9 788874 025329
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OTTOBRE-DICEMBRE 2009 Poste taliane s p a. - Spedizione in Abb. Postale - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB (TORINO) 3 2009 € 10,00
EUGENIO BORGNA CARLO SINI MASSIMILIANO PADULA ENRICO MENDUNI CLAUDIA PEDONE OLIVIER ABEL ENZO NATTA PAOLO PERRONE PAOLA COPPI VITTORIO POSSENTI ARMANDO MATTEO SILVANO AGOSTI RUI PEREIRA GIUSEPPE CUTRONE HANS HURCH GIANCARLO GIRAUD GABRIELE PEDRINA SILVIO GRASSELLI COSIMO M. ARGENTIERI SANDRO MANCINI SAMANTHA MARENZI MARIA PIA D’ORAZI CARLO FORMENTI GRAZIA PAGANELLI GIULIA TOSSICI DAN ZAHAVI GIANNI AMELIO STEFANO RODOTÀ WERNER HERZOG
forme di espressione
IBRIDE
YOD. CINEMA, COMUNICAZIONE E DIALOGO TRA SAPERI www.yodonline com ANNO I N. 3 OTTOBRE - DICEMBRE 2009 ISBN 978-88-7402-532-9 Poste Italiane s p a. Spedizione in Abb. Postale D.L. 353/2003 - (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, DCB (TORINO) - 1-2/2009 Registrazione Tribunale di Roma n. 567/99 del 1-12-1999 Direttore responsabile Dario Edoardo Viganò vigano@yodonline.com Direttore editoriale Giovanni Scarafile direttore@yodonline.com Direzione Giovanni Scarafile Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Università del Salento Via V.M. Stampacchia - 73100 LECCE Tel. +39.0832.294662 | Fax +39 0832.294626 Proprietà ACEC Presidente ROBERTO BUSTI Segretario Generale FRANCESCO GIRALDO Segreteria Generale acec@acec it Redazione ACEC Via Nomentana, 251 00161 ROMA Tel. +39.06.4402273 | Fax. +39.06.4402280 redazione@yodonline.com Editore Effatà Editrice Via Tre Denti, 1 10060 Cantalupa (TO) Tel. +39.0121.353452 | Fax +39 0121.353839 info@effata.it | www.effata it Hanno collaborato: SANDRO Mancini, carlo sini, giulia tossici, massimiliano padula, claudia pedone, enzo natta, grazia paganelli, samantha marenzi, carlo formenti, paola coppi, vittorio possenti, silvio grasselli, cosimo massimo argentieri Progetto grafico, impaginazione e illustrazioni Roberta Pizzi grafica@yodonline.com | www robertapizzi.com Stampa Publistampa Arti Grafiche s n.c. di Casagrande Silvio & C. Via Dolomiti 12 | 38057 Pergine Valsugana (TN) Abbonamenti Rivista quadrimestrale – 1 numero € 10 00 Abbonamento annuo ITALIA 3 numeri € 24,00 Numero arretrato € 20 00 Abbonamento annuo ESTERO (Zona 1) 3 numeri € 60,00 Abbonamento annuo ESTERO (Zona 2 e 3) 3 numeri € 78,00 c.c.p. 33955105, intestato ad Effatà Editrice IBAN IT66 X030 6930 7501 0000 0063 668 Crediti fotografici Le immagini e le illustrazioni delle pagg. 1, 19, 39, 67, 81, 91 sono di proprietà di YOD. Per le altre immagini l editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici, è a disposizione per l assolvimento di quanto occorre nei loro confronti. Foto di copertina Devilish wings for an Angelic flight | 24 giugno 2009 | Carlo Nicora | licenza Creative Commons Foto terza di copertina I Was Working In The Lab Late One Night | 2 febbraio 2009 | CarbonNYC / David Goehring | licenza Creative Commons
Giovanni Scarafile Carlo Sini
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Dan Zahavi
16
Massimiliano Padula
26
Enrico Menduni
32
Olivier Abel
36
Enzo Natta
46
Paolo Perrone
48
Grazia Paganelli
50
Werner Herzog
52
Samantha Marenzi
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Maria Pia D’Orazi
58
Carlo Formenti
64
Stefano Rodotà
67
Paola Coppi, Vittorio Possenti
72
Armando Matteo
75
Eugenio Borgna
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Silvio Grasselli
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Gianni Amelio
91
Cosimo Massimo Argentieri
94
Sandro Mancini
Editoriale A partire da Merleau-Ponty Per una genealogia delle forme ibride
