YOD MAGAZINE. INSIGNIFICANZA

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collana editoriale

YOD MAGAZINE yodmagazine.com - carta - tablet

Luca De Santis Saverio Congedo Carlo Salvemini Carlo Ciardo Alberta Giani Giovanni Scarafile Laura Imai Messina Ippolito Chiarello Giuseppina Marselli Maurizia Pierri Matthias Armgardt Juliana De Albuquerque Katz

insignificanza



YOD Magazine è una iniziativa editoriale, diretta da Giovanni Scarafile, dedicata ai temi della comunicazione in una prospettiva interdisciplinare. Luca De Santis

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Laura Imai Messina

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Maurizia Pierri

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Juliana de Albuquerque Katz Alberta Giani

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Carlo Ciardo

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Editoriale Sulla mancanza del significato In lode dell’insignificanza: testa dura e cartoline. Insignificanza nel diritto o insignificanza del diritto? “Don’t try!”

Il senso dell’insignificanza

Paradossi dell’insignificanza espressiva

Saverio Congedo Carlo Salvemini

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La politica di fronte alla sfida dell’insignificanza a cura di YodMagazine

Ippolito Chiarello

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Ogni volta che parlo con me

Giovanni Scarafile

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Giuseppina Marselli

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Matthias Armgardt

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Alberto A. Vinudo

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La vita desta. Un antidoto per l’insignificanza

L’umorismo salverà il mondo (forse) Surfing in interdisciplinarity A dialogue with Juliana de Albuquerque Katz

Visioni. La perigliosa frontiera a cura di Giovanni Scarafile

Il sito di YOD Magazine è: www.yodmagazine.com Per citare gli articoli di questo numero: Nome e Cognome dell’Autore, Titolo dell’articolo in G. Scarafile (a cura), YOD Magazine. Insignificanza, Lulu Enterprises Inc, Raleigh N.C. 2014, pp. Progetto grafico e impaginazione Roberta Pizzi | www.robertapizzi.com Contatti: Direzione Scientifica YOD Magazine Via De Virgilis, 56 72022 Latiano (BR) Giovanni Scarafile direttore@yodmagazine.com YOD Magazine. Insignificanza ISBN: 978-1-291-76404-8

Armonie

L’immagine di copertina è: Rush Hour | JanneM - Janne Moren | CC BY-NC-SA 2.0 www.flickr.com


Giovanni Scarafile

editoriale

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iflettere sulla insignificanza a partire dalle suggestioni incluse nel volume di Milan Kundera, La Festa dell’insignificanza, pubblicato in anteprima mondiale in Italia (Adelphi, 2013) significa ragionare su un aspetto centrale della nostra esistenza. In particolare, significa rendere tematico il modo in cui conseguiamo la meta del nostro agire. In genere, ogni nostra azione è finalizzata al raggiungimento di uno scopo, più o meno liberamente scelto. Gli scopi possono essere di molti tipi e riguardare noi stessi o gli altri. Rappresentano ciò che merita di essere conseguito e verso cui quindi indirizzare gli sforzi. L’intera esistenza di un uomo trascorre all’interno di una tale dialettica tra posizione e conseguimento di scopi, ritenuti di volta in volta significativi. È immaginabile un modo diverso di esistere? Si può almeno allentare la catena che ci lega ad un tale meccanismo di conseguimento del senso? La significatività di qualcosa può essere raggiunta per altre vie? Nella sua accezione più autentica, l’insignificanza non equivale all’assenza di significato, ma ad una via differente rispetto al meccanismo di conseguimento degli scopi accennato in precedenza.

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D’altro canto, è oggi difficile negare la pervasività di modelli di vita irriflessa, condotta al di sotto della coscienza, per la quale lo stesso problema del significato sembra essere superfluo. La vita nova consentita dalla insignificanza, passando per un affrancamento dalla subordinazione delle azioni agli scopi, presuppone un soggetto che immagini per sé una posizione differente rispetto a ciò cui sembra per natura essere destinato. Una tale “liberazione” è accompagnata da un buonumore di fondo, differente sia dallo scherno che dal sarcasmo. Esso è piuttosto il coronamento di quella scelta di libertà che ci pone al di sopra delle cose e che trova una efficace esemplificazione in ciò che Ramon, uno dei protagonisti del libro di Kundera, vede entrando in un parco di Parigi, dove «il genere umano sembrava […] più libero; c’era chi correva, non perché avesse fretta, ma perché gli piaceva correre». La collana editoriale “Yod Magazine” inaugura il 2014 con un volume intenso in cui il tema monografico è declinato in modi per molti versi inediti. Ringrazio, per questo, gli Autori che hanno voluto raccogliere questa ennesima sfida a percorrere insieme a noi un tratto di strada. Mentre nuove avventure già si annunciano, non possiamo che segnalare con favore il moltiplicarsi dell’offerta di Yod Magazine che affianca alla possibilità della rivista in formato cartaceo da acquistare sul sito dell’editore (www. lulu.com) il nuovo blog “yodmagazine. com” in cui è possibile interagire o ascoltare i podcasts degli autori, la pagina Facebook “www.facebook.com/ yodmagazine”. Ringraziamo in anticipo i Lettori per l’attenzione che vorranno riservarci e diamo loro appuntamento al prossimo volume, disponibile da Aprile 2014, dedicato al tema del “Cambiamento”. direttore@yodmagazine.com

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&

indice

contributors

Luca De Santis

Luca De Santis e’ laureato in teologia presso la Pontificia Facoltà dell’Italia meridionale a Molfetta. Nel 2011 si è’ specializzato presso l’Università del Laterano in Dottrina Sociale della Chiesa con la tesi: “La funzione e l’idea di città in Giorgio La Pira” e attualmente e’ ricercatore presso la stessa Università e impegnato nella stesura del lavoro tesi dal titolo “Il federalismo municipalista secondo nel pensiero di Don Luigi Sturzo”. Svolge il ministero di Parroco a Corsano ed e’ direttore dell’Ufficio Antiusura della Diocesi di Ugento Santa Maria di Leuca.).

SULLA MANCANZA DEL SIGNIFICATo

Una riflessione sull’insignificanza che si apre a sentieri in cui si incontrano fondamentali dimensioni come l’amicizia, l’esperienza del bello, l’amore per la conoscenza: ogni desiderio che si affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato.

LAURA IMAI MESSINA

Laura Imai Messina é nata a Roma nel 1981 e si é laureata in Lettere all’Università la Sapienza. Si é trasferita a Tokyo a ventitré anni per perfezionare la lingua. Ha ottenuto un dottorato di primo livello in Culture Comparate presso l’International Christian University con una tesi sulla scrittrice giapponese Ogawa Yōko. Attualmente é docente a contratto di lingua italiana in alcune università della capitale e ricercatrice nell’ambito delle letterature comparate presso la Tokyo University of Foreign Studies. Si occupa da anni di letteratura giapponese contemporanea e collabora nell’ambito della didattica dell’italiano LS con l’Università per Stranieri di Siena. Nel marzo 2011 ha fondato, a scopo informativo, il blog “Giappone Mon Amour” e la relativa pagina facebook divenuti finestra sulla vita quotidiana nella metropoli giapponese. Appassionata della cultura sia alta che “bassa” del Sol Levante è autrice di “Tokyo Orrizontale”, appena pubblicato da Piemme.

In lode dell’insignificanza: testa dura e cartoline.

Che cosa succederebbe se nella ricerca dell’autentico valore delle cose ci affidassimo coraggiosamente a sentieri alternativi rispetto a quelli considerati ortodossi? In dialogo con Rodari e Perec.

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Maurizia Pierri

Maurizia Pierri, nata il 31 maggio 1965, dal 2010 è professore aggregato di diritto pubblico comparato dell’Università del Salento. E’ dottore di ricerca in Sistemi giuridici e politico-sociali comparati ed esperto di servizi pubblici per l’attività di consulenza svolta presso la Commissione di garanzia del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. E’ autrice di monografie e saggi sui temi della democrazia deliberativa, del federalismo, del welfare e della tutela delle categorie svantaggiate. Ha scritto per questa rivista il contributo dal titolo La festa: da eccezione a regola, da diritto a dovere, in YOD Magazine, gennaio 2012, p.43.

Insignificanza nel diritto o insignificanza del diritto?

Il concetto di insignificanza può essere declinato anche in ambito giuridico, con riferimento a varie ipotesi di atti che non perseguono scopi ulteriori rispetto a quello di essere posti all’interno dell’ordinamento. E’ il caso, delle leggi meramente formali, delle dichiarazioni didascaliche ma anche del diritto non autoritativo e di quello naturale. L’individuazione della volontà normativa rivolta al conseguimento di un fine è inoltre il perno intorno al quale ruotano le più importanti teorie ermeneutiche e analitiche del diritto.

Juliana de Albuquerque Katz

Juliana de Albuquerque Katz is a philosophy student at Tel Aviv University. She specializes in German Classic Philosophy and its contemporary developments. Particularly fond of literature and cinema, the author finds a source of inspiration in the works of Hölderlin, Charles Bukowski, Michelangelo Antonioni and Ingmar Bergman. Scribbler, photographer and academic, Juliana’s latest intellectual experiments can be read on Yod and accessed on Twitter (@ the_stardust).

“Don’t try!”

This is a short literary essay concerning my confrontation with the problem of insignificance — intrigued by Milan Kundera’s mysterious quote that “insignificance is the essence of life,” I talked to a friend and came to the conclusion that the notion of insignificance is clearly ambiguous. Thus the key to greatness lies between the meaninglessness of our contemporary pursuits and the conscious exhaustion of our feelings of insignificance. In order to prove my point, I bring the life and work of Charles Bukowski into discussion and draw parallels between his famous motto and a few lines from T.S. Eliot’s East Coker. In its entirety, this text is a personal meditation about my experience as a writer, the role of insignificance in our lives and what I have learned from poetry.).

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ALBERTA GIANI

Alberta Giani, ricercatrice in psicologia dello sviluppo presso l’Università del Salento. I suoi ambiti di ricerca sono: la fiducia e l’ascolto nella loro origine e nella loro declinazione in ambito educativo; costruzione di contesti educativi e analisi delle interazioni conversazionali e dialogiche in ambiti quotidiani e formali.

Il senso dell’insignificanza

A volte si avverte un lieve senso di inadeguatezza, di disagio per la situazione che si vive, per la persona che si ha di fronte o a fianco, per un film che scorre sotto i nostri occhi, per un quadro appeso in una galleria o un tramonto sul mare. Che nome dare a questa sensazione? E perché ci accompagna in alcune giornate?

Carlo Ciardo

Carlo Ciardo è Assegnista di ricerca in Diritto Costituzionale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università del Salento, dopo aver conseguito il Dottorato di ricerca in “Diritto dell’Economia e del Mercato” presso ISUFI - Università del Salento. Ha svolto attività di studio e ricerca sul tema dell’organizzazione sanitaria anche in chiave comparata, sfociati in diverse pubblicazioni giuridiche. Svolge l’attività di avvocato amministrativista.

Paradossi dell’insignificanza espressiva

La forma linguistica del “politicamente corretto” ha determinato non solo la creazione di cliché formalistici, ma anche la difficoltà di guardare al merito delle cose. La libertà di manifestazione del pensiero è essenziale della libertà dell’uomo. L’insignificanza dovrebbe condurre all’eliminazione di vincoli anche lessicali, in modo liberare anche il pensiero. La riflessione spazia dalle evoluzioni linguistico-legislative nei campi della tutela della salute, della disabilità e del diritto di famiglia, per giungere alle storture in casi esemplari come la parità di genere o le rivoluzioni arabe. Imbrigliare le parole può ingabbiare l’essenza stessa dei pensieri. È bene essere desti alla ricerca dell’insignificanza. Il sonno “politicamente corretto” genera mostri.

Carlo Salvemini

Carlo Salvemini è presidente di una Società Cooperativa che opera nel settore dell’editoria scolastica. Dal 2002 al 2007, a Lecce, consigliere comunale dei DS. Nel 2010 ha promosso un’associazione di cittadinanza attiva lecce2.0dodici. Nel 2012 è stato eletto in consiglio comunale con la lista LECCE BENE COMUNE di cui oggi è capogruppo.

SAVERIO CONGEDO

Nato il 15 febbraio 1965 a Lecce dove risiede. Sposato, tre figli, è laureato in economia e commercio alla Luiss di Roma ed esercita la professione di commercialista. Appassionato di politica, nel 1995 si è iscritto ad An di cui è stato presidente provinciale per un lungo periodo. Sempre nel 1995 è eletto per la prima volta nel Consiglio Comunale di Lecce, carica che ha ricoperto per altre due consiliature. Nel 2000 è stato eletto al Consiglio regionale della Puglia nella circoscrizione di Lecce e riconfermato nelle tornate elettorali del 2005 e del 2010, risultando il primo degli eletti rispettivamente nelle liste di An e PdL. Nel corso dei mandati regionali ha ricoperto numerosi incarichi, attualmente è Vicepresidente della I Commissione consiliare permanente (Bilancio, Finanze e Tributi) e componente delle VII (Statuto, Regolamenti, Riforme Istituzionali).

IPPOLITO CHIARELLO

Artista pugliese eclettico, che spazia dal teatro al cinema, alla musica. In questi campi si è cimentato principalmente come attore, ma ha praticato anche la strada della regia e della formazione anche in ambito di disagio sociale. Ha lavorato per circa dieci anni con la Compagnia Koreja di Lecce (1995-2004) per poi intraprendere una sua strada indipendente legata alla sua sigla teatrale NASCA TEATRI DI TERRA e al lavoro come scritturato o in collaborazione con altri gruppi italiani e stranieri. Il suo percorso di ricerca (spettacoli, progetti, formazione) si focalizza nel recupero della relazione pubblico-artista e ha generato la modalità del Barbonaggio Teatrale come strumento di diffusione e di promozione.

OGNI VOLTA CHE PARLO CON ME

L’autore ricostruisce il percorso che ha portato al battesimo del “barbonaggio teatrale” fino alla realizzazione del film “Ogni volta che parlo con me”, diretto insieme a Matteo Greco.

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GIOVANNI SCARAFILE

Giovanni Scarafile è docente di Etica e deontologia della comunicazione nell’Università del Salento. Vice Presidente dell’IASC. Direttore scientifico di YOD Magazine.

La vita desta. Un antidoto per l’insignificanza

Che cosa può nascondersi tra le pieghe del meccanismo che, di azione in azione, ci avvicina ai fini che intendiamo perseguire? In che cosa consiste propriamente il male morale? Quali sono le specificità e i rischi della rarefazione della scrittura?

Giuseppina Marselli

Giuseppina Marselli, funzionario informatico presso il Dipartimento di Storia Società Studi sull’Uomo dell’Università del Salento. Laureata in Scienze dell’Informazione mi occupo di apprendimento e tecnologia ed ho un particolare interesse per gli aspetti comunicativi multimediali legati all’utilizzo dei nuovi media in ambito formativo e non. Partecipo a vari progetti di ricerca e continuo a studiare l’impatto emotivo e relazionale che la tecnologia esercita sulla nostra vita. Mi occupo di progettazione e di realizzazione di Learning Object usabili su differenti temi che spaziano dall’intercultura alla comunicazione.

Matthias Armgardt GIOVANNI SCARAFILE

Matthias Armgardt is Prorektor für Lehre and Professor of Civil Law, Ancient Legal History & Roman Law and the Recent History of Private Law at the University of Konstanz (Germany). He is the leader of the German team in the JuriLog Project, a FrancoGerman initiative to promote interdisciplinary research on the fields of Law and Logic. Professor Armgardt is also a Leibniz scholar as well as a man of many intellectual and artistic interests.

VISIONI. LA PERIGLIOSA FRONTIERA

Recensioni pubblicate nella rubrica PUNCTUM del Nuovo Quotidiano di Puglia, un viaggio nei sentieri che dalle immagini in movimento conduce a nuove declinazioni del senso.

SURFING IN INTERDISCIPLINARITY

L’umorismosalverà ilmondo(forse)

Le piccole incongruenze degli incontri quotidiani vengono interpretate o con stupore o come fonte di reale disagio. Pertanto un semplice saluto può diventare lo spunto di una comunicazione autentica o l’occasione per ridere di noi stessi e sdrammatizzare ciò che è serio.

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ALBERTO A. VINUDO

Nato a Busan (Corea del Sud) da genitori sudamericani, veneto d’adozione, lavora come grafico presso una rivista che si occupa di cinema e letteratura. Non risponde mai al telefono.

ARMONIE

Un oggetto fuori posto dà un significato inatteso alle cose comuni.

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Un maestro elementare, ultimo discendente di una stirpe di insegnanti, racconta giorno dopo giorno il suo anno scolastico. Fra tagli alla spesa e bizzarre direttive ministeriali, colleghe pittoresche e genitori bisognosi di supporto psicologico, procedendo faticosamente nelle secche dell’ideologia aziendalistica e del vuoto dei valori di riferimento della moderna società occidentale. Con verve umoristica, impeto satirico e un gusto ininterrotto tanto per l’annotazione di costume quanto per il tocco di puro mémoire, in questo piccolo pamphlet l’autore racconta quel che è rimasto della «scuola elementare migliore del mondo» – che è come dire della società italiana in generale, descritta da quel particolarissimo punto di vista che è la provincia profonda del Sud della penisola. Nonostante il caos quotidiano, affiora quasi a sorpresa l’antico incanto del far scuola che ha riempito gli annali dei maestri-scrittori del passato, la poesia del veder crescere davanti ai propri occhi giovani coscienze che con il loro candore hanno ancora la forza di riscattare gli insegnanti del Duemila dalla condizione degradata cui son condannati da decenni. 7


shinjuku fragments | sinkdd - Shinichi Higashi | CC BY-NC-ND 2.0 | www.flickr.com

