure
Lo scorso anno dicesti «c’è tanta notte intorno a noi tanto buio...». Quest’anno la clandestinità è diventata reato, e ronde di cittadini si sono affiancate a forze di polizia e soldati nel controllo delle città. Il buio sembra essersi infittito... I recenti provvedimenti rappresentano una grande ferita, un insulto ai poveri, uno schiaffo al dram-
La vostra riflessione invita a mettersi in ascolto delle paure della gente. Le paure sono emozioni profonde, reazioni di difesa a un senso di minaccia. Oggi la minaccia è rappresentata dal “diverso”: rom, nero, extracomunitario, musulmano... Questi sono i capri espiatori di una paura che ha radici lontane - in una globalizzazione
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tmienja | disa’
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senza regole - ma che ha bisogno di identificare bersagli vicini per potersi scaricare. Come parlare oggi alle paure della gente? Troppe persone oggi sono vittime di una paura che viene alimentata artificialmente e che porta al pregiudizio razziale. Chi non ha strumenti di critica in gran parte tende a credere che gli immigrati siano la causa della sua insicurezza. E dimentica che è questo sistema economico-finanziario che genera panico, che costringe milioni di persone a migrare, che rende il lavoro precario e il futuro di tante famiglie incerto. La gravissima crisi che stiamo vivendo, che sta portando alla perdita di tanti posti di lavoro, non è solo una crisi economica, è prima di tutto una crisi etica e politica. Si sono tolte regole e controlli che garantivano tutti, perché l'interesse di pochi ne avesse vantaggio. E oggi le persone stanno pagando il prezzo di queste manovre speculative.
Purtroppo la politica soffia sulle paure della gente, anziché capire come riequilibrare questo sistema. Vengono così a crearsi vere e proprie fobie nei riguardi degli immigrati, dipinti come predatori o potenziali delinquenti. Anche l’informazione rischia di anestetizzare le coscienze: è in mano a poche persone, filtra le notizie, non disturba “i manovratori” del Paese. Siamo di fronte alla sterilizzazione della società. Ogni giorno nel nostro Paese ci viene tolta democrazia e libertà; ma l’informazione, il sapere, la conoscenza sono e rimangono le ossature della nostra società.
Il naufrago è un criminale? Mai come oggi chi lavora nel sociale lavora per la società. Perché è interesse di tutti vivere in una società dove nessuno sia abbandonato al proprio destino o trattato come criminale perché povero. Questo per ragioni non solo etiche ma pratiche, legate
alla tenuta della società stessa. Eppure siamo nell’epoca del “pensiero sbrigativo”. E immettere nel dibattito pubblico un'ipotesi sulla sicurezza di questo tipo sembra molto difficile… Il grave peccato del sapere oggi è la mancanza di profondità. Chi lavora sulla strada sa invece che la “strada” è il luogo in cui ogni sapere cozza contro i propri limiti. È un luogo di umile apprendimento, è luogo di formazione e di educazione permanente. La strada provoca a scendere in profondità, a impastarsi nella storia delle persone. Perché non basta accogliere l'altro, bisogna saperlo riconoscere. E quando riconosci l'altro, la sua storia, ti accorgi che la strada non è mai una scelta, ma è sempre il segno della distanza delle persone dai propri diritti. Per questo è importante oggi la dimensione della conoscenza e della ricerca. Per questo la prossimità, che è la prima dimensione della giustizia, ha bisogno di un impegno
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culturale e politico per il cambiamento. Perché se viene meno la tensione a conoscere, a capire, si crea questo terreno pericoloso, fatto di diffidenza per lo straniero, coltivato da chi, nell'ansia di fare ordine, ha creato un supremo disordine, calpestando la dignità e i diritti delle persone. Oggi la strada sono i tanti amici che vengono da lontano, le vite esiliate, le vite di scarto, le vite negate, rubate, mercificate, anestetizzate. Questi amici superstiti di viaggi rischiosissimi per arrivare da noi, sono la ragione per cui non possiamo essere superficiali. I diritti, la dignità, la libertà delle persone sono le ragioni: difendere i loro diritti significa difendere i nostri diritti, la nostra vita, la nostra dignità. Il nostro poterci dire sicuri nella nostra umanità.
Credere nel nostro sapere Recentemente hai detto: il problema della sicurezza non è solo che per strada c'è chi delinque, ma che nessuno ti darà una mano se ti vede in difficoltà. Anche quei cinque sopravvissuti hanno raccontato di aver incrociato alcuni pescherecci nel loro naufragio, ma nessuno si è fermato per il timore - dichiarato dagli stessi pescatori - di venir processati per favoreggiamento al reato di clandestinità. Il dibattito che è seguito sulla liceità di «non fare il soccorso umanitario» a quanti a bordo dei barconi tentano di attraversare il Canale di Sicilia è significativo di come il cosiddetto “diritto del mare”, che impone di aiutare qualsiasi naufrago, venga condizionato dalle ultime leggi italiane sull'immigrazione... Oggi si respingono barconi colmi di persone disperate e si grida alla vittoria. Senza identificarle, senza riconoscere loro la dignità sancita dal diritto internazionale. Le si respinge al mittente, cioè a paesi messi in ginocchio dalla guerra, lacerati dalle discriminazioni politiche, decimati dalla fame e dalle malattie. È questo davvero ciò che vuole il nostro Paese, che ha nel suo passato lunghe e dolorose migrazioni? Certo bisogna sconfiggere la criminalità, ma i criminali arrivano da canali superassicurati, non su gommoni alla deriva. Allora dobbiamo rendere più forte il nostro sapere, credere di più nella proposta culturale e politica. Ciò significa chiedere alla politica di abbandonare la facile strada del consenso per imboccare quella difficile ma feconda della giustizia sociale. Oggi è il tempo di scendere in profondità, di impastarci nella storia. La nostra riflessione deve aiutare a guardarci dentro, tenendo davanti ai nostri occhi queste vite esiliate, scartate, negate, rubate, mercificate. Di recente ho incontrato una ragazza accolta dal nostro “Progetto prostituzione e tratta delle persone”. Per punirla, le hanno fatto lo scalpo... Mi sono chiesto come sia possibile. Ognuno di noi deve sentire forte dentro di sé tutto questo, guai se ci ripieghiamo. Dobbiamo ritrovare le ragioni del nostro impegno, di un impegno che da sempre ci vede schierati dalla parte di chi è più debole, più fragile, meno garantito.
È in atto una guerra La politologa Nadia Urbinati scrive: «Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali. La filosofia dei governi come il nostro è che - se disagio si dà - questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o di mancanza di merito…
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Il neoliberalismo libera lo Stato dall'impegno di promuovere politiche sociali per occuparlo intensamente nel compito repressivo» (“Se i governi alimentano le paure dei cittadini”, la Repubblica, 8 ottobre 2008). È un'analisi che condividi? Dirò di più. È in atto una guerra. Una guerra mondiale di nuova generazione. Non usa direttamente le armi se non in alcuni territori, non fa la lotta alla povertà ma ai poveri. Respinge i fragili, etichetta la diversità, permette forme di razzismo. È una guerra che fa migliaia di morti, che uccide le speranze di tante persone. Non è retorica, sono i fatti che parlano: quei 18 mila morti ai confini della fortezza Europa negli ultimi anni, i 4299 sepolti nel Mediterraneo, i settantatre dell'ultimo barcone. Questa guerra alimenta il conflitto, basta guardare come sta spaccando la società, come sta dividendo le persone. La sicurezza oggi è certamente il killer delle politiche sociali. Le carceri sono di nuovo piene di povera gente, a tre anni dall'indulto. Si ricorre a soluzioni carcerarie per problemi sociali che non riusciamo ad affrontare altrimenti. E allora dobbiamo interrogarci su quanto stia penetrando nelle coscienze questa nuova guerra… Forse non tutti se ne accorgono, ma la qualità della nostra democrazia sta cambiando. Stiamo rischiando di tornare a un periodo precostituzionale. Precostituzionale perché la legalità, per la Costituzione, è il potere dei senza potere, è la difesa contro l'arbitrio. Ma oggi, cos'è diventata la legalità? Questo continuo appellarsi al principio di legalità dimentica che prima della legalità ci sono i diritti. L'immigrazione va sottoposta a regole, certo, ma regole che permettano anche di includere, di riconoscere, non solo di respingere e selezionare. Regole ci vogliono, non però leggi che non rispettano la Dichiarazione dei Diritti Umani, che non sono rispettose della nostra Costituzione, che non tengono conto della Convenzione di Ginevra, della Convenzione dei Diritti del Fanciullo. Noi non possiamo e non dobbiamo tacere. La «coscienza» viene «prima delle leggi ingiuste», come diceva Martin Luther King. Noi troveremo i modi per continuare ad accogliere le persone e per lottare contro questa guerra di nuova generazione. Una guerra sottile che emargina, umilia, respinge, fa spazio all'odio. Oggi rischiamo di insegnare l'odio. Una cosa sui migranti voglio ancora dire: con le nuove leggi anche un immigrato in regola sarà penalizzato perché non potrà più opporsi a nessuna iniziativa ostile di controparte italiana. Se io rivendico al mio datore di lavoro alcuni miei diritti, lui mi può buttare fuori, e se dopo sei mesi non ho trovato un altro lavoro la legge mi obbliga ad andarmene dall'Italia. Abbiamo sentito tanta gente dire «chi credono di essere?», «dove credono di essere?». Non è semplice la vita di un immigrato anche in regola in questo clima, in questo ricatto, in questa guerra di nuova generazione.
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Su queste montagne (l’importanza della memoria) In un quartiere popolare di Torino, ad alcuni che nei dibattiti si sono lamentati urlando «siamo stufi, basta con gli stranieri...» ti sei rivolto dicendo: «Ma non vi rendete conto che quarant'anni fa eravate voi gli immigrati? Che i problemi che oggi sono degli stranieri all'epoca erano i vostri? Che stiamo parlando di voi e della vostra storia?». I tuoi interlocutori sono rimasti zitti... Come la pianta muore se si tagliano le radici, così la storia di ognuno di noi e quella delle nostre comunità si inaridisce se non trae nutrimento dalla storia di chi ci ha preceduto. Considera queste nostre montagne della Valsusa: qui, nel dopoguerra, i valligiani incontravano e soccorrevano donne, bambini, uomini infreddoliti, mal coperti, con valigie di cartone. Tentavano di passare in Francia. I trafficanti si facevano dare i soldi, li portavano su queste strade e li abbandonavano. Qualcuno non sapeva dov'era la strada per la Francia, la neve era alta e tanti morivano… La storia di ognuno di noi si inaridisce se non ha il nutrimento della memoria dei nostri percorsi, della nostra storia. Allora dobbiamo saper saldare memoria e profezia per stare da protagonisti dentro la storia di oggi.
«Torniamo ai giorni del rischio» (la necessità di essere profetici) Nel presentare il documento con le vostre riflessioni hai parlato della necessità di essere profetici. E hai citato questi potenti versi di Padre Turoldo, sicuramente una delle voci profetiche del nostro tempo: «Torniamo ai giorni del rischio... Torniamo a indossare le armi della luce...». Che cosa vuol dire oggi per te essere profetici? Nella tradizione cristiana il profeta è colui che dà voce alla parola di Dio, che la annuncia. “Pro-” vuol dire infatti prima, ma anche davanti. E allora il profeta è colui che parla pubblicamente, davanti agli altri. Ossia che ha il coraggio della denuncia e della proposta. La profezia è anche una dimensione strettamente legata alla conoscenza, al vedere le cose in profondità. Tradotta nel nostro discorso, non è la previsione del futuro, ma è scorgere nel presente i segni e le condizioni per costruire un futuro diverso. È andare oltre la superficie e scoprire davvero cosa c'è sotto. Oggi siamo chiamati a immergerci tutti nelle dinamiche sociali, a entrare di più nella storia. Non possiamo fermarci ad analisi superficiali e semplicistiche. Si può costruire profezia, in questa società sempre più barricata, se sapremo dare una rotta culturale e politica alle nostre azioni. Oggi ci vuole nuovo impegno, ci vuole veramente più forza di metterci in gioco. La forza per costruire un futuro diverso, capace di trasformare le paure in speranze.
Entrare di più nella storia. Perché non trasformare le paure in speranze?
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Migranti (economici) Persone che lasciano il paese d’origine per motivi puramente economici, che non sono in alcun modo legati alla definizione di rifugiato, o allo scopo di migliorare le loro condizioni di vita materiali. I migranti economici non rispondono ai criteri che definiscono lo status di rifugiato e non hanno quindi il diritto di godere della protezione internazionale.
Richiedente asilo Una persona la cui richiesta o domanda formale di asilo non è stata ancora oggetto di decisione da parte del paese di potenziale rifugio.
Rifugiati ai sensi della Convenzione Persone riconosciute dagli Stati come rifugiati ai sensi dell’articolo 1A della Convenzione del 1951 e che in base alla stessa sono titolari di una serie di diritti.
Sfollati Persone che sono state costrette o obbligate ad abbandonare le loro case “... soprattutto a causa di un conflitto armato, di situazioni di violenza generalizzata, di violazioni dei diritti umani o di disastri naturali o provocati dall’uomo, o allo scopo di sfuggire alle loro conseguenze, e che non hanno attraversato le frontiere internazionalmente riconosciute di uno Stato” (secondo i Principi guida sullo sfollamento).
Status umanitario Autorizzazione formale, in base alla normativa nazionale, a risiedere in un Paese per motivi umanitari. Questa categoria può comprendere persone che non rispondono ai requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato.
Protezione temporanea Accordi o dispositivi elaborati dagli Stati per offrire una protezione di natura temporanea a persone che fuggono in massa da situazioni di conflitto o di violenza generalizzata, senza previa determinazione individuale dello status. La protezione temporanea è stata applicata in alcuni paesi dell’Europa occidentale per garantire la protezione delle persone in fuga dal conflitto nell’ex Jugoslavia nei primi anni Novanta.
Apolide Un individuo che nessuno Stato, sulla base delle proprie leggi, considera un suo cittadino.
UNHCR Italia Manuale per i Parlamentari “Protezione dei Rifugiati – Guida al diritto internazionale del rifugiato”, 2001
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Le parole per capire
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“Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni” ART. 14 - DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO ADOTTATA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE IL 10 DICEMBRE 1948
DALL’ASSEMBLEA
(non respingimento)
Il principio di non-refoulement
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Il principio di non-refoulement è il caposaldo della protezione internazionale dei rifugiati (ha carattere fondamentale e non derogabile). Esso è enunciato nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951. L’art. 33(1) della Convenzione del 1951 dispone che: «Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (“refouler”) - in nessun modo - un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». La protezione dal refoulement si applica a ogni persona che è un rifugiato in base alla Convenzione del 1951. Poiché una persona è rifugiato ai sensi della Convenzione quando egli o ella soddisfa i criteri enunciati nella definizione di rifugiato, la determinazione dello status di rifugiato ha una natura dichiarativa: una persona non diventa un rifugiato perché è stata riconosciuta come tale, ma è riconosciuta come tale proprio perché è un rifugiato. Ne segue che il principio di non-refoulement si applica non solo ai rifugiati riconosciuti, ma anche a coloro il cui status non è stato formalmente dichiarato. Il principio di nonrefoulement è di particolare importanza per i richiedenti asilo. Poiché questi potrebbero essere rifugiati, costituisce un principio di diritto internazionale accettato il fatto che essi non dovrebbero essere respinti o espulsi finché non si sia giunti a una decisione finale riguardo al loro status. Il divieto di refoulement si applica non solo in relazione al ritorno nel paese d’origine o, nel caso di una persona apolide, nel paese di precedente residenza abituale, ma anche a qualsiasi altro luogo in cui una persona abbia motivo di temere minacce per la propria vita o libertà, in riferimento a una o più delle fattispecie elencate nella Convenzione di Ginevra, o dal quale egli o ella rischia di essere inviato verso un simile pericolo. Come regola generale, al fine di dare attuazione agli obblighi assunti con la Convenzione del 1951 e/o col Protocollo del 1967, agli Stati è richiesto di fornire
accesso al territorio e a eque ed efficienti procedure d’asilo agli individui che cercano protezione internazionale. L’obbligo derivante dall’art. 33(1) della Convenzione del 1951 di non inviare un rifugiato o un richiedente asilo in un paese dove egli o ella potrebbe essere a rischio di persecuzione non è soggetto a restrizioni territoriali; si applica ovunque lo Stato in questione eserciti la sua giurisdizione. Ma il non-refoulement dei rifugiati è anche una norma di diritto internazionale consuetudinario e, come tale, esso è vincolante per tutti gli Stati, compresi quelli che non hanno aderito alla Convenzione del 1951 e/o al suo Protocollo del 1967. Peraltro anche il divieto di tortura è parte del diritto internazionale consuetudinario, che ha raggiunto il rango di norma imperativa di diritto internazionale, o di jus cogens. L’UNHCR è del parere che lo scopo, l’intento e il significato dell’art. 33(1) della Convenzione del 1951 sono univoci e stabiliscono un obbligo a non rinviare un rifugiato o un richiedente asilo in un paese dove egli o ella rischierebbe persecuzioni o altri gravi danni, che si applica ovunque lo Stato eserciti la sua giurisdizione, compreso alla frontiera, in mare aperto o sul territorio di un altro Stato. Il Segretario Generale dichiarò in un Memorandum datato 3 gennaio 1950 inviato al Comitato ad hoc sull’apolidia e relativi problemi che «respingere un rifugiato alla frontiera del paese dove la sua vita o libertà è minacciata… sarebbe equivalente a consegnarlo nelle mani dei suoi persecutori». La posizione dell’UNHCR è pertanto che uno Stato sia vincolato dal suo obbligo derivante dall’art. 33(1) della Convenzione del 1951 di non rinviare rifugiati verso un rischio di persecuzione ovunque esso eserciti la propria effettiva giurisdizione. Il criterio decisivo non è se tali persone si trovino nel territorio dello Stato, quanto piuttosto se esse si trovino sotto l’effettivo controllo e autorità di quello Stato. Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non-refoulement derivanti dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e dal suo Protocollo del 1967 (gennaio 2007) A cura di Francesca Paltenghi, UNHCR Italia
Il rifugiato è colui «che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra». ARTICOLO 1A DELLA CONVENZIONE RELATIVA ALLO STATUS DEI RIFUGIATI, FIRMATA A GINEVRA IL 28 LUGLIO 1951 E RATIFICATA DALL’ITALIA CON LA LEGGE 24 LUGLIO 1954, N. 722
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MALTA - Il porto di La Valletta Gran parte dei migranti non desidera affatto approdare a Malta, un paese che viene generalmente evitato per diverse ragioni: i migranti illegali e irregolari sono infatti obbligati a permanere fino a 18 mesi in centri di detenzione, in condizioni di vita estremamente dure; inoltre, stabilitisi a Malta, sono obbligati a restarvi per cinque anni prima di potersi trasferire in un altro paese dell’Unione Europea. A quanto pare, Malta è anche considerato un paese “troppo povero” per viverci dopo aver ottenuto l’asilo o lo status di rifugiato e molti tentano di trasferirsi negli Stati Uniti o in altri paesi europei.
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Il piccolo arcipelago maltese, situato al centro del Mediterraneo e la cui popolazione supera di poco le 400mila persone, è entrato a far parte dell'Unione Europea nel 2004. Grazie alla sua posizione geografica è divenuto una delle principali vie d'accesso all'UE utilizzate da migranti e richiedenti asilo provenienti dalle coste dell’Africa settentrionale. Questo elemento, insieme al fatto che l’isola, con i suoi 1.265 abitanti per chilometro quadrato, ha una densità di popolazione tra le più alte d’Europa, ha contribuito a focalizzare l’attenzione sulle questioni legate all’asilo. Nel 1971 Malta ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati e il Protocollo del 1967 (abolendo alcune riserve nel 2004 in seguito all'adesione all'Unione Europea). Nel 2000 ha promulgato una legge sui rifugiati (Refugees Act), entrata in vigore il 1° gennaio 2001 e la cui ultima riforma risale
al 2005. Il 70-80% delle persone che arrivano a Malta via mare ogni anno presentano domanda d’asilo. A poco meno della metà di esse viene riconosciuta una qualche forma di protezione (status di rifugiato o protezione umanitaria). Nel corso degli ultimi anni, migranti e richiedenti asilo, provenienti soprattutto dai paesi africani, sono partiti dalla Libia alla volta dell’Europa in cerca di protezione e condizioni di vita migliori. Nonostante il ricorso a politiche di contenimento degli arrivi più decise e a controlli più severi lungo le frontiere meridionali dell’Unione Europea, nel 2008 il numero di persone sbarcate a Malta è aumentato, con 2.704 nuovi arrivi registrati. Negli anni precedenti, il numero complessivo di nuovi arrivi era stato inferiore: 502 nel 2003, 1.388 nel 2004, 1.822 nel 2005, 1.780 nel 2006, 1.694 nel 2007. Il 2009 ha visto una conferma della tendenza del 2008.
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MALTA – Centro di accoglienza aperto Hal Far Hangar Il centro di accoglienza aperto Hal Far ha sede in un hangar riconvertito nel quale trovano alloggio 500 persone, in gran parte provenienti dalla Somalia.
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Sono scappato senza pensare, seguendo il consiglio degli anziani del villaggio, dal Nord del mio paese fino al Burkina Faso, a piedi.
Il viaggio
Non avevo soldi con me: nei campi non servono e non si seminano soldi! Scappando dalla Costa d’Avorio ho incontrato altre persone che erano più o meno nella mia stessa situazione, non li conoscevo, ma ho iniziato a scambiare informazioni e a immaginare quello che potevo fare. A causa del lavoro di mio padre, un buon lavoro, ma con effetti drammatici nel mio paese, ero odiato da molti nel villaggio e nella zona, sia dai musulmani che dai cristiani. Quella condizione di stare a metà non era più sostenibile, era molto pericoloso e le voci da noi passano velocemente da un luogo all’altro. Ho iniziato a capire meglio il consiglio degli anziani. Però nei paesi africani è molto difficile essere ascoltati, quasi impossibile essere protetti. Tutti hanno situazioni complicate. In Burkina ho avuto un passaggio su una piccola auto, in cambio dell’aiuto all’autista per caricare e scaricare i bagagli delle persone che viaggiavano. Sono arrivato fino in Niger. Oltre che senza soldi ero anche senza documenti e in Burkina non potevo stare, non è consentito, è pericoloso. Mi hanno detto che la soluzione migliore per salvarmi era quella di raggiungere l’Europa. Così sono riuscito ad arrivare in Niger e, da quel paese, ho viaggiato sopra diversi camion fino in Algeria.
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È stato per questo che sono finito in un altro passaggio drammatico attraversando il mare su una barca da dieci, dodici posti, così piccola da sembrare un’onda in mezzo a mille onde. Sono arrivato a Lampedusa e ho raggiunto la salvezza.
da “Indirizzi sconosciuti. Tra richiedenti asilo e rifugiati” di Ivan Carlot e Giorgio Bompieri
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Dopo quel terribile cammino, in Libia, ho potuto fare qualche lavoro, ho guadagnato qualche soldo. Rimaneva molto pericoloso, rischiavo di dover fare la strada del ritorno se non facevo in fretta quello che mi portava fuori da questi posti. Con i soldi sono arrivato sulla costa, ho lavorato ancora e con molta più paura. Non volevo aspettare: con quattrocento dollari ho comprato il viaggio più scomodo e rischioso che potevano offrire, sopra una delle barche più piccole. Altri pagavano mille o più dollari, ma io avevo troppa paura, mi erano accadute già troppe cose terribili.
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Avevo imparato che gli autisti hanno spesso bisogno di aiuto e riuscivo a guadagnarmi i passaggi facendo il caricatore e scaricatore. In Algeria ho attraversato a piedi, insieme ad altre persone, il deserto del Sahara. È stata l’esperienza più drammatica fino a quel momento. Non voglio raccontare, perché ho visto morire la gente lungo il cammino, e ogni volta ripensavo alla morte dei miei genitori.
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«Non mi era possibile rimanere in Somalia se volevo restare vivo. Durante l’attraversamento del Sahara, due persone che erano con me sono morte di sete. Una volta in Libia, mi hanno arrestato e sbattuto in un centro di detenzione. Mi hanno portato via tutto quello che avevo con me e hanno iniziato a trattarmi come un animale. Mangiavo una volta al giorno. Di notte venivo costantemente picchiato. Ma sono stato fortunato perché sono rimasto in carcere un anno soltanto: due somali ci sono rimasti per due anni e sono impazziti. Hanno iniziato a urlare e piangere per tutto il giorno, completamente nudi. Alla fine uno di loro si è suicidato bevendo ammoniaca. Non avrei mai pensato di venir imprigionato anche in Europa...» Diciottenne somalo
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MALTA – Centro di accoglienza aperto Hal Far Hangar Nella cucina del centro.
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MALTA - Preghiera nella moschea della tendopoli di Hal Far. I migranti provenienti dall’Africa presenti a Malta sono circa 6.000 su una popolazione complessiva di 400.000 persone. L’arrivo sulle coste maltesi di centinai di migranti ha suscitato apprensione in una fascia della popolazione locale: il paese si è trovato impreparato ad affrontare adeguatamente la situazione e si sono verificati episodi di violenza razziale e discriminazione in ambito lavorativo e nell’erogazione di alcuni servizi. Gli
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stranieri legalmente residenti a Malta vengono spesso derisi, chiamati impropriamente “clandestini” per il colore della loro pelle, mentre la parola “rifugiato” sta assumendo una connotazione estremamente negativa. Tuttavia non sono solo i migranti a dover fronteggiare discriminazione e pregiudizi: ai membri delle minoranze religiose, in particolare ai musulmani, vengono spesso attribuiti degli stereotipi derivanti in larga misura dalle carenze di un sistema educativo che non fornisce informazioni corrette sulle altre culture.
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Cosa sta succedendo nel Sud del Mar Mediterraneo? Chi ha l’obbligo di soccorrere i migranti sui barconi? E dove devono essere trasportati? Ci siamo fatti guidare in questa analisi molto complessa dalle parole di un professore di diritto, esperto in questa materia, e riconosciuto a livello internazionale. Sono parole di forte denuncia, anche nei confronti delle istituzioni italiane, che fondano le loro argomentazioni nel diritto. Troverete il testo un po’ ostico, con molte citazioni, ma è utile arrivare fino alla fine. Per non restare alla superficie del problema. Un ringraziamento di cuore al professor Vassallo Paleologo che, contattato, ci ha autorizzato a pubblicare lo scritto.