Riflessioni sul mondo dimenticato Colloquio di Giulia Tossici The body is obsolete. Note su ambiente, ibridazione e convergenza mediale Le identità episodiche nello scenario dei media a cura di Massimiliano Padula Deviazioni di percorso. Il valore euristico della mis-comprensione Colloquio di Claudia Pedone Un cinema de-genere? Presenza ed attualità della ibridazione nel cinema contemporaneo L’ibridazione, testimonianza di una esistenza
Di ibrido e contaminazione. Le forme dinamiche nel cinema di Werner Herzog Il cinema come trasformazione del mondo a cura di Grazia Paganelli Autoritratto. Dal dentro del corpo L’attualità del butō a cura di Samantha Marenzi Marx torna in America? Utopie del collettivismo online Uno sguardo sul presente a cura di Carlo Formenti Dialogo sulla mistica
In cammino verso l’indicibile a cura di Paola Coppi Ricomporre l’intero Colloquio di Giovanni Scarafile Con il cinema nel cuore. Forum con Hans Hurch, Silvano Agosti, Rui Pereira, Giuseppe Cutrone, Giancarlo Giraud, Gabriele Pedrina Lo spettatore onnivoro. Intervista di Silvio Grasselli L’ultimo scoglio
editoriale
Giovanni Scarafile
È
capitato a tutti, almeno una volta, di immaginare di portare indietro le lancette dell’orologio e di concepire con la fantasia cosa sarebbe potuto succedere prima di un determinato evento. In realtà, una tale proiezione a ritroso può essere riferita non soltanto a momenti della propria vita, ma alle stesse forme del comunicare, accantonando momentaneamente le consuete modalità espressive. Non è semplice né immediato attuare un tale svuotamento dal momento che noi abitiamo e siamo, per così dire, installati all’interno di determinate forme di espressione che costituiscono il nostro ambiente consueto. Perché, allora, dovremmo produrci in un esercizio che non si annuncia facile? Qual è il guadagno, esattamente? Esistono probabilmente molte risposte, ma la più indicata in questo caso è una sola: autenticità. Quanti non si sono mai interrogati sull’autenticità di un determinato comportamento, di una particolare frase pronunciata, di uno specifico testo? A quanti non è successo almeno una volta di trovarsi di fronte interlocutori le cui modalità comunicative ci autorizzassero a pensare ad una tragica mancanza di personalità? Le accennate forme di espressione in cui solitamente stazioniamo sono intanto i modi di dire, i clichés, i luoghi comuni, o quelle determinate rappresentazioni visive, le icone per esempio, che si sedimentano nella memoria come eventi comunicativi difficilmente sostituibili e che pertanto noi utilizziamo, il più delle volte inconsapevolmente, nei nostri consueti scambi comunicativi. Tuttavia, ciò cui alludo ha una portata ben più ampia e soprattutto molto più prossima a ciascuno di noi. Un esempio? Un ragazzo, che per dire il suo amore alla fidanzata, usasse sempre le stesse parole sarebbe, progressivamente, sempre meno significativo e gli si dovrebbe probabilmente consigliare di reinventare le modalità della sua comunicazione. “Reinventare” significa riattingere alle fonti, trovare di nuovo nel sentimento da cui quelle parole nascevano una nuova linfa per forme inedite in grado di dire il suo amore. Eppure - potrebbe essere l’obiezione del nostro giovane amico - tecnicamente, le parole usate sono sempre le stesse. Perché, da un certo punto in poi, non funzionano più? Ciascuno di noi è un po’ come il ragazzo innamorato dell’esempio. L’efficacia della nostra comunicazione dipende dal livello di originalità che imprimiamo alle forme espressive che utilizziamo. Ogni espressione è la traduzione di un’intenzione significante all’interno di un involucro formale, l’espressione appunto, in un tempo determinato. È per questo che essa ha una durata specifica, un termine entro il quale produce i suoi effetti ed oltre il quale inizia una progressiva erosione della sua significatività. Ciò detto, risulta forse più facile rispondere alla domanda sui motivi per cui dovremmo proiettarci a ritroso alla ricerca dell’intenzione significante che produce le nostre forme espressive. Il motivo principale