FEDE

Luca De Santis

SULLA MANCANZA DEL SIGNIFICATO

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ella produzione letteraria di Milan Kundera è presente come elemento fisso, la sua riflessione intorno al senso della vita, tramite il vissuto dei personaggi


presenti nei suoi romanzi. Un possibile comune denominatore presente nelle sue opere, può consistere nella continua ricerca di un eventuale significato per cui valga la pena vivere la vita. Per realizzare tale intento, con occhio critico, l’autore analizza l’inquietudine e l’insoddisfazione della persona riguardo a quello che il mondo ha da offrirgli. Kundera, nel suo ultimo romanzo è ritornato, a mio parere, nuovamente ad analizzare tale tematica, che rimane sempre attuale nonostante le varie rivoluzioni culturali che in quest’ultimo tempo abbiamo attraversato, sia dal punto di vista tecnologico, sia da quello politico che sociale. La festa dell’insignificanza, - detto in modo molto generale - ci racconta del non senso vissuto dai protagonisti riguardo alla loro esistenza. L’insignificanza viene ad identificarsi come un movimento interiore che conduce l’uomo a non trovare significato soddisfacente nelle realtà che lo circondano. L’uomo dunque si manifesta insoddisfatto non solo verso le vicende che possono essere definite banali ma, - ed è questo l’elemento sconvolgente – tale sentimento è avvertito in egual misura anche nei confronti di aspetti essenziali o centrali della vita, oggetto di fede e alto sacrificio per gran parte dell’umanità. Il non senso trattato nel La festa dell’insignificanza non ha un valore nichilistico riguardo all’esistenza, ma anzi una funzione essenziale: l’uomo non trovando significato in alcuni aspetti dell’esistenza, sembra quasi spogliare la vita, mondarla da tutti quegli elementi di insignificanza, per poi arrivare a contemplare il frutto, il senso per cui e su cui poggiare e investire la propria esistenza: «L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della

vita. È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in situazioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome». Quanto sostenuto nell’analisi di Kundera non si presenta indifferente ad una possibile riflessione di fede. Al fondo della natura umana di ogni uomo è presente un’insopprimibile inquietudine che lo spinge alla ricerca di qualcosa che soddisfi questo suo anelito. L’uomo intuisce che la realizzazione dei suoi desideri più profondi, può dare a lui l’opportunità di realizzarsi, di diventare realmente se stesso. In questo procedimento, da essere relazionale quale è, la persona umana è conscia di non poter trovare risposte a tali desideri in modo solitario, ma deve necessariamente basarsi su dei punti di riferimento che lo aiutino a raggiungere e compiere quanto desiderato. Lungo il corso della storia, e ancora oggi, nella nostra contemporaneità – sembra dire Kundera – l’uomo ha costruito il suo agire e la sua esistenza sulla sabbia delle ideologie, del potere, del denaro e del successo. In tutti questi aspetti ha creduto di trovare stabilità e risposta al suo profondo desiderio di felicità, recato nel profondo della sua anima. Nonostante vi siano dei segnali che sembrano dire il contrario, è ben visibile nell’attuale crisi di valori e principi, di come l’uomo si interroghi continuamente su che cosa sia il bene, e questo lo porta a confrontarsi con qualcosa che sia altro da sé, non frutto del pensiero umano, ma realtà che si è chiamati a riconoscere. Questo desiderio profondo manifesta una certa alternatività nei confronti di una cultura esclusivamente esperienziale o

concreta, che reca sempre come il romanzo cerca di dirci, la delusione di un significato solo apparente. Credo che l’esperienza capace di saziare in modo primario il desiderio di significato dell’uomo possa consiste nell’amore: movimento dell’estasi, di uscita da sé, momento in cui l’uomo viene attraversato da un desiderio che lo supera. Se davvero voglio bene all’altro e ciò non si manifesta come un’illusione, questo mi porterà necessariamente a decentrarmi, a mettermi al suo servizio, fino alla rinuncia a me stesso. Si può essere d’accordo con Kundera, il quale trova il senso dell’esistenza nella virtù della coerenza, ma a condizione che questa virtù sia ripiena d’amore verso il prossimo. Si parla di coerenza dell’amore, in quanto esso non si manifesta solo come desiderio, ma dopo la primaria estasi, come un vero e proprio cammino per approfondire l’iniziale amore provato. L’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi, è l’esperienza di un bene che porta ad uscire da sé e trovarsi nel mistero che avvolge l’intera esistenza. Quanto appena detto vale anche per altro, come ad esempio l’amicizia, l’esperienza del bello, l’amore per la conoscenza: ogni desiderio che si affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato. Abbiamo già avuto modo di dire che nella sua esperienza l’uomo è in grado di comprendere ciò che è per lui privo di significato, ma non può definire l’inverso. Per questo quanto finora detto può solamente aprire ad un discorso di fede, anche se non è possibile all’uomo dare una definizione di Dio solo partendo da quello che è il suo desiderio di significato.

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LETTERATURA

Laura Imai Messina

In lode dell’insignificanza: testa dura e cartoline


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The Shinjuku Metropolitan Expressway | lestaylorphoto - Les Taylor | CC BY-NC-ND 2.0 | www.flickr.com

i concetti, spesso, ci si arriva per paradossi. Toccando il contrario di qualcosa si giunge, quasi per miracolo, a toccare il cuore di un problema, l’anima di un concetto. Così, percorrendo vie tortuose, l’insignificanza si rivela ai nostri occhi come piena significanza. Ma come? È immagine comune pensare che


West Shinjuku Silhouettes | Nestor’s Blurrylife - Nestor Lacle | CC BY 2.0 | www.flickr.com

cercare un perché di ogni avvenimento che ci accade sia l’essenza dell’esistenza. Eppure, aspettarsi di trovarla in ogni sua parte, trovare un senso preciso ad ogni cosa, ne è la negazione. La ricerca del senso e l’accettazione insieme di tutto quel grumo di insignificanza che la avvolge è forse l’unica modalità di piena esistenza, che non umili il quotidiano e quel mare magnum su cui galleggiano le poche navi che hanno preso infine il largo e sanno esattamente dove sono dirette. Tra le tante favole che il ragionier Bianchi, di Varese, rappresentante di commercio che per lavoro è fuori casa sei giorni su sette, racconta per telefono ogni sera alla sua bimba (dato che se non le viene narrata una storia lei non riesce a dormire), vi è quella che ha per protagonista un ragazzino di nome Martino e di soprannome “Testadura”. In “Una strada che non va da nessuna parte”, uno dei tanti, brevissimi racconti che Rodari ha inserito nella

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raccolta Favole al telefono, così viene chiamata la strada che parte dal paese e che nessuno mai percorre proprio perché è inutile intraprendere qualcosa che non ha senso, che non ha una precisa meta. Del resto questa strada non va proprio in nessun luogo. Tutti lo ripetono da sempre, e se Martino chiede il perché e il per come della via misteriosa, loro gli ripetono che quella strada non l’ha fatta nessuno, che c’è sempre stata e che non c’è davvero niente da vedere Un giorno però Martino, che non per caso viene soprannominato “Testadura”, decide di verificare con i propri occhi e inizia a camminare. Supera una siepe, poi dei boschi, incontra un cane e pensa che dove c’è un cane c’è una casa o perlomeno un uomo, arriva ad un cancello, poi ad un castello dove si affaccia una bellissima signora e questa lo accoglie con allegria e generosità. Torna al suo paese arricchito, con un carico di meraviglie a bordo di un carretto guidato dal


cane, che è ammaestrato e tiene le briglie. Quale la sorpresa dei concittadini, che subito tentano – inutilmente – lo stesso percorso. Anche loro, adesso, sanno che la strada che non porta da nessuna parte porta invece ad un castello pieno di ricchezze e di tesori, con una donna che dal balcone li inviterà: ad entrare. Eppure, chi tenta dopo Martino il medesimo percorso, non arriva dove è giunto lui, ma si ferma bensì a un muro fitto di rovi, rimane impigliato nel fitto impenetrabile dei rami. Niente più castello né ricchezze. Niente bella donna né cane portentoso. La morale della favola che suggerisce Rodari è che alcune strade portino doni solo a quelli che le intraprendono per primi. Insieme al tema del coraggio, dell’essere pionieri del proprio quotidiano, però, questa favola bella contiene forse una ulteriore traccia di senso. È l’affrontare percorsi non segnati, sentieri non ancora battuti, strade persino tacciate di “insignificanza”. Perché se una strada non porta da nessuna parte – concetto che di per sé nega la presenza di un obiettivo, di uno scopo, di una meta – non vale la pena, almeno sulla carta, tentare di inforcarla. Lo ha ribadito durante tutta la sua produzione letteraria Georges Perec, i cui libri vennero tacciati di “sociologia” in quanto egli, proponendosi di definire il presente, il quotidiano, ovvero la vita – non quella delle volte eccezionali che si contano sulle dita di una mano ma di quelle normali che neppure tutti i capelli che spuntano e poi cadono nell’arco di un’esistenza possono raccontare – raccoglieva ad esempio cartoline, banalità dei messaggi di saluto da una località balneare o da una stazione sciistica, i cari e cara, i baci e gli abbracci, le considerazioni sul tempo atmosferico, i ci vediamo presto e i tuo/tua. Erano le “Duecentoquarantatré cartoline illustrate a colori autentici” inserite in un

volumetto intitolato L’infra-ordinaire (L’infraordinario) e pubblicato a Parigi nel 1989 dalle Éditions du Seuil. In un altro libro annotava poi la lista dei ricordi che coinvolgevano il suo più “becero normale”, il passato personale di chi scrive e insieme di tutta la generazione che gli marciava intorno, ricordi presi così come sono, senza l’ansia di interpretarli per poi metterli con la cartella sulle spalle, il cestino del pranzo tra le mani e le scarpine lucidate sulla strada maestra del significato. Restano ricordi spezzettati come “435. Mi ricordo quando andavo a prendere il latte con un bidone di latta tutto ammaccato”, “62. Mi ricordo gli scubidu” o “355. Mi ricordo solo qualcuno dei sette nani: Brontolo, Mammolo, Dotto”. A cosa serve questo mucchio di ricordi slegati, questa montagna di stracci nozionistici e sentimentali? A nulla, in effetti, se non al piacere stesso di ricordarli, alla gioia di aver vissuto i momenti su cui si sono ricamate le cose, i sapori e gli odori precisi di quell’istante. Un altro volumetto ancora, “Tentativo d’inventario degli alimenti liquidi e solidi che ho ingurgitato durante l’anno millenovecentosettantaquattro”, già dal titolo spiegava il proprio obiettivo, la vertigine della lista che non scalza alcun alimento, ma li comprende tutti. Solidi e liquidi, costosi e di basso prezzo mangiati, bevuti, masticati e leccati nell’arco di un anno intero. Ogni accadimento, il più banale, merita una registrazione. Panini al burro, carne, vino, stuzzichini compresi. La vita, del resto, è anche qui. Un giorno, sempre Perec, si siede ad un caffè e sulle panchine di place Saint-Sulpice, nel 6° arrondissement di Parigi, decide di guardare cosa accade nel lasso temporale di alcune ore. Stabilisce di farlo per i successivi due giorni, tre in tutto. Guarda, beve, fuma le sue infinite voluttuose siga-

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rette, forse si ravvia i capelli e intanto stringe la penna e la fa scattare sulla carta. Fotografa, annota – con la velocità vuota della lista – chi passa, come è abbigliata una donna, lo zampettare dei piccioni, i semafori che diventano rossi, il berretto che porta una bambina, un uomo che porta una cornice, le macchine, la luce e come essa cade sulla strada. Non c’è poesia, non almeno nel senso che attribuisce a questa parola una elaborazione abbellita ed enfatizzata del quotidiano, ma vi è piuttosto l’insignificanza piena di una giornata vissuta con coscienza, senza liberarla dalla buccia come si farebbe con una mela, ma mangiando il frutto tutto, torsolo compreso, persino semi a ballare tra denti e lingua. E se ci scappa, che scenda nello stomaco anche la tana di un vermino ignaro. “Il mio proposito – scriveva Perec ad introduzione di questo esilissimo libricino intitolato significativamente Tentativo di esaurimento di un luogo parigino – è stato piuttosto di descrivere il resto: quello che generalmente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla, se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole” Eccolo allora l’esercizio del vivere, la ginnastica del quotidiano. Affacciamoci ad una finestra per un’ora, magari la stessa, tutti i giorni ed osserviamo quel che accade. Oppure prendiamo il solito autobus. E guardiamo la vita nel suo scorrere potente, senza sosta. Non ci darebbe forse quell’osservazione una visione più intensa del nostro oggi? Di quel giorno che come tanti rischiava di passare sciapo e trascurato, oltre la cornice della finestra? E poi ci sono le cose. Le cose ci raccontano il giorno, quello che passa senza che noi gli attribuiamo alcuna importanza. Le cose che contengono il quotidiano, le colazioni, i pranzi, le cene, che pedinano i nostri movimen-

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ti tra le ore e rosicchiano il tempo che contiene ogni mattino, pomeriggio e sera. Cose da comprare, vendere, usare, pulire, limare, rompere, riparare. Eppure, nonostante l’importanza incredibile che sembrano rivestire in termini di tempo, la ricerca della significanza sembra quasi uno slalom tra gli oggetti, una fuga dalle cose. Cose con un volume, colore, odore, con un universo sensoriale che solo “ci serve” e che diventa trasparente non appena ha finito di servirci. Perec, invece, dalle cose non fugge. E neppure dalle nostre azioni più umili e ripetitive. Egli propone di domandarsi il come, dove, quando e perché di ogni cosa che facciamo e che ci accade, di approcciare con consapevolezza l’ammasso di oggetti


Crossroad | Ding Yuin Shan | CC BY 2.0 | www.flickr.com

che sono parte del nostro quotidiano. Per allenare questa consapevolezza e svegliarsi dal torpore suggerisce, ad esempio, di chiedersi da dove siano arrivate tutte le cose contenute nella propria borsa, la loro provenienza, ideazione, realizzazione. Ci passano tra le mani, sotto i piedi, intorno a questo corpo spesso spento, migliaia di strumenti. Tutti muti, invisibili, presenti solo mentre li usiamo, inetti a raccontarsi. Non c’è spazio, nel quotidiano, per la quotidianità. Né nella vita come la sogniamo – piena, svelta, sempre attenta – per la vita stessa, quella normale, fatta di vuoti, lentezze ed incertezze. Ciò che esula dal quotidiano sembra essere la Vita, quello che la supera e, in termini di

importanza, la distanzia. “Quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento, l’insolito, lo straordinario [...] I treni cominciano a esistere solo quando deragliano, e più morti ci sono fra i viaggiatori, più i treni esistono” scriveva Perec spiegando il concetto di “extra-ordinario”, ovvero ciò che accade solo talvolta ed illumina intere zone d’ombra. Anche la letteratura di per sé è un immenso bacino di insignificanza e lo è tanto più quando si distacca dalla storia, si immerge nel quotidiano, quando narra la banalità di giorni sempre uguali di persone sconosciute, mai esistite. Sono infinite variazioni sul tema, che rispecchiano perfettamente il serbatoio di insignificanza di cui è fatta la nostra vita.

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Legs over Shinjuku | Nestor’s Blurrylife - Nestor Lacle | CC BY 2.0 | www.flickr.com

Ma in una società che mira sempre ad uno scopo, che stimola al riuscire, al multi-tasking per venire a capo di un giorno, che lancia frecce tese a uno e insieme a mille obiettivi, come si può far pace con l’insignificanza? Nell’ambiente lavorativo, nell’inseguimento d’una carriera e d’una vita piena di fatti di rilievo (e per fatti di rilievo intendiamo quegli eventi riconosciuti tali dall’ambiente circostante) la ricerca del senso a tutti i costi non significa forse anche lasciarsi dietro debiti difficilmente ripagabili, debiti contratti in una condizione psicologica che avrebbe bisogno di una struttura e non invece di una gabbia? Forse l’unico modo per accettarla, per amarla persino, è indagarla, scriverla, fotografarla, cantarla o parlarla. Darle, appunto, un senso. Guai ad ignorarla! Perché così facendo l’insignificanza prende una brutta cera, si fa scura in viso e ci mette di fronte a questioni spinose come: “Oggi cosa hai fatto? Non hai forse solo perso tempo? Hai costruito qualcosa questo mese? È servita a qualcosa la domenica appena trascorsa sul divano a guardare la tv, a mangiare pollo arrosto con le patate e a sfogliare una vecchia

rivista di gossip? Non avresti potuto invece leggere un saggio, studiare francese, lavare le tende?”. A dare un nome alle cose a volte ce la si fa, invece, anche a perdonarle, per quanta impressione ci facciano all’inizio. Così può accadere anche con l’insignificanza, con l’essere solo per essere, con il guardare senza vedere, con il ricordare oggetti e sensazioni di infanzia, con l’imboccare una strada che non va da nessuna parte per il solo gusto di farlo, perché la propria testa è dura e non ci si arrende al Senso Unico. Ecco allora che il segreto dell’insignificanza è valutarla come potenzialmente piena di significanza, E visto che l’uomo senza dare un senso alle cose si sente sbagliato, confuso, a volte persino fallito, tanto meglio vedere di cosa è fatta l’insignificanza, dare un volto al mostro e smettere così di averne paura. Su tutti Nietzsche che, in un frammento intitolato “Vita ed esperienze” da Umano troppo umano, notava come: “Se si osserva come taluni sanno servirsi delle loro esperienze vissute – delle loro insignificanti, quotidiane esperienze vissute – tanto che queste diventano un campo che

fruttifica tre volte l’anno; mentre altri – e quanti! – pur travolti dai marosi delle vicende più eccitanti, delle più molteplici correnti di tempo e di popolo, rimangono sempre leggeri, sempre a galla, come sughero: alla fine si è tentati di suddividere l’umanità in una minoranza («minimanza») di persone capaci di trar molto dal poco, e in una maggioranza di coloro che col molto sanno fare poco; anzi ci si imbatte in quegli stregoni alla rovescia i quali, invece di creare il mondo dal nulla, del mondo fanno un nulla.” In lode allora dell’insignificanza che tanto, se proprio lo vogliamo trovare, un senso anche elevatissimo, lo ha sempre. Basta, appunto, andarselo a cercare.

Riferimenti bibliografici Perec, G. 1994. L’infra-ordinario. Torino: Bollati Boringhieri. Perec, G. 2011. Tentativo di esaurimento di un luogo parigino. Roma: Voland. Perec, G. 2013. Mi ricordo. Torino: Bollati Boringhieri. Rodari, G. 1997. Favole al telefono. Torino: Einaudi.


Se New York è una mela, Tokyo è un melograno. è dolce e sensuale, ma anche amara. In sé racchiude tanti chicchi, tutti schiacciati l’uno contro l’altro in una forzata convivenza, eppure sempre, inesorabilmente soli. A volte, però, qualche chicco si ribella; così può succedere che quattro giovani si incontrino per caso, una notte a Shibuya, il quartiere più folle della città, e decidano di avvicinarsi per provare a colmare quella invisibile distanza. Qualcuno lo fa per inseguire una favola d’amore, qualcun altro per lenire il dolore di un passato ingombrante, un altro ancora per cambiare vita e non farsi più trovare. Sara, Hiroshi, Carmen e Jun desiderano invece trovarsi, in un incontro che è sesso ma anche qualcosa di più profondo e vitale. È salvezza. È calamita che allontana dall’abisso. È casa. “Tokyo orizzontale” è la storia di un amore sprecato e di uno realizzato, e di una città immensa e piccolissima, insonne e paziente, gelida e sensuale.


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DIRITTO


Maurizia Pierri

Insignificanza nel diritto o insignificanza del diritto?

