YODMAGAZINE 1 DELLA FESTA

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FESTA

della

ADRIANO FABRIS MAURIZIO CARTA Ljudmila antonovna reginjia PATRIZIO MISSERE CRISTINA MARRAS EDOARDO BECATTINI MAURIZIA PIERRI MARCO ARCHETTI SHEILA ANDRIGHETTO DARIO E. VIGANÒ ALBERTA GIANI SUSANNE BIER DAN MUGGIA ARIELA PIATTELLI ULIANO CLOE SINIBALDI GIOVANNI SCARAFILE



Giovanni Scarafile

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Adriano Fabris

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Maurizio Carta

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Patrizio Missere

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Cristina Marras

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Edoardo Becattini

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Maurizia Pierri

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Dario E. Viganò

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Uliano Cloe Sinibaldi Giovanni Scarafile Alberta Giani

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Editoriale

Lavoro e festa in una prospettiva cristiana La festa di Maslenitsa. Vita e morte del mondo russo 5SW con Ljudmila Antonovna Reginjia “…ti rallegrerai”. La festa nella tradizione ebraico-biblica Il pane della festa

Festa nera. Sulle oscure impossibilità di realizzare una “festa del cinema” La festa: da eccezione a regola, da diritto a dovere Metodo e insincerità. Dialogo con Marco Archetti di Sheila Andrighetto Cari maestri. Cinema ed educazione In un mondo migliore. Dialogo con Susanne Bier di D. E. Viganò Pitigliani Kolno’a Festival. Dalla pagina allo schermo

YOD Magazine è una collana editoriale, diretta da Giovanni Scarafile, dedicata ai temi della comunicazione in una prospettiva interdisciplinare. Coordinatore editoriale: Silvio Grasselli Il sito di YOD Magazine è: www.yodmagazine.it Per citare gli articoli di questo numero: Nome e Cognome dell’Autore, Titolo dell’articolo in G. Scarafile (a cura), YOD Magazine. Della festa, Lulu Enterprises Inc, Raleigh N.C. 2012, pp. Questo volume è realizzato con il contributo della Banca Monte dei Paschi di Siena, filiale di Lecce. Progetto grafico e impaginazione Roberta Pizzi | www.robertapizzi.com

5SW con Dan Muggia

Contatti: Direzione Scientifica YOD Magazine Via De Virgilis, 56 72022 Latiano (BR)

Del cucinare

Giovanni Scarafile direttore@yodmagazine.it

Realizzare un sogno. Dialogo con Ariela Piattelli Malgrado tutto. Dialogo sulla festa Sul viaggio

ISBN 978-1-4710-4451-9

I crediti fotografici sono a pag. 53

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editoriale

Giovanni Scarafile Non basta parlare o scrivere, occorre pure essere ascoltati o letti. Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca

mente “complicato”, quanto piuttosto che ci sono più livelli del discorso da considerare nello stesso tempo. È questo il nostro impegno: districare matasse. Yod Magazine ha anche un’altra particolarità: rivolgere domande a più saperi. Siamo convinti che coinvolgendo più esperti possiamo capire meglio le cose.

Yod Magazine nasce dalla testardaggine di un gruppo di persone, accomunate dalla fiducia in una cultura libera da ogni impedimento. Al giorno d’oggi, una persona incuriosita ed in cerca del senso delle cose può andar incontro a molte delusioni. Nelle riviste specialistiche, incontrerà linguaggi per addetti ai lavori. Nelle iniziative culturali, le solite cerchie di affezionati. Infine, vanno ricordate le molte manifestazioni che, pur essendo di grande interesse, prevedono condizioni di accesso non alla portata di tutti. Noi pensiamo che snobismo e cultura non possano essere confuse. Yod Magazine intende essere un’iniziativa editoriale inclusiva. Essa desidera che ciascun lettore possa sentirsi a casa sua, indipendentemente dal suo bagaglio culturale o dal suo censo. Questo desiderio è per noi un impegno concreto. I nostri Autori osservano indicazioni editoriali pensate per offrire un’esperienza di lettura piacevole. I nostri articoli rispettano i più aggiornati indici di leggibilità definiti dalla comunità internazionale. È nostro impegno evitare i linguaggi specialistici, tranne che nei casi in cui essi siano veramente indispensabili. Ovviamente, ci sono argomenti complessi. Questo, però, non deve spaventare. Complesso, infatti, non significa immediata-

È il caso del tema della festa, argomento monografico di questo primo volume. Troverete riflessioni che coinvolgono la filosofia e gli studi sulla comunicazione, gli studi biblici e la cucina, ecc. Troverete, inoltre, molti stili di scrittura: dal saggio breve all’intervista, dal reportage al dialogo. La festa richiede la fatica del lavoro, anche se ne rappresenta la pausa salutare; implica il ritmo della vita quotidiana, anche se ne costituisce l’alternativa. C’è festa quando c’è equilibrio tra tutte queste dimensioni. Essa è il simbolo di un’avventura umana in bilico. È questo il motivo per cui abbiamo scelto l’immagine di copertina di Alexander Yakovlev. Yod Magazine intende mettere al centro i propri lettori. Non è solo un modo di dire. Per essere più vicini a coloro che ci leggeranno, infatti, abbiamo scelto una molteplicità di opzioni di stampa. Un’ultima cosa, infine: Yod Magazine è il frutto della volontaria passione di tutti coloro che vi collaborano. Si tratta, mi pare, della più bella testimonianza a favore di una cultura sempre più libera, democratica e condivisa. direttore@yodmagazine.it

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indice

contributors

ADRIANO FABRIS

Adriano Fabris è professore ordinario di Filosofia morale nell’Università di Pisa, dove insegna anche Etica della comunicazione. Nella stessa Università è direttore del Master in Comunicazione Pubblica e Politica e del Centro interdisciplinare di ricerche e di servizi sulla comunicazione. Collabora inoltre con l’Istituto di Filosofia applicata di Lugano, dove ha promosso l’Istituto “Religioni e teologia” (ReTe).

lavoro e festa in una prospettiva cristiana

Qual è il punto di congiunzione tra lavoro e festa se queste due dimensioni vengono considerate alla luce dei principi cristiani? A quale accezione del lavoro bisogna rifarsi oggi? Qual è il ruolo del tempo all’interno del binomio festa-lavoro?

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MAURIZIO CARTA

Maurizio Carta, laureato in storia, giornalista. Interessato da 15 anni alle vicende russe, ha viaggiato nel paese e studiato russo a San Pietroburgo. Si occupa di politica, economia e cultura.

la festa di maslenitsa. Vitaemortedelmondo russo

Identità e festività: il caso della Maslenitsa russa. Il carnevale russo è stato sempre visto con occhio distante se non ostile dalle élite politiche e intellettuali dello stato moscovita. Tuttavia, esaminando da vicino i significati reconditi della settimana grassa e le sue modalità di festeggiamento, si scopre che le forme d’espressione della cultura popolare non sono affatto lontane dai rituali del potere. Il carnevale russo diventa dunque un momento nel quale si esprime un’intera civiltà, il suo modo di guardare al mondo, il suo atteggiamento verso la natura e la realtà.

Ljudmila Antonovna Reginja

Reginja Ljudmila Antonovna, giornalista di lungo corso, autrice dei libri “Memoria bruciata” e “La lotta con la lotta si lotta”. La Antonovna ha lavorato per la rivista “Aurora” e ha collaborato con diversi periodici si San Pietroburgo. Membro dell’Unione degli scrittori, è laureata in lettere presso l’Università di San Pietroburgo, dove ha frequentato le lezioni di Vladimir J. Propp.

PATRIZIO MISSERE

Patrizio Missere, nato in Svizzera nel 1970, dal 1995 è sacerdote della diocesi di Oria (BR), dove svolge il ministero di parroco, nel comune di Manduria (TA), di direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e di docente di Sacra Scrittura. Ha studiato filosofia e teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma; ha conseguito il titolo specialistico in scienze bibliche, presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma, e il dottorato, presso la facoltà teologica dell’Italia meridionale di Napoli, con uno studio esegetico sul libro dell’Apocalisse.

“…tirallegrerai”. La festa nella tradizioneebraico-biblica

Quali sono le implicazioni del tema della festa quando esso viene considerato alla luce delle principali categorie giudeo-cristiane?

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CRISTINA MARRAS

Cristina Marras, prova a vivere a Roma, è ricercatrice presso l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee del CNR e insegna in convenzione “Teoria della Comunicazione” presso il dipartimento di Filosofia dell’Università Sapienza. Si occupa di G. W. Leibniz, di digital humanities, di teoria della metafora e di pragmatica della comunicazione, di migrazioni linguistiche e culturali. Studi e ricerche l’hanno portata a vivere, soggiornare e scrivere all’estero per lunghi anni: Germania, Israele, Stati Uniti, Norvegia, Francia. L’esperienza di questi luoghi è ingrediente dei suoi pensieri e della sua cucina quotidiana. - http://www.iliesi.cnr.it/profilo.php?id=33

il pane della festa

Challah, il pane dello shabbat, diviene occasione di scoperta e di incontro della cultura israeliana.

EDOARDO BECATTINI

Edoardo Becattini (Firenze, 1983) è laureato in Cinema e Comunicazione. Attualmente è dottorando in Tecnologie Digitali per la ricerca sullo Spettacolo presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma. Parallelamente all’attività di ricerca, scrive come saggista e critico cinematografico per varie testate. Nel 2011 ha pubblicato la monografia La grana del reale – Tracce e prospettive di realismo nel cinema contemporaneo, saggio vincitore del Premio Fernaldo Di Giammatteo 2009.

festa nera. Sulle oscure impossibilità di realizzare una “festa del cinema”

Se un film, come diceva Roland Barthes, è già da sé un “festival di affetti”, come poter intendere una manifestazione che sia realmente celebrativa e riguardosa nei confronti dell’arte del cinema? La contrapposizione fra l’idea di “festa” e di “festival” sorta in mezzo alle polemiche che hanno accompagnato la nascita di una rassegna cinematografica a Roma, ci viene incontro per tracciare il profilo possibile di tale attrazione. Un profilo non necessariamente solo fulgido e trasognante, ma anche, per certi aspetti, oscuro, mobile e incerto..

MAURIZIA PIERRI

Maurizia Pierri è professore aggregato di Diritto Pubblico Comparato (2010) e segretaria del Centro di Studi Economici dell’Università del Salento. Presso il medesimo Ateneo ha conseguito nel 2009 il dottorato internazionale in “Sistemi politici e giuridico sociali comparati”. È esperto di servizi pubblici (nominato con D.P.C.M. del 18 aprile 1995) ed a tale titolo dal 1992 al 2004 ha prestato attività di consulenza presso l’Autority di garanzia dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, istituita con legge n.146/1990. È autrice di saggi e monografie, l’ultima delle quali è Autorità indipendenti e dinamiche democratiche, edita dalla Cedam nel 2009.

la festa: da eccezione a regola, da diritto a dovere

Quali sono le implicazioni giuridiche insite nel concetto di festa?.

marco archetti

Marco Archetti è nato a Brescia nel 1976. Ha esordito con Lola motel (Meridiano zero; poi Feltrinelli Super Ue 2005). Ha poi pubblicato: Vent’anni che non dormo (Feltrinelli 2005), Maggio splendeva (Feltrinelli 2006) e Gli asini volano alto (Feltrinelli 2009). La sua ultima fatica è Sabato, addio (Feltrinelli 2011). Ha tenuto conferenze e incontri pubblici in molti festival internazionali (La Paz, L’Avana, Guadalajara) e seminari di scrittura presso università e centri culturali. Ha collaborato al soggetto del film “Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario. Collabora con giornali e riviste e i suoi reportage sono apparsi su Vogue, Vanity fair, D-Repubblica. Attualmente collabora al Corriere della Sera. Hanno scritto di lui: «Marco Archetti è uno scrittore raffinato e intelligente. Non perdete questo treno, saltateci su adesso» (JOE R. LANSDALE); «Una lingua viva, mossa, che sa raccontare. Viene in mente Simenon» (MARIA SERENA PALIERI – L’Unità); «L’ironia non è caratteristica frequente tra gli scrittori. Marco Archetti è una felice eccezione» (BENEDETTA MARIETTI – DRepubblica)

Metodo e insincerità Dialogo con Marco Archetti di Sheila Andrighetto

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Sheila Andrighetto DARIO E. VIGANÒ

Si laurea nel 2004 a Padova con una tesi di filosofia teoretica sulla gnoseologia di Bernard Lonergan. Ottiene l’abilitazione all’insegnamento nel 2006 presso la SISS Veneto, con una tesi di didattica della filosofia sul rapporto tra filosofia e pittura (in Edizioni Sapere, 2008). Dal 2005 insegna Storia e Filosofia presso i Licei Classico e Linguistico dell’Istituto Cavanis di Possagno (TV).

Dario Edoardo Viganò è professore ordinario di Comunicazione e preside dell’Istituto Redemptor Hominis, presso la Pontificia Università Lateranense. Insegna Semiologia del cinema e degli audiovisivi alla Luiss“Guido Carli”, dove è anche membro del Comitato direttivo del Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini”. Presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo e direttore della “Rivista del Cinematografo”, è anche membro del Consiglio di amministrazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. Tra i suoi libri: Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico (Roma 2005); Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia (con Ruggero Eugeni, 3 voll., Roma 2006); La Chiesa nel tempo dei media (Roma 2008); La musa impara a digitare. Uomo, media e società (Roma 2009).

Carimaestri. Cinemaededucazione

Dall’introduzione al volume Cari Maestri. Cinema ed educazione.

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SUSANNE BIER

Susanne Bier, nel 1987, si diploma alla Danish School of Film di Copenhagen. Il successo internazionale arriva nel 1999 con Den Eneste Ene, che entra a pieno titolo tra i cinque film più visti della storia del cinema. Seguace del Manifesto del Dogma redatto da Lars von Trier, nel 2002 gira Open Hearts, un dramma sui sensi di colpa e l’ineluttabilità del destino. Due anni dopo Non desiderate la donna d’altri, in cui risuona l’eco del cinema di Kieslowski, partecipa al Sundance Film Festival aggiudicandosi il premio del pubblico. Nel 2006 Dopo il matrimonio, presentato fuori concorso alla II edizione della Festa del Cinema di Roma, viene candidato agli Oscar 2007 come miglior film straniero. Nel 2010 In un mondo migliore (Gran Premio della Giuria e Premio del pubblico al Festival Internazionale del Film di Roma), si vede aggiudicare l’Oscar 2011 come miglior film straniero.

Dan Muggia

Laureato in Arte Drammatica alla Bet Zvi Drama School e con un Master in Cinema Studies all NYU Dan Muggia ha recitato prodotto e critico cinematografico. È stato sempre molto attivo nel mondo dei festival israeliani ed attualmente è il direttore artistico del Pitigliani Kolno’a Festival. Insegna cinema al Sapir College e al Beit Berl College in Israele.

In un mondo migliore Dialogo con Susanne Bier di D. E. Viganò

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ARIELA PIATTELLI

Ariela Piattelli è nata a Roma ed oggi vive in Israele, a Tel Aviv. E’ giornalista ed ha collaborato con riviste e quotidiani, tra cui « Il Corriere della Sera » e « Il Giornale ». E’ direttore, insieme a Dan Muggia, del Pitigliani Kolno’a Festival, l’unico festival in Italia dedicato al cinema israeliano e di argomento ebraico. Insieme a Raffaella Spizzichino ha fondato l’Associazione Culturale “Golda – International Events”, che produce ed organizza eventi culturali tra Italia, Israele e Stati Uniti, tra cui il Festival Internazionale di Letteratura Ebraica e La notte della Cabbalà. Dal 1998 è consulente dell’Ambasciata d’Israele in Italia per iniziative culturali e festival cinematografici.

ULIANO, monaco DEL CUCINARE

Una riflessione sul senso del cucinare.

GIOVANNI SCARAFILE

Giovanni Scarafile è ricercatore di filosofia morale e docente di Etica e deontologia della comunicazione e di Cinema, fotografia, televisione nell’Università del Salento. È autore di diverse monografie ed articoli in sede nazionale ed internazionale. È membro della SCSMI, Society for Cognitive Studies of Moving Images, dell’Association Internationale pour l’Etude des Rapports entre Texte et Image e dell’IASC, International Association for the Study of Controversies. Autore di diverse monografie, ha recentemente pubblicato alcuni saggi su Kairos. Journal of Philosophy & Science, edito dal Centro de Filosofia das Ciências dell’Università di Lisbona e su RIA. Revista Iberoamericana de Argumentación edita dal Departamento de Lógica, Historia y Filosofía de la Ciencia dell’UNED di Madrid. A crua palavra, un suo librointervista al filosofo israelobrasiliano Marcelo Dascal, pubblicato nel Settembre 2010 in inglese, è stato tradotto in otto lingue.

ALBERTA GIANI

Dopo una lunga esperienza di insegnamento e di formazione nelle scuole secondarie, è diventa ricercatrice confermata di psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso il Dipartimento di Scienze Pedagogiche, Psicologiche e Didattiche dell’Università del Salento. Gli ambiti di studio ed approfondimento riguardano fondamentalmente i contesti scolastici, il processo di apprendimento, con particolare attenzione all’ambito emotivo/affettivo, la costruzione di rapporti di fiducia nell’ambito della mediazione insegnante/alunno e nell’organizzazione scolastica, i processi di comprensione dei testi. Nel 2010 ha pubblicato, a sua cura, una raccolta di saggi dal titolo “Quale fiducia? Riflessioni su un costrutto complesso”, edito da Armando.

SUL VIaGGIO

Una intensa riflessione sul senso del viaggiare.

MALGRADO TUTTO. DIALOGO SULL A FESTA

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COPERTINA

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Lavoro e festa in una prospettiva cristiana Adriano Fabris

1. Premessa: il giusto modo di vivere il tempo La riflessione sui temi del lavoro e della festa concerne uno degli aspetti fondamentali della nostra vita. La nostra vita, il nostro tempo, sono infatti attraversati anche dalle dimensioni del lavoro e della festa. O dovrebbero esserlo. Il lavoro e la festa sono infatti modi in cui l’uomo in generale vive, o può vivere, il tempo che lo caratterizza (allo stesso modo in cui caratteri antropologici fondamentali sono quelli affrontati negli altri ambiti: il

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tempo carattere dell’affettività, la dimensione della fragilità, il radicamento nella tradizione, la promozione e il riconoscimento della cittadinanza). Si tratta però di vedere come vivere il lavoro, come vivere la festa, come vivere il loro rapporto, il loro tempo, nella maniera giusta. Si tratta di vedere come vivere tutto questo in maniera cristiana. Ma, più in generale, si tratta di domandarsi che cosa significa oggi ‘lavoro’, qual è oggi il suo senso per la nostra vita, e che spazio c’è oggi per la festa e come essa può essere vissuta. Si tratta di chiedersi come viene fatta esperienza del lavoro e della festa, cioè del loro specifico tempo, se si vuole pensare in maniera giusta il loro rapporto: se si vuole cogliere in maniera adeguata, vorrei dire, il loro ritmo. Oggi infatti sembra che questo ritmo sia spezzato: fino a renderlo uniforme, indifferenziato. Perché il modo in cui ci rapportiamo al mondo attraverso il lavoro è soggetto a radicale trasformazione; perché la festa è trasformata in puro momento d’ozio, spesso vuoto e carico di noia. Viene meno così la relazione stessa tra lavoro e festa come modo in cui l’uomo può vivere il tempo, può volgersi al mondo, può rapportarsi agli altri uomini, può aprirsi a Dio. È minata alla base, cioè, la possibilità che l’uomo ha di andare al di là di sé: è messa in questione la sua possibilità di aprirsi al futuro. E viene così meno la capacità di sperare e di testimoniare la speranza.

2. Il lavoro Bisogna però chiarire, anzitutto, che cosa significa lavorare, a quali trasformazioni del lavoro stiamo oggi assistendo, quale tipo di lavoro viene oggi sperimentato e richiesto, quale impegno lavorativo oggi in molti, troppi casi viene soltanto sperato. Lo stesso, poi, bisogna fare nel caso della

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festa. Sono tre allora, in parallelo, le riflessioni sul lavoro che propongo, ciascuna esemplificata da un’immagine, così come tre saranno quelle relative alla festa. 2.1. Cominciamo con una prima immagine: un’immagine a due facce. Concerne due tipi di lavoro, incarnati da due persone: l’operaio inserito all’interno di un sistema produttivo e chi è impegnato invece in un lavoro di cura (anzi: chi considera ogni sua attività, in generale, come una professione, fin anche come una vocazione). Il primo caso individua un modello lavorativo – che tecnicamente si dice “fordista” – oggi fortemente in crisi: una crisi che coinvolge anche i tentativi di superarlo elaborati dal marxismo (appunto perché il marxismo considerava questo sistema come il sistema produttivo privilegiato). Che cosa caratterizza l’esperienza di lavoro e di vita di questo operaio? Egli è inserito in un sistema produttivo più grande di lui. Il suo lavoro è un ingranaggio in una grande catena di montaggio; il suo lavoro, in altre parole, è un mezzo che serve alla realizzazione di certi prodotti e, in definitiva, alla conservazione di una società capitalistica basata sui consumi. Si comprende, nella misura in cui lo scopo del lavoro dell’operaio è ben oltre l’operaio stesso e la sua specifica attività, il perché della sua insoddisfazione: il perché – si diceva una volta – della sua “alienazione”. Il tempo della produzione in fabbrica era un tempo sempre uguale, uniforme. In esso infatti non sempre era chiaro perché, e per ottenere che cosa, l’operaio lavorava. Diverso, invece, è il modo in cui viene sperimentato il lavoro come professione, come “vocazione” in un senso ampio (ad esempio nei lavori di cura, ma non solo in questi). In questo caso il lavoro non è un mezzo per il raggiungimento di uno scopo che va oltre l’attività lavorativa del

singolo, ma è, in sé, esso stesso scopo. Nel lavoro, infatti, io non solo realizzo qualcosa, ma insieme mi realizzo, sviluppo me stesso, il mio rapporto con le cose e con gli altri. Non c’è qui un unico sistema produttivo al quale mi devo uniformare con azioni sempre uguali, ma la mia attività risulta creativa, appunto perché si deve adattare a situazioni sempre diverse e, sovente, imprevedibili. Ho accennato ai cosiddetti lavori di cura, ma potrei riferirmi ugualmente, più in generale, a tutti quei casi in cui la professione si rivela corrispondente a una vera e propria vocazione. Qui, infatti, non c’è distinzione tra cura di altro e cura di sé, ma la prima finisce anche per produrre, sempre, la seconda. Dunque: quale lavoro oggi? Il modello fordista risulta ormai difficilmente applicabile, almeno nelle società occidentali (si parla infatti, in maniera del tutto generica, di modello post-fordista). E poi, come fra poco vedremo, esso è tutt’altro che sicuro, tutt’altro che garantito, anche in questa sua forma. Paradossalmente, però, la crisi del lavoro come puro mezzo può consentire la riscoperta dell’altro tipo di lavoro: la professione nella quale ci si realizza e, nel far ciò, ci si apre a una rete creativa di relazioni. Emergono così, in questo quadro, nuove modalità di organizzazione, che vanno oltre il modello capitalistico: le forme cooperative, le imprese sociali, le imprese civili. E si determina altresì la possibilità di declinare al plurale, in una prospettiva comunitaria, la stessa attività lavorativa: in modo tale che il lavoro non si consumi in una chiusa dimensione individuale, ma favorisca la creazione di nuove forme di economia. Vi è però un problema di fondo che, da una tale prospettiva, dev’essere affrontato: è il problema di recuperare il senso del lavoro, il senso, cioè, di quello che risulta un modo privilegiato di vivere il proprio tempo feriale.