è che molto spesso corriamo il rischio di comunicare per stereotipi, avvalendoci cioè di schemi fissi, che non ci appartengono semplicemente perché sono stati individuati da altri prima di noi e che potrebbero non essere in grado di dire con la dovuta forza ciò che vogliamo comunicare. In estrema sintesi: spesso comunichiamo male proprio mentre siamo convinti del contrario. Divenire consapevoli di quanto precede ci mette di fronte alla possibilità di rintracciare i fili di una comunicazione che rischia altrimenti di disperdersi in mille formule preconfezionate. È qui che ha inizio quel movimento all’indietro delle lancette dell’orologio comunicativo, quel movimento inverso che, se istituito, potrebbe consegnarci il criterio per verificare il livello di fedeltà all’originario di ogni comunicazione. Risalire la corrente, approdo non scontato, ci metterebbe per così dire di fronte
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a quella prima scintilla della comunicazione, l’intenzione significante, che Merleau-Ponty definiva «una mancanza che cerca di colmarsi», alludendo bene, mi pare, alla forza insita nel processo che porta ciascuno di noi a superare l’immanenza fusionale con l’ambiente per il tramite, o forse sarebbe meglio dire, “dentro” un’espressione che dice l’individualità di una inserzione nel mondo nell’atto stesso di esprimerlo. Qual è il nesso tra ritorno all’originario ed ibridazione delle forme espressive? Ad un livello molto generale, “espressione ibrida” indica quell’espressione che, proprio per essere fedele alla forza originaria da cui scaturisce, non può farsi bastare l’appartenenza ad un unico genere di riferimento. Da questo punto di vista, essa possiede una sorta di incontenibilità, una eccedenza in grado di mantener desta la sua carica sovversiva. Essa è quell’intenzione significante che intanto partecipa ad una forma in quanto a quella forma si sottrae in un anelito di fedeltà a ciò da cui è scaturita. Ciò che abbiamo voluto fare in questo numero della rivista è di interrogarci sulla struttura delle forme di espressione ibride, sulle loro applicazioni nei diversi ambiti della vita. È per questo che abbiamo interpellato specialisti delle diverse discipline, dal cinema al giornalismo, dalla psichiatria alla danza, dagli studi sul web alla filosofia. Questa ricerca comune ha consentito di svelare particolari per certi versi insoliti: per esempio, la ricerca della fedeltà della forma espressiva alla cosa da dire può seguire la via della somiglianza, ma anche la via opposta, la dissonanza, come nel caso del linguaggio di alcuni mistici. Interrogarsi sul linguaggio della mistica o, facendo un altro esempio, riflettere sullo statuto della miscomprensione rivela allora non soltanto un interesse specifico “di settore”, ma un’attenzione più generale nei confronti delle modalità assunte dal fenomeno delle forme ibride. Ed ancora: qual è la genealogia delle forme di espressione ibride? Se l’ibrido presuppone le distinzioni, che cosa presuppongono a loro volta le distinzioni? Davvero le espressioni ibride sono in grado di dire con maggiore efficacia il nostro vissuto? Può l’ibridazione essere una modalità per leggere le trasformazioni tecnomediali in corso? Quale presenza di categorie ibride è possibile scorgere nel cinema? Qual è il rapporto tra ibridazione e il linguaggio della mistica? Quali sono le conseguenze di un approccio metodologico che riesca a mettere al centro l’uomo nella sua interezza e complessità? La pagine di questo terzo numero di YOD testimoniano, anche dal punto di vista iconografico, una ricerca corale. Come nel mito omerico, Bellerofonte andava in cerca della Chimera, così noi, grazie all’indispensabile apporto degli esperti coinvolti, abbiamo cercato di capire se le forme di espressione ibride rappresentano una realtà o soltanto un sogno incompiuto.