Alla fine del 2009 dovrebbe entrare finalmente in vigore la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che prevede il divieto di espulsioni collettive, comprendendo in questo termine qualunque forma di respingimento in frontiera o di allontanamento forzato dal territorio che non consenta una identificazione individuale della persona, e dunque la proposizione di una istanza di asilo, o altra forma di protezione internazionale o il riconoscimento di una vittima di tortura o altri trattamenti inumani e degradanti, o ancora l’accertamento della minore età. Uno strumento normativo che dovrebbe consentire agli organismi comunitari, a partire dalla
Corte di Giustizia, e ai giudici interni, di sanzionare prassi amministrative, magari supportate da accordi bilaterali, che permettono di eludere quel divieto. L’esternalizzazione dei controlli di frontiera, che assume adesso una dimensione operativa dopo gli accordi e i protocolli operativi stipulati dall’Italia con la Libia, la Tunisia e l’Algeria, la chiusura di tutte le vie di accesso per i potenziali richiedenti asilo con i respingimenti collettivi in mare e alle frontiere marittime, e le retate operate con “pattuglie miste” delle polizie presenti nei paesi di transito, co me la Libia e la Grecia, ai danni dei migranti irregolari, spesso donne e minori, o altri potenziali richiedenti asilo, stanno aggravando gli effetti devastanti delle politiche proibizioniste adottate da tutti i paesi europei nei confronti dei migranti in fuga
dalle guerre, dai conflitti interni e dalla de vastazione economica e am bientale dei loro paesi. Quanto sta avvenendo in questi mesi in Grecia ed in Libia aumenta le responsabilità già gravissime del governo italiano nelle pratiche informali di respingimento “informale” dai por ti dell’Adriatico (Venezia, Ancona, Bari) verso Patrasso e Igoumenitsa e scopre tutte le ipocrisie di chi afferma di riconoscere i diritti dei rifugiati e poi rimane inerte ad assistere allo scempio del diritto di asilo, di persone che avrebbero titolo a ottenere protezione, ma sono arrestate, respinte o espulse. Le responsabilità di questo imbarbarimento delle regole dei controlli di frontiera sono molteplici e vengono da lontano, a partire dalle scelte proibizioniste dei paesi che negano ai migranti qualsiasi possibilità di
accesso legale, dalla creazione dell’agenzia per il controllo delle frontiere esterne europee Frontex nel 2004, dalla incapacità dell’Europa di darsi una politica comune dell’asilo, limitandosi a legittimare la cosiddetta“cooperazione operativa” tra i vari paesi, una cooperazione operativa che copre gli abusi della polizie di frontiera e rende impossibile fare valere i più elementari diritti di difesa. A livello mediatico bastano pochi termini fumosi in una intervista televisiva per rassicurare l’opinione pubblica e camuffare la continua involuzione delle diverse forme di contrasto dell’immigrazione irregolare verso la negazione sostanziale dei più elementari diritti fondamentali della persona. Il caso dei rapporti tra Italia e Libia è, anche da questo punto di vista, emblematico. Nel mese di maggio del 2009 il
Cosa sta succedendo nel Mediterraneo?
di Fulvio Vassallo Paleologo*
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Maroni e Frattini hanno sempre presidente del consiglio definiva i «...Numerosi rapporti internazionali e documenti negato la fondatezza delle critirespingimenti collettivi verso la video, e di recente le stesse testimonianze delle che rivolte ai respingimenti colletLibia un «atto di grande umavittime, confermano che dopo la entrata in vigore tivi da parte dell’Alto Commissanità», aggiungendo che per chi fuggiva da guerre e persecuzioni degli accordi di respingimento tra Italia e Libia la riato delle Nazioni Unite per i rifugiati, della Chiesa cattolica, di sarebbe stato possibile «rivolgersi condizioni dei migranti in transito in quel paese autorevoli rappresentanti della all’agenzia Onu per dimostrare la sono peggiorate e molti di loro finiscono sempre Commissione Europea, da ultimo loro situazione e, in caso, ottenepiù spesso in veri e propri lager.» dall’Alto commissario delle Naziore il diritto di asilo». Ma l’ONU ni Unite per i diritti umani. Per non ha offerto alcuna copertura al governo italiano e ha denunciato a più riprese l’arbitrarietà dei tutti i critici, piuttosto che repliche basate sulle norme e sui fatti, respingimenti, al punto che suoi rappresentanti, come Laura Bol- soltanto minacce e insulti, oppure mistificazione del contenuto drini, sono stati attaccati e minacciati da diversi esponenti del cen- delle convenzioni internazionali e travisamento dei fatti. E anche tro-destra. Un attacco ad personam che non ha risparmiato nep- tanta disinformazione, come quando il ministro degli esteri sostiene pure Thomas Hammarberg, Commissario ai diritti umani del Consi- che l’Italia ha effettuato il maggior numero di salvataggi a mare, tra glio d’Europa, “reo” di avere denunciato la sistematica disapplica- i paesi europei, prendendo in esame il periodo 2007-2009. Un ultezione delle decisioni della Corte Europea per i diritti umani da riore elemento di confusione perché nelle statistiche diffuse da parte dell’Italia e la prassi illegale dei respingimenti collettivi prati- Frattini si considerano anche i migranti salvati dalla marina italiana cati dalle autorità militari su disposizione del ministro dell’interno. e condotti a Lampedusa negli anni (2007 e 2008) in cui non si [...] Lo stesso Berlusconi, ha affermato che nel caso degli interven- effettuavano respingimenti in Libia (salvo rare eccezioni) e le regole ti operati dalle unità militari italiane nelle acque internazionali del di ingaggio delle nostre unità militari, decise dal governo Prodi, canale di Sicilia non si trattava di respingimenti vietati dalle con- erano considerate come un esempio positivo a livello europeo. venzioni internazionali, in quanto, a suo avviso, i mezzi della mari- Dal mese di gennaio del 2009, soprattutto per l’attivismo di Marona militare e della guardia di finanza “affiancano” le imbarcazioni ni che si è recato in Libia per “perfezionare” i precedenti accordi cariche di migranti per ricondurle verso le acque libiche dove ven- bilaterali, è cambiato tutto, e se sono diminuiti gli arrivi in Sicilia e gono presi in consegna dalla polizia di Gheddafi. Dopo le proteste a Lampedusa sono aumentate le vittime, non solo in mare, ma suscitate dalla riconsegna diretta dei migranti da parte delle unità anche nelle carceri e nei deserti della Libia. E tutto in un clima da militari italiane entrate in un porto libico, si instaurava dunque segreto militare, perché mentre i protocolli di Amato del 2007 erano una pratica più “discreta” che contemplava il trasbordo in alto noti, gli ultimi accordi stipulati a Tripoli tra Maroni ed i libici nel mare in modo da evitare fotografi e altri scomodi testimoni. Resta- febbraio scorso rimangono segreti. Sarebbe tempo che il Parlamenvano soltanto alcuni migranti, sepolti in un carcere libico, che to, che il giorno prima ha votato “alla cieca” la ratifica del Trattaavrebbero potuto testimoniare sulle violenze subite nelle operazio- to di amicizia con la Libia, decida la istituzione di una commissione di inchiesta sulle modalità di attuazione di quegli accordi, e ni di “ordinary rendition” ai libici. Secondo il governo italiano questa attività di “contrasto dell’immi- dunque sui respingimenti collettivi. grazione illegale” svolta nelle acque del Canale di Sicilia avrebbe L’attuazione concreta degli accordi tra Italia e Libia sembra destiavuto un risvolto “umanitario”, contenendo il numero delle vitti- nata ad una continua mutazione, anche per il mutare delle circome, oltre che riducendo in modo consistente il numero degli sbar- stanze atmosferiche o dei rapporti politici, mentre tarda a decollachi. In realtà si nasconde all’opinione pubblica quanto avviene re il confronto tra L’Unione Europea e Gheddafi per la stipula di un nelle acque internazionali e si ignorano le vittime delle violenze accordo di cooperazione nella “guerra” all’immigrazione illegale, della polizia, oltre che dei trafficanti libici. Numerosi rapporti inter- una guerra che appare oggi rivolta soprattutto a coloro che sono nazionali e documenti video, e di recente le stesse testimonianze vittima del traffico che si vorrebbe contrastare. delle vittime, confermano che dopo la entrata in vigore degli Alle procedure di respingimento collettivo ed immediato verso le accordi di respingimento tra Italia e Libia la condizioni dei migran- coste africane, con il coinvolgimento attivo delle unità militari itati in transito in quel paese sono peggiorate e molti di loro finisco- liane e maltesi, come si è fatto per tutta l’estate, si preferisce adesno sempre più spesso in veri e propri lager. Malgrado la presenza di so delegare alle navi militari libiche il compito di effettuare il blocorganizzazioni umanitarie e la ristrutturazione di alcune carceri, ad co e la deportazione dei migranti che sono scoperti in acque interuso e consumo delle ispezioni internazionali, in Libia la situazione nazionali, o ai limiti delle acque territoriali libiche, mentre tentano degli immigrati in transito è sempre peggiore, alcuni centri di di raggiungere l’Italia. Le mutate e più severe condizioni meteo detenzione come quello di Kufra sono ancora off-limits, nel carce- impediscono le “operazioni lampo” realizzate dalla Guardia di re di Bengasi sono stati uccisi alcuni somali che tentavano di fug- finanza di stanza a Lampedusa, che nei mesi estivi, in poche ore, gire, molti altri sono stati feriti o torturati, e continua la collusione anche su segnalazione delle unità Frontex, intercettava le imbarcatra le forze di polizia ed i trafficanti. Soltanto chi paga riesce a sot- zioni cariche di migranti ai limiti delle acque internazionali e le trarsi alle sevizie dei secondini che comandano nei centri di deten- “restituiva” ai libici, con trasbordi in mare spesso violenti e in violazione, abusano delle donne e si fanno pagare per lasciare fuggire zione del divieto di espulsioni collettive. Con le cattive condizioni qualcuno, e questo avviene probabilmente anche in quelle carceri meteo dei mesi invernali, in otto-dieci ore non è facile arrivare al visitate periodicamente da organizzazioni internazionali e da uffi- limite delle acque libiche, respingere i migranti e rientrare a Lampedusa, come è stato possibile durante l’estate quando il mare era ciali di collegamento.
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calmo. E l’autonomia dei mezzi veloci della Guardia di Finanza non consente più quel pattugliamento in alto mare che nel 2008 ha permesso ai mezzi della marina militare di salvare migliaia di vite. Ma oggi quegli stessi mezzi sono stati ritirati, per decisione politica, molto più a nord a “difendere” le coste di Lampedusa e della Sicilia meridionale, e vi è stato anche un avvicendamento negli uomini che dirigevano gli interventi di salvataggio. Forse si sono accesi troppi riflettori sulle prassi di “cooperazione pratica” tra le polizie italiane, maltesi e libiche, dopo che la Commissione Europea ha chiesto informazioni all’Italia proprio sui respingimenti collettivi, dopo che le Procure di Agrigento e Siracusa hanno aperto indagini penali iscrivendo nel registro degli indagati alti esponenti della Guardia di finanza, dopo che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha continuato a ricevere gli esposti di quanti sono stati deportati in Libia. Quanto avviene nelle acque del Canale di Sicilia dal mese di maggio contrasta con la normativa interna in materia di regole di ingaggio delle unità navali preposte al contrasto dell’immigrazione irregolare. Il decreto del Ministro dell’interno 19 giugno 2003 (Misure su attività di contrasto dell’immigrazione illegale via mare), emanato in attuazione dell’art. 12, comma 9-quinquies T.U., introdotto dalla legge n. 189/2002, consente attività di pattugliamento di unità navali italiane anche al fine di rinviare imbarcazioni prive di bandiera nei porti di provenienza (non in qualsiasi porto), ma rispettando ben determinate procedure e comunque, in ogni caso, tutte le «...anche quando una attività devono essere improntanave militare o in te “alla salvaguardia della vita servizio di polizia umana e al rispetto della dignità prende misure di della persona” (art. 7), oltre al limite, invalicabile, del rispetto ispezione o controllo dei diritti umani nei termini nei confronti di ben definiti dal diritto nazioun’imbarcazione che è nale, comunitario ed internasospettata di trasportare zionale. migranti in condizioni Se i migranti in navigazione irregolari ha comunque si trovino in stato di pericolo ogni nave italiana ha il dovel’obbligo di assicurare re di soccorrerli e di trasborl’incolumità e il darli su altre unità navali itatrattamento umano liane; infatti in base alla Condelle persone a bordo e venzione internazionale sulla l’applicazione del ricerca ed il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo il principio di non 27 aprile 1979 (Marittime Searallontanamento e le ch and Rescue Sar), a cui l’Italia altre norme della ha aderito e ha dato esecuzioconvenzione di Ginevra ne con legge 3 aprile 1989, n. sullo status dei rifugiati» 147, ogni nave italiana è obbligata a procedere alle operazioni di soccorso ai naufraghi e, nel caso verifichi lo stato di pericolo delle imbarcazioni dei migranti, ha l’obbligo di portarli in porto sicuro e dunque in Italia, essendo il luogo in cui le navi italiane sono autorizzate ad attraccare e dove gli stranieri possono essere protetti da gravi violazioni dei diritti umani. Dove potrebbero anche presentare una domanda di asilo politico e di protezione internazionale; anche quando una nave militare o in servizio di polizia prende misure di ispezione o controllo nei
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confronti di un’imbarcazione che è sospettata di trasportare migranti in condizioni irregolari ha comunque l’obbligo di assicurare l’incolumità e il trattamento umano delle persone a bordo e l’applicazione del principio di non allontanamento e le altre norme della convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (così prevedono gli artt. 9 e 19 del Protocollo addizionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria della Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001, ratificati e resi esecutivi con legge 16 marzo 2006, n. 146); I respingimenti collettivi verso la Libia, anche nella versione più recente camuffata da omissione di soccorso e richieste di intervento delle unità militari libiche, contrastano con la normativa comunitaria. L’art. 12 del Codice comunitario delle frontiere Schengen prevede che le autorità di polizia possano bloccare i migranti che tentano di entrare nel territorio di uno stato Schengen, ma secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia questo potere non può essere esercitato in contrasto con i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali va annoverato il diritto di chiedere asilo ed il diritto a non subire respingimenti collettivi. Chiunque venga raccolto a bordo di una unità battente bandiera italiana in attività di controllo delle frontiere marittime, si trova in territorio italiano e se fa richiesta di asilo, o se si tratta di un minore, non può essere riconsegnato alle autorità di un paese terzo come la Libia, soprattutto quando non può essere stabilita la esatta provenienza delle persone raccolte in mare. Chi contravviene queste regole viola il diritto internazionale e questa stessa violazione andrebbe sanzionata anche dal giudice penale italiano quanto meno come abuso di ufficio, se non come omissione di soccorso o vero e proprio sequestro di persona. Sono forse queste le ragioni per le quali per giorni si è negato un intervento di assistenza, affidando ad una petroliera il compito di “spianare” il mare in burrasca, a lato del barcone carico di migranti, e adesso si affida ai libici il “lavoro sporco” di effettuare concretamente la deportazione. Il principio di non refoulement (non respingimento), sancito oltre che dalla Convenzione a salvaguardia dei diritti dell’Uomo (CEDU) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalla Convenzione di Ginevra del 1951, vale anche in acque internazionali, come è ribadito nelle linee guida dell’ACNUR, e anche quando c’è il rischio che le persone respinte verso un paese terzo come la Libia siano successivamente deportate verso i paesi di origine nei quali possono subire arresti arbitrari, torture o altri trattamenti disumani o degradanti. Le deportazioni successive praticate su vasta scala dalla Libia, anche con fondi europei, aggravano le conseguenze della violazione del principio di non respingimento da parte di quei paesi come Malta e l’Italia che dovrebbero garantire soccorso e assistenza, e non invece consentire deportazione e arresti arbitrari. Per questo motivo “chiamare” le unità militari libiche per ricondurre i migranti che si trovano in acque internazionali quando invece dovrebbe scattare un obbligo di protezione e di salvataggio, equivale ad un “respingimento collettivo” vietato da tutte le convenzioni internazionali. Appare evidente come ormai le autorità italiane e maltesi non si “sporchino” più le mani con i respingimenti collettivi, per i quali sono aperti procedimenti penali davanti ai tribunali italiani e alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, ma preferiscano delegare al mare, o ai libici, il compito di arrestare la fuga dei migranti verso
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l’Europa. Anche nel caso dell’eventuale riconduzione in un porto libico la sorte di queste persone appare segnata, perché, come si è verificato negli ultimi tempi in casi analoghi, si tratterà di migranti che non appena sbarcati in Libia saranno rinchiusi per mesi nei centri di detenzione ancora vittime di abusi di ogni genere. Abusi la cui responsabilità incombe direttamente su quei governi europei che hanno concluso accordi con la Libia, e adesso anche sulla Commissione Europea e sul Consiglio dell’Unione Europeo che vorrebbero intensificare i rapporti di collaborazione tra l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne (Frontex) ed il governo libico. La Commissione Europea dovrà fare luce sui rapporti tra le operazione dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex e le attività di pattugliamento congiunto e di respingimento collettivo poste in essere dalle autorità italiane, maltesi e libiche. Chiediamo inoltre di conoscere le attività di salvataggio poste in essere dalle unità aero-navali di Frontex nelle acque internazionali e nella zona SAR di competenza della Repubblica maltese, a partire dall’avvio delle missioni gestite dall’Agenzia Europea per il controllo delle frontiere esterne con base a Malta. Il Parlamento e l’Unione Europea dovranno imporre a Malta il rispetto dei doveri di salvataggio nella zona SAR di sua competenza, stabilendo analogo obbligo per l’Italia quando non vi siano mezzi maltesi pronti a intervenire. Ove ciò non si verificasse, si dovrebbe adottare a livello internazionale un accordo che ridimensioni la zona SAR che Malta, soprattutto per ragioni economiche (pedaggi), si è riservata dalla fine della seconda guerra mondiale. Il governo maltese deve accettare gli emendamenti aggiuntivi della Convenzione di Montego Bay del 1982, in vigore dal 2006 e accettati dall’Italia, secondo i quali sono i governi rivieraschi comunque responsabili delle azioni di salvataggio. Ma chiediamo anche che venga superato il Regolamento Dublino 2 che scarica sugli stati esterni dell’Unione Europea la competenza per le domande di protezione internazionale. Malta a differenza dell’Italia, non può accogliere un numero elevato di richiedenti asilo e gli altri paesi
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europei devono accettare il ritrasferimento (resettlment) sui propri territori di quanti raggiungono quell’isola. Assai diverso il caso dell’Italia che accoglie soltanto un decimo (circa 50.000) dei rifugiati che accoglie la Germania (oltre 500.000). E poi qualcuno lamenta ancora che in Italia si corre il rischio di “invasione” non appena arrivano alcune centinaia di richiedenti asilo. La magistratura italiana e gli organismi dell’Unione Europea dovranno accertare ed eventualmente sanzionare l’inadempimento degli obblighi di protezione nei confronti delle persone in pericolo di vita a mare, poste in essere dalle autorità maltesi, o durante operazioni di pattugliamento o di salvataggio coordinate dalle stesse autorità nella zona SAR (Ricerca e soccorso) di competenza della Repubblica maltese. Ma la stessa verifica va avviata nei confronti delle autorità italiane per i respingimenti collettivi praticati su vasta scala fino a poche settimane fa. Auspichiamo che i parlamentari europei sappiano bloccare questa politica di collaborazione dell’Unione Europea con i regimi dittatoriali dei paesi della sponda sud del mediterraneo, una politica che per contrastare l’immigrazione irregolare cancella i diritti fondamentali della persona umana, a partire dal diritto di asilo. Una politica che agevola oggettivamente le mafie che a parole tutti dichiarano di combattere. Attendiamo anche che finalmente la magistratura italiana e la Corte Europea dei diritti dell’uomo condannino le pratiche congiunte dell’omissione di soccorso e dei respingimenti collettivi (…). 11 novembre 2009 * Fulvio Vassallo Paleologo, Professore di Diritto privato e Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo. Estratto di un documento a cura del Progetto Melting Pot Europa: “Respingimenti collettivi e omissione di soccorso nel contrasto dell’immigrazione irregolare”. Per consultare l’intero articolo www.meltingpot.org
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MALTA - Centro di accoglienza femminile Hal Far La gioia incontenibile di Warda, somala, mentre abbraccia e bacia un’operatrice del centro dopo aver ricevuto la notizia dell’autorizzazione al trasferimento negli Stati Uniti. Sono circa 400 i rifugiati reinsediati negli Stati Uniti a partire dall’inizio del programma di reinsediamento. All’arrivo nel nuovo paese, ciascun rifugiato viene affidato a un ente di sostegno che si occupa di fornire vitto, alloggio e indumenti oltre che reindirizzamento ad altri enti sanitari e occupazionali e appoggio di vario genere durante un periodo di transizione della durata massima di due anni, al fine di garantire l’integrazione e l’assimilazione.
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MALTA - Tendopoli Hal Far La tendopoli è uno dei quattro accampamenti di Hal Far. Ci sono 45 tende e in ciascuna di esse trovano alloggio da 15 a 20 persone.
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Quasi tutti i richiedenti asilo arrivano a Malta via mare: lasciano il proprio paese di origine, attraversano il deserto del Sahara e affrontano i rischi di un pericoloso viaggio dalla Libia attraverso il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Un accordo siglato da Italia e Libia ha reso ancor più difficile attraversare il Mediterraneo per migranti e richiedenti asilo: sulla base della cosiddetta politica dei respingimenti, numerose imbarcazioni sono state rimandate in Libia. Molti di coloro che tentano il viaggio via mare sono in realtà rifugiati e richiedenti asilo; per via delle limitate possibilità di trovare rifugio e sicurezza in Libia, dei gravi rischi associati alle azioni di contrabbandieri e trafficanti e dell’ulteriore inasprimento delle normativa europea in materia di asilo, troppe persone bisognose di protezione rischiano di essere abbandonate a se stesse. Tutti i migranti irregolari in arrivo a Malta vengono sottoposti a detenzione, per un periodo massimo di 18 mesi, e trattenuti in centri di detenzione senza libertà di movimento creati, in gran parte dei casi, in vecchie caserme militari e dotati esclusivamente dei servizi minimi indispensabili. Di norma, i minori e le persone più vulnerabili, come le famiglie con bambini, gli anziani e coloro che soffrono di disturbi mentali, vengono rilasciati e si consente loro di alloggiare in centri di accoglienza con libertà di movimento. I richiedenti asilo vengono intervistati dal Commissario per i Rifugiati di Malta, incaricato di determinarne lo status e decidere se concedere loro protezione e consentirne la permanenza in territorio maltese o rifiutare la richiesta. Il sistema prevede la possibilità di appello; tuttavia, una seconda decisione negativa sfocia in un decreto di espulsione.In genere, i richiedenti asilo vengono trattenuti nei centri di detenzione dai 6 ai 10 mesi in media, a seconda della complessità del caso e del numero di persone che hanno intrapreso le procedure di asilo. Richiedenti asilo e migranti vivono una situazione estremamente frustrante nei centri di detenzione: sono in preda alla preoccupazione perché in molti casi non sanno esattamente quanto tempo resteranno in custodia e non possono impiegare il loro tempo in maniera costruttiva per mancanza di attività cui dedicarsi. Associati
alle difficili condizioni di vita nei centri senza libertà di movimento, questi fattori spesso portano alla disperazione e all’insorgere di problemi di salute mentale. Gli operatori dell’agenzia governativa per l’assistenza ai richiedenti asilo e gli operatori locali di organizzazioni non governative, come Jesuit Refugee Services, Médecins Sans Frontières e la Croce Rossa, hanno accesso ai centri di detenzione e prestano il loro aiuto offrendo consigli legali, assistenza medica e attività educative e ricreative. Anche gli operatori dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) possono accedervi per vedere i detenuti e monitorare la loro situazione. Rilasciati dai centri di detenzione, i beneficiari di protezione umanitaria vengono invitati ad alloggiare in centri di accoglienza con libertà di movimento e viene offerto un piccolo sussidio mensile a coloro che si registrano in tali strutture; tuttavia, le condizioni di vita spesso non sono molto diverse da quelli dei centri di detenzione. Trascorso un certo periodo di tempo, i rifugiati si vedono costretti a mettersi alla ricerca di un alloggio indipendente e di una maniera per provvedere al proprio sostentamento: se alcuni riescono a trovare un’occupazione, per molti si tratta di un processo estremamente difficile. Stabilirsi a Malta è tutt’altro che semplice: molti rifugiati non si sentono benaccetti dalla popolazione locale e parte delle difficoltà che incontrano è legata all’adattamento a una cultura diversa e ai vari ostacoli da superare per integrarsi con successo in questo paese. Per esempio, molti rifugiati hanno lasciato le loro famiglie nei paesi di origine, ma fino a ora ottenere il ricongiungimento familiare si è rivelato molto arduo. L’UNHCR collabora con il governo degli Stati Uniti e di altri paesi nella ricerca di soluzioni per i rifugiati che risiedono in altri paesi. Il governo maltese, l’UNHCR, le organizzazioni non governative e di altra natura, con la partecipazione della comunità dei rifugiati, sono chiamati a operare uno sforzo congiunto, indispensabile per migliore la situazione sull’isola. I mezzi di comunicazione possono ricoprire un ruolo importante mediante il coinvolgimento del pubblico e la divulgazione di informazioni, creando un ambiente di consapevolezza e maggiore tolleranza nei confronti dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Mireille Mifsud Protection Assistant Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati Ufficio di Malta
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MALTA – Centro di accoglienza aperto Marsa Davanti alla TV. Il Centro di accoglienza aperto Marsa ospita solo uomini; al suo interno ci sono dei “ristoranti”, due barbieri, negozietti e bancarelle.