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Recuperando infatti il senso del lavoro, il fatto che il lavoro stesso ci apre a un contesto ampio di relazioni che lo trascendono, siamo infatti in grado di far risaltare ciò che è al di là del lavoro stesso: il tempo della festa, appunto. Ma, per ottenere questo, il lavoro certo ci dev’essere. Esso deve risultare, in qualche modo, un lavoro garantito. Oggi, invece, quali garanzie possiede l’attività lavorativa? Come può essere promossa? In altri termini e più in generale: se lavorare è un modo di realizzarsi che è proprio dell’uomo, nel quale egli può trovare senso alla propria vita, allora il lavoro va comunque salvaguardato. Il lavoro è un diritto, si dice. Ma lo è poi davvero? 2.2. Ci troviamo di fronte alla seconda immagine, alla seconda coppia di concetti che riguardano il lavoro: il lavoro come diritto e il lavoro come dovere. Il diritto al lavoro, certo, è affermato fin dall’inizio nella Costituzione italiana, come condizione di cittadinanza. E il Compendio della dottrina sociale della Chiesa (nn. 287 e 288) dichiara con chiarezza che la “piena occupazione” è “un obiettivo doveroso per ogni ordinamento economico orientato alla giustizia e al bene comune”. Ma non si tratta solamente di garantire il lavoro garantendo, in tal

modo, una base di giustizia: si tratta, anche, di garantire la scelta del lavoro più rispondente alla propria vocazione. È questo ciò che oggi, anzitutto, chiedono coloro che sono alla ricerca di una prima occupazione: chiedono di lavorare sulla base dei propri interessi e della propria formazione. Si tratta di una domanda che riguarda la qualità del lavoro, piuttosto che la sua quantità. Si tratta di una domanda che oggi non sempre trova risposta soprattutto perché vi è, almeno in Italia, una ormai compiuta separazione fra momento della formazione e momento del lavoro. Si rischia di considerarli due realtà impermeabili, nonostante tutti gli sforzi che si fanno per metterli in relazione. La scuola, da una parte, non prepara più, adeguatamente, al lavoro; e il lavoro, soggetto a un’incessante trasformazione, richiede dal canto suo una formazione continua. In questo quadro di disarticolazione di formazione e lavoro si finisce, dopo un po’, per prendere il primo lavoro che capita, magari sperando una migliore opportunità per il futuro. Il lavoro diventa così puro dovere. È compiuto per dovere, è sentito come un’im­posizione, diventa sempre più gravoso e faticoso, è fatto perciò controvoglia. Lo vediamo in molti

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fragilità del lavoro casi. Ma c’è un altro aspetto, un altro senso del dovere che qui s’incontra, e che viene sovente dimenticato. Il lavoro è impegnativo non solo perché è faticoso, ma perché può essere fatto bene o male. C’è anzi quel dovere di far bene il proprio lavoro che è insito in ogni professione e, talvolta, è pure prescritto da ciascuna di esse. In qualche caso, addirittura, ciò è sancito dai codici di autoregolamentazione che le varie professioni si danno e che, appunto nella misura in cui stabiliscono i doveri di chi opera in quell’ambito professionale, si chiamano “codici deontologici”. Sono appunto questi doveri legati al far bene il proprio mestiere che oggi, molto spesso, vengono dimenticati. Ma, più ancora di questi doveri settoriali, deontologici, ci sono altri doveri: doveri al cui rispetto è chiamato chiunque, con il suo lavoro, si rapporti ad altre persone. Si tratta di obblighi propriamente morali: il rispetto nei confronti dell’altro, la responsabilità che mi posso assumere nei suoi confronti. Ecco i doveri che vanno al di là di un determinato lavoro, ma che il lavoro stesso, in quanto attività, chiama necessariamente in causa: chiamando in causa ciascuno di noi, in quanto uomo, nella sua specifica responsabilità di fronte agli altri. Responsabilità, sul piano del lavoro, significa anche responsabilità riguardo all’attuazione delle pari opportunità lavorative. E qui, di nuovo, il discorso sul lavoro s’incrocia con quello sulla cittadinanza. Vi sono infatti categorie di cittadini per i quali il diritto al lavoro è messo in questione, come abbiamo visto. Vi sono persone per le quali l’esercizio stesso di questo diritto è oltremodo difficile: pensiamo al divario Nord-Sud sul piano dell’occupazione; pensiamo alla questione del lavoro femminile. Ancora: vi sono uomini e donne, come ad esempio i cittadini extracomunita-

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ri, che molto spesso possono ottenere un lavoro solo rinunciando alle tutele normalmente garantite e accettando una condizione di sfruttamento, che trasforma il lavoro, non più regolamentato, in qualcosa d’altro. Di fronte a tutto questo non è possibile restare indifferenti. 2.3. Abbiamo parlato di lavoro come mezzo e di lavoro come scopo; di lavoro come diritto e di lavoro come dovere. Ma hanno senso questi discorsi oggi? Hanno forse senso in una situazione, come quella italiana, in cui il lavoro, come abbiamo visto, sta subendo una radicale trasformazione, in cui il lavoro sovente manca, in cui viene talora negato come possibilità di realizzazione umana? Hanno senso in un contesto nel quale, sempre di più, il lavoro è sperimentato nella sua fragilità? Incontriamo qui, più precisamente, due altre esperienze, quella del lavoro precario e quella del lavoro stabile. Le possiamo esemplificare, immediatamente, con le figure dell’operatore del call-center e dell’impiegato statale. Il primo vive in un’insicurezza di fondo, con ritmi molto intensi e condizioni lavorative certo non ottimali, in una situazione che non gli consente di fare progetti e di costruirsi un futuro. Il secondo rischia a volte di trasformare le tutele in privilegi e di dover fare affidamento solo sul suo senso di responsabilità per giustificare una reale produttività lavorativa. Certo: oggi il lavoro stabile sembra sempre più un miraggio, e sempre più si diffonde, anche attraverso romanzi e film, il mito del precario. Che però, così come romanzescamente ci viene proposto, è appunto un mito. Anche qui, infatti, ci vuole il giusto discernimento e l’opportuno equilibrio nei giudizi. Si tratta infatti di prendere atto della necessità di corrispondere con la dovuta flessibilità alle attuali trasformazioni del mer-

cato del lavoro e alle mutate esigenze della produzione. Ma si tratta altresì di non fraintendere ideologicamente, in nessun senso, la flessibilità che oggi viene richiesta. Flessibilità, infatti, non significa precarietà. Flessibilità significa possibilità di cogliere nuove opportunità lavorative. Non è sinonimo d’insicurezza. Il lavoro che manca, oggi, non è semplicemente lavoro negato. E come tale non è solamente segno di una mancanza di futuro, che porta inevitabilmente alla disperazione. Il lavoro che manca, considerato più a fondo, è la messa in discussione del senso stesso della nostra vita; è il rischio che venga meno la nostra capacità di realizzarci in rapporto con gli altri e con il mondo, all’interno di un più ampio contesto temporale caratterizzato dalla scansione di momenti feriali e di momenti di festa.

3. La festa Se la mancanza di lavoro fosse solo il segnale di un’assenza di futuro, se si dovesse solamente prendere atto che, per noi e per i nostri figli, il lavoro è precario, quando non addirittura manca del tutto, e che perciò esso, invece che occasione di soddisfazione e di realizzazione, è invece fonte inevitabile d’insicurezza e di disagio, resterebbe allora un’unica possibilità alternativa: quella, appunto, di rinunciare al lavoro come elemento di realizzazione della vita mia e altrui, di raggiungimento di un’autonomia e di un’autosufficienza economica, capace di fornire un ruolo nella società e di consentire la formazione di una famiglia. Meglio sarebbe, invece, restare nella propria famiglia d’origine, coltivare altri rapporti altrettanto precari (ad esempio su di un piano sentimentale), evitare di crescere. È il risultato, paradossale, della nostra cultura, che è basata sul culto dell’autonomia


festa: diritto/dovere e che rischia, invece, di rendere impossibile quest’autonomia stessa. È la scelta che fanno, volenti o nolenti, molte persone giovani. Ma con ciò, nonostante sembri che tutto sia ozio e festa, subentra l’indifferenza e il vuoto, e la speranza, di fatto, viene messa fra parentesi. Ma com’è vissuta oggi la festa? Anche in questo caso vorrei mettere in evidenza tre aspetti. Si tratta della festa come tempo per me e come tempo per altri e per altro; della festa, di nuovo, come diritto e come dovere; della festa come svago, ossia come divagazione e vacanza, e come momento di raccoglimento, di concentrazione. Anche questi aspetti possiamo collegarli a tre ordini di immagini. 3.1. In che modo, dunque, sperimentiamo oggi la festa? Iniziamo con un primo aspetto della questione: è quello della festa intesa come un tempo che mi prendo per me o come un tempo in cui mi dedico ad altro e ad altri. Pensiamo per esempio al ragazzo, all’adolescente, chiuso nella sua stanza, chiuso in se stesso e al mondo, magari con le cuffie alle orecchie. E pensiamo invece a chi, nel tempo di festa, nel tempo di vacanza, si dedica a un hobby (si apre al mondo), si rende disponibile per la famiglia e per gli amici (si rivolge agli altri, ad esempio con un’attività di volontariato), si prende tempo per quell’Altro che è Dio (ad esempio nelle forme di apertura assoluta che sono la preghiera e il culto, il rito e la liturgia). Non bisogna considerare in termini soltanto negativi il primo modo d’intendere la festa. Anzi, esso è ben comprensibile, se viene considerato come la pausa rispetto a un tempo troppo pieno, a un lavoro troppo alienante, a una serie d’impegni troppo gravosi. Dobbiamo prenderci tempo per noi stessi, ogni tanto, anche se vogliamo continuare a dedicarci agli altri. Quello animato dall’agape,

dall’amore come dono di sé, non può essere un comportamento esclusivo, costante, altrimenti si rischia, alla fine, di non aver più niente da dare. La pausa, lo stacco, però, non possono a loro volta essere assolutizzati, altrimenti diventano vuoti, senza scopo. Di più: altrimenti io stesso perdo la mia identità. La mia identità, infatti, non può prescindere dal rapporto con gli altri, non può non svilupparsi se non in una relazione. L’aspetto centrale di questo vivere il mio tempo come tempo per gli altri può anche essere sintetizzato in una parola: la parola sovvenire. “Sovvenire” significa insieme ricordarci degli altri e venire loro incontro. Significa che qualcosa, da altrove, mi viene incontro e mi muove verso altre relazioni. Ecco perché diciamo che il ragazzo, nel chiuso della sua cameretta e con le cuffie alle orecchie, è un individuo ancora immaturo: perché non si mette in gioco, perché non vive davvero, in quanto non vive con e per gli altri, in tal modo formando la sua identità; perché in ultima analisi – nonostante l’abbondante tempo vuoto che ha a disposizione – non è in grado neppure di vivere l’esperienza della festa. La festa infatti non è qualcosa che si consuma. Nell’attuale società del consumo siamo abituati a rapportarci alle cose, agli uomini, alle esperienze che possiamo fare in termini di consumo e di assimilazione. Il che significa: siamo abituati a comportarci come se tutto ruotasse intorno a noi stessi e fosse esclusivamente destinato a una nostra fruizione. Tutto: anche il tempo della festa. C’è il rischio, insomma, di lavorare per consumare e di consumare per lavorare. Comprendiamo allora perché è mutato anche il modo di vivere le feste religiose, capiamo perché si è trasformato, ad esempio, il tempo del Natale. Tutto qui è diventato occasione di shopping, di regali scambiati; il tempo viene soprattutto

impiegato a questo scopo; il tempo è ciò che appunto in questo modo viene consumato. Ed è proprio una tale prospettiva, che ormai si è imposta, che ormai pare condivisa, ciò che fa sì che la festa finisca per configurarsi non solo come un diritto, ma anche come un dovere: il dovere, ad esempio, di divertirsi a tutti i costi. 3.2. Ecco allora emergere altri due aspetti della festa: la festa considerata appunto come un diritto e la festa intesa invece come dovere. Ma anche questi modi di vivere la festa devono essere compresi giustamente. Il riposo è ormai un diritto acquisito. Biblicamente, come sappiamo, il modello qui è quello del settimo giorno della creazione. Ma il diritto al riposo della festa non può essere inteso semplicemente come diritto all’interruzione, come pausa dal lavoro e rispetto al lavoro. C’è anche questo, certo. E ben comprendiamo le istanze di quei lavoratori – ad esempio le commesse – che si ribellano alla prospettiva di lavorare sette giorni su sette. Ma questo è solo un punto di partenza. Perché lo si può fraintendere; si può ritenere infatti che quest’esigenza di rispetto della festa sia dettata soltanto da motivi di comodità. E ciò accade perché, se si considera la festa unicamente come astensione dal lavoro, la si concepisce solo in termini negativi. Invece, positivamente, la festa è tempo per: per fare quelle cose che nel tempo ordinario non si riescono a fare; per realizzare ciò in cui la vita quotidiana può trovare il proprio compimento. In una parola: per rigenerare il proprio spirito e – perché no? – anche il proprio corpo. Ma, appunto, nella maniera giusta. La pratica di uno sport, se viene compiuta in modo equilibrato, se cioè non diviene sostitutiva di ogni altra forma di relazione, serve anche a questo. In quest’ottica positiva può allora essere compreso il senso del precet-

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to di santificare la festa. Dobbiamo intenderci, però: non si tratta di un mero dovere, di un puro obbligo che si contrappone, con la sua insensata normatività, al diritto che noi abbiamo di disporre del nostro tempo, tanto più se questo è un tempo di festa. Si tratta invece dell’occasione che ci viene offerta di dare senso, di dare provvisorio compimento allo scorrere del tempo feriale; si tratta di riconoscere che quest’ultimo, il tempo feriale, è un tempo ordinato, un tempo che manca di qualcosa se vuole pienamente realizzarsi e che ci chiama a trasfigurarlo, assumendolo in un’altra ottica, festosa e festiva. Il precetto insomma – come dice il comandamento: “Ricordati di santificare le feste” – consiste anzitutto nell’invito a ricordare: a ricordare che il tempo non è tutto omogeneo, tutto uguale, e che c’è un tempo santo che ci chiama alla sua santificazione. 3.3. Bisogna dunque intenderci. La festa è tempo di svago, è, letteralmente, vacanza: tempo vuoto, vacante, rispetto alle incombenze quotidiane. Si tratta di un tempo che può essere adeguatamente riempito, ad esempio attraverso le varie attività connesse al turismo. Si apre qui tutta la dimensione di una pastorale del turismo: che risulta attività indispensabile, specialmente in certi luoghi e in certi momenti dell’anno, e che richiede forme di annuncio particolari. Ma la festa non è solo un’occasione di svago. Già gli antichi consideravano l’otium non semplicemente come ozio, come inattività, ma come occasione per altre forme di agire. Più ancora: non tanto come occasione per altre forme di agire, nelle quali sperimentiamo altre possibilità del nostro essere e ci dedichiamo ad esse, quanto, anche e soprattutto, come opportunità di ritornare a noi stessi, di evitare la dispersione quotidiana, di recuperare concentrazione e racco-

glimento. Ecco perché, accanto alle vacanze al mare e in montagna, sono dette vacanze anche quelle che si passano nei monasteri. La festa è infatti il tempo in cui possiamo recuperare il nostro tempo: senza farci assorbire dalle incombenze quotidiane, ma anzi distaccandoci da esse e guardandole con occhio nuovo. Ma anche qui bisogna fare attenzione. Il ritorno a sé (di agostiniana memoria), la concentrazione e il raccoglimento che il dì di festa favorisce non possono essere intesi come qualcosa d’individuale, di soggettivo. Anche questo è solo un aspetto parziale della questione. Infatti il raccoglimento fa sì che colui che si raccoglie in se stesso scopra, proprio in sé, il suo carattere relazionale. Ma insieme fa sì che egli scopra che questo raccoglimento, questa concentrazione si realizzano nel modo migliore se vengono vissuti insieme con gli altri. Ecco perché la festa è sempre festa comunitaria e festa della comunità. Anzi: essa rivela, più precisamente, la comunità in festa. Ed ecco perché il vero soggetto della festa non sono io, ma siamo noi. Con tutto il carico di legami, con tutto l’investimento di affettività che questa dimensione comunitaria comporta.

4. La relazione di lavoro e festa Abbiamo dunque descritto alcuni dei modi in cui possiamo vivere, nel mondo di oggi, il lavoro e la festa. Abbiamo visto quanti e quali significati possono assumere queste esperienze decisive e centrali. Il lavoro può configurarsi, ad esempio, come mezzo o come scopo, come diritto o come dovere, come precario o come stabile. La festa può a sua volta essere intesa come tempo per me o come tempo per altro (e come tempo per altri), come diritto, di nuovo, o come dovere (cioè come precetto), come

opportunità di svago o come occasione di raccoglimento. E poi abbiamo visto già, seppur nell’implicito, in che modo questi aspetti, queste figure del lavoro e della festa s’intrecciano l’una con l’altra, si rimandano reciprocamente. Ci restano tuttavia alcune cose importanti da fare, come ulteriori tappe della nostra riflessione comune: ci resta da chiarire meglio, esplicitamente, la relazione di lavoro e festa; ci resta da definire cioè il carattere temporale che è proprio di questa relazione; ci resta da avviare, soprattutto, un’ulteriore riflessione su quella che può essere, oggi, la specifica proposta cristiana in merito. Cominciamo con la prima questione: come viene vissuta oggi la relazione di lavoro e festa? Lo abbiamo in parte già visto: si tratta di una relazione che viene sovente negata. Si nega cioè che l’uno o l’altro dei due termini, il lavoro o la festa, abbia un’effettiva rilevanza, e che quindi debba davvero rapportarsi all’altro in maniera corretta. Oggi viviamo infatti in un’epoca in cui molti credono che tutto sia lavoro, e molti altri credono che tutto sia festa. Ci sono quelli che non smettono mai di lavorare: o perché non possono farne a meno (in quanto sono costretti, ad esempio, dalle condizioni di flessibilità del lavoro, e dunque una tale situazione è loro imposta) o perché non vogliono farne a meno (in quanto sono dominati dalla ricerca del profitto o in quanto non riescono a smettere di lavorare). E in parallelo ci sono quelli per cui non solamente la festa è tutto, è un valore sopra ogni cosa, ma per cui in special modo tutto è festa: una festa per lo più senza obblighi, un tempo di disimpegno e di ozio che deve essere lasciato vuoto, e che sovente, proprio in quanto tempo vuoto, pesa. Non è difficile trovare esempi, in una stessa famiglia, di questi atteggiamenti contrastanti. Possiamo

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pensare al padre che fa del lavoro la sua religione, e che lo fa, almeno così dice, per “lasciare qualcosa” ai figli. Ma, lavorando senza interruzioni, questo padre i suoi figli non li vede mai, non li vede crescere e così non cresce insieme con loro, e i figli a loro volta sentono la sua assenza. Perciò, lungi dal costituire un esempio di vita, il modello del “padre indefesso lavoratore” provoca reazioni di rigetto. I figli rivendicano il loro essere oziosi: tanto non devono lavorare per sopravvivere. E allora semplicemente godono, e magari sperperano, ciò che il padre ha guadagnato con il suo sacrificio. Ma né il padre né i figli, in verità, sono appagati. Non tanto perché i secondi distruggono quello che il primo ha costruito e non costruiscono nulla a loro volta, quanto perché il padre, prima o poi, finisce per domandarsi che scopo ha, davvero, tutto il suo lavorare; e perché i figli, pur godendo del benessere accumulato dal padre, sono frustrati, in quanto un tale benessere non è prodotto da loro, non è frutto del loro lavoro. Parlo di “padri”, naturalmente, perché io stesso sono padre. Ma potrei proporre lo stesso esempio declinato al femminile. Potrei parlare del lavoro incessante di quelle madri per cui oggi il lavoro, sia fuori di casa che dentro casa, è visto come un obbligo indifferenziato, a cui corrispondono le pretese di quei figli per i quali tutto appare dovuto e mai sufficiente. In ogni caso questi due esempi – esempi di una situazione banale ma oltremodo diffusa nella nostra società, in cui i figli vivono o sono costretti a vivere alle spalle dei genitori – ci mostra due cose. Ci fa vedere anzitutto quanto sia necessario l’opportuno equilibrio nel rapporto fra lavoro e festa. Ripeto: lavoro e festa sono ambedue importanti. Certo: ci sono momenti in cui può anche essere indispensabile dedicarsi totalmente e in maniera assorbente al lavoro, così

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come, in altri momenti, nei momenti di grazia, tutto nella nostra vita può apparire una festa. Ma si tratta appunto di momenti, che sono da inserire all’interno una scansione temporale ben precisa. È questa la scansione del tempo cristiano. Su cui tornerò fra breve. La seconda cosa poi che viene messa in luce dal nostro esempio del padre lavoratore e dei figli oziosi – e da quello della madre che cerca di venire incontro, con la sua attività, alle pretese di tutti – è data dall’indicazione di un particolare modo, alquanto diffuso, in cui oggi viene vissuta la relazione fra lavoro e festa. Si tratta di una relazione, come dicevo, che in fondo viene negata come relazione: si tratta di una relazione d’indifferenza. E ciò non rischia di accadere solamente per questa relazione, ma per ogni tipo di rapporto che ci può interessare, che ci può coinvolgere. Oggi, infatti, sembra che tutto quello che possiamo incontrare nella nostra vita sia uguale, prevedibile, sempre già noto. C’inducono a crederlo i mezzi di comunicazione di massa, che tutto vogliono esibire e non lasciano spazio per il mistero. Ecco allora che non ci stupiamo più di nulla, e che nulla è in grado davvero di attirarci. Insomma: non c’è nessuna cosa che meriti davvero attenzione, non c’è nessuna cosa che richieda veramente lo sforzo di rapportarci ad essa, dal momento che tutto finisce per raccogliere solo disinteresse. Lo stesso accade, a ben vedere, nel rapporto tra lavoro e festa. Sempre più, come ho detto, si confondono queste due esperienze. Sempre più l’una sembra poter fare a meno dell’altra. Rischiamo di perdere il senso del lavoro e il senso della festa, proprio nella misura in cui perdiamo di vista la loro relazione. Lo abbiamo appena visto: rischiamo di essere analfabeti in questi due ambiti, e di dover di nuovo imparare che cosa

significa davvero lavorare, che cosa significa davvero fare festa. Dobbiamo allora recuperare, insieme alla loro relazione, il vero e proprio ritmo che scandisce questi due modi del nostro vivere. In che modo lo possiamo fare? Lo possiamo fare recuperando una specifica concezione del tempo: una concezione che è propriamente cristiana, ma che da tutti può essere condivisa. Giacché parlare di ritmo, qui, significa appunto parlare del tempo. E solo recuperando un’adeguata concezione del tempo può essere eliminato il pericolo dell’indifferenza; solo così può essere dato senso al vivere comune, che rischia altrimenti di essere ridotto a un’unica dimensione.