2. Fare sistema. Già nello scorso editoriale, annunciavo che una delle attenzioni costanti della nostra rivista sarebbe stata il tentativo di stabilire un contatto tra i luoghi canonici di elaborazione delle teorie del comunicare (i centri di ricerca, le Università) e i contesti dove le pratiche del comunicare vengono effettivamente esperite. Mi sembrava, infatti, che fosse possibile cogliere una sorta di slabbratura tra i due ambiti, talvolta orgogliosamente professata da entrambe le parti, laddove invece sarebbero auspicabili raccordi e sinergie, anche ai soli fini di un perfezionamento delle rispettive specificità. Uno dei risultati di questa separazione è l’isolamento, anche mediatico, cui si rischia di andare incontro nel momento in cui si sceglie, consapevolmente o meno, di non “fare sistema”. Dal punto di vista della comunicazione, un tale esito non fa che accentuare gli effetti perversi di una situazione in base alla quale non è tanto l’intrinseca significatività di una proposta culturale a farsi spazio, quanto il sapiente lavoro degli uffici stampa. Il più delle volte, molte proposte culturali, di per sé significative, sono condannate all’oblio conseguente la man-
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cata diffusione sugli organi di informazione nazionale. Di fronte a questa situazione, l’unico sbocco informativo possibile rimangono i periodici locali che assolvono un compito molto spesso considerevole. Tuttavia, è proprio la peculiarità di una distribuzione riferita ad un bacino di utenza geograficamente limitato, a fare dell’informazione locale una opzione marginale e purtroppo ininfluente rispetto a dinamiche di più largo raggio. Che cosa accadrebbe invece se si provasse a dare ascolto soltanto alle significatività delle proposte, prescindendo da fattori estrinseci? È quello che abbiamo provato a realizzare in questo numero di YOD in riferimento al cinema considerato nelle sue varie articolazioni (qualità della proposta, attenzione al pubblico, testimonianza di un impegno). Quando si adotti una tale prospettiva, si giunge a risultati di grande fascino in cui per fare un solo esempio, l’esperienza di una sala della Comunità di un quartiere periferico di Bari non ha meno da dire di un’affermata rassegna filmica europea.
3. Il bivio. I mesi trascorsi dalla pubblicazione del primo numero di YOD sono stati pieni di attestazioni di stima, di incoraggiamento ed anche, se è lecito dire, di “affetto” nei confronti di una iniziativa editoriale da più parti segnalata come inedita. Il punto di partenza nella concezione del progetto editoriale è stato il realismo, se mi si passa il termine. Oggigiorno infatti riferirsi alla comunicazione è riferirsi a questioni di per sé complesse. Complessità significa prima di tutto stratificazione, cioè unione di più elementi che rendono l’interpretazione di un fenomeno, la comunicazione nel nostro caso, non un fatto immediato, ma un esercizio. Non conosco un altro modo per affrontare la stratificazione delle questioni che non passi attraverso la fatica del pensare. Al tempo stesso, conosco quella tentazione di far finta che la complessità non esista o che possa essere “bevuta” in modo indolore. Queste parole fotografano un bivio, né più né meno. Siamo convinti che la complessità non possa essere aggirata, soprattutto in un momento in cui torna a farsi sentire con autorevolezza la voce di una emergenza educativa. La mission di YOD sta nella convinzione che la complessità, lungi dal tramutarsi in alibi di un sempre possibile disimpegno dell’intelligenza, possa essere veicolata, cioè che si possa trovare un modo per far sì che ciascuno, contando prima di tutto sulla propria disponibilità, possa trovare un’introduzione agevole all’interno di questioni complicate. Questa convinzione non è tanto un generico auspicio, ma un progetto concreto, YOD appunto: è questo il motivo per cui proponiamo ai nostri Autori di configurare il proprio contributo in un determinato modo, dichiarando da subito quale sia la tesi che intendono argomentare, mostrando in un’apposita scheda i motivi di plausibilità della tesi opposta a quella sostenuta; è questo il motivo per cui chiediamo ai nostri Autori di includere, partendo dal proprio tema, rinvii tematici ad altri saperi; è questo il motivo