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xrun settembre/ottobre 2010
X.RUN
Storie di corsa
2010 settembre / ottobre [v. 02 # 05] volume 2, numero 5
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Voglia di lentezza
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« NEL CONCETTO DI CORSA ABBIAMO INVESTITO DI PIÙ: EMOZIONI, PASSIONE, PERSINO FILOSOFIA. »
lowFoot. La prima volta che ne abbiamo parlato abbiamo sorriso. Il movimento dello slowfood è la rivoluzione del piacere epicureo della buona tavola contro il concetto del nutrirsi (a volte del nutrirsi male, sono d’accordo). Ma lo SlowFoot? Noi che corriamo a volte viviamo con terrore il concetto di lentezza. Un amico qualche giorno fa mi ha detto che per lui correre è muoversi il più velocemente possibile da un punto all’altro. E probabilmente ha ragione. Il correre si distingue dal camminare per il periodo di “volo” tra due appoggi. Più lentamente corri, più ti avvicini al camminare. Però è vero anche che nel concetto di corsa noi abbiamo investito molto di più: sensazioni, passione, persino filosofia a volte. E se dovessimo basarci solo sulla corsa veloce probabilmente tutto questo passerebbe in secondo piano rispetto al crono (oltre al fatto che il numero dei runners crollerebbe di colpo). Proviamo a parlare, quindi, di un modo di spostarsi più lento. Nella cover di questo numero tracciamo due possibili mondi, quello del Cammino di Santiago, uno dei più celebri pellegrinaggi della cristianità e quello dell’UTMB, l’Ultra Trail du Mont Blanc, la New York degli ultratrail. Il paradiso e l’inferno a confronto: leggete e capirete perché. Adesso lasciate che rubi qualche riga per parlare di noi, di X.RUN. Da questo numero abbiamo deciso di dare una brusca virata. Abbiamo deciso di fare più attenzione a tutto quello che ci circonda, abbiamo iniziato a mettere in cantiere una piccola rivoluzione. Avremo bisogno di tempo. Probabilmente la fine del 2010 sarà il nostro trampolino di lancio, ma di alcune idee sentirete parlare già dal prossimo numero che sarà spedito verso la fine di ottobre. Qualche piccola anticipazione? Una per tutte. La maggior parte di noi corre per passione e abbiamo scoperto che correre è un modo di comunicare, di relazionarsi con il mondo, anche di far valere la propria idea. Su questa traccia vogliamo impegnare la nostra corsa. Vogliamo poter dire io corro per una Franz Rossi causa... EDITORE
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X.RUN La rivista è edita da QuickFox s.r.l via del Follatoio, 12 - 34147 - Trieste Realizzata da Tribù Astratte s.c.ar.l. Redazione: via Viganò, 8 - 20124 - Milano. Direttore responsabile Gianfranco Belgrano Segreteria di redazione: Daniela Banfi
La testata è stata registrata presso il Tribunale di Trieste nr. 1179 del 14/08/2008
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Stampa: A.G. Bellavite Missaglia (LC)
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INDICE
L’Editoriale 2 Voglia di lentezza di Franz Rossi
COVER
12 SlowFoot di Roger Olivieri Roger ci accompagna in un mondo parallelo fatto di coincidenze inspiegabili e incontri speciali. Tutto lungo il Cammino di Santiago.
22 La Divina Corsa ovvero l’UTMB di Stefano Bettio In un’edizione particolare dell’UTMB, fermata dal maltempo, una visione a metà tra letteratura e sogno.
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MITO 32 Il sindaco della Boston marathon di Richard Benyo C’è un uomo che più di tutti rappresenta la maratona più ambita del mondo. Si tratta di John Kelley: 2 volte vincitore di quella gara ma ben 58 volte finisher.
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44 La corona di alloro di Boston di John Kelley Un fardello pesante quello di John Kelley, un nome ingombrante soprattutto a Boston. Ma grazie anche all’aiuto di J.K. “the Elder” il giovane John saprà trionfare.
RUNNING 58 Una maratona per unire di Daniela Banfi In questo numero la recensione della maratona tocca una gara particolare, la Beirut Marathon.
62 Beirut la bella di May Zeidan Un’atleta libanese ci racconta la sua storia, dalla scuola durante la guerra alla Beirut Marathon..
68 L’orgoglio di poter contribuire di Antonio Annoni Attraverso le parole di un italiano che ha passato parecchi anni in Libano l’esperienza diretta sulla Beirut Marathon e non solo.
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78 Mamma e Figlio: voglia di trail di Federica Catudella Partecipare al Gran Trail della Valdigne pensando alla passeggiata con Filippo.
86 A Lourdes? Per fare il barelliere di Franco Faggiani Intervista a Carlo Costa, non vedente e maratoneta. La perdita della vista ha acuito in Carlo uno degli altri sensi: il senso dello humor.
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94 NoveColli Running: un sogno durato 27 ore di Andrea Zambon Una gara difficile e lunghissima. Una prova da affrontare con chiaro in mente il senso del limite. D’Artagnan ci racconta la sua esperienza.
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104 No sleep till Brooklyn di Alberto Zambenedetti Fuori dall’uscio ci porta a NewYork. Correre nella Grande Mela non è solo la maratona, ma un’esperienza diurna per chi vi abita.
LOGOS
112 Intervista a Marco Patucchi di Andrea Busato Incontriamo l’autore di Maratoneti, il libro rivelazione di questo autunno. Scopriamo la faccia segreta di chi ha svelato il lato runner di alcuni dei grandi uomini del passato. 8
118 La corsa intorno
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di Silvano L’opera “Il derviscio” è tratta da un opuscolo realizzato ad Opera all’interno di alcuni gruppi di lettura.
120 Il cane di Paolo Valenti Il racconto di un punto di vista particolare...
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126 Sesso, bon ton, doping e cultura... di Marco Negri Test semiserio per scoprire che tipo di podista siete.
132 Il lessico del podsta di Mauro Creatini Continua il nostro personale dizionario di termini “normali” imprestati al podismo e liberamente reinterpretati per noi da Mauro Creatini.
134 Lo zenzero e l’arte della corsa di Alessandra Mezzelani La sit com piÚ trend del running arriva alla sua undicesima puntata: Il podista va in vacanza.
144 Recensioni 152 Autori 158 Credits
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La sezione del Mito di questo numero è imperniata sulla Boston Marathon attraverso un solo nome e due grandi personaggi: John Kelley. Johnny A. Kelley ha corso 58 edizioni della gara, ne ha vinte 2 nel 1935 e nel 1945. John J. Kelley che a sua volta ha vinto l’edizione del 1957 dopo aver passato la notte a casa di Johnny Kelley Senior
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Dopo l’estate dei trail si entra nel vivo della stagione su strada. May Zeidan ci racconta la sua esperienza alla Beirut Marathon, una gara che è un manifesto per la fratellanza dei popoli. Abbiamo raccolto la storia di Carlo Costa e concludiamo con il racconto di un’altra gara epica, la NoveColli Running che ha corso per noi D’Artagnan.
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Una maratona che possa unire le etnie e le religioni del Libano
testo di Daniela Banfi foto tratte dall’Archivio Annoni Zena è una giovane artista libanese, è nata a Londra, ha trascorso la sua fanciullezza in Nigeria, vive e lavora tra Beirut e Torino. Nel 2006 durante i 34 giorni di guerra che hanno visto Beirut frantumarsi sotto le bombe israeliane sfoga le sue inquietudini di giovane artista che non sa se da lì a poche ore sarà ancora viva, in un blog, una sorta di diario che farà il giro del mondo e che verrà pubblicato da The Guardian. Zena trasformerà poi la cronaca dei giorni di guerra in un libro: “Beirut, I love you”, tradotto anche in italiano, edito da Donzelli. Ma tutta questa forza e determinazione forse Zena l’ha in parte acquisita dalla madre May El Khalil. Bellissima donna libanese, moglie di Faysal un industriale facoltoso. Negli anni
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Beirut Marathon A Beirut non si corre solo la maratona, ogni anno come in moltissime altre città del mondo si svolge la ViviCittà organizzata dalla UISP . L’edizione 2010 è stata particolare si è corso in altre sei località distribuite tra: Libano, Siria e Gerusalemme est. Protagonisti sono stati 3500 bambini dai 9 ai 15 anni sparsi nei 14 campi profughi. Bambini di corsa per un dialogo di pace e integrazione, perché i loro diritti possano essere rispettati.