5. Il tempo cristiano Il cristiano, infatti, vive in una duplice dimensione temporale: vive un tempo circolare, ciclico, e un tempo lineare, orientato. Per lui le due immagini temporali offerte dalla tradizione, quella del cerchio e quella della freccia, non sono giustapposte, ma si integrano reciprocamente. La prima immagine, la prima significazione del tempo, è infatti quella che caratterizza l’anno liturgico, come cammino specifico e ricorrente della vita di una comunità di fede. Qui, ancora una volta, il protagonista non è l’io, ma il noi. Ed è in questo ricorso circolare che la festa trova la sua piena collocazione temporale. Essa è non solo l’apice che interrompe lo scorrere del tempo feriale, ma appunto il compimento di questo tempo, nella correlazione di esodo e di avvento di cui essa è testimonianza. Una tale concezione del tempo, tuttavia, è inserita per il cristiano (a differenza di quanto avviene per il greco e anche per l’ebreo, ma soprattutto di quanto accade per il musulmano) in una dimensione più


ampia, anch’essa temporale. Si tratta del tempo del cammino, del tempo del pellegrinaggio: un cammino che va dalla prima alla seconda venuta del Signore. È dunque un tempo delimitato (nella misura in cui collega Incarnazione e Redenzione) e, soprattutto, è un tempo lineare, caratterizzato da una ben precisa direzione. È, ad esempio, il tempo del lavoro, nella misura in cui questo risulta sempre orientato verso uno scopo. Perciò esso viene sovente simboleggiato da una freccia. Si tratta però di una freccia, volendo usare ancora quest’immagine, che non indica qualcosa che rimane nel suo stesso orizzonte, qualcosa che risulta situato su di un piano orizzontale. Il cammino temporale trova infatti la sua realizzazione in un evento che non è affatto temporale e che trascende proprio questo orizzonte, mettendolo sotto giudizio. Ciò che è temporale scopre così il suo nesso profondo con l’eterno. E il cristiano può guardare al suo tempo anche da straniero, come dice la Prima lettera di Pietro, e non farsi assorbire da esso. Nell’esperienza cristiana del tempo, insomma, circolo e linea, ritorno ciclico e percorso direzionato non risultano l’un l’altro contrapposti, ma si trovano invece intimamente uniti. Questo è infatti il carattere specifico del tempo cristiano: il fatto che la ciclicità non è chiusura in sé, non è segno d’indifferenza e di disinteresse nei confronti di ciò che in essa non è ricompreso, ma è piuttosto funzione, in quanto tale, di un’effettiva apertura ad altro. E quest’apertura è appunto resa possibile dall’innesto del tempo circolare entro il tempo lineare. Ciò rende possibile quella particolare cadenza che è propria del tempo cristiano. Non si tratta di un tempo sempre uguale, indifferenziato, ma di un tempo di occasioni. Si tratta di un tempo di attesa di ciò che può accadere da un momento all’altro (come viene detto nella Prima

lettera ai Tessalonicesi). Si tratta di un tempo differenziato e differenziante: di un tempo di relazione, all’interno del quale possono sempre realizzarsi “piccole resurrezioni”. Ecco perché proprio questo tempo è il luogo deputato della testimonianza. Il testimone è colui, infatti, che tiene vive, per sé e per la comunità, le differenze all’interno del tempo. Il testimone è colui che, nel presente, trova la radice del passato, suo e della sua comunità, e si apre, a partire da qui, al futuro. Il testimone, in altre parole, è sempre testimone della speranza e nella speranza. Ecco, allora, che cosa possiamo proporre in sintesi. Dobbiamo recuperare, nel caso del lavoro e nel caso della festa, i diversi significati che sono propri di questi accadimenti, i

diversi modi in cui essi possono essere vissuti, onde evitare l’appiattimento nell’indifferenza e nell’alienazione. Così facendo, scopriamo il loro legame, il ritmo che li contraddistingue. Si tratta di un ritmo che ha il suo senso in una specifica concezione del tempo: una concezione del tempo che è propria del cristianesimo, ma che può essere condivisa universalmente. Ne abbiamo accennato: è la concezione di un tempo capace di operare differenze e di far sperimentare, nel suo alveo, possibilità di senso; è la concezione, per esprimerci in un linguaggio cristiano, nella quale il tempo liturgico, circolare, con la sua specifica idea di festa, è inserito nel cammino del popolo di Dio verso la redenzione.

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CULTURE

Maurizio Carta

La festa di Maslenitsa Vita e morte del mondo russo

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U

Un carnevale unico al mondo, figlio di una civiltà contadina, specchio lontano dei rituali e dei propositi delle élite

na valle innevata e una folla che osserva in silenzio la scena. Sullo sfondo un bosco e una cupola ortodossa. Al centro, due file di uomini disposti a circa dieci metri di distanza. Si fronteggiano, si adocchiano e attendono in linea, l’uno davanti all’altro. Parte il segnale: l’arbitro dà una frustata sulla neve. Cadono i pastrani e i pugili, a petto nudo, corrono furiosamente l’uno contro l’altro. I primi colpi decollano, iniziano le musiche popolari, il tifo si fa scatenato. La rituale rissa bagna la neve di sangue: il villaggio rompe il sonno invernale della natura. È la “stenka na stenku”1, frammento della “Maslenitsa”2, il carnevale russo. La scena appena descritta è nel “Barbiere di Siberia” di Mikhalkov (1999). Il regista, noto per la sua eccentrica slavofilia, voleva ritrarre una Russia di fine ‘800. Tuttavia, ha reso bene un contesto di tradizioni ancora oggi presente in tutto il paese, specialmente nella sua sterminata e profonda provincia. La Maslenitsa è uno dei rari momenti nel quale si può percepire la Russia dei russi, cioè un modo di vivere, festeggiare e stare insieme che si perde in un passato indistinto. I giorni della settimana grassa rappresentano un tempo scandito dal calendario agrario, precedente quindi allo stato

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identità | capodanno moderno, al cristianesimo e alla civiltà urbana. Concesso che questa caratteristica del carnevale sia universale, va detto che essa assume un significato diverso nello sterminato spazio che va da San Pietroburgo a Vladivostok. I confini della Russia, non da oggi, rappresentano una delle più delicate faglie di civiltà del pianeta. Per i russi vivere il tempo della festa secondo tradizione vuol dire distinguersi all’interno della famiglia umana, celebrare la vita e reclamare la propria primordiale via all’essere. È per questo che la Maslenitsa racconta il popolo che lo festeggia meglio di qualsiasi cronaca proveniente dal Cremlino.

1. Un posto nel calendario Oggi i 13 giorni di differenza tra calendario giuliano (ortodosso) e calendario gregoriano (occidentale) sono il pretesto che usano i giovani di mezza Europa per convergere a Belgrado e festeggiare, durante la prima metà di gennaio, un distruttivo secondo capodanno. In Russia, dove la sbornia a saldo è egualmente presente, il doppio capodanno è in realtà un lascito ben più antico dell’ortodossia. Nell’antica Rus’, il nuovo anno cominciava a marzo. Il Concilio di Mosca (1348) spostò tale data al 1° settembre. Pietro il Grande decise infine di dislocarne l’inizio al 1° gennaio (per i russi l’anno 1699 è quindi durato solo 4 mesi). L’ultimo passo verso ovest venne fatto dal governo rivoluzionario. I bolscevichi coordinarono il calendario ortodosso con quello occidentale, lasciando i 13 giorni di differenza ai riti repressi del cristianesimo ortodosso. Dunque, marzo, la primavera: la Maslenitsa, pur essendo vincolata alla data della Pasqua (cade sette settimane prima), corrisponde più o meno all’ancestrale capodanno pagano del calendario solare. Una festa pertanto in cerca di data, come si conviene alla mentalità contadina, secondo cui la

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bella stagione può arrivare in base ai segnali più disparati: “quando i sentieri si scuriscono” (la neve si scioglie), quando la betulla inizia a coprirsi di un verde chiaro, quando finisce la pace. Ma non basta. La primavera, secondo i russi, non è detto che arrivi, non va semplicemente attesa. Va chiamata, pregata, scongiurata. In un paese afflitto per secoli da carestie e scarse rese agricole, l’arte del richiamo della primavera è una forma sedimentata di dovere nazionale. E come rispettarlo? Con una settimana grassa che ripercorra i cicli della vita e della morte della società russa, un rito volontaristico che dal lunedì alla domenica faccia da appello alla vita3.

2. Si scioglie la neve, iniziano le ostilità Ben prima che la rotta dell’Armata napoleonica rendesse universalmente famoso l’inverno russo, i russi sapevano che la condanna nazionale, il clima, era anche la loro massima assicurazione sulla vita. Se la Maslenitsa è un’invocazione al passaggio dall’inverno alla primavera, non è dunque un caso che due delle sue forme di divertimento più tipiche richiamino gli uomini al sacro dovere della battaglia. Della “Stenka na stenku” abbiamo già detto all’inizio. Il pugilato vero e proprio è però solo la sua forma tradizionale. Oggi il “muro contro muro” è giocato anche a spallate, in un clima allegro e molto meno marziale. Va detto comunque che per secoli è stato un divertimento popolare abbastanza violento (al punto che Nicola I lo vietò per legge) e che anche oggi i tornei del martedì grasso possono farsi seri. Alla disfida sono ammessi tutti gli uomini dai 16 ai 60 anni, i contendenti arrivano anche ad un centinaio e le regole sono codificate: non si può attaccare da dietro, è concesso usare solo le mani, bisogna aver cura del compagno, con

il ko di uno dei contendenti la lotta si interrompe, non si possono dare colpi sopra il pomo d’Adamo e sotto il plesso solare. Se poi avanzano le forze, c’è il secondo grande divertimento del carnevale russo: la “Presa della cittadella di neve”4. Anche in questo caso, il passatempo è propriamente maschile. Come per la boxe popolare, durante i tempi andati poteva farsi un gioco violento e causare fratture o ferite. In generale è l’attacco ad una torre di ghiaccio che contrappone assedianti e assediati. La competizione può essere organizzata in molte forme. C’è anche il caso in cui un reparto di cavalleria deve attaccare un reparto di fanteria che difende una porta tra due torri di ghiaccio. Il gioco finisce quando un cavaliere riesce a passare la porta. Di solito la “Presa della cittadella di neve” ha una discreta durata e prevede la vittoria di un premio espresso in cibo, altro grande fondamento del carnevale e dell’appello alla primavera.

3. Il sole a banchetto Tra le tante cose che si mangiano durante la Maslenitsa, i bliny, delle crepes variamente condite, rappresentano sicuramente la specialità più tipica. Di solito ai russi piace molto comunicare il senso intrinseco dei bliny. Ogni straniero si sente dire che essendo tondi e gialli, aiutano a richiamare il sole. In verità, in Russia i bliny si mangiano sempre e da sempre, al punto che esiste “Teremok”, una fortunata catena di fast food appositamente dedicata alle crepe ripiene. Tra gli studiosi di folklore russo è poi dominante l’opinione che il parallelismo tra i bliny e il sole rappresenti un significato acquisito nel tempo, non originario. Ciò che qui invece conta sottolineare, è che bliny o non bliny, durante la Maslenitsa si esagera. Fatta da parte la particolarità che la carne è già vietata dall’ortodossia (con l’ingresso in quaresima anche


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LJUDMILA ANTONOVNA REGINJA

Per capire meglio il senso della Maslenitsa e il modo di viverlo della società russa, abbiamo fatto qualche domanda a Reginja Ljudmila Antonovna, giornalista di lungo corso, autrice dei libri “Memoria bruciata” e “La lotta con la lotta si lotta”. La Antonovna ha lavorato per la rivista “Aurora” e ha collaborato con diversi periodici si San Pietroburgo. Membro dell’Unione degli scrittori, è laureata in lettere presso l’Università di San Pietroburgo, dove ha frequentato le lezioni di Vladimir J. Propp. La Maslenitsa – festa agraria, popolare di origine precristiana – non è mai piaciuta troppo alla Chiesa Ortodossa. Vladimir J. Propp scrisse che la vietava insieme agli Sviatki, il Semik, Kupala ed altre festività. Come si viveva il carnevale durante l’URSS? Il potere sfruttava questa dicotomia con la religione o anch’egli censurava gli eccessi del carnevale? La Maslenitsa è una festa profondamente radicata all’interno della cultura russa. Mi rammentate del Professor Propp, grande filosofo e filologo. Da studente, tra il 1949 e il 1954, ho avuto la fortuna di seguire le sue brillanti lezioni. Le tradizioni popolari e religiose affondano talmente lontano nei secoli e sono così connaturate alla memoria genetica delle persone, che anche le restrizioni più severe non possono ucciderle. L’ateismo era la religione dello stato sovietico. Furono uccisi i sacerdoti e distrutte le chiese, ma fu impossibile fare lo stesso con lo spirito vitale del popolo. Parole come Pasqua, Natale, Carnevale non potevano esser proferite da nessuna radio o televisione. I ragazzi visti in chiesa venivano esclusi dalla Lega dei giovani comunisti. Eppure, allo stesso tempo, in ogni famiglia si cucinavano i bliny e i panettoni, si coloravano le uova, ecc… La Maslenitsa e le altre feste popolari sono espressione della società russa. Sono sopravvissute al cristianesimo, allo zarismo, al comunismo e rappresentano un elemento di continuità nella storia del paese. Sopravviveranno al forte indebolimento della società contadina? C’è stata sempre una differenza tra campagne e città nella celebrazione della Maslenitsa, e rimane ancora oggi. Voglio solo precisare che non si tratta di una semplice festa di campagna. Se leggete le memorie dei secoli passati, comprenderete con quale sfarzosità e riguardo festeggiava la Maslenitsa l’aristocrazia urbana, il popolo e l’intellighenzia, quest’ultima appellata come “artistica” (scrittori, pittori,

ecc..). La gente comune passeggiava baldanzosa, infervorata. Gli immancabili compagni di divertimento erano diversi giochi. L’aristocrazia si viziava con piatti incredibilmente abbondanti e musica. In epoca sovietica la campagna era più aperta alle feste, la gente usciva per strada con canti e balli popolari, saziandosi di bliny e smetana (panna acida, ndr.). Il pubblico cittadino invece se ne guardava. Avete ragione: il mondo contadino è in rotta, anzi, sta morendo. Dove vivrà ancora la gente, vivrà il carnevale. È questa la più grande ipoteca. L’anima del popolo non può comunque essere distrutta. Lei nota che con il passare del tempo la Maslenitsta si stia globalizzando? Mi chiedete se la tradizione permane? In generale credo di sì. I bliny, lo slittino, i divertimenti vari come potrebbero sparire? Altra faccenda è l’aspetto, la portata che assumono. Le celebrazioni sono preparate dai comitati municipali, provinciali e cittadini. Tutta la bellezza della festa spesso si consuma sullo schermo televisivo. Questo non era possibile durante l’epoca sovietica. Esisteva solo l’avvertimento del medico: non mangiare troppo! Le è capitato durante la vita di assistere a forme particolari, diverse ma sempre russe, di festeggiamento della Maslenitsa? Se sì, quando e dove? Alla fine degli anni ’80 mi è capitato di vivere una Maslenitsa nell’entroterra russo. Era un kolkhoz nella regione di Rostov, vicino la città di Volgodonsk. Noi, un gruppo di giornalisti e scrittori, siamo stati portati in autobus direttamente sul luogo dei festeggiamenti. Marzo, la neve, il ghiaccio. Ci offrirono subito un posto in una bellissima e pittoresca slitta decorata. I cavalli galoppavano e rischiavano di gettarci in un fossato coperto di neve. L’emozione era forte. Dopo, nella cantina del villaggio, ci offrirono vino, blyni bollenti e dei kisel (una dessert russo di solito alla frutta, ndr.). C’era di tutto. La Maslenitsa era al suo massimo e non conosceva censure o restrizioni.

formaggi e latticini), l’usanza è che il cibo si consumi in grandi tavolate, in maniera chiassosa e conviviale. Di solito ci sono pietanze calde e liquide, cibi arrostiti e portate fredde. Un tempo chiunque, invitato o no, poteva andare a mangiare in casa altrui. Torrenti di vodka scorrono in libertà. Gli eccessi, oggi come nel passato, sono la norma. Due brevi stralci sulla vita di Pietro il Grande ne spiegano le dimensioni: Un giorno, nel carnevale del 1698, dopo un lauta banchetto a palazzo, lo zar indisse una funzione in onore di Bacco. Il patriarca e il principe-papa5 Nikita Zotov, il vecchio istitutore di Pietro, bevve e benedisse gli ospiti in ginocchio davanti a lui, tracciando il segno della croce con due pipe turche, così come fanno i vescovi con i candelabri a due o tre bracci; poi, con la mitra in mano, se lanciò nelle danze. Uno solo dei presenti al banchetto, un ambasciatore straniero per giunta, non riuscì a resistere a tanta stupidità e si congedò dai ‘buffoni’ ortodossi. (Kljucevskij, 1996, 42). Esiste una descrizione della settimana grassa che per ordine di Pietro I si festeggiò a Mosca nel 1722 in occasione della pace di Nystad. La processione era aperta dalle slitte trascinate da orsi, maiali, ecc… c’erano dei buffoni, Bacco e Nettuno. Infine apparì la mole enorme di un vascello a 88 cannoni che imitava perfettamente il vascello Fridmaker, inabissatosi nel marzo 1721 nelle acque di Pietroburgo. Su questo vascello veniva trasportato lo stesso Pietro I, esso era trascinato da 16 cavalli. Questo festeggiamento divenne celebre ed ancora nel XIX secolo ad Irkutsk, per ordine dell’amministrazione locale, durante la settimana grassa si trascinava un vascello, ed inoltre c’erano orsi, giullari, ecc.. (Propp, 1993, 141)

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primavera | gerarchia

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4. Rispettare le precedenze Gli ultimi giorni della settimana grassa vengono anche chiamati giorni del perdono, del bacio o delle scuse. È un modo per definire l’usanza di andarsi a trovare e chiedere scusa per i peccati commessi durante l’anno. Di solito la consuetudine ha un forte sapore patriarcale (sono soprattutto i giovani che vanno dai vecchi). C’è poi il caso specifico dei generi e delle suocere, obbligati i primi all’omaggio, tenute le seconde a offrire in cambio delle interiora di pesce: un rito che ha dato vita a molte canzoni sarcastiche. Un tempo l’inverno era la stagione dei matrimoni (si parlava di “mesi nuziali”), per cui il carnevale era anche l’occasione per rispettare tutta una serie di obblighi verso la società: si attaccava la slitta a dei cavalli e si andava di casa in casa a ringraziare gli invitati al banchetto di nozze, si scendeva con lo slittino dalle colline circostanti e ci si mostrava così al villaggio, si offriva da bere agli avventori. Insomma, la Maslenitsa è il momento degli eccessi ma anche del riordino, del ripristino delle precedenze e della caccia all’approvazione sociale.