per cui le interviste ospitate su YOD non sono solo carrellate di argomenti, ma veri e propri colloqui in cui due persone, l’intervistatore e l’intervistato, mettono in gioco non solo il proprio aspetto intellettivo; è questo il motivo per cui abbiamo voluto pensare ad uno specifico progetto grafico, non frequente nelle riviste culturali, che potesse esprimere la bellezza delle idee formulate. Mettiamo a disposizione tutti questi elementi, di contenuto e di metodo, perché sentiamo inderogabile il compito di una rinnovata testimonianza nel contesto civile e culturale a vivere responsabilmente il tempo che ci è dato, rifuggendo le facili esemplificazioni e inverando, oltre la logica degli schieramenti ideologici, quella fatica del pensare che dice, senza se e senza ma, la dignità di essere uomini. direttore@yodonline.com
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indice
contributors
SANDRO MANCINI
Sandro Mancini (Milano 1951) è professore ordinario di Filosofia Morale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo. Ha pubblicato, tra l’altro: “Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione” (1987, II. ediz. accresciuta: Mimesis, 2001), “Umano e nonumano tra vita e storia. Lévi-Strauss, Jonas e la ragione dialettica” (Mimesis, 1996), “Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti” (FrancoAngeli, 1996), “La sfera infinita. Identità e differenza nel pensiero di Giordano Bruno” (Mimesis, 2000), “L’orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty, Paci” (Mimesis, 2005; parte prima: “Sulle tracce note. Lettura di Experimentum Mundi alla luce di Spirito dell’utopia di Ernst Bloch”; parte seconda: “Fenomenologia e ontologia in Merleau-Ponty. L’Essere come invisibile fodera del senso del mondo”; parte terza: “Sentire la verità. Enzo Paci trent’anni dopo”).
A PARTIRE DA MERLEAU-PONTY
In quale contesto e quale significato assunsero le parole di Merleau-Ponty dedicate alle forme di espressione ibride? Una riflessione sull’attualità di un pensiero che ha saputo individuare le matrici della crisi della civiltà europea nell’autonomizzarsi delle forme di vita e delle istituzioni dal loro terreno precategoriale.
CARLO SINI
Carlo Sini è ordinario di Filosofia teoretica all’Università Statale di Milano. Accademico dei Lincei, membro dell’Institut Internatinal de Philosophie. Fra le sue opere: “Scrivere il silenzio” (Milano 1994), “Il silenzio e la parola” (Genova 1995), Etica della scrittura (Milano 1996), “L’ uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto” (Torino 2009).
PER UNA GENEALOGIA DELLE FORME IBRIDE
Se l’ibrido presuppone le distinzioni, che cosa presuppongono a loro volta le distinzioni? Un viaggio alla ricerca della genealogia delle forme ibride per scoprire che, essendo creature assegnate, come diceva Empedocle, alla estrema brevità di una vita mortale, a un’esistenza che sperimenta vivendo poche cose e di poche osserva le trasformazioni, siamo inevitabilmente indotti a “fissarci” su quelle forme che più ci caratterizzano e ci accompagnano nel cammino quotidiano.
DAN ZAHAVI
Dan Zahavi è Professore di Filosofia e Direttore del Danish National Research Foundation’s Center for Subjectivity Research dell’Università di Copenaghen.
RIFLESSIONI SUL MONDO DIMENTICATO
Il contributo nasce da un colloquio con Dan Zahavi, Direttore del Danish National Research Foundation’s Center for Subjectivity Research dell’Università di Copenaghen, tra i più autorevoli studiosi in campo internazionale di fenomenologia. Muovendo dall’esplorazione della vita pre-riflessiva del soggetto, il colloquio affronta il delicato intreccio tra identità e alterità e, con uno sguardo multidisciplinare, suggerisce un nuovo approccio alla fenomenologia dell’intersoggettività.
GIULIA TOSSICI
Dottoranda in “Forme e storia dei saperi filosofici nell’Europa moderna e contemporanea” presso l’Università del Salento. Giulia Tossici si è laureata in Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi sulla nozione di empatia nella fenomenologia husserliana. Attualmente dottoranda in “Forme e storia dei saperi filosofici nell’Europa moderna e contemporanea” presso l’Università del Salento, sta lavorando a un progetto di tesi sugli sviluppi in campo fenomenologico di una teoria dell’intenzionalità senso-motoria.