Natasha Borg e Sara Falconi Atelier culture.projects Per maggiori informazioni relative ai nostri progetti consultare il sito: www.atelierculture.com
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In tutti i nostri progetti ci sforziamo di creare sinergia all’interno dell’ambito culturale, sia di strutture pubbliche che private e, allo stesso tempo, in ambienti aziendali dove la cultura diventa un mezzo efficace e possibile di crescita economica e di sviluppo sociale. Il laboratorio intitolato “Un ritratto condiviso: dialogo creativo al Marsa Open Centre” è stato organizzato da Atelier per conto del St James Cavalier Centre for Creativity di Malta. Esso faceva parte di una più ampia struttura che ha coinvolto cinque centri d’arte europei uniti da un progetto comune chiamato As_Tide (Art for Social Transformation and Intercultural Dialogue in Europe, l’Arte a disposizione della Trasformazione Sociale e del Dialogo Inter-culturale in Europa), che ebbe luogo tra il 2007 e 2009, con il patrocinio del Programme Culture dell’Unione Europea. L’idea portante connessa al progetto consisteva nel ruolo fondamentale rappresentato dall’arte e dalla creatività nell’approccio alle innumerevoli sfide poste dalla società contemporanea. Il Marsa Open Centre per immigrati è attivo a Malta dal 2004-05 ed è situato nella città portuale di Marsa, non lontano dalla capitale La Valletta. L’obiettivo del progetto era sostenere la creazione di un “profilo” condiviso del Marsa Open Centre. Attraverso un processo finalizzato al dialogo e al raccordo tra lo staff del Centro e un gruppo di creativi (artisti, operatori culturali, ricercatori) esterni al Centro, il laboratorio si apprestava all’osservazione di quest’ultimo con l’obiettivo di elaborare una visione comune tra i partecipanti, per dare spazio a sogni, aspettative e nuove prospettive. Il processo è stato collaborativo: da una parte gli “esterni” e dall’altra lo staff del Centro, che insieme hanno contribuito alla realizzazione del laboratorio. Alla fine dell’esperienza, tutti i partecipanti hanno avuto la stimolante opportunità di osservare e percepire lo spazio fisico e psicologico in cui essi hanno operato in maniera diversa, con occhi diversi e da diversi punti di vista. Buona parte dei processi di comunicazione hanno ormai avuto inizio e le dinamiche di gruppo hanno aiutato tutti a contribuire e a condividere l’esperienza. Il laboratorio ha raggiunto risultati promettenti e alcune tra le “visioni” o le “idee” emerse durante l’incontro per migliorare il benessere del Centro, sono state applicate tangibilmente nei mesi successivi.
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L’Atelier Culture Projects opera nella gestione culturale, a livello nazionale e internazionale.
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«Nel marzo del 2008, ero incinta di quattro mesi. Siamo stati per qualche tempo in Sudan, prima di attraversare il deserto. Ci sono voluti 26 giorni per attraversarlo e raggiungere la Libia. In agosto insieme ad altri somali che vivevano a Tripoli abbiamo deciso che non si poteva più aspettare... Dopo il mio arrivo a Malta, mi hanno preso le impronte digitali e mi hanno ricoverata in un ospedale molto grande dove sono rimasta per due giorni. Non avendo complicazioni legate alla gravidanza, mi hanno dimessa e mandata nel centro di detenzione. Dopo 23 giorni è nato mio figlio: la sua prima casa è stato il carcere. Non mi aspettavo questo tipo di accoglienza in Europa! Non avevo nulla per accudire il mio bambino: ho tagliato i miei vestiti per farne piccoli pannolini. Il mio seno non aveva abbastanza latte per nutrirlo. Il mio bimbo è rimasto nel centro di detenzione per i primi 37 giorni della sua vita. A metà ottobre, ci hanno rilasciati e accolti in un altro centro. Aisha, la mia primogenita di 20 anni, è rimasta nel carcere fino a dicembre: quando le assistenti mi hanno detto che io e mio figlio potevamo uscire e Aisha no perché adulta, all’inizio ho rifiutato. Ma dopo alcuni giorni ho dovuto cambiare idea. Mi hanno praticamente imposto di scegliere tra i miei due figli. E ho scelto di stare con quello che aveva più bisogno di aiuto e di protezione...» Donna somala
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MALTA - Le 120 donne che occupano il Centro di accoglienza femminile Hal Far sono maggiorenni e nubili. All’arrivo, i migranti ritenuti provenienti da paesi “sicuri”, come l’Egitto e il Marocco, vengono immediatamente espulsi, gli altri vengono trattenuti fino a un anno e mezzo nei centri di detenzione, mentre i loro casi vengono esaminati. Una volta rilasciati, se ne dispone il trasferimento in centri di accoglienza aperti o in tendopoli. In applicazione delle normative europee, si impedisce di lasciare il paese anche a coloro cui viene concesso asilo o protezione umanitaria.
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MALTA - Centro di accoglienza per famiglie Hal Far Habdulrahman, sua moglie Muna e il loro figlioletto Mahad vengono dalla Somalia. Sono costretti a vivere separati gran parte del tempo perché l’imbarcazione su cui viaggiava Habdulrahman è approdata in Italia, dove lui vive, mentre Muna è sbarcata a Malta. Sono stati quindi registrati in due paesi diversi e secondo il regolamento Dublino II lo stato membro dell’UE responsabile dell’esame di una richiesta di asilo è il primo paese di accesso. Uno degli scopi principali di questo regolamento è impedire ai richiedenti asilo di presentare domanda in più stati membri e ridurre il numero di “richiedenti asilo vaganti” che si spostano da un paese membro all’altro. Secondo il Consiglio Europeo per i Rifugiati e gli Esiliati (ECRE) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), il sistema attuale è inadeguato a fornire una protezione giusta, efficiente ed efficace. L’applicazione di questo regolamento può causare considerevoli ritardi nella presentazione delle domande e il mancato esame di alcune di esse. Preoccupa inoltre il ricorso alla detenzione per forzare il trasferimento dei richiedenti asilo dallo stato in cui hanno presentato la domanda allo stato ritenuto responsabile di esaminarla (i cosiddetti “trasferimenti di Dublino”), la separazione delle famiglie e il diniego di un’opportunità concreta di appellarsi contro il trasferimento. Il sistema di Dublino sottopone inoltre a una pressione crescente gli stati ai confini dell’UE, che spesso sono quelli meno in grado di offrire appoggio e tutela ai richiedenti asilo.
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Nel febbraio del 2009 il Peace Lab, in collaborazione con MSF, ha aperto una clinica all’interno delle proprie strutture per prestare assistenza a coloro che vivono nell’area di Hal Far.
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In numerose occasioni MSF ha sollevato il problema delle condizioni dei centri di detenzione alle autorità maltesi: nonostante alcuni miglioramenti apportati, i centri sono ancora lontani dagli standard minimi di accoglienza per i richiedenti asilo istituiti dalla Commissione Europea. Nel mese di marzo, MSF ha sospeso le attività all’interno dei centri di detenzione e ha pubblicamente denunciato le condizioni di vita e i rischi connessi a cui i migranti e i rifugiati politici erano esposti. Nel rapporto “Not Criminals”, MSF evidenzia le inaccettabili condizioni di vita dei centri e l’impatto conseguente sulla salute fisica e mentale dei migranti e dei rifugiati a Malta. MSF ha cominciato a operare a Malta nell’agosto del 2008. Tra agosto 2008 e febbraio 2009 MSF ha effettuato 3.192 visite mediche a circa 2.000 pazienti in tre centri di detenzione. Tra dicembre 2008 e febbraio 2009, MSF ha condotto 266 consultazioni psicologici individuali e organizzato 30 sessioni di gruppo di educazione alla salute. Nonostante la sospensione delle attività nei centri di detenzione, MSF continua a fornire assistenza medica ai migranti e ai rifugiati politici che vivono in centri aperti, dove i detenuti sono trasferiti nel momento in cui le rispettive pratiche di asilo sono completate o in seguito al completamento del periodo di 18 mesi di detenzione.
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Ad aprile 2009 MSF pubblica il rapporto “Not criminals” per denunciare le condizioni di vita inaccettabili e disumane nei centri di detenzione di Malta e rinnova la richiesta di miglioramento immediato delle condizioni di vita nei centri.
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Dal 2002, a Malta sono cominciate ad arrivare le prime barche, quasi tutte provenienti dall’Africa subsahariana, piene di immigrati in cerca di asilo...
Questo fenomeno non è certo passato inosservato dai politici, dal pubblico maltese e dai mass media. I sondaggi rilevano costantemente che l’esodo dall’Africa è fonte di preoccupazione per i maltesi e l’appello dei politici ai “fratelli” europei è chiaro: “Aiutateci, o qui noi affoghiamo”. Quasi tutti concordano sul fatto che la nostra isola, con più di 400.000 abitanti, e con una densità di popolazione altissima, non può economicamente, socialmente e culturalmente sostenere questa “massiccia” immigrazione. Sarebbe stato lecito reagire agli sbarchi degli immigrati con un allarme cauto, soprattutto di tipo logistico, ma non con tutto quello smarrimento che spesso si è trasformato in un vero e proprio panico collettivo. Èd è significativo che verso gruppi di immigrati europei, molto più numerosi rispetto ai seimila africani sbarcati finora, non c’è mai stata questa forte percezione di “mancanza di spazio”. Vi è un’altra realtà fatta di paura e insicurezza, ed è quella vissuta dagli immigrati. Paura di non trovare lavoro, di non avere più contatti con la famiglia d’origine, di non riuscire a raggiungere un paese con più opportunità. È incertezza del futuro, ma anche del presente.
Apprensione che, in parte, viene anche dal non sentirsi accolti, accettati. Vedere che la gente non si siede accanto a te sull’autobus, sentire continui commenti spiacevoli, o semplicemente incontrare uno sguardo ostile, quando tutto questo diventa cosa di ogni giorno ha inevitabilmente un effetto psicologico, oltre che pratico. Ai “neri” a Malta non sempre è permesso salire sugli autobus, entrare in un locale o trovare un lavoro. Esistono anche casi più estremi, come quello di Suleiman. Suleiman è morto lo scorso giugno, dopo che gli era stato rifiutato l’ingresso in un locale. Per aver protestato, il buttafuori gli ha dato un gran cazzotto sulla faccia. È caduto, ha perso conoscenza e, una volta a terra, dei ragazzi maltesi hanno continuato a prenderlo a calci. Suleiman è morto una settimana dopo in ospedale. Noi che lo conoscevamo, provando rabbia e inquietudine per la direzione ostile che il nostro paese stava prendendo, abbiamo organizzato la prima dimostrazione antirazzista a “Piacevole”, luogo di divertimento oltre che teatro dell’aggressione a Suleiman. Le centinaia di persone, molti di loro immigrati, che hanno marciato con grande sdegno e tristezza in questa zona “razzista”
speravano di rompere il silenzio sull’odio che stava nascendo, ma nessuno ha reagito, nemmeno i politici. Anzi, il mese successivo, Abdulfatah, un immigrato dalla Somalia, è stato pestato a sangue a Hal Far, una zona disabitata, dove si trova un grande centro di accoglienza per gli immigrati. Ancora una volta abbiamo gridato che se i nostri politici e le nostre istituzioni continuavano a tacere anche loro si sarebbero resi complici. Ma il silenzio è stato assordante. La parola che può meglio descrivere la situazione maltese è “ignoranza”. Quando la gente ignora la cultura di chi è “altro” da sé, in questo caso gli immigrati africani, è inevitabile che la reazione a una convivenza “forzata”, non regolamentata, sia di rifiuto. E l’Europa deve fare molto di più, perché regole come quelle della Convenzione di Dublino, dove si stabilisce che l’immigrato deve per forza stare nel primo paese europeo in cui ha chiesto asilo, sono soltanto l’espressione di un’Europa Fortezza che rende la vita degli immigrati e dei paesi di “accoglienza” sempre più dura. I due partiti politici rappresentati in Parlamento, i Laburisti e i Nazionalisti, sono d’accordo nel dire che Malta non può
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Confini e paure
sostenere questa migrazione “illegale” e che questo fenomeno può avere ripercussioni disastrose sull’economia e sulla società maltese. Alcuni sono perfino arrivati a dire che ci troviamo davanti a una crisi nazionale. O addirittura, in fatto di sicurezza, abbiamo sentito il nostro ministro degli Affari Interni sostenere, quasi impaurito, che ci potevano essere dei terroristi o dei criminali tra “quella gente ignota, senza documenti”. Il partito Laburista e quello Nazionalista sono anche in perfetta sintonia nell’affermare che accordi di respingimento verso la Libia sono auspicabili ed entrambi hanno elogiato l’Italia per le nuove prassi di respingimento collettivo. Naturalmente questi discorsi sono tutti riportati, senza ombra di critica, su tutti i giornali e le tv maltesi controllate da questi due partiti politici. Troppo spesso l’immagine che ci viene data è quella di un immigrato arrabiato, ingrato, incivile, che distrugge ciò che i contribuenti maltesi hanno pagato o che va in ospedale in manette scortato da un soldato… il collegamento è immediato: se bisogna rinchiudere questa gente significa che è pericolosa. La detenzione diventa un confine
che stabilisce delle categorie molto rigide di un “noi” e di un “loro”. Un altro aspetto che alimenta l’allarme generale è il modo in cui vengono gestiti i centri di accoglienza. Usciti dai luoghi di dentenzione, gli immigrati alloggiano in uno dei centri aperti creati dal Governo sull’isola maltese. Il fatto che possano contare su un posto dove stare è molto positivo. Il problema sta nella scelta di aver creato dei centri grandissimi, capaci di ospitare migliaia di persone, soltanto in due località, a Marsa e a Hal Far, concentrando così gli immigrati africani in due aree specifiche. Questo politica del ghetto rende inevitabilmente gli immigrati più “visibili”, rafforzando inoltre una percezione errata del numero di persone ospitate sull’isola. Anche nel resto d’Europa, discorsi e politiche producono intolleranza e paura nei confronti dell’emigrazione, e l’accento viene posto con enfasi sulla lotta all’immigrazione “illegale”. Abbiamo assistito a misure, come quella di Frontex, per bloccare l’immigrazione e, implicitamente, il diritto d’asilo che hanno contribuito, come nel caso della detenzione, ad aumentare in noi maltesi e negli extracomunitari il senso di insicurezza:
se occorre proteggere la frontiera europea con le navi militari vuol dire che la minaccia è grande. Il confine fisico e sociale tra “noi” e “loro” diventa così sempre più rigido, pur tuttavia non impenetrabile. Dare un’immagine dell’Africa come di un paese “incivile” è una vecchia strategia dei colonialisti che avevano l’intento di giustificare il proprio predominio. Ancora oggi si rimane ancorati ai vecchi stereotipi, senza tener presente che la cultura africana è il risultato di disuguaglianze e ingiustizie globali. Molti, come me, si sentono smarriti di fronte a questa fobia dell’immigrato. Credono, come la Storia insegna, che essa produca soltanto delle azioni orribili che la gente non avrebbe neanche lontanamente pensato di fare in un altro contesto. Ma dobbiamo ricordare che, se la paura è, più che altro, costruita da un processo politico e sociale anziché naturale, allora può anche essere distrutta. Sta a noi rompere questo il circolo vizioso, annientare quei confini rigidi che sono solo il risultato della paura e dell’ignoranza. André Callus ONG Maltese Moviment Graffitti www.movimentgraffitti.org
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John XXIII Peace Lab L’organizzazione John XXIII Peace Lab è stata fondata con i precipui scopi di: • contrastare qualsivoglia teoria e pratica che diffonda la superiorità di un gruppo su di un altro; • di incentivare la comprensione reciproca indipendentemente dal proprio credo, colore e nazionalità; • promuovere e preservare la giustizia sociale. Per raggiungere questi scopi, oltre a fornire alle scuole locali libri sulla vita e le opere di persone che hanno predicato e diffuso tra le genti le idee di pace, cooperazione, giustizia sociale e rispetto per i diritti umani, si occupa di: • tenere un programma radiofonico settimanale nel quale vengono trattati temi
riguardanti sviluppo e giustizia; • intervenire in programmi radio-televisivi e con articoli nei giornali locali; • organizzare seminari aventi per tema la pace, la giustizia sociale, l’ambiente, il razzismo; • collaborare con altre ONG; • dare rifugio agli “immigrati illegali”. Abbiamo cominciato a occuparci di “immigrati illegali” quando queste persone hanno iniziato a essere alloggiate nella caserma di Hal Far e il nostro spirito cristiano ci ha spinto ad accoglierli per aiutarli nella loro triste condizione. Conoscendoli meglio abbiamo appreso le circostanze che li hanno costretti a lasciare il proprio paese e le proprie famiglie e, venendo a conoscenza di quanto accaduto a coloro che sono stati rimpatriati, abbiamo protestato con le autorità contro il modo in cui vengono
trattati, contro i loro essere detenuti come fossero criminali e contro la procedura che non dà loro la possibilità di dichiarare il loro stato di rifugiati. Abbiamo anche intentato causa contro il loro essere rimpatriati. Ora la situazione sta cambiando: a un buon numero di persone è stato concesso di vivere in abitazioni, in centri oppure in “open camps” messi a loro disposizione dal Governo, dalle istituzioni religiose o da organizzazioni di volontariato. Alcuni, inoltre, riescono a trovare impiego nel settore privato anche se con stipendi inferiori rispetto ai cittadini maltesi e con orari e condizioni di lavoro spesso più duri. Durante la Conferenza Nazionale sull’immigrazione irregolare abbiamo presentato la nostra posizione: «Riteniamo che il documento programmatico del Governo rappresenti un miglioramento rispetto alla que-
Per il Natale 2009 il Xmas Project ha scelto di sostenere l’Associazione John XXIII Peace Lab fondata dal padre francescano Dionysius Mintoff, che da più di trent’anni si occupa, a Malta, di dare sostegno e aiuto alle persone che giungono sull’isola con i barconi dei viaggi della speranza. Il progetto consiste nell’avviamento di una radio, che dovrà essere una voce amica, un collegamento con il mondo e soprattutto una fonte di informazione, educazione e notizie per i migranti e richiedenti asilo che si trovano a Malta.
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stione della detenzione degli immigrati. Tuttavia continuano a persistere alcune ambiguità e posizioni inaccettabili». Misure alternative alla detenzione devono essere sviluppate e intraprese in ogni possibile circostanza, in particolare rispetto ai richiedenti asilo che potrebbero essere imprigionati, torturati e maltrattati nei loro paesi di origine. In aggiunta alcune categorie vulnerabili dovrebbero di norma non essere sottoposte a misure detentive, tra cui donne con bambini, anziani, disabili fisici e psichici. In questo quadro di crescente necessità, Peace LAB ha intrapreso nel territorio di Hal Far il progetto di fornire riparo e assistenza ai richiedenti asilo. Mi auspico, come direttore di Peace Lab, che oltre ai migranti e ai richiedenti asilo, i locali di Peace Lab possano ospitare anche altre ONG, sia nazionali sia internazionali, che condividono le stesse idee. Quando Malta ha iniziato a ricevere le prime ondate migratorie, con i miei fratelli e colleghi di Peace Lab ho deciso di non ignorare il
cambiamento in atto e abbiamo pertanto cominciato a visitare i centri di detenzione cercando non solo di aiutare coloro che vi erano rinchiusi, ma anche di rendere partecipe il mondo esterno di quello che queste persone stavano attraversando. Peace Lab ha anche intrapreso la campagna per evitare la detenzione di bambini e di altre fasce più vulnerabili, ma soprattutto si batte contro la politica di detenzione automatica dei migranti, dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Dopo i 16/18 mesi di detenzione previsti dalla legge Maltese, Peace Lab si sforza di offrire riparo ai migranti, dimostrando così che l’impegno dell’organizzazione non è fatto di sole parole. Oltre ad aprire le proprie strutture, Peace Lab ha iniziato a organizzare corsi di inglese e a fornire altri strumenti utili per affrontare il mondo del lavoro. Dal Febbraio 2002 Peace Lab offre riparo e ospitalità a 45 migranti, mentre nel 2005 ha siglato un accordo con le Autorità maltesi per fornire alloggio a 20 richiedenti asilo e immigrati irregolari.
Lo Stato provvede all’assistenza primaria e lo scopo di Peace LAB è di dare a queste persone gli strumenti per realizzare un’esistenza migliore, una vita dignitosa mettendole in grado di sfruttare le proprie potenzialità e di integrarsi nelle comunità in cui vivono. Dal 2005 Peace LAB ha anche intrapreso la gestione di cliniche volte alla cura medica e all’aiuto spirituale delle centinaia di persone che si riversano settimanalmente nei centri medici. Nel Febbraio 2009 Peace LAB, in collaborazione con Medecins Sans Frontieres, ha aperto una clinica presso il proprio centro fornendo cure immediate, supporto infermieristico e psicologico, ma soprattutto sollevando così anche il carico di affluenze presso l’Ospedale Policlinico a Floriana. Da Maggio 2009 è stato anche aperto un piccolo Internet Café all’interno del centro di Hal Far per consentire ai richiedenti asilo di mantenere attiva un’effettiva comunicazione con le loro famiglie di origine. Padre Dionysius Mintoff
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Il progetto 2009. Onde radio ad Hal Far
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Action for Social Support and Empowerment through Radio Transmission (ASSERT) Progetto per il supporto e il rafforzamento sociale tramite trasmissioni radiofoniche OBIETTIVI GENERALI DEL PROGETTO • Creare un servizio radiofonico multilingue rivolto ai migranti provenienti da paesi in via di sviluppo, agli apolidi e ad altre persone che si trovano in permanenza a Malta o che desiderano spostarsi in altri paesi. • Produrre in diverse lingue, una varietà di programmi di interesse comune tra i migranti a Malta come per esempio un notiziario e un bollettino informativo, programmi di educazione civica e musica multiculturale. • Procurare e distribuire piccole radioline al fine di rendere fruibile l’ascolto presso i gruppi di riferimento.
DESCRIZIONE DEL PROGETTO • Affitto di uno spazio di radio frequenze per due ore al giorno per un anno • Creare gli spazi necessari per gli uffici e acquistare materiali e attrezzature per la radiotrasmissione • Realizzare una varietà di programmi multilingue, che prevedano interviste dal vivo, interventi telefonici, notiziari, musica multietnica e programmi di informazione generale. • Distribuire piccole radioline ai gruppi di riferimento.
SCOPO DEL PROGETTO • Sviluppare, attraverso la radio, capacità, conoscenze e attitudini positive tra i migranti, siano essi stanziali a Malta o desiderosi di spostarsi verso altri paesi. • Stabilire un contatto con e tra queste persone - attraverso trasmissioni radio multilingue e multiculturali - al fine di ridurre il divario informativo e di stimolare rafforzamento e autostima attraverso l’apprezzamento della propria cultura di origine e di quella altrui. • Migliorare le competenze civiche individuali al fine di mettere queste persone in condizione di farcela autonomamente e di essere capaci di integrarsi nel paese ospitante come cittadini attivi.
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Voci di Spesa 2010
COSTO
IVA
TOTALE
Costo del Personale
5,000
900
5,900
Acquisto/Noleggio/ Leasing di attrezzature
8,372
1,507
9,880
Beni di consumo e approvvigionamenti
3,000
540
3,540
Subcontracting
9,050
1,629
10,697
25,422
4,576
29.998
Totale
Il budget
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John XXIII Peace Lab ZRQ 2609 Zurrieq Hal Far, Malta T (+356) 2168 9504 F (+356) 2154 1591 info@peacelab.org Peace Lab is a member of SKOP, The National Platform of Maltese NGDOs
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Io non ho paura. Ce lo dicevano Niccolò Ammaniti e, a seguire, Gabriele Salvatores in uno dei suoi più bei film di sempre. Io non ho paura. Un’affermazione per farsi coraggio più che un’espressione credibile. Perché la paura esiste, in ognuno di noi. Paura di fare, paura di non fare, paura di sbagliare, paura del diverso, paura di cadere, paura di morire, paura di guardare, paura di credere, paura di dire la verità, paura di esprimersi, paura del passato, paura del presente, paura del futuro, paura di sé, paura degli altri. Paura di tutto. La paura è una delle espressioni facciali che appartiene a tutte le culture del mondo. Chi è uomo ha paura. A volte di fronte alla paura scappiamo, altre volte la affrontiamo a viso aperto. A volte vinciamo. A volte no. Quando decidiamo di farci coraggio, alla paura rispondiamo con la speranza, con l’idea di potercela fare. Ogni paura certo è rispettabile e ha piena dignità. Dignità di esistere poiché umana, troppo umana. Ma forse la paura che accompagna i viaggi della speranza ha davvero poco a che fare con la nostra. Immaginate per un attimo di vivere in un inferno. Un inferno fatto di guerra, violenza, carestia, sete, fame, malattia, morte. Ora immaginate di decidere di scappare da questo inferno. Scappare significa sì lasciare l’inferno, ma anche tutto il resto: la famiglia, i figli, gli amici, l’amore, la propria casa. Tutto. Il viaggio della speranza è la paura violenta del presente e la speranza nel futuro. Il viaggio della speranza è traghettare dall’inferno al paradiso. E noi, che scriviamo e che leggiamo, il paradiso lo siamo veramente. Ci può sembrare impossibile, ma lo siamo davvero. La paura quindi combatte arcigna contro la speranza. Tanto forte l’una, tanto forte l’altra. E quando la speranza vince, ecco che l’uomo parte. Noi lo chiamiamo coraggio e applaudiamo l’uomo. Nonostante tutto.
Illustrazioni di Viviana Spreafico e Alberto Ipsilanti.