I

l brano di Milan Kundera che esprime l’intenzione tematica di questo numero di YOD Magazine, descrive l’insignificanza in chiave positiva: non come assenza di significato ma come emancipazione dal perseguimento di scopi ulteriori rispetto alla semplice libertà di esistere. Questo concetto può essere declinato anche in ambito giuridico? Può cioè il diritto essere insignificante, ossia non tendere al perseguimento di uno scopo che ecceda l’essere positum? Il diritto è il prodotto di atti e fatti che secondo l’ordinamento (lo Stato) sono abilitati ad esprimere regole giuridiche. Limitiamo l’attenzione agli atti che generano diritto: essi sono volontari, cioè “riferibili a


soggetti determinati e da questi posti in essere nell’esercizio di un potere ad essi attribuito”. L’elemento volontaristico è quindi incluso nell’atto di produzione del diritto (volontà dell’atto), ma vi è di più. Una volta posto (positum, da cui diritto positivo) l’atto è in grado di esprimere una sua volontà (ovviamente non in termini psicologici), diretta al conseguimento di determinati risultati. Ciò è possibile perché il diritto che scaturisce da atti si esprime attraverso disposizioni scritte, ossia formulazioni linguistiche dalla cui interpretazione si evincono le norme, ovvero le regole giuridiche alle quali occorre conformarsi. La dottrina dominante afferma che le regole del diritto appartengono al mondo del dover essere (sollen) ed infatti utilizzano un linguaggio prescrittivo, che si distingue dal mondo dell’essere (sein), che ricorre ad un linguaggio descrittivo o espressivo. Dovrebbe dunque concludersi che esiste sempre nel diritto positivo uno scopo ulteriore che le norme intendono realizzare, ed è insito nel loro contenuto prescrittivo. Tuttavia, anche dalle poche considerazioni fin qui proposte scaturiscono numerose riflessioni, proprio nella prospettiva della insignificanza. La prima. L’elemento della volontarietà è certamente insito nell’atto produttivo del diritto (atto-fonte). Una legge approvata dal Parlamento è voluta dalla maggioranza che l’ha votata, esattamente come il contenuto di un contratto è voluto dai contraenti che lo stipulano. Ma si è accennato

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ad un diritto che scaturisce da fatti, che l’ordinamento prende in considerazione nella loro oggettività. Non rileva, è cioè insignificante (nel diritto) la circostanza che siano o non siano voluti e neppure che necessitino della intermediazione delle disposizioni, perché comunque da essi scaturiscono effetti giuridici. La seconda. Esistono atti positivi non normativi, in due differenti accezioni: in quanto non utilizzano il linguaggio prescrittivo, o in quanto non producono norme. Il primo è il caso delle dichiarazioni didascaliche, delle invocazioni alla divinità o ancora delle previsioni economiche presenti in alcune atti. Si tratta di disposizioni insignificanti dal punto di vista della prescrittività (insignificanza del diritto). Il secondo è il caso delle leggi meramente formali: l’esempio di scuola è quello della legge di approvazione del rendiconto consuntivo dello Stato, che non introduce alcuna novità normativa. Anche questa è una ipotesi di diritto insignificante. La terza. Intorno alla interpretazione delle disposizioni e dunque alla individuazione (scoperta? enunciazione? creazione?) delle norme, cioè del significato prescrittivo che scaturisce dalla interpretazione delle disposizioni, si sono aperte varie dispute e proposti diversi modelli teorici, che non è possibile dettagliatamente esaminare ma solo grossolanamente riassumere. Secondo alcuni studiosi esiste una verità normativa precostituita che può essere raggiunta attraverso un procedimento logico di tipo storico-


scientifico (teoria normativa). Tale verità è collocata al di fuori dell’atto e corrisponde alla volontà dell’autorità che lo ha posto in essere (originalismo, intenzionalismo) o è insito nell’atto stesso (verità immanente). Secondo altri la verità non può essere semplicemente scoperta ed enunciata dal giudice ma spetta proprio a lui e dunque alla giurisprudenza, attribuire significato alle disposizioni da interpretare (teorie non normative)1. Presupposto della prima impostazione, sia nella versione che ritiene rilevante la volontà dell’autorità2 che ha prodotto il diritto, sia in quella apparentemente opposta, è che esista sempre un significato ulteriore insito nelle norme, un fine, uno scopo significativo che l’interprete deve “scoprire”. Sembra andare nella direzione dell’intenzionalismo il testo dell’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, premesse al Codice civile: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Le teorie qualificate riassuntivamente come “non normative” soltanto in apparenza escludono l’esistenza di una significanza ulteriore del diritto. La differenza è nel ruolo attribuito all’interprete: nella prospettiva nonnormativa egli partecipa attivamente alla ri-costruzione dello scopo perseguito dal diritto, inserendosi con una sua scelta di valore nell’insopprimibile vuoto cognitivo che si crea tra disposizione e norma.

La quarta. Esiste uno spazio in cui il diritto deve essere insignificante? Uno spazio in cui il suo linguaggio deve smettere di essere prescrittivo ed adeguarsi ai canoni della descrizione, dell’espressione? Negli Stati Uniti ma anche in Europa si sta imponendo il tema dell’expressive law3, ovvero (molto grossolanamente) del diritto non autoritativo, che si limita ad esprimere l’esistente, a sua volta esito di un accordo consensuale tra parti. Del resto è stato autorevolmente sostenuto che l’intervento autoritativo su alcune sfere sociali possa essere inefficace, se non controproducente. Ma è sul versante del diritto naturale che l’insignificanza trova una spazio ideale. Non è un caso se il testo internazionale che ha segnato la storia della tutela dei diritti umani non si appella “legge” o “costituzione” ma “dichiarazione”. Il testo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 adotta un linguaggio prescrittivo solo al fine di garantire l’esistente, il cui valore è già dato. Anche la Costituzione italiana, nell’articolo 2 dichiara che la “Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Si riconosce ciò che già esiste ed il diritto ha il solo compito di garantire la pienezza di quell’esistenza. In questo senso l’insignificanza del diritto diventa un valore desiderabile, nel suo riconoscere l’uomo come fine, l’uomo in sé, nel suo esistere per sé, in una sintesi perfetta di essere e dover essere.

Note 1 Sulla diverse impostazioni interpretative la bibliografia è sterminata, in particolare sulla ermeneutica costituzionali. Per avere un quadro semplice e riassuntivo delle varie posizioni si legga (Dogliani 1993). 2 Il dibattito sull’originalismo, anche detto intenzionalismo del legislatore è particolarmente significativo negli Stati Uniti dove il pensiero di (Scalia 1988-1989) si scontra con la posizione diametralmente opposta di (Dworkin 1986). 3 Si vedano gli studi di (Cooter 1998).

Riferimenti bibliografici Cooter, R. 1998. Expressive Law and Economics. Journal of Legal Studies, 27: 585 - 608 Crisafulli,V. 1984. Lezioni di diritto costituzionale, Vol. 2. Padova: Cedam Dogliani, M. 1993. Il “posto” del diritto costituzionale. Giurisprudenza costituzionale: 525 - 544. Dworkin, E. 1986. Law’s Empire. Cambridge: Harvard University Press Scalia, A. 1988-1989. Originalism: The Lesser Evil. University of Cincinnati Law Review: 849-865. Teubner, G. 1987. Il Trilemma regolativo. A proposito della polemica sui modelli giuridici post-strumentali. Politica del diritto, 18: 85-118.

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Courtesy of Juliana de Albuquerque Katz

LITERATURE

Juliana de Albuquerque Katz

“Don’t try!”


I

n a new book called La festa dell’insignificanza, Milan Kundera writes that “insignificance is the essence of life,” and after a few explanations he arrives at the following conclusion: “it is not enough to recognize it, we have to love it (…) we must learn to love it.”1 I have not

yet read the book whose words I have just mentioned but as I stumbled upon those lines, I could not help but wonder if I should love life’s insignificance. Earlier today a friend of mine mentioned that insignificance represents a central crisis of our time that — “as human beings no longer

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believe they matter in the big scheme of things, they give themselves up to ever more trivial pursuits.” It is true that we lead insignificant lives but to what extent are we aware of our own insignificance? As we wake up at six o’clock and drink our morning coffee on our way to work; as we have to write yet another abstract for a conference; yet another grant proposal; do we really have time to think about the ridiculousness of our contemporary pursuits? And whenever we feel insignificant, do we ever try to completely embrace this feeling? Thus, insignificance might as well be the essence of life; however, except for a handful of extraordinary men, most of us never tried to reach the bottom our own meaninglessness. Hence, as I stopped to think about my list of heroes of insignificance, the first name to cross my mind was Charles Bukowski and his famous motto: “Don’t try!” On a letter to William Packard, written on December 23, 1990, Charles Bukowski advises his friend to learn to wait; to let the words come naturally instead of simply forcing them against the piece of paper, he writes — “we work too hard. We try too hard. Don’t try. Don’t work. It’s there. It’s been looking right at us, aching to kick out of the closed womb. There’s been too much direction. It’s all free, we needn’t be told.”2 There is truth and beauty and love in this world, but we will never experience them if we persist in prioritizing sheer performance against dwelling in the estrangement awakened by insignificance. Like someone who has seen

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it all and experienced his fair amount of misfortunes, Bukowski believed that truth laid on the waiting; that all we need is just kindness and patience with ourselves. Look closer at Charles Bukowski’s life and work! Although his poetry is commonly trivialized as the craft of the damned — the work of a misogynistic, gambling and alcoholic sex-crazed bum — there is enough kindness in his words to turn him into a saint. In fact, Bukowski’s advice to William Packard is as good as any line ever written by the righteous men. But while any other man could have written those lines carelessly, not only revealing indifference to life but also contempt to the sufferings of others, Charles Bukowski sat on his machine, on the last Sunday before Christmas and dared to speak the truth out of the entrails of life and into the insignificance of his circumstances. Writing from the margin of society and completely invisible to the buzz of corporate America, ‘Hank’ Bukowski chose to sacrifice the meaning of an utterly conventional life and dedicate his time to write about what actually matters; to write about life itself — unrestricted, untamed and lacking any a priori definition. Somehow, Charles Bukowski’s advice echoes the words of T.S. Eliot in the Four Quartets: “I said to my soul, be still, and wait without hope for hope would be the hope for the wrong thing.”3 It has been said that when Eliot wrote those lines, he was going through a period of health crisis which made him think that he was


no longer able to write poetry. Unsatisfied with each new draft of the East Coker, T.S. Eliot blamed himself for beginning the poem prematurely and for writing it too quickly. Coincidently, I have copied that full passage of the East Coker in my journal; side by side with another poem by Charles Bukowski which, I believe, represents an elegant variation of his advice to Packard — “as the spirit wanes the form appears.”4 Perhaps the lesson I learnt from those examples, most of them drawn out of the pages of a poetry book, is that while poets try to perform their art and speak the truth about this world; as they perceive that all words and all forms could never encapsulate their sense of reality, they learn to be humble, to respect the waiting and to lose themselves in their own insignificance; to love their insignificance and craft their greatness. In plain English, I have learnt with poetry that — “I’m nothing. I’ll always be nothing. I can’t want to be something. But I have in me all the dreams of the world.”5 Acknowledgments: In a book called “Shyness and Dignity,” Dag Solstad explains the meaning of a real conversation; the act of having “a real talk, stretching oneself toward an understanding together, whether personal or social, if only for the sake of a brief flash of momentary insight” (p.120). Thank you for our real conversations, Marcus. They inspired me to write this text.

Note 1 I stumbled upon this quote on Yod’s website. Go check it! http://yodmagazine.com/ 2 Charles Bukowski to William Packard, 1990. In Letters of Note: http:// goo.gl/l97IpO 3 T.S. Eliot. “East Coker” from The Four Quartets. In: http://goo.gl/wzSdRn 4 Charles Bukowski. “Art,” a short poem. 5 Fernando Pessoa. “The Tobacco Shop” translated by Richard Zenith. In: http://goo.gl/OtIHm9

References Bukowski, Charles. “Art.” In Charles Bukowski: Born to this: http://goo.gl/soVEV Bukowski, Charles. 1990. Letter to William Packard. In Letters of Note: http://goo.gl/l97IpO Eliot, T.S. “East Coker” from The Four Quartets. In: http://goo.gl/wzSdRn Pessoa, Fernando. “The Tobacco Shop,” translated by Richard Zenith. In: http://goo.gl/OtIHm9 Solstad, Dag. “Shyness and Dignity.” Graywolf Press, Minnesota, 2006.

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PSICOLOGIA

Alberta Giani

Il senso dell’insignificanza A volte si avverte un lieve senso di inadeguatezza, di disagio per la situazione che si vive, per la persona che si ha di fronte o a fianco, per un film che scorre sotto i nostri occhi, per un quadro appeso in una galleria o un tramonto sul mare. Che nome dare a questa sensazione? E perchÊ ci accompagna in alcune giornate?


“La vita è una lotta di tutti contro tutti. È risaputo. Ma in una società più o meno civile come si svolge questa lotta? Non possiamo scagliarci gli uni contro gli altri non appena ci vediamo. In compenso, cerchiamo di buttare addosso agli altri l’ignominia del senso di colpa. Vincerà chi riuscirà a fare dell’altro un colpevole. È vero. Non ci si deve scusare. Eppure preferirei un mondo in cui tutti si scusassero, senza eccezione, inutilmente, esageratamente, per niente, in cui si profondessero in scuse…”

tree of life | Leonard John Matthews | CC BY-NC-SA 2.0 | www.flickr.com

M. Kundera , La Festa dell’insignificanza


C

OTF_Crushed_Seashells_09 | Outside the Fray - Brent Leimenstoll | CC BY-SA 2.0 | www.flickr.com

he cosa ci provoca disagio? A cosa è dovuto quell’impercettibile senso di allerta, come se ci fossero parti di noi in disordine: una ciocca di capelli ribelle, un buco in un calzino, una macchia di schiuma di latte sul naso? L’immagine riflessa dai vetri di un negozio sembra rassicuranti. Sembra essere tutto a posto. Poi, a pensarci bene non è proprio disordine. Da un certo punto di vista magari lo fosse. Il disordine ha una sua concretezza, ha dei contorni abbastanza netti, richiama all’azione. Direi che ha una sua onestà: ognuno sa quale è il suo compito “Metti in ordine la stanza!”. È un’eco che viene da lontano.

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Eppure qualcosa c’è. Cosa è questa benedetta incongruenza? Da quale spazio e tempo arriva? Sembra qualcosa di più profondo, senza una forma definita e, soprattutto, senza nome. Ciò che senza nome non esiste. Anzi. Sicuramente esiste se la sento. Sono io che non sono capace di chiamarla. Che fare? Le strade sono affollate, la gente cammina, sorride, mangia un gelato. Coppie mute si sfiorano appena, altre si guardano come se fossero sole. Viene in mente Goffman1 che, osservando il flusso delle persone sui marciapiedi di New York, ha ipotizzato una sorta di autoregolazione che impedisce alle persone di scontrarsi. È una danza: minimi spostamenti nello spazio che ciascuno fa prevedendo il percorso dell’altro. Poi l’imprevisto. Un urto: due si fronteggiano. Sembra di vedere Fra Cristoforo di manzoniana memoria. La tensione è alta, le parole dure come pietre. C’è chi ha torto e chi ha ragione? Sta di fatto che il disagio è sempre lì. Ora ha assunto un’altra connotazione: è accompagnato da un leggero senso di nausea ed un vago mal di testa. Come sarebbe consolatorio capire! Il dolore, per esempio, come il disordine, ha le sue “regole”: quando è forte, potente, insostenibile, accade, per un momento, che la mente catturi un pensiero leggero, che gli occhi si adagino su un particolare insignificante, che un profumo evochi una immagine serena. Come è possibile? La prima reazione è stupore. Si può pensare ad un paio di scarpe quando tutto il mondo frana inesorabilmente? Il passo successivo, in genere, è un potente senso di colpa. Si trasforma in un pensiero indicibile non solo agli altri (vedrebbero probabilmente i germi della follia), ma soprattutto a se stessi. Pensiero da scacciare con igno-

minia. Eppure è successo. Perché? Far finta di niente non serve. Tutt’al più tranquillizza un po’ , ma non risolve l’enigma. Si possono imboccare tante strade. Ognuno ha le sue. Si possono costruire delle storie in propria difesa, cercare negli altri l’origine del proprio dolore e, paradossalmente, anche di quell’assurdo pensiero. Oppure si cerca, umilmente, di capire. Processo lungo, paziente, mai lineare. Forse è proprio l’insignificanza di quel pensiero che aiuta a sopravvivere al dolore, che offre un piccolo spazio per riprendere fiato, per iniziare a far decantare i pezzi più aspri e meno sopportabili. Perché la neve cominci a scendere. E quando il dolore si acquieta, tutto diventa più cupo. È una chiamata alle armi, bisogna fare appello a tutte le risorse personali. Tempo, pazienza, fatica, convivere con la paura e l’angoscia. Ma, il disagio? Forse è un campanello di allarme, una spia che richiama l’attenzione e che desidera essere in qualche modo chiamato e, che, una volta chiamato, provoca un altro disagio, più o meno piccolo a seconda degli incontri, delle esperienze, degli eventi che la quotidianità offre. È come stare in allerta. Ascoltare ed ascoltarsi o, meglio, ascoltare per ascoltarsi. È un processo senza fine, perché non ci sarà niente e nessuno di totalmente conosciuto, noto, scontato. Che fatica, è vero! Ma che incanto! Non ci si annoia mai. E quando si riesce ad intuire e convivere con quello che Fonagy2 chiama l’imperfezione, il non detto nella reciprocità dei rapporti, è il primo passo per cominciare a mettersi al riparo dalla banalizzazione dei pregiudizi, dalla rigidità del pensiero, dalla inconsapevolezza delle emozioni. Processo lungo e pieno di sorrisi.

Note 1 Erving Goffman (Mannville, 11 giugno 1922 – Filadelfia, 19 novembre 1982) è stato un sociologo canadese. Il principale contributo di Goffman alla teoria sociale è la sua formulazione dell’interazione simbolica nel suo La vita quotidiana come rappresentazione (The Presentation of Self in Everyday Life) del 1959. Per Goffman, la società non è una creatura omogenea. Noi dobbiamo recitare in modo diverso a seconda dei diversi teatri. Il contesto che dobbiamo giudicare non è un’ampia società, ma un contesto specifico. Goffman indica che la vita è un teatro, dove ilcomportamento individuale è interpretabile alla luce dell’ampio contesto sottostante all’interazione simbolica faccia a faccia. (Fonte: Wikipedia) 2 Peter Fonagy (Budapest, 14 agosto 1952) è uno psicologo e psicoanalista ungherese. È direttore del Dipartimento di Psicologia Clinica, della Salute e dell’Educazione presso l’University College di Londra, dove riveste la carica di Freud Memorial Professor of Psychoanalysis, e direttore esecutivo dell’Anna Freud Centre di Londra. I suoi contributi scientifici riguardano soprattutto l’introduzione del concetto di mentalizzazione, e lo sviluppo di importanti teorie come la teoria della mente e la teoria dell’attaccamento. Il suo lavoro è stato spesso teso verso l’obiettivo di gettare un ponte tra orientamenti diversi della psicologia, in particolare tra psichiatria, psicoanalisi, e psicologia cognitiva. Una parte importante del suo lavoro di ricerca riguarda inoltre la valutazione dell’efficacia del trattamento in psicoterapia. Dal punto di vista clinico, i suoi principali contributi riguardano il trattamento dei disturbi di personalità, in particolare del disturbo borderline di personalità, ma alcune delle sue intuizioni sono risultate importanti anche nella comprensione e nel trattamento dell’autismo. (Fonte: Wikipedia)

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Double Falls, Surreal Reflection | cobalt123 | CC BY-NC 2.0 | www.flickr.com