MASSIMILIANO PADULA
Massimiliano Padula (Taranto 1978), è professore di Comunicazione Istituzionale presso l’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense. Insegna materie sociologiche presso la Pontificia facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium” di Roma ed è membro del comitato direttivo e docente del Master in Giornalismo Internazionale organizzato dall’“Institute for Global Studies”.
THE BODY IS OBSOLETE NOTE SU AMBIENTE, IBRIDAZIONE E CONVERGENZA MEDIALE
Quali sono le conseguenze della fase di trasformazione tecnomediale in corso? La diffusione della rete e l’avvento di applicazioni innovative creano una nuova antropologia? Quali sono gli elementi caratteristici della nuova cultura della socialità favorita dalle tecnologie digitali? Il saggio prova a rispondere a questi quesiti cavalcando l’ipotesi di un ambiente (ri)creato e (ri)modellato dai media.
ENRICO MENDUNI
Studioso di radio, televisione e linguaggi multimediali, Enrico Menduni insegna Culture e formati della televisione e della radio all’Università di Roma Tre. È stato membro del Consiglio d’Amministrazione Rai. Ha pubblicato, tra l’altro, “Il mondo della radio” (2001), “Fine delle trasmissioni. Da Pippo Baudo a YouTube” (2007).
LE IDENTITÀ EPISODICHE NELLO SCENARIO DEI MEDIA
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OLIVIER ABEL
Olivier Abel è nato nel 1953 a Tolosa, allievo di Lévinas e Ricœur, insegna Etica presso l’Institut Protestant de Théologie a Parigi. Presidente del Fonds Ricœur, membro del CERPHI (Centre d’étude en rhétorique, philosophie et histoire des idées), del Groupe de Sociologie Politique et Morale all’EHESS e del Comitato consultativo nazionale di etica in Francia.
DEVIAZIONI DI PERCORSO. IL VALORE EURISTICO DELLA MIS-COMPRENSIONE
L’anelito alla piena comprensione si ritrova faccia a faccia con la sua ombra, è costretto a fare i conti con un vuoto di conoscenza. Ma questo vuoto, questa zona d’ombra, è soltanto un angolo da riempire o rischiarare, spostando infinitamente il limite delle nostre facoltà cognitive? O forse questo cono d’ombra, più che vuoto da esautorare, non è già esso stesso un di più di conoscenza?
CLAUDIA PEDONE
Claudia Pedone è dottoranda nell’Università del Salento, dove frequenta il corso dottorale in Etica e antropologia. Le sue ricerche ruotano principalmente attorno all’opera di Paul Ricœur, di cui ha approfondito l’aspetto epistemologico durante gli studi universitari. A Parigi ha collaborato con il “Fonds Ricœur” .
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ENZO NATTA
Giornalista, critico cinematografico di “Famiglia Cristiana” e di “Cronache & Opinioni”. Fondatore e direttore responsabile della rivista “Filmcronache”. Direttore della collana “Studi e ricerche” edita dall’Ancci (Associazione nazionale circoli cinematografici italiani). Fra i suoi ultimi libri “Uno sguardo nel buio – Cinema, critica, psicoanalisi” (Effatà Editrice) e “Una poltrona per due – Cinecittà fra pubblico e privato” (Effatà Editrice).
UN CINEMA DE-GENERE? PRESENZA ED ATTUALITÀ DELLA IBRIDAZIONE NEL CINEMA CONTEMPORANEO
Si rintracciano all’interno di alcuni significativi momenti del cinema contemporaneo i momenti salienti dell’azione di categorie ibride.
PAOLO PERRONE
Paolo Perrone è direttore della rivista “Filmcronache” e caporedattore del settimanale “Il nostro tempo”. Docente del Master in “Giornalismo, tecnologie e metodi per la comunicazione plurimediale” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro”.