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Noi, Xmas Project 2009
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Timori e desìo (un nipote e il suo bisavolo) ... né prosa né poesia… Il nipote
Il bisavolo
Non c’è niente che mi manca perch’è tutto che io ho La nebbia s’insinua e di nuovo (mi ritrovo) solo io. A presentire Ma la mia ambizione non si ferma Devo continuare, ampliare, possedere, ingrassare, prosperare. Chi è colui che può ostacolare, che mi può fermare? È colui che non conosco, che non mi è uguale? Lo guardo di sbieco, poco attentamente, sento qualcosa molto internamente Fors’è il ricordo di aver dimenticato, fors’è un segreto del mio passato Ora è lo stomaco che già reagisce, si strizza e contorce più non capisce Cosa provo davvero? Devo indagare È tutto troppo sottile, troppo in profondo Forse son vile? Non mi guardo più Lo guardo ancora Veste male, parla male, è scuro in viso, di malessere sta intriso Ha un odore che colpisce, uno sguardo che ferisce Cosa mai potrà portare, in che modo agevolare, quale beneficio, che vantaggio procurare? Vedo invece che minaccia, già dal mare mostra la faccia E non smette di arrivare sulle barche senza sosta Niente si può fare non si riesce ad arginare Turberà i nostri sonni, riempirà i marciapiedi Toglierà il decoro, prenderà il lavoro Punterà il suo dito, avrà tutto garantito, proprio così ho sentito Toglierà l’aria vitale, il rischio più grande lasciarlo passare In fondo chi teme è perch’è brava gente, e s’è dunque ver che buon sangue non mente con il conforto della pubblica opinione, del bar sotto casa e la televisione mi stringo a braccetto con gli altri miei uguali ed aiutandoci con la paura ci opporremo alla natura.
Andar per mare ! Soltanto questo io devo fare Di là dall’oceano c’è la fortuna, terra per tutti da coltivare Lettere parlano e i racconti confermano… tutti lo dicono Pane terra libertà Pace iniziativa opportunità Lavoro uguaglianza fraternità Certo sì è vero non so parlare Certo può darsi potrei naufragare Chissà la fortuna mi può abbandonare E se quel paese non mi accetterà? Forse la gente mi sarà ostile ma dopotutto è un paese civile E se poi terra non ci sarà? La cosa sicura è che qui non ce n’è, invece di là dicon tutti che c’è E se tutto voltasse contro? A qualsiasi ingiustizia, affronto o torto non mi piegherò, a men ch’io sia morto E se invece io non partissi? Non saprei mai se sbagliai, maledirei che non tentai, m’accuserei vile che fui Sarà poi questa la mia audacia, salto nel buio, prova del fuoco Sarà poi la mia partenza a garantire sussistenza, migliorare l’esistenza, preservare l’innocenza consentire altra gente rimanere alla sua terra, rimanere alla mia terra terra mia che pur lontano nutrirò, non dimenticherò, sempre sosterrò, anche per lei lavorerò In terra straniera lascerò i miei semi migliori Fallissi io, là nasceran figli, cresceranno nipoti E già solo a nascer saran cittadini Frutti bellissimi figli del grande sogno E ci ricorderanno loro E loro ci ricorderanno Pieno di nuova emozione mi accingo a salpare la ferma paura rimarrà a guardare la speranza che invece ha già preso il mare. ADDA
Ieri “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano, perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano
lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina; sovente, davanti alle chiese, donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano, non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tor-
nano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.”
..... “Si propone che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli Americani rifiutano purché le famiglie riman-
gano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Siete invitati a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”. DALLA RELAZIONE DELL’ISPETTORATO PER
L’IMMIGRAZIONE DEL CONGRESSO AMERICANO SUGLI IMMIGRATI ITALIANI NEGLI STATI
OTTOBRE 1912
UNITI,
Francesca Nicoli
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sperànza [spe’rantsa] s.f.
paùra [pa’ura] s.f.
aspettazione fiduciosa di qualcosa in cui si è certi o ci si augura che consista il proprio bene, o di qualcosa che ci si augura avvenga secondo i propri desideri
stato d’animo, costituito da inquietudine e grave turbamento, che si prova al pensiero o alla presenza di qualcosa, di reale o immaginario, che è o sembra atto a produrre gravi danni o a costituire un pericolo attuale o futuro
nutrire, riporre speranza dare, infondere speranza aprire il cuore alla speranza la speranza gli sorride non c’è più speranza la speranza di vincere la speranza di tornare senza speranza senza speranza di scampo la speranza di rivederla speranza fallace, speranza vana una pallida speranza ancora un filo di speranza una mezza speranza oltre ogni speranza la nostra speranza la speranza del futuro un giovane di belle speranze
niente paura! non aver paura!
è la mia unica speranza l’ultima speranza la speranza è l’ultima a morire
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paura della morte paura della guerra paura del fulmine paura degli esami paura del buio paura di cadere impallidire per la paura battere i denti di paura farsi venire i capelli bianchi dalla paura morire di paura e paura di morire mettere paura avere paura anche della propria ombra essere mezzo morto di paura brutto da far paura
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Stefano D’Adda
Speranza Non chiedere al filo d’erba fino a quando resterà verde, né alla farfalla se i suoi colori svaniranno, non chiedere ad una bimba dallo sguardo un poco smarrito quant’è grande il suo desiderio di volare…
Domani, ancora, ci saranno prati verdi e farfalle colorate, l’alba di un nuovo mattino cancellerà le ragnatele del giorno passato e illuminerà di speranza le ombre della notte. Rosanna Travaglino
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Oggi ho chiesto a mio figlio di 5 anni che cosa fosse per lui la paura… Mi ha risposto: «Mamma, la paura è quella cosa che ti viene quando un tuo compagno ti fa prendere uno spavento… ma è anche alla sera… quando devo andare in un’altra stanza da solo e non voglio andarci perché ho paura che ci siano i mostri, ecco questa è la paura! Mamma mi accompagni sempre tu, vero?». Ho sorriso pensando alla sua piccola speranza… Paola Toniolo
La mia prima paura
ra per i quartieri periferici di Milano...
Il luogo Accidenti! A pensarci bene non mi sembra che siano trascorsi così tanti anni ed invece sono almeno 34 o 35. Ricordo vagamente la stagione, ma era prima di cena ed era già buio perciò, verosimilmente, doveva essere in inverno. La casa era quella di Milano, in via Brusuglio 38, al terzo piano e la stanza era la cucina. La sedia era verde come il piano che rivestiva la cucina e il tavolo si trovava sul lato opposto al piano di cottura esattamente tra la porta di ingresso e la porta finestra che si affacciava al balcone.
La storia Papà e mamma mi salutarono cercando di rassicurarmi che sarebbero tornati a breve. Io indossavo una maglia bianca e per ingannare l’attesa, ubbidiente, mi sedevo sulla sedia della cucina e proseguivo con i miei ferri (in plastica color avorio) a fare la maglia. Appena la porta si chiudeva e calava il silenzio mi accorgevo che tutti i rumori, mai percepiti in altri momenti diventavano motivo di allarme e di angoscia. Il mio cuore iniziava ad accelerare e il motore del frigorifero o lo scricchiolare della sedia erano sufficienti per gettarmi nel panico. Ovviamente tutto ciò innestava una serie di fantasie che, come un effetto domino, amplificavano le mie paure. Mi immaginavo come sarebbe stata la mia reazione se qualcuno avesse forzato la porta di casa ma subito realizzavo che avevo i miei ferri, ribadisco di plastica, che avrei utilizzato per difendermi dagli aggressori!
Il fatto Papà e mamma dovevano andare a prendere Cristina (mia sorella maggiore) che terminava la lezione di chitarra a plettro dal maestro di musica. Credo che la casa del maestro si trovasse a pochi minuti dalla nostra ma sarebbe stata una vera imprudenza far rientrare da sola una ragazzina delle scuole medie con la chitar-
Io ho paula dei cani. Franciulli Io ho paura dei tori, del leone, dei lupi e ... anche di un fantasma. Lucy
Tra un pensiero e un punto a maglia il tempo trascorreva e, benché a me sembrasse eterno, in realtà subito dopo ritornavano papà, mamma e Cris. Credo che loro non immaginassero lontanamente che io potessi essere così fifona ed è pur vero che io negavo le mie paure facendo credere loro di avere una figlia coraggiosa e audace. Sono passati 35 anni ma la sensazione di paura è incredibilmente la stessa, coraggiosa non lo sono mai stata e come allora a volte mi vergogno di confessare le paure ma nella maggior parte dei casi ho imparato a dominarle e a raccontarle, scoprendo così che alla fine siamo un pò tutti fifoni e che abbiamo provato tutti quelle spiacevoli sensazioni anche se alla domanda risponderemmo sempre “in fin dei conti è fatta di niente“. Chicca Poletti P.S. Sarà un caso, ma ho scelto di abitare al sesto piano!
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Spero che diventerò uno che giocherà in nazionale di calcio. Ho paura di essere rapito dai ladri. Ettore D’Adda
Emma e il lupo «... parura? Io non ho parura... io sono la Emma!» Emma Gallio
Io non ho paura di niente, anzi ho un po’ paura del lupo e di perdermi. Ho anche paura che mia sorella Irene, che continua a muoversi, rompe il letto a castello e mi viene addosso che sono sotto. Spero quindi di non incontrare mai nessun lupo e se mi perdo mi sparo.
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Camilla Fiorini
Io invece ho paura Ho sempre avuto paura. Di tantissime cose. Di chi ti fa sentire inadeguata , e degli anni che si perdono inutilmente cercando di rincorrere l’affetto e l’approvazione di chi sposta sempre l’obiettivo, così che non lo raggiungerai mai, fino a quando scopri che non ti interessa più raggiungerlo. Ho paura dell’arroganza e degli arroganti. Ed è arroganza pretendere di guidare senza rispettare il codice, e così in una notte di nebbia uccidere in un sorpasso imbecille, due ragazze di 18 e 20 anni; e la ragazzina di 18 era a scuola con mia figlia, e l’ho rivista alla camera mortuaria, e non mi tolgo dagli occhi il suo visino. E non mi tolgo dalla mente l’idea che molti, troppi, di coloro che insultano il ragazzo che le ha uccise siano degli arroganti che guidano senza rispettare limiti o divieti di sorpasso. Ho paura delle persone che trasformano il non essere d’accordo in aggressioni personali. Come se lo scopo non fosse capire e farsi capire, o convincere delle proprie idee, ma annientare l’altro, come in una lotta da cui esce vincitore il più cattivo e becero. Ed è vero che l’unico modo per vincere è non giocare, ma è vero anche che si sta perdendo la capacità di discutere delle divergenze.
Ho paura delle persone che hanno sempre insegnato la comprensione e la correttezze e che poi, giustificate da un dolore personale, azzannano a destra e sinistra e non puoi difenderti, perché loro soffrono. E si è costretti a scegliere se accettare di fare da bersaglio o scappare. Ho paura di questa generazione di adulti, che si muove per spinte emotive, che non sa assumersi la responsabilità di essere esempio e argine per i figli ma solo eterni coetanei, troppo occupati a seguire se stessi per aver tempo di ascoltare e di porsi qualche domanda. E ho paura per le mie figlie, che crescono in un paese sempre più cialtrone e stupido. Non ho grandi risposte da dare e da darmi contro queste paure, anche se credo che alcune piccole regole possano aiutare, e provo ad applicarle; il rigore, il fare tutti i giorni il proprio dovere con serietà, senza prendere in giro se stessi, senza auto assolversi di fronte agli errori. Evitare il più possibile persone e situazioni che feriscono perché da feriti si diventa spesso cattivi. E cerco di applicare il consiglio che mi ha dato mia sorella Elena questa estate, apparentemente banale, di essere gentile anche, e soprattutto, nei rapporti familiari. Forse si può coltivare una faticosa speranza. Sandra Casadei
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23-11-2009
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Niente di più indifeso, di più soggetto alla paura di un bambino piccolo. Ma basta così poco per rassicurarlo... Perché ritrovi la speranza e la serenità. Anna, Claudio e Noemi Negri
Emma e Marco Brun o
Alessandr a
Chi sogna i milioni, chi gioca d’azzardo chi gioca coi fili chi ha fatto l’indiano chi fa il contadino, chi spazza i cortili chi ruba, chi lotta, chi ha fatto la spia na na na na na na na na na Ma il cielo è sempre più blu uh uh, uh uh, ma il cielo è sempre più blu uh uh, uh uh, uh uh... Chi è assunto alla Zecca, chi ha fatto cilecca chi ha crisi interiori, chi scava nei cuori chi legge la mano, chi regna sovrano chi suda, chi lotta, chi mangia una volta chi gli manca la casa, chi vive da solo chi prende assai poco, chi gioca col fuoco chi vive in Calabria, chi vive d’amore chi ha fatto la guerra, chi prende i sessanta chi arriva agli ottanta, chi muore al lavoro na na na na na na na na na Ma il cielo è sempre più blu uh uh, uh uh, ma il cielo è sempre più blu uh uh, uh uh, ma il cielo è sempre più blu … RINO GAETANO
Giorgia Lodigiani
Nicola e Roberto Frigatti
Le due mamme
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23-11-2009
19:43
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erbgħa u sittin | ħamsa u sittin
La nostra paura e la nostra speranza sono proprio i nostri bimbi, la paura di non offrire loro quanto di meglio vorremmo, la speranza che possano cambiare con le loro risorse ciò che non funziona. Certo vince la speranza, altrimenti non ci troveremmo ad aspettare con tante emozioni l’arrivo di un nuovo bimbo...
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Michela e Dario Regazzoni, con Chiara, Alberto, Elena
Filastrocca impertinente Filastrocca impertinente, chi sta zitto non dice niente; chi sta fermo non cammina; chi va lontano non s’avvicina; chi si siede non sta ritto; chi va storto non va dritto; e chi non parte, in verità, in nessun posto arriverà GIANNI RODARI
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23-11-2009
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Lettera di Natale Varese, Italia
Kabala, Sierra Leone
Caro Gesù Bambino, Per questo Natale, oltre a tanti giochi, vorrei un regalo speciale. Ti chiedo di darmi speranza, speranza in un mondo più bello. Un mondo senza paura. A casa viviamo nella paura e non è un bel vivere. Sento papà che si lamenta e dice che ha paura: ha paura di tutti questi zingari che girano per strada, e nessuno fa niente. Sporcano e rubano, e puzzano e portano malattie. Ho paura di ammalarmi. Non voglio ammalarmi. E anche noi abbiamo paura che vengono a rubare a casa nostra. Papà dice che ha dovuto pagare tanti soldi per la nostra sicurezza. Non so cosa ha fatto. Ho visto tante persone lavorare. Tutto il nostro giardino è pieno di telecamere. È divertente vedere le persone passare. A volte sto davanti a questa specie di televisione a vedere chi e cosa passa attorno alla nostra casa. Però quando usciamo abbiamo paura. A volte anche d’estate abbiamo paura di stare fuori in piscina. Mamma e papà vogliono ci sia sempre qualcuno con noi. Ma perché tutte queste persone non stanno a casa loro? Sento i discorsi di papà con i suoi amici, e sento che è preoccupato e arrabbiato. Perché vengono qua a spaventarci? Papà dice che una volta si stava meglio, quando non c’erano tutti questi negher, come dice lui… E quando i poveri se ne stavano buoni senza dare fastidio… Noi andiamo tutte le domeniche a messa e so che mamma e papà fanno elemosina, regaliamo sempre vestiti e giochi che non usiamo più… io prima piangevo, ma ora so che è giusto così… ho tanti giochi e vestiti nuovi che posso fare qualche rinuncia… Ma perché ci spaventano? Ti chiedo di far scomparire la paura…
Caro Gesù bambino, per questo Natale voglio avere la speranza di una vita e di un mondo migliore. Vorrei che il viaggio della speranza, come lo chiama mio fratello, riesca ad andare a buon fine. Non possiamo più vivere nella paura. Ho visto cugini morire di fame. Una cugina è stata violentata. A mio padre hanno tagliato un piede. Abbiamo perso la casa. Dicono che la guerra è finita, ma noi abbiamo paura. Mi parlano di Europa, di viaggiare in barca. Non ho mai visto il mare, non so cos’è l’Europa. Mi dicono che è lontano, ma che lì possiamo avere un tetto, e forse mangiare tutti i giorni e avere vestiti per coprirci. Dicono che fa freddo in Europa. Ma almeno riusciremo a dormire senza incubi. La paura è tanta ma dobbiamo partire. Dacci ancora una speranza. Mariatu, 9 anni
Carlo Carlini
Cristina, 8 anni
Quest’anno dirò una cosa snob Perché anch’io ho paura della malattia e della sofferenza. Non credo di aver paura di morire, ma forse solo perché per ora non è stata un’eventualità imminente. Ho paura, come tutti, che succeda qualcosa di grave a qualcuno a me caro. Ma se provo a guardare fuori dalla mia finestra, c’è un’altra cosa che mi fa davvero paura: è la mancanza di curiosità. Detto un po’ più snob, appunto, mi fa paura l’ignoranza. Quella che ci impedisce di chiederci chi c’è dietro tutti gli sguardi che incrociamo in una giornata qualsiasi; perché la nostra vicina di treno passa tutto il viaggio lamentandosi al cellulare; perché chi guidava quell’auto mi ha quasi investita stamattina per la fretta; o come fa la portinaia ad avere sempre uno splendido sorriso per tutti. Chi saranno tutte quelle persone che mi circondano? Chi saranno tutte quelle che vedo alla televisione? Chi saranno quegli uomini e donne e ragazzi e bambine che scendono stremati dai barconi? Voglio provare a fare un esercizio. Immagino un giorno di una dozzina di anni fa.
Una ragazza italiana con un’enorme valigia si avvia al check-in con un timore: che le facciano pagare il sovraccarico del bagaglio. Una ragazza africana si avvicina al barcone con una paura: morire in mare. Hanno la stessa età, ma la ragazza africana è già una donna, perché per loro il tempo corre più veloce. L’italiana lascia a terra una famiglia un po’ in pensiero, ma in fondo fiduciosa, forse persino un po’ orgogliosa. Cosa lascerà l’africana? Forse davvero un inferno di violenza impietosa e ingiustificata, forse invece dei figli che non sono in pericolo di vita, ma a cui vuole dare un futuro migliore. L’italiana atterra in un altro Paese, ha degli amici che l’aspettano; dopo pochi giorni ha un lavoro, una stanza e un conto in banca – vuoto. L’africana passa giorni o settimane stipata su una barca, forse rimane senza cibo e senz’acqua, forse viene costretta a buttarsi vicino a una costa, forse sopravvive; anche lei ha dei conoscenti o dei parenti; dopo qualche tempo forse ha un modo di guadagnarsi da vivere, un letto e dei contanti. L’italiana siede a una scrivania, davanti a un pc, “affronta una sfida professionale”, come si dice adesso.
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
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Ho paura di … Ore 6:30: ho paura che non suoni la sveglia Ore 7:00: speriamo che la Bianca non abbia la febbre Ore 7:50: ho paura di arrivare in ritardo al lavoro Ore 8:30: speriamo sia un caso facile Ore 13:30: ho paura che anche oggi salterò la mensa Ore 14:30: speriamo che il capo scelga me per il caso di domani Ore 17:30: ho paura di non riuscire ad andare a prendere la Ludovica Ore 19:30: speriamo che la Bianca mangi la cena senza farci disperare Ore 22:00: ho paura di non aver speso al meglio il mio oggi Chissà se domani avrò il coraggio di non aver paura o sperare solo per me!
Spero che… Ho letto il tema per i contributi…, ho letto la traccia lasciata..., ho pensato a cosa potervi mandare…, mi sono convinta che non avrei fatto in tempo, mi sono giustificata dicendomi che in effetti avevo troppo poco tempo per scrivere qualcosa di sensato, non banale. Certo tutti hanno paure; io credo di essere sommersa da piccole e grandi paure…, ma non riesco a esprimerle riesco solo a sentirle. Speranze (quante sono!), ne passo in rassegna qualcuna, ma poi rinuncio a scriverle. E quel discorso sulla guerra personale… io non ho intrapreso nessuna guerra personale per un futuro migliore e così mi sento ancora più inadeguata. Allora credo che aspetterò. Aspetterò di leggere e guardare le paure e le speranze di altri che hanno avuto il coraggio di scrivere. Francesca Grandi
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Guido Gelpi
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L’africana forse lavora lungo una strada di periferia, forse non si ammala e riesce a mandare soldi a casa. L’italiana ogni tanto torna a trovare la famiglia e gli amici. L’africana non può uscire dal Paese per rivedere i suoi bambini, perché non potrebbe più rientrare. Non so come andranno a finire queste due storie. Forse peraltro l’africana era arrivata in aereo con un visto turistico. Forse dopo qualche tempo ha trovato un lavoro in regola, probabilmente come colf o badante. O forse invece la sua storia è già finita, in un mare troppo grande o in una stanza non riscaldata. Ma la domanda è una sola: cos’ho fatto, io, per meritarmi di essere l’italiana? Silvia Bailo
P.S. Dedicato a tutti i lombardi meticci come me, ai lombardi di seconda generazione e ai lombardi puri, anche se dubito esistano, e dedicato anche a quelli a cui i senegalesi stanno più simpatici dei vicini di treno brianzoli. P.P.S. L’essere umano è un animale, e come tale ha l’istinto atavico di proteggere il branco e se stesso dai pericoli. Ma l’essere umano è anche quell’animale che, alle soglie dell’età adulta, lascia il branco per creare un proprio futuro altrove. E infine, l’essere umano è anche quell’animale stra-ordinario, che è in grado di formulare pensieri complessi e di comunicarli ai propri simili; e che quindi può imparare non solo dalla propria esperienza, ma anche da quella altrui, e ad oggi ha a disposizione interpretazioni della realtà e modelli di governo della società accumulati e perfezionati nel corso di millenni. Mi sa che li abbiamo persi durante l’ultimo letargo...
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
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Cari genitori… Lo sapete che io ho molta paura di voi quando magari prendo una nota (e a proposito oggi ne ho presa una ma come si dice posso spiegare tutto! Stavolta non centro… è vero non come le altre volte…per dirvelo ho aspettato ora visto che siamo in tema) ma poi non capisco di cosa debba avere paura perché so che non mi può succedere niente… magari mi sequestrate il cell ma ci sono abituata. Ecco in realtà ho timore di essere sgridata ma la paura è un’alta cosa. Stasera però ho la speranza che quando voi avrete letto ciò che ho scritto direte che sono stata sincera anche se stavolta si è sbagliato il prof. Ero zitta perché stavo leggendo il tema di Jacopo che non avevo ascoltato quando lo ha letto ad alta voce perché sono andata in bagno; nessuno mi aveva detto dove stavano leggendo di storia, allora il prof ha detto di proseguire ma io avevo capito male, ho chiesto se poteva ripetere e il prof mi ha detto di non provocare…. Io gli ho detto che non avevo parlato allora lui visto che era già arrabbiato mi ha dato una nota con scritto che io polemizzavo con lui. Stavo per piangere anche per altri motivi perché in questo periodo sono distratta, assente e triste… non so come abbia fatto a trattenere le lacrime ma avevo bisogno di sfogarmi perché in questi giorni la mia scala di cristallo si è rotta. Nella vita ci sono momenti in cui ti devi sfogare e non sai perché e scoppi in lacrime – come questa estate agli scout – almeno per me è così. Beh, ma nella vita ci saranno sempre
Io ho paura di tante cose: piccole, grandi, giuste, sbagliate. Sono speranzosa che una volta mi passeranno perché è meglio essere felici che spaventati. Irene Fiorini
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paure da affrontare anche banali, ma sono sicura che la speranza ci è amica e non dobbiamo perderla perché è l’amica più speciale e che ci può aiutare… Ve lo dico io per le mie note… ciao. Lara Cimmino - classe II G
Cara Lara, capiamo solo ora leggendo cosa volevi dire oggi con quel gran discorso sulla paura. Impossibile però credere che tu non sia polemica! Lo sei eccome e nella vita dovrai imparare a controllare questo aspetto del tuo carattere. È nostro dovere aiutarti a farlo, con qualsiasi metodo a nostra disposizione. Purtroppo non c’è più nessuno che dia le note ai genitori perché, per quanto umiliante sia riceverne, servono per crescere e per imparare cosa sia giusto fare o meno. Per questo anche noi abbiamo paura; paura di non riuscire a trovare il giusto equilibrio tra comprensione e severità per insegnarti che le regole esistono, vanno rispettate e che ci vuole impegno; paura che tu non voglia confidarti con noi e a dodici anni non si può risolvere tutto da soli pensando di essere sempre dalla parte della ragione. La nostra speranza? Che crescendo tu comprenda le nostre motivazioni e che tu abbia sempre la certezza che ti puoi fidare di noi perché, per quanto esigenti, ti vogliamo bene. Con affetto, Mamma e papà
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
19:44
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Paura Su questo credo di essere un’esperta. Ho iniziato ad avere paura quando, ancora bambina, mi è capitato di vedere un film, “Incompreso” di Luigi Comencini. Non so se tutte le mie conseguenti paure sono nate da una pura fiction o dalla realtà delle esperienze. Quello che so è che le mie paure ogni volta fanno capolino lì, nel mio inconscio, alla voce “incompreso”. La mia vita mi ha portato a essere un’eterna passegera, un’eterna fuggiasca, approdando a lidi sempre differenti e alla fine sempre uguali. Culture diverse, persone diverse, ideologie diverse, credenze diverse, modo di relazionarsi diversi. Nella mia ancor breve vita ho vissuto a Milano, Parigi, Barcellona, Londra e, infine, Shanghai. Città grandi, metropoli, dove nessuno o quasi bussa al vicino per offrire un caffé o un tè, dove nessuno, se non i tuoi amici più stretti, ti chiede “come stai” per sapere veramente come stai. Eppure in queste metropoli, dove devi imparare a sopravvivere prima ancora che vivere, si può incontrare e provare il miracolo. Il miracolo di cui parlo è realizzare che, in mezzo a così tanti estranei, avvengono momenti di intimità, di condivisione delle paure più recondite, quelle che ci si vergogna a dire ai familiari o agli amici di lunga data. La paura di essere diversi. Per colore della pelle, per inclinazioni sessuali, per cultura, per ideologia politica, per soldi. La condivisione con fino-a-quel-momento-estranei che non ti guidicano per il tuo passato, che non ti giudicano affatto, almeno per un po’. La barca che ci fa approdare sulla riva di un nuovo paese, la barca con destinazione paradiso, a volte può essere un aereo, un treno, un telefono, un sorriso, una voce.
tmienja u sittin | disgħa u sittin
Aloïse Creosi
Non ho più paura del buio: mi basta aprire gli occhi e intorno c’è chi mi fa luce. Non ho più paura di sbagliare: ho vicino persone che sanno perdonare. Non ho più paura del futuro: le esperienze vissute mi porteranno avanti. Non ho più paura del dolore: insegna ad apprezzare anche le piccole gioie. Non ho più paura della morte: “di là” continuerò con le persone con le quali non ho mai interrotto il mio rapporto d’amore. Spero che le mie nipoti abbiano gioia di vivere e voglia di guardare fuori dal loro guscio per apprezzare e imparare dalle diversità che hanno intorno. Augusta Mamoli
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Non ho più paura...