5. Seppellire per vivere La Maslenitsa sarebbe qualcosa di veramente singolare se non avesse maschere e carri allegorici. In effetti ne ha, ma in forme tutte sue, perché le prime non sono un’esclusiva carnevalesca e i secondi sono ridotti a due sfilate dello stesso fantoccio. Dicevamo delle maschere. Il mondo dei satelliti e della rete ha spinto i russi ad adeguare il passo. Durante la Maslenitsa è normale, soprattutto riguardo ai bambini, indossare i costumi più comuni. Eppure non è stato sempre così. L’arte della maschera era diffusa e repressa in Russia anche durante il periodo natalizio, in particolare come un vero e proprio travestimento sessuale. A carnevale, il camuffamento diventa il pretesto per un funerale di scherno. La signora della Maslenitsa, un fantoccio fatto di paglia e vestito in maniera femminile, esordisce il primo giorno, trova un posto per il resto del-

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pace | guerra la settimana (spesso in cima alla collinetta da cui si scende con lo slittino) e viene fatta morire l’ultimo giorno. Il rito è un tipico servizio funebre. La domenica il pupazzo viene portato in processione, deriso, compatito dai pope e sommerso dal chiasso. Infine viene spogliato, fatto a pezzi e bruciato sopra un campo coltivato. Anche qui è fin troppo evidente l’auspicio alla terra e alla primavera: si punta a stimolare un buon raccolto e a favorire la fecondità dei campi e degli uomini.

6. Conclusioni Quanto detto sulla Maslenitsa non è ovviamente esaustivo dell’argomento. Ciò che importa sottolineare è che nel carnevale russo convivono tutti i grandi temi della cultura nazionale,

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non ultimo il controverso rapporto tra le élite - in particolare quelle politiche - e il popolo. A proposito delle feste agrarie, Vladimir J. Propp, uno dei massimi studiosi del folklore russo, scriveva ancora nel 1963: «Il modo migliore per combattere queste vestigia del passato consiste nello spiegare scientificamente il loro antico significato che è incompatibile con la nostra visione del mondo» (Propp, 1993, 30). Giunti al 2011, sorge invece il dubbio che lo sguardo dall’alto dell’accademia sia più una compiaciuta auto-rappresentazione che un contributo alla comprensione del mondo reale. Senza renderli espliciti, nei diversi paragrafi sulla Maslenitsa sono stati elencati molti punti di contatto tra élite e popolo. L’invocazione – sarebbe meglio

dire “convocazione” - della primavera è un rito dal forte senso volontaristico, esattamente come i secolari spropositi di riforma che i gruppi dirigenti moscoviti hanno imposto al mondo contadino. Stessa cosa dicasi per la rinascita dello spirito marziale: un diletto che le élite condividevano soprattutto attraverso le corse a cavallo (anch’esse popolari e fonte di scommesse durante tutto il carnevale). E che dire delle abbuffate e degli eccessi? Trasversali alle classi, erano il diletto sublimato di Pietro il Grande, lo zar da cui tradizionalmente si fa partire la divaricazione tra élite e popolo. Ma l’elemento forse di maggior contatto tra la Russia profonda e le stanze del Cremlino è l’usanza della prostrazione, del chiedere perdono per i peccati. La Maslenitsa rappresenta al riguardo lo specchio unificante di


peccato un mondo nel quale si è coltivato un ossessivo rispetto della gerarchia, dove si è passati dall’universalità di servizio (Russia zarista), al rituale dell’autocritica (Russia sovietica), alla ricostruzione della “verticale del potere” (Russia putiniana). Rimane infine il rito conclusivo del carnevale, quel rogo del feticcio da cui dovrebbe sorgere un mondo nuovo. Impossibile non assimilarlo alla millenaria “sindrome di San Giorgio”, alla ricerca di un nemico assoluto, di un capro espiatorio esterno in grado di ipotecare la felicità incondizionata (l’Oriente, l’Occidente, il comunismo, il capitalismo, ecc..). Insomma, anche in Russia si fa presto a dire che un carnevale è solo una festa. Eppure, non c’è altro modo di viverlo.

Note

Riferimenti bibliografici

1 La Stenka na stenku (Стенка на стенку) è una codificata lotta del car-

Bartlett, R. 2007. Storia della Russia. Milano: Mondadori Editore Capasso, R. 2000. Elementi di cronologia e cronografia medievale. Roma Comte F. 2006. Gli Slavi. Torino: Einaudi Kljucevskij, V. O. 1986. Pietro il Grande. Bari: Editori Laterza Lucas, E. 2008. The New cold War. London: Bloomsbury Publishing Propp, V. J. 1993. Feste agrarie russe. Bari: Edizioni Dedalo Raeff, M. 1999. La Russia degli Zar. Bari: Editori Laterza Rjazanovskij, N. V. 1989. Storia della Russia. Milano: Bompiani

nevale. Si potrebbe tradurre come “muro contro muro”. In realtà l’uso che ne fanno i russi e anche più largo: si definisce Stenka na stenku anche la rissa, la scazzottata, il tafferuglio. 2 Maslenitsa (Масленица) significa “settimana grassa”, “carnevale”. Nel termine risuona la radice “Maslo” (, che significa “burro”, “olio”. 3 Diversamente che in occidente, il carnevale russo si apre e si chiude in coincidenza con la settimana. 4 In russo “Vsjatie snežnogo gorodka” (Взятие снежного городка) 5 Supremo buffone del “Collegio della sbornia”, un’invenzione di Pietro per prendere in giro il patriarca e le gerarchie ortodosse. Lo zar ne redasse addirittura lo statuto.

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Patrizio Missere

“...ti rallegrerai” La festa nella tradizione ebraico-biblica

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er quanto ci si sforzi, in svariati ambiti e in maniera più o meno esplicita, di mantenere le distanze dalle radici giudeo-cristiane della cultura occidentale, non dovrebbe risultare limitante, o troppo “apologetico”, accostare il messaggio biblico relativo al tema della “festa” o del “celebrare”, con particolare riferimento alla tradizione ebraica veterotestamentaria. La fede in Jahwè, “il Dio dei (tuoi) padri, di Abramo, Isacco, Giacobbe” (Esodo 3,6), rivelatosi a Mosè nel roveto ardente, si fonda sull’evento dell’esodo. Il popolo d’Israele nasce da un nugolo di schiavi sbandati, che, presso il “mare

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di giunchi”, un canneto paludoso a nord del Mar Rosso, vive la decisiva esperienza dell’intervento trascendente da parte di un Dio, capace di agire nella storia come go’el, come “colui che riscatta, libera” dalla schiavitù (d’Egitto). Le fonti egiziane confermano la presenza di popoli di origine semitica (intorno al 1250 a.C.) nella regione del delta, designati con il termine generico e dispregiativo hapiru, da cui ibri, “ebreo”. Si tratta dei discendenti degli aramei, nomadi nell’area della Mezzaluna fertile (1500 a.C.), che adoravano il Dio ’El, protettore dei capostipiti delle loro tribù, a iniziare da Abramo, fino al patriarca Giuseppe, venduto schiavo in Egitto dai propri fratelli.


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EBRAISMO


pellegrinaggio

Il testo sacro, senza rinunciare agli strumenti dell’analisi filologica e della ricerca storico-critica, permette di prendere atto che la rivelazione avviene sempre nel rispetto delle strutture antropologiche, su cui si innesta, per rinnovarle al suo interno. L’uomo biblico condivide con le culture antiche circostanti le modalità celebrative, legate ad eventi gioiosi come la nascita, il matrimonio, il felice ritorno a casa dalla caccia e dalla guerra. Le festività hanno, nelle culture primitive, un carattere apotropaico magico, poiché assolvono la funzione di respingere i pericoli e di garantire un successo futuro; attraverso la partecipazione del gruppo diventano un avvenimento che costituisce e rafforza la comunità. Il ritmo della vita naturale e, più tardi, l’osservazione del cielo stellato conducono alla concezione del corso circolare del tempo. Ne segue la festa fissata in un calendario sacro, vale a dire come momento solenne in cui si chiude un ciclo e ne inizia un altro. Cerimonie eseguite con la massima precisione hanno per obiettivo una svolta favorevole del destino. Infine, anche la festa legata a occasioni concrete, in quanto celebrazione che ricorda un evento storico, può essere inserita nel calendario sacrale. Di fatto i motivi si mescolano sempre più: la festa legata alla natura riceve una motivazione storica, l’avvenimento storico degno di essere ricordato viene caricato di un senso nuovo. I fenomeni naturali determinanti per il calcolo del tempo, come le fasi lunari, le datazioni solari e gli equinozi, la coltivazione dei campi e fenomeni geografici climatici, non si lasciano ridurre a un denominatore comune e alterano il quadro d’insieme. Le festività, le loro date, motivazioni e forme, subiscono un cambiamento continuo. Questo processo tipicamente umano viene rispettato anche dalla rivelazione biblica.

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L’etimologia del sostantivo ebraico ḥag, comunemente tradotto con “festa”, confrontato con le radici di altre lingue semitiche (aramaico, arabo), indica il “pellegrinaggio” e il “trovarsi in occasione di una festa”. Nel Salmo 107,27, l’immagine delle navi che “su onde tempestose vacillano” conferisce al verbo ḥagag il significato di “dondolare come in un’assemblea festiva che si muove ritmicamente o con gioia sfrenata”, in sintesi “oscillare”. Si può, dunque, chiamare in causa la parentela con un altro vocabolo ebraico, ḥûg, “tracciare un cerchio”. Di conseguenza, il verbo potrebbe significare anche “girare intorno, avere il capogiro” o “saltare, ballare”, da cui sarebbe derivato il nostro sostantivo ḥag con l’accezione primaria “girotondo sacro, ridda, processione cultuale intorno all’altare”. Poiché il termine è collegato strettamente al corso dell’anno può essere lecito supporre che in origine designasse il solenne momento finale del ciclo annuale, o il nuovo inizio. La cultura nomadica rappresentò la più antica esperienza storico-sociale d’Israele e lasciò nella sua identità, anche religiosa, alcuni elementi non certo secondari. Oltre al tema del cammino (cfr. Abramo, uscito da Ur dei Caldei) e della circoncisione, intesa in un primo tempo come rito prenuziale, ancor più importante è il sacrificio dell’agnello pasquale, che sembra affondare le sue radici in una celebrazione pastorizia di primavera per propiziare la transumanza delle greggi. Soprattutto la cultura fenicio-cananea ha lasciato segni molteplici nella configurazione del popolo d’Israele, a partire dalla sua sedentarizzazione nella terra del Canaan e dall’assunzione della sua cultura urbana e agricola. Proprio l’agricoltura sta all’origine delle tre grandi festività liturgiche, quando ogni maschio era tenuto a comparire davanti al Signore

nel suo santuario: la festa degli “azzimi” o mazzot, la festa della “mietitura” o qasir (detta poi delle “settimane” o sebuot o anche “di Pentecoste”), e la festa del “raccolto” o ’asif (detta poi delle “capanne” o sukkot); esse corrispondevano grosso modo all’inizio della primavera, dell’estate e dell’autunno, ed erano perciò connotate dal ciclo stagionale. Solo in un secondo tempo e in momenti diversi esse saranno messe in relazione con i fondamentali eventi storici dell’esodo. Attenendosi alla redazione finale del testo biblico, sono, dunque, tre le classiche feste annuali di Israele: la pasqua, la pentecoste e le capanne. Sono dette “del pellegrinaggio”, perché caratterizzate da un grande afflusso di pellegrini al tempio di Gerusalemme. Il loro tratto comune è la gioia: “In occasione delle tue feste, tu ti rallegrerai” (Deuteronomio 16,14). La festa contesta il primato del male, nega che il male sia la realtà ultima nella storia dell’uomo. Una gioia davanti a Dio è condivisa con tutta la famiglia. La pasqua è la confluenza di un’originaria festa agricola e di una di pastori che celebravano, in primavera, la rinnovata fecondità della terra e del gregge. Ma in Israele si trasforma in un ḥag storico, che ricorda e attualizza la liberazione dall’Egitto. Un passo del Deuteronomio ne sottolinea fortemente il carattere di memoriale: “Così ti ricorderai del giorno che uscisti dal paese d’Egitto per tutto il tempo della tua vita” (16,3). Un testo dell’Esodo (c. 12) ne stabilisce il rito, evocante il gesto di Dio che libera gli israeliti e fa morire il primogenito degli egiziani: l’uccisione dell’agnello, l’aspersione degli stipiti delle porte con il suo sangue, la cena familiare nella quale l’agnello viene mangiato in fretta, in piedi e con il bastone da viaggio in mano. La pentecoste, in origine legata


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esodo settimanale

alla mietitura, consisteva nell’offerta a Dio delle primizie del raccolto (cfr. Levitico 23,15-21). Per Israele diventa memoriale dell’alleanza con Dio e del dono della legge al Sinai. Le capanne - il rito prevedeva appunto la costruzione di capanne - era la festa del raccolto dei frutti autunnali, caratterizzata da una grande gioia popolare: si cantava e si danzava nelle vigne. Come avvenne per la pasqua e per la pentecoste, anche sul significato originariamente agricolo della festa delle capanne si innestò una dimensione storica: il ricordo del pellegrinaggio d’Israele nel deserto sotto le tende: “Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini di Israele dimoreranno in capanne perché vostri discendenti sappiano che io fatto dimorare in capanne gli israeliti, quando li ho condotti fuori della terra d’Egitto” (Lv 23,42-43). Israele ha trasformato le feste in celebrazioni storiche. È la sua originalità. Tuttavia questa storicizzazione non ha soppresso la dimensione agricola, ma l’ha riletta. Israele celebra contemporaneamente Dio come Signore della storia e come benefattore della terra. Agricolo non significa naturistico. Israele non festeggia i ritmi della natura, ma il gesto di Dio che dona all’uomo la terra e i suoi frutti. I doni di Dio sono accolti nella gioia del godimento, ma non come possesso esclusivo, bensì come condivisione: il dono di Jahwè si trasforma in fraternità. Inserite nel dinamismo della fede d’Israele, le feste non solo sono divenute memoriali, ma anche profezia, come è appunto lo stesso gesto liberatore di Dio che esse celebrano: evento storico e promessa. Questo orientamento escatologico è rintracciabile, per esempio, in Zaccaria 14, che descrive l’era futura dell’intervento definitivo di Dio come una continua festa delle capanne.

Da ricordare, anche, la festa del Kippur, il “giorno dell’espiazione”, che non celebra il gesto liberatore di Dio, ma ricorda l’infedeltà dell’uomo alla fedeltà divina. Più che la gioia prevale il confronto critico con sé e con Jahwè. I temi attorno ai quali si snoda il complesso rituale (sacrificio espiatorio, aspersione col sangue, confessione delle colpe, rito del capro emissario, cioè del capro simbolicamente caricato dei peccati del popolo inviato lontano nel deserto) sono il peccato, la conversione e il perdono. Israele si mostra convinto che il male non appartiene al progetto creativo, né è dovuto a fatalità, ma risale alla responsabilità dell’uomo. Il precetto del sabato è tra i più documentati e costanti nell’Antico Testamento. Varie ipotesi si sono formulate circa l’origine cultuale e religiosa del sabato ebraico, senza approdare a dirette dipendenze da esperienze e costumi non ebraici ben precisi. Sembra invece evidente il senso fondamentale di questo giorno settimanale, differente dagli altri: “Il sabato è per Jhwh, tuo Dio”. Dall’esame dei testi biblici, risalenti al periodo precedente all’esilio babilonese (586 a.C.), e del contesto storico in cui furono redatti, il settimo giorno della settimana ebraica doveva avere per caratteristica l’astensione dal lavoro. La motivazione teologica è legata alla signoria di Dio sul tempo. Prima ancora che occasione per il culto e per la preghiera, il sabato è un “tempodi-Dio”, che l’uomo restituisce a lui; è una professione di fede concreta vissuta. Inoltre, è un giorno di riposo per tutti, anche per lo schiavo. Il ricordo della liberazione dalla schiavitù d’Egitto deve essere professato concretamente da Israele (e non solo nella ritualità pasquale!). Così il sabato è per tutti una liberazione dal lavoro, un piccolo “esodo settimanale”, ricordo del primo esodo dalla schiavitù egiziana e annun-

cio del sabato finale. Dopo l’esilio babilonese, l’affermazione del primato di Dio trasforma il riposo sabbatico in una rigorosa precettistica cultuale sacerdotale. Non mancano, a tal proposito, indicazioni più profonde: il sabato è segno dell’alleanza fra Dio e Israele, esso è creato per vivere un’appartenenza più autentica ed esclusiva al Signore. Ma ci si attenderebbe uno sviluppo maggiore, nella linea dell’esperienza di fede, da simili principi. Gesù contesterà ai contemporanei un’infedeltà e una non sintonia con quello che era stato da principio il giorno del Signore e insieme il giorno dell’uomo e delle sue esperienze di festa e di liberazione. In definitiva, secondo l’insegnamento biblico, la festa non è altro che incontro gioioso dell’uomo con il suo Creatore e Salvatore, riconosciuto e adorato come tale. La conclusione, dunque, risulta quasi inevitabile: di ogni festa, radicata nella tradizione giudeo-cristiana e accolta nel calendario odierno, se privata della sua dimensione teologica originaria, rimane solo il nome, un vuoto flatus vocis, un “oscillare” (ḥagag) senza meta.

Bibliografia DE VAUX R., Le istituzioni dell’Antico Testamento, trad. it., Marietti, Casale Monferrato 19773. KEDAR-KOPFSTEIN B., ḥag - ḥagag in BOTTERWECK G.J. RINGGREN H. - FABRY H.J., Grande lessico dell’Antico Testamento, vol. II, coll. 774-789, trad. it., Paideia, Brescia 2009. LÉON-DUFOUR X., Dizionario di Teologia Biblica, trad. it., Marietti, Casale Monferrato 1980. SOGGIN J.A., Storia d’Israele in epoca biblica. Istituzioni, feste, cerimonie, rituali, Claudiana, Torino 2000.

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Cristina Marras

Il pane della festa


CULTURE

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urante gli anni in cui vivevo in Israele più volte, a quattro mani con un’amica, ho abbozzato racconti di feste ebraiche, cibo, cucina, incontri e luoghi, un semplice quotidiano vissuto con occhi di gentili. Più modestamente, mi risolvo a qualche impressione mentre oggi, venerdi, sull’altra sponda del mediterraneo impasto il pane, la Challah, il pane di Shabbat e della festa. (…) Lascio la stazione degli autobus, centro commerciale blindato e labirinto manieristico. Odore di pneumatici, gasolio, catrame, disinfettanti, toilette e sale d’attesa, pane appena sfornato, caffè liofilizzato, divise umide: un nauseabondo ma inevitabile carosello di puzza, profumo e rumore assordante. Esco per strada, trafitta dalla luce, sorpresa dal vento che ha sapore di sabbia e terra e che rimane in bocca. C’è caos, un unico movimento di gente, di cose e di mezzi, che cresce via via mentre risalgo la strada di Yafo; prendo il ritmo del passo affrettato e corto degli ortodossi che mi sfiorano senza toccarmi. Carrozzine, carretti, biciclette arrugginite su cui svettano le cassette di frutta porta-pacchi tenute ferme da corde elastiche, motorini “smarmittati”, taxi in fila impazienti, famiglie stipate in vecchie auto ammaccate, di marca giapponese, avvolte dai fumi dei loro stessi scarichi, suv imponenti e autobus claudicanti, quasi una melodia moderna accompagnata dalla luce

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densa che annuncia erev Shabbat. Mi affretto, senza rendermene conto mi impadronisco del senso e dell’urgenza di questa fine e inizio, la fine della giornata e l’inizio della festa che è riposo, dove tutto si ferma, dove si fa silenzio e dove nessun fuoco verrà acceso, nessun lavoro verrà prodotto. Manca poco in questa corsa verso il tramonto, e mi affretto, scivolo veloce sul nastro di folla e finalmente arrivo al Mahane Yehuda Market, lo Shuk, che si apre ai miei occhi come il ventre della balena. Odoro e contratto, insisto e negozio, recitando la mia parte di indaffarata, mi aggiro stordita dalla folla vociante, invadente e pressante di venditori e avventori. Attraverso l’intrico di strade che fanno il mercato che è più mercati, al coperto e all’aperto, nell’incrocio di diaspore e tradizioni, orienta-

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li, sefardite, ashkenazite, etiopi, irachene, yemenite, russe, … Eitz Chaim, Mahane Yehuda, strade di frutta fresca e secca, pesche (Afarsek), pere (Agas), noci (Egoz), mandorle (Shaked), prugne (Shezif), mele (Tapuach), fino alle more dei maccabei (Tut), insieme in una lingua dal suono originario; e la mappa coincide con il territorio. La mia cena del venerdi, la cena di una “goym” dopo il mercato, si compone: seleziono tra piramidi di spezie: baharat, coriandolo, sesamo, cumino; mi oriento tra il profumo dei forni: pita, burik, rugelach; compro il formaggio (labane); navigo nell’immensità della frutta e della verdura: limoni, pomodori e cetrioli per l’insalata orientale; melanzane, irresistibili nel loro manto di velluto viola, che farò arrostire fino quasi ad appassire in for-


Ricetta 500 gr di farina; un cubetto di lievito (25 gr); un cucchiaino di sale; 25 gr di zucchero; 200 cc di acqua tiepida; due uova medie; 70 gr di olio di oliva.

A Gerusalemme quando ancora la Jerusalem Light Rail non era operativa – a Roma, venerdi 11 novembre 2011.

Libri (sul tavolo) Buon appetito, Elia! Manuale di cucina ebraica, di Elena Loewenthal, Dalai Editore, 1998 Carta di Gerusalemme Chi dialoga pensa la pace, a cura di Cristina Marras, Kit Didattico, Scheda 5/ 5a “Parole, Suoni e Sapori”, CISP, 2004 Film (in mente) Sex and the City, Quarto episodio, sesta serie: Charlotte prepara la sua prima cena di Shabbat Shalosh Ima’ot –Le tre madri(2006), regia Dina Zvi-Riklis Musica ascoltata Tarab Ensemble-Yair Dalal, Azazame Arik Einstein, The Greatests Love’s Ehud Banai, selezione dal CD Anneh Lee, in particolare le canzoni n.1, 5, 7, 10, 12.