L’IBRIDAZIONE,TESTIMONIANZA DIUNAESISTENZA
GRAZIA PAGANELLI
Grazia Paganelli (Caracas, 1972), critico cinematografico, è redattrice della rivista Filmcritica e scrive per le riviste Panoramiche, Sentieri Selvaggi, Il ragazzo Selvaggio. Al Museo Nazionale del Cinema di Torino si occupa della programmazione della sala di cineteca. Ha pubblicato i volumi Erich von Stroheim. Lo sguardo e l’iperbole (2000), Il vento e la città. Il cinema di Amir Naderi (2006), Segni di vita. Werner Herzog e il cinema (2008). Ha curato il volume Una diagonale baltica. Il documentario in Lettonia, Lituania e Estonia (2008), Manga Impact. The World of Japanese Animation (2009) (in corso di pubblicazione).
DI IBRIDO E CONTAMINAZIONE. LE FORME DINAMICHE NEL CINEMA DI WERNER HERZOG
Nell’opera di Werner Herzog l’immagine è per sua stessa natura ibrida, in quanto accoglie in sé innumerevoli tensioni e rimandi. L’immagine ha la ricchezza di un corpo multiforme, è insieme documento di realtà e testimone di invenzione in quanto, nel suo perseguire la verità dei fatti, si serve della loro trasfigurazione per cogliere nel profondo l’essenza delle cose del mondo e della natura. In tutti i suoi film Herzog ha più volte coniugato il concetto di “ibrido”, piegando le multiformi risorse dell’immagine e sfruttando con tutti i mezzi la loro “elasticità”.
WERNER HERZOG
Werner Herzog è produttore, scrittore, attore, regista per il teatro, il cinema e la tv. All’attore Klaus Kinski, suo alter ego, ha affidato parti da protagonista in pellicole che sono passate alla storia del cinema: Aguirre, furore di Dio (1972), Nosferatu – Il principe della notte (1978), Woyzeck (1979) e soprattutto Fitzcarraldo (1981) con il quale ha vinto la Palma d’Oro come Miglior Regista al Festival di Cannes. Tra le sue opere successive: Cobra verde (1987), Grido di pietra (1991), il film drammatico Invincible (1998) con Tim Roth e Udo Kier, e il film a episodi Ten Minutes Older – The Trumpet (2002), girato assieme ad artisti come Chen Kaige, Jim Jarmusch, Spike Lee e Aki Kaurismäki, nonché i documentari Grizzly Man (2005) e L’ignoto spazio profondo (2005). Fino agli ultimi My Son, My Son, What Have Ye Done (2009) e Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans (2009) in concorso al Festival del Cinema di Venezia.
IL CINEMA COME TRASFORMAZIONE DEL MONDO
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SAMANTHA MARENZI
Samantha Marenzi (Roma, 1975) - Fotografa, specializzata in stampa manuale in bianco e nero, realizza e organizza mostre in Italia e all’estero e insegna tecnica fotografica e di camera oscura. Laureata in Lettere – Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università Roma Tre, svolge attualmente un Dottorato di Ricerca presso la stesso Ateneo, con un progetto su Antonin Artaud. Dal 1996 studia con diversi maestri di danza Butō e nel 2000, con altri sei danzatori, fonda la compagnia Lios, con la quale produce spettacoli, mostre sulla danza, e organizza il Festival Internazionale di Danza Butō “Trasform’azioni” in collaborazione con il Teatro Furio Camillo.
AUTORITRATTO DAL DENTRO DEL CORPO
Il corpo visto, il corpo abitato. In profondità si intuisce il tempo, in superficie si scorge l’immagine. Dietro alle rappresentazioni della figura umana e sotto gli automatismi del corpo quotidiano, sopravvive un corpo abitato dalla memoria, dall’energia, dalla vita, apparso talvolta nelle pratiche artistiche che lo hanno mostrato nella sua versione performativa. Quale articolazione lega visione ed azione, forma e bios, sguardo e gesto? Nella pratica dell’autoritratto fotografico, che mette in scena il corpo di fronte ad un pubblico assente, e nella danza butō, che corrode le forme e sperimenta una nuova filosofia del corpo, troviamo possibili terreni di formulazione di queste domande.