DIRITTO

Paradossi dell’insignificanza espressiva Carlo Ciarlo


L

a libertà di manifestazione del pensiero è costituzionalmente riconosciuta e tutelata come elemento essenziale della stessa libertà dell’uomo. Di conseguenza le limitazioni ulteriori rispetto agli argini poste a tutela dell’onorabilità, divengono delle camicie di forza. Si intende far cenno ai casi di finalizzazione della modalità di espressione ovvero alla sua limitazione all’interno di uno schema prefissato. Anche queste, infatti, sono delle limitazioni alla libertà. L’insignificanza, quindi, dovrebbe condurre alla eliminazione di qualsivoglia vincolo anche lessicale, in modo da rendere scevro da gabbie (esplicite o recondite) il pensiero, oltre che la sua manifestazione. I vincoli sociali ai quali il ragionamento umano da sempre è legato, oggi hanno trovato un ulteriore paletto, che si è insinuato nell’agire quotidiano sotto forma di modalità espressiva ed ha finito per determinare il merito di ogni riflessione. Ci si riferisce al “Politicamente Corretto”: una sorta di decalogo linguistico diventato, ormai, un frasario pre-confezionato imprescindibile. Ciò che nacque nel ’900 con intenti progressisti, addirittura con la volontà di sradicare delle consuetudini linguistiche, oggi ha finito per essere un cliché lessicale1. Il “Politically Correct” era nato per dare un impulso nuovo e viene oggi utilizzato come una sorta di tirranìa espressiva utile ad imporre un con-

formismo collettivo. Con questa riflessione iniziale non si vuole di certo avallare alcuna intolleranza verbale o assecondare una degenerazione espressiva che molto (troppo) spesso ha intaccato il lessico istituzionale. Non sfugge, infatti, il concetto che un linguaggio edulcorato ha anche una “funzione civilizzatrice” (Elster 1993: 78), ma questo non può consentire addirittura di imbrigliare ogni modalità e merito espressivi. Per altro verso non si può affermare una bocciatura tout court dell’evoluzione linguistica politicamente corretta. A tal proposito, si può far riferimento riferimento al campo socio - assistenziale. L’ingresso alla parola “assistito” rispetto a quella “malato” non solo ha edulcorato il concetto basilare, ma addirittura risulta maggiormente rispondente alla realtà. Venendo alle disabilità, sino a pochi anni fa non era comune confrontarsi con l’espressione “handicappato”, alludendo in maniera cruda (se non crudele) alle difficoltà fisiche o sensoriali. Oggi la locuzione “diversamente abile” non è un tentativo di mascherare la realtà, ma evidenzia che non ci si trova dinanzi ad un individuo nel quale ricercare delle “mancanze”, ma si è davanti ad una persona che ha abilità e potenzialità ulteriori. Queste modificazioni del linguaggio rispecchiano, quindi, anche un differente approccio legislativo. Una dimostrazione evidente

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sono le riforme sanitarie susseguitesi dal 1992 al 1999, i Piani Sanitari Nazionali e i Patti per la Salute siglati tra le Regioni ed il Governo, nei quali oltre ad una ridefinizione dell’organizzazione sanitaria, si è attuata una rivoluzione copernicana nell’approccio al diritto alla tutela della salute, mettendo al centro il paziente. Che ciò sia realmente avvenuto può essere oggetto di diversa riflessione, ma che il percorso sia stato avviato è indubbio. Di portata innovatrice anche la legislazione sui diversamente abili. Si deve pensare non solo all’approccio urbanistico legato all’abbattimento delle barriere architettoniche, ma, ancor di più si pensi alla pietra miliare della legge 104 del 1992 per l’assistenza e l’integrazione sociale, che ha avuto delle ricadute normative che oggi continuano a produrre i loro effetti. Il mutamento lessicale, quindi, è stato il riflesso positivo di altrettante modificazioni sostanziali. Un esempio ancor più temporalmente vicino è dato dalla legislazione sulla famiglia. Con il decreto legislativo 154/2013 è stata portata a compimento la più radicale modifica del diritto di famiglia dopo quella del 1975, con riferimento al tema della filiazione. Anche in questo caso l0 innovazioni lessicali sono state essenziali. Si è passati dai termini “figlio legittimo” e “figlio naturale” a quelli di “figlio nato nel matrimonio” e “figlio nato fuori dal matrimonio”. Di eccezionale importanza è stata poi la mutazione dal termine “potestà” in quello di “responsabilità genitoriale condivisa”2. Non possono essere classificati come “vezzi lessicali”, ma sottendono profonde evoluzioni giuridiche trasposte sul piano del linguaggio. A questo punto, però, è necessario passare al paradosso negativo del “politicamente corretto” al qua-

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le si faceva riferimento inizialmente. Basta spostarsi sul campo delle differenze di genere per rendersi conto che si è creato un frasario distorcente, se non artificioso. Una sorta di eugenetica negativa del lessico. Nel corso degli ultimi anni, la crescente consapevolezza e affermazione femminile nei vari campi (istituzioni, management e, più in generale, delle professioni), è stata accompagnata da una proliferazione delle parole declinate al femminile. Si sentiva di definire una “sindaca”o una “ministra”? La trasposizione “in rosa” di questi vocaboli ha forse aggiunto un valore ulteriore a quelle stesse decisioni locali o alle iniziative ministeriali? Si badi, però, che non si è in presenza di un puntiglio lessicale. Qualora, infatti, fossimo dinanzi ad una opzione espressiva, potremmo farla rientrare nella varietà della libertà di manifestazione del pensiero. Nel momento in cui, invece, il “politicamente corretto” assume la veste di un diktat al quale uniformarsi al fine di evitare di essere messi all’indice, allora si è in presenza di un conformismo che incide sul pensiero stesso, oltre che sulla sua forma espressiva. Allargando la riflessione con uno sguardo comparativo, si può accennare al concetto di “democrazia”. Oggi non sembra possibile parlarne senza pronunciare locuzioni come “democrazia partecipativa” o “democrazia web”. Anche in questo caso se ci si fermasse al linguaggio, sarebbe un male contenuto, ma, in verità l’espressione finisce per toccare e modificare la sostanza delle cose. È sufficiente un cenno alla cronaca. Dal dicembre 2010 gli obbiettivi mediatici sono stati puntati verso i rivolgimenti del mondo ara-

bo tutti classificati da subito come “Primavere Arabe”. Senza troppo approfondimento e con un buon grado di approssimazione rispetto alle transizioni democratiche3, si intendeva affermare che erano in corso delle rivoluzioni realizzate grazie al web lungo percorsi democratici, laici e partecipati. Si guardi ora, a titolo d’esempio, alla realtà egiziana. Al Cairo nel 2011 furono innegabili gli effetti delle onde d’urto dei rivolgimenti tunisini contro Ben Ali che portarono i primi rigagnoli di movimentismo giovanile nei confronti del regime di Mubarak. Ciò che, però, fu definita come la “Rivoluzione 2.0” dettata interamente dal contagio democratico via web, in realtà ha avuto una evoluzione ben più complessa fatta di legami internazionali e dinamiche politicoreligiose. Il Presidente Egiziano Mubarak, sostenuto sin dal 1981 dalla sponda di Washington, aveva ormai perso i suoi punti di forza internazionali ed era divenuto preda ambita per il jihadismo. Peraltro, l’esercito egiziano non si è mosso a difesa dello status quo anche tutela della propria popolarità. Pertanto, i giovani rivoluzionari laici e guidati da internet che la vulgata voleva alla testa e nell’anima della primavera egiziana, in realtà si sono dimostrati una rappresentazione di comodo che aveva un ruolo reale molto parziale. La riprova la si è avuta, prima con la vittoria elettorale post regime da parte Fratelli Musulmani guidati da Mohamed Morsi e successivamente con la destituzione violenta del presidente eletto e l’ascesa del maresciallo Abdel Fattah Sisi. Se ciò non bastasse per sfatare il


feticcio politicamente corretto della rivoluzione per mano digitale, è sufficiente richiamare alcuni elementi empirici. Nonostante la regione araba abbia assistito ad una crescita esponenziale nel numero di utenti Internet negli ultimi anni, occorre anche notare che nel complesso la penetrazione dei social media, in relazione al totale della popolazione, resta piuttosto bassa e lo era ancor di più nel 2011. Inoltre, i prezzi delle connessioni internet erano inaccessibili per buona parte della popolazione4. Infine, le rivolte sono scoppiate anche in quei Paesi, come la Libia, in cui il governo deteneva un forte controllo di Internet e gli strumenti online erano quasi completamente oscurati, così come le proteste in Egitto sono continuate anche dopo il blocco totale delle connessioni ad Internet voluto dal regime di Mubarak. A suggello del nostro ragionamento è opportuno richiamare le parole dello stesso fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, in occasione dell’E-G8 tenutosi a Parigi nel maggio 2011: Facebook non è stato né necessario né sufficiente perché nessuna di queste cose accadesse [...] Nessun ruolo politico chiave per il social network; quello che è successo è che alcune popolazioni si sono prese per mano. Può darsi che Facebook abbia dato un contributo e apportato alcuni vantaggi, ma questa è un’altra cosa.5

Oggi la mitologia della rivoluzione araba ha lasciato spazio ad una riflessione più profonda sulle ragioni per le quali il modello egiziano si stia avviluppando in una spirale para-democratica che, almeno per ora, è lontana dall’agognata transizione democratica6. Una valutazione non vincolata

da definizioni pre-confezionate che hanno limitato spesso le prospettive visuali, avrebbe potuto anche far cogliere prima e meglio l’essenza ed il significato delle dinamiche medio orientali. Imbrigliare le parole può, quindi, portare ad ingabbiare l’essenza stessa dei pensieri che dovrebbero veicolare. Per questo è bene essere desti alla ricerca dell’insignificanza: il sonno “politicamente corretto” genera mostri.

Note 1 Per un approfondimento sul concetto di “Politicamente Corretto” soprattutto con riferimento al diffondersi di questa espressione all’interno delle università americane cf. (Angiò 1997), (Berman 1992), (Kurzweil, Phillips 1995). 2 Nel concetto di potestà è insito il potere di disporre delle attività altrui e, quindi è ineliminabile, dallo stesso, una connotazione di «subordinazione» del soggetto in potestate rispetto all’altro. L’espressione “responsabilità”, invece afferisce ad una qualità di un soggetto (cioè la capacità che si attribuisce a un soggetto di essere in grado e perciò di dover dare risposta a causa dei suoi comportamenti, o comunque di un fatto a lui ricollegabile secondo criteri accertati) ed al processo che si sta svolgendo in forza di tale qualità. Per una riflessione più ampia sulla responsabilità cf. (Rescigno 1988: 1342). 3 Le transizioni democratiche affrontate da (De Vergottini 1998). 4 Internet World Stats: Usage and Population Statistics http:// www.internetworldstats.com/stats1. htm#africa 5 http://daily.wired.it/news/ internet/2011/05/26/intervento-markzuckerberg-eg8.html 6 Si peccherebbe del medesimo errore di approssimazione se si defi-

nisse come completamente fallito e fallimentare il percorso intrapreso nel 2011, perché i cambiamenti profondi e sistematici richiedono tempo. Sul punto si è espressa eminente dottrina cf (Miller, L.E., J. Martini, F.S. Larrabee et al. 2012).

Riferimenti bibliografici Angiò, C. 1997. Political Correctness e revisionismo costituzionale. Studi Perugini, II, 1, pp. 259-291. Berman, P. (a cura di). 1992. Debating p.c.: The Controversy over Political Correctness on College Campuses. New York: Dell. De Vergottini, G. 1998. Le transizioni costituzionali. Bologna: Il Mulino. Elster, J. 1993. Argomentare e negoziare. Milano: Anabasi, p. 78. Kurzweil, E., W. Phillips W. 1995. Our Country, Our Culture. The Politics of Political Correctness. Boston: Partisan-Review. Miller, L.E., J. Martini, F.S. Larrabee et al. 2012. Democratization in the Arab World: Prospects and Lessons from Around the Globe. Santa Monica: Rand Corporation. National Defense Research Institute. Rescigno, G.U. 1988. Responsabilità. Enciclopedia del Diritto, XXXIX. Milano: Giuffrè.

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POLITICA

La politica di fronte alla sfida dell’insignificanza Dialogo con Carlo Salvemini e Saverio Congedo


1. L’attesa della povera gente Nel 1950, Giorgio La Pira, indimenticato Sindaco di Firenze ed esponente di spicco del Cattolicesimo democratico, indicava nell’«attesa della povera gente» un riferimento irrinunciabile per l’azione politica. Nelle sue parole, l’obiettivo dichiarato del «pieno impiego» non era da intendersi in termini meramente economici, ma nel senso del diritto di ciascuno al dispiegamento delle proprie capacità. Si trattava di un fine per così dire “alto”. Quali strade dovrebbe intraprendere la politica per recuperare una tale nobile destinazione? Salvemini: La politica assolve alla propria funzione quando ricorda di essere un servizio, utile agli altri e non a chi la pratica, un mezzo necessario a raggiungere obiettivi utili alla comunità. Quando viene interpretata come mero fine tradisce se stessa. Recuperando il senso autentico della propria funzione essa diventa inevitabilmente un riferimento “per la povera gente” che solo in questo modo può tornare a percepire la politica come utile a realizzare le proprie aspettative, bisogni, necessità. Congedo: La questione del lavoro che poneva La Pira è attuale e drammatica più che mai e si pone in termini molto concreti e non solo di diritto al dispiegamento delle proprie capacità. Quel che non si poteva, ma ancor più non può oggi, immaginare che essa sia risolta a carico di pubblici bilanci sempre più asfittici. Occorre ricreare le condizioni dello sviluppo restituendo competitività al sistemaItalia, oggi schiacciato dal combinato disposto delle oppressioni fiscali e burocratiche e reso incapace da un reticolo inestricabile di veti e di vincoli

anche di realizzare la più elementare delle innovazioni infrastrutturali. C’è in giro una sotto-cultura oscurantista, erede illegittima di quella marxista che invece era marcatamente industrialista, che lo sviluppo lo inibisce in partenza demonizzandolo. Un esempio per tutti, il Piano Paesaggistico di Vendola che di fatto configura una confisca generalizzata del territorio pugliese.

2. La politica e l’uomo come sua destinazione «Dire, infatti, “città d’uomo a misura d’uomo” è subito porre l’uomo al suo posto e si può su di esso fissare l’attenzione come su colui dal quale la città prende vita e verso il quale la città è volta come a proprio fine». Sono ancora attuali queste parole di Giuseppe Lazzati a proposito del compito della politica? Salvemini: La città a misura d’uomo è quello spazio pubblico nella quale si costruisce senso di comunità: ossia condivisione di un destino, appartenenza ai luoghi, relazioni fiduciarie tra cittadini e tra questi e le istituzioni, consapevolezza dei propri diritti e doveri. Questo dovrebbe essere il rovello degli amministratori pubblici impegnati nel governo dei propri territori. Migliorare il benessere di chi abita e vive i luoghi. Solo ponendo il cittadino al centro dell’azione politico amministrativa si raggiunge l’obiettivo “di una città a misura d’uomo”. Per quanto possa apparire retorico e scontato, così oggi purtroppo non è: perché altre e improprie sono spesso le preoccupazioni di chi gestisce la res pubblica: l’affermazione di sé, il pri-

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vilegio per i propri clientes, la massimizzazione del simbolico che produce consenso ma non determina benefici diffusi.

Carlo Salvemini | immagine tratta da http://d13pix9kaak6wt.cloudfront.net/background/carlo.salvemini_1322069195_1.jpg

Congedo: Non c’è dubbio che il valore della persona in quanto tale

debba essere riferimento primario di ogni politica. Tale primato non può non inverarsi nella regola della libertà, che è poi la dimensione dello spirito, ossia del diritto di ciascuno di esprimere liberamente le proprie irripetibili vocazioni ovviamente nel ri-


spetto dell’eguale diritto altrui ed anche al fine di massimizzare la capacità del sistema di soccorrere anche chi non ce la fa. Compito della politica è vigilare sull’efficienza di tali primati e promuoverli nell’azione di governo.

3. Il politico e il linguaggio Il politico incontra di fronte a sé due esigenze in apparenza contrastanti. Da un lato, i problemi che ha di fronte sono molto spesso complessi e stratificati e richiedono competenze specifiche. Dall’altro lato, l’uomo prestato alla politica deve poter comunicare, usando un linguaggio non iniziatico. Questa frattura tra specialismo e linguaggio del politico è reale o apparente? Se è reale, come può essere superata? Salvemini: C’è una battuta molto efficace di Tony Blair sul rapporto tra leadership, consenso, preparazione. “Quando si viene eletti si è al massimo della popolarità e al minimo della preparazione. Quando si giunge alla fine del proprio mandato si è al massimo della conoscenza e al minimo dei consensi”. Questo ci spiega come cambia il linguaggio della comunicazione pubblica durante la campagna elettorale e quando si è al governo: diretto, spregiudicato, retorico nei comizi o nei talk. Riflessivo, problematico, contestualizzato nel mandato istituzionale. È credibile chi riesce a minimizzare queste differenze, promettendo solo ciò che può mantenere e mantenendo ciò che ha promesso.

Congedo: Non è detto che problemi complessi debbano comportare necessariamente linguaggi contorti. Al contrario una dote fondamentale del politico è proprio la capacità di fare sintesi tra ragioni diverse ed interessi divergenti. E la sintesi non può non essere chiara.

4. La politica, il potere, la testimonianza Oggi il politico è chiamato a fornire in tempi rapidi risposte competenti ai problemi che incontra. Se da un lato la ricerca della efficacia dell’azione politica presuppone un legittimo uso del potere, come evitare che questo esercizio non si traduca in abuso? Esiste una virtù che il politico deve incarnare? Salvemini: La vera virtù che penso si debba coltivare è quella legata al senso del limite: non ritenere la politica onnipotente, ricordare sempre il rispetto delle norme che sono poste a tutela dell’interesse collettivo e non ad intralcio dell’azione di governo come magari qualcuno è portato a credere. Congedo: I due più grandi pensatori politici italiani del ‘900. Gramsci e Croce, concordavano sul fatto che la morale della politica è quella del risultato. Il potere ne è lo strumento, che spesso richiede anche scelte coraggiose. L’importante è non farsene sporcare.

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5. L’orizzonte dell’azione politica Vi è nella azione politica, specie nell’amministrazione degli Enti Locali, una forte divaricazione: per un verso bisogna fare delle scelte che possano avere un respiro lungo, per altro verso, soprattutto oggi, si vuole che ogni scelta abbia delle ricadute immediatamente percepibili. Come si riesce a bilanciare questi due orizzonti evitando gli eccessi opposti? Salvemini: Mettendo al centro, come dicevamo prima, il miglioramento della qualità delle vita della propria comunità. Che non è un evento, uno spot ma un processo che richiede pazienza, tenacia, fiducia. Ancora oggi, nonostante ormai siano passati vent’anni dall’elezione diretta dei Sindaci e il bilancio delle esperienza sia ricco e articolato, c’è chi in campagna elettorale si lancia nel “programma dei cento giorni”. Una colossale stupidaggine che serve solo ad alimentare la retorica del discorso pubblico, l’attesa salvifica dell’uomo forte, la promozione di un decisionismo decontestualizzato. Serve sapere cosa farai nei successivi 1700, fino alla scadenza del tuo mandato consapevole che per raggiungere tutti gli obiettivi indicati dovrai scommettere sulla tua rielezione. Oggi più che mai dovrebbe tenersi a mente il monito di De Gasperi che invitava a sapere distinguere tra chi si preoccupa delle prossime elezioni e chi invece delle future generazione. Congedo: Si dice che il politico è quello che pensa al presente, lo statista quello che pensa al futuro. Ma non c’è stato statista che non sia stato anche politico.

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Saverio Congedo | immagine tratta da http://magazine.pianetalecce.it/wp-content/uploads/2013/10/cong.jpg

6. Il dissenso è consenso? In più circostanze vediamo che il dissenso cresce spesso su tematiche di carattere ambientale. In alcuni casi, si ha la sensazione che vi siano scelte poco oculate e scarsamente condivise. In altri casi, invece, si percepisce che nonostante discussioni durate decenni vi sia sempre chi nell’ultimo miglio aizza il dissenso,

cercando di cavalcarne l’onda crescente. In che misura il politico deve prestare l’orecchio al dissenso e quando, invece, deve fare delle scelte che possano anche risultare impopolari? Salvemini: Il dissenso è prezioso quando motivato, argomentato e non emotivo o pregiudiziale. Chi governa

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deve sapere distinguere tra l’uno e l’altro. Accomunarli mostrando insofferenza per entrambi riduce ogni pensiero diverso come un intralcio, impoverendo la qualità del discorso pubblico. Avendo la consapevolezza che qualunque scelta, anche la più meditata, sconta sempre una resistenza presso la cittadinanza. Congedo: Il dissenso, come il dubbio, oltre ad essere un diritto inalienabile, è un fattore fondamentale di crescita di qualsiasi sistema, perché comunque costringe chi deve decidere a riflettere ed a guardare più lontano. Ciò detto, c’è un momento in cui decidere si deve, anche sfidando un’impopolarità che, se dovuta a scelte giuste, è destinata ad essere effimera.