R Scappando dalla guerra
“Sono nata durante la guerra. Tutto ciò che ora mi circonda è guerra. Non ricordo un tempo in cui non ci fosse la guerra. Se non era in Tv era nella mia anima, era nelle mie orecchie le domeniche sera, quando chiamavamo Teta a Beirut, quando ascoltavo attraverso il Sahara il crepitio della linea telefonica, le voci apprensive, le sporadiche interruzioni, i rumori in sottofondo. Era sotto la mia pelle, mentre guardavo gli occhi affamati dell’Africa osservarmi mistificandomi, mentre mi recavo a scuola nella mia macchina con l’aria condizionata. Era nelle mie lacrime. Era nel mio cuore, quando tornai nella mia terra e vidi il continuo ripetersi dei medesimi errori.” Zena El Khalil
Crede fortemente nei sogni e vuole costruire qualcosa che vada oltre la politica
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trascorsi, a seguito del marito in Nigeria fonda una ONG che si dedica a progetti di beneficenza, si occupa di chi è meno fortunato di lei. Ha una grande passione: la corsa. Beirut 2001, un’alba di un giorno come tanti altri May El Khalil esce di casa per il suo solito allenamento, un furgone la investe e la schiaccia contro un muro, l’impatto è devastante per poco non le toglie la vita. Due anni di ospedale e 36 operazioni rendono questa donna ancor più forte e determinata. Crede fortemente nei sogni e vuole costruire qualcosa che vada oltre la politica, che possa unire tutte le religioni, le etnie del suo paese, qualcosa che sotto l’egida dello sport possa rendere tutti uguali, così unendo la sua passione per la corsa ed il suo sogno più grande si “inventa” la Maratona di Beirut. La corsa e più in particolare la maratona è poco conosciuta in Libano, così lei per far conoscere il suo progetto e per cercare di coinvolgere quante più persone possibili mette in piedi una sorta di “campagna presidenziale” e gira per il paese toccando anche i più piccoli villaggi, incontra studenti, comunità, donne, uomini effonde, propaga il suo sogno tinteggiandolo con i colori della pace e dell’unità. Nel 2003, per l’esattezza il 10 ottobre, prende il via la prima edizione della Beirut Marathon. Sotto lo striscione della partenza si ritrovano circa seimila persone di 48 nazionalità diverse. «Nel 2005 c’erano 60 mila persone: era il periodo delle autobomba, del terrore della morte che tornava prepotente. Il linguaggio universale della Maratona era ciò che la gente voleva.» Lo scorso anno May El Khalil ha fatto correre il primo ministro e parlamentari d’ogni rango. Lei non può più correre, ma fa correre il resto del mondo. Ora la sua BeirutMarathon è il più grande evento sportivo del Medio Oriente ed è anche una delle maggiori organizzazioni no profit della terra. Questa è la magia della maratona. Un’esperienza condivisa crea legami che si estendono oltre le differenze culturali, etniche, religiose e politiche, vincoli d’amicizia che tendono a risolvere i problemi mettendo in primo piano l’aspetto emotivo, per cui la preoccupazione per gli altri diventa fondamentale. Questo è l’incanto della corsa, le persone corrono per mantenersi in forma, per socializzare, correre è un mezzo di rilassamento, è una valvola di sfogo, correndo ci si libera dagli stress quotidiani, si ha modo di pensare, di progettare, c’è anche chi scrive libri, mentre balzella procedendo sulla strada, ma il semplice gesto d’avanzare volando per pochi attimi possiede anche un potenziale maggiore. Il Libano è uno stato i cui confini attuali non hanno cento anni, la sua indipendenza risale al 1943. Ha una storia travagliata, il suo territorio era diviso tra cristiano-maroniti e arabi-musulmani, un equilibrio delicato, fragile. La proclamazione dello Stato di Israele nel ’48 da così inizio ai primi esodi che con il passare degli anni diventano sempre più sostanziosi, le tensioni fecero fuggire
Una battaglia per la vita, per dimenticare il ronzio sordo degli elicotteri, l’assordante rombo delle esplosioni
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R Scappando dalla guerra
100 mila profughi palestinesi che andarono ad affollare i campi del Sud del Libano. Nel 1975 la protesta popolare sfocia in una guerra civile che durerà per ben 15 anni. Beirut, scenario delle azioni di guerra viene divisa in due, da est a ovest, a nord i cristiani e a sud gli arabi divisi da un’irreale linea verde. I conflitti civili sono forse ancor più cruenti di altri, ritorsioni e vendette sono all’ordine del giorno, nel 1987 la Siria invade la zona musulmana di Beirut ed impone la pace. Dall’inizio delle ostilità al 1990, in Libano ci saranno più di 150 mila vittime da entrambe le parti, verranno assassinati ben due presidenti, ben 200 mila persone saranno costrette a lasciare il paese, ovunque attacchi aerei anche su obbiettivi civili. Il Libano ripiomba nel caos nel 2006, quando viene dato il via alla terza guerra israelo-libanese. Dura solo 34 giorni, ma bastano per far ripiombare il paese in un incubo conosciuto, ancora una volta i costi umani sono altissimi e tutto ciò che si era costruito fino allora è di nuovo un ammasso di macerie. Grazie all’intermediazione delle Nazioni Unite il 14 Agosto 2006 viene imposto il cessate il fuoco. Tutt’ora i confini tra Libano e Israele sono presidiati, da una forza di interposizione: l’Unifil, a guida italiana. In quei giorni, la Beirut Marathon Organization che era nata per la gara e si stava preparando all’evento diventa un punto di riferimento per la città, per il paese, scende in campo con le altre organizzazioni non governative, indirizza le sue risorse i suoi contatti, usa il suo database per mettere in piedi, collaborando con le altre associazioni, una rete di aiuti, si collega con scuole, comunità, ed implementa un progetto semplice ma con un impatto importante sulla popolazione. Usa il personale volontario della maratona per portare aiuto e sollievo alle varie famiglie raccolte nelle circa 250 scuole, organizza trasporti, porta cibo cerca in qualche modo di togliere la pressione della guerra sui bambini, tenta di creare una parvenza di normalità organizzando giochi, partite di calcio o di basket, regalando giocattoli o materiale sportivo, cose semplici calate in una realtà complessa. La guerra finisce improvvisamente così come era incominciata, lasciando una nazione piegata, ma la resilienza acquisita negli anni precedenti permette alla popolazione di tornare di nuovo a combattere, questa volta non una guerra, ma una battaglia per la vita, per la ricostruzione, per dimenticare i giorni in cui il suono che si sentiva non era altro che il ronzio sordo degli elicotteri, il lacerante sibilo dei cacciabombardieri, l’assordante rombo delle esplosioni, le urla ed il dolore. Beirut si rialza con la dignità che le appartiene e con lei la sua maratona che quel anno, nonostante tutto, fu regolarmente ai nastri di partenza il 26 novembre. Indirizzando ancora una volta una parte dei proventi alle vittime delle bombe a grappolo che dalla fine del conflitto in agosto avevano già mietuto vittime e feriti. Il sogno di May El Khalel continua a volare alto, la sua maratona unisce ciò che molte parole spesso non riescono a ricongiungere.