PERCORSI

no e che condirò, schiacciandole con una forchetta, con olio, sale, pomodoro e prezzemolo; decido: zucchine, patate, cipolle, datteri, da riempire di frutta secca, che prendo a manciate dai grossi contenitori, e di lenticchie, da scegliere nei grandi sacchi; non resisto ai carciofi di Gerusalemme…e mi mancano ancora per la Challah lievito, farina, e uova che arditamente sfilo da fragili architetture di cartone. Mi affretto, è tardi devo tornare sulla costa: c’è ancora uno sherut prima che io veda la prima stella della sera, mentre il sole tramonta, dichiarare l’inizio di Shabbat.

Come per tutti i pani: sciogliere il lievito e 1 cucchiaino di zucchero (preso dal totale) nell’acqua tiepida, aggiungerlo in poco meno della metà di farina –il resto tenetelo per lavorare l’impasto-, mescolare bene e disporre la farina a fontana, quindi aggiungere l’olio, il sale, il resto dello zucchero e un uovo. Impastare bene per almeno 20’, sbattendo di tanto in tanto l’impasto sul piano di lavoro per favorire la lievitazione. Mettere l’impasto che deve essere liscio e elastico in una ciotola cosparsa di farina, coprire con un panno e lasciar lievitare in un ambiente caldo per 1 ora. Trascorsa l’ora dividere l’impasto in 6 o 3 parti uguali e con questi preparare i nastri e intrecciare. Lasciar riposare la treccia per altri 45’. Spennellare il pane con l’uovo sbattuto con 2 cucchiai d’acqua e decorare la treccia a piacere con semi di papavero o di sesamo. Cuocere in forno preriscaldato a 200° per 25’ circa (o 180° per 30’).

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CINEMA

Edoardo Becattini

Festa nera Sulle oscure impossibilità

di realizzare una “festa del cinema” 38


Festa mobile Strano paradosso il cinema. Arte solitaria nata e cresciuta all’interno di una cultura individualista, trova subito una sua dimensione nello spettacolo di massa e di aggregazione popolare. L’attenzione nella distrazione, la coscienza collettiva nello sguardo del singolo. La luce del proiettore si rivela un flusso assieme democratico e assolutista. Un raggio capace di mettere in armonia i movimenti delle palpebre e del cuore di una platea composta da donne e uomini di culture e ambienti sociali differenti. In pratica, una macchina per generare emozioni, che dietro la sua apparente naturalezza nasconde un’architettura complessa e una tecnica elaborata. Non l’espressione di una coscienza libera e disinvolta. Piuttosto un gioco di manipolazioni e inganni capace di suscitare un entusiasmo collettivo e spontaneo in un pubblico eterogeneo. Anche adesso, in un’epoca in cui si va al cinema molto meno rispetto al passato, la tecnologia lavora in funzione di un consenso intimo, di una fruizione domestica di qualità. E lo spettatore contemporaneo si costruisce così a partire da due esigenze: il desiderio di esperienza sociale (sognare e distrarsi assieme) e il piacere dell’evento personale. Il cinema risponde a questi rinnovati interessi allargando la dimensione di partecipazione e di coinvolgimento personale, oppure giocando sul coefficiente emotivo di tali sogni e distrazioni. E rispetto alla fruizione solitaria e salottiera della televisione

o del film in streaming, riesce ancora a conservare l’immagine di una solitudine collettiva e aggregante. La sala di oggi non somiglia certamente a quella di un secolo fa. Ma, in qualche modo, ci sono occasioni in cui l’atmosfera al suo interno somiglia ancora a quella di una festa. Un ritrovo in cui si va e celebrare, in forme e modi differenti, l’esaltazione per qualcosa che si muove di fronte ai nostri occhi. Fra spettatore e spettacolo si realizza così un tipo particolare di relazione dove il buio della sala e la luce dello schermo danno vita a un racconto che riesce a rapire ed eccitare. Una frenesia capace di oscillare fra la concentrazione e l’ipnosi, fra il godimento solitario e l’entusiasmo collettivo. Il piacere dell’illusione del movimento lavora tanto sulla coscienza estasiata del singolo che sullo spirito accalorato dell’intera platea. Così, in quanto garante di un mondo fatto di immagini in movimento, il cinema rivela un carattere di festa mobile. “Festa” per il tipo di gioia, di meraviglia e di aggregazione che riesce a suscitare. “Mobile” perché indissolubilmente legata a un movimento sia di tipo esteriore (l’illusione del movimento per l’occhio dello spettatore) che interiore (l’eccitazione emotiva).

Festa oscura In un suo articolo sull’esperienza della sala cinematografica, Roland Barthes definiva un film un «festival di affetti» (Barthes 1997: 146).

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effimero | sogno collettivo

Un’espressione che dice molto di più di quanto lasci intendere il suo tono evocativo. Guardare un film è come partecipare a una festa anonima, popolata e numerosa. Una festa dove il piacere e il divertimento dipendono indissolubilmente dalla presenza dell’oscurità. Visto in questo modo, il cinema sarebbe quindi un “appuntamento al buio” con un film. Una festa al contempo nera e gioiosa, dove ampia parte del divertimento è garantita dalla presenza dell’oscurità. Non sono molti gli eventi che al giorno d’oggi sappiano mantenere questa serena attrazione per le tenebre per più di un film alla volta. E non è facile capire in che modo realizzare una manifestazione che soddisfi lo spettatore solitario e il pubblico aggregato. Detto altrimenti, se un film è già di per sé un “festival degli affetti”, come poter intendere una festa per un festival così particolare? Cosa occorre per poter pensare una “festa del cinema” in senso ampio, al cui interno convergono film e pubblici differenti? Occorre innanzitutto separare idealmente l’idea di festa da quella di festival, anche a costo di forzarne il significato. In quest’ottica, fra festa e festival si intravede la stessa differenza che passa fra il carnevale e la parata militare. O fra la dimensione vivace e scomposta di una fiera e quella magniloquente e celebrativa di una sfilata. Festa propriamente detta diviene quindi quella manifestazione spontanea e frenetica, popolare e imprevedibile. Mentre il festival viene a rappresentare la forma istituzionale, più rigida, sontuosa e ben coreografata delle celebrazioni. Nella festa, la gente è parte attiva e partecipante alla condivisione di sentimenti e azioni. Nel festival esistono solo spettatori, un

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pubblico inerme da allietare e muovere emotivamente. Secondo questa logica, una “festa del cinema” propriamente detta non si accontenta di far bella mostra di film e divi. Una vera festa del cinema mobilita, istiga e perfino sconvolge un pubblico il più possibile trasversale. La relazione fra festa e festival del cinema è emersa negli ultimi anni con la Festa del Cinema di Roma voluta dall’ex sindaco Walter Veltroni. Una festa propriamente detta anche nelle intenzioni: popolare e ampia come le dimensioni e l’anima della sua città. Qualcosa di congenialmente simile al progetto dell’Estate Romana ideata dall’architetto Renato Nicolini nel 1977. Come assessore alla Cultura, Nicolini ebbe la geniale intuizione di introdurre la categoria dell’effimero nelle politiche culturali nella Roma degli anni di piombo. L’idea era fare della convergenza fra cultura bassa e cultura d’élite la linea di un lavoro di coesione sociale. Allo stesso modo, la festa di Roma nasce con l’idea di riportare il cinema, arte dell’effimero per eccellenza, allo statuto di grande arte popolare. O meglio, di coinvolgere cittadini di ogni età ed estrazione sociale in un momento in cui l’idea stessa di arte e di cultura vivono una crisi profonda. La Festa del Cinema di Roma nasce così nell’ottobre del 2006 con il desiderio di riunire l’ampia cittadinanza romana nel richiamo a un immaginario cinematografico largo e condiviso. La linea Monicelli e la linea Antonioni, la linea Rossellini e la linea Fellini. Ogni anima del cinema italiano deve trovare il suo spazio nella struttura a teste piombate dell’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano. Ogni genere di film e idea di estetica deve essere dispensato, al fine di aprire la festa a tutti

i tipi di pubblico. Con il sogno non celato di vedere sedere allo stesso caffè le signore della Roma bene e gli studenti scapigliati del Dams, il cinefilo esigente e il cine-turista in cerca di meraviglie e stupore per un sabato sera. Nelle sue prime due edizioni, la Festa neonata tenta in un qualche modo sia la via dell’esperienza allargata a partecipazione globale che quella dell’evento e della sorpresa. Una giuria più ampia e giovane della media. Dibattiti con autori e attori aperti a tutti. Sezioni trasversali che amano le storie ed evitano il cinema sperimentale. Nel 2007, viene perfino organizzato un incontro con Terrence Malick, il grande solitario del cinema contemporaneo americano. La sua apparizione, una delle rare che ha concesso in vita, diventa un dialogo su Totò e la commedia all’italiana, a riprova del fatto che ogni festa che si rispetti vuole un tocco di surreale. Il problema è che manca una delle caratteristiche fondamentali di una festa: l’identità. Nelle sua dispersione caotica e vitale, una festa deve saper generare un sentimento di appartenenza, di comunità. Una festa sa adunare la gente ma sa anche formare un suo pubblico, altrimenti funge solo da emulsione fra elementi incompatibili. Sotto la sua veste effimera e sorniona, alla Festa romana sono state attribuite molte più anime di quante in realtà ne possegga. In molti la definiscono una sfida deliberata e maldestra a Venezia e alla sua storica Mostra. Per alcuni è un costoso e ingombrante giocattolo sulle spalle degli enti locali. Per altri si è trattato di una vera sfida all’idea di festival, che la Festa di Roma ha perso nell’esatto momento in cui è diventata ufficialmente Festival. Festa contro Festival non significa in-


spettatore/ambiente

fatti tanto lottare per una kermesse di prestigio. Quanto proporre un’alternativa al festival come isola felice per cinefili o come porto per cineturisti in cerca di vedette. Non un tempio per fedeli, non un museo per nostalgici. Una festa del cinema deve poter ambire a fare di una città una festa mobile e aggregante, buia e luccicante. Una sala-mondo, che cresce grazie a una serie di spazi adibiti a radunare individui diversi e a coinvolgerli in una sorta di sogno collettivo senza distinzione di ambiente e di interesse culturale. Certo, è difficile insegnare alla gente a sognare senza l’aiuto di un cinema ricco di ambizioni. Ma partire dall’immaginario collettivo della città, dal linguaggio e dalle espressioni dei suoi numerosi abitanti, non è certamente un passo falso. Parenti gemellari, festa e festival somigliano un po’ ai gemelli cattivi della cultura popolare. La festa chiassosa e rumorosa, popolare e decentrata, contro il festival ripulito e ordinato dei tappeti rossi e delle gerarchie degli accrediti. La Festa è senza dubbio il gemello cattivo, il lato oscuro di una possibile manifestazione per il cinema. Ma è anche quello che non teme di rischiare e che sa come aprirsi al pubblico senza necessariamente doverlo corrompere.

Festa aperta Per capire meglio cosa si intende con questa confusa descrizione di un’ipotesi di festa del cinema, proviamo a pensare ai film di Fellini. Dai Vitelloni riminesi ai viveur insoddisfatti de La dolce vita, dalla vita del borgo in Amarcord alle cene grottesche e veraci di Roma. Fellini

ha raccontato la festa e le baldorie notturne come un girovagare senza meta, chiassoso e intimista, gaudente e malinconico. Un movimento intimo e personale che diviene ampio e globale, come nel girotondo finale di 8 ½. Nei suoi film, man mano che il soggetto protagonista si perde e il suo spirito tende a decentrarsi a favore di altri, il regista riminese riesce a mettere in scena un sogno collettivo. Le storie di Fellini spesso sono più un’accumulazione di episodi apparentemente ameni che un racconto lineare. Una specie di sfilata ironica di personaggi e situazioni che arrivano a formare un mondo certamente non aureo ma perfettamente compiuto. Questo movimento di situazioni effimere, incerte e oscure nella loro connotazione spesso decadente, mette in scena una vera festa del cinema. Non solo un “festival degli affetti” ma la costruzione di un mondo eterogeneo che si riferisce a più classi sociali e a differenti immaginari. Una festa per il cinema sarà dunque una celebrazione movimentata e oscura, ma soprattutto aperta. Aperta nelle sue incertezze verso un mondo sconosciuto, verso quel senso di leggera inquietudine che tocca tutto ciò che ha vita effimera, come il film. Ma aperta anche nel senso di disposta a dialogare con mondi e immaginari differenti. Una festa del cinema deve quindi saper creare un dialogo non solo fra i film (una politica culturale) o fra gli spettatori (varie forme di cinefilia, culto per il divismo, ecc.). Ma, in modo particolare, dare vita a un rapporto assieme unico e collettivo fra il film e la platea. Ogni spettatore vive il mondo che ha davanti agli occhi a suo piacimento, affascinato per motivi ogni volta diversi. L’importante è che

entrando e uscendo ogni volta dalla sala, si senta in qualche modo legato agli altri dalla sensazione di aver condiviso questo passaggio. Come se sapessimo di aver attraversato da soli questa soglia, ma con la serena certezza di averlo fatto in mezzo a tante altre persone. Questa è l’utopia di ogni vera festa del cinema: allestire un grande sogno collettivo che riesca a mettere assieme più film e più spettatori. Non necessariamente un idillio radioso, ma un’avventura di un retrogusto amaro da “sabato del villaggio”. Ogni bella festa, d’altronde, contiene in sé un certo fatalismo di fondo. E ogni film, in quanto traccia fotografica di un momento che è già finito, porta naturalmente dentro l’idea della brevità. Chiamare una manifestazione festa o festival non è perciò solo una questione di etichetta. Creare un festival di cinema è possibile. Dar vita a una festa del cinema è ben più arduo. Una vera festa del cinema dovrebbe poter fare ogni sera quel che ci hanno raccontato quegli avventurosi che andavano al cinematografo nel primo Novecento: realizzare l’incanto di una dimensione assieme effimera ed erotica, spirituale e materiale, fra sguardo e schermo. Una vera festa del cinema abita nell’utopia romantica dove si vive soli al buio in mezzo alla folla. E dove magari non si vuol essere disturbati da nessuno, ma si è appagati dal sentirsi parte di un unico grande spettacolo.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Barthes, R. 1997. Uscendo dal cinema. In Sul cinema. Genova: Il melangolo.

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DIRITTO

Maurizia Pierri

La festa:

da eccezione a regola, da diritto a dovere

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I

l termine “festa” che nel linguaggio comune evoca immagini ludiche e gioiose, nella semantica giuridica diventa il punto di incontro tra significati di origine eterogenea. In prima battuta rinvia alle norme costituzionali (art. 36, ultimo comma della Costituzione) che riconoscono al lavoratore il diritto “irrinunciabile” al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite. Questa accezione conferisce alla nozione un carattere di eccezionalità rispetto alla regola costituita dall’impegno lavorativo, che per la Arendt rappresenta la condizione umana della vita stessa In seconda battuta invece, il lemma in oggetto allude ad una dimensione collettiva, ad eventi pubblici come le feste del Santo patrono, le fiere, le sagre, che non interrompono il normale processo dell’agire umano, ma in esso pretendono di inserirsi. Ne consegue un fitto intreccio di interessi, obblighi, divieti e diritti ti al coinvolgimento di comportamenti giuridicamente rilevanti e reciprocamente interferenti. Il nostro intento è quello di provare a fare ordine, cercando di individuare i beni coinvolti, i diritti riconosciuti ed i doveri imposti dall’evento “festa”, nella consapevolezza che il suo carattere di eccezionalità si è andato progressivamente perdendo. Negli ultimi anni infatti, si è assistito ad una sorta di parcellizzazione della “festa” nelle centinaia di sagre e manifestazioni che si svolgono a livello locale, soprattutto nel periodo estivo. Tale frammentazione amplifica esponenzialmente la tensione tra le variabili giuridiche coinvolte nella “festa” , sulle quali occorre fare chiarezza. Fondamentalmente i beni giuridici interessati sono: la libertà religiosa e di culto (art. 19 Cost), la libertà di riunione (art. 17 Cost.) e la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.). A fungere da limite, vi sono al-

tri beni parimenti tutelati dall’ordinamento costituzionale come la sicurezza e la sanità. Nel caso delle feste patronali, la libertà di culto garantita ai cittadini deve svolgersi entro la cornice tratteggiata dalle norme costituzionali e dal Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, entrato in vigore con R.D. del 18 giugno 1931, n. 773 e più volte modificato in epoca repubblicana. Le processioni non devono essere contrarie al buon costume (che è il limite esplicito alla libertà di culto previsto dall’art. 19 della Cost.) e devono rispettare i limiti generali imposti alla libertà di riunione in luogo pubblico dall’art. 17 della Costituzione. A tal proposito è richiesto un preavviso alle autorità, che possono vietare la manifestazione per ragioni di ordine pubblico o sanità (art. 17, u.c. Cost, artt. 25 e 26 TULPS). La regolazione delle sagre è più intricata, a causa della eterogeneità dei beni coinvolti e dell’assenza di una disciplina che se ne occupi in modo sistematico. Per quanto riguarda il primo aspetto, alla libertà di iniziativa economica privata, esercitata sotto forma di commercio ambulante ed alla stessa libertà di riunione, si contrappongono la tutela della sicurezza e della salute. Anche della salubrità acustica dell’ambiente, poiché non di rado questi eventi offrono l’occasione per l’esibizione di complessi musicali o la rappresentazione si spettacoli teatrali. Prima della riforma del Titolo V, avvenuta nel 2001, l’art. 117 Cost. stabiliva che in materia di fiere e mercati sussisteva una competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni: al primo spettava dettare i principi fondamentali, alle seconde disciplinare nel dettaglio la materia. Il D.P.R. del 24 luglio 1977, n.616, negli articoli 5155, precisava inoltre quale fosse la suddivisione di competenze amministrative tra Stato, Regioni ed Enti locali. L’attuale riparto di competen-

ze legislative tra Stato e Regioni non fa espresso riferimento alle fiere ed ai mercati: avoca al primo la tutela dell’ambiente (si v. la legge quadro sull’inquinamento acustico del 26 ottobre 1995, n.447) e prevede una competenza concorrente in riferimento alla tutela della salute, dell’alimentazione, e della promozione di attività culturali. Infine attribuisce le materie non espressamente nominate (e dunque anche il commercio interno) alle seconde. Infatti la Corte Costituzionale, con sentenza 11 maggio 2006 n. 199, ha avuto modo di precisare che “a seguito della modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, la materia del commercio rientra nella competenza esclusiva residuale delle regioni e il D.lg. 31 marzo 1998 n. 114 (la legge quadro sul commercio, n.d.r.) si applica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, L. 5 giugno 2003 n. 131, soltanto alle regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia”. Per quanto riguarda le funzioni amministrative, vale il principio di sussidiarietà verticale (art. 118 Cost.), in ragione del quale esse sono completamente affidate agli enti locali interessati. Il quadro è ulteriormente complicato dagli interventi (direttive) dell’Unione Europea, giustificate dalle sue competenze in ordine al sostegno delle politiche ambientali, sanitarie e di tutela dei consumatori. Una selva di regole difficile da districare e che finisce per affievolire il senso originario della festa, evidentemente sotteso alla realizzazione delle fiere o delle sagre, dei mercatini e delle manifestazioni pubbliche in generale. Da evento eccezionale ed atteso ad evento routinario e mal tollerato per le inevitabili conseguenze di violazione della quiete e della salubrità dell’ambiente. Nonostante una iper-regolamentazione che si dimostra ancora una volta frammentata ed inefficace.