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
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Alessandro Magno e i Gimnosofisti Alessandro gli chiese se possedessero qualcosa. – Possediamo la terra, – rispose lui – I brahmani, come seppero che stava venendo da loro il re Alessandro, gli mandarono gli alberi da frutto, la luce, il sole, la luna, la schiera degli astri, l’acqua. Quando abbiaincontro i migliori fra i loro sapienti, con una lettera sulla quale era scritto: mo fame, ci avviciniamo alle fronde degli alberi e mangiamo i loro frutti, che nasco«Noi gimnosofisti scriviamo all’uomo Alessandro: se vieni da noi per farci guerra, non no da soli: seguendo le fasi della luna, tutti i nostri alberi producono i loro frutti. ne avrai alcun vantaggio, perché non hai niente da portarci via. E se vuoi prendere ciò Abbiamo anche un grande fiume, l’Eufrate: quando abbiamo sete andiamo da lui e che abbiamo, non ti serve combattere ma pregare: non noi, bensì la superiore prov- beviamo la sua acqua e di ciò siamo soddisfatti. videnza. Se invece vuoi sapere chi siamo, sappi che siamo uomini che usano esercita- Alessandro ascoltò tutte queste cose e quindi disse, rivolto a tutti loro: re nudi la filosofia e che questa scelta non l’abbiamo fatta da noi stessi, ma per dispo- – Chiedetemi ciò che volete, e io ve la darò. sizione della divina provvidenza: a te spetta combattere, a noi esercitare la filosofia». E tutti risposero, in un solo grido: – Dacci l’immortalità! Come ebbe letto questo messaggio, Alessandro si dispose ad andare da loro in pace. – Non ho questo potere, – rispose Alessandro – anch’io sono mortale. E vide molte selve e molti alberi bellissimi, con frutti di tutte le specie e un fiume che – E perché allora, – chiesero quelli – se sei mortale, fai tante guerre? Per conquistare circondava tutto quel territorio, la cui acqua era trasparente e bianca come se fosse tutto e portarlo dove? Non dovrai, a tua volta, lasciare tutto ad altri? latte e palme ricche di molti frutti, e il tralcio della vite con migliaia di splendidi grap- E Alessandro: – Così dispone la superiore provvidenza: noi siamo servi e ministri dei poli, che allettavano il desiderio. suoi ordini. Anch’io vorrei smettere di combattere, ma non me lo consente il signore Alessandro li interrogò così: della mia mente. Quanta gente si è rovinata nelle guerre che io ho intrapreso e ha – Non avete tombe? perso tutto ciò che aveva? Ma altri sull’altrui sfortuna hanno costruito la propria for– Questo posto in cui stiamo – risposero – è anche la nostra tomba: qui moriamo, tuna! Capita sempre che ci si impossessi delle cose degli altri, per poi ad altri cedere il stendendoci per il sonno della morte su questa terra, che ci fa da tomba; la terra ci passo: e in realtà nulla appartiene a nessuno. genera, la terra ci nutre, sotto terra, da morti dormiamo il sonno eterno. Dopo aver parlato così, Alessandro offrì a Dandami oro, pane, vino e olio. – Prendi, Alessandro chiese ancora: – Chi sono di più, i vivi o i morti? vecchio, – gli disse – per nostro ricordo. – I morti sono di più, – risposero quelli – ma non si possono più contare: e pertanto E Dandami ridendo rispose: – Queste cose a noi non servono affatto: ma perché non quelli che si vedono sono di più degli altri, che non si possono vedere. sembri che disprezziamo i tuoi doni, prenderemo l’olio. Fece quindi un cumulo di – Cos’è più forte, – chiese ancora Alessandro – la morte o la vita? legna, vi appiccò il fuoco, e vi versò sopra l’olio di Alessandro. E quelli risposero: – La vita, perché il sole, quando sorge, ha raggi luminosi e splen- CURZIO RUFO – STORIE DI ALESSANDRO denti, e quando tramonta appare più debole. Claudio Covini – Cos’è maggiore, – chiese ancora – la terra o il mare? – La terra, perché anche il mare poggia su un fondo di terra. Alessandro domandò ancora: – Qual è il più feroce degli animali? – L’uomo – risposero i saggi. – E perché? – Domandalo a te stesso – gli risposero. – Anche tu, vedi, sei una fiera che ha con sé altre fiere, e da solo vuoi privare della vita tutte le altre fiere. Alessandro non si adirò, ma sorrise, e chiese di nuovo: – Cos’è il potere del re? – L’ingiusta forza della sopraffazione, l’audacia che incontra la fortuna del momento, un peso d’oro – risposero. E ancora chiese: – Cos’è venuto prima, la notte o il giorno? – La notte – risposero. – tutto ciò che nasce si forma e cresce nel buio del ventre, e poi viene partorito e viene dato alla luce. Poi chiese: – Qual è la parte migliore, la destra o la sinistra? – La destra – dissero quelli. – Infatti anche il sole sorge da destra e percorre la sua orbita in cielo verso sinistra. Infine, Alessandro chiese loro: – Avete un capo? – Sì, – risposero quelli – abbiamo chi ci guida. La mia o l’altrui incoscienza? – Vorrei salutarlo – disse. Se hai paura quando non hai speranza E gli indicarono Dandami, che stava disteso a E hai speranza quando non temi la paura, terra, su uno spesso strato di foglie d’albero e Quando smetti di aver paura, intorno a lui stavano meloni e altri frutti Dunque hai cessato di vivere male… caduti a terra dagli alberi. Ma, quando a farti paura Alessandro lo salutò e quegli rispose: – È il tuo stesso fratello, Salve –, ma non si alzò per fargli onore, come spettava a un re. allora, uomo incosciente,
a chi serve vivere ancora? Chiara Palmieri, “maestra elementare”
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
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Nina ci vogliono scarpe buone e gambe belle Lucia Nina ci vogliono scarpe buone pane e fortuna e così sia ma soprattutto ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole. IVANO FOSSATI, PANE E CORAGGIO
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La paura permea le scarpe logore e le parole di chi attraversa i mari e le frontiere verso una chimerica felicità. E chi ha scarpe nuove e parla una lingua che tutti capiscono è spaventato dai suoni strani e dalle voci fuori dal coro e dalle parole che non comprende. È la diversità che ci fa vivere nella paura e, malgrado la diversità dei suoni, della pelle e delle scarpe, chi arriva e chi accoglie ha le stesse paure. E il solo modo per liberarci della paura è il coraggio di incontrare e conoscere la diversità. Il coraggio e la speranza di chi ha già attraversato i mari e le frontiere, il coraggio e la speranza di chi attende con la mano tesa e abbozza un sorriso che vale più di mille parole. Martina Nencini
Sono circondata dall’affetto di persone care, alla mia famiglia non manca niente perché il lavoro ci dà quello di cui abbiamo bisogno, ho tanti amici con cui condivido esperienze di vita e faccio cose che mi arricchiscono, faccio il lavoro che desideravo fare da piccola. Poi mi fermo. C’è qualcosa che in fondo mi fa paura: l’ignoto, quello che non è prevedibile, quello che se ne frega se la tua vita deve andare dritta fino alla fine, senza intoppi. Eppure ce l’ho davanti tutti i giorni…è una bella corsia d’ospedale, le strade di Milano, le notizie sui giornali. Ma la mia testa si difende, i miei occhi sono offuscati. Ecco io vivo esattamente la situazione opposta dei nostri “disperati”. Loro hanno paura ma anche speranza, perché comunque è possibile che vada meglio. E allora forse devo cambiare prospettiva. Ci provo ma scopro che mi manca il coraggio di uscire dalla palude di questo tempo. Ma soprattutto scopro che ho perso la fede. E allora l’ignoto continua a fare paura.
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Benedetta Nocita
sebgħin | wieħed u sebgħin
Quando si “possiede” tutto, nulla fa paura
Io ho paura dei ladri e dei fuochi di artificio. Emma Cometto
E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire. FRANCO BATTIATO
Silvia Marchetto
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
La speranza è quel punto di luce capace di illuminare anche i colori cupi della paura. Nella nostra classe, una prima media sulle rive piemontesi del lago Maggiore, abbiamo tante paure ma anche tante speranze per difenderci. Le abbiamo raccontate cosÏ.
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tnejn u sebgħin | tlieta u sebgħin
23-11-2009
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Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
Sofia, Mario, Cecilia, Kelly, Enya, Marco, Alessandro, Olivia, Giulia, Noemi, Jonathan, Niccolò, Omar, Loubna, Roberta, Alessandro, Luca, Pietro, Camilla, Valentina, Vivenne, Lucia. Scuola media Lesa – classe 1° B
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
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23-11-2009
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erbg침a u sebg침in | 침amsa u sebg침in
Raimondo, Giacomo Federica, Larry, You, Emma
EUROLOGOS SHANGHAI supporta e diffonde il Xmas Project 2009
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
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Riflettendo con Ernst Bloch Si può definire la speranza un sentimento che appartiene a ogni essere umano in quanto tale, “innato” e non dipendente dall’ambiente? La psicologia contemporanea ha risposto negativamente a questa domanda, indicando nell’educazione all’emotività la condizione che crea lo spazio in cui vive la speranza; e sottolineando, al tempo stesso, che la presenza di favorevoli condizioni ambientali, sociali, economiche, etico-culturali, politiche, permette a questo peculiare stato d’animo di persistere e garantire così all’individuo la sensazione di un futuro di possibilità aperte, e con esso uno slancio positivo. Se, al contrario si realizzano negative circostanze di degrado, questo sentimento si riduce, e compare la depressione cioè il sorgere delle paure più o meno motivate. Ma davvero bastano le spiegazioni sociali o psicologiche per determinare situazioni in cui singolarmente o collettivamente, siamo più o meno capaci di volgere lo sguardo al futuro? O c’è dell’altro? Che nesso esiste tra paura e speranza, ed è possibile che esse siano le due facce di una stessa medaglia? Speranza e paura sono tra loro strettamente collegate? Una linea di pensiero della filosofia classica ha per lo più letto la speranza come una consonanza tra le aspettative degli uomini e la realtà del mondo stesso. Difendendone, con accenti diversi, la fondatezza. Viceversa, la filosofia contemporanea si è impegnata soprattutto a denunciare lo scollamento che esisterebbe tra ciò che l’uomo desidera e crede e l’evidenza tragica delle cose, essendo il mondo privo di senso. Tuttavia, per molti autori che la speranza appartenga alla sfera pratica e non a quella concettuale, non è necessariamente una diminutio: anzi, la fede in una ulteriorità è ciò che contraddistinguerebbe l’essere umano e lo spingerebbe ad agire, laddove l’ascolto della sola ragione lo porterebbe a una immobile angoscia. Inoltre, secondo alcuni pensatori, la scomparsa di una speranza religiosa o trascendente non necessariamente implica la fine della speranza in senso lato; il mai appagato desiderio di ulteriorità continua infatti a manifestarsi o in utopie di tipo politico – la ricerca di un mondo migliore e più giusto – o nelle “micro-speranze” che costellano l’immaginario collettivo. Magistrale è in questo senso la riflessione del filosofo tedesco Ernst Bloch che nell’opera “Il principio speranza” stila una sorta di catalogo dei desideri e dei sogni, privati e collettivi, dell’uomo contemporaneo. La speranza di Bloch, non riguarda tanto il futuro quanto il presente, nel senso che per Bloch ogni istante può diventare significativo, noi dobbiamo imparare a vivere ogni momento come se fosse eterno. Naturalmente per “eternità” si intende la pienezza dell’esistere, e riguarda quei momenti dell’essere in cui sembra di scoprire il senso delle cose, e questo senso delle cose lo si scopre andando al di là dell’indeterminatezza dell’attimo vissuto. La speranza però non è soltanto pathos ma è anche misura e dell’azione che mobilita le coscienze e il fare degli uomini. Salvatore Nocita
We shall not cease from exploration And the end of all our exploring Will be to arrive where we started And know the place for the first time. THOMAS STEARNS ELIOT “THE FOUR QUARTETS”- 1943
In un mondo che esporta paura, il viaggio è continuo e irto di insidie ma la nostra esplorazione parte da noi e ritorna a noi. La paura è l’emozione primaria che fa sbarrare le mascelle, vibrare le viscere, abbandonare le nostre dimore per condurci dove veleggia incontrastata la speranza. Paola Mirra
Dialogo Tu non lo immagini, amico mio, ma anch’io ho paura quando ti faccio cenno di entrare nella mia stanza. Guardo il tuo viso scuro e accenno ad un “bonjour”. Ma ho paura. Paura di non comprendere quello che mi dici, paura di non saperti ascoltare. Ti domando, ti interrompo, alzo la voce. E tu non sembri capire. Cerco di spiegarti con le “mie” parole quello che è importante che tu sappia, ma tu vuoi raccontarmi di te, dei tuoi cari lasciati in un paese dove sono in pericolo, dei quali non hai più notizie da mesi, del tuo viaggio, in mezzo al deserto e poi sulla barca, dopo mesi di attesa. La paura mi sopraffà; non voglio sentire fino in fondo quello che ti è successo. Che sono venuti, armati, “erano tanti, e hanno abbattuto la porta di casa. Sono entrati hanno preso mia sorella e l’hanno …”. Ecco, ci siamo! Fermati! Non è necessario che tu lo racconti proprio a me. Io sono qui per dirti quali sono i tuoi diritti, che, se hai pazienza , avrai anche un posto dove stare. E tu mi guardi. Non capisci. “Ma come?” mi dici “io sono scappato, guarda, sono rifugiato, perché nessuno mi aiuta?”. Allora mi fermo. Sto in silenzio. Ripongo i miei libri e ti guardo negli occhi. Almeno ci provo. Accenno ad un sorriso, non è molto, ma voglio dirti che ti sono vicina. Che provo a comprendere quello che non è umano comprendere. Che forse c’è una speranza. Capisco che tu non hai bisogno di risposte da me. Oramai sei in salvo. Sono io che rischio di affogare. Sarah Nocita
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25-11-2009
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Piangi quando hai paura e nello stesso tempo piang i sperando che tutto passi Paura-speranza, insieme . dominano gran parte della nostra vita e ti sbriciolan è speranza, ma utopia . E o sempre più soprattutto qu così si vive a metà. ando capisci che la
tua non
Enrica Mamoli
Mai come in questo periodo la paura e la speranza sono stati, per me, sensazioni così presenti e ricorrenti. C’è un senso di precarietà diffuso, che mi sembra di poter toccare con mano ogni giorno. È come se fossimo davvero appesi ad un filo, e che vivessimo con la paura che si spezzi, contrastata dalla speranza che resista, almeno ancora un po’. È la paura di non farcela, che combatte con la speranza di riuscire. Ma è quest’ultima che prevale, che deve prevalere, per non farci naufragare, per non leggere in chiave negativa tutto quello che accade intorno a noi. La paura è strumentale a mantenere alta la sensazione di precarietà, di emergenza, che giustifica tutto, e mette tutti contro tutti. Ci vuole speranza se davvero vogliamo un mondo migliore dove far crescere i nostri figli. Speranza nel prossimo, speranza in noi stessi, quel gusto della vita che ci ricordi, ogni giorno, quanto siamo fortunati. E che ci richiami, ogni giorno, a dare a chi fortunato non è stato, un messaggio semplice ma non scontato: Non aver paura, il peggio è passato. Renato Plati
Bruna Dell’Agnese
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«Io non ho paura ... continuo a combattere per quello in cui credo .» Gabriella Fu lvi
sitta u sebgħin | sebgħa u sebgħin
Clandestino
Per i canti della tua terra, per gli occhi delle sue do nne e le cadenze delle sue voci e le veloci ma ni delle ragazze e i loro amori , quasi ponti sospesi nella no tte . Per le preghiere ininterro tte di tua madre, e l’onda sonora delle acq ue, e il tuo cielo sereno o nu voloso, o il vento o lo stellato co n i suoi sentieri volti a nuovi sogni. Per tutto quanto ieri color ava i tuoi giovani giorni, per te che tutto ora hai pe rduto, vorrei poter dire “Sorridi!” anche in questo mondo sco nosciuto.
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23-11-2009
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Io ho paura dei cani grossi Delle scimmie che si avvicinano curiose. Del bagno in mare se prima non sono passate tre ore. Dell’ospedale. Delle macchine di sera che magari agli incroci non si fermano. Di ubriacarmi perché poi dopo sto male. Di una rapina. Del terremoto anche se abito a Milano. Dell’Inter quando giochiamo il derby. Delle interrogazioni all’improvviso. Dei ragni. Degli scarafaggi, delle cimici, dei topi. Del gatto degli altri che ti dicono che non fa niente. Dei gatti randagi che non sai mai da dove arrivano e dove vanno. Dei delinquenti. Delle persone che ti fanno credere che sono tuoi amici. Dei formaggi per colpa del loro odore. Di andare a casa di sconosciuti a cena e non sapere cosa preparano. Delle malattie. Dell’ascensore dopo che son rimasto chiuso dentro. Di andar forte in vespa, così come in macchina o in bici. Dell’aereo. Del decollo. Dell’atterraggio. Delle poltrone dell’aereo perché quello davanti a me reclina il sedile e io non mi posso muovere. Delle pallonate nelle palle. Di andar giù forte dalle piste da sci. Del freddo soprattutto quando ti si congelano i piedi negli scarponi. Delle api, dei pipistrelli, dei piccioni. Dei motorini se non lo guido io (idem le auto). Di andare a mangiare al ristorante per poi mangiare male. Di dormire se qualcuno guida. Di arrivare in ritardo. Di non fare ridere. Di avere l’alito pesante. Di menare le mani. Di far male. Di scottarmi i piedi sulla sabbia bollente. Di perdere la pazienza. Delle persone arroganti. Delle siringhe ai giardinetti. Di bucare in vespa. La speranza però è che queste paure mi passino! Dario Bertolesi
Non lasciamo che la paura ostacoli i nostri progetti, le nostre idee, i nostri sogni ma non lasciamo neppure che la speranza, fine a se stessa, ci illuda di un risultato che senza determinazione e consapevolezza non può arrivare. Nulla può essere realizzato senza l’impegno sociale, politico, economico… Apriamo gli occhi, sporchiamoci le mani. Alberto Viganò
Affrontare la paura è un noviziato che dura tutta la vita Con il passare del tempo la paura può diventare un’amica e con l’esperienza può sfociare in prudenza, che al bisogno ci difende ma che, allo stesso tempo, ci fa aprire in modo adeguato verso gli altri e verso le situazioni che non conosciamo, con un arricchimento interiore evolutivo, facendo così dileguare il pregiudizio, il rifiuto, il nulla. È così che finalmente nasce il coraggio a essere felici. Perché veniamo al mondo per imparare a essere felici ma per esserlo ci vuole coraggio! Natalia Schiavon
In questi testi di De André noi ci riconosciamo da sempre! Dove fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura dove cammina il mio destino c’è un filo di paura qual è la direzione nessuno me lo imparò qual è il mio vero nome ancora non lo so … 1981 DAL CANTO DEL SERVO PASTORE … E se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri senza le barricate, senza feriti, senza granate; se avete preso per buone le verità della televisione anche se allora vi siete assolti siete lo stesso coinvolti … 1968 DA CANZONE DI MAGGIO Primavera non bussa lei entra sicura come il fumo lei penetra in ogni fessura … 1971 DA UN CHIMICO Gli arcobaleni d’altri mondi hanno colori che non so. Lungo i ruscelli d’altri mondi nascono fiori che non ho. 1968 DA PRIMO INTERMEZZO
Ma tu che vai, ma tu rimani vedrai la neve se ne andrà domani rifioriranno le gioie passate col vento caldo di un’altra estate … La terra stanca sotto la neve dorme il silenzio di un sonno greve l’inverno raccoglie la sua fatica di mille secoli da un’alba antica. Ma tu che stai, perché rimani? un altro inverno tornerà domani … 1968 DA INVERNO
Agnese e Giampaolo
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tmienja u sebgħin | disgħa u sebgħin
Paura e speranza si intrecciano nella vita, difficile definirne i contorni
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Federica Adami Io ho paura: forse è ciò che pensavano fin dall’antichità gli uomini… La paura è infatti un istinto arcaico, legato alla sopravvivenza della specie umana. I centri che controllano l’istinto della paura sono nel cosiddetto cervello rettiliano, il più antico nella filogenesi umana. La paura è strettamente collegata ai due istinti primari attacco-fuga; nelle foreste dei cacciatori, infatti, il pericolo poteva arrivare da qualsiasi parte, in qualsiasi momento e sotto qualsiasi forma, quindi la paura costitu i v a u n o st ato f u n z i o n a l e n el l a sopravvivenza della propria specie. Il termine greco antico utilizzato per designare la paura (phobos) è tutt’ora da noi utilizzato per fare riferimento a delle paure patologiche, le cosiddette fobie. Per gli antichi greci infatti Phobos era figlio di Ares, quindi la paura è figlia della guerra… Paola Toniolo
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Dario Enrica Francesca Marika Maristella Matteo Martina Patrizia Paola M. Paola S. Riccardo Simon
EUROLOGOS MILANO supporta e diffonde il Xmas Project 2009
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CAPRICORN SRL supporta e diffonde il Xmas Project 2009
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L’essenza di un Fagiolo
Dedica alla Vita
Una scatola di fagioli guarda il mondo dal suo scaffale. Ermetica. Come tutte le scatole, esiste per se stessa, non per quello che contiene, anche se ogni tanto tende a dimenticarlo.
Ho 48 anni, e le mie paure cominciano adesso. La mia giovinezza è stata bella, spensierata, finché la vita ha deciso di causarmi una grande tristezza. Da questo momento sono trascorsi altri anni, altri tempi. Oggi ho una grande speranza, mi sono fatta forza e coraggio, ho fretta di fare, voglia di dare. La mia paura ora è non avere il tempo di potercela fare.
Una scatola di fagioli piange, ride, sente, comunica più intensamente delle altre scatole: il dono della lentezza le permette di osservare per la prima volta i colori di tutti gli altri universi possibili.
Cyndra Velásquez
Una scatola di fagioli spera che ognuno dei suoi fagioli possa un giorno camminare libero nel mondo. Quando sai di essere una scatola di fagioli, improvvisamente comprendi il significato della parola: Osmosi. (Quesito: quanti tipi di fagioli potrà contenere una scatola di fagioli?) Francesca Nicoli
I vividi occhi neri mi guardano attenti, nel minuto viso di bambina. Hanno alle spalle storie di fughe e di paura hanno lampi di smarrimenti e di incertezza. Hanno visto avvenimenti difficili a capirsi, hanno atteso per lunghi giorni lenti a trascorrere. Ora hanno sete di cieli sereni, hanno fame di certezze che non muoiono. Signore, ripetici ancora: “Lasciate che i fanciulli vengano a me!”. A te, tutti i bambini del mondo, tutti i bambini che hanno alle spalle storie di fughe e di paura. Rosanna Travaglino
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Spirale Si può scegliere di vivere come un cerchio chiuso, Un cerchio che chiude l’uomo su se stesso, Dal primo grido all’ultimo respiro, Prigioniero delle sue mille paure. Un ciclo di vita sterile, inutile, Per se stesso e per gli altri.
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Un ciclo di morte. Si può scegliere di farsi coraggio, Malgrado le avversità, malgrado le indifferenze, Malgrado gli egoismi, malgrado le differenze. Perché il cerchio chiuso diventi una spirale. Una linea magica che sale, scende, oltrepassa Il punto di chiusura del cerchio Per allargarsi, risalire, scendere di nuovo… In un movimento di apertura senza fine.
Nel suo cammino, più si allarga, più incontra Altre spirali. Ognuna diversa. Per colore, per credo religioso o politico, Per lingua e cultura, per vissuto… Con alcune si unirà, con altre si scontrerà Ma a tutte si aprirà per dare e ricevere In una vorticosa farandola di vita. Nathalie Lastella
Sono nata un po’ paurosa
Francesca Colciaghi
«Down beneath the swoosh of the turbines, the long grass blows in ripples There’s a beautiful spiral of roads that leads the lost up here I was watching the birds taking off to swoop down over the city They find and take just what they need and turn, turn, turn The movers move, the shakers shake, the winners write their history But from high on the high hills it all looks like nothing (...) The movers move, the shakers shake, the winners rewrite their history But from high on the high hills it all looks like nothing
Io ho avuto paura A otto anni non hai paura. L’innocenza è la soglia della paura. Se hai una famiglia che ti pensa e che pensa per te. Se ti portano via e non sai perché, ancora non hai paura. La paura è presa coscienza, ti raccontano il perché ti hanno portato via, a otto anni non capisci, capisci solo che la tua famiglia non c’è. E che non ci sarà. E da solo hai paura a otto anni. Anche a trent’anni. La speranza è la certezza dell’amore, l’amore della tua famiglia che ti riporterà a casa. Gli Agrati
All these things you fear so much depend on angles of vision From down in the maze of walls you can’t see what’s coming But from high on the high hills it all looks like nothing But from high on the high hills it all looks like nothing, nothing.» "HIGH", NEW MODEL ARMY, 2007
Alexandra Rauter
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Grazie Rena, sei il mio appiglio tutti i giorni, quando mi sembra di non farcela, quando mi lasci libera di scegliere, quando mi dici di fare spallucce e guardare avanti, quando incontro lo sguardo dei nostri bimbi e lavoro e fatico tanto sperando che facciano proprio il senso dell’impegno. Da sola non ce la potrei fare.
tnejn u tmenin | tlieta u tmenin
Pare che io abbia gattonato a lungo (quattro appoggi, meglio di due!), fino a quando la curiosità non ha vinto e a quel punto mi sono dovuta alzare in piedi… senza mai cadere ovviamente. Non mi dispiace poi tanto la mia “paura”. Ha significato contenimento, autodisciplina, tutela per tanto tempo. Poi l’incontro che mi ha cambiato la vita: un ragazzo, il mio uomo. Per lui il bicchiere mezzo pieno, per me – quasi sempre – mezzo vuoto.