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Andorno Micca - BIELLA
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tappa conclusiva
46 km / 21 00 D+
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21 km / 900 D+ s e g g ia t s a p il a r it m in
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“ VINCERE NON É TUTTO, MA VOLER VINCERE SÌ Vince Lombardi
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R Intervista ad Antonio Annoni
L’avventura continua nel 2010
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Parole, immagini, emozioni di un anno di corsa... Strade, sentieri, deserti... l’avventura continua nel 2010 Campagna rinnovo abbonamenti Affrettatevi a rinnovare il vostro abbonamento a X.RUN e a completare l’intera collezione. Collegatevi al sito www.xrun.eu oppure scrivete ad abbonamenti@xrun.eu e vi forniremo ogni informazione necessaria. Il costo dell’abbonamento annuale a X.RUN, cioè 6 numeri comodamente a casa vostra, è di soli 50 euro
“ LA FELICITÀ DIPENDE PIÙ DALLA DISPOSIZIONE INTERIORE CHE DALLE CIRCOSTANZE ESTERNE Benjamin Franklin
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Fuori dall’uscio @ New York
No Sleep Till Brooklyn
testo di Alberto Zambenedetti foto tratte dall’Archivio Zambenedetti
Coney Island Quella che arriva a Coney Island, dove ci sono i guerrieri della notte, la ruota panoramica sbiadita, l’ottovolante bianco che scricchiola e barcolla, e gli hot dog di Nathan’s, succosi e colesterolici. Dove si cerca refrigerio in agosto, fra una mezza dozzina di vongole cherrystone e una birra gelata. Coney Island e la sua passerella di legno, con i chiodi scoperti che graffiano le suole delle scarpe quando le gambe sono pesanti e sembra di correre nel fango. Oggi scaliamo Prospect Park, capolavoro sublime di Frederick Law Olmsted e
Secondo incontro “Fuori dall’uscio” con un veneziano trapiantato nella Grande Mela
R Fuori dall’Uscio: No sleep till Brooklin
Sunset Park, Bay Ridge, Fort Hamilton e ritorno, itinerario lineare, otto miglia esatte. Su e giù per Fifth Avenue, nella corsia riservata alle biciclette, coi gomiti larghi per non farsi intimidire dal traffico che mi sfreccia a fianco pericoloso ed incurante. Casa, Verrazzano Bridge e ritorno, passando per i quartieri latino, cinese, arabo, e infine quello italiano, con nomi vagamente familiari che qui suonano esotici, con quelle vocali che cadono molli sulla punta della lingua. Cambiano le insegne, i colori, la gente sui marciapiedi che mi guarda passare con curiosità. A volte arriva inaspettato un cenno della testa, un segnale di riconoscimento immediato, quasi una stretta di mano massonica. Ci vedremo alla prossima gara, sicuramente. Magari proprio alla mezza maratona. La nostra gara.
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Ecco Brooklyn, finalmente Attraversare Red Hook, Cobble Hill, Carrol Garden. Quartieri in crescita, un po’ yuppie, un po’ bohémien, con le loro botteghe di moda alla moda per modaioli, i ristoranti pretenziosi che servono cibi importati, gli affitti alle stelle. Brooklyn Heights, Dumbo, Fort Greene. La storica promenade guarda i grattacieli scintillanti di Lower Manhattan, un po’ invidiosa e un po’ snob, quasi francese, protetta dallo specchio d’acqua che la ripara dal crollo dei mercati finanziari mentre si gode in pace lo spettacolo della baia. La mia sagoma si riflette
Prima la solitudine ascetica del Manhattan Bridge, con i suoi treni rombanti e stridenti, carichi di pendolari
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R Fuori dall’Uscio: No sleep till Brooklin
Calvert Vaux, soffice oasi verde che offre un po’ di sollievo da quel cemento cittadino chiaro e durissimo che tortura le ginocchia. Prospect Park e il suo lago con le anatre, che d’inverno si ghiaccia e sembra di stare Finlandia, con la sua collina ripidissima che disarciona i ciclisti, i barbecue domenicali che emanano soavi profumi di carne alla griglia ed effluvi di metano che tagliano il fiato. Tre miglia e trentacinque iarde umide e bollenti d’estate, con i bambini scalzi che scappano nel loro film, inseguiti da genitori giovanissimi e ansiosi. Un percorso disegnato fra alberi altissimi che si riposano solo in autunno, spogliandosi prima di andare a dormire, che ricoprono la strada di un crepitante tappeto di foglie rosse e gialle che marciscono lentamente, e diventano scivolose e tristi. Prospect Park, una pista bianca e accecante d’inverno, quando il cielo e la terra si scambiano di posto e solo i testardi non si lasciano confondere; quando la temperatura è sempre indicata al negativo e sembra di stare in un mondo al contrario, un mondo in cui inspirare lacera il petto ed espirare lacrima gli occhi. L’ambiziosa escursione a Manhattan, passando sopra i ponti lunghi, snelli ed indifferenti, sospesi sull’East River per preziosissimi ed interminabili minuti. Prima la solitudine ascetica del Manhattan Bridge, con i suoi treni rombanti e stridenti, carichi di pendolari che rientrano dal lavoro, volti ad occidente, gli occhi che si riempiono lentamente dello spettacolo arancione del sole che si allontana passando sopra il New Jersey. E dopo la solitaria discesa dalla rampa che invita ad andare veloci ecco il caos di Chinatown, i sacchi di immondizia ammucchiati ai bordi dei marciapiedi liquamosi, da saltare come gli ostacoli di gommapiuma colorata nei Giochi senza Frontiere. Giù verso City Hall, sceriffo impettito e solenne, schivando il traffico rabbioso della sera, preparandosi a una nuova salita lungo la pista ciclabile del Brooklyn Bridge. Slalom infernale fra i turisti a naso insù, che passeggiano ammaliati dalle geometrie astratte dai cavi di sostegno. Si sale digrignando i denti e alzando il pugno in risposta alle loro ingiurie poliglotte. Una storia da raccontare agli amici a casa, quel pazzo che per poco mi travolge mentre faccio una foto, grida e non si ferma, ma chi si crede di essere, se lo rivedo... E poi scivolare giù veloci, a ginocchia alte e petto in fuori. Brooklyn, finalmente. Di nuovo Brooklyn, sempre Brooklyn, No Sleep Till Brooklyn.
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brevemente sulle ampie vetrine delle gallerie sofisticate ed esclusive di DUMBO, il quartiere dall’acronimo impossibile, un po’ naïf un po’ civettuolo, con quei selciati traditori incastonati come diamanti fra alti magazzini che, fattisi il lifting, sono diventati condomini costosissimi e popolati di artisti. Eccomi sulla via di casa, passare finalmente per la Brooklyn Academy of Music, il cinema teatro più longevo degli Stati Uniti. Chissà che film danno stasera? Magari torno dopo, ultimo spettacolo alle nove e un quarto. Sono andato troppo lontano, come al solito. Meglio rientrare, meglio il confort rassicurante delle corse in gruppo, gli allenamenti fatti chiacchierando con esperti e novizi, con la canotta verde e gialla del Brooklyn Road Runners Club. Colori che temo sempre di non meritarmi abbastanza. Brooklyn, che ha dato casa ad un veneziano espulso e smarrito. Brooklyn, lesione osteocondrale al femore sinistro. Brooklyn, frattura da carico alla tibia destra. Brooklyn, condromalacia della rotula sinistra. Brooklyn, sindrome della banda ileotibiale sinistra. Brooklyn, 7 minuti al miglio e sprint finale. Magari domani mi riposo. Magari domani cambio giro. 109
R Fuori dall’Uscio: No sleep till Brooklin
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Ricca sezione Logos per questo numero autunnale: iniziamo con l’intervista a Marco Patucchi il giornalista e runner autore di “Maratoneti Storie di corse e di corridori” e proseguiamo con un gioco test e un racconto prima di concludere in bellezza con Lo zenzero e l’arte della Corsa che sta giungendo al gran finale.
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La corsa intorno
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Silvano Abbiamo incontrato Silvano ad Opera, la casa circondariale vicino a Milano. Stavamo affrontando il tema della lettura e della corsa. Farlo dentro un carcere, in un cortile di 10 metri di lato e circondato da pareti di cemento induce punti di vista diversi. Sarà difficile dimenticare la sua voce che incespicava per l’emozione mentre leggeva sul palco del teatro.