7. La funzione della politica Alcide de Gasperi, un pater patriae che ebbe un ruolo fondamentale nella rinascita dell’Italia ferita e umiliata dalla Seconda Guerra Mondiale, intendeva la politica come un servizio da rendere al Paese, indipendente dall’appartenenza partitica. Quell’insegnamento è evidentemente caduto nell’oblio se la politica è diventata uno strumento per raggiungere scopi personali, in contraddizione con la stessa radice etimologica della parola. Quali strumenti Lei ritiene necessari per restituire all’agire politico la sua naturale inclinazione alla cura della res publica? Salvemini: C’è solo la coscienza individuale, la cultura politica, la sensibilità istituzionale che può fare da anticorpo al virus dell’opportunismo, del calcolo, della convenienza. Un tempo erano virtù che venivano coltivate in un lungo apprendistato politico dentro i partiti, che con tutti i limiti, esprimevano comunque

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capacità di selezione di una classe dirigente nutrita di alcuni valori comuni. Oggi questa funzione s’è fortemente ridimensionata: l’unico vera discriminante è quelle del consenso. Vali per i voti che esprimi più di quello che pensi. Congedo: Non c’è altro strumento che la coscienza individuale. Cui si aggiunge il giudizio popolare, al quale il politico- a differenza di altri cosiddetti servitori dello Stato- deve comunque sottoporsi. La politica non è mai né migliore né peggiore della società che la esprime. E che può sostituirla alla prima occasione.

8. Il ritorno della Questione meridionale Il riferimento alla “questione meridionale” è divenuto anacronistico sia in letteratura che in politica. Eppure i dati sulla distribuzione della povertà e della disoccupazione, soprattutto giovanile, confermano l’esistenza di un divario economico e sociale tangibile. In quali termini può essere reimpostato il dibattito sulle differenze tra Nord e Sud, anche alla luce dei principi di responsabilità e territorialità introdotti dalla riforma sul federalismo fiscale? Salvemini: La questione meridionale è una questione nazionale. Ieri come oggi. Solo considerandola tale e non mero problema di chi vive al Sud essa può cessare di essere un problema. Ma dopo cinquant’anni di politiche ad hoc il rischio di essere banali è concretissimo. Hanno sbattuto la testa fior di economisti, statisti, funzionari della Stato. Pensare di avere la soluzione in tasta sarebbe semplicemente presuntuoso. Congedo: La “Questione meri-


dionale” si configura in un ritardo di sviluppo che può essere colmato soltanto con la ripresa e l’accelerazione dello sviluppo stesso. Le terapie sono le stesse della più complessiva questione del lavoro: meno tasse, meno burocrazia, più infrastrutture, più competitività. Ed in dosi più forti, visto che i nostri mali sono più profondi e più gravi. E cioè esattamente il contrario di quel che si sta facendo in Italia e in Puglia.

9. La domanda di nuovo Welfare La dottrina più illuminata, per esempio le ricerche condotte dal Centro di Studi Einaudi, ha rilevato da tempo la necessità di una trasformazione del Welfare che non mortifichi la domanda (sempre più complessa a causa dei cambiamenti demografici e sociali) ma trasformi l’offerta, attivando il principio di sussidiarietà non solo orizzontale ma circolare. È evidente che questa prospettiva risente di una visione antropologica “ottimista”, che considera l’uomo capace anche di spinte altruistiche e non solo auto- interessate. Ritiene che la politica debba assecondare questa prospettiva o adeguarsi ai precetti della razionalità classica, secondo la quale l’homo oeconomicus è necessariamente un bad man? Salvemini: Nel continente che ha inventato il Welfare State oggi “I diritti dei deboli sono diritti deboli”. Oggi sempre di più la questione sociale è la prima vera emergenza politica per effetto di politiche fortemente restrittive sul versante della protezione a chi ha meno. Crescono i bisogni e diminuiscono drammaticamente le risorse. Aumentano le periferie. Non più intese come aree urbane lontane dal centro ma come aree di nuovi bisogni cui dare rispo-

ste: emarginazione, solitudine, povertà, disagio, lavoro, alloggio, sicurezza. Serve un cambio di prospettiva. Urge una nuova consapevolezza. Per riuscire ad organizzare un welfare di andare oltre la nicchia meramente assistenziale. È un compito difficile ma ineludibile che sollecita un nuovo modello di governo delle politiche sociali. Perché “l’attenzione per le grandi cose deve passare per la sollecitudine verso le situazioni disperate delle quali non ci accorgiamo più”. Chi intende proporre un cambiamento deve avere consapevolezza che si parte da qui: dall’affermazione di un sistema di diritti che mette al centro chi più ha bisogno. Senza privilegi, preferenze, clientele. “Non c’è politica senza un sogno da tradurre in realtà”. E nella quale lo spazio della lotta al disagio non può essere occupato solo dalle istituzioni locali ma da quel vasto mondo associativo da sempre impegnato a difesa di chi ha meno. La rete della solidarietà, della protezione, dell’assistenza a causa dei poderosi tagli apportati ai fondi sulle politiche sociali oggi non riesce a coprire l’area del bisogno. Bisogna fare di più con meno. E tutti insieme. Congedo: Non c’è dubbio che il welfare come l’abbiamo finora concepito non sia più sostenibile. Non si può dare tutto a tutti e per sempre, se non accumulando debiti da scaricare poi sulle future generazioni. E’ quel che è colpevolmente accaduto in Italia e che non possiamo più permetterci. La “sussidiarietà” è certamente una strada da percorrere. Ed io condivido la visione antropologica “ottimista”. Basta vedere quanti problemi risolva e quanto bene faccia il nostro volontariato, fondato soltanto sulle donne e sugli uomini di buona volontà.

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Ippolito Chiarello

Ogni volta che parlo con me

Immagine estratta dal film “Ogni volta che parlo con me”.

NOTE LUNGHE DALLO SPETTACOLO al “BARBONAGGIO TEATRALE” AL FILM


TEATRO | CINEMA

P

er capire fino in fondo il mio percorso e per comprendere meglio il tutto, cercherò di farvi un racconto breve ma dettagliato. Dopo dieci anni importanti di lavoro con la Compagnia Koreja di Lecce, nel 2004 “ho deciso” se così si può dire, di fare un percorso da free, solitario e a prestito di registi e compagnie. Volevo continuare a lavorare nell’ambito teatrale come attore. Costituisco la mia associazione NASCA TEATRI DI TERRA e dopo dei progetti autonomi e fortunati, come OGGI SPOSI, che ormai replico da dieci anni, ma “giustamente” ignorato dalla critica e applauditissimo dal pubblico, dimenandomi solitario nel mercato teatrale italiano, una sorta di disagio umano mi ha aperto le porte per capire anche il mio percorso artistico futuro. Vivere una vita veloce, da consumare, il desiderio di rallentare… la voglia di raccontarlo in uno spettacolo… rappresentare il disagio contemporaneo. Un incontro con Maksim Cristan e il suo fortunato libro (Fanculopensiero edito prima da Lupo Editore e poi da Feltrinelli), che racconta di un manager che per un trauma psicologico da stress, riesce a

cambiare vita e a rallentare (diventa scrittore e oggi musicista e performer, attore… ironia della sorte), mi apre la strada e mi da lo spunto per “scrivere” a 8 mani lo spettacolo (Simona Gonella, regia – Michele Santeramo – drammaturgia, Vincent Longuemar – luci e scena) FANCULOPENSIERO STANZA 510, prodotto dal Festival Castel dei Mondi, oltre al Cerchio di Gesso di Foggia, Nasca Teatri di Terra e Italgest. Lo spettacolo debutta il 17 luglio del 2008 e per me è una delusione, perché complesso e non a misura e creato e prodotto e pensato senza un pensiero nuovo, quello che era dentro di me e che preso dall’ingranaggio non veniva fuori. Confezionare lo spettacolo e mostrarlo ai critici e al festival era l’unica preoccupazione. D’accordo con i compagni di viaggio decido di agire radicalmente sulla struttura dello spettacolo per cercare di farlo diventare efficace, come sentivo che poteva essere. Elimino ogni elemento scenografico e di luce e mi concentro su un’idea primordiale, far funzionare il meccanismo a partire dalle cose semplici: la storia, l’attore, lo spazio. Lo spettacolo comincia a funzionare, io comincio a divertirmi e comincio a girare. Per promuoverlo e distribuirlo

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comincio a provare quell’altro disagio che ha portato il progetto alla seconda fase. Nessuno risponde alle mail e alla mia proposta. NESSUNO… forse un teatro milanese… il Piccolo. Sport teatrale molto radicato in Italia e che secondo me è uno dei principali fattori che determinano e rivelano l’assenza di un sistema teatrale “reale”. L’assenza di risposte, specie per una classe giovanile che vuole iniziare a fare teatro, determina subito la non esistenza. Decido di fare un’azione di protesta e nell’edizione successiva di Castel dei Mondi, nel 2009, chiedo di poter fare il mio spettacolo in strada, prima delle serate ufficiali, fuori dai 9 luoghi del festival. Faccio un menu con il mio spettacolo, diviso in pezzi, da comprare dai 2 ai 15 euro. L’esperienza è dura, umiliante, ma nello stesso tempo entusiasmante e allora comincio a proporlo anche nelle altre città. Man mano che l’esperienza va avanti, si definiscono bene anche obiettivi non pensati all’inizio: svendere lo spettacolo per protesta contro la svendita della cultura in Italia, abituare le persone a dare un valore alle “parole-arte” e fare il trailer del mio spettacolo, invitare la gente a teatro. Capisco la necessità di questa e di altre azioni in direzione del pubblico ogni volta che si pensa a un nuovo spettacolo. Azioni però che devono “sporcare” il percorso. Non convegni, non azioni istituzionali, ma la strada, la gente, le case, i luoghi. Comincio a viaggiare in tutta Italia, prima contattando io i teatri e i luoghi possibili. Poi ho contattato direttamente il pubblico e l’ho organizzato (come i GAS, i gruppi di acquisto solidale). Dopo poco, il

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passaparola e l’uso intelligente della rete (dove si poteva seguire il viaggio) ha fatto il resto. Ho fatto 120 città in Italia, ho creato un mio pubblico di affezionati e sostenitori. Ho avuto visibilità sulla stampa nazionale (Paginone sul Fatto Quotidiano e altre testate Nazionali) e sui canali Rai senza che io facessi eccessivi sforzi e grazie all’aiuto di validi collaboratori. Ma la cosa importante è stato l’interesse del pubblico che ha scelto di vedere il mio spettacolo pagando di persona e organizzando la sua serata teatrale: case, distributori di benzina, librerie, supermercati e naturalmente ogni sera anche a teatro. È successo però che le due modalità di fare lo spettacolo, alla carta e canonica a teatro, a volte, hanno anche cominciato a viaggiare autonomamente. Decido di allargare il giro e di fare una sintesi di quello che era accaduto, cercando gli obiettivi che potevano essere condivisi con la comunità teatrale. Visto che l’esperienza produttiva aveva funzionato: economicamente, artisticamente, attorialmente, in termini di visibilità, bisognava raccontarla. Nasce quindi l’idea, naturale, essendo in un mondo globale, di fare un viaggio all’estero, portare lo spettacolo nelle principali capitali europee (Barcellona, Madrid, Parigi, Londra e Berlino), capire nelle altre nazioni come funziona il teatro, creare relazioni, raccontare delle emozioni. Decido, per raccontare e fare la mia “sintesi” di scrivere e girare un film di questo viaggio e stilare un diariolibro. Un film vero che emozionasse e nello stesso tempo mostrasse, raccontasse il disagio dell’uomo, dell’artista


e del personaggio, che nel mio mestiere viaggiano insieme. Denunciasse l’assenza del riconoscimento artistico in Italia. I soldi? Beh, a dimostrazione e conferma degli obiettivi raggiunti: la creazione di un “rapporto sentimentale” con il pubblico e con nuovo pubblico, a un mio appello di adottare un attore e aiutarmi in questa ricerca, finanzia tu stesso la tua crescita e scoperta culturale, hanno cominciato ad arrivare bonifici e donazioni da semplici cittadini che avevano visto lo spettacolo o che seguivano questo viaggio e questa protesta sul web, teatri, esercizi commerciali, istituzioni comunali. Commovente direi. Ho raccolto 6920 euro che sono serviti per fare il viaggio, durato un mese, con altre due persone che viaggiavano con me (Matteo Greco, che ha scritto con me il film e ne è il regista e montatore e direttore della fotografia e altro e Elena Riccardo, organizzatrice e interprete per le varie lingue). Il Film racconta in forma di fiction questo viaggio e questo progetto… 8000 km a piedi di un barbone per scoprire come uomo, come artista e come personaggio, nuove strade per ri-costruire e ri-pensare i 3 percorsi. Ai contributi volontari della gente si è unita la coproduzione della Apulia Film Commission e de I Teatri Abitati. Il circuito di distribuzione che vorremmo fare sarà legato alle sale cinematografiche, alla distribuzione nei festival, in tutte le città in cui lo spettacolo è stato e vorremmo proiettarlo nei teatri, nelle stagioni teatrali e portarlo porta a porta, piazza a piazza. Al film sarà affiancato un libro. Se tutti mettono qualcosa la cultura e il teatro sopravvivono. Le piccole e concrete

esperienze e i piccoli spazi e il “pubblico reale” sono lo scheletro portante per sostenere e diffondere una cultura teatrale fresca e necessaria e non elitaria e autoreferenziale. Il Barbonaggio ormai è diventato un “movimento” seguito da molti artisti, anche in solitaria, come me e che barboneggiano ricordando nei loro materiali che l’ideazione è riconducibile al mio percorso artistico (questo lo trovo un bel gesto). Nel lessico è entrata la parola “barboneggiare”, per dire che pratico questa modalità artistica e perché in fondo mi metto in strada e senza fare leva su giocolerie e fuochi (stupendi strumenti e propri del teatro di strada) mi rimetto alla bontà della gente che passa e che incuriosita si ferma a parlare con me e a chiedermi che faccio. Il Barbonaggio ha creato un pubblico intorno a me che segue il mio percorso e mi viene a trovare ovunque io vada e mi sostiene non solo con l’applauso ma con la promozione attiva e il passa parola. Questa operazione dal basso e con i “piccoli” spettacoli sicuramente può essere rimodulata per i grandi circuiti e i grandi eventi artistici. link video playlist Youtube del progetto Fanculopensiero stanza 510 e barbonaggio teatrale da cui prende spunto il film http://www.youtube.com/playli st?list=PL393F1611B4A0C2AF link spettacolo Fanculopensiero stanza 510 a teatro http://www.youtube.com/watch ?v=MbSXc2isqCU&list=PL393F16 11B4A0C2AF&index=155

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FILOSOFIA?

Giovanni Scarafile

La vita desta Eye of an Eye | Greta Ceresini-gre.ceres | CC BY 2.0 | www.flickr.com

Un antidoto per l’insignificanza


1. La catena delle azioni. Ieri ed oggi. Quasi sempre si agisce in vista di qualcosa. Avviene nella maggior parte dei casi. È vero che, a volte, si agisce “a casaccio” o in preda ad un impulso che non può essere frenato. In linea di massima, però, si tratta di un’eccezione. In genere, dunque, si agisce per raggiungere un obiettivo e questo fa in modo che ogni nostra azione sia concatenata a quella successiva. Di azione in azione ci avviciniamo alla meta del nostro agire. Le azioni sono così legate al fine che intendono perseguire. Il fatto di non agire a casaccio, ma sempre in vista di qualcosa, è un valore. Quando la connessione tra azioni

e fini realizza ciò che appartiene alla “natura essenziale” del soggetto, allora si consegue il bene. È questo il livello in cui la meccanica dell’agire, ovvero il discorso sulla concatenazione delle azioni, incontra la classica domanda “che cosa è il bene?”. La tradizione occidentale, in larga parte, ha risentito dell’influsso della cultura aristotelica. Per il filosofo greco, vissuto nel IV secolo a. C., infatti, ogni cosa ha un suo proprio ambito di riferimento cui non si può sottrarre, se non contravvenendo alla natura. Questa concezione può essere ritrovata in molte contrade della nostra cultura. Ulisse, che sprona i suoi marinai a varcare le colonne d’Ercole e quindi a superare i limiti imposti


_ Sad eye _ | a NuageDeNuit | Chiara Vitellozzi | CC BY-NC-ND 2.0 | www.flickr.com

all’umano, viene non a caso collocato da Dante nell’Inferno. Egli ha osato sfidare la finitudine costitutiva di ciascuno di noi. All’interno di un orizzonte concettuale in cui è bene che ogni cosa abbia il suo ambito di riferimento al quale non deve sottrarsi, Aristotele scriveva: «a ragione si è affermato che il bene è “ciò cui ogni cosa tende”» (Aristotele 1998: 51). Bisognerebbe introdurre una serie di specificazioni, per accompagnare nel modo dovuto la frase precedente. Infatti, agire in vista di qualcosa non è un bene sempre e comunque. Per esempio, l’azione di un killer è esattamente finalizzata ad un fine, ma non per questo essa può essere definita “buona”. Per il killer, dunque, il fine è intenzionato come un bene, senza tuttavia esserlo.

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La correlazione tra azioni e fini è dunque un bene quando si sia d’accordo su cosa il bene è. L’accordo sul bene: sperimentiamo oggi una qualche forma di condivisione dell’idea del bene che ci consenta di applicare lo schema aristotelico senza ulteriori specificazioni? Sembra proprio di no. Anzi, la situazione contemporanea è caratterizzata dal fatto che più idee del bene confliggano tra loro. Se l’interrelazione tra azioni e fini era considerata un bene nel mondo aristotelico, il fatto di vivere in un mondo profondamente diverso comporta la necessità di rivedere quella attribuzione di valore. È questo il senso della sfida lanciata da Kundera quando parla di insignificanza. Ad un primo livello, dunque, la possibilità di un allentamento della catena azioni-scopi, ovvero di ciò che appare incontrovertibile, ha per lo meno il merito di sollecitare una riflessione sulla natura del bene.

2. Rarefazioni, fascinazioni, fondamenti. La forma rarefatta ed allusiva, adottata da Kundera nel libro La festa dell’insignificanza, non è esente da rischi dai quali una forma saggistica con una logica più stringente avrebbe probabilmente messo al riparo. Il problema risiede nel fatto che quando i fili della logica si allentano, allora i legami di senso si moltiplicano, ma non è detto che essi siano fondati. Nello specifico, per “fondati” intendo che possano essere appropriatamente riferibili all’umano. L’allusività è affascinante ed irrinunciabile. Tuttavia, per essa potrebbero essere mutuare le parole di Omero, riferite alle Sirene: «Alle Sirene giungerai da prima, / Che affascinan chiunque i lidi loro / Con la sua prora veleggiando tocca» (Odissea XII, 52-54). Il fascino e la rarefazione di per sé non sono sufficienti

perché non vi sono garanzie di ragionare fondatamente. Ragionare di insignificanza, dunque, partendo dallo scritto di Kundera, richiede la messa a punto di un antidoto quale sua stessa condizione di possibilità. Non un rimedio contro l’insignificanza, ma una serie di coordinate all’interno delle quali quel discorrere di insignificanza possa essere significante, cioè riferirsi a qualcosa di almeno possibile.