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LETTERATURA

METODO E INSINCERITĂ Dialogo con Marco Archetti di44Sheila Andrighetto


V

erona. Una domenica di settembre. L’idea dell’intervista a Marco è nata quel giorno davanti ad un piatto di spaghetti con le vongole. Oltre mezzo chilo di pasta da spartire in quattro. Un bis, un secondo, i contorni, frutta, dolce e caffè. Pranzo parco e leggero dato che il programma concordato prevedeva la proiezione di un film di Elio Petri. La stanchezza digestiva mi è stata d’aiuto per infilare argutamente quel tipo di richiesta che posta ad un vero amico non sopporta il peso greve di un rifiuto: «Marco, saresti disponibile ad essere intervistato per YOD MAGAZINE?» La risposta è scritta nelle righe che seguono. SHEILA: Marco, quali sono le tue passioni più profonde? MARCO: Senza dubbio la scrittura e la lettura, ma anche il cinema. Quindi risponderei semplicemente: le storie. Sia raccontarle, che farmele raccontare. Non appartengo alla categoria “scrittore con la puzza sotto il naso” e nemmeno a quella del lettore con simili snobistici olfatti. Mi piace chi sa raccontare bene e basta. Chi racconta come si deve – ma davvero come si deve! – può far di me ciò che vuole. Quando è comparsa per la prima volta la tua passione per la scrittura? Fin da piccolo, anche prima di saper scrivere. I miei mi avevano regalato dei timbri che rappresentavano gli animali dell’Arca di Noè. Io li imprimevo sulla carta e ci scarabocchiavo sopra segni incomprensibili, ovviamente incomprensibili solo per gli altri perché per me contenevano frasi con un significato. Avrò avuto quattro o cinque anni. Però era anche vivace fisicamente, io e la mia bicicletta eravamo inseparabili. Non vorrei dare di me quest’immagine falsissima da Leopardi minore. Quando hai capito che questo sarebbe stato l’unico lavoro che avresti potuto fare? Più tardi, all’università. I miei mi avevano obbligato a iscrivermi an-

che se a me non interessava granché. Scelsi (per modo di dire) Scienze politiche. Fu noia mortale. Ricordo con sollievo l’epifania, un pomeriggio, su un testo di Diritto pubblico. Dopo aver letto per la sedicesima volta la stessa contortissima frase, ho chiesto a me stesso: perché stai perdendo tutto questo tempo? Così me ne sono andato, ho fatto ogni genere di lavoro per mantenermi e ho cominciato a dare una forma più compiuta a quello che mi girava in testa. Fu liberatorio ed eccitante. I primi fluviali tentativi, però, non erano nulla che potesse chiamarsi “narrativa”: tutte cose arzigogolate e goffamente sincere. Poi, più tardi, ho capito l’importanza del metodo e dell’insincerità – elementi fondamentali. In che senso, metodo e insincerità? La scrittura poggia su istinti, intuizioni, abbagli. E questo va bene: c’è il momento della scintilla, il giorno in cui ti alzi e qualcosa, dentro di te, brilla. Vuol dire che hai trovato, se non la vera e propria storia da raccontare, il suo senso. Cioè, hai capito cosa mettere in valigia. Poi però bisogna partire. In altre parole: sudore e applicazione. Quanto all’insincerità, be’, ogni romanzo è una bugia ben organizzata. La struttura del racconto contraddice e ordina quella della realtà, perché la vita non ha molto senso narrativo, non trovi? A volte non accade nulla per anni, poi invece tutto si affastella in due giorni. Scrivere è ficcare la realtà in una bugia. Moravia diceva: “Che mestiere faccio? Scrivo balle.” Hai mai lavorato coi giovani delle scuole? Cosa consiglieresti a chi di loro mostrasse talento per la scrittura? I ragazzi delle scuole li incontro spesso. E mi piacerebbe che nelle aule, oltre ai doverosi (e da me amatissimi) Flaubert o Svevo, si consigliassero anche Simenon, London, Twain, Maugham, insomma, la grande letteratura popolare. Anche opere più vicine alla sensibilità dei ragazzi: certi romanzi di Paasilinna o di Dovlatov farebbero venir voglia di leggere anche a uno che non ci ha mai provato. Quanto alla seconda domanda, be’, a chi mo-

strasse qualche talento direi di non fidarsi. Anche perché il talento da solo non basta mai. Direi di andarsi a cercare stroncature autorevoli, non la compiacenza dei parenti. E poi leggere, leggere, leggere. E dopo che si è letto, leggere ancora. A dirti la verità, la cosa che mi piace meno quando parlo coi cosiddetti aspiranti scrittori è che hanno tutti una grande smania di pubblicare ancor prima di aver trovato la propria voce. Firmare con un editore non è un punto di arrivo, anzi. Da lì comincia un’altra storia, e scrivere per lavoro impone carattere, disciplina ferrea e “forma fisica”. Io mi alzo ogni giorno smanioso di mettermi a lavorare e amo scrivere più di ogni altra cosa – scrivere mi ha educato. Ma è un’altalena continua. Se non sei umile, curioso e coraggioso, non vai da nessuna parte. Ammesso che da qualche parte si debba andare. Vabbé, fine della sgradevole omelia. Quanto la conoscenza trova spazio nella tua vita? Ieri rileggevo un passaggio di Dumas. Cercavo di “smontare” una sua frase di raccordo, che procedeva liquida e cuciva (ma senza che si vedessero i punti) due blocchi narrativi. Un colpo da maestro, seppur buttato lì quasi sommessamente. Be’, sai che ti dico? Io mi sono sentito ancora all’inizio di una scala che conta un numero infinito di gradini. Poi sai, per scrivere è fondamentale anche ciò che sta fuori dalla pagina. Io vado molto in giro, a ciondolare. Scrivo nei bar, sull’autobus, in treno. Non voglio scrivere romanzi che puzzino di muffa bibliotecaria. Pensa ai grandi: Dickens non scriveva per un ristretto manipolo di letterati coi baffi all’insù, Cechov non voleva dimostrare al mondo di essere un funambolo e l’unica cosa che interessava a Jack London era portare un odore onesto dentro le sue storie. Scrivevano per essere letti e parlavano di tutti. A proposito di questo, l’intento di YOD MAGAZINE è portare il sapere fuori dalle accademie. Qual è il tuo rapporto col sapere accademico? Io non provengo dall’accademia. In genere ne sono un po’ allergico: il linguaggio da iniziati, l’idea torva del-

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2005. Venti anni che non dormo Marco ha studiato filosofia e ha smesso. Ha lavorato nelle toilette di un autogrill e ha smesso. Ha convissuto con una ragazza e ha smesso. Ha voluto una famiglia e ha smesso di volerla. Ora lavora in una pizzeria e già non ne può più. Cerca casa e la trova in condivisione con Chiara, una giovane senz’arte né parte ma con molti, troppi amici e soprattutto con una spiccata propensione a consumare in una notte, con l’ingenuità di un cuore facile, un grande amore dopo l’altro. È allora che a Marco viene l’idea: e se questi “grandi amori” glieli procurassi io, dietro adeguato compenso? Detto, fatto. Ma Marco è veramente un pappone? E Chiara è veramente una prostituta? 2005. Lola Motel “Aveva una fica bellissima. La prima che avessi mai visto non chinato a una serratura.” Così comincia, sfrontato e buffo, il romanzo di Archetti. Il protagonista si muove da lì in poi con furore e allegria. Nell’atmosfera calda e opprimente di una assolata Cuba, Felipe insegue su e giù per il Malecòn il miraggio di una bella prostituta. Nel frattempo suo padre sconta - in un crescente senso di straniamento - il passato politico. Amori e dissidenza, guasconate alla luce del sole e notti di regime. Nelle camere del Lola Motel, un sordido albergo dell’Avana, si incrociano vite diverse lì convocate da un oscuro destino. All’ombra di Bukowski, il giovane Archetti libera il suo sogno di libertà, di sesso, di magia.

PERCORSI

2006. Maggio splendeva 1936. Leo Piccioni ha appena superato l’esame di maturità. Ha il corpo sbilenco e fuor di squadra dell’ultima adolescenza, ma ha anche un temperamento eccitabile e nervoso. La sua famiglia medio borghese è soddisfatta e protettiva. Il padre si perde nei suoi studi e nei suoi esperimenti di biologia, la madre si compiace della merlettata rispettabilità delle convenzioni. Per fortuna c’è la zia Ester. Matura signorina con molta pratica del mondo, cova nella sua stanza i segreti incipriati di una femminilità a suo modo libera e ribelle. Antimussoliniana, lettrice di Freud in originale, cinefila, si lascia corteggiare da uomini sposati e non. E ha grandi idee in testa. Idee che arrivano quando scopre che il nipote ha, non si sa come, il potere di far scomparire cose. E persone. Durante la trasferta del padre in campagna per il periodico approvvigionamento di rane-cavie, nel casolare dove ha provato i primi spasimi d’amore, Leo ha sorpreso l’amor suo, la bella Argentina, e l’amico suo, Adriano, pomiciare forte.

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Ha guardato Adriano con intensità e collera e Adriano è sparito. Leo ha poi riprovato con portacenere e soprammobili e si è confidato con zia Ester. E zia Ester l’ha trasformato in mago: malgrado l’opposizione famigliare, gli ha costruito una carriera nei teatri d’avanspettacolo. Mentre sorpresa e sconcerto superano le pareti della casa Piccioni restano pur tuttavia inquietanti interrogativi... 2009. Gli asini volano alto Giosuè e Arto sono fratelli. Giosuè è un seminarista che vuole liberarsi di Dio, Arto un ateo fornicatore e un bugiardo patentato. Non era nelle intenzioni, ma i due si trovano nel bel mezzo di una grande avventura on thè road, che li vede appaiati, spaiati, comunque solidali, partire da Lourdes e perdersi per le strade di Spagna. Perdersi? Be’, Giosuè si avvia in effetti a trasgredire i dieci comandamenti uno per uno. E Arto? Arto deve badare al fratello e governare l’imbarazzante sudario di menzogne che ha tessuto per la famiglia lontana in attesa di lauree, matrimoni, ordinazioni sacerdotali e miracoli. 2011. Sabato, addio Gigi e Filippo. Due veri amici. Ciò che li unisce è ciò che non hanno: donne, avventure, occasioni. Ma in due, si sa, i pesi si sopportano meglio. Ed è per questo che uscire il sabato sera, passando il tempo a guardare il divertimento e le donne degli altri, non è poi così doloroso. Anzi, per Gigi e Filippo “odiare il sabato” è una forma di resistenza. Poi un giorno Gigi conosce una ragazza. Se ne innamora. Lei ricambia. Diventano una coppia. Il tacito patto tra i due amici salta e la bilancia della fortuna pende all’improvviso verso Gigi. Filippo resta a guardare, ma “odiare il sabato” da solo è impossibile. Così si ritrova a sperare nel fallimento sentimentale dell’amico. Finché un giorno Gigi lo chiama. Ma per comunicargli che si sposa. Per Filippo è il baratro. Allora parte, se ne va lontano, e finalmente qualcosa succede: conosce Marlén, una ballerina straniera e bellissima, e la convince a tornare in Italia con lui. Sembrerebbe l’inizio di una nuova vita, eppure il destino ha in serbo un’altra prova. La più terribile, la più dura. Filippo continua a chiedersi perché, e fino all’ultima verità. Una verità che trasforma vittime in carnefici. Una verità dove i buoni non vincono mai.

la cultura, l’élitarismo... Io mi sono formato per conto mio, in un lungo e paziente apprendistato che dura tutt’ora. Però dipende, ci sono anche opere luminose scritte da accademici. George Steiner mi piace molto, per esempio, e il suo testo su Tolstoj o Dostoevskij è fondamentale. Cosa ritieni valido, e cosa meno, dei romanzi che hai scritto fino ad ora? In genere, quando scrivo, il mio unico comandamento è: “Non annoierai il prossimo tuo”. Rivendico questo principio con forza: io non scrivo né “contro” i lettori, né contro di me. I libri preferiti tra quelli che ho pubblicato credo siano Lola motel per la sua vertiginosa voglia di raccontare un luogo preciso e la sua umanità, Maggio splendeva per la narrazione da romanzo d’appendice e il tentativo di mischiare la Storia col fantastico, e Sabato, addio per la sua capacità di incatenare il lettore alle pagine. Sabato, addio, appunto. L’hai detto in molte interviste, che questo romanzo apre per te una nuova stagione letteraria. Ci spieghi meglio? Coi primi quattro romanzi ho risolto, credo, il tema della formazione, della giovinezza, della stagione irripetibile. Ora ho girato pagina. Sabato, addio l’ho scritto come se avessi avuto una bomba sotto la sedia, di filato dalla prima all’ultima riga in un mese e mezzo. Un’apnea vera e propria. Poi l’ho finito e ho passato molto tempo ad affilarlo, a cancellare, a ripensare. Direi che corre come un treno, il che mi fa felice. È scritto in prima persona, con un personaggio che racconta di sé dalla fine, cioè dal suo arresto, perché ha commesso un delitto passionale. Il divertimento è stato scriverlo in modo di incuriosire il lettore sul “come” sarebbe arrivato fino a lì. È il primo di una serie di romanzi che scriverò, ispirati all’Antologia di Spoon River. La fine getta sempre una misteriosa luce retrospettiva sulle vite delle persone. Una luce che sa di predestinazione, anche. Tra l’altro è quasi interamente ambientato a Brescia, tua città natale. Questa scelta corrisponde a


un’esigenza puramente stilistica o a un ritorno personale? A un ritorno personale che mi ha imposto una scelta stilistica. Ero stato via per anni, poi una mattina cammino per il Carmine, nel centro storico. È un quartiere che è un vascello fantasma, bellissimo, un po’ sgangherato. Hai presente quei posti che i giornali, con qualche pigrizia espressiva, descrivono come “difficili”? Per carità, un po’ lo è. Però è anche vitale e allegro. Ecco, ho capito che quel posto, che è diventato la mia personale e umilissima Spoon River, conteneva personaggi e storie. Per me le storie nascono sempre dai luoghi. C’è un momento della giornata a te propizio per avere idee o ispirazione? Il dormiveglia. Quasi tutti i miei romanzi nascono tra le sei e le sette del mattino. Qual è il rapporto con la tua città e coi luoghi che sono stati fondamentali per la tua formazione? Questo quartiere che ti ho appena descritto è stato ed è fondamentale. Pensa che da bambino mi faceva paura: c’erano queste donnone truccatissime che aspettavano i clienti sedute su sediole di plastica... Io non osavo nemmeno chiedere a mia madre cosa facessero. Nella scrittura ho cercato di riportare questo alone misterioso, sinistro, da vicolo portuale – l’odore salmastro delle strade anche se non c’è il mare. In questo senso è stata molto importante anche L’Avana. Ci ho vissuto un anno e mezzo. Per molto tempo, in me, L’Avana è stata un canone. In fin dei conti è la vera protagonista di Lola motel. I tuoi personaggi sono molto diversi tra loro. Ma sono tutti sempre molto vivi, e restano a lungo nell’immaginario del lettore. Come li pensi? Come li costruisci? A quale di loro va la tua simpatia? In realtà sono loro che mi si presentano. Un bel giorno me li ritrovo in testa, poi io li arricchisco pian piano, li porto con me al bar, in viaggio, in libreria, al cinema. Stanno per mesi nella mia testa. A volte prendono caratteristiche di qualcuno che incrocio per strada, del suo naso o del suo

modo di camminare. Poi, dopo che li ho preparati, è la storia a determinarli. Quanto alla simpatia, io non li giudico mai. Scrivere un romanzo vuol dire portare dei personaggi alle estreme conseguenze. Dunque, vado dove vanno loro e non faccio domande. Per me nessuno di loro è disdicevole. Non mi ci rapporto mai in senso “morale”. Sono quello che sono. Nell’introduzione, Giovanni Scarafile cita Chaim Perelman e Lucie Olbrechts Tyteca: “Non basta parlare o scrivere, occorre pure essere ascoltati ed essere letti.” Che ne pensi? Che sono completamente d’accordo. A volte sento piagnistei sul fatto che il romanzo sta morendo. A dar retta a certi menagrami, sta morendo un po’ tutto: il romanzo, il rock, la genuinità delle pere Kaiser. Piuttosto, stando al giochetto cimiteriale, butto lì un sospetto: e se il romanzo fosse morto perché l’hanno ucciso anche gli scrittori? Non so come la vedi tu, ma a me spesso capitano tra le mani opere tediose, saccenti. Come se chi le avesse scritte avesse tenuto per tutto il tempo il sopracciglio alzato. Perché la gente dovrebbe leggerle? Per farsi fare la morale o la lezioncina di superiorità? Questi libri non c’entrano nulla con la letteratura, e ancor meno col piacere – anzi, i piaceri – che sa dare.

Letteratura francese: Flaubert o Zola? Il Flaubert de L’educazione sentimentale è pura bellezza e pura maestria. Il giallo: Georges Simenon o Agatha Christie? Simenon. Detesto Agatha Christie e la sua scrittura da zitella compita. Premi nobel: Mario Vargas Llosa o Gabriel Garcia Marquez? Vargas Llosa. Non una, ma diecimila volte. Filosofia: Ragione di Hegel o Volontà di Schopenauer? Faccio appello ad ormai annebbiate nozioni scolastiche, ma direi Schopenauer. Filosofia era una delle poche materie che studiavo con passione autentica. Cinema americano: Martin Scorsese o F.F. Coppola? Martin Scorsese, col suo Taxi driver, è il primo regista che mi ha fatto innamorare del cinema. E non lo posso dimenticare. Cinema italiano: Marco Bellocchio o Nanni Moretti? Marco Bellocchio, con lode.

Per finire, un piccolo giochetto per conoscerti meglio. Scegli, senza una motivazione esplicita, un’opzione tra quelle che ti proporrò. Ho paura.

Cucina: carne o pesce? Pesce. Lo mangerei sempre.

Sii forte. Letteratura italiana contemporanea: Luciano Bianciardi o Luigi Meneghello? Bene, mi hai messo nei guai. Dirò Luigi Meneghello, che è un maestro. Ma fammi aggiungere che La vita agra di Bianciardi è uno dei più bei romanzi italiani di sempre.

Sport: nuoto o calcio? Nuoto, senza alcun dubbio. È uno sport che pratico con drammatica coscienza dei miei limiti, ma con grande piacere. Se è un po’ che non vado in piscina, sogno l’acqua.

Letteratura americana: I.B. Singer o Bernard Malamud? Malamud. Ma possiamo smettere? Letteratura russa: Tolstoj o Dostoevskij? Tolstoj. Qui sono più convinto.

Vacanze: mare o montagna? Mare. Se possibile di mattina.

Tecnologia irrinunciabile: cellulare o Pc? Computer, ovvio. E la sigaretta elettronica, vorrei smettere di fumare. Ora che anche Marco ci ha preso gusto e le mie curiosità si fanno sempre più incalzanti avrei voglia di porre altri mille interrogativi. Allora al prossimo simposio petriano!

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CASO EDITORIALE

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Dario Edoardo Viganò

CARI MAESTRI

Cinema ed Educazione

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l compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di cui l’Italia è così ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, “fontana del villaggio”, luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane. In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale. L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia»1. Il Papa, proseguendo in vari contesti la propria riflessione «sull’emergenza educativa»2, ha sottolineato l’importanza di tre grandi alleati educativi: la famiglia, la scuola e il tessuto delle relazioni quotidiane della parrocchia e dell’oratorio. Il libro Cari Maestri. Da Susanne Bier a Gianni Amelio i registi si interrogano sull’importanza dell’educazione – indirizzato non soltanto a chi ha un rapporto privilegiato, immediato e quotidiano con i più giovani, ma anche

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In una nuova collana editoriale di Cittadella Editrice, diretta insieme ad Armando Matteo, arriva nelle librerie l’ultimo volume di Dario E. Viganò, Cari Maestri. Anticipiamo l’Introduzione dell’Autore e l’intervista a Susanne Bier.

ai cineasti, che rivestono oggi un ruolo fondamentale nell’universo educativo – vuole essere un attraversamento trasversale della storia del cinema nel tentativo di cogliere le modalità di rappresentazione dei tre universi educativi: scuola, famiglia e territorio. Non si tratta di una raccolta con pretese enciclopediche; più semplicemente, di una rassegna tesa a presentare le principali opere cinematografiche che hanno affrontato questi temi, film densi di spunti di riflessione e di analisi. L’intento alla base dell’opera è, infatti, quello di fornire uno strumento agile e funzionale a coloro che sono interessati ad approfondire la questione educativa; a coloro che intendono affrontare una riflessione sull’emergenza educativa e sui principali attori del sistema educativo di formazione delle nuove generazioni, ripensando a partire dal ruolo fondamentale dei media, nello specifico all’universo cinematografico. Il libro è, pertanto, rivolto agli studiosi e a coloro che operano nel mondo della comunicazione, dagli animatori della comunicazione e della cultura sino ai docenti dei vari livelli scolastici (soprattutto delle medie inferiori e superiori), ma anche agli operatori pastorali, a coloro che animano le Sale della Comunità, i cineforum. L’opera si compone anzitutto di un primo capitolo introduttivo, Educazione e ri-figurazioni cinemato-

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grafiche. Dal piccolo al grande schermo, volto a presentare il percorso ragionato del volume, restringendo il campo d’osservazione alle sole opere incentrate sul tema dell’educazione (nello specifico si è indagato a fondo su cinema italiano, statunitense ed europeo, non rinunciando però anche a brevi ma puntuali incursioni nelle cinematografie non occidentali). Questa sezione presenta, inoltre, una breve panoramica sul contributo del piccolo schermo, un breve excursus sulle fiction sul tema che si sono moltiplicate nel nostro Paese negli ultimi anni. Guardando, infatti, alla produzione degli anni Duemila, è soprattutto la scuola ad essere protagonista delle narrazioni televisive, della fiction nostrana: dalle recenti serie corali come I liceali o Fuoriclasse, dove le storie e le problematiche personali dei professori si alternano, si mescolano insieme a quelle dei ragazzi, in piena temperie emotiva adolescenziale, si passa alle fiction su professori eroici, investigatori tra le aule scolastiche, come in Provaci ancora Prof, interpretata da Veronica Pivetti oppure in Don Matteo, grande successo televisivo con Terence Hill. Nel compiere il salto alle narrazioni del grande schermo, a partire dal paragrafo L’universo familiare nell’immaginario cinematografico, il libro sceglie di affrontare la famiglia come primo terreno di esplorazione. La famiglia è sin dalla nascita del cinema, sia in quello tricolore che internazionale,


al centro delle sue narrazioni. In Italia, ad esempio, i film hanno raccontato l’istituzione familiare e le sue trasformazioni attraverso i diversi snodi storici: dallo sguardo neorealista sulla miseria del secondo dopoguerra di Vittorio De Sica in Ladri di biciclette, alla commedia anni Cinquanta che, a partire da La famiglia Passaguai di Aldo Fabrizi, fotografa un’Italia quasi alla soglia della grande stagione del

benessere, del boom economico, senza dimenticare gli sguardi provocatori e fecondi di Pier Paolo Pasolini negli anni Sessanta – dalle tragiche vicissitudini di un sottoproletariato vittima di un destino avverso e di una società borghese inclemente con Mamma Roma, fino alle sue dure critiche rivolte alla famiglia borghese in Teorema. Oltre, però, a una ragionata selezione di autori che, con le loro opere,

nel tempo, hanno raccontato la famiglia e i suoi cambiamenti, l’attenzione viene posta su due approfondimenti analitici, due categorie: Genitori in crisi e separazioni difficili e Genitori infantili e piccoli adulti. [...] Nel secondo capitolo, La scuola al cinema. Studenti in cerca di riferimenti educativi, tra professori eroici e bullismo, entriamo nelle aule scolastiche,