Vite, vite, toujours ma lente course The time run with me Allez-y And you control my time And you control my life And you control my running. Vite, vite, toujours ma lente course Douze passes, quinze passes ma lente course Je tour comme led dervisces Tourne et re-tourne pareille les dancerors. Vite, vite, ma lente course Avvolge impunemente il suolo e slega la mente, fatiche e dolore in petto scoppia il cuore. Vorticosa, ispida sacrale. Maledice, sublimi momenti d’assenza Around the wall, in to the walls I cry around the wall, I sing my silence, in to the walls I go, keep on turning, turning around, keep on turning take me away We've got to get in to get out
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Il cane
testo di Paolo Valenti foto di Alessandro Parlante
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Era stata fuori tutta la notte, minute goccioline di umidità si erano addensate sul suo pelo dorato ed ora, con le prime luci dell’alba, rilucevano di mille colori. Il corpo agile e leggero si stava riscaldando insieme alla rinnovata voglia di gioco ed alla curiosità. Poi avvertì, ancora lontano, il ritmo cadenzato di decine, centinaia, migliaia di passi, di scarpe di ogni colore che si avvicinavano, ma non era un suono minaccioso, anzi, trasmetteva un senso di libertà, un irrefrenabile desiderio di scoprire il mondo. Appena vide il primo schizzò fuori. Un fiume, invece di quegli ammassi di ferro che ammazzavano tutti i suoi amici c’erano solo loro, un fiume di padroni che correva indifferente in mezzo alla strada: era un nuovo gioco, senz’altro. Il suo di padrone o almeno quello che credeva di esserlo era arrivato a casa all’alba e aveva dimenticato il cancelletto del giardino aperto: come al solito del resto e lei ne approfittò subito e non era neanche uscita del tutto che già la coda si dimenava da sola. Poco ci mancava che venisse travolta subito da decine di umani accalcati e sudati che occupavano tutta la strada. Ridevano e scherzavano tra loro, giovani e vecchi, c’era uno in particolare che urlava come un ossesso mentre attorno a lui tutti ridevano e Sharon ne fu anche un po’ intimorita ma presto restò indietro e lei non lo sentì più.
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“ UN FIUME DI PADRONI CHE CORREVA IN MEZZO ALLA STRADA
Ogni tanto qualche suo simile le abbaiava dietro un cancello, da un balcone e lei rispondeva
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Stavano uscendo dalla città e la strada cominciò bruscamente a salire: gli uomini si diradarono subito distanziandosi gli uni dagli altri, quasi appesantiti dalla pendenza mentre lei correva leggera con quell’andatura obliqua tipica dei cani, curiosa di vedere verso quale luogo, certamente meraviglioso, stavano andando tutti quanti. Risalì attraversando piccoli borghi di gente festosa che se l’additava l’un l’altra, discese trotterellando ed a tratti anche al galoppo lungo un torrente annidato nel verde, e poi ancora giù ed ancora su per un ottovolante infinito: ed in mezzo gli applausi, le carezze dei bambini, l’infinito asfalto sempre più caldo. Ogni tanto qualche suo simile le abbaiava dietro un cancello, da un balcone e lei rispondeva, un po’ seccata però da quelle domande, da quella curiosità dove, ne era certa, c’era una grande invidia perché lei stava correndo libera ed anche abbastanza sicura, circondata com’era da tutti quei padroni. Finalmente giunsero in un grande paese tutto addobbato a festa dove famigliole accaldate e felici battevano le mani e i bambini si allungavano per carezzarla anche se lei era svelta ad allungare il passo con la lingua penzoloni prima che le tirassero le orecchie o cercassero di montarle in groppa, perché i bambini erano buoni e cari ma anche pericolosi, soprattutto se gli si dà troppa confidenza. Nel bel mezzo di una piazza vide acqua e tanto cibo, ascoltò della musica rumorosa provenire da un gruppo di signori vestiti con la divisa dell’accalappiacani ed accettò quasi titubante qualcosa da una signora gentile, mentre tanti si fermavano felici della loro impresa. Era stanca e pensò, perché i cani pensano, eccome se pensano, dunque pensò di essere arrivata, in fondo per quel giorno poteva bastare e poi si era allontanata parecchio da casa ma vide passare un tizio simpatico che aveva corso con lei e gli aveva anche dato una bella grattatina sotto l’orecchio e gli corse dietro festosa seguendo la strada che scese bruscamente, quasi si inabissò verso la stretta piega della valle dove scorreva il vecchio torrente. E da lì iniziò la lunga, interminabile salita. Correva piano adesso, al piccolo trotto ed ogni tanto girava il muso preoccupato verso il centro della strada dove sfrecciavano molte, troppe macchine, come per far comprendere a quegli uomini in canottiera che lì stava il pericolo. Lo faceva come tutti i cani che si rispettino, guardando prima la strada e poi, con gli occhi bassi, gli uomini: era una vera e propria richiesta formale di protezione, non potevano non capirlo. La strada saliva leggermente poi scendeva poi risaliva sinuosa, ad un certo punto si aprì in un grande slargo dove un ponte attraversava la stretta valle ed una diramazione risaliva ancor più stretta e attorcigliata verso un piccolo borgo. Fu tentata di andarci, sembrava un posto tranquillo e rilassante dove piazzare una solenne dormita dopo tutti quei chilometri, un posto dove far riposare i delicati polpastrelli già mezzi consumati ed abrasi e sanguinanti.
Tutti i cani facevano le stesse cose: correvano dietro ai cancelli, abbaiavano al cielo, odiavano le macchine
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Ma nessuno deviò dalla sua retta via, nessuno neanche guardò quel luogo delizioso e Sharon capì che avrebbe dovuto proseguire. Era un animale libero ma sentiva sempre prepotente il richiamo dell’uomo: amava scappare ma solo per poter ritornare ed in questo era il suo bello ed il suo limite. Passò trotterellando davanti ad un tavolo pieno di cibo, o almeno così pareva anche se non sentiva nessun buon odore, poi finalmente vide una grande tinozza piena d’acqua e si tuffò dentro. Era fresca ed un grosso uomo sudato in canottiera si mise a ridere mentre cercava una spugna da spremersi sulla testa. Poi ne passarono altri ed allora con un balzo uscì fuori e si lanciò alla rincorsa di un paio di scarpe arancioni, con lo stesso colore del gatto del vicino, quel maledetto rosso malpelo, un ladrone che gli soffiava sempre la pappa dalla ciotola. Poi vide la macchina, un po’ tardi ma aveva ancora dei buoni riflessi, così scartò di colpo mentre auto e guidatore si allontanavano inseguiti dagli insulti dei suoi nuovi amici. E rimediò anche una carezza che ricambiò subito con una vigorosa leccata. Era proprio una gran bella giornata. Ritornò indietro nel tempo alla sua infanzia di cucciolo, quando il cancello era sempre chiuso e lei inseguiva abbaiando tutte le macchine che passavano, ripetendo quel rito centinaia di volte ogni giorno: pensava di avere scoperto un gioco molto originale finchè un giorno, o forse era una sera, tutto rimase aperto e Sharon scoprì che tutti i cani facevano esattamente le stesse cose, correvano dietro ai cancelli, abbaiavano al cielo, odiavano le macchine. Aveva uno strano padrone, Sharon: uno che si piazzava per ore davanti ad un apparecchio dove altre figure si muovevano, figure incorporee però anche se da lì provenivano delle voci. Si ricordava di metterle sempre una bella ciotola di cibo che spesso proveniva direttamente dal tavolo da pranzo, le aveva preparato una specie di porta da cui solo lei poteva entrare e uscire per andare nel piccolo fazzoletto di terra incolto, il giardinetto di casa. La sera usciva e rientrava tardi e qualche volta dimenticava pure il cancello aperto, come quella mattina, ed allora era festa grande. E poi si fermava a volte a parlare con lei, aveva una voce dolce, vellutata con cui sembrava accarezzarla e lei si sedeva volentieri ad ascoltarlo e piegava anche un po’ la testa di lato perché aveva capito che lui si divertiva molto. Attraversò ripidi borghi innalzati in verticale e tagliò infiniti tornanti e corse e camminò ora a fianco di questo ora di quella cercando sempre di sorridere, come sorridono i cani naturalmente, a tutti quei nuovi amici. Adesso la pendenza si era addolcita, i grandi lecci formavano un bosco di fiaba appena trafitto da un sole che filtrava leggero, come se un unico grande ombrello avesse coperto gli ultimi chilometri di quell’interminabile salita: tanti uomini stanchi e sudati andavano più veloci del suo lento e faticoso passo. Sharon non poteva sapere cosa c’era scritto su quei cartelli che tutti guardavano con tanta attenzione, non avrebbe neanche capito il
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significato di chilometri o metri, per lei era solo fatica, zampe dal pelo biondo macchiato di sangue, uno stanco progredire verso un traguardo sconosciuto, una stanchezza infinita. Si avvicinò piano ad una grande fontana per bere ancora ma non riuscì ad alzarsi sino al bordo, finchè una signora pietosa le versò dell’acqua in una ciotola da dove aspirò avidamente e rumorosamente, poi qualcuno la sollevò, e qualcun altro le arruffò il pelo e si ritrovò in un grande piazzale dove tanta gente batteva le mani e tutti la guardavano attraverso piccoli apparecchi, come quello del suo padrone e poi sorridevano. La posero a terra dopo un grande arco verde e finalmente, senza sapere il perchè capì che quel giorno la sua corsa era finita. Da quel momento cominciò un’altra storia, appena meno faticosa: tutti quelli che passavano sotto quell’arco sentivano di doverla salutare anche se lei era troppo stanca anche solo per muovere la coda e poi aveva sempre una ciotola d’acqua fresca e qualcuno le aveva messo quasi davanti al muso un apparecchio molto grande e parlava anche, ma Sharon non capiva con chi. Però era felice di tutte quelle attenzioni, non avrebbe mosso un passo neanche per un osso ma era felice. Tutt’attorno era una gran confusione e sempre nuovi uomini e donne arrivavano, accaldati, stanchi e stupiti di trovare quel mucchietto di pelo stanco viziato, accarezzato, coccolato nel gran calore di quel meriggio d’estate. E poi la folla, come succede spesso, si diradò e quasi senza accorgersene lei si trovò sola, o quasi: il sole adesso non era più così caldo e sul corpo stanco il vento che soffiava sempre sul passo faceva scorrere brividi di freddo, bevve ancora dalla ciotola ma era un movimento meccanico, non vera necessità. In realtà non c’era più nessuno, passata l’eccitazione, la gioia, la frenesia di quel lungo gioco, pensò, anche i cani pensano, alla sua casa giù nella pianura, a decine di chilometri da lì. Se avesse saputo come fare forse avrebbe anche pianto, invece riuscì solo a uggiolare leggera. Quasi timorosa. Ma in fondo era un cane ed aveva l’incrollabile fede della sua razza nei confronti dei padroni e scodinzolava appena intercettava uno sguardo, anche di sottecchi. Così nella luce azzurra e scura dell’imbrunire un corridore, padrone e uomo guardò prima la moglie e la figlia e poi quel mucchietto stanco e lo raccolse con delicatezza e scesero da quel valico tutti assieme, forse non dalla stessa parte, ma chi l’ha mai detto che bisogna sempre scendere da dove si è saliti?