3. Allontanarsi dal centro. Una delle vie che l’allentamento del legame tra azioni e fini può prendere è quella del male. Anzi, direi che si tratta della via eminente. Proprio mentre il soggetto sceglie, sulle ali della libertà (e della più radicale fra le libertà, quella dalla sua stessa condizione), una via diversa rispetto a quella cui sembra destinato, egli può incorrere nel male morale. Il male morale si ottiene quando ognuno di noi agisce al di sotto delle sue capacità originarie. Il male morale corrisponde dunque a quella differenza tra l’agire secondo le proprie possibilità e l’agire in misura inferiore rispetto a quelle stesse possibilità. Sotto l’azione del male morale, si diventa ostaggio della forza centrifuga del «de-vèrtere», del distogliere, che ci allontana dal nostro centro1. Il soggetto si disconnette dalle condizioni entro cui può legittimamente agire ed in tal modo diviene “solutus a lege”, irrelato, sganciato da qualsiasi riferimento normativo o riconduzione relazionale. Male morale, dunque. Tuttavia, in determinate circostanze, quel male già di per sé non indifferente può mutare. Esso diviene del tutto insostenibile ed intollerabile. In una parola, male incommensurabile, ciò che, per sua natura, si sottrae ad ogni possibilità di prensione. In genere, l’apologetica cristiana tende a sostenere che il male è simile alle ombre. Senza di esse, infatti, non sarebbe possibile

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vedere la luce. Detto in altri termini, il male è senz’altro spiacevole, ma è funzionale al miglior raggiungimento del bene. Io credo che questo schema sia applicabile al male commensurabile, ma del tutto inadeguato a gestire il male incommensurabile, che come tale rappresenta una sfida per il pensare. Non a caso, Ricoeur ha scritto: «Il male è il punto critico di ogni pensiero filosofico: se lo comprende è il suo più grande successo; ma il male compreso non è più il male, ha cessato di essere assurdo, scandaloso, senza diritto e senza ragione. Se non lo comprende, allora la filosofia non è più filosofia, se almeno la filosofia deve tutto comprendere ed ergersi a sistema, senza residui» (Ricoeur 1996: 9)2 .

4. La vita desta. La filosofia ha messo a punto numerosi percorsi per rendere ragione del male. Essi sono in qualche modo racchiusi nelle teodicee di cui Leibniz fu il primo e più raffinato artefice. L’allentamento tra azioni e fini, ciò che in una parola chiamiamo ‘insignificanza’, consegna dunque uno scenario accattivante per le sue possibilità, ma anche vertiginoso per i rischi cui espone. Da una parte, la possibilità di rimeditare l’umano; dall’altra, il baratro della distruzione e dell’annichilamento. L’elemento ultimo cui demanda-

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re il discernimento tra le due opzioni non ha la plastica robustezza che spereremmo di incontrare di fronte a scelte così fondamentali. Ciò che può fornire un orientamento ha invece la struttura esile della “vita desta”3 con cui indichiamo la barriera che può porre un argine alla barbarie. Essa è insieme la soluzione e l’ideale regolativo, la meta verso cui tendere senza sosta. La vita desta si attiva quando siamo pronti a tramutare l’immediatezza del nostro rapporto con il mondo in un qualcosa di più mediato. Dalla immediatezza alla mediatezza cioè alla riflessione. Dall’immanenza fusionale (l’essere a tal punto immersi in quanto facciamo da non riuscire più a distinguere tra noi stessi, il mondo e gli altri) alla coscienza critica. È poco? È molto? Mi sembra che nella confusione generale riguardo le idee fondamentali che dovrebbero fungere da coordinate del nostro pensare ed agire, l’essere pervenuti alla evidenza di una tale richiesta sia senz’altro un risultato apprezzabile.

Note 1 Qui ritorna, con insistenza, la domanda: chi è titolato a definire cosa sia il centro del soggetto? 2 Ha significativamente scritto in

proposito Rella (2001: 211): «molto su di noi e sul nostro destino possono dire i concetti, ma i concetti non esauriscono la ragione, il pensiero, e nemmeno l’esperienza della realtà. Accanto alla verità del filosofo o dello scienziato rimane sempre la verità della mia esperienza individuale, di molte infinite esperienze individuali. Soltanto un pensiero che si muova attraverso concetti e figure può proporci la forma in cui queste due esperienze si diano come una esperienza complessa del mondo: una forma in cui l’inesprimibile della differenza possa finalmente rendersi visibile». 3 L’espressione “vita desta” ricorre negli scritti di Edmund Husserl, per esempio nel §38 di (Husserl 2002: 171). Nel mio scritto viene assunto in senso lato come cifra di un’avviata coscienza critica.

Riferimenti bibliografici Aristotele. 1998. Etica nicomachea. Milano: Rusconi. Husserl, E. 2002. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Milano: Net. Leibniz, G.W. 1994. Saggi di teodicea. Cinisello Balsamo (Milano): Edizioni San Paolo. Rella, F. 2001. Il silenzio e le parole. Milano: Feltrinelli. Ricoeur, P. 1996. Kierkegaard. La filosofia e l’«eccezione». Brescia: Morcelliana. Scarafile, G. 2007. In lotta con il drago. Male e individuo nella teodicea di G.W. Leibniz. Lecce: Milella.


blackboard Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, Marsilio

Billy Crystal, Dove sono stato, dove sto andando e dove diavolo ho lasciato le chiavi?, Sperling & Kupfer.

Nel cinema, Deleuze rivendica la centralità della dimensione intellettuale. “I concetti sono “A sessantacinque anni potrei immagini - dice -. Sono immagini fare le stesse cose che facevo di pensiero”. Il cinema dunque a trentacinque, se solo mi non è lontano dal pensiero. Anzi ricordassi quali erano.” Cosa ne è straordinariamente vicino. c’è di peggio che svegliarsi E se la filosofia è una forza, una mattina e accorgersi di cioè un sapere concettuale non essere più un giovane che ci consente di allargare e prestante ma l’immagine di approfondire la conoscenza sputata del vecchio zio Al? del cinema, il cinema, insieme, È successo a Billy Crystal affronta i problemi e le figure quando ha varcato la fatidica della filosofia e li declina soglia dei sessantacinque anni. per immagini. Il cinema e la Improvvisamente è iniziata la riflessione sul cinema, cioè, sono fine: si passa più tempo dal un modo per dialogare con la dottore che in famiglia, non filosofia e proporre idee, concetti si guardano più le ragazze (o che - forse - interessano anche meglio non si vedono), e la la filosofia. “Microfilosofia del massima aspirazione quando si cinema” è quindi un libro che va a letto è di dormire almeno ruota attorno ai concetti creati due ore. Tanto il sesso è solo un dalla filosofia, ma anche dal vago ricordo. Ma l’età ha anche cinema. Anzi è un libro che i suoi vantaggi: per esempio, riflette sulla relazione cinemauna famiglia che cresce (cioè, filosofia attraverso i concetti. due figlie che se ne vanno e Non è una teoria del cinema lasciano i matrimoni da pagare), intesa in senso tradizionale. È la scoperta della spiritualità un percorso intellettivo che (“i miei amici invecchiando si indaga su un doppio movimento, sono convertiti alla Santa Trinità: dal cinema alla filosofia e dalla Antinfiammatori, Bourbon e filosofia al cinema. Considera Prozac”), una moglie amorevole quindi il cinema non come (quarantadue anni insieme e un terreno che la filosofia non pentirsi!) e tante storie da può rischiarare, ma come un raccontare. Come quando Billy orizzonte che crea concetti ha inventato una delle migliori e rielabora idee: e dunque battute del cinema (avete pensa il cinema non come presente la scena dell’orgasmo una dimensione subalterna, in Harry ti presento Sally?), ma come una macchina che l’amicizia con Muhammad Ali e produce anche sul piano della la relazione con Sophia Loren speculazione. Questa idea di (così clandestina che neppure cinema è sviluppata attraverso lei lo sapeva). Con quel mix analisi di film e di autori di ironia e sentimento che lo importanti della storia del cinema, contraddistingue, Billy Crystal da Bunuel a Fellini, da Godard a ripercorre la sua vita e la carriera, Wenders, da Lang a Hitchcock, spaziando dai retroscena dei dall’espressionismo ad Antonioni suoi film più famosi alle mille sino alla ricerca contemporanea questioni che pone l’età (che di Lynch... tomba scegliere?).

Kristin Thompson, David Bordwell, Storia del cinema. Un’introduzione, The McGraw-Hill Companies A ragione gli studiosi sostengono che non esiste una storia del cinema, ma tante storie. Tuttavia, in questo libro - destinato tanto a studenti universitari quanto ad appassionati - la storia del cinema non è presentata come un concentrato di tutto ciò che è stato detto o studiato sull’argomento. Gli autori pensano che scrivere la storia del cinema significhi porre una serie di domande e andare in cerca di prove per cercare di rispondere con argomentazioni puntuali. In questo libro essi si sono concentrati su tre ordini di questioni: come sono cambiati gli usi del mezzo cinematografico nel corso del tempo? Come ha influito l’industria cinematografica (nelle sue ramificazioni di produzione, distribuzione ed esercizio) sugli usi del mezzo filmico? Infine, come hanno preso forma delle tendenze internazionali sia negli usi del mezzo sia nell’andamento del mercato cinematografico? Il volume è aggiornato ai nostri giorni, in modo da rendere conto del dibattito più recente, come il mutamento conseguente all’introduzione del digitale. In questa nuova edizione sono state aggiunte numerose schede di analisi di film e un’Appendice che tratta 10 parole-chiave del linguaggio dei film, per fornire agli studenti le conoscenze di base per poter analizzare un film in modo autonomo.

consigli di lettura 51


Massive Smile | Andrea Rose-PhotoCo. | CC BY 2.0 | www.flickr.com

L’umorismo salverà il mondo (forse)

Giuseppina Marselli


RAPPRESENTAZIONI

«L’insignificanza è la chiave della saggezza, è la chiave del buonumore… e come Hegel dice il vero umorismo è impensabile senza l’infinito buonumore. Non lo scherno, non la satira, non il sarcasmo. Solo dall’alto dell’infinito buonumore puoi osservare sotto di te l’eterna stupidità degli uomini e riderne». M. Kundera, La festa dell’insignificanza

S

ono d’accoro con quanto afferma Milan Kundera nel suo libro La festa dell’insignificanza perché sono fermamente convinta che l’umorismo è un elemento fondamentale che salverà il mondo in quanto la leggerezza della parola presuppone acuta intelligenza e serietà di pensiero. Mi piace immaginarlo come la possibilità di guardare le cose attraverso un taumascopio. Focalizzi


un oggetto e lo vedi attraverso una molteplicità di scomposizioni, ricomposizioni, proiezioni che sono in costante movimento e mai statiche. Se ruoti il tubo poggiato sull’occhio, le figure complesse che si generano assumono colori e forme diverse, si fondono con esatta simmetria, cambiano in continuazione senza mai ripetersi. Accade la stessa cosa se si punta l’obiettivo verso una persona. Questa si scompone in tanti elementi e si ricompone con una sua logica come in un quadro di Picasso: naso sotto la bocca, occhio laterale sovrapposto al mento, esplosione di luce sulla fronte. Tutte le nostre giornate, con il loro susseguirsi di gesti, movimenti, sguardi si scompongono e si ricompongono come frammenti di puzzle che solo nella magia degli incastri esatti creano unitarietà e hanno significato. Altrimenti sono oggetti di forme diverse ciascuno con un proprio frammento di immagine. «Anche nella vita le persone si incontrano, chiacchierano, discutono, litigano, senza rendersi conto che si rivolgono le une alle altre da lontano, ciascuna da un osservatorio situato in un luogo diverso del tempo» (Kundera, 2013:33). Parlarsi è altro dal capirsi, un dialogo è altro rispetto all’incrocio di due monologhi, l’io e il tu sono altro rispetto al noi. Riconoscersi, vedersi, ascoltarsi, raccontarsi aiutano a ridurre lo spazio tra i mondi paralleli dai quali ciascuno si fa osservatore di se stesso. Quotidianamente ci si trova con altre persone, conoscenti, colleghi, superiori e come spesso accade, agganciati dalla fitta rete di formalità, ci si ferma e si scambia un saluto. Un saluto cordiale, educato che, nella fretta quotidiana e nella superficialità dei rapporti, è solo buona

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creanza. Non è importante sapere coma sta l’altro, che emozioni prova o quali dispiaceri lo affliggono, è superfluo sapere se in quel momento è felice, contento o è altrove. E’ importante fermarsi, salutarlo e la buona educazione impone, chissà perché, di chiedere “Come stai?” Frase spesso accompagnata da un sorriso aperto e uno sguardo distante, perso in chissà quale spazio. La risposta è scontata, o quasi sempre è scontata. Così scontata che viene pronunciata senza pensarci, così scontata che non la si ascolta nemmeno: “Bene , grazie”. Avendo avuto rassicurazione sullo stato di benessere, ciascuno si allontana, conservando il sorriso sulla bocca, lo sguardo perso nel vuoto, la fretta di correre e il senso di tranquillità dato dall’appagamento di un bisogno senza senso. Cosa accade se la risposta non è scontata? Se, pur avendo un bel sorriso sulle labbra, si risponde “Abbastanza male, Grazie!!!”. Grazie, perché la buona educazione è d’obbligo, anche se la risposta è tutt’altro che tranquillizzante: abbastanza male. Panico, disorientamento. Per qualche frazione di minuto lo sguardo perso nel vuoto torna ad essere presente con una punta di sgomento, un guizzo di stupore. Che fare? Che dire? La buona educazione cosa esige? Don’t worry be happy! Nulla. Il viso imperscrutabile, il sorriso stampato, il corpo proteso e la veloce ricerca di un motivo per andar via, per sfuggire all’obbligo che impone il chiedere ulteriori spiegazioni ad una risposta niente affatto rassicurante. Andare via è preferibile al chiedere perché. Con gran sollievo si viene lasciati in pace, liberi dal fornire ulteriori spiegazioni e contenti sapendo di aver posto un freno ad una inutile

banalità. Una risposta educata, pronunciata con tono garbato, senza infingimenti e palesemente vera, a volte, consente di raggiungere due obiettivi. Uno, prestare attenzione a chi, per mera educazione, si sente obbligato ad instaurare una parvenza di relazione (meglio chiedere che tempo fa; è una conversazione educata e senza implicazioni. Tanto se piove o fa bello c’è sempre qualcosa da dire o di cui lamentarsi). L’altro obiettivo è quello di sollevare l’interlocutore dall’interesse inutile sul tuo benessere: difficilmente, incontrandoti, ti chiederà nuovamente “Come stai?” Poiché vi sono giorni in cui le cose sono più cupe del solito e, con la luna un po’ di traverso, non c’è voglia di intrattenersi e parlare del nulla, notare che una verità così semplice, pulita, direi ovvia crea imbarazzo e disorientamento fa ritornare il sorriso e un po’ di buonumore. Intelligenza, prontezza di spirito e un po’ di ironia sarebbero sufficienti per creare una intimità nuova e favorire un dialogo. Sempre se si è disposti a farlo. Se il nostro sentire, il nostro vedere, la nostra percezione si spostassero, per brevi istanti, di qualche grado, verso un orizzonte che non è circolare (inizia e finisce con il proprio ombelico), nuove porzioni di paesaggio, nuovi rumori e nuove forme e nuovi colori si rivelerebbero ai nostri occhi (e credo al nostro cuore). E con i paesaggi, colori, suoni e forme, anche nuove prospettive. Ci aiuterebbe a non essere soli.

Riferimenti bibliografici Kundera, M. 2013. La festa dell’insignificanza. Milano: Adelphi.


blackboard Wilma de Jong (Autore), Erik Knudsen (Autore), Jerry Rothwell (Autore), Creative Documentary: Theory and Practice [Formato Kindle] Recent technological developments have made the making and distribution of documentary films easier and more widespread than ever before.Creative Documentary: Theory and Practice is an innovative and essential guide that comprehensively embraces these changing contexts and provides you with the ideas, methods, and critical understanding to support successful documentary making. It helps the aspiring ‘total filmmaker’ understand the contemporary contexts for production, equipping you also with the understanding of creativity and visual storytelling you’ll need to excel. Bridging the gap between theory and practice, it outlines the contemporary, institutional, practical and financial contexts for production - always encouraging innovation and originality. Martin Scorsese, Il bello del mio mestiere. Scritti sul cinema, minimum fax Questo libro raccoglie, tradotti per la prima volta fuori dalla Francia, gli articoli scritti da Martin Scorsese per una delle più autorevoli riviste di cinema del mondo (e in particolare quelli realizzati per il numero 500, di cui Scorsese è stato curatore), nonché interviste e conversazioni finora inedite in Italia. Il regista americano racconta in prima persona i suoi capolavori, dal rapporto con gli attori (Robert De Niro su tutti) alla sceneggiatura,

dalla colonna sonora agli aspetti tecnici del montaggio, e commenta con la passione del cinefilo e l’esperienza del grande maestro i film che ha amato e l’hanno ispirato, e lo stile dei grandi autori di cui ha subito il fascino fin da ragazzo. Aneddoti dal set, ritratti di amici, riflessioni teoriche, ricordi familiari e dichiarazioni di poetica: una raccolta appassionante e imperdibile per qualunque fan del vero cinema d’autore. François Truffaut, Il piacere degli occhi, minimum fax Il piacere degli occhi è il libro in cui François Truffaut aveva deciso di presentare una selezione di quanto aveva scritto sul cinema in più di trent’anni, prima come critico e polemista per riviste celebri come Arts e Les Cahiers du cinéma, fino ai saggi degli anni Settanta e Ottanta in cui, ormai cineasta affermato, Truffaut traccia una galleria di ritratti vividi e penetranti di registi (Rossellini, Hitchcock, Orson Welles, Woody Allen), scrittori (André Gide, François Mauriac) e attori (Fanny Ardant, Julie Christie, Charles Aznavour, Gene Kelly): una testimonianza importante di chi ha vissuto dall’interno un periodo tra i più fecondi del cinema francese e mondiale. Sebastião Salgado (Autore), Isabelle Francq (Autore), Dalla mia terra alla terra, contrasto “Adoro la fotografia, adoro fotografare, tenere in mano la fotocamera, giocare con le inquadrature e con la luce. Adoro vivere con la gente, osservare le comunità e ora anche gli animali, gli alberi, le

pietre. E un’esigenza che proviene dal profondo di me stesso. È il desiderio di fotografare che mi spinge di continuo a ripartire. Ad andare a vedere altrove. A realizzare sempre e comunque nuove immagini.” Giulia Manzi, Il tempo non basta mai. Alberto Manzi, una vita tante vite, ADD editore I“Non sono mai stata molto favorevole a “distribuire” pezzi di mio padre al di fuori dell’ambito privato e familiare; ogni volta, per me, è una parte di papà che se ne va. Da piccola non riuscivo a capire perché tante persone lo volessero portar via da me e da mamma, o perché dovessimo presenziare a inaugurazioni, intitolazioni e cerimonie che lo riguardavano. Un giorno mia madre mi ha detto che aveva registrato per me un’intervista - ‘è un regalo per te’ disse - sapeva che un giorno avrei voluto sapere. Mi ha raccontato il loro incontro (sulle scale della scuola), la differenza d’età tra loro, la famiglia, la televisione, il Sud America, le orchidee (e le bombe), la mia nascita, i giochi, i libri, il dolore. Ho scoperto così che, per la prima volta, ero io a sentire il bisogno di donare qualcosa di mio padre a tutti coloro che volessero scoprirlo. È arrivato il momento di scrivere chi era mio padre”. Alberto Manzi è l’uomo che ha insegnato a leggere a milioni di italiani, il maestro che, grazie alla sua trasmissione sulla RAI ha segnato un’epoca ed è diventato una delle icone della televisione italiana. Oggi la sua storia sorprendente rivive nel racconto della figlia.