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Paura del dentista, quella sì e tanta. Io non ho paura mi ripetevo sempre quando a sette anni, con la manina stretta in quella della mia mamma entravo nello studio dentistico. Quell’odore di disinfettante, le prime otturazioni senza anestesie perché denti da latte non ne avevo già più a quell’età e dolci e scarsa igiene orale avevano ben fatto la loro parte. Ancora oggi, quando mi siedo su quella poltrona inspiegabilmente sudo freddo. Così ho pensato di porre un rimedio. Meglio tardi che mai mi sono detta! Mi sono comprata una clessidra per obbligarmi a misurare il tempo dedicato allo spazzolino con la speranza che ciò possa servire per il futuro. Eppure, a pensarci bene, invidio un po’ quella paura; era tangibile, aveva una sua ragione di essere, soprattutto aveva una fine. Oggi le mie paure sono fantasmi; spesso diventano alibi. Spero di non dovermi svegliare una mattina e accorgermi che da anni sto guardando il futuro solo attraverso gli occhi di mia figlia perché l’unico modo per ottenere un futuro migliore per gli altri è cominciare a cercare il meglio per noi stessi. Cristina Poletti
Fino a dentro le ossa Non va mai via Amore. Calore umido bagna le ascelle. Deflagrante rosso colora la culla dei sorrisi e dei pianti. Peli danzano ritti i suoni di battiti profondi. Rabbia. Soffio secco d’aria da narici divaricate, urlanti. Cumulo grigio di rancorosi focolai fuoriesce dai pori della pelle tesa e si dissolve in nuvole ad una spanna dall’epidermide. Paura. Non esce mai, resta infilzata dentro, tra la carne. Abita le ossa, in profondità. Immobile, sorda e sola. Non va mai via, come l’umido che penetra il corpo. Quando esplode, fugge dai campi materni, da voce all’istinto di sopravvivenza. E un po’ di speranza dà sollievo alle ossa. Saudade. Gola secca, bagnata da saliva, amore amaro sale dalle viscere al cavo orale. L’orizzonte distante trema negli occhi colmi d’assenza. Quando il mondo darà una terra alle nostre radici? Fabio Russo
Cerco un approdo... per ancorare le mie paure, scruto l’orizzonte addormentando inquietudini e tormenti. E incontro Te che sei la pace, Signore della vita che ricapitoli l’ordito dei miei giorni. Con il tuo soffio fai aleggiare il tempo, ciò che è stato, l’oggi, il domani, la storia degli attimi e dell’eternità. Nel tuo libro vuoi scolpire il mio nome fissando il mio futuro nel destino dei giusti. Aiutami a vegliare come sentinella che avvista fioriture inattese. Fammi sperare e scoprire risvegli insperati accesi dal tuo Spirito per intenerire le arsure della mia vita e della storia. Antonio Panizza
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tesori più preziosi che il Cielo potesse donarti. La tua vita ti passa davanti come un film in bianco e nero e ti ritrovi con le paura di perdere tutti i tuoi affetti più cari. Ma la speranza di una vita migliore fa breccia dentro di te che sogni di
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vivere per sempre e cominci a combattere, cominci a sperare, cominci a costruire le basi per un futuro da vivere serenamente. Senti le voci dei topolini che nell’altra stanza si svegliano, guardi negli occhi il tuo Amore, gli accarezzi dolcemente il viso, gli doni un sor-
riso complice e sereno e affidi ad un silenzio senza tempo l’eterna promessa del tuo cuore: difendere l’Amore della tua eternità a costo della vita. Solo chi ha perso tutto non ha paura di niente... Bruno Quaini
erbgħa u tmenin | ħamsa u tmenin
Un mattino apri gli occhi e ti rendi conto che nella tua vita tutto potrebbe cambiare da un momento all’altro... Ti guardi intorno e miracolosamente ti rendi conto che nulla è scontato... tutte le certezze che hai avuto nella tua vita potrebbero svanire all’improvviso, che anche la più piccola cosa, il più insignificante gesto è uno dei
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Uno sguardo inconfondibile, una frase devastante e quel vuoto che tante, troppe volte mi ha divorato l’anima: la mia più grande paura è perdere, ancora una volta, le persone che più amo, senza possibilità di ritorno, senza scampo. Luci e ombre di una vita che tengo stretta a me, nel vortice di una speranza che tutto riaccende pur nel buio più profondo. Marika Cenerini
In questi ultimi anni ho conosciuto la paura di sbagliare. La paura di non essere all’altezza del ruolo di madre. Il timore di dover decidere per qualcun altro, sbagliando. In questi ultimi anni ho conosciuto la paura e la tristezza di giovani donne che hanno affrontato viaggi infiniti e abbandonato i loro figli per accudire i nostri. Spero in un mondo migliore per noi donne… Simona Dinetta
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Beatrice e Jacopo Penzo
Ogni volta che sento le notizie di questi “viaggi della speranza” che finiscono in modo tragico, non posso fare a meno di soffermarmi a pensare alle motivazioni per le quali queste persone decidono di lasciare TUTTO per l’ignoto; perché scelgono di investire una somma incredibile di denaro per il NULLA, solo ed esclusivamente nella SPERANZA di una vita migliore... ben sapendo che tanti che li hanno preceduti non hanno mai più fatto ritorno, che quella SPERANZA si è inabissata nel mare! La conclusione a cui giungo è che noi non possiamo e non potremo mai capire: le nostre paure sono legate comunque a speranze molto più tangibili, molto più semplici... permettetemi anche un “molto più stupide”... ci preoccupiamo che non capiti mai nulla di brutto a noi e alle nostre famiglie... ma che cos’è il “brutto” nel nostro bel mondo civile??? Il dentista?? Rompersi una gamba?? Che cosa “speriamo”? Sempre che tutto vada bene, di non perdere il lavoro, che la malattia non ci colpisca.... Ognuno guarda il proprio ambito, questo è vero: noi siamo in un altro contesto, in un’altra realtà... ma quanto
ci impegniamo a capire cosa spinge queste persone a compiere questi gesti, nella totale indifferenza delle conseguenze??? Persone che lasciano situazioni di conflitto, di estrema povertà solo ed esclusivamente con la speranza di superare chilometri di mare, di non annegare e di toccare terra, per cosa? Per una nuova situazione di incertezza! E il giudizio della società nei loro confronti è comunque sempre negativo: non riusciamo a capire che anche se clandestini, anche se costretti alla povertà e ad un inevitabile sfruttamento, forse la situazione che troveranno qui sarà migliore di ciò che hanno lasciato. Quando ho letto il tema del libro di quest’anno, mi è subito venuta in mente la canzone “Hey Mà” di Gino Paoli... soprattutto il ritornello: «Sarà è vero, che il colore è solo luce E la luce è la speranza E che siamo noi la speranza Camminando noi verso il sole, dentro al sole che salirà».
... forse è proprio così: per tutte queste persone, solo il fatto di vedere di nuovo sorgere il sole, è la speranza più grande: vuole dire che sono vive!!! Perché non sentiamo il bisogno di far sorgere per loro questo sole? Perché non impegnarci tutti a farlo salire e splendere?? Federica (con MassiMatiGioia)
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23-11-2009
Patrizia Sevieri 86|87
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Veronica Capellup o e Veron ica D’An gelo
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Pastigliette di Xamamina (monologo semiserio sulle rotte dei mari) Ma chi me lo ha fatto fare? Ma chi mi ha convinto a salire? Ma chi mi ha detto che in barca non si sta male? Che dopo un po’ ci si abitua! Che il mare non si sente su una barca grossa? Smettetela con i luoghi comuni. Piccola o grande che sia la barca è una cosa seria. Mica si scherza. Ognuno deve fare del proprio meglio e deve mettercela tutta. E infatti io ce l’ho messa tutta… per non vomitare. Salito a bordo ero già a disagio. Un po’ come quando si è invitati ad una festa, ma non conosci nessuno e inizi a guardare le piante dentro i vasi e a leggere i titoli dei libri messi di traverso sui ripiani dei mobili. Lo spazio era stretto e non sapevo dove mettermi. Davanti (a prua) tirava un’aria che ti spettinava le sopraciglia. Dietro (a poppa) semplicemente si ballava. Si danzava senza musica, al ritmo del vento, delle onde e del mare. Di note non se ne sentivano, ma cantavano tutti facendo degli “oh oh” lunghissimi. Chi mi diceva “attento al beccheggio”, chi mi spiegava dove stare e io ballavo senza sapere cosa dire, come un pupo siciliano mi sentivo tirare un braccio di qua una gamba di là tradito anche dalla suola antiscivolo delle mie Timberland. Per non capitolare mi son messo a camminare in quel corridoio stretto che è separato dal mare da una sottile linea metallica, un cavo capace di lasciarti dei
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segni sui polpacci neanche fosse un filo spinato. Con passo svelto poggiando un piede davanti all’altro mi sono lanciato su un parabordo afferrandolo come se fosse il sacco del pugilato. Arrivato “davanti” pensavo di avercela fatta: avevo tutto il mare a disposizione e lo potevo inondare con quel maremoto stomachevole che mi tramortiva. Non ho fatto in tempo a pensarlo che il vento mi stava ributtando in faccia come un boomerang tutto quello che stavo per regalare alle onde. Non mi sono perso d’animo. Ho guardato i miei braccialetti comprati in farmacia insieme alle gomme da masticare e ho pensato alle pastigliette di Xamamina che avevo preso per paura e che mi causavano una leggera sonnolenza. Sono previdente, pensai, ma non riuscivo a compiacermene, tenevo duro a bocca chiusa. Ripetevo tra me e me che la speranza è l’ultima a morire, tanto per usare un proverbio e non pensare a rimettere, e subito me ne venne in mente un altro, ossia che la paura fa novanta. Esattamente 90 secondi dopo vomitavo l’anima e tutto il resto; paure e speranze comprese. A farmi compagnia insieme a una fetta di limone tra i denti comunque il ricordo di una bella gita in barca. Anche chi fugge in mezzo al mare o al deserto, a maggior ragione, ha le proprie paure e le proprie speranze. Piccole o grandi che siano vanno rispettate. E accolte. Sempre! Dario Bertolesi
Durante il mio pellegrinare nel viaggio della vita, la cosa che ancora non ho potuto superare è la paura di voler e poter migliorare che – per quanto importante e necessario – costa troppa fatica. Mi affido, quindi, non al fato, ma alla speranza di potercela fare. Piero Fiorini
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23-11-2009
Io ho paura...
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Ho paura di non fare/ dire/esemplificare sempre il Meglio e il Giusto per Ettore, ma esiste? E poi non posso esimermi. Ho paura di rimanere solo e di non essere adeguato perché lo so che lei ne sarebbe capace, ma m’impunto-discuto-capzio-preciso e soprattutto sbaglio lo stesso, è più forte di me. Ho una paura fottuta della morte: quella che lentamente e inesorabilmente modifica il mondo che mi circonda e che mi aveva accolto, quella che elimina i punti di riferimento sociali e, maledetta, anche familiari. Quella che prima o poi mi starà sempre più vicina fino a
che, boh, chi lo sa. Tutto sommato credo di aver paura di ciò che hanno paura un po’ tutti. Delle cose che fanno parte della vita e con le quali si impara a convivere. Ma NON è così. Perchè io non ho paura della guerra, della malaria, delle pulizie etniche, della fame e della sete, degli stupri, delle bombe, di non avere un futuro, dell’ignoto, del mare, delle onde, di non arrivare, di non sapere, di sperare, di trovare un muro che respinge le mie speranze e mi riporta indietro alle mie paure... Maurizio D’Adda
tmienja u tmenin | disgħa u tmenin
...di tuffarmi, anche se poi mi piacciono quegli attimi nel vuoto e l’impatto con l’acqua fresca. Ho paura delle montagne russe, anche se quella volta a Gardaland ho poi riso per mezz’ora. Ho ancora un po’ di paura del buio, dei boschi di notte, degli insetti e dei film horror. Tutte cose che, senza dar troppo nell’occhio, quando posso evito. Ho paura quando gli altri crossano, entrano in area, tirano: di solito faccio bene ad averne, ma diciamo anche che c’ho fatto il callo.
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letto Nicola Mo
C’è un momento... ...preciso, durante il quale la paura quotidiana, subdola e strisciante, con la quale hai ormai imparato tuo malgrado a convivere, ma che allo stesso tempo è il motivo per cui hai deciso di scappare, lascia spazio alla paura che strozza la gola, taglia le gambe, il fiato e ti fa sudar freddo, come non vorresti mai augurare a nessuno. È anche il primo momento in cui ti volti e guardi indietro. Non pensavi sarebbe arrivato così presto e comunque non lo farai più per molto tempo. Stai scappando. È l’unica cosa che puoi fare. Non ti volti, perché non si può. All’inizio non ne provi, di paura. Ogni cellula del tuo corpo ti dice che hai paura, ti chiede conto di quel che stai facendo, ma tu non fai in tempo a pensarlo, non riesci a dirlo. Il viaggio si fa su subito impegnativo, faticoso e poi arrivi lì, sulla spiaggia, al buio. Di notte, il mare fa paura, anche se ci vai in vacanza. Alla luce appare così grande che ti fa sentire niente e quando guardi là, in fondo, dietro la linea, non riesci bene a spiegare neanche a un bambino, che te lo chiede curioso, cosa c’è, là in fondo. Allora ti volti e pensi, per un momento, che forse è il caso di tornare indietro. Una volta, nella vita, almeno una, ci sarete andati per mare, su una barca. Non si dice una parola. Fa troppo freddo, sono tutti stanchi. Molti già deboli. Non ti riesci neanche a muovere. E tutti hanno troppa paura. Hanno paura di salire e di non scendere più. Hanno paura di
perdersi, di essere rimandati indietro, di essere buttati a mare, di ammalarsi. Di non rivedere più le persone che hanno lasciato. Di salire. E di non scendere più. Perseguitati, torturati, discriminati per colore della pelle, idee politiche, fede religiosa, orientamenti sessuali, appartenenza a gruppi etnici. O semplicemente disperati. Disperati in cerca di altro, per se stessi e per i figli. Avete dei figli voi? E un po’ di amore per voi stessi, lo avete? Chi riesce, rimane sospeso tutto il tempo. In una bolla di sapone che la mente crea per scacciare la paura, perché non puoi essere lì, veramente. Quando arrivi la pellaccia è tutta intera e la bolla di sapone, te la mettono addosso. Dalla testa ai piedi. Per mesi non sei niente, meno di quel poco che già eri. Un pensiero per chi hai lasciato, un compagno per altri, come te. Tutto va avanti senza di te. Fino a quando di notte, di nuovo, aprono la porta e ti fanno uscire. E comincia un altro viaggio. Della speranza. E poi li incontri tutti. Ad alcuni fa paura, la tua speranza. C’è chi non ce l’ha più, da un pezzo, nemmeno per se stesso. Ad altri interessano solo le braccia. Ma qualcuno trova frutto e torna possibile voltarsi e guardare indietro. Allora non sei più solo scappato dalla paura. E si può cominciare a sperare. Alberto Cometto
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23-11-2009
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Non me lo immagino nemmeno Una volta sola, sul volo TWA per la Grande Mela, al decollo, per gioco, ho provato ad immaginare di star lasciando tutto. Solo un momento, tempo di un decollo. Pensavo a mio padre, che mi raccontava di una partenza con in valigia un uovo in plastica per rammendare i calzini. E per lui si trattava già di “partenza agevolata”. Niente a che vedere con le nostre “partenze intelligenti” ferragostane. Non me lo immagino nemmeno. Cosa significhi aver paura. Esistenza facilitata a scorrimento prevedibile. Ed è probabilmente di quest’assenza di paura che dovrei aver più timore. Di pari passo, poche speranze. Come già scrisse e cantò qualcuno: «... due miserie in un corpo solo…». Time will tell. Claudio Elie
Credo che in fondo la paura più grande di tutte sia quella di guardare dentro noi stessi... ... e di trovare qualcosa di diverso da quello che ci aspettiamo, da quello che ci siamo sempre raccontati e abbiamo raccontato all’esterno… qualcosa da affrontare perché a volte non riesce a restare chiuso dentro, ma si affaccia all’esterno, facendoci spaventare oppure causandoci dei danni. Qui entra in gioco il coraggio, il coraggio di dire a se stessi che non si è esattamente come ci si è sempre adattati a credere, il coraggio di raccontare a se stessi quello che di noi non ci piace e che vogliamo cambiare, coraggio che va trovato per poter continuare a credere in se stessi. A volte il cambiamento esterno aiuta questo processo, ma la cosa che davvero ci consente di superare queste paure a effrontarle è il loro riconoscimento e la loro condivisione con la persone che hanno affinità con noi. Credo sia questa in fondo la spinta interiore che trovano le persone che, nei più sperduti angoli del mondo, sono costrette da situazioni ambientali e sociali insostenibili a cambiare paese e quindi vita, perdendo tutti i riferimenti, e che nonostante questo riescono a non far spengere la propria volontà di vivere e proseguire nella loro strada. Michele Panichi
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disgħin | wieħed u disgħin
Nel sonno la mente migra, consapevole, verso i lidi dell’infanzia. Patria, nazione, casa, poltrona, Via! Di notte tutto sfuma e lo spirito sottile s’arma di stivali e s’incammina verso il bello, Atlantide e Lemuria. Si sfibra il cavo che lega il cuore a santi e fatti, l’anima si libera dalla carne tremolante e s’invola nell’ignoto. Si passa, niente dazi o muri o sbarre. Al culmine del viaggio, ogni mattina, lungo l’orizzonte che monta la frontiera, uno scampolo di fuoco annuncia il giorno. Risveglio. Ritorno. Materia. Ancora, cemento, lavoro, paura. Patria, nazione, casa, poltrona. Gabriele Dozzini
SPEED TRANSPORT S.I. SRL supporta e diffonde il Xmas Project 2009
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Ecco tutto quello che di più caro c’è nella mia vita... la paura di poterlo perdere, la speranza che si possa restare sempre uniti!
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Nell’aria sento la paura del domani, poi vi guardo e la speranza diventa realtà. Paolo Pagani
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Avventura dopo avventura... noi due insieme... per superare con coraggio le paure e gli ostacoli che incontreremo sulla nostra strada.
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Con amore, fof
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Ăˆ grazie a voi che vivo senza la paura di non avere speranze, ma con la speranza di non avere paure. Vi amo, Marty
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Paura dell’uomo nero La paura è un sentimento davvero comune. Accompagna la vita di ognuno di noi. A volte si prova pure piacere nel vivere la paura, se siamo davanti ad uno schermo o sopra alla carrozza di un ottovolante. La paura è vita, dà emozioni. Un istante di paura è sentire con intensità. La paura però è anche quella che paralizza. Che ti impedisce di muoverti se stai sognando, che ti porta a cambiare strada per non incrociare chi non vuoi. La paura è quella che ti fa rimanere fermo, sulle tue posizioni. Quella che ti impedisce di cambiare, di ascoltare, quella che ti porta a difenderti. A mostrarti forte perché sei debole, a mostrarti d’accordo anche se sei contrario, ad aspettare invece che avanzare. In alcune persone la paura porta a nascondersi. Ma in altre diviene la forza per diventare qualcun altro. Nella vita privilegiata di chi ha una casa, un lavoro, una famiglia, un affetto o, anche più semplicemente, la sicurezza di mangiare ogni giorno, più volte al giorno e la ragionevole certezza di non essere in pericolo di vita, la paura è il più delle volte una nostra creatura. È “paura di secondo grado”. Viene dalle nostre debolezze di esseri umani. Profondo rispetto anche per questa paura, ma se la confronto per un attimo alla paura di morire, di fame, di guerra, di persecuzione, di carcere o di omicidio, imparo per qualche istante a ridimensionare me stesso. La mia paura esistenziale diviene poco o nulla di fronte a quella primordiale di chi vive in un inferno. Quando si incontra un migrante, siamo abituati a vedere prima di tutto la sua pelle, il suo modo di vestire, sentire il suo accento. È quasi inevitabile. E gli diamo del tu, anche se non lo conosciamo. Prevale la nostra paura del diverso e i nostri dubbi su come fa a mantenersi, su che pericolo rappresenta per noi. Qualcuno pensa “che si cerchi un lavoro”. Qualcuno si chiede “cosa è venuto a fare in Italia, se è qui per elemosinare”. Qualcuno pensa che “ho appena dato la mia quota di paradiso all’uomo nero di qualche minuto fa e ce ne sono troppi”. Non ho la risposta politica al problema (anzi un po’ ce l’ho) ma prima di tutto, prima di tutti i miei pensieri, vorrei imparare ogni volta che vedo un immigrato a chiedermi “perché?”. “Perché è venuto in Italia?”. La domanda mi porta ad immaginarmi l’uomo, prima del problema. Ha scelto di emigrare perché era insoddisfatto del suo stipendio e perché voleva permettersi un altro paio di scarpe o voleva cambiare cellulare. Anche la sua tv, ad un certo punto, come a me, gli è sembrata troppo piccola. Forse no. Forse questo è vero per chi ha raggiunto l’Italia in treno o in aereo. Certo non il motivo di chi ha rischiato la vita su di un barcone. Perché questa è la sostanza del tema.
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Di fronte ai mille messaggi dei media che mettono tutto e tutti sullo stesso piano, si perde molto spesso la sostanza dei problemi. Chi prende un barcone non cerca l’avventura. Scappa. Supera la paura per un filo di speranza che gli fa credere che abbandonare tutto, famiglia, amici, casa, figli, genitori, potrà essere il modo migliore per continuare a sopravvivere. O, per dirla in altro modo, per continuare a respirare. Ora provo ad immedesimarmi. E mi immagino il coraggio che ci vuole per scegliere la follia del viaggio, aggrappato all’auspicio del tempo sereno, della resistenza fisica alla fame e alla sete, dell’accoglienza di un lembo di terraferma. Davvero troppo per il coraggio che potrei avere io. E davvero troppo per decidere di chiudere le porte all’accoglienza in modo indiscriminato, con la fretta di mostrare la propria ipocrita coerenza elettorale e la consapevolezza di violare i principi minimi dell’essere uomo. Il barcone non è l’immagine della delinquenza, della violenza, della barbarie. Il barcone è l’infernale crociera della speranza. Dobbiamo sapere riconoscere le differenze. Nel mondo del relativismo assoluto mi piacerebbe poter credere che, grazie a questo libro e a quelli che verranno dopo, torni a risplendere uno dei pochi valori laici e universali che accomuna tutti noi: l’umanità. Umanità di pensiero, umanità di sostanza. Se oggi la sensazione di paura comincia a colpire anche noi, fieri sostenitori del mondo civilizzato, possiamo forse iniziare a capire come la civiltà che soffre è un problema anche nostro. Che l’uomo non è più espressione di una bandiera ma di un intero pianeta, che lo vogliamo o no. Prima lo capiremo, prima impareremo a costruire una buona convivenza. E ancor prima cominceremo a risalire la curva della decadenza che ha colpito l’uomo moderno, investito da un crollo camuffato da crisi economica e finanziaria, per nascondere la ben più preoccupante crisi culturale. L’uomo non può che piangere e avere paura di guardarsi allo specchio. Roby Bernocchi, www.bebetterworld.com
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Tremo
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Riccardo Brioschi
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Ha inizio la mia battaglia interiore. Pauradinonfarcela, Amorproprio: è un duello e ciascuno dei contendenti aspira a prevalere sull’altro. Non posso mollare, ma muoio di paura. Frustrazione... smarrimento, ma la meta non è irraggiungibile... Ed all’improvviso la luce... Finalmente ce l’ho fatta... per pochi gloriosi istanti un’adrenalinica sensazione di fierezza pervade il mio spirito. Pace. Riflessione. Saggezza. Non credevo che mettersi in gioco con le proprie paure potesse modellare tanto un’anima.
La speranza in un mondo meno impaurito. La paura di perdersi dentro vane speranze. La speranza di imparare a incontrare e superare le paure. La paura che “questi” non se ne vadano più; la speranza che gli “altri” rinsaviscano, anche solo un po’. La paura di perdere, la speranza di perdere bene, almeno. Paura di essere avventato, superficiale, dopo aver imparato la speranza spremuta in ogni attimo (gianni fiorini, grande maestro). La paura di essere inadatto… la speranza che nessuno se ne accorga. La paura del dopo, sperando sia a colori. Paura e speranza di incontrare qualcuno di là che da un po’ non vedo più: e cosa dire? La paura che la speranza ci renda troppo fragili. La paura che questo sia l’ultimo libro, la speranza che poi Ho paura se NON ci penso. ce la si faccia, ancora una volta... La speranza di Se ci penso mi passa. riconoscere che alcune paure servono, fanno crescere. Spero non sia ansia da controllo... La paura di non saper spiegare la speranza. La speranza nel tempo buono, ma se la vita è tempesta, tempesta sarà... Elena Casadei Paura e speranza in sei occhi, anzi otto, che mi guardano tutti i giorni, un’emozione paurosa, tutta la mia speranza. Matteo Fiorini
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Per Coletta Sarà tutto finito quando leggerai queste righe e sono sicura che la paura avrà ormai lasciato il posto alla speranza. Proverai una emozione forte e intensa sentendo battere il tuo cuore. Sì perché, come avviene per tutti noi, questo bizzarro muscolo che ci tiene in vita nemmeno ci accorgiamo di averlo; pensare che lavora come un forsennato senza fermarsi mai. E sorrideremo insieme pensando alle dosi massicce di tranquillanti assorbite in queste settimane e a tutte le volte in cui ti sarai ripetuta davanti allo specchio “io non ho paura”, non sapendo tu per prima se crederci o meno. Prenditi il tuo tempo, lascia che siano gli altri a correre un po’ per te. Io ti aspetto a casa. Cristina Poletti Lara Bellardita e Dario Piletti
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Power Rangers L’ultima volta che parlai con Claudio era il 29 Maggio 2007, eravamo nella valle di Pagman a 15 km da Kabul e a 5.238 Km da casa, Milano. Eravamo di guardia al campo base da 427 giorni e 9 ore circa. In guerra non esiste il “cambio della guardia”. Certo, stacchi ogni tanto dalla garitta, ma sei sempre vigile. Dopo aver deglutito con soddisfazione l’ultimo sorso del primo caffè della mattina, Claudio esordì: Tu hai paura? Beh no. O meglio non ci penso. Tanto può capitare qui come sulle strisce pedonali. Statisticamente è più facile lasciarci la pelle a Milano che qui. Sì, ma non intendevo necessariamente “di morire”. Voglio sapere se tu hai paura di essere cambiato, di tornare e di sentirti a disagio o di non riconoscerti più in quel mondo. Ma no. Che cazzo stai dicendo? Io non vedo l’ora di tornare. Anzi la vedo bene, mancano 44 giorni, caro. E so esattamente cosa farò appena arrivato. Innanzi tutto chiedo a Francesca di sposarmi e poi, con i soldi della Missione, mi compro l’Audi A3. Questa notte ho pensato a quello che diceva l’altro giorno il Sergente Wheeler e credo che abbia ragione lui. L’Americano? Ma se era ubriaco e farfugliava!? Ma va va. Perché tu non lo ascoltavi, ma diceva delle cose intelligenti. Non mi ricordo bene, ma mi sembravano dei discorsi senza senso. E invece era lucido, anzi tremendamente lucido. Secondo lui originariamente, insomma una volta, il potere di decidere della propria vita era equamente distribuito tra tutti gli uomini. Cioè apparteneva al singolo individuo. Poi qualcuno ha creato dei nemici mediatici immaginari e, improvvisamente, ogni persona si è sentita vulnerabile e minacciata. Quindi ha consegnato nelle mani di altri il proprio “potere decisionale”. Cioè ha delegato ad altri la responsabilità di prendere delle decisioni che lo coinvolgono. Di fare una guerra, di fare un vaccino, di vietare un comportamento... Ma sei fuori tu adesso? Ieri lui oggi tu? Cos’è “il telefono senza fili”? Domani sarà il mio turno di dire cazzate? Ma va pirla!... In pratica lui diceva che qualcuno attraverso la veicolazione mediatica di paure collettive, tipo pandemie, atti di terrorismo, la paura verso gli immigrati, i drogati o altre cose di questo tipo, sono sufficienti a vanificare ogni tentativo di resistenza verso chi prende le scelte per nostro conto.