“ OGNI SOFFITTO UNA VOLTA RAGGIUNTO DIVENTA PAVIMENTO Aldous Huxley
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STORIE DI CORSA E DI CORRIDORI
Dopo il lavoro di Weber, dedicato in generale al mezzofondo, è probabilmente destinato a essere il testo di riferimento per la maratona, specialità cui è specificamente rivolto: “Maratoneti Storie di corse e di corridori”, per i tipi della B. C. Dalai editore, opera del giornalista economico de La Repubblica Marco Patucchi, in realtà appassionato runner, fa della gara su strada per eccellenza l’oggetto di una riflessione fra la narrazione e la saggistica.
specialità, con tutti i riferimenti necessari anche a ricostruirne la dimensione tecnico-atletica. Narrazione, perché gli agili capitoli in cui il testo è articolato soddisfano certamente anche il desiderio del piacere del racconto, a partire anzi dalla stimolante prefazione della sua collega Emanuela Audisio (“Perché dentro alla corsa c’è qualcosa. Uno spazio vuoto da riempire, un foglio bianco da sporcare, fango, sudore, schizzi, falsa indifferenza. (…) Non si corre mai per avere, casomai per perdere, perché tutto sfugge insieme ai chilometri, filo, fatica, desiderio.”). Se dalla Grecia antica veniamo all’epoca recente, troviamo le storie di corse celebrate dai media per la loro rilevanza agonistica, come le vittorie di Bordin e Baldini, di Zatopek, di Wolde, Gebrselassie e Tergat, o anche di campioni meno noti come l’ar-
A metà tra saggio e racconto Saggistica perché, a partire dal dato storico dell’emerodromo Fidippide (storicamente precisato nel mitizzato riferimento alle guerre persiane) e per venire poi alla gara divenuta classica nell’età delle olimpiadi moderne, ripercorre il susseguirsi di prestazioni che hanno fatto la storia della
gentino Cabrera. Ma ne troviamo altrettante in cui il sudore e le lacrime della lunga distanza si rivelano come metafore di fatiche e sofferenze ancora più profonde: sono le storie del bosniaco Islam Dzugum che si allena sotto i tiri dei cecchini o del palestinese Nad el-Masri che si allena a Gaza (“Con l’israeliano io corro, perché lo voglio battere. Non ha aerei, non ha armi. Ha due gambe come le mie.”), del lost boy sudanese Macharia Yuot, dell’argentino Miguel Banancio Sanchez desaparecido nel ’77, dell’“ebreo etiope” Haile Satayin, di Luca Coscioni, dei keniani coinvolti nei torbidi della recente guerra civile, perfino di bambini-prodigio la cui infanzia viene sacrificata sull’altare di un futuro da campioni non più che possibile. Per qualcuno il destino sarà quello tragico del suicidio, come per il
keniano sans papier John Maina o fine si figura comunque nello per il giapponese Kokichi Tsu- stesso ordine d’arrivo dei grandi campioni: “Ognuno ha vissuto il buraya. proprio momento di crisi, quando una parte del cervello ti dice di Storie sorprendenti In mezzo, altre personaggi e fermarti, ma l’altra ti ricorda storie sorprendenti, come Alan quanto hai faticato per essere lì in Turing (padre della logica dell’in- quel momento. Che stai correndo formatica moderna, genio ma- insieme a 35mila persone una tematico che fu in realtà runner di gara nella quale, in realtà, l’unico notevole talento, lui stesso poi partecipante sei tu: la sfida a suicida), Shizo Kanakuri (il giap- superare un tuo limite, a ragponese che lasciò incompleta la giungere un tuo personalissimo maratona olimpica di Stoccolma obiettivo. Microscopico davanti a 1912 e fu invitato a completarla quello di Haile Gebrselassie, ma nel ’67), perfino il grande Chaplin; altrettanto prezioso. Perché nella o come le maratone “gemellate” democrazia della maratona corche i soldati americani corrono in riamo tutti sulla stessa strada.” contemporanea alle “sorelle La Grande Storia sullo sfondo maggiori” nei luoghi di guerra. La maratona si manifesta in tutte Un racconto reso ricco dai rile sue dimensioni, quella di arte ferimenti alla Grande Storia, comarziale di un uomo che, citando me per Monaco ’72: “Sulla pista, il Covacich, “pensa con il corpo”, gruppo dei 68 runner che si ma anche quella di una com- contenderanno l’oro. Ma è una petizione, forse l’unica, in cui alla maratona che non si sarebbe mai
dovuta correre. Sarebbero stati più giusti il vuoto e il silenzio di quello stadio che appena cinque giorni prima vibrava di commozione nel celebrare gli undici campioni israeliani uccisi dal commando palestinese di Settembre Nero.”. E come per New York 2001: “Non la commozione di un attimo, ma l’inizio di un viaggio di 42 chilometri e 195 metri attraverso il dolore e l’orgoglio, la paura e la speranza.” Un racconto che si chiude con un sogno lì dove si era aperto: la scrittura a colmare un vuoto, mentre una tendinopatia faceva mancare a Patucchi “il rumore cadenzato delle scarpe sulla strada, la soddisfazione intima e impagabile che si prova al termine di ogni uscita. E quegli attimi di gioia cristallina che talvolta ci fanno vedere la felicità, come se esistesse davvero”.