consigli di lettura 55


Academic Life

Juliana de Albuquerque Katz

Surfing in interdisciplinarity A dialogue with Matthias Armgardt1 Matthias Armgardt is Professor of Civil Law, Ancient Legal History & Roman Law and the Recent History of Private Law at the University of Konstanz (Germany). He is the leader of the German team in the JuriLog Project, a Franco-German initiative to promote interdisciplinary research on the fields of Law and Logic. Professor Armgardt is also a Leibniz scholar as well as a man of many intellectual and artistic interests. In a brief interview per e-mail, he agreed to talk about the challenges of interdisciplinarity, his intellectual history and his religious commitment. YOD: Professor Armgardt, during the time we have worked together, I couldn’t help but notice that you nurture a diversity of intellectual and artistic interests — Civil Law and Ancient Right, Classic Languages, Religious Studies, Philosophy, Logic and Music. Could you tell YOD a bit of your intellectual history and how all those interests make themselves present in your everyday intellectual production? Armgardt: The basis of my whole life was and is my Christian belief: I have been a member of the New Apostolic Church since my childhood. Music has always been important to me and when I was a teenager, I wanted to become a cellist in a trio

or a quartet. My favourite composers are Bach, Beethoven and Brahms. But when I noticed that it is almost impossible to survive by chamber music, I decided to study law. When I finished my studies, I detected Leibniz and wrote my PhD-thesis about the application of formal logic in his Doctrina Conditionum in Cologne. My supervisor was Klaus Luig. At that time, I was more interested in Jurisprudence than in Legal History. Since Klaus Luig was about to retire and there were almost no chairs for Civil Law and Jurisprudence, I became a lawyer and dealt with Mergers & Acquisitions, IT-Law and Contract Law. At about the same time, I began to study Hebrew and Greek, because I wanted to study the original text of the Bible. At that time, my historical interests awoke and I decided to write a Habilitationsschrift about the development of Ancient Law, dealing with Jewish Law, Greek Law and Roman Law. The topic was Antikes Lösungsrecht. After one year as a Visiting Professor at the Leopold-WengerInstitut in Munich, I got the Chair of Civil Law, Ancient Law, Roman Law and the Newer History of Private Law in Konstanz. Now I work primarily on Law and Logic in Roman Law and in the work of Leibniz, on Ancient Jewish and Roman Law as well as on the Harmonization of European Pri-


Prof. Dr. Matthias Armgardt | https://www.ichbinkeinefallpauschale. de/wp-content/uploads/2013/07/135-armgardt.jpg


vate Law. What do these things have in common? They all deal with invisible things and symbols you cannot understand immediately. YOD: Two and a half years ago, we witnessed the birth of the JuriLog Project and since then, French and German academics have met to discuss the problems concerning the centrality of logic to the development of a theory of law and to reflect upon juridical practices. Could you tell our readers why the study of logic is so important to juridical thinking? What about the experience of setting up a mixed team of Jurists, Philosophers and Logicians — for you, what are the challenges of interdisciplinarity? Armgardt: The beginning of Jurilog goes back to the late 90s. I met Shahid Rahman in Saarbrücken. He was about to finish his Habilitationsschrift. We became friends immediately and we were both interested in the application of logic on law. More than 10 years later, when I got the chair in Konstanz, I wrote him an email and suggested to work together again. He was very enthusiastic about that, because two of his pupils had worked about the Doctrina Conditionum of Leibniz making use of my work. They had tried to apply new types of logic to describe what Leibniz had in mind whereas my logical approach was more “traditional”. So Jurilog was “born”. I think that with Leibniz, Law and Logic are closely linked. Maybe even the birth of logic is law and a legal process. If you want to have a Law of high quality, the combination of

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logic and law is unavoidable. I could show that Roman Jurists like Julian made use of Stoic Logic in ancient times. The whole European Private Law of today is based on Roman Law to a very great extent – this shows that high quality in law and logic go together. Today, we have serious problems to get a unified European Private Law. In my opinion, this is due to the fact that not enough research has been done concerning the foundations of law in the last decades (at least in Germany). The challenge of interdisciplinarity is that it is necessary to have a basic knowledge of the foreign (unfamiliar) field of research. If philosophers do not study law carefully, they cannot solve juridical problems – and vice versa: if lawyers are not willing to study logic, no transfer of knowledge is possible. This is the price you have to pay. YOD: I know that the work of Leibniz is a big source of inspiration for your work, but how did you come across Leibniz for the first time? How did his philosophy urge you to pursue an interdisciplinary approach to the study of law? As we are already centuries away from Leibniz, what can his philosophy contribute to the understanding of our own times? Armgardt: I detected Leibniz when I studied the works of the famous logician Kurt Gödel. He admired Leibniz very much and because of that, I became curious. I first read the Théodicée of Leibniz – and I think this book is the best answer to the problem until today.

Then I found out that Leibniz was a Jurist and that in spite of the high quality of his thinking, almost no legal historian was working on his legal texts. Incredible! So I made the first translation of the Doctrina Conditionum and then studied the logic of Leibniz. The richness of this early text of the young genius is incredible. Here I could see what law could (!) be – if it was treated in the right way. But the text has had almost no influence on Jurisprudence until today. So we are currently at the beginning – not at the end – of making use of his thoughts about law. YOD: Religious tolerance was a big issue to Leibniz and I am sure that as a jurist and a religious man, this is also a big theme for you. In the past, we have had conversations about Judaism, your studies on the Talmud and your religious practices in the New Apostolic Church. What are the ways in which we can reconcile Judaism with Christianity? Could you give us an account of your own experience of religious tolerance and how the study of Judaism informs your Christian practices? Armgardt: The irenic approach of Leibniz is really important. Tolerance means that you do not force anybody to anything – even if you are sure that he or she is in total error. But tolerance does not (!) mean that you are not allowed to discuss, to explain your position and to try to convince somebody of your opinion. Christianity is a Jewish invention. Jesus and all of his apostles were Jews (or to be more precise


Israelites). During the first 20 years after the death of Jesus, almost only Jews became Christians – and this does not mean that they switched their religion, they simply were convinced that Jesus (or Jeshuah) was the Jewish Messiah – who came as a servant and would come again in glory at the end of this time. It was Paul who began to bring the gospel to the heathens. At the end of the apostolic times, John brought the two parts of the church – the Jews and the (former) Gentiles – together. But after the death of John, things changed. The church lost the apostolic ministry – and lost its original spiritual power. The Jews were excluded from the Christian community and Greek Philosophy began to influence the Christian Church to a great extent. Great parts of the Jewish legacy of Christianity were lost. And even worse: Christians began to persecute Jews. This would not have been possible under the (Jewish!) apostles! Two reconciliations are necessary: first, the reconciliation of the Christian confessions, then the reconciliation of Christianity and Judaism. Today, we can only prepare this by making use of the power of love. The great reconciliation will come when Jesus, the Jewish Messiah, comes again. He is the Prince of Peace – the Sar Shalom. YOD: YOD’s current issue is dedicated to the theme of insignificance and as I wrote my piece to the magazine, I couldn’t help but to think about the Book of Proverbs, 1:7. There it says that “the

fear of the LORD is the beginning of knowledge, but fools despise wisdom and instruction.” In your opinion, what can we make of this passage in connection to Pascal’s claim that we are too sinful and insignificant for God to accept us? Is he right to say that the moment we realize our own insignificance in relation to the divine, is the moment when we finally encounter the greatness within us? Is it impossible to interpret those words out of a religious context? Armgardt: I am convinced that the writer of the proverbs is right: fear of God does not mean to be frightened, but to have awe and great respect for the eternal God, the Creator of Heaven and Earth. By the offer of his son Jesus, God solved our problems: the sin can be forgiven, if we believe in Jesus! This is, in my opinion, the only way to freedom. The Yom Kippur and the acting of the High Priest have been a model for that. Jesus is the true High Priest. This shows that in spite of our sins, we are not insignificant for God – in his great love to mankind, he gave his son to rescue us. Mankind has a great future. In his revelation, John saw that there would be an eternal life and a new heaven and a new earth without death, disease, injustice, evil or grief. I am sure that this is true. For this reason, I am an optimist – as was Leibniz. 1 As requested: Professor Armgardt answers appear in this magazine according to the material exchanged by e-mail, without any edition work from the interviewer.

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visioni, la perigliosa frontiera a cura di Giovanni Scarafile

Tutto sua madre. Un film di Guillaume Gallienne. Con Guillaume Gallienne, André Marcon, Françoise Fabian, Nanou Garcia, Diane Kruger. “Io e Amandine abbiamo deciso di sposarci”, annuncia Guillaume alla madre, ricevendo in cambio una domanda, pronunciata con glaciale e non celato scetticismo: “Con chi?”. Il giovane Guillaume e la madre sono i principali protagonisti del film “Tutto sua madre” (titolo originale: “Les Garçons et Guillaume, à table!”) che sta spopolando in Francia, avendo raccolto due milioni di spettatori e sette milioni di euro in due settimane. Il film, che ha vinto a Cannes nella sezione Quinzane, è un adattamento cinematografico dello spettacolo che Guillaume Gallienne ha tenuto in teatro, vincendo il premio Molière 2010 come rivelazione teatrale maschile. Una prima particolarità del film sta nel fatto che i due personaggi principali sono interpretati proprio da Guillaume Gallienne, attore della prestigiosa Comédie-Française, che del film è anche regista. La seconda particolarità consiste nella difficoltà di ascrivere il film ad un genere specifico. Per intendersi, diciamo che si tratta di una commedia, sebbene con tali e tante modulazioni da assomigliare ad un film tragico. Lo stile del film si adatta in effetti alla storia tragicomica che intende rappresentare, la vicenda di Guillaume che, fin da bambino, è stato considerato un omosessuale, soprattutto

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dalla madre. Egli è sistematicamente destinatario di definizioni che ne minano l’identità: “Sei talmente omosessuale da essere diventato lesbica” è una delle frasi più gentili che gli sono rivolte. In questo modo, il ragazzo è divenuto adulto convinto a tal punto di essere una donna da ritenere normale cercare di imitare la madre, nella voce, nei gesti, nella postura. Il patologico legame tra i due si alimenta dalle gratificazioni che il ragazzo riceve per il fatto di essere dipendente dalla donna. Il regista mostra il tentativo di Guillaume di realizzare il destino a lui riservato. Lo vediamo confrontarsi inutilmente con una schiera di psicoterapeuti, sostenere la visita militare sotto lo sguardo divertito degli ufficiali, tentare un goffo approccio gay in una discoteca. Tutto cambia, però, quando Guillaume incontra la giovane Amandine di cui si innamorerà, ricambiato. “Tutto sua madre” è un film sul senso della diversità, sul modo in cui è facile attribuire agli altri stereotipi o pregiudizi che nascono da una distorta interpretazione del nostro stare al mondo. Dal punto di vista di Guillaume, il film è anche un contemporaneo ritratto dell’inettitudine, del disagio esistenziale che si può provare fino a quando non si sia trovata la propria esatta collocazione nel mondo. L’amarezza del film risiede nella verità che scoperchia: la genitorialità non è – duole dirlo - sempre e comunque l’orizzonte paradisiaco cui si è naturalmente portati a credere. Aveva dunque ragione Kafka quando nei suoi “Diari” scriveva: “I genitori che si aspettano gratitudine dai figli (e c’è persino chi la pretende) sono come usurai: rischiano volentieri il capitale pur di incassare gli interessi”.

Smetto quando voglio. Un film di Sydney Sibilia. Con Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero de Rienzo Pietro Zinni (Edoardo Leo) è un neurobiologo universitario precario che a 37 anni si vede negata la stabilizzazione a lungo promessa. Una vita, la sua, già abbondantemente liquida rischia di diventare del tutto evanescente. Stressato dalla fidanzata, Giulia (Valeria Solarino), psicologa di professione, ma del tutto incapace di immedesimarsi nella situazione del compagno, lo vediamo dibattersi per ottenere un finanziamento di fronte ad una autorevole commissione internazionale e rimanere incredulo perché un collega meno brillante ha ottenuto l’agognato posto a tempo indeterminato. Incredulo, di fronte all’alternativa di veder incanalata la propria eccellenza in lavori da settecento euro al mese, Pietro decide di ribellarsi. Il suo piano prevede di fare appello ad altri suoi colleghi precari per formare una banda di spacciatori di una nuova droga “legale”. La principale sostanza chimica che la compone, infatti, non risulta ancora inserita nell’elenco ministeriale delle sostanze proibite. Il film “Smetto quando voglio” del giovane esordiente Sidney Sibilia ha il merito di porre al centro dell’attenzione un fenomeno drammaticamente attuale nella forma di una commedia. Di fronte alle azioni dell’improbabile banda criminale, in sala si ride molto, aiutati anche da un montaggio veloce, da una gestione dei colori che li satura, rendendo gli ambienti rappresentati analoghi


a quelli di una metropoli americana (molto bravo Vladan Radovic, direttore della fotografia). Alla fine della visione, gli spettatori applaudono convintamente. Si può escludere che l’applauso risponda ad una sorta di impulso liberatorio? Francamente, no. Se è vero, infatti, che la storia è godibile, non è meno vero che essa solleva un problema cruciale non solo per le sorti dei personaggi implicati, ma più in generale per il nostro Paese in cui lo scempio del precariato intellettuale è sistematicamente perpetrato. Detto in termini volutamente generali, se i ricercatori studiano in anticipo le soluzioni ai problemi comuni, non agevolare o, peggio, ostacolare il loro lavoro significa rinunciare ad un futuro migliore per tutti. Chi ha interesse a che questo avvenga? Le responsabilità possono essere equamente ripartite tra le forze politiche di tutti gli schieramenti? Per aver saputo individuare l’esatta chiave per affrontare un argomento delicato, del film di Sibilia è consigliata la visione. Possono dunque essere trascurate alcune cadute di tensione che si avvertono ad un certo punto della trama, mentre va segnalato che la scena della rapina in farmacia possiede i tempi perfetti della migliore comicità, venendo in qualche modo ad assomigliare alle “slapstick comedies”, risalenti al cinema di Mack Sennett, le cosiddette comiche violente, in cui tra schiaffi, calci e inseguimenti, prevaleva il linguaggio del corpo e il sincronismo tra gli attori. In “Smetto quando voglio” si ride molto. Ma si pensa, anche. E questo, soprattutto oggi, non sembra poco.

I segreti di Osage County. Un film di John Wells [I]. Con Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan McGregor, Chris Cooper, Abigail Bresline La voce di un uomo che, solitario, si allontana in barca dalla riva di un lago ci ricorda, citando T.S. Eliot, che “La vita è molto lunga”, introducendoci all’interno de “I segreti di Osage County” di John Wells. Il regista porta sul grande schermo “Agosto, foto di famiglia” di Tracy Letts, un’opera teatrale nonché commedia, già premio Pulitzer, pubblicata in Italia da BUR Rizzoli. Le terre aride e desolate dell’Oklahoma non sono semplicemente una cornice in questo film. Fuori tutto sembra fermo, placido, silente; dentro, nella casa abitata dagli Weston, ogni cosa partecipa di un’energia satura di aggressività, apparentemente tenuta a freno da una consunta liturgia degli affetti. Fin dalle prime scene, si impone il personaggio di Violet (Meryl Streep), alla quale, in circostanze che si chiariranno progressivamente, è venuto a mancare il marito Beverly (Sam Shepard) cui appartiene la voce ascoltata all’inizio. In seguito alla scomparsa dell’uomo, le tre figlie di Violet faranno ritorno a casa, trovando una madre ammalata di cancro ed imbottita di antidolorifici. Tale debolezza è solo parzialmente in grado di fiaccare l’indole della donna, che nei momenti di lucidità dimostra, con autocompiaciuta perfidia, di aver conservato uno sguardo vigile sull’esistente. Nell’atmosfera asfissiante dell’e-

state del Midwest, il ritrovarsi delle donne innescherà un graduale contendere, fondato sull’implicita rivendicazione di torti subiti, diritti violati, segreti troppo a lungo celati. Non a caso si può parlare di dramma familiare. In spregio ad ogni imperante ideologia favorevole alla equiparazione tra famiglia tout court e paradiso terrestre, il film rappresenta uno spietato ritratto dell’impossibile convivenza tra componenti di una famiglia tradizionalmente intesa. “I segreti di Osage County” è intriso della sostanza che intende portare in scena. È dunque un lungometraggio claustrofobico, come la casa dalle tende perennemente chiuse in cui la vicenda si svolge. Esso si fonda principalmente sull’interpretazione di Meryl Streep e Julia Roberts che, per i rispettivi ruoli, sono candidate agli Oscar. Inoltre, va ricordato che il film può contare su un cast di assoluta eccellenza (Julianne Nicholson, Juliette Lewis, Mattie Fae Aiken, Dermot Mulroney, Ewan McGregor, oltre al co-produttore George Clooney). L’impressione generale è di trovarsi di fronte ad un grande film, per quanto non una novità assoluta. Solo per fare un esempio tra i molti possibili, la scena del pranzo di famiglia usata come luogo di una rivelazione devastante era già stata usata in “Festen”, film del 1998 di Thomas Vinterberg. Più lo sguardo del regista ci porta dentro la casa degli Wenston, più cogliamo in quei litigi una dimensione universale, riferibile all’inevitabile declinare di ogni umana esistenza. Ritornano così in mente le parole di Eliot: “La vita è molto lunga. / Tra il desiderio / E lo spasmo / Tra la potenza / E l’esistenza / Tra l’essenza / E la discesa / Cade l’Ombra”.