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scenario dei primi palpiti d’amore ma anche delle manifestazioni di disagi relazionali e incomprensioni familiari che possono condurre alle soglie della microcriminalità e della delinquenza. Dopo uno sguardo iniziale ai film della cinematografia italiana e internazionale che hanno raccontato la scuola, le sue dinamiche, le difficoltà e i conflitti – dal reportage Diario di un maestro di Vittorio De Seta a Caterina va in città di Paolo Virzì, dallo statunitense L’attimo fuggente di Peter Weir al tedesco L’onda di Dennis Gansel, non dimenticando di certo Zero in condotta di Jean Vigo – si affrontano ancora una volta due categorie analitiche di approfondimento. La prima, Nuovi insegnanti dalle molteplici anime sfaccettate, prende in esame le figure dei docenti, le modalità di rappresentazione dei professori, riconoscendo soprattutto una discreta ed evidente tendenza nel presentarli come figure eroiche: dal professor Antonio Vivaldi, eroe caotico ma di buon cuore del film La scuola di Daniele Luchetti al professor Keating de L’attimo fuggente di Peter Weir, insegnante capace di arrivare al cuore ma anche alla coscienza dei suoi allievi, senza dimenticare figure esemplari come padre Jean nel film Arrivederci ragazzi di Louis Malle, pronto al sacrificio estremo pur di concedere una possibilità di salvezza a dei bambini. La seconda categoria, Bullismo, fragilità e ricerca di riferimenti educativi, propone, invece, un focus sull’universo studentesco, in particolare sulle problematiche che gli studenti si trovano a dover affrontare, dagli episodi di bullismo sino al dilagare di un’onda di violenza che nel tempo è sfociata anche in drammi da cronaca nera, come la strage perpetrata da due studenti nella scuola di Columbine, negli Stati Uniti. Prendendo le mosse da film italiani come Nel nome del padre di Marco Bellocchio e Come te nessuno mai di Gabriele Muccino, in

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cui vengono descritte forme e giustificazioni diverse alle violenze in ambito scolastico, si passa agli statunitensi Gioventù bruciata di Nicholas Ray ed Elephant di Gus Van Sant, sino all’europeo In un mondo migliore di Susanne Bier, vero apologo sulla centralità della scuola e sulla difficoltà dei rapporti familiari. Da ultimo, nel capitolo L’educazione nel tessuto urbano. La parrocchia, l’oratorio, lo sport e il quartiere tra amicizie edificanti e pericoli latenti viene esaminato il tessuto delle relazioni sociali esperite sul territorio. Luoghi fondamentali di aggregazione vengono raccontati sul grande schermo attraverso le biografie dei grandi pedagoghi, come don Giovanni Bosco o don Lorenzo Milani che, con i loro innovativi progetti e metodi d’insegnamento, hanno cambiato il modo di educare i giovani, ma anche con film come Alla luce del sole di Roberto Faenza, in cui viene ricordato il coraggio di don Pino Puglisi, sacerdote che ha rifiutato di arrendersi alle prepotenze della mafia. Nel nostro excursus non si rinuncerà, inoltre, a sguardi differenti, meno edificanti e più problematici, ma comunque fecondi, come quello di Corpo celeste di Alice Rohrwacher. Il contesto urbano, caotico e in alcune circostanze invivibile, rivela anche la presenza di fattori che possono turbare o deviare la sana crescita delle giovani generazioni, come la droga e la delinquenza. Passiamo così alla categoria Solitudine metropolitana e amicizie difficili, dove si affrontano film come l’italiano Gomorra di Matteo Garrone e l’americano Thirteen - Tredici anni di Catherine Hardwicke, oppure l’europeo Sweet Sixteen di Ken Loach, in cui vengono – con stili e modalità diverse – messi in luce i disagi esistenziali dei più giovani, il miraggio di una ribellione che però, il più delle volte, rimane intrappolata

nella rete della delinquenza. Il quartiere, in quanto ambiente sociale, non è però solamente scenario denso di problematiche, aperto al pericolo della droga e della delinquenza ad ogni angolo, bensì offre possibilità d’incontri, di amicizie importanti, che influiscono positivamente sulla crescita e sulla formazione, accompagnando i ragazzi nel cammino sino all’età adulta. La terza categoria presa in considerazione, Amici fraterni e maestri di vita, è quindi rivolta alle storie di amicizie edificanti e solidali, capaci di valicare ogni ostacolo, come quella descritta nel film La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana o in Io non ho paura di Gabriele Salvatores, ma anche nell’avventura fantascientifica di E.T. l’extra-terrestre di Steven Spielberg. Rapporti intensi come quello che spingerà il ruvido Walt Kowalski all’estremo sacrificio per il giovane Thao in Gran Torino di Clint Eastwood, o amicizie che legano coetanei, come nel caso del già citato In un mondo migliore di Susanne Bier in cui gli adolescenti Elias e Christian, smarriti nel sentiero della vendetta, proprio grazie al loro rapporto sapranno riconciliarsi con la vita, con la speranza di un futuro migliore. Parte integrante del libro sono quattro interviste, quattro riflessioni concesse da quattro maestri del cinema italiano e internazionale che hanno accettato di riflettere sull’universo educativo, mediante la condivisione di esperienze personali e cinematografiche che costituiscono un ottimo spunto di riflessione nella loro coralità. 1 Benedetto xvi, Discorso alla 61a Assemblea Generale della cei, 27 maggio 2010, in Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo, Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, edb, Bologna 2010, p. 89. 2 Id., Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.


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IN UN MONDO MIGLIORE Dialogo con Susanne Bier di Dario E. Viganò

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n un mondo migliore da un lato si ricollega idealmente ai suoi film precedenti, continuando a riflettere sulla crisi della famiglia tradizionale, dall’altro si spinge oltre perché tocca il nervo scoperto delle odierne società occidentali, caratterizzate da un progressivo sfaldamento dell’edificio comunitario e della solidarietà. Che cosa sta succedendo nel cuore della vecchia Europa secondo lei? Credo che negli ultimi anni si sia diffusa l’idea che i Paesi Scandinavi siano un posto ideale in cui vivere e che rappresentino un modello da seguire per gli altri Stati. Di sicuro alla base c’è qualcosa di vero: la vita qui è meno pericolosa rispetto ad altri Paesi, ma ciò non significa affatto che la Danimarca sia in assoluto un posto sicuro in cui far crescere i propri figli: è necessario prestare sempre la massima attenzione. Vi esiste quello che potrebbe essere definito un tipo diverso di violenza, determinato da ciò che chiamiamo civiltà, ma che in ogni caso rimane violenza. 2. L’altro elemento di forte problematicità nel film è quello dell’educazione. I genitori dei due piccoli protagonisti non solo non riescono più a comunicare con i propri figli, ma non sanno nemmeno “come” farlo,

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come se fosse venuto a mancare un codice valoriale condiviso. Quanto è diventato difficile insegnare il bene ai nostri figli in un contesto che sembra aver dimenticato cosa sia? È una domanda che mi sono posta più di una volta. Ho due figli, un maschio e una femmina, e se quello che succede nel film accadesse a mio figlio dubito fortemente che correrebbe a casa a raccontarmelo o a chiedermi aiuto. D’altro canto, sono sicura che cercherei in ogni modo di proteggerlo, andrei diritta a scuola facendo molti più errori di quanti ne faccia Marianne nel film. Questo è il motivo per il quale mio figlio non chiederebbe il mio aiuto: pagherebbe il fio per essere stato protetto da uno dei suoi genitori. Non ho una soluzione pronta a questo problema, sono soltanto convinta che si debbano tenere gli occhi bene aperti. 3. Mi pare che la provocazione che lancia il suo film sia anche la seguente: per capire qual è lo stato del nostro mondo dobbiamo abbandonare le categorie socio-politiche del passato e l’idea di bene comune che le sosteneva, per ripartire da zero, dalla famiglia, dalla scuola, dal dialogo coi figli. Come se l’uomo dovesse nuovamente reimparare a stare al mondo, fare nuovamente un’esperienza epidermica, diretta, di cosa voglia dire

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l’etica. Si riconosce in questa analisi? La sua analisi è completamente esatta. Negli ultimi anni i valori fondanti la nostra società sono cambiati, nel senso che oggi abbiamo una maggiore consapevolezza di cosa accade nel mondo. Un tempo, invece, eravamo interessati solo a ciò che ci circondava – la nostra casa, il quartiere o al massimo il nostro Paese. Il flusso di informazioni non può essere arrestato e sarebbe da irresponsabili ignorare che esiste un mondo là fuori che di fatto non è un altro mondo, ma ci appartiene. L’Africa, l’India, il Medio Oriente non sono semplicemente un “fuori di qui”, fanno parte del nostro mondo. 4. Il film tocca un altro problema scottante dell’odierna società europea: quello del bullismo. Qual è la sua origine secondo lei e come lo si combatte? Penso di avere in qualche modo già iniziato a rispondere a questa domanda: il bullismo è un tipo di violenza che deriva direttamente dalla civiltà. Ogni società moderna reinventa forme di violenza sempre nuove, per sostituire le precedenti. Ci sono luoghi in cui si è costretti a usare la violenza per sopravvivere; ve ne sono altri in cui ci si comporta così per ignoranza o per ottenere sempre di più, e così via. Anche in un mondo in cui tutti

siano appagati e non abbiano necessità, prenderebbe largo un nuovo, raffinatissimo tipo di violenza. È un processo inarrestabile e io non ho idea di come potrebbe essere contrastato. 5. In un mondo migliore è segnato dalla dialettica tra violenza e perdono, che è un tema caro a molte religioni. Eppure lei cerca di risolvere la questione in termini prettamente laici. Ma è possibile praticare il perdono affidandosi alla sola responsabilità umana? Io sono di religione ebraica, mentre Anders Thomas Jensen, lo sceneggiatore con cui lavoro abitualmente, è protestante. Non abbiamo trattato questo tema in termini religiosi, e si tratta di una questione troppo profonda per essere risolta in questa sede. Comunque io credo che si possa essere non religiosi e saper usare il perdono considerandolo come un semplice “valore umano”. Si può avere lo stesso un’intera gamma di valori morali provenienti da istruzione, pensiero, lavoro, studio, e naturalmente si può possedere un personale senso di responsabilità. Siamo tutti diversi l’uno dall’altro e alcuni di noi hanno dentro di sé una profonda forza morale. Quindi, in fondo, credo che ciascuno possa affidarsi alle proprie energie interiori per trovare la strada del perdono.


CINEMA

Pitigliani Kolno’a Festival Dalla pagina allo schermo

Diretta da Dan Muggia e Ariela Piattelli, si è svolta alla Casa del Cinema di Roma dal 12 al 16 Novembre la sesta edizione del Pitigliani Kolno’a Festival (PKF), unica kermesse cinematografica in Italia dedicata al cinema israeliano e di argomenti ebraici.

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ispetto ad altre cinematografie, come quella italiana in cui il rapporto tra cinema e letteratura è stato sempre intenso, quella israeliana ha avuto pochi contatti con le opere letterarie. Quando negli Stati Uniti un terzo delle sceneggiature sono tratti da libri (e dove spesso gli scrittori di bestseller già guardano al film…) in Israele la statistica si limita al 10%. Non solo i capolavori degli scrittori israeliani di tutti i tempi sono stati ignorati dal cinema, ma anche le opere popolari, quelle che portate

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sul grande schermo avrebbero potuto contare sul consenso del grande pubblico (basti pensare ai libri di Ram Oren). Il bestseller per eccellenza in ebraico, la Bibbia, è stato portato al cinema dagli americani e non dagli israeliani. Questo fenomeno ha una serie di ragioni: la forte tendenza del cinema israeliano al realismo ha ridotto drasticamente le possibilità di scelta dei testi letterari, visto che esclude a priori romanzi ambientati in un mondo fantastico o che toccano il surreale. Il budget limitato delle produzioni non ha permesso ai cineasti di potersi avvicinare a romanzi storici. Nel nostro caso si tratta poi di un cinema d’autore, basato spesso su sceneggiatura originale. Forse alla radice del fenomeno c’è anche una ragione politico-culturale: la letteratura israeliana si è sentita, molto prima del cinema, libera di essere “anticonformista” e provare a vedere e a rivelare il bene e il male nella società e nella politica israeliana (basti vedere in Italia la frequenza con la quale le penne degli scrittori israeliani, come David Grossman e A.B. Yehoshua, si prestano ai quotidiani per editoriali sulla politica israeliana). I cineasti israeliani in questo senso sempre stati più prudenti degli scrittori, forse credendo che il pubblico non fosse pronto ad affrontare il dibattito politico e le problematiche sociali anche al cinema. La recente rinascita del cinema israeliano ha dato un certo impulso anche in questa direzione ed ha alimentato il rapporto tra cinema e letteratura. Basta guardare la lista dei film prodotti in questi anni per vedere come è aumentata la tendenza di trarre soggetti cinematografici da opere letterarie. Più di dieci libri sono stati portati sul grande schermo, tra questi Una pantera in cantina di Amoz Oz (The Little Traitor di Lynn Roth), Il responsabile delle risorse umane di A. B. Yehoshua (da cui è stato tratto il film

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omonimo diretto da Eran Riklis), Qualcuno con cui correre di David Grossman portato al cinema da Oded Davidoff (il film è stato presentato al PKF), Voci di muto amore di Yehoshua Kenaz (Mrs. Moskovitz and the Cats diretto da Jorge Gurvich ) e Il ragazzo e la colomba di Meir Shalev che sta per diventare un film. Al PKF vi presentiamo quattro film basati su una sceneggiatura tratta da romanzi di successo (tre ambientati nel passato), come esempio dell’attuale rapporto tra cinema e

letteratura israeliana. Il libro di Yehoshua Il responsabile delle risorse umane viene trasformato dallo sceneggiatore Noah Stollman (ospite del PKF) e dal regista Eran Riklis in un “road movie”; Avi Nesher ha trovato ispirazione nel libro When Heroes Fly di Amir Gutfreund, e, usando frammenti trovati nell’opera letteraria, racconta con nostalgia nel suo The Matchmaker una storia che è anche quella della sua infanzia; Nir Bergman ha lavorato sul personaggio del protagonista del romanzo di Grossman il


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FIVESTEPSWITH DAN MUGGIA

Nel contesto del cinema mondiale, quale è la posizione del cinema israeliano?
 Un cinema giovane (possiamo parlare di un cinema che ha fatto i suoi veri passi solo negli anni ‘60) che ultimamente è riuscito a ritrovare il suo pubblico in Israele e in più vincere premi prestigiosi nei grandi festival (3 volte di seguito nominato all’oscar come miglior film in lingua straniera. Un cinema apprezzato anche dalla critica mondiale per avere trovato un suo linguaggio specifico locale originale e non solo un’imitazione del cinema europeo o americano, però esiste sempre la possibilità che oggi sia di moda e domani il suo posto sarà preso da un cinema di un’altro paese. Chi sono, a suo avviso, i registi israeliani emergenti? Hagar Ben Asher Eran Kolirin Yonatan Gurfinkel. Danny Rosenberg, Maya Koenig C’è un genere prevalente nel cinema israeliano? No il cinema israeliano attuale è in gran parte una cinema realistico d’autore senza usare regole rigide dei generi. Ma i giovani cineasti israeliani sono ultimamente alla ricerca di adattare i generi alla realtà israeliana e sono sicuro che vedremo per esempio film d’orrore israeliani nel prossimo futuro.

Libro della grammatica interiore, affinché nel film diventasse lo sguardo dell’adolescente (rappresentato dalla macchina da presa) che racconta “in soggettiva” al pubblico il mondo di una volta. Infine il film Infiltration di Dover Koshashvili che, insieme al co-sceneggiatore Reuven Hecker, ha aggiunto una voce critica allo sguardo dell’autore Kenaz per ricondurre le divisioni interne alla società multiculturale israeliana negli anni ’50 e le problematiche sociali di allora all’attualità.

I nuovi fermenti della società israeliana hanno già trovato una sponda nel cinema israeliano? Certo ed evidente per esempio non solo nei nomi dei registi e nei i soggetti dei film, ma persino nella lingua. Nei nuovi film si parla Georgiano, Amhari, Yiddish e rimangono sempre parte del cinema israeliano e della sua realtà.

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REALIZZARE Dialogo con Ariela Piattelli Quando e come è nata l’idea del Pitigliani Kolno’a Festival? Sono passati più di dieci anni da quando è nata l’idea del festival. Poi ne sono passati altri prima che questo diventasse un vero e proprio appuntamento culturale. Il primo ad avere l’intuizione è stato Ronny Fellus, consigliere del Pitigliani (il Centro Ebraico che tutt’ora organizza e produce il festival), un grande appassionato di cinema e di Israele. Ricordo che organizzavamo nelle sale del Pitigliani videoproiezioni in cassette VHS dei vecchi film israeliani di Ephraim Kishon e Uri Zohar. Adesso, da sei anni, facciamo il nostro festival alla Casa del Cinema di Roma, vengono sempre molti ospiti da Israele che accompagnano le loro opere. Siamo riusciti a realizzare questo sogno, dare al nostro paese un vero e proprio festival di cinema israeliano. Personalmente mi considero molto fortunata, perché lavoro con una squadra di altissimo profilo, formata da persone straordinarie. Quali sono stati i punti di forza dell’edizione 2011? La novità più importante è stata il PKF Professional Lab, ovvero una serie di laboratori dedicati a tre diversi ambiti del cinema, in cui abbiamo messo a contatto le professionalità del cinema israeliano ed italiano, con la speranza di future collaborazioni. Il primo laboratorio lo abbiamo fatto sul cinema di animazione. Hanno partecipato gli studenti delle scuole di cinema italiane e tre personaggi eccellenti dell’animazione, il Maestro Hanan Kaminski (regista e direttore del dipartimento di animazione della Bezalel di Gerusalemme), Luca Raffaelli (direttore di Castelli Animati e Romics) e il video artista Leonardo Carrano. E’ stata una lezione indimenticabile, come il laboratorio di Created By dedicato alla serie televisiva israeliana, tenuto dallo sceneggiatore Noah Stollman e gli amici della S.A.C.T. Il punto di forza del festival è sempre il programma. Abbiamo aperto con Ajami, il film di Scandar Copti e Yaron Shani, candidato all’Oscar e mai distribuito in Italia. Una pellicola magnifica, dura, un risultato alto del cinema israeliano oggi. Un cinema che si concentra sul presente, perché attraverso di esso afferma la propria identità. Il passato ha sempre avuto un peso nel cinema israeliano (come nella storia del paese), ma adesso le cose sembrano essere cambiate. Penso anche ad un altro film che abbiamo presentato, un “No budget movie”, 2 Night di

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Roi Werner (che è stato ospite del festival): un film geniale e leggero sul viaggio di due ragazzi lungo una notte a Tel Aviv, alla ricerca di un posto per la macchina e molto di più. Qual è stata fino ad ora l’accoglienza del pubblico italiano nei confronti della cinematografia israeliana? C’è molto interesse per il cinema israeliano. Questo fenomeno ha due ragioni. Prima di tutto i film hanno un valore irriducibile come opere d’arte: i premi internazionali, i successi, l’indiscutibile qualità dei film israeliani, ne sono una conferma. L’originalità stilistica e tematica è un punto di forza del cinema israeliano. La seconda ragione è che andare al cinema a vedere un film israeliano è diventato un modo per conoscere Israele più da vicino. Durante le edizioni del PKF ci siamo accorti che con i film andavamo a sfatare l’idea di un paese in eterno stato di guerra, capace di parlare (anche attraverso l’arte) esclusivamente del conflitto. I nostri spettatori sono rimasti molto sorpresi nello scoprire un paese che anela alla normalità. I registi affrontano vari soggetti come il disagio sociale, i sentimenti, la famiglia, la storia etc. Certo a volte c’è anche il conflitto che non può essere cancellato poiché fa parte del paese. Lei vive a Tel Aviv. Il pubblico israeliano è attento nei confronti del cinema italiano? Quali sono i registi italiani maggiormente conosciuti in Israele? Il pubblico israeliano conosce il cinema italiano del passato ed è attento a quello contemporaneo. Rossellini, Fellini, Pasolini come Visconti e Antonioni, sono considerati dei maestri anche in Israele, tanti hanno visto i loro film. C’è un comune sentire tra italiani ed israeliani. Quando abbiamo fatto vedere i film con Anna Magnani al Jerusalem Film Festival la sala era sempre piena, con spettatori di tutta le età. Lo stesso accade con il cinema contemporaneo italiano. Penso al successo in Israele di La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, dei film di Moretti, di Soldini e tanti altri. Quest’anno abbiamo portato in Israele Gianni Di Gregorio che con il suo Pranzo di Ferragosto e Gianni e le donne ha conquistato il cuore degli israeliani. Gli israeliani d’altra parte amano l’Italia e il suo cinema.