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LE CORSE DI COSMO IN CERCA DI SE STESSO
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In questo suo Vedere di corsa e sentirci ancora meno, Marco Frattini ha scelto l’espediente del diario giornaliero per introdurci nel mondo complesso di Cosmo Capoverde, un personaggio talmente autobiografico da poter essere definito un alter ego dell’autore stesso. Il romanzo inizia di buon mattino, il primo gennaio 2008 e si conclude il 31 dicembre dello stesso anno, salvo un’ultima annotazione, quasi un epilogo, il 1 gennaio 2009. La tecnica di scrittura è quella propria dei diari, un flusso di parole che dall’anima arriva alla carta, e fin dalle prime giornate viene tratteggiato il mondo di questo giovane uomo a confronto con la vita. Il rapporto forte con gli amici, i problemi economici, la voglia di famiglia che si riflette nei rapporti con la nipotina e, soprattutto, nella ricerca di una
compagna. Storie ordinarie di un giovane del nostro tempo che con una profondità umana insolita, riflette e analizza prima di tutto sè stesso e poi il comportamento umano. Vi sono dei temi ricorrenti, in primis la difficoltà a rapportarsi con alcune figure femminili. Non con le donne in genere, ma con alcune amiche con le quali sente un’affinità maggiore. Così si interroga sull’eterno dilemma della possibilità di un’amicizia tra uomo e donna, e se questa può sfociare in amore. Cosmo/Marco non nasconde certo i suoi sentimenti nel suo narrare. Racconta di tutti i dubbi sulle strategie dell’approccio, delle pazzie che si fanno per amore e come queste vengono accolte. Se v’è riserbo nel suo narrare è più per proteggere loro, le sue muse, che per timore di svelare sè stesso.
Vedere di corsa e sentirci di meno può essere acquistato a 12 euro scrivendo a frattellox@gmail.com
L’altro tema ricorrente è la difficoltà di comunicare, di partecipare attivamente alle conversazioni. Cosmo/Marco svela, quando si è già avanti nella lettura, della malattia che lo ha portato alla condizione di non udente. La cosa è percepita già in precedenza ma solo in un secondo tempo viene affermata con precisione, facendo leggere in modo diverso il personaggio che, appassionato di musica, si è visto privare del senso più necessario. Affronta la malattia con coraggio, e non si ferma certo a piangersi addosso, rivelando una grande determinazione. La stessa che troviamo in tutti i suoi progetti: il Teatro del Silenzio, il cambio di casa, lo stesso scrivere il libro e, ovviamente, la corsa. La corsa è il filo rosso che tiene insieme tutto il libro, anche se non di corsa esso parla. Cosmo/Marco corre con passione,
ma da quando si è iniziato a porre degli obbiettivi specifici, ha iniziato ad allenarsi con una tenacia che sarebbe propria dei professionisti più che degli Amatori. E la sua arma segreta è la determinazione che ci mette. Così non stupisce che raggiunga i suoi risultati e in questo modo riesca a riscattare altre cose che sente come sue defaillance. Correre per l’autore è un modo di comunicare, e questa forse è la chiave interpretativa di tutto il libro. Dall’inizio alla fine è un testo gonfio di parole e di significati. Molto più profondo, in ogni considerazione, di quello che ci si potrebbe aspettare. La sensazione è che Marco Frattini abbia molte cose da dire e da condividere e cerca nella corsa (in modo metaforico) e nella scrittura del libro (in modo diretto) la
possibilità di conversare con il mondo. Il libro ti prende fin dalle prime pagine, un po’per quella curiosità morbosa di entrare nella vita altrui da voyeur di reality, un po’ perché ci si ritrova nelle avventure di questo giovane dentista, innamorato dell’idea dell’Amore, alle prese con un rapporto di affetto/conflitto con i suoi genitori e perennemente in cerca di un equilibrio.
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I DIARI DI UN EROE INCONSAPEVOLE
Chi era Anatolij Bukreev? Un alpinista, uno sportivo dotato di qualità atletiche fuori dal comune, uno dei migliori esempi di una scuola di alpinisti misconosciuta ai più, quella sovietica. Ma Bukreev era anche un uomo molto profondo nella sua semplicità. Grazie a capacità fisiche, mentali e morali eccezionali Bukreev riuscì a compiere imprese straordinarie anche sulle vette più estreme, quelle himalayane, ad una velocità ed un ritmo altissimi. Nella sua carriera si possono citare tra le altre 21 vette oltre gli 8.000 metri, di cui 4 volte quella dell’Everest. Era anche un ultrarunner capace di correre in allenamento 90 km. Un posto in cielo è stato pubblicato postumo grazie all’impegno di Linda Wylie, compagna di Bukreev che scomparve il giorno di Natale del 1997 sull’Annapurna, sotto una valanga che
risparmiò Simone Moro, L’italiano suo compagno durante quel tentativo. Bukreev è anche un nome che forse ricorderà chi ha letto il best seller di Jon Krakauer “Aria Sottile” che narra di una delle peggiori tragedie sull’Everest, mettendo ingiustamente in cattiva luce il ruolo di Bukreev in quella vicenda, poi chiarita rendendo onore all’alpinista russo. Un posto in cielo nella mia percezione non è da leggersi solo come la raccolta ordinata dei diari di un atleta, come narrazione delle sue gesta inframmezzata da spunti poetici profondi, ma anche come un testo di “filosofia dello sport”, quasi un breviario laico su come si dovrebbe vivere qualisiasi sport. Credo che non ci siano modi più efficaci per trasmettere questa visione se non citare dei passaggi del libro: Le montagne non sono stadi dove soddisfo la mia am-
bizione di arrivare. Sono cattedrali, grandiose e pure, i templi della mia religione. Mi accosto a loro come qualsiasi essere umano si accosta ad un luogo di venerazione. Sui loro altari mi sforzo di perfezionarmi fisicamente e spiritualmente. In loro presenza tento di comprendere la mia vita, di esorcizzare la vanità, l’avidità e la paura… Esamino il mio passato, sogno il futuro e avverto in maniera particolarmente acuto il presente… A ogni impresa rinasco. Potrebbero essere parole di un monaco tibetano, potrebbero essere parole di Dawa Sherpa, non di un superman dello sport orientato solo al risultato, e ancora: Le grandi montagne sono un mondo completamente a parte: neve, ghiaccio, roccia, cielo, aria sottile. Queste cose non puoi conquistarle, puoi solo elevarti alla loro altezza per poco tempo e in cambio esse ti chiedono molto…. Ogni montagna
Un posto in cielo, di Anatolij Bukreev (CDA & Vivalda), 22 euro
è diversa dalle altre, ognuna è una vita differente che hai vissuto. Arrivi in cima dopo aver rinunciato a tutto quello che credevi necessario alla sopravvivenza ti trovi solo con la tua anima. In quel vuoto puoi riesaminare, in un’ottica diversa, te stesso e tutti i rapporti e gli oggetti che fanno parte del mondo normale Sostituite la parola “montagna” con la parola “corsa”, “maratona”, “ultramaratona”, “trail”, “ultra trail”, “pista” e la parola “cima” con la parola “arrivo” o “traguardo”, togliete un po’ del rischio mortale che comporta una vetta di 8.000 metri e forse seguirete il mio pensiero, la mia prospettiva di lettura del libro (anche) in termini di running. La bellezza del testo, una raccolta dei diari che parlano della filosofia e dello stile dell’autore, sta nelle riflessioni che Bukreev fa della vita, ma anche nella toc-
cante semplicità con cui racconta di imprese sportive magnifiche compiute con una scarsezza di mezzi economici e tecnici da lasciare senza parole. Bukreev rimase infatti travolto dal crollo politico ed economico dell’Unione Sovietica e si trovò senza le risorse tecniche ed economiche per praticare il suo sport. A voler fare un paragone neanche tanto forzato pensate ad un maratoneta con le potenzialità per vincere l’oro olimpico che fatica a trovare i soldi per le scarpe o per pagarsi viaggi ed iscrizioni alle competizioni. Anche questo è un angolo di lettura che suscita interesse, che si può anche contestualizzare pensando alla corsa, ai talenti della Rift Valley per esempio, agli sforzi che fanno quelli che provano comunque a selezionarli, ad allenarli, ad aiutarli ad emergere, a gareggiare e magari a vincere. È
quasi commovente leggere di un atleta di livello mondiale che, ritenendo la corsa una chiave di volta della sua preparazione, visitando i negozi americani resta quasi sconcertato realizzando che sono disponibili scarpe pensate per la corsa, un attrezzo quasi da astronauta per un sovietico di quei tempi e di quell’estrazione sociale (lui e si suoi compagni correvano distanze importanti con scarpe da montagna o scarponi da lavoro). Confesso che dopo aver letto il passaggio sulle scarpe da corsa ho contato le paia di “attrezzi” da running e da trail nel mio armadio ed ho provato una strana sensazione di eccessiva abbondanza, soprattutto pensando che avrei dovuto scendere anche in cantina per finire la conta (non me ne vorranno gli amici Angelo e Giordano di un certo negozio di Milano).