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The Wolf of Wall Street. Un film di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler. In una delle convulse scene iniziali del film “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese, due uomini in uno stato di irrefrenabile euforia, circondati da un numeroso gruppo di colleghi urlanti, stanno per lanciare un nano verso un enorme bersaglio di gomma posto di fronte a loro. Si tratta di una delle tante azioni prive di senso, date in pasto dal protagonista Jordan Belfort (Leonardo Di Caprio, Golden Globe 2014 come miglior attore protagonista), affermato broker di Wall Street, alla schiera dei suoi famelici collaboratori. Jordan è un uomo che si è fatto da sé, grazie ad una indubbia capacità di persuasione degli altri, messa al servizio di una brama di potere senza confini. Scorsese realizza un biopic, un film biografico, partendo dalla vera storia di Jordan Belfort, pubblicata in Italia da BUR. Guardando in macchina, il protagonista si rivolge direttamente agli spettatori, facendoli entrare nel mondo della finanza statunitense degli anni Ottanta, in un microcosmo pressoché delirante, fatto di ambizione sfrenata, feste orgiastiche decadenti ed avidità completamente dispiegata. Si potrebbe parlare di clima da edonismo reaganiano ma ogni definizione sembra veramente porsi al di sotto di ciò che le immagini di Scorsese lasciano fin troppo abbondantemente trasparire nelle quasi tre

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ore del film. Nella sua bulimia rappresentativa, il film non chiede allo spettatore di completare immaginativamente quanto visto. Lo spettatore deve solo assistere e, ovviamente, cercare di resistere fino alla fine del film. Ne viene fuori un ritratto godibile, senz’altro triste, che, come ha notato giustamente il critico del New Yorker, assomiglia ad un musical, pur non essendolo. Il film potrebbe essere preso a prestito per studi relativi alla leadership carismatica o per una aggiornata sociologia del potere. Tuttavia, accantonato il catalogo visivo delle ipertrofie cui il protagonista è abituato, l’impressione è di trovarsi di fronte ad una satira piuttosto ripetitiva, nonostante l’indubbia bravura degli interpreti (oltre al già citato Di Caprio, merita una menzione Jonah Hill nella parte di Donnie Azoff, miglior amico del protagonista). Come osservò Leon Bloy nella “Esegesi dei luoghi comuni”, siamo talmente radicati in alcuni luoghi comuni che un mondo diverso non solo non è possibile, ma non è nemmeno immaginabile. A proposito degli affari, l’intellettuale francese scriveva: “Impossibile dire con esattezza che cosa sono gli Affari. Sono una divinità misteriosa, qualcosa come l’Iside dei mascheroni che soppianta tutte le altre divinità. Gli Affari sono Affari, come Dio è Dio, cioè fuori da tutto. Gli Affari sono l’inesplicabile, l’indimostrabile, l’incircoscritto, tanto che basta enunciarlo, questo Luogo Comune, per risolver tutto, per metter subito la museruola a condanne, collere, lamenti, suppliche, sdegni e recriminazioni”. Il film di Scorsese aiuta a sradicare questo ennesimo luogo comune o ci installa ancor più radicalmente in esso?

L’attentat (The Attack). Un film di Ziad Doueiri. Con Ali Suliman, Evgenia Dodena, Uri Gavriel, Dvir Benedek, Reymond Amsalem Amin Jaafari (Ali Suliman) è un affermato chirurgo palestinese, ben integrato a Tel Aviv dove lavora ed è sposato con Siham (Reymonde Amsellem), una donna palestinese. Il loro matrimonio è pressoché perfetto: bella casa, begli amici, bei rapporti sociali. All’inizio del film “L’attentat” del regista libanese Ziad Doueiri, il medico sta per ricevere una importante onorificenza da parte della società chirurgica israeliana, quando il suo telefonino squilla all’improvviso. “Mi dispiace, non posso parlare” sono le uniche parole che riesce a pronunciare, prima di salire sul palco per la consegna del premio. Nella sequenza successiva ambientata il giorno seguente, mentre il medico è in ospedale, si sente l’eco di una esplosione. Si tratta di un attentato suicida. In pochi minuti, le corsie dell’ospedale si riempiono di feriti, tra cui molti bambini. La scena è ripresa con molti particolari dal regista ed è oggettivamente difficile da sostenere. All’interno di uno scenario già allarmante, succede l’imponderabile: Amin viene accusato dai servizi segreti israeliani di essere il complice dell’attentatrice che, con grande sorpresa dello spettatore e del protagonista del film, si scopre essere proprio Siham, la moglie. La storia raccontata nel film è tratta dal romanzo “L’attentatrice” di Yasmina Khadra, edito in Italia da


Mondadori. Si tratta di un percorso narrativo avvincente che attraversa diverse fasi: l’ostinata incredulità dell’uomo, l’ardua accettazione della realtà, la difficile ricerca delle ragioni della scelta compiuta dalla moglie. Per cercare di rendere giustizia alla memoria della moglie, Amin decide di tornare nel villaggio palestinese che la moglie frequentava. Qui è riconosciuto come marito della “martire”, ma non è ben accolto perché considerato una possibile spia degli israeliani. L’uomo tocca con mano cosa significhi l’inconciliabilità di posizioni tanto distanti da rendere impossibile qualsiasi dialogo. Nelle malferme stradine del villaggio palestinese, così come nelle eleganti vie di Tel Aviv, il medico israelo-palestinese si rende conto che è sempre in nome del dolore subìto che si ritiene di aver diritto di procurare il dolore altrui, all’interno di una spirale transitiva di violenza che attribuisce al proprio patire una precedenza che giustifica l’azione aggressiva nei confronti degli altri. Il regista riesce a delineare molto efficacemente lo scenario di incomunicabilità entro cui i protagonisti si muovono ed anche lo sconcerto dell’uomo, che non riesce a darsi pace di fronte alla immaginata risolutezza del gesto della moglie. Alla fine del film, Amin riuscirà a recuperare la videocassetta in cui sono ripresi gli ultimi istanti di vita della moglie, prima dell’attentato. Con sgomento, scoprirà l’incertezza della moglie di fronte a ciò che stava per compiere; la vedrà implorare i complici di avere un telefono; la vedrà comporre un numero ed attendere una risposta. “Mi dispiace, non posso parlare”.

I sogni segreti di Walter Mitty. Un film di Ben Stiller. Con Ben Stiller, Kristen Wiig, Shirley MacLaine, Adam Scott, Kathryn Hahn. Walter Mitty è il manager responsabile dell’archivio fotografico di “Life Magazine”. È una persona precisa e meticolosa cui di tanto in tanto capita di sognare ad occhi aperti, interrompendo ogni attività, incantato dal fascino di ciò che appare irrealizzabile. La vita di quest’uomo, come di molti del resto, è piena di atti mancati, vere e proprie aspirazioni tenute a freno e trasferite nel dominio dell’immaginazione. In realtà, la proiezione fantastica – lo ricorda Remo Bodei nel recente “Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri” – è una dimensione fondamentale dell’umano attraverso cui troviamo la nostra collocazione nel mondo. Tuttavia, essa può anche diventare una forma di alienazione simile ad un trastullarsi inoperoso, quando il baricentro della nostra identità e delle nostre azioni smetta di essere vincolato al mondo reale per cercare un ancoraggio nel mondo della fantasia. Walter, il protagonista del film di Ben Stiller “I sogni segreti di Walter Mitty”, riuscirà a varcare il confine tra incertezza e coraggio, tra vita monocorde ed aspirazioni irrisolte. L’occasione gli sarà fornita dalla necessità di recuperare un importante negativo per l’ultima copertina cartacea del Magazine. Spronato dalla madre (Shirley MacLaine, sottodimensionata in un

ruolo secondario), Walter deciderà di mettersi sulle tracce del fotografo Sean O’Connell (Sean Penn). Dalla Groenlandia all’Afghanistan, in avventure talmente eccessive da rischiare seriamente di vanificare l’adattamento del senso del film all’uomo comune, Walter riuscirà a raggiungere Sean. Il fotografo, fra le nevi di una montagna altissima, nel silenzio più assoluto, è intento a cogliere l’attimo giusto per fotografare un animale rarissimo. Eppure, quando arriva il momento di scattare la foto, Sean rimane immobile. Ci sono occasioni nella vita in cui l’unica cosa che valga la pena di fare è di vivere in prima persona, spiega Sean ad un meravigliato Walter. Con questa nuova coscienza, Walter tornerà a casa, consapevole che la frattura tra realtà e sogno deve convertirsi in impegno per trasformare la realtà stessa in sogno. L’opera di Ben Stiller attualizza il significato del breve racconto di James Thurber, “The secret life of Walter Mitty” su cui già nel 1947 fu realizzato il lungometraggio “Sogni proibiti”. Soprattutto nella prima parte, la pellicola dell’attore e regista newyorchese si regge su una struttura che potremmo definire “film interruptus”. Essa consiste nel trasporre in immagini l’alternarsi tra la monotona vita di un impiegato anonimo e le epiche gesta da lui immaginate, visualizzate sullo schermo nello stile di “Matrix”. Un tale contrasto contribuisce evidentemente a tener desta l’attenzione dello spettatore e consente al regista di “inoculare” più agevolmente il messaggio del film, che si potrebbe riassumere con le parole di Goethe: “Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia!”.

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La fugace apparizione della misteriosa Ilenia al Caffè Letterario intriga il titolare, Pietro, stuzzicandone la curiosità e la fantasia... se non fosse per il richiamo costante di Elisa, l’ex fidanzata. Ma soprattutto - se non fosse che Ilenia gli dà buca all’appuntamento perché è stata assassinata. Sullo sfondo dell’animata vita notturna leccese scatta così un’indagine illegale non priva di rischi per Pietro e per il suo socio Sandro: un’indagine resa decisamente più difficile dall’isteria fuorviante dell’ispettore Pace, e che conduce il protagonista tra vicoli e masserie, fragili giovinezze in cerca di sé e vecchie cronache dai risvolti inquietanti.


Il racconto Alberto A. Vinudo

Armonie Tutta l’arte ha a che fare con la collocazione in un certo senso, anche se è solo per rispondere allo spazio creato dalla galleria o dalla cornice, o nel modo in cui un oggetto è marcato dall’assenza della sua collocazione originaria.

E

rano già le sette ma Sebastiano propose lo stesso di andare a bere uno spritz in Campo Santa Margherita. A Venezia quello è un bel posto dove sedersi ai tavolini a chiacchierare. Il campo è molto ampio e sembra fatto apposta per restarsene a ciondolare sulle panchine a guardare le nuvole passare nel cielo o le ragazze passare per le calli.

out of place | fazen - Stefano Mortellaro | CC BY-ND 2.0 | www.flickr.com

Drew Hemment, Locative Arts, LEONARDO, Vol. 39, No. 4, pp. 348–355, 2006.


Si fermarono un po’ lontano dal bar col bicchiere in mano a sorseggiare la bevanda, le spalle al muro della casa che stava in mezzo al campo. A Sebastiano venne pure l’idea di organizzare una serata. Per la verità di queste idee ne aveva spesso, e in genere Andrea e Isa lo contenevano, non erano mica lì solo per spassarsela, dovevano preparare gli esami per l’appello seguente. Ma Neville aveva detto che sarebbe sceso a trovarli e loro sapevano che insieme ne avrebbero combinate un bel po’, perciò telefonarono anche a Giorgio. A quel punto più si era, più divertente poteva essere la serata. Isa invitò anche le due nuove ragazze che abitavano con lei da settembre nel piccolo appartamento proprio dietro ai Frari. Mancava poco alle otto e già erano tutti lì, un poco brilli, a guardarsi e a cercare di decidere dove andare. Non si trovava quasi mai subito un posto che mettesse tutti d’accordo, e questo era un buon motivo per prendersi in giro e ridere delle proprie affezioni a bettole più o meno improbabili. La scelta certo non mancava. Estratto a sorte vinse un bacaro vicino Rialto, un posto un poco fighetto, ma dove si poteva mangiare e bere bene. Il locale era davvero piccolo. Isa propose di rinominarlo “Io e te”, perché di più non ci si stava, ma Giorgio decretò “O io o tu”, e il bacaro ebbe un nuovo battesimo accompagnato da prosecco abbondante. Nel piccolo locale si ritrovarono seduti uno di fianco all’altra stretti sulla stessa sedia di legno, pigiati in uno spazio angusto un po’ per scherzo e un po’ per prova. Non si erano mai visti prima di quella sera. Lui in realtà si chiamava Nicola ma gli amici lo chiamavano Neville, forse perché magari era stato per qualche

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tempo all’estero, pensò Sara. Erano una di quelle coppie male assortite che si creano appaiando un poco a forza gli amici liberi da impegni sentimentali. In mezzo al chiasso caotico del locale e del loro tavolo, Neville e Sara non riuscirono a scambiare una parola. Nonostante condividessero a stento il quadrato di una sedia, o forse proprio per quello, non si parlarono. Solo ad un certo punto Neville le passò un braccio attorno alle spalle per trattenerla dallo scivolare, perché Giorgio, ormai ubriaco, si era alzato di scatto urtando lui e il tavolo, e provocando la rovina delle bottiglie e del loro contenuto residuo sul tavolo. Dopo la mezzanotte Isa decise che si doveva rientrare. Giorgio andò via per primo da solo, barcollando tra i risolini di tutti. Isa, Sebastiano, Andrea e Alba si trattennero ancora un poco perché Sebastiano voleva a tutti i costi un altro giro di prosecco in uno dei suoi bar preferiti. Neville riaccompagnò Sara. Per la strada presero una bottiglia d’acqua per rinfrescarsi. Era ottobre e faceva già freddo, ma l’alcol li aveva riscaldati troppo. A metà strada l’acqua era finita e Neville giocherellava con la bottiglia di plastica vuota tra le mani facendola scricchiolare. Voleva gettare la bottiglia ma non vedeva cestini. In un sotoportego si fermò. Diede a Sara la bottiglia e le chiese di nasconderla in alto, incastrandola nello spazio tra il muro di una casa e i fili dell’enel. La sollevò per aiutarla a raggiungere il soffitto del sotoportego. Neville era alto, ma da solo non arrivava. Lei gli era sembrata più leggera, ma il suo peso si faceva sentire con decisione. Uno sforzo ancora e la fece salire sul collo a cavalcioni, proprio come i papà portano i figli


piccoli quando sono stanchi di camminare e la strada è ancora lunga. Le sue gambe erano soffici e aveva delle calze buffe a righe. Le afferrò i ginocchi saldamente con le mani per non farla cadere e le sue dita affondarono in quella morbidezza. Sara incastrò per bene la bottiglietta. Chissà quando sarebbe stata notata in quella penombra, pensò. La fece scendere con un po’ di difficoltà e si risistemò i capelli carezzandosi la nuca spettinata. Sara lo guardò interrogandolo sul perché di quell’azione senza senso. Neville le sorrise, le prese la mano e non rispose. Camminarono fino a casa di Sara, lentamente, per prolungare quanto più possibile quella sospensione del senso e del tempo che il loro gesto aveva creato. La lieve rottura dell’ordine naturale delle cose, il nonsenso della loro azione coordinata aveva generato un vuoto, uno spazio e un tempo nuovo, fuori dall’ordinario, anche se questo poteva valere solo per loro due. Giunsero infine a casa. Isa e gli altri non erano rientrati. Neville si sedette sul divano e la invitò accanto a sé. Sara si accomodò ancora confusa dal vino e dalla lieve alterazione del loro presente, dal condividere, loro due estranei, un luogo e un momento che non apparteneva a nessuno dei due e tuttavia era divenuto loro esclusivo. Neville le prese la mano sinistra e la tenne stretta. Respirava piano, aveva un’espressione serena ma assente. Guardava la libreria fissata alla parete di fronte a loro. - La disarmonia mi provoca una sofferenza intima profonda, un senso di costrizione al petto, e insieme un desiderio di fuga e di volontà di violenza nei confronti di chi ha compiuto il massacro estetico.

Ad esempio non sopporto di vedere quello scaffale. - Perché? Cos’ha la libreria che non va? - I ripiani sono montati in modo sbagliato. Sara osservò con maggiore attenzione ma non vide niente di strano, le sembrava una banale libreria di truciolato, come quelle di tutte le case che si danno in affitto agli studenti. Semplice, economica, facilmente rimpiazzabile e con i ripiani tutti uguali. - A me sembra normale. - disse. - La libreria è stata pensata per avere un intervallo regolare di ripiani, e invece chi l’ha montata si è preso la libertà di sbagliare l’intervallo. Certo la differenza non si coglie subito, si tratta appena di un centimetro, più o meno. Ma io la riconosco, la vedo. Ogni volta che vengo qui e guardo quella libreria mi viene rabbia verso quei coglioni. Una stizza che mi fa soffrire perché mi impone costantemente la visione dell’errore. Né si può fare più nulla, perché le viti e i pioli per i ripiani ormai sono stati conficcati. - Fece una pausa, poi le disse. - Magari mi dirai che queste sono stupidaggini. - No, però non mi sembra una cosa così grave. - Per me invece sì. Queste cose alterano il mio senso dell’equilibrio, delle cose come vanno fatte, cioè per bene, con criterio, seguendo la ragione propria e specifica delle cose stesse, e il modo in cui sono state pensate. Guarda l’ultimo ripiano in alto, anche lì sono riusciti a fare un foro ad un intervallo sbagliato, più corto rispetto agli altri. Ma dico io, che cazzo ci vuole a prendere un righello, pure uno di plastica da scuola elementare, e a riportare la stessa distanza da un punto all’altro?

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e invece no, hanno fatto le cose a occhio, perché si ha una stima eccessiva delle proprie capacità, e comunque la gente non si accorge mai di questi svarioni. Ma io sì, e mi mandano in bestia! Restarono un poco in silenzio, sempre seduti mano nella mano. Sara guardava la libreria che ora si era arricchita di dettagli e di una storia fino ad allora insospettata. Immaginava degli operai con la sigaretta appesa alle labbra che decidevano a caso dove inserire le viti dei ripiani con gli occhi mezzo accecati dal fumo che ombreggiava la vista. Neville guardava di lato verso la porta della stanza. Poi riprese. - Allora metto le cose fuori posto, per vendetta. Arricchisco il patrimonio di errori, di distonie, di sottili fuori asse, di scarti di senso. Sfido alla ricerca della cosa che non quadra, dell’oggetto incoerente e fuori contesto, come in una caccia al tesoro. - Sei un artista! - No, nessuna pretesa artistica. Mi fanno arrabbiare la superficialità e l’approssimazione, e allora ricambio. Cerco di resistere al nonsenso e mi viene di aggiungerne di nuovo. Neville ora guardava Sara dritto negli occhi, spalla contro spalla i loro visi erano vicini. Sara poteva scorgere chiaramente il colore degli occhi di Neville. Per tutta la serata erano stati nascosti dai capelli scarmigliati e lunghi sulla fronte, ma così vicino si leggevano bene, meglio di quanto non avesse potuto fare prima, nel locale o per la strada. Aveva uno sguardo per niente alterato ma lucido, intenso e pieno. Era notte ormai e in casa la luce era appena sufficiente, ma lei vide nettamente due pupille di colori differenti.

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Quando si inaugurava la Biennale d’Architettura non c’erano santi, Antonio trascinava tutta la famiglia, Sara e la piccola Gaia, da un padiglione all’altro, fino all’ultimo angolo dell’Arsenale. Per fortuna Gaia era troppo piccola per annoiarsi, pensava Sara, e passava la giornata sonnecchiando nel passeggino, mentre lei lo spingeva in mezzo al via vai dei visitatori. Entrò, seguendo il marito, nell’ennesimo padiglione espositivo di un qualche paese del mondo che avrebbe avuto difficoltà ad indicare sulla carta geografica. Aveva in mano il succhiotto di riserva di Gaia caduto in mezzo all’erba, e lo rigirava tra le dita sentendone la consistenza gommosa e un po’ appiccicosa. Antonio si era infilato in uno stanzone stretto e buio. Le uniche luci dell’ambiente erano dei piccoli faretti appesi al soffitto puntati su parallelepipedi bianchi di diverse grandezze. Ognuno di questi mostrava un plastico di una qualche architettura che Sara non sapeva decifrare, ma della quale ammirava a volte le forme, a volte i materiali. Si fermò davanti ad un plastico di una costruzione apparentemente banale, ma che le dava l’impressione di avere qualcosa fuori posto. La osservò da tutti i lati. Niente. Gaia intanto si stava risvegliando, presto avrebbe avuto fame e si sarebbe messa a piangere. Sara pensò che doveva uscire in fretta per poterle dare il biberon e non disturbare nessuno. La sua mano si mosse da sola e posò il ciuccio in cima al modellino della costruzione. Ora è perfetto, pensò, ed uscì al sole ridendo.



L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in condizioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome. Ma non basta riconoscerla, bisogna amarla, l’insignificanza, bisogna imparare ad amarla. Milan Kundera, La festa dell’insignificanza.


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