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Attraverso i media manipolano le nostre emozioni, le nostre paure e controllano i nostri desideri. Mi segui? Oeh! Dai, sul serio. Ma di venire qui l’hai deciso tu. Di farti il culo quest’anno e mezzo per comprarti l’appartamento in Maggiolina, l’hai scelto tu. O te lo ha imposto il Grande Fratello? Non ne sono più così convinto e comincio a credere anch’io che ci vogliono impauriti per controllarci meglio. Ora me la scrivo! E chi pensi che siano questi stronzi? I Power Rangers? Ah Ah! Che ridere… Dai che faceva ridere… Beh, comunque volevo dire che riesco a seguire l’idea di Wheeler che la paura ce la incutono volontariamente, però qua siamo in guerra cazzo! Quelli sparano sul serio, si fanno saltare, io ho PAURA ogni maledetto secondo! Non dormo da sette notti cazzo. Siamo in MISSIONE DI PACE, Claudio. Come? Ho detto che siamo in MISSIONE DI PACE e non “in guerra”. L’hai sentito il Capitano, no? Ma che cazzo vuol dire “MISSIONE DI PACE” Albi? Missione di pace con gli AR 70/90 (n.d.r.: fucile d’assalto) in braccio? È come dire di essere vegetariani mangiando una bistecca da 1 kilo. Eh? Appunto, non vuol dire un cazzo, è quello che intendevo. Il Linguaggio è la grande “magia” con cui ci vogliono fregare. Ma chi? Ma cosa cazzo stai dicendo ancora? Sono stanco, lasciami in pace. Lo vedi? L’hai fatto ancora! Cosa? Hai detto ancora “pace”. Embeh?! Cazzo, siamo in guerra. G U E R R A!!! Nulla è più lontano dall’essere “pacifico” che essere qui, adesso, in questo Paese, in una cazzo di caserma, in mimetica, abbracciati ad un fucile a difendere dei pozzi di petrolio. E questi quattro poveracci di Afghani non ne vedranno neanche un soldo. Cosa siamo venuti qui a fare...? Per i soldi nostri e della società petrolifera. Va bene questa risposta? La chiudiamo qui? Tu Albi fai sempre così. Ogni volta che non si parla di figa o di calcio ti annoi e vuoi chiudere la discussione, ma non possiamo sempre parlare di cazzate... Chiamale “cazzate”... 7 Coppe Campioni... “la squadra più titolata al mondo”... Lo vedi?! Io volevo solo dire che possiamo anche cercare di farci delle domande, cercare di capire... E poi sono stanco di stare qui e non mi interessano più i soldi. Mi mancano i miei amici, voglio tornare a casa.
M ar gh e
rita Verri
WROOOOMM!! Cazzo questo è bello lanciato! BOOOOOM!!! Claudio non lo vedo più da quel giorno. Siamo rimasti entrambi feriti dall’esplosione e siamo stati ricoverati in ospedali diversi, prima di essere rimpatriati. Io, lievemente ferito, dopo pochi giorni, lui è stato più a lungo a causa di una scheggia che gli ha compromesso un rene. Ora, dopo 7 mesi, finalmente lo sto per riabbracciare. In questo periodo ho pensato intensamente a quella nostra ultima chiacchierata e forse ho capito cosa voleva dire quel giorno. La Paura ci rende vulnerabili verso chiunque e qualunque cosa. Bisogna resisterle e combatterla per essere liberi. Ogni giorno, da allora, provo a essere libero. Alberto Ferri
sitta u disgħin | sebgħa u disgħin
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«Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato, in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero, o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là.
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Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere, sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, sul quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita». “FAHRENHEIT 451”, RAY BRADBURY
Massimo Mascheroni
"Fear is a natural reaction to moving closet to the truth. Fear is a universal experience. Even the smallest insect feels it. We wade in the tidal pools and put our finger near the soft pen bodies of sea anemones and they close up. Everything spontaneously does that. It is not a terrible thing that we feel fear when faced with the unknown. It is part of being alive, something we all share. We react against the possibility of loneliness, of death, of not having anything to hold on to. Fear is a natural reaction of getting closer to the truth. If we commit ourselves to staying right where we are, then our experience become very vivid. Things become very clear when there is nowhere to escape. Anyone who stands on the edge of he unknown, fully in the present without reference point, experiences groundlessness. That is when our understanding goes deeper, when we find that the present moment is a pretty vulnerable place and that this can be completely unnerving and completely tender at the same time. (…) What we are talking about is getting to know fear, becoming familiar with fear, looking it right in the eye – not as a way to solve problems, but as a complete undoing of old ways of seeing, hearing, smelling, tasting and thinking." CHÖDRÖN, P., WHEN THINGS FALL APART, HARPERS COLLING PUBLISHER, LONDON, 1997
Silvia Marchetto
Vediamo: quali sono le mie paure? Beh, se anche una donna coraggiosa e forte come Oriana Fallaci scrive in suo libro di sentirsi “chiusa
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a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri”, io, donna piccola e fragile, non posso non avere paure. Va bene. Escludiamo allora quelle universali, che non è umano non avere, come la paura della guerra, della malattia, della fame, della natura che si ribella all’uomo...
che paure rimangono? Che timori solo “miei” provo? Ho forse paura di essere tradita da un amico?
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No, direi di no: ormai conosco la sensazione e, come dire, ci si fa l’abitudine e... poi chissà forse, inconsapevolmente, ho tradito anch’io. Provo allora paura di essere tradita da quello che sarà il mio compagno? No, non credo: evidentemente avrà trovato di meglio, l’importante è che me lo faccia sapere per tempo cosicché anch’io possa cercare qualcosa di meglio. Non s o... sto p ens ando e più rifletto su ciò che mi spaventa, più mi si stringe lo stomaco ad un pensiero: l’idea che possa non fare felice gli amori della mia vita… la mia famiglia. Ho paura di deludere chi mi riempie di gioia ogni secondo della mia esistenza. Ho paura di non essere fedele a me stessa... io che sono la battaglia contro la quale lotto quotidianamente.
Paura e speranza Ho avuto paura, ne ho tuttora e ne avrò ancora. Paure insignificanti e altre di spessore. Ma da quando conosco la paura ne ho meno paura. Ho vissuto recentemente un’esperienza per la quale tutti mi hanno consigliato di non andare avanti, di fermarmi. “Perché?” chiedevo io “perché soffrirai” rispondevano. Io andavo avanti e soffrivo. Ma poi ripartivo, animato dalla speranza e soprattutto cosciente che non avevo paura di soffrire. La sofferenza sembra che nella nostra cultura sia un fatto inaccettabile. Eppure è un formidabile mezzo di conoscenza. Un altro tabù per la gente è la morte. N o n s e n e p u ò p a r l a re , n o n s i nomina se non in circostanze dettate dalla circostanza. Esiste. Punto. Poco più di dieci anni fa ho perso mia madre. Alcune delle persone che mi conoscevano non riuscivano a capire se la mia reazione fosse quella di
Ho paura di non avere la meglio sui miei infiniti difetti. Ho paura di non riuscire più a godere delle cose che mi entusiasmano: gli animali, il cielo, le nuvole, il vento, la musica, i fiori, i sorrisi e, ho paura di rendermi “buia” e così facendo di provocare dolore ai miei amori. Per questo cerco di essere coraggiosa e quindi di nascondere bene la paura. Per questo non voglio perdere la speranza di continuare a essere come la piccola canna, che si piega alla forza del vento, ma torna dritta quando la tempesta è cessata. Erica Brovelli, Torino
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Mi sono presa un po’ di tempo per riflettere sul tema di quest’anno.
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un ragazzo forte o coraggioso o invece peggio: superficiale. Erano sorpresi nel vedere come la morte della persona più importante non mi avesse apparentemente turbato. Non era così naturalmente. Ma era la forza del presente. E ciò che mi spaventava della morte di mia madre era la perdita del suo presente. Il presente è la cosa più violenta che ci sia. Perché è quella che sta lì. È lì. Lo chiamiamo la vita. La vita con i suoi odori, i suoi malesseri. E non si può cambiare niente, le cose si ripetono. La morte assomiglia a tutte le morti, l’assenza assomiglia a tutte le assenze. Ma è il presente che brucia, scintilla, è un fuoco gigantesco. Ci impedisce di fermarci. La morte, che è la mia più grande paura, è come una cartella che mi casca dalle mani. È abituarsi a viaggiare senza bagaglio. Ci si sente più leggeri ma si capisce che ogni partenza il viaggio si accorcia. Ma c’è un sentimento come la speranza, in qualcosa di indefinito che sembra dare un senso a tutto e muove i fili pur non rinnegando la consapevolezza e l’ineluttabile. E se avessimo tutti meno paura del buio forse avremmo meno bisogno della speranza. Lapo De Carlo
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Per non dimenticare Motonave “Surriento” 19/10/1955 È notte, una notte piena di stelle. Il mare, quasi fosse cosciente della gravità del momento, si è fatto silenzioso e calmo. I marinai, con gesto brevi e misurati, issano la passerella degli ufficiali, l’ultimo tratto di unione con il suolo d’Italia. La nave si stacca, lentamente, dal molo. Un riflettore di bordo percorre a lungo la folla rimasta a terra per permettere agli emigranti di vedere e salutare ancora una volta le persone care, che per tanto tempo, e forse mai più, non rivedranno.
Alla domanda se io sia pessimista o ottimista, rispondo che la mia conoscenza è pessimista, ma la mia volontà e la mia speranza sono ottimiste.
La voce del comandante si leva dagli altoparlanti. Nel ricordare agli emigranti che quello è l’ultimo scalo in Italia, quella voce di solito fredda e precisa nell’impartire gli ordini è diventata grave e commossa. Il “Surriento” è ormai lontano dalla riva e riprende sulle acque tranquille dello stretto il suo lungo e penoso viaggio. Intorno sulle sponde d’Italia migliaia di luci tremolanti ci salutano in silenzio. Sembra che anche le stelle siano scese ad ammassarsi in riva al mare per dare l’ultimo addio ai fratelli esuli. Addio Italia, mamma dal cuore troppo grande e dal grembo troppo piccino! Vedi quelle lacrime che rigano in silenzio i volti di tanti tuoi figli? È per questo che nel tuo mare c’è tanto sale. Me l’ha detto una stella che, cadendo, ha rigato il tuo cielo di una lacrima in più… Piero Macchi
ALBERT SCHWEITZER
DA “RISPETTO PER LA VITA”
Paola Masini
Benché la sua storia abbia avuto un lieto fine, Piero non è più tornato. I viaggi della paura e della speranza erano ieri gli stessi di oggi e di domani. Cristina e Federica
Non ho mai avuto paura di passare i cancelli di una grande azienda e di andare a presentare un progetto o a condurre una trattativa commerciale. Ad alcuni fanno effetto le portinerie decorate in marmo, le scalinate solenni, il portiere al banco che ti chiede i documenti. Lavoro con alcune tra le aziende più importanti del mondo. I manager che le rappresentano e con cui parlo sono per lo più persone normali, molte brillanti, alcune particolarmente devote al marketing, altre prestate alla brand identity per casualità della vita. Conosco molte persone alle quali un lavoro come il mio farebbe paura. A me invece farebbe senz’altro paura ad esempio stare chiuso in un laboratorio di chimica per otto ore al giorno.
L’altro pomeriggio però, camminando sui sampietrini di una via del centro a Milano, io in trasferta da Torino col treno delle 8.50, sveglio dalle 6 e mezza, ho sentito qualcosa di simile all’angoscia. Come una sottile sensazione di misunderstanding tra me e me stesso, un equivoco o meglio ancora una disarmonia. Anni fa visitavo fabbriche, acciaierie, carpenterie meccaniche in Cina, in India, in Repubblica Ceca, Polonia, Romania: era una vita fa ormai. Fonderie a Ostrava e presse ad iniezione a Guangzhou, operai seduti sulle caviglie, fabbriche-dormitorio, esposizione quotidiana ad agenti nocivi per la salute. Quello mi faceva paura.
Ma l’altro pomeriggio è stato differente. Uscivo dalle porte scorrevoli degli uffici di una delle principali multinazionali mondiali del tabacco. Poltrone bianche, tutto in tono minimal, vasi bianchi sfuggenti con dentro il fiore di loto, vetrofanie con bambù satinati, pavimento grigio, portieri cortesissimi. Chiamiamola disarmonia. Era una specie di paura. Sono andato a Sant’Ambrogio, già che c’ero. Ho sentito il silenzio. Sono rimasto in silenzio davanti a Dio. Gli ho mostrato il mio umore e la mia fatica, la mia incoerenza e i miei pensieri. Prendevo a sculacciate le mucche due vite fa, mi passavano accanto a decine ogni mattina mentre andavo a piedi, anch’io, sull’unica
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Una mattina, in metropolitana, ho comprato il giornale e in prima pagina ho visto una fotografia che mi ha fatto paura, tanta paura. Ho piegato il giornale per non guardarla, ho pensato che a casa avrei dovuto nascondere bene il quotidiano, perché i miei bambini non dovevano assolutamente vedere quella fotografia: il volto tumefatto di un uomo morto, che era stato picchiato prima della morte, dopo essere stato arrestato quando era detenuto in un carcere. In Italia. Senza guardare la prima pagina ho aperto il giornale sulla seconda e
terza: anche lì fotografie, grandi, dell’uomo morto, la schiena, la mascella, livide, rotte, picchiate. La paura mi rest ava addoss o, un uccellaccio nero sulle spalle, ma nella pancia cresceva una rabbia potente, ben più forte della paura, e n el cu o re u n a co m p a s s i o n e altrettanto forte per quell’uomo. Allora ho voluto guardare bene quelle fotografie, leggere bene uno dei primi articoli di giornale sulla morte di Stefano Cucchi, anni 31, morto in un ospedale carcerario dopo l’arresto dei carabinieri che lo avevano sorpreso con una ventina di grammi di droga. E poi ho voluto tenere il giornale bene in vista, con quella fotografia terrificante che guardava i passeggeri e buttava in faccia a tutti quello che nessuno vuole vedere.
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Daniela Medici
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strada principale di Jinka verso l’ufficio. I bambini fischiavano e facevano schioccare la frusta in aria per farle muovere e portarle a bere. Bambini pastori e adulti, contadini etiopi e centinaia di mucche con la gobba. Se chiedevi a chiunque, Tiferàllech?, hai paura?, tutti rispondevano Alfèrram!, io non ho paura. Nessuno ammetteva la paura. Gente abituata a non avere acqua , a far dipendere completamente il proprio raccolto e la loro sopravvivenza dalle piogge, a vivere in un ambiente ostile e pericoloso, con gli scorpioni, con i cobra, le tarantole, spesso in conflitto armato tra loro per il controllo del territorio, dell’acqua e dei pascoli: alfèrram!, noi non abbiamo paura!
All’ospedale di Jinka arrivava di tutto. Accoltellati, donne per partorire, molti moribondi portati in barella a piedi da villaggi lontani anche 40-50 chilometri, bambini denutriti, meningiti, aids, dissenterie che portano alla morte. Ma io lì non avevo paura. Tornando in metropolitana verso Stazione Centrale, la situazione mi pareva quasi ironica. Aveva a che fare con la mia consapevolezza di saper comprendere i meccanismi che regolano l’economia e la politica sul pianeta Terra. Di collegare i processi e i profitti dell’industria alle nazioni ricche di materie prime e povere di tutto il resto; di associare le politiche sull’immigrazione attuate in Europa al mantenimento di certe plutocrazie africane controlla-
te dai principali Paesi occidentali oltre che in crescente misura dai cinesi. E nel gomitolo di pensieri, su tutto questo stava l’evidenza di quanto la comunicazione, specie quella televisiva, condiziona le opinioni e le scelte delle persone (alternativamente definite consumatori, cittadini, opinione pubblica, elettori, utenti). Tutto questo mi restituiva un senso vago di ansia, per me e per le mucche con le quali condividevo curve e strattoni nel viaggio fino in Centrale. In treno ho dormicchiato. Yet ti’hidàlle? mi ha chiesto una vocina. Dove vai? Wode bit. Vado a casa. Questo pensavo e mi tranquillizzava. Stefano Zimbaro
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di diven speranza la : o ir S a San Barbarigo
... Già mi fa paura, vederlo in fascia a saltar gente come birilli! Spero di portargli la borsa anch’io, qualche volta... zio Matteone
Bovisa in ricordo di un grande presidente.
tori. tare calcia
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
19:56
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Capitani senza paura e di bella speranza!
paura e speranza Margherita Bertolesi
A me mi fanno paura i mo stri‌ e poi‌ altri mostri. Camilla Panichi
A me fa paura quando si è in un posto buio buio e si sentono delle urla acute. Francesco Panichi
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mija u tnejn | mija u tlieta
Matteo e Pablo Panizza
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
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La paura che ho conosciuto Ho avvertito la paura. Era scesa giù, in basso, i miei piedi scivolavano su una superficie liscia, bagnata, inclinata al punto esatto da farmi cadere. Era un venerdì e c’era vento. Ho sentito l’odore della paura quando una notte il fumo ha oscurato le pareti della mia camera e ho riconosciuto che a bruciare non erano più le caldarroste della sera prima. Era passato da poco il Natale. Ho udito la paura nelle sirene di un’ambulanza, a primavera, in un pomeriggio profumato di erba fresca appena tagliata. Ho visto la paura nello sguardo di mia madre, quando le sue preghiere, scagliate contro il cielo, rimbalzavano giù come pugnali. Finiva l’estate e c’era molto caldo. Ho toccato la paura sfiorando le mani gelide e raccolte di un uomo in attesa di un responso, eravamo in un atrio attraversato da altri uomini, come noi. Tutto è cambiato quando la paura ha chiamato proprio me, quando mi ha puntato il dito contro in un attimo impreciso e senza altri particolari. Quante volte mi aveva sussurrato il suo nome all’orecchio, ma non è valso a prepararmi il terreno per quando davvero sarebbe giunta.
La paura che non riconosceró Si mette sotto le coperte con me e mi fa respirare benessere. Poi si attorciglia nelle decorazioni di un carnevale e danza tutta la notte. Si sbriciola nelle patatine davanti ad un bel film e mi infonde tranquillità. Scoppietta nel camino insieme alla legna e scalda il cuore. Poi quel profumo si diffonde nelle vie di montagna e mi fa sentire a casa. È la luce tenue che traspare dalle veneziane di un albergo in una città ancora tutta da esplorare. È rossa come un tramonto africano, gialla come un campo di girasoli, blu come un’onda che esplode una gioia inesprimibile a parole, bianca come la neve illuminata mentre godi dall’alto una discesa che ti attende. Ti ascolta ma non parla, agisce senza farsi vedere, si confonde con mille scuse che giustificano ciò che prima o poi finisce. È la paura di essere felici. Mary Pantano
Paura Io ho sposato la paura; felice unione. Domani divorzio. La signora mi costringe in casa, perché fuori piove sempre, dice, e m’ammazza la voce, così che l’io Bambino non si svegli. Al mattino mi allaccia le scarpe strette strette, che non si possa fare tanta strada, perché , dice, oltre la bottega la gente parla strano e si nutre di attenzioni. Lei è dolce, indocile e s’impone ai bivi. Di notte, a palpebre calate, s’accosta al mio testone e in un soffio gonfia i miei sogni di spine e rovine. Per amore di questa fosca matrona, abito il ventre nero del passato presente, avvolto dai fumi delle altrui chimere, costretto a godere della mesta commedia di una terra avviata al torpore. Domani divorzio. Gabriele Dozzini
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
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Migrante Vado, perché ho il viaggio nei calcagni, le ossa di un’antilope, la guerra tra i capelli.
Lascio strade obliate, abbracciate dal deserto, annerite dai silenzi, sdraiate sui diamanti; Le lascio nel terrore, senza un nome, gravide d’odio e di tramonti. Verso il mondo Primo Vado, ma il mare è nero, il cielo è piombo, vedo squali a riva. Gabriele Dozzini
Nella lingua ebraica la parola speranza è equivalente, nel suffisso radicale, alla parola cisterna. La speranza è come una cisterna di acqua freschissima, nel cuore del deserto, nell’arsura dell’odio. Ma la speranza d’altronde, così come la cisterna, va curata perché si può svuotare, d’improvviso o lentamente, giorno per giorno, goccia dopo goccia. Si svuota per una delusione, un dolore troppo grande, un abbandono improvviso. La cisterna della speranza si svuota quando trascuriamo le crepe sottili, quelle invisibili all’occhio veloce e superficiale. Allora la cisterna lentamente si svuota, per quell’indugiare al lamento che ci fa ripetere tristemente che ormai non c’è più nulla da fare, che abbiamo provato tutto, che già tanto nessuno ci vede e nessuno ci dice grazie. Frasi terribili che svuotano anche la cisterna più capiente. Ma c’è anche un agire nella logica della speranza, quando la cisterna si riempie, se mi impegno e mi assumo responsabilmente la vita di chi mi circonda, facendo e operando, sempre insieme, senza protagonismi, in un cammino che poggia sull’umiltà. La cisterna si riempie quando so valorizzare i piccoli passi miei, della mia comunità, di chi mi sta accanto. Quando so cogliere i germogli, pur su rami secchi, non sempre facili da scorgere, e non mi fermo a denigrare le foglie secche che si notano subito ai piedi dell’albero. Ci occorre un poco della forza interiore di Etty Hillesum che nel campo di concentramento scriveva: «La miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure alla sera tardi, quando il sole si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce, – è così, non ci posso far niente, è di una forza elementare –, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima, ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo il diritto di dire la nostra parola a guerra finita». Giuseppe Bettoni
mija u erba’ | mija u ħamsa
Vado e sogno di restare, ma il mare è rosso, il cielo pece, scorgo squali a riva.
La cisterna della speranza
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Vado, cerco un’occasione, terra, cibo, o solo vento, perché il mio cuore vola a vela.