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Helen Keller
E DI MODI PER SUPERARLA
“ IL MONDO È PIENO DI SOFFERENZA
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Gli autori
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xrun settembre/ottobre 2010 Come collaborare Per scrivere per noi, basta avere un’idea, voglia di scrivere e poi contattare la redazione di X.RUN scrivendo un’email all’indirizzo: redazione@xrun.eu
DANIELA BANFI IMPIEGATA 47 ANNI
MICHELE BARBIERI ASPIRANTE VIAGGIATORE “A VITA”
Nata in provincia di Milano e continua a vivere nello stesso paese, è mamma di due ragazzi. Ha iniziato a correre intorno ai 28 anni per “fare il fiato” per un altro sport che l'appassionava moltissimo: la “Kickboxing”. Ha ripreso a correre dopo due anni dalla nascita del secondo figlio, nel 2001, all’inizio, per gioco poi un giorno vedendo le immagini della maratona di Venezia ha detto al marito : “un giorno correrò anche io una maratona” e così nel 2003 ha esordito proprio a Venezia, e da allora non si è più fermata. A Daniela piace mettersi alla prova e cambiare. Dotata di un animo inquieto ed avventuriero, ha provato sia gare in pista, che corse in montagna. La prima volta in assoluto in montagna fu alla Biella Monte Camino, poi via, via altre, in Svizzera, nel Biellese, in Valdaosta e in Veneto. Ama questo ambiente, il clima che si respira, il contatto con la natura, le asperità del terreno, le nuvole che a volte appaiono a portata di mano: per quanto dure siano le gare la rimettono in pace con il mondo. Si allena 4 volte la settimana, cercando di far combaciare gli impegni di lavoro e famiglia. A volte deve fare delle levatacce per correre e rientrare a casa in tempo per svestirsi dagli abiti di podista e indossare quelli di mamma.
Fin dalla nascita ha mostrato fretta di conoscere il mondo. È nato in anticipo mentre la madre si godeva la terza maternità a Chiavari. Dai genitori eredita la passione dei viaggi attraverso estati spese a in giro per l’Europa con la tenda. Conosce Cristina, la moglie, con la quale condivide questa passione e che lo seguirà in ogni avventura. Zaino in spalla e scarpe da trekking o bicicletta sempre in tenda, visitano molti paesi extraeuropei (Canada, Alaska, Perù, Patagonia, Malesia, Cina, Islanda ...) La grande passione per la montagna li porta anche anche a numerose ascensioni sci-alpinistiche sulle Alpi. Ultimamente, grazie alla mountain bike scopre l’ebbrezza di poter “viaggiare” in montagna d’estate su strade militari o single track. Prende il titolo di Accompagnatore di Mountain Bike e con alcuni amici organizza un gruppo di bikers. Grande amante di fotografia, prima su pellicola e poi digitale, documenta i viaggi ma anche semplicemente gli eventi sportivi degli amici, le gite in montagna con la MTB o con gli sci. Da novembre 2008, Michele e Cristina hanno iniziato un nuovo e speciale viaggio: sono diventati genitori di Gaia. Anche lei ha subito dimostrato di avere un DNA da viaggiatrice accompagnadoli a Toronto per una decina di giorni.
RICHARD BENYO GIORNALISTA
STEFANO BETTIO IMPRENDITORE 52 ANNI
ANDREA BUSATO PROFESSORE 47 ANNI
Richard è editore e giornalista di Marathon & Beyond una rivista americana cui X.RUN deve molto. Autore di molti libri, tra cui un celebre “Masters of the Marathon” pubblicato nel 1983 da Athenum Books, dove con alcune piccolo modifiche era stato pubblicato l’articolo che ci propone in questo numero. Richard è anche un atleta che ama le sfide, a partire dalla realizzazione del suo giornale, fino a diverse ultra maratone anche in ambiente naturale.
Si chiama Stefano ma si fregia di un nome di battaglia trail che lo definisce meglio: “Tetano” È il presidente della gloriosa Venezia Runners Atletica Murano. Ha sempre praticato sport. Nel 1999 a New York è rimasto folgorato dalla corsa di resistenza. Per sua sventura, dopo un’onesta attività di corsa su strada, si è imbattuto nella tempesta perfetta e proprio allo scoccare della cinquantesima candela. Il fato ha voluto che si scontrasse con un treno in corsa formato da sei pazzi scatenati che, invece di invecchiare ammazzando il tempo giocando a briscola bestemmiando e ruttando come la quasi totalità della popolazione veneziana, hanno di punto in bianco infilato le scarpe da trail, ma non per andare a funghi, ma bensì per girare attorno al Monte Bianco di corsa senza mai fermarsi notte e giorno. D’estate , mangia poco, dorme meno, passa le ferie correndo e leggendo libri sul medioevo e sulla storia della sua città. Ha il viso scavato e rugoso ma non saprebbe fare a meno della corsa nei boschi assieme alle canaglie della famigerata Gang del Bosco di Dio. Si diletto in terrazza con le sue piante e scrive per diletto racconti e poesie. Nel cassetto ha il sogno di scrivere libri e favole per ragazzi e adulti simpatici.
Classe ’62, pordenonese. Quando da bambino gli altri lo battevano in velocità, lui la buttava sulla resistenza, e da allora gli è rimasta. Poi gli è venuta anche la passione per la musica. Alle spalle una dozzina di maratone soddisfacenti, più altre sei da pace-maker e altro e non troppo indecoroso mezzofondo. Poi una serie di acciacchi fisici lo costringono a correre di meno: per un po’ si diverte lo stesso, ma adesso che la lotta contro i chiletti di troppo si fa sempre più dura sta cercando qualcosa di meno faticoso. Avrebbe trovato un altro sport che gli piace, il golf. Ma mentre questo lo respinge, il podismo non lo rivuole indietro. Alleva con passione Elena e Nicola, nel resto del tempo fa l’insegnante nel liceo che lo aveva visto studente.
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FEDERICA CATAUDELLA BUSINESS CONTROLLER 35 ANNI
MAURO CREATINI DIRIGENTE 43 ANNI
FRANCO FAGGIANI GIORNALISTA
Federica è nata a Genova e la passione per l'acqua l'ha portata presto a cimentarsi nelle piscine della Sportiva Sturla dove si è allenata per 6-7000 metri al giorno fino ai 18 anni. Il nuoto a livello agonistico ha formato il suo carattere e l'ha resa cloro-dipendente. Frequenta da sempre la montagna, e nei weekend invernali e primaverili si dedica allo scialpinismo: il Monte Bianco è stata la cima più prestigiosa conquistata con le pelli di foca e l'Etna la più emozionante. Federica non disdegna neppure la mountain bike con la quale ha attraversato l'Islanda, la Scozia, il Salar de Uyuni in Bolivia e il Madagascar. La corsa è un di cui, serve a completare la preparazione e a sfidarsi su gare particolari come la CCC o la Monza Resegone. La passione per tanti sport l'ha portata al triathlon, e al Road Runners Club Milano. Dal triathlon si aspetta anche qualche soddisfazione, nonostante nell'azienda per cui lavora sia già considerata una IronWoman. E forse anche per questo il prossimo obbiettivo è l'EmbrunMan. Il segreto di Federica per portare avanti tutte queste attività è Filippo, il figlio di un anno e mezzo, fonte inesauribile di energia.
Sposato con due figli. Durante la settimana le uscite di allenamento sono all’alba, nei parchi della Brianza (dove vive) e nei week end sulle strade della Liguria o della Valtellina. Corre con la gloriosa maglia del Road Runners Club di Milano. Sino a pochi anni fa era solo un runner della domenica, che correva per non ingrassare. Dal 2005, grazie all’inseparabile “socio” Pietro, ha cominciato con la mezza, poi la con la maratona e con tutto il resto. Da qualche tempo, complice un insopprimibile desiderio di libertà e di semplicità, che il suo lavoro gli nega, vive la corsa soprattutto sul fronte emozionale, tanto che spesso la fine dell’allenamento coincide, oltre che con lo stretching e la doccia, con lo scrivere una piccola poesia, un pensiero, per provare a fissare le sensazioni che la corsa gli ha regalato.