UN SOGNO

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MACCHERONIDISANGIOVANNI Ingredienti: 350 gr. di pennette “pugliesi” 10 olive nere 400 gr.di pelati olio extra vergine di oliva 4 alici spinate e dissalate pecorino pugliese 25 gr di capperi sottosale aglio, sale, prezzemolo, pepe o peperoncino Preparazione: Ponete in un tegame l’olio facendolo rosolare con l’aglio. Unitevi le alici tagliate a pezzi e fatele sciogliere. Aggiungete i pelati , i capperi gia lavati, le olive nere snocciolate e il pepe ( o del peperoncino) e lasciate cuocere il composto per circa 10 minuti. Cuocete, nel frattempo, le pennette in abbondante acqua salata. Condite la pasta con il sughetto preparato e spolverate, se gradite, di pecorino pugliese. Vino consigliato: rosso del Salento servito a 18°C.

va

ORECCHIETTE CON LA RUCOLA Ingredienti: 400 gr. di orecchiette 2 spicchi di aglio 300 gr.di rucola 4 cucchiai di olio extra vergine di oli-

10 pomodorini rossi 1/2 peperoncino o un cucchiaino di olio santo Sale q.b. 10 olive nere Preparazione: Pulite e lavate accuratamente la rucola utilizzando solo le foglie e i germogli piu’ teneri. Lessatela in abbondante acqua salata per 5 minuti, scolatela bene e riutilizzate l’acqua per lessare le orecchiette. Mettete in una grande padella l’olio, i pomodorini tagliati a meta, il peperoncino,l’aglio e le olive tritate e insaporite con il sale.Dopo 5 minuti di cottura a fuoco lento, aggiungete la rucola e dopo altri 5 minuti le orecchiette scolate che nel frattempo avrete gia cotte. Fate saltare in padella per qualche minuto per insaporire le orecchiette. Servite bollente aggiungendo olio crudo a secondo dei gusti Vino consigliato: gravina (vino bianco) http://www.laterradipuglia.it/ricettepugliesi/ricette-di-primi-pugliesi/maccheroni-di-san-giovanni

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«L

a cucina conosce la teologia agostiniana. … [In cucina] l’uso non dimentica mai che esiste solo al servizio del […] godimento. Lo scopo del lavoro è la gioia. […]. Ma da sola, la cucina, è morta. Perché viva occorre un’anima: il cuoco. […] Il cuoco sa che l’appetito di noi esseri umani è infinito. La natura non basta ad appagarlo. Il nostro appetito non è qualcosa che appartiene al corpo, viene dall’anima». Riflettendo su queste parole trovate in un libro Parole da mangiare di Ruben A. Alves (Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2008), mi sono ritrovato pienamente e ho rivisto tutti quei momenti in cui ho dovuto preparare dei “piatti” per fare festa con gli altri. E’ proprio vero: il cuoco mangia parole prima ancora d’aver svolto il proprio lavoro. Prima di mettere mano all’opera l’immaginazione già da giorni lavora assiduamente: gli occhi vedono colori invisibili, il naso freme per profumi inesistenti, la bocca ha l’acquolina per gusti che nascono da abbinamenti immaginari. Quante volte ho sentito che il pasto non ancora preparato era diventato già padrone del mio corpo. La fantasia diventa una cucina e un banchetto. Il cuoco dà il nome a quello che vorrebbe mangiare; dà il nome a quello che, secondo lui, gli altri vorrebbero mangiare, un cibo gradito. Prima di essere servito a tavola, il cibo viene mangiato nei suoi sogni. La cucina è l’arte di rendere reale ciò che non lo era, di rendere presente ciò che era assente. Noi chiamiamo “cucina” uno spazio definito, ben localizzato ma la sua anima non è là: è nei sogni del cuoco. Il cuoco lavora nello spazio della cucina per un altro momento e un altro luogo: quelli dove risiede il piacere.

Quando ho la possibilità di preparare un pasto per degli invitati sento che quel pasto è l’anima fatta cibo. Ogni pasto è una rivelazione. I sogni che il cuoco ha vengono offerti agli invitati. Si sa che i cuochi generalmente non mangiano quello che cucinano: si accontentano di assaggiarlo. I cuochi infatti non cucinano per se stessi ma per gli altri. Il cibo è indubbiamente gustoso, ma loro cercano una gioia più intensa; il loro cibo è altro. Loro mangiano la gioia che leggono sui volti durante il pasto. In questa gioia c’è una silenziosa dichiarazione d’amore. Quando l’invitato dice “che buono!”, dice anche “come sono gustosi i sogni che vivono nella mente del cuoco!”. Il cuoco mangia con gli occhi. Come il cibo viene preparato in pentola, così i pensieri cuociono nello spirito. I nemici mortali del cuoco sono i dietologi. Per loro il cibo è solo un mezzo per vivere. Il dietologo parla dei principi di base del pasto, degli elementi che lo compongono, spiega quali sono i bisogni del corpo per mantenersi in vita. Per lui questa è l’essenza del pasto. Il gusto è solo un accidente in più, come un po’ di zucchero aggiunto a una medicina amara. Per un dietologo il corpo appartiene all’ordine della medicina. Il cuoco invece sa che il corpo appartiene all’ordine dell’amore. Mangiare ci impartisce la lezione fondamentale dell’amore. Uno dei biglietti più belli l’ho ricevuto dopo aver preparato una cena: “al mio cuoco paziente e amorevole, che sa cucinare cibi che sanno di cielo, che sa cucinare pietanze dove c’è “tutto se stesso” che sa mettere tanto amore in ogni cosa che ti prepara. Grazie”.


DEL CUCINARE Uliano, monaco

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Dialoghi dell’aperitivo

Giovanni Scarafile

Malgrado tutto

Dialogo sulla festa

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iccardo – Quest’anno, finalmente, proprio una bella estate, anzi un’e-

state fantastica. Gianni – Sono contento. Dai, racconta R. – Abbiamo girato un sacco. Ogni sera, un posto diverso. Alla ricerca delle cose migliori.

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G. – Fammi un esempio, sono curioso R. – Le feste, non abbiamo voluto farci mancare nulla. Quell’atmosfera, l’aria frizzante, la gente allegra. E poi, le bancarelle. Non hai idea le bancarelle.. G. – Cioè? R. – Ogni sera ce n’erano a perdita d’occhio. Di tutti i tipi. E tanta gente G. – Ah, ecco, tanta gente.. R. – Sì, una meraviglia. Non c’era spazio per camminare, pensa G. – Eh sì, una vera meraviglia.. R. – Ma è bello!, non essere il solito G. – Il solito che?, scusa R. – Il solito musone. Una sera avresti dovuto vedere la fila per il crostone di pane con crema ai fegatini! Poi, c’era uno stand con dei cosciotti di maiale con castagne che erano la fine del mondo. G. – Insomma, avete passato un’intera serata a mangiare, spostandovi come anime in pena di stand in stand? R. – Beh, no.. C’era pure la musica. Bella. Allegra. Musica solare degli anni ’70. G. – Ah, ecco. Così in effetti cambia tutto. Seduti ai tavolini di un bar di piazza S. Oronzo, a Lecce, in attesa che il cameriere si accorgesse di noi, io e Riccardo ci aggiornavamo sulle ultime novità. Niente avrebbe fatto credere che fosse la metà di settembre. Né il sole, né i turisti che continuavano a passarci davanti a frotte. Tutto simile all’estate appena trascorsa. Sembravamo immersi in un luogo senza tempo. Unica eccezione, l’abbronzatura di Riccardo. Uniforme, assoluta, insuperabile. La giudicai crudele nella sua perfezio-

ne. Mentre Riccardo si era alzato per intercettare il cameriere, non riuscii a non pensare a quanto mi aveva appena raccontato. Lo trovai bizzarro. Per quanto trascorrere un’intera serata in luoghi affollati, facendo a gomitate per mangiare qualcosa, non sia il mio ideale, non faccio fatica a riconoscere che in fondo è una questione di gusti. Tuttavia, anche questa considerazione mi lasciava insoddisfatto. Sentivo che qualcosa mi sfuggiva. “Fatto!”, disse Riccardo, sedendosi. “Ho ordinato due bitter bianchi, così abbiamo pensato pure alla tua gastrite”. G. – Bravo! Senti un po’, che altro avete fatto? R. – Tante cose, difficili da ricordare... Anche se, la piscialetta è insuperabile. G. – Cosa?! R. – Sì, una sera abbiamo fatto il pieno.. G. – Ma di cosa? Non sto capendo.. R. – Della piscialetta, no? G. – E che sarebbe? R. – Ma dove vivi!! È una specie di focaccina che fanno qui, nel Salento G. – Mai sentita.. R. – è perché non ti muovi mai, stai sempre chiuso in casa. La piscialetta è una cosa tradizionale, che abbina cultura e tradizione e soprattutto è buona, buonissima. Poi c’era pure la sagra della polipo e pure lì ci siamo fatti neri G. – Immagino.. Guardavo Riccardo con leggero sgomento. Quell’elenco univoco di situazioni goderecce, cifra di un’estate fantastica, mi facevano venire il dubbio che si trattasse di uno scher-

zo cui mi stavo prestando involontariamente. Possibile che non vi fosse null’altro da registrare come significativo di una bella estate? A costo di farmi del male, decisi di andare avanti con le domande. Prima o poi, sarebbe venuto fuori un dettaglio di altro genere. G. – Dai, dimmi qualche altra cosa. Possibile che non abbiate trovato qualcosa di più poetico? R. Pensandoci un po’ su. – Beh, sì. La panissa. G. – Non ne ho mai sentito parlare. È un’antica abbazia? R. – Nooo, che vai a pensare?!! È un piatto della cucina piemontese a base di riso, fagioli e salame. Smisi di ascoltare. Purtroppo, Riccardo non si stava prendendo gioco di me. Era sincero e niente avrebbe potuto scuoterlo dalle sue certezze. Distolsi per un attimo lo sguardo da lui, per guardare sulla mia sinistra l’anfiteatro romano dove un gruppo di ragazzi, forse studenti, cercava di mettersi in posa per una foto di gruppo. Fu così che mi tornò alla mente un libricino di Josef Pieper, dedicato al senso della festa. Tentando di recuperare i dettagli di quella lettura, tornai a guardare Riccardo, che intanto sorseggiava il suo aperitivo. Il cameriere si allontanava dal nostro tavolino ed io non mi ero accorto di niente. Ora guardavo Riccardo aprire la bocca e parlare - forse della panissa - ma io non lo sentivo. Non sentivo più alcun suono. Era il segnale che il mio organismo stava mandandomi che non avrei potuto tollerare oltre una ulteriore sequenza di insulsaggini. G. – Sai, Ricca’, la cosa strana? R. – No, qual è?

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G. – Se ogni giorno è festa, non c’è più festa. R. – Cioè? Che vuoi dire? G. – Voglio dire che la festa ha un senso se è l’eccezione rispetto ad un quotidiano vissuto come ferialità, come tempo del lavoro. In questa prospettiva, la festa è l’altro rispetto al lavoro. Insomma, la festa, per essere autenticamente tale, deve essere alternativa al lavoro, ma in qualche modo lo implica. Non può eliminarlo del tutto. Se ciò avvenisse, verrebbe meno il senso stesso della festa. R. – Vabbè, ma io ero in ferie. G. – Sì, d’accordo. Ma non sto parlando proprio di te. Sto facendo un ragionamento in generale. R. – No, dai, non cominciare a fare discorsi complicati. Godiamoci ‘st’aperitivo in santa pace.. G. – è che mi pare esistere un modo per godersi veramente la festa più vero rispetto ad altri, tutto qua. R. – Se è così, la cosa mi interessa. G. – Beh, proprio la constatazione – come in fondo tu hai potuto verificare quest’estate – che ogni giorno c’è una festa rischia di farci perdere di vista il senso della festa e questo è un bel problema. R. – Francamente, non vedo dove sia il problema. G. – Il senso della festa non si esaurisce nel godimento di ciò che viene festeggiato. Quel senso, se inteso in modo corretto, conduce al di là della festa. R. – Già, ma se conduce al di là della festa, come dici tu, significa che la festa è finita? G. – Ma no. Significa che la festa può farci vedere, può farci considerare delle cose che altrimenti non avremmo visto. Per fare questo, però, la festa non può essere qualcosa di totalizzante ed onnicomprensivo.

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R. – Scusa, ma che cacchio significa totalizzante e onnicomprensivo? G. – In parole povere, significa che ci sono degli argomenti che possono essere colti veramente se si apre lo sguardo, se si prova a guardare oltre. È una cosa che scrive Josef Pieper in un libro che dovresti leggere. R. – No, per carità. Mi vedi a leggere un libro di filosofia? G. – In effetti, non ti vedo. Ma forse potrebbe essere utile R. – Io invece credo di no. Insomma, che cosa c’entra la filosofia con la festa? Possibile che i filosofi si debbano mettere in mezzo a tutto? È tanto semplice ammettere che ci sono tanti tipi di feste e che ognuno è libero di scegliersi la festa che vuole tutte le volte che vuole? Che c’è di male? G. – Quello che tu dici non è sganciato da una concezione più generale, ma anzi la esprime. L’idea secondo cui esistono diverse scelte dotate di uguale valore è una idea vecchiotta. Proprio mentre pensi di agire, rivendicando con orgoglio la distanza da qualsiasi atteggiamento riflessivo, ci sei invischiato dentro. Con la differenza, che non lo sai. R. – Sarà come dici tu, ma io mi trovo benissimo. G. – Non sei l’unico. È una cosa che riguarda la gran parte delle persone. R. – E quindi, qual è il problema? G. – Ricca’, tu sostieni una cosa chiamata “relativismo”. R. – è grave? G. – Il problema del relativismo è che, mentre sostiene che tutte le scelte e tutte le opzioni teoriche hanno uguale valore, deve, per poter esistere ed essere considerato valido, fondarsi sull’idea che almeno una di

queste opzioni, la sua, sia più valida delle altre. Se ciò non fosse, dal punto di vista logico, l’intero castello crollerebbe. R. – Non ci ho capito nulla.. G. – Non è complicato: per poter sostenere che tutte le cose hanno uguale valore, il relativismo ha bisogno che almeno una di queste cose non sia equivalente alle altre, non abbia cioè lo stesso valore delle altre.. R. – .. si trovi su un gradino più alto, diciamo. G. – Esatto, bravo! Questa cosa che deve trovarsi su un gradino più alto, cioè che deve valere più delle altre è il relativismo stesso. Mentre afferma che tutto ha uguale valore, il relativismo nega che tutto ha uguale valore. Capito ora? R. – Mi sembra di sì. Ma da questo cosa deriva? G. – Deriva una cosa semplice: che puoi continuare quanto vuoi a credere che ciò che pensi sia vero, solo che stai credendo ad una cosa senza fondamento. R. – Cazzarola.. A questo non avevo mai pensato.. Ma come siamo arrivati qua? A proposito di che cosa? G. – Siamo arrivati qua perché ci stavamo chiedendo se tutte le feste si equivalgano ed io ti stavo parlando di un libretto che ho letto qualche tempo fa. R. – Beh, e che dice questo libretto? G. – Pieper, l’autore del libretto, spiega che la festa è un modo per raggiungere l’autenticità. R. – Ah, sì, la vita autentica, come il libro di quel teologo, come si chiama.. G. – Mancuso R. – Ecco sì, Mancuso. Me l’hanno regalato, ma non l’ho letto. G. – Mancuso dice che anche la


condizione sociale, le stesse relazioni possono diventare luoghi dell’inautenticità quando sono la casa della menzogna. Vivere nella menzogna può essere qualche volta comodo, poi però arriva un momento nella vita in cui ti guardi indietro e, nonostante tutti gli eventuali successi che puoi aver raggiunto, ti accorgi che non rimane niente di vero. Quando sei arrivato al punto in cui la menzogna è tutta la tua vita, allora.. R. – Allora, è proprio un casino.. Ho fatto bene a non leggere ’sto libro, che tristezza, Madonna santa! G. – Non è che il libro sia triste è che fa un’analisi di alcune situazioni.. R. – No, no, parlami di questo libretto che hai letto tu che parla della festa. G. – Ah, sì, ecco, secondo Pieper nella vita si può vedere più o meno bene, più o meno profondamente nelle cose. Vedere di più o vedere di meno non sono la stessa cosa, no? R. – Beh, sì, c’è una bella differenza. G. – Questa capacità di vedere meglio le cose, non è soltanto una capacità dell’intelletto. C’è dentro anche una disponibilità a cercare un accordo, chiamalo sentimento, con quello che vedi. É un concetto di cui aveva scritto anche Teilhard de Chardin “essere di più è unirsi di più ... la unità cresce solo se è sorretta da un accrescimento di coscienza”. Insomma, nelle cose che ci stanno di fronte è possibile cogliere un valore aggiunto. R. – Quindi, se ho capito, parlare di valore aggiunto è come dire che non tutte le vie si equivalgono e che c’è una via più umana rispetto alle altre? G. – Sì, è così, bravo! A questo aggiungi, che, secondo Pieper, que-

sta via è raggiungibile partendo dalla festa. R. – Non ho capito però dove si arriva seguendo questa via. G. – Se ci si allena a distogliere lo sguardo dalle cose mutevoli per cercare ciò che resiste ad ogni mutamento, ciò che i filosofi chiamano l’essenza delle cose, allora si è acquisita una disponibilità alla contemplazione. R. – Contemplazione?!! Ma allora è una cosa da preti! G. – Senti, mi sono scocciato. Basta, non parliamone più. Qualsiasi cosa ti dica, mi sembra che ti rimbalzi sopra. R. – Eeeehh, come siamo suscettibili! No, veramente, mi interessa. Qual è il senso del discorso di Pieper? G. – Secondo questo filosofo, è possibile festeggiare in senso autentico non partendo dal motivo di una festa. Il motivo è sì importante, ma non è la cosa più importante. R. – E qual è la cosa più importante? G. – La cosa più importante è raggiungere, tramite ciò che prima chiamavamo contemplazione, un consenso con il mondo. Lui dice un “consenso universale, che si estende al mondo intero, alla realtà delle cose e alla stessa esistenza umana”. R. – Non è per prenderti in giro, ma a parte il fatto che ho parecchi dubbi su questa cosa della contemplazione, non vedo come si possa concordare con questa teoria. Insomma, ammesso e non concesso che si riesca attraverso la contemplazione a vedere il senso di tutte le cose, tu veramente credi che si possa essere d’accordo con il senso, cioè che si possa gioire con il senso delle cose? G. – Spiegati meglio, per favore.

R. – Ma, dico, siamo matti?! A me sembra che la realtà sia in generale negativa. Come si può pensare, ragionando seriamente, di potersi accordare con la realtà? Di gioire con la realtà nella realtà? C’è forse bisogno di fare un elenco delle cose che non vanno in questo mondo? G. – In effetti, di questo parla Pieper quando dice “celebrare una festa significa: celebrare per un motivo speciale e in modo inusuale l’approvazione del mondo già data da sempre”. R. – Senti, questa teoria non è credibile, razionalmente parlando. G. – Effettivamente, c’è un elemento di fiducia, di affidamento verso la bontà del senso del mondo. Per vedere, per sentire questa fiducia, bisogna allenare lo sguardo e questo lo si può fare solo se si recupera il senso autentico della festa. R. – Io penso invece che siccome il mondo non va, in senso generale, si deve ogni tanto allontanarsi da questo mondo, prendersi una pausa. È questo il senso vero della festa. G. – Io penso che ci sia da fare i conti con una sensibilità sismografica. R. – E che sarebbe? G. – Mah, è un po’ quello che ti dicevo agli inizi. Ci sono delle cose che possono essere viste integralmente se si guarda più lontano rispetto alle cose stesse. La festa è una di queste cose. Se non si acquisisce uno sguardo diverso sulla realtà, è difficile raccapezzarsi. Solo così la festa è festa, malgrado tutto. R. – Sì, vabbè, lo sguardo diverso, la sensibilità sismografica. Mah... Forse hai ragione tu, non so. A me sembrano solo teorie, complicazioni inutili. E poi, diciamocela tutta, vuoi mettere ’sto Pieper con la sagra della municeddha?!

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Alberta Giani

sul viaggio

N

on so bene perché la festa mi abbia fatto pensare al viaggio. Forse perché il viaggio è azione, non solo e non tanto del corpo, ma, soprattutto, è azione emozionata. È ricerca dell’altro e, contemporaneamente, ricerca di sé. È stare bene con se stessi, con gli altri, in altri luoghi, con altri profumi, colori, sapori. È gioia dei sensi. Benessere e fatica, ma di quella buona, che fa sorridere e placare, almeno per un attimo, l’inquietudine che ci spinge verso il nuovo, lo sconosciuto, il diverso. Ma si può viaggiare anche con un libro, un film, un’immagine. È sempre un attraversamento, un’immersione in altre storie, altre voci, altri mondi, altre culture. Il viaggio come la festa richiedono scelta, attesa, tempo, lentezza; richiedono partecipazione ad un evento, un rito, un’ esperienza da vivere, percepire, costruire come significativa, tale da trasformarsi in narrazione di sé. Esperienza, quindi, che non rimane sulla superficie delle cose, fine a se stessa, da consumare rapidamente, ma che scava in profondità e modifica il nostro modo di essere nel mondo. Mi sembra quindi che il viaggio e la festa trovino il loro senso e si manifestino come un gioco di equilibrio, tra interno ed esterno, che si srotola lungo una linea di demarcazione, un confine chiamato cultura.



“L’abilità non sta tanto nell’organizzare una festa, ma piuttosto nel trovare coloro che si rallegrino in essa”. Sono ancora attuali le parole di Nietzsche per descrivere la situazione in cui oggi ci troviamo di fronte al dilagare delle pratiche (sagre, cerimonie, celebrazioni, anniversari...) in cui una festa può prendere forma? La festa, se intesa conformemente alla sua etimologia, indica la festosa accoglienza nel focolare domestico ed un’occasione gioiosa di allontanamento dalle fatiche quotidiane per ritrovare il centro di se stessi. Inoltre, la festa, nella tradizione storica del suo utilizzo e nella sua realizzazione pratica, comprende anche l’idea della relazione, dell’ingresso in un intreccio di rapporti, della messa a confronto e della riconfigurazione delle identità. Questo orizzonte sembra tramontato in un contesto in cui la festa è piuttosto vissuta come sinonimo di divertimento fine a se stesso, in cui lo sguardo avvertito può cogliere in tutta la sua problematicità la forza centrifuga del de-vèrtere, letteralmente del distogliere, dell’allontanarsi dal centro, dello stordimento, dell’alienazione. Sembra avverarsi, dunque, l’annuncio di Pascal quando osservava “L’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento e intanto questa è la maggiore delle nostre miserie”. Vogliamo allora interrogarci sul significato autentico della festa, sulle sue declinazioni possibili, sui modelli che stanno alla base della sua deriva, ma anche esplicitare le potenzialità ancora sopite di un fenomeno in cui è ancora dato cogliere, senza rassegnazione alcuna, il bello dell’essere donne e uomini di questo tempo


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