Librosolidale2009_parte2:Librosolidale2009_parte2
23-11-2009
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Librosolidale2009_parte3:Librosolidale2008_parte3
24-11-2009
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Xmas Project 2009 è davide rossi ♥ margherita bertolesi ♥ edoardo sheila mauri bini ♥ monica marini ♥ katia tumidei ♥ cicci carini ♥ alessandro bompieri ♥ sarah nocita ♥ giulia utili ♥ chiara utili
♥ elena casadei ♥ monica burdese ♥ alberto bruno ♥ emma e marco bruno ♥ alessandro bruno ♥ alessandro febbi ♥ alberto lazzaretti ♥ virgilio beltrando ♥ barbara boffa ♥ giorgio bertolo ♥ daniele allocco ♥ franca miretti ♥ john skinnader ♥ agnese e giampaolo ♥ loris genesio ♥ studio agrò ♥ padre gianni nobili ♥ giorgia morra ♥ marco patagarro eula ♥ max garbo ♥ massimiliano tinelli ♥ marina gemic e vittorio salvini ♥ luca buratti ♥ marco mangini ♥ manuela bocco ♥ massimo durante ♥ marco di gregorio e donatella ♥ andrea ceccarelli ♥ federico barral ♥ massimo santambrogio ♥ alessandro de angelini ♥ gianfranco de cesaris ♥ nicola cascino ♥ elena pini ♥ giulia montrasio ♥ luca musumeci e stefania spennacchio ♥ stefano ronzoni ♥ giovanna giuliana ♥ federica rovelli ♥ andrea volonté ♥ elisa reginato ♥ paola budini ♥ paolo brosio ♥ patrizia manzone ♥ stefano stirpe ♥ stefania e fabrizio barale ♥ sandra abbona ♥ isabella valletti ♥ maura semprevivo ♥ luca agnelli ♥ samuela bozzoni ♥ silvana terrini ♥ elisabetta broglio ♥ ricard solé ♥ andrea saetti ♥ adriano tomasetta ♥ martina casadei ♥ claudia mazzei ♥ alessandro gallio ♥ maurizio d’adda ♥ alessandro gullo ♥ francesca piovaccari ♥ valeria zorzi ♥ nicole e flavia galimberti ♥ giacomo moletto ♥ nicola moletto ♥ danilo daniela margherita veronica marco e davide fava ♥ roberto garavaglia ♥ silvana anzil ♥ laura anzil ♥ frida frezza ♥ luca roldi ♥ micaela rambelli ♥ alessia castelli ♥ lorella bazzani ♥ leo conti ♥ laura pacchioni ♥ marco panza ♥ davide e alessandro mustica ♥ maria elena stocchi ♥ luisa valsecchi ♥ gianluca sanvito ♥ gianluca falsitta ♥ elisabetta vezzani ♥ associazione musicaingioco ♥ emanuela federico e ludovico ♥ michele elena e maresa acquarone ♥ maria teresa bortoluzzi ♥ stefano d’adda ♥ marcello casadei ♥ raffaella cova ♥ marco pignattai ♥ alessandra camurri ♥ tommaso albinati ♥ sandra casadei ♥ luca utili ♥ andrea tosi ♥ paolo ortolina ♥ luca sacchi ♥ mara soldera ♥ loredana miola ♥ nicola persegati ♥ stefano mancini ♥ alberta magni ♥ nicola speroni ♥ benedetta speroni ♥ ivana capozzi ♥ ettore d’adda ♥ davide dania ♥ alessandra ghirotti ♥ sergio febbi e riccardo febbi ♥ paola tarabra ♥ fabio russo ♥ alessandro concetti ♥ gina lagalia ♥ ivano palombi ♥ grazia e enzo ♥ paola e max ♥ diego e davide plati ♥ greta e claudia ♥ jacopo dalai ♥ elena morabito ♥ tiziana ♥ giulia di sipio ♥ laura calligarich ♥ anna biasi leonardo biasi e raffaella foschi ♥ alessandro vittoria e luca ♥ michela dario chiara alberto e elena regazzoni ♥ federica poletti ♥ piero macchi ♥ luisa baldini ♥ barbara alberti ♥ raffaella capellaro ♥ amparo restrepo ♥ lucia camilla e irene fiorini ♥ valentina vanoni ♥ annamaria bichisao ♥ alberto ciancio ♥ jessica manfreda ♥ monica botto ♥ stefano errico ♥ matteo errico ♥ chiara baj ♥ fabrizio lepri ♥ silvia saler ♥ lia gugino ♥ samuele maruca ♥ alice marangon ♥ melanie del genio ♥ silvia maria mora ♥ lara cimmino ♥ erika godi ♥ elena colli ♥ beniamino valsesia ♥ andrea 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Librosolidale 2001-2008, una collana di solidarietĂ .
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Abbiamo iniziato la nostra strada nel 2001 con il primo Librosolidale. Non sapevamo come sarebbe andata e se saremmo stati capaci di continuare, Natale dopo Natale. Ci stiamo ancora provando, ci sono dei momenti in cui ci chiediamo se ce la faremo a proseguire, ma nel frattempo abbiamo pubblicato otto “Librisolidali”, sostenendo con il vostro contributo altrettanti progetti. Ecco una breve sintesi delle iniziative che abbiamo realizzato in questi anni, accompagnata dagli aggiornamenti che ci hanno inviato le associazioni con cui abbiamo collaborato. Questa è la nostra storia fino ad oggi. Noi ne siamo orgogliosi, ma sappiamo che senza di Voi non sarebbe stata possibile. Grazie di cuore. E Buon Natale.
2001 in Romania
Il nostro primo progetto ci ha visti in Romania. Abbiamo raccolto i fondi per la ristrutturazione dei reparti di malattie infettive e pediatria dell’Ospedale di Slatina e abbiamo contribuito all’avviamento del progetto “Assistenti materne”. Ci scrive Antonio Ellero: «L’esperienza della Fondazione “I Nostri Bambini”, con la fine del 2009, si è di fatto conclusa. In tutti questi anni la Fondazione ha coinvolto centinaia di persone nelle diverse iniziative, effettuato la spedizione di molti camion con materiali e strumenti, favorito l’acquisto di medicinali e contribuito in maniera decisiva a realizzare i seguenti progetti: ristrutturazione dei reparti di immunodeficienze pediatriche dell’ospedale di Slatina; fornitura di beni alimentari e strumentali a famiglie con bambini disabili e in AIDS conclamato; assistenza ospedaliera a bambini affetti da AIDS; presa in affido, attraverso l’istituto rumeno delle “Assistenti Materne”, di bambini con disabilità psicofisiche. Oggi l’impossibilità di trovare finanziamenti adeguati da parte dell’amministrazione locale e i continui ostacoli burocratici frapposti alla già difficile opera della Fondazione, hanno determinato la chiusura dell’attività. L’ultimo bambino è stato dimesso da “La Casa dei Sogni” (una Casa-Famiglia situata nel comune di Bals che in questi anni ha offerto accoglienza permanente a numerosi bambini affidati alla Fondazione) alla fine di ottobre 2009. Daniel è tornato a casa, dalla sua mamma. Prima di lui, tutti gli altri bambini ospiti del centro sono stati affidati a famiglie sostitutive, con cui io e gli altri responsabili della Fondazione restiamo stabilmente in contatto». Noi ringraziamo ancora Antonio Ellero, per tutto quello che ha fatto in questi anni per i bimbi in Romania e perché se noi ci siamo fidati di lui, lui si è fidato di noi, quando ancora non sapevamo se la nostra idea avrebbe funzionato.
2002 in Niger
Nel 2002, siamo sbarcati in un altro continente, siamo andati in Niger, con l’Associazione Les Cultures, per costruire una scuola, nel villaggio di Assada, nel cuore del massiccio montuoso dell’Air. Localmente il progetto è stato seguito dall’Associazione AFAA di Agadez. La scuola di Assada, costruita anche grazie al sostegno ricevuto dal progetto 2002 del Xmas Project, ha completato il suo settimo anno di attività nonostante i problemi di sicurezza della regione, che rendono difficili gli spostamenti di alunni e insegnanti. I bambini iscritti quest’anno sono ottantuno, già dal 2008 quattro di loro hanno potuto proseguire gli studi superiori a Agadez, grazie al sostegno garantito da Les Cultures. L’esigenza principale è ora quella di assicurare lo stesso diritto al proseguimento degli studi ad altri cinque ragazzi che hanno concluso quest’anno la scuola primaria. Les Cultures sta quindi lavorando alla raccolta fondi utile a sostenere la continuità del nostro intervento ad Assada e dintorni.
Librosolidale2009_parte3:Librosolidale2008_parte3
24-11-2009
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2003 in Colombia
Abbiamo chiesto all’Associazione Niños de Los Andes a che punto è, oggi, il loro lavoro e questo è un breve estratto della loro risposta, che ci racconta l’evoluzione del loro progetto: «In conseguenza ai provvedimenti legislativi che hanno istituito il servizio “Centro di Emergenza”, per garantire protezione integrale e immediata al numero crescente di minori in stato di pericolo o abbandono, abbiamo stabilito che la Casa Albachiara cambiasse la sua destinazione, venendo destinata a tale servizio. Dopo cinque anni in cui è stata utilizzata per il programma “Preparazione per la vita”, ospitando adolescenti prossimi a uscire dalla Fondazione, Albachiara ha ora aperto le sue porte a bambini e adolescenti per i quali la prolungata permanenza sulla strada pone a rischio la loro sopravvivenza e la possibilità di un percorso evolutivo sufficientemente sereno. Gli obiettivi del servizio “Centro di Emergenza” sono quindi centrati sull’assicurare tutela sanitaria, sociale e psicologica ai minori ospiti (per la maggior parte di età compresa tra i sette e gli undici anni) garantendo loro anche un’adeguata formazione scolastica. Il nostro impegno è dunque quello di offrire a questi ragazzi una risposta a bisogni fondamentali di crescita, a oggi per lo più non soddisfatti».
mija u għaxra | mija u ħdax
Dopo l’Europa e l’Africa, siamo andati in Sud America. Nel Natale 2003 eravamo in Colombia, insieme alla Fundación Niños de Los Andes, per sostenere un progetto di recupero e reinserimento di bambini e ragazzi di strada a Bogotà. Grazie ai fondi raccolti è stato possibile contribuire all’acquisto di una casa a Bogotà per i ragazzi di strada.
Per il Natale del 2004, il Xmas Project si è spostato in Nepal, grazie all’impegno dell’Associazione G.R.T. Gruppo per le Relazioni Transculturali. In quell’occasione abbiamo sostenuto la realizzazione di un progetto socio-sanitario nella regione di Rupandhei, destinato ai bambini e alle donne Dalit: i cosiddetti “Intoccabili”. Localmente il progetto era seguito dall’Associazione FEDO (Feminist Dalit Organization). Durante l’annuale missione in Nepal del GRT, si è potuto apprezzare l’evoluzione del lavoro dell’associazione locale FEDO. Localmente, tutti ricordano con riconoscenza il valore del contributo del GRT ottenuto attraverso il Xmas Project, anche per l’elasticità della gestione, che ha permesso di monitorare e riattualizzare i finanziamenti alla luce delle necessità emergenti. Il lavoro si è sviluppato anche in altri territori del Nepal, con risultati interessanti. FEDO, attraverso la credibilità del suo lavoro, ha attratto nuovi finanziatori tanto da rendere la sua sopravvivenza economica sufficientemente stabile. La novità più importante è la partecipazione di FEDO, attraverso una sua rappresentante, all’organismo tecnico-politico che è incaricato dal Governo di redigere il testo della nuova Costituzione del Nepal. La presenza di una donna Dalit in questo importante organismo appare molto significativo e lascia ben sperare sull’attenzione che la Carta Costituzionale dovrebbe dare alla problematica delle differenze di Casta e soprattutto dei diritti dei fuori-casta.
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2004 in Nepal
Librosolidale2009_parte3:Librosolidale2008_parte3
24-11-2009
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2005 in Italia
Nel 2005 abbiamo scelto un Natale italiano. Grazie all’iniziativa dell’asilo nido Giramondo abbiamo sostenuto la Cooperativa sociale Città Nuova nella realizzazione del “Progetto 100 Euro”. Grazie a questo progetto, dal Settembre 2004 l’Asilo ha previsto l’inserimento di 10 bambini stranieri, figli di “genitori soli” in situazione di grave disagio economico e sociale. La Cooperativa sociale Città Nuova non esiste più, ma l’Asilo Nido Giramondo sì, e continua a lavorare ispirandosi agli stessi principi che ne avevano caratterizzato la nascita. Oggi Giramondo è un asilo nido privato convenzionato, situato nella zona Bovisa a Milano, che da qualche anno riceve, in seguito all’iniziativa promossa dal Librosolidale, sincero affetto e sostegno. Ha avuto bisogno di aiuto e tuttora ne ha bisogno, ma il Comune di Milano ha confermato la convenzione pubblica, chiedendo anche di aumentare i posti a disposizione. Le richieste che il Comune invia spesso partono da famiglie straniere: molte bimbe e molti bimbi arrivano e imparano le prime parole italiane. Nonostante i problemi, spesso di natura burocratica, l’impegno dell’asilo Giramondo è costante e rappresenta un piccolo, ma significativo, contributo alla realizzazione di un’esistenza più serena per Milano e per i bimbi che ci vivono.
2006 in Etiopia
Nel Natale del 2006 siamo andati in Etiopia, per sostenere l’Associazione OMO Onlus nella realizzazione di un progetto rivolto alle comunità Maale di Gongode e agli Hamer di Dimeka. Il progetto ha avuto come obiettivo la costruzione di 10 bacini artificiali per la raccolta di acqua piovana. Partner locale è stata la Chiesa Cattolica del Gamo Gofa. Il progetto è tuttora attivo e con ottimi risultati: circa 3.000 persone stanno bevendo acqua potabile disponibile vicino ai villaggi grazie al contributo del Xmas Project. Il progetto ha avuto una fase di test a Gongode: due ponds sono stati scavati e connessi a pozzo e abbeveratoio. Uno dei due è attualmente ancora attivo ed eroga acqua potabile a circa 80 famiglie (in tutto circa 450 persone, più i loro animali, mucche e capre). L’altro è stato invece un insuccesso, perché la zona in cui è stato costruito ha registrato piogge scarsissime oltre a un’elevata evaporazione dovuta al calore, che è il principale problema delle pozze naturali. L’acqua in Etiopia è evanescente: nonostante piogge intensissime che generano il riempimento dei letti dei fiumi solitamente in secca, l’acqua non permane a lungo sia per la natura argillosa del terreno che filtra velocemente sia per il caldo intenso e la secchezza dell’aria. È stato scelto quindi di mantenere solo il pond che ha avuto successo e di investire il denaro per operare sempre su Gongode, ma in due modi differenti. Quindi, dopo aver messo in protezione una sorgente naturale, l’acqua è stata canalizzata in tubi d’acciaio galvanizzato: nonostante una bassa portata, si dà acqua a circa 450 persone ed è stato possibile costruire persino dei bagni pubblici, strumento sanitario molto importante per preservare l’acqua da eventuali contaminazioni. Inoltre, a Golobrendo, sempre nell’area di Gongode, è stato costruito un sistema a gravità che canalizza l’acqua delle sorgenti delle montagne adiacenti: questo sistema convoglia acqua potabile nelle vicinanze delle abitazioni di 2.500 persone.
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25-11-2009
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2007 in Costa D’Avorio
2008 con Survival
Nel Natale 2008 eravamo dappertutto… abbiamo promosso l’iniziativa ILO169 e abbiamo sostenuto Survival Italia nelle sue campagne di informazione, pressione e educazione in difesa dei diritti dei popoli indigeni. Con il Librosolidale 2008, inoltre, il Xmas Project ha voluto rendere omaggio ai primi 40 anni di lavoro di questo straordinario movimento. Leggete cosa ci racconta Francesca Casella, responsabile di Survival Italia: «Nell’ambito della campagna per i popoli incontattati, in aprile abbiamo accolto la richiesta di aiuto venuta dai popoli indigeni del Perù attraverso la loro organizzazione AIDESEP. Abbiamo quindi cominciato a dare risalto mediatico alle loro manifestazioni pacifiche di protesta contro l’apertura delle loro terre alle compagnie di disboscamento e petrolifere. Abbiamo pubblicato un dossier davvero scioccante sull’improvvisa e violenta repressione delle loro rivendicazioni da parte del Governo (a Bagua). Abbiamo portato a termine tutti i programmi didattici previsti dal preventivo del progetto. E in più abbiamo organizzato il proseguimento delle attività anche per questo nuovo anno scolastico, nonostante il taglio totale del sostegno del Servizio Civile Nazionale. Inoltre, abbiamo riorganizzato la nostra attività mediatica. Attraverso l’allestimento di un International Media Department a Londra, dove lavorano anche stagisti italiani, Survival ha cominciato a intensificare la produzione di comunicati stampa e la loro diffusione in tutto il mondo, in 7 lingue diverse. L’impatto della visibilità che abbiamo dato ai problemi e alle persecuzioni dei popoli indigeni in termini di advocacy è stato enorme e ci ha permesso di raggiungere risultati straordinari. Infine, il nostro sogno nel cassetto sembra ora vicino alla sua realizzazione: un grande libro su Survival e sui popoli indigeni del mondo. La casa editrice inglese Quadrille Publishing Ltd si è infatti finalmente decisa a realizzarlo anche grazie al successo del nostro “ILO169”. Il libro si intitola “We Are One”, e uscirà in lingua italiana l’anno prossimo».
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Ci scrive Mirco Nacoti, dell’Associazione Sguazzi: «Questo progetto sin dal principio ha rappresentato una sfida per tutti noi: ci ha portati a spingere il nostro sguardo al di là dell’opera di volontariato che ciascuno di noi svolgeva da tempo nel proprio contesto di vita per attingere a un respiro più ampio, per conoscere e capire più profondamente situazioni di disagio così lontane e apparentemente estranee da noi, dove non avremmo mai creduto di poter essere decisivi, riuscendo a dare un contributo concreto. La realizzazione del “Progetto Biblioteca” ci ha fatto capire che nulla è impossibile dove ci sono serietà, determinazione e forte slancio ideale. Infatti, grazie all’arrivo del materiale informatico prima e della parabola poi, è stato possibile realizzare a Man le connessioni a Internet e avere la possibilità di accedere a iniziative di formazione e scambio di conoscenze, sia internamente sia a distanza, con Bergamo e Milano. Fondamentale è stata la costituzione del comitato che da Man ha promosso e mantenuto vivo l’interesse per la biblioteca e per le potenzialità di conoscenza, incontro e scambio che la biblioteca stessa offre ai suoi frequentatori abituali ma anche a chi, dall’Italia, ha l’opportunità di entrare in contatto con il progetto! Il futuro del Progetto Biblioteca è oggetto di riflessione interna all’Associazione Sguazzi: una serie di considerazioni richiedono che sia avviato un lavoro di pianificazione sul nuovo assetto da dare al progetto stesso. Dal canto nostro il desiderio di mantenere il Progetto Biblioteca sempre all’interno di Sguazzi per la ricchezza d’esperienza che ha portato a tutti noi e per le sue enormi potenzialità si confronta con il timore di non riuscire, con le nostre forze e conoscenze, a supportare da soli un simile lavoro, e di rischiare di limitarne inesorabilmente lo sviluppo». Quindi il progetto di Sguazzi a Man prosegue, e noi, come facciamo con tutti gli altri progetti che abbiamo sostenuto, continueremo a seguirne le vicende.
mija u tnax | mija u tlettax
Grazie all’Associazione Sguazzi, per il Natale del 2007, siamo stati in Costa d’Avorio, a Man, dove è stata promossa la realizzazione di una biblioteca medico-scientifica dotata di apparecchiature telematiche e connessione internet. I fondi raccolti sono serviti ad acquistare un’antenna parabolica, il materiale per la sala videoconferenze e gli stipendi annuali del personale scientifico locale.
Librosolidale2009_parte3:Librosolidale2008_parte3
24-11-2009
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Xmas Project 2010? In primavera la scelta. Segnalateci i vostri progetti.
Librosolidale2009_parte3:Librosolidale2008_parte3
24-11-2009
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A partire dal Librosolidale 2004 abbiamo introdotto un piccolo grande cambiamento: non trovate infatti nessuna anticipazione sul progetto del prossimo Natale. Abbiamo deciso di rinviare la nostra scelta in primavera, perché desideriamo ampliare le nostre possibilità di intervento: vogliamo infatti dare modo a tutti voi di segnalarci iniziative che ritenete interessanti o di indirizzare verso di noi eventuali associazioni con le quali siete in contatto. Ecco i criteri che ci hanno ispirato fino a oggi nelle nostre scelte e con i quali verranno valutate le future proposte.
Un progetto “rispettoso”: appoggiamo progetti richiesti e voluti da chi ne beneficerà, o
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da chi opera direttamente sul campo. Pur gradite e necessarie tutte le associazioni “tramite”, ci piace alla fine arrivare ad aiutare un partner locale, che esprima un proprio progetto e il bisogno di finanziarlo.
mija u erbatax | mija u ħmistax
Un progetto “finito”: scegliamo progetti il più possibile delineati e dettagliati, con obiettivi chiari, anche se piccoli, un budget definito e un tempo di realizzazione certo.
Un progetto “sostenibile”: diciamo intorno ai 30.000 euro. Questa è la nostra potenzialità, quindi meglio tenerne conto. Ci piace avere un budget preciso e dettagliato del progetto. A preventivo e poi a consuntivo.
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Un progetto “diverso”: desideriamo che la nostra piccola collana di libri ci aiuti anche a scoprire la varietà del mondo. Ci piace immaginare dei Librisolidali che ci portino di anno in anno ad avvicinare luoghi e problematiche differenti.
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Altre cose che ci piacciono: ci piacciono le piccole associazioni che hanno progetti seri e interessanti, ma un po’ meno strade aperte per finanziarli. Ci sembra più utile portare il nostro piccolo contributo là dove non ci sono grandi possibilità di finanziamento. Ci piacciono le associazioni ben organizzate, quelle disponibili e desiderose di contribuire attivamente alla diffusione del Xmas Project. Segnalateci dunque i vostri progetti, segnalateci alle associazioni che li portano avanti. Ricordatevi che dovrà essere realizzato nel 2011, anno in cui noi potremo finanziarlo. Sarà il protagonista del Librosolidale 2010/11. All’interno della copertina di questo libro, trovate tutti i dati per contattarci. Appuntamento quindi in primavera per la scelta del progetto. Buon Natale a tutti voi!
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Librosolidale2009_parte3:Librosolidale2008_parte3
26-11-2009
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Xmas Project ringrazia:
per la stampa del Librosolidale 2009
per la rilegatura del Librosolidale 2009
per la realizzazione e il mantenimento del sito www.xmasproject.org
Un grazie particolare a: Francesco Giusti per le fotografie e il suo viaggio a Malta e per averci mostrato quello che è difficile vedere. Alberto Ipsilanti e Viviana Spreafico, i nostri amici illustratori, geni veri. Paolo Giovenzana per l’aggiornamento del nostro sito web. Franco Floris e la rivista Animazione Sociale e il Prof. Fulvio Vassallo Paleologo per l’autorizzazione a pubblicare i loro testi. Le due équipe di Capricorn ed Eurologos Milano per il supporto grafico, il lavoro sui testi e tutte le traduzioni. Paola Scodeggio e Gianluca Sanvito per l’insostituibile “aiuto contabile”. Claudia Taddei per il prezioso lavoro di distribuzione libri. Francesca Paltenghi di Unhcr Italia per la disponibilità. Tutti gli amici e le associazioni dei vecchi progetti che continuano a tenerci informati sulle loro attività: Paola Amigoni dell’Associazione “Les Cultures”, Pedro Isaac Fernández Vargas della “Fundacion Niños de los Andes”, Maria e Loris Panzeri del Gruppo GRT, l’Asilo Giramondo, Stefano Zimbaro e Sara Cravero di OMO Onlus, Mirco Nacoti, Christian Sarnataro e Cristina Contini dell’Associazione Sguazzi, Francesca Casella di Survival Italia, Padre Dionysius Mintoff di Peace Lab. Un saluto particolare ad Antonio Ellero, con cui abbiamo iniziato. Tutti coloro che credono in questo progetto.
Realizzazione grafica: Jacopo Dalai & Matteo Fiorini Stampato a Milano, Novembre 2009 È consentita la diffusione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione in via telematica a uso personale dei lettori, purché non sia a scopo di lucro.
Librosolidale2009_parte3:Librosolidale2008_parte3
24-11-2009
Per saperne di più: www.unhcr.it www.iom.int/jahia/jsp/index.jsp www.ecre.org www.amnesty.it/index.html www.meltingpot.org www.stranieriinitalia.it www.fortresseurope.blogspot.com www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/ www.msf.org/source/countries/europe/malta/2009/malta_slideshow
Questo libro è stato realizzato anche grazie al contributo di testi e informazioni di enti e associazioni che lavorano in Italia, a Malta e nel mondo sui temi della salute, dell’immigrazione e del diritto internazionale.
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24-11-2009
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Un caro saluto a Richard Isaak Elie (1926-2009), migrante e uomo di pace.
Per contattare l’Associazione e partecipare al progetto: Associazione Xmas Project ONLUS Via Luigi Settembrini, 46 20124 Milano Numero Verde: 800 180 406 Fax: 02 68 80 402 info@xmasproject.org www.xmasproject.org
È il regalo che vogliamo farci quest’anno a Natale. E che abbiamo scelto di farci per tutti i prossimi Natali...
Ilo 169, con Survival per i popoli indigeni
L’Associazione Xmas Project è nata nel settembre del Duemilauno. I soci sono Roberto Bernocchi, Dario Bertolesi, Elena Casadei, Francesca Castelnuovo, Francesca Colciaghi, Alberto Cometto, Maurizio D’Adda, Jacopo Dalai, Claudio Elie, Matteo Fiorini, Filippo Marconi, Benedetta Nocita, Sarah Nocita, Sara Panizza, Renato Plati. ll Gruppo Media, azienda di arti grafiche, e Arachno, Web Agency, sono partner del progetto.
Il libro che state tenendo in mano è un libro speciale. È un “Librosolidale”. Non è in vendita, ma se lo desiderate, potete contribuire a crearlo, a diffonderlo e soprattutto a finanziarlo. Il Librosolidale è il frutto dell’impegno di molti. Questi molti sono il Xmas Project. Un’Associazione costituita per dare sostanza e realtà a microprogetti di solidarietà, in giro per il mondo, là dove c’è del bisogno. Chi vuole sostenere il progetto, e quindi aderire al Xmas Project, prenota una certa quantità di Librisolidali e versa un contributo proporzionale alle copie ricevute. Potrà così utilizzare i libri come doni, in occasione del Natale, trasformandoli in ambasciatori del progetto stesso. Non solo: questi doni saranno particolari, perché conteranno qualcosa di “proprio”. Perché chi aderisce al Xmas Project contribuisce in prima persona alla costruzione del Librosolidale, fornendo un proprio contributo: una foto, uno scritto, una poesia, piuttosto che semplicemente la propria firma. Se avete ricevuto questo libro in dono da qualcuno, sfogliatelo: vi troverete un suo segno. L’aspirazione, di Natale in Natale, è quella di costituire una Collana di solidarietà. Contattateci: è questo il regalo che anche voi potete donare e donarvi il prossimo Natale.
Xmas Project 2008
Xmas Project | Librosolidale 2008
L’Associazione Xmas Project
Il Librosolidale
Ilo169
Ilo169, Convenzione concernente Popoli Indigeni e Tribali in Stati indipendenti, Pianeta Terra. È finora l’accordo internazionale più completo riguardante la tutela dei popoli indigeni e tribali. La Convenzione Ilo169, emanata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, organizzazione di settore dell’Onu, è stata adottata il 27.06.1989 ed è entrata in vigore il 05.09.1991. Ad oggi è stata sottoscritta soltanto da 20 dei 173 Stati membri dell’ILO e l’Italia non è tra questi. Il libro di quest’anno vuole essere uno strumento di sostegno e di aiuto a Survival, l’organizzazione internazionale che da quarant’anni si batte per la tutela dei diritti delle popolazioni indigene e tribali. Vi raccontiamo l’attività di Survival, la sua vocazione, le emergenze umanitarie e le battaglie in corso. I fondi raccolti andranno a sostenere questa azione di difesa delle popolazioni indigene. All’interno del libro troverete anche la petizione da inviare al governo italiano per sollecitare la ratifica della Convenzione Ilo169. ________________
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