Venuto al mondo a Roma da padre argentino e madre lussemburghese… un casino, insomma, fin dalla nascita. A 19 anni ha vissuto per alcune settimane in un angolo sperdutissimo della Nuova Guinea con i componenti di una tribù che avevano visto per la prima volta l’“uomo bianco” appena due mesi prima. Si sono spaventati e dopo un po’ l’hanno rispedito a casa. Con dentro il germe del fotoreportage, con il quale ha poi campato diversi anni. Fin quando suo padre, pragmatico operaio, un giorno gli chiese: “ma fai sempre quel lavoro strano o hai messo la testa a posto?” Così si è trovato un posto più stabile in diverse redazioni, affiancando alle cronache la scrittura di libri e manuali. Attualmente si occupa di giornalismo legato all’ambiente e alla campagna, con una “specializzazione” in enogastronomia. Per il lavoro che fa e per lo stomaco che ha dovrebbe pesare 150 chili. Ne pesa solo 80. Grazie allo sci da fondo in inverno, all’arrampicata in estate e, da un paio d’anni, alla corsa sui sentieri, sempre.
JOHN J. KELLEY NEGOZIANTE
ALESSANDRA MEZZELANI RICERCATRICE 45 ANNI
MARCO NEGRI OSSERVATORE 49 ANNI
John è un famoso runner, celebre per il nome che porta con orgoglio e per la vittoria nel 1957 alla Boston Marathon. Passa le sue giornate al “Kelley’s Pace”, il suo negozio di attrezzature sportive a Mystic nel Connecticut, chiacchierando con i clienti. Ama scrivere e leggere (in particolare Kerouac a Thoreau).
Milanese, è madre di tre figli, però bravi. In passato ha praticato quasi tutti gli sport acquatici, come le terme e l'idromassaggio, e quasi tutti quelli invernali, soprattutto la funivia e le palle di neve. Fisicamente e psicologicamente negata e inadatta per ogni tipo di attività fisica e non, in età adulta si accosta alla corsa venendone rapidamente scansata. Il costante impegno le fanno guadagnare il titolo di “Regina delle finto atlete” facendola così entrare, di diritto, nel tunnel della corsa: legge, parla e scrive sempre e solo di corsa senza quasi praticarla. Dopo aver inutilmente cercato di persuadere i suoi sottoposti a partecipare ai famigerati “Mercoledì della corsa”, da lei stessa istituiti, viene nominata dai colleghi “La Contessa Cobram” a ricordo del più famoso e fantozziano Visconte Cobram. E' l'inventrice del kilometrino (0,8 km), l'unità di misura che concilia corsa, inettitudine e pigrizia. Ha al suo attivo: 1 Stramilano non competitiva, 1 trofeo DRS di corsa virtuale, 2 stiramenti, 1 tendinite e 1 distorsione; e possiede già 4 magliette della Praga Marathon 01, però regalate. Dopo aver letto “Lo Zen e l'arte della corsa” si è avvicinata alle discipline orientali come il sushi e il sashimi Perché corre? Perché è l'unico sport non praticato in famiglia.
Nato quasi mezzo secolo fa in quel di Parma, ha passato i primi 594 mesi della sua vita osservando il mondo. Quindi, oggi, poco o nulla può stupirlo. Sportivo praticante da sempre, ne ha tentate parecchie. Ha provato col calcio, il baseball, lo judo, lo sci, il tennis, il triathlon, il podismo e infine s’è gettato sul ciclismo. E’ famoso soprattutto per non aver mai vinto una gara ma ciò nonostante non ha mai mollato, perché crede fermamente nel calcolo delle probabilità. Tra un allenamento e una defaillance ha provato la triplice gioia della paternità e a breve arriverà la quarta. Divide il suo cuore da sportivo con Simona, una splendida e dolce ragazza che ancora oggi s’interroga sul come abbia potuto farsi sedurre da un tipo del genere. Lui spera ardentemente che lei rimanga nel dubbio, almeno per i prossimi 594 mesi. Coerente con sé stesso e i propri ideali, non si è mai sottoposto a controlli antidoping né a test di paternità. E non solo perché ci siano cose che è meglio non sapere, ma perché proprio non ha un capello da sacrificare in nome del DNA.
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ROGER OLIVIERI DOTTORE COMMERCIALISTA 44 ANNI
SILVANO
PAOLO VALENTI VENDITORE DI IDEE 57 ANNI
Nato a Pescara, vive e lavora a Milano dal 1992 nel proprio studio professionale. Convive dalla nascita con le passioni della famiglia paterna e materna, infatti mare e montagna si alternano nelle sue attività sportive. Pratica vela (con buoni risultati a livello nazionale), sci di fondo , nuoto, corsa e trail poiché da sempre ha avuto la passione per la corsa e gli sport di resistenza. Nel 2009 ha affrontato i primi trail su distanze corte e da quel momento sogna le grandi distanze se il lavoro lo permetterà. Corre per il Road Runners Club Milano.
Abbiamo incontrato Silvano durante una delle conferenze sulla lettura presso il carcere di Opera vicino a Milano. Non è un corridore, non è un letterato, ma è un uomo con grande passione. E questa passione emerge in quello che scrive, e soprattutto quando legge ad alta voce le sue opere.
Nasce a Milano e vive a Milano con saltuari soggiorni lavorativi in Africa centrale e in Centro America. Corre alcune maratone come non competitivo dall’età di 31 anni all’età di 31 anni, nel 1982. Corre di nuovo dall’agosto del 2003, questa volta con più continuità, come competitivo. Non è un gran chiacchierone e preferisce scrivere. Ha incontrato sua moglie 37 anni fa ed esattamente lo stesso giorno del primo bacio, trent’anni dopo, l’ha sposata (o lei ha sposato lui, invertendo l’ordine il risultato non cambia): in qualche modo corrono sempre assieme, perché correre è uno stato dell’anima prima che un movimento del corpo. Editoria, pubblicità, marketing, agente pubblicitario sempre con il filo conduttore del turismo e dell’editoria. Ha creato un elenco di 50 gare, “Una nella vita”, che deve riuscire a fare prima di sera.
ALBERTO ZAMBENEDETTI
ANDREA ZAMBON CONTABILE 38 ANNI
MAY ZEIDAN CASALINGA
Nato e cresciuto a Venezia, Alberto è un giramondo coi piedi per terra. Pragmatico sognatore al tempo stesso, coltiva le sue passioni ovunque vada, e dove vada, non si può mai dire. Perito informatico, letterato, critico e studioso di cinema, insegnante universitario ed abilissimo a bluffare, Alberto si è trasferito a New York nel 2003, dove corre con il Brooklyn Road Runners Club inanellando infortuni a causa della sua proverbiale incostanza negli allenamenti. In linea con la sua personalità contraddittoria, il suo momento di gloria e quello di massima idiozia coincidono: nel 2009 ha corso la maratona di New York con una gamba ingessata.
Nato a Venezia vive a Murano, è sposato con Roberta e ha una splendida principessa di nome Sofia. Pratica lo sport per passione e si dedica alla corsa: si considera un ultramaratoneta – ultratrailer. Infatti considera solo le gare con un chilometraggio dalla maratona in su. Sulla distanza classica (che corre come allenamento) viaggia tra le 3:15 e 3:30 e svolge spesso il servizio di Pacer. Ama gareggiare prevalentemente in Italia e in Francia. Scrive nel forum Spirito Trail.
May è nata a Beirut dove ha frequentato l’università francese Saint Joseph laureandosi in “Pubblicità & Comunicazione”. Ha iniziato a lavorare come pubblicista e come reporter per alcuni talk show, fino a quando ha trovato un impiego fisso presso il Ministero delle Telecomunicazioni libanese. Proprio a causa del suo lavoro è entrata in contatto con Antonio, un italiano che stava lavorando a Beirut, e che ha sposato. A causa del lavoro di Antonio si trasferisce spesso, così ha vissuto in Italia, in Spagna ed in Etiopia. Madre di due bambini, dopo la nascita del secondo figlio ha lavorato per l’Ambasciata italiana a Beirut. Ma gli impegni familiari l’hanno obbligata a lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia e alla sua passione per la corsa. Si definisce “una donna normalissima come tutte le donne del mondo, sposate e con bambini”.