MARIA PIA D’ORAZI
CARLO FORMENTI
STEFANO RODOTÀ
L’ATTUALITÀ DEL BUTŌ
MARX TORNA IN AMERICA? UTOPIE DEL COLLETTIVISMO ONLINE
UNO SGUARDO SUL PRESENTE
Giornalista. Laurea in Lettere e Dottorato al Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo dell’Università di Roma “La Sapienza”, dove ha svolto anche attività didattica. Specializzata sulla danza butō, ha pubblicato diversi articoli e saggi su riviste specializzate, ha diretto due Festival (Roma, 1998; Palermo, 2000), collaborato a una serie di progetti con la Japan Fondation (in Italia e Giappone) e organizzato performance di danzatori giapponesi per un decennio. Fra i suoi libri: Butō. La nuova danza giapponese (E&A Editori Associati, 1997), Kazuo Ōno (L’Epos, 2001), Scusi ma lei è qualcuno? Ferruccio Di Cori, uno psichiatra a teatro (Bulzoni, 2006), Il corpo eretico (CasadeiLibri, 2008). Ha lavorato per Il Foglio e attualmente è nella redazione di Otto e mezzo (La7).
Carlo Formenti (Zurigo 1947), si laurea in Scienze Politiche all’Università Padova. Nel 1980 inizia la carriera giornalistica come caporedattore del mensile culturale “Alfabeta” che successivamente prosegue con il settimanale “L’Europeo” e con il quotidiano “Il Corriere della Sera”, con il quale tuttora collabora. Dall’anno accademico 20022003, insegna Teoria e tecnica dei nuovi media presso il Corso di Laurea in Scienze della comunicazione della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Salento. Tra le sue pubblicazioni, si segnala: Incantati dalla Rete, Cortina, 2000; Mercanti di futuro, Einaudi, 2002; Cybersoviet. Cortina, 2008; Se questa è democrazia, Manni, 2009.
La parola socialismo ricorre oggi più spesso nei testi dei teorici americani della socialità online, che in quelli degli intellettuali europei di sinistra. Il contributo parte analizzando l’obiettivo con cui il termine viene usato in tale inedito contesto teorico: evocare una terza via, paradossale sintesi di individualismo e collettivismo. Prende poi in esame i tentativi europei di “tradurre” questi discorsi in un linguaggio più vicino alla tradizione marxista. Infine avanza una tesi radicale: la “terza via” non è altro che un discorso anarco - liberista che mira a legittimare le nuove modalità di appropriazione capitalistica della produttività del lavoro sociale
Nato a Cosenza (1933), si è laureato in giurisprudenza nel 1955 all’Università La Sapienza di Roma. Professore ordinario di Diritto civile, ha insegnato in molte università italiane ed europee, negli Stati Uniti, in Canada ed Australia. Per tre volte deputato, è stato Presidente del Gruppo Parlamentare della Sinistra Indipendente, membro della Commissione Affari Costituzionali e Vicepresidente della Camera dei deputati. Dal 1997 al 2005 è stato Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali. E’ tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Fra le opere più recenti, segnaliamo: “Tecnopolitica”(2004); “La vita e le regole” (2006); “Dal soggetto alla persona” (2007); “Perché laico” (2009).
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PAOLA COPPI
Paola Coppi (Bari, 1972) si è laureata in Filosofia con Roberto Finelli presso l’Università di Bari. Ha conseguito la specializzazione in Scienze della Cultura, presso la Scuola Internazionale di Alti Studi, Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Si è diplomata e ha conseguito il Magistero in Scienze Religiose, rispettivamente presso l’ISSR di Bari e di Verona. Attualmente insegna religione cattolica in alcuni istituti superiori di Verona.
VITTORIO POSSENTI
Vittorio Possenti è professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università di Venezia, dove dirige il Centro Interdipartimentale di Ricerca sui Diritti Umani (CIRDU). I suoi interessi includono l’ontologia metafisica, la politica, l’etica. E’ autore di 25 volumi e centinaia di saggi, tradotti in una decina di lingue. È membro del Comitato Nazionale di Bioetica e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
DIALOGO SULLA MISTICA
Sotto forma di dialogo, la discussione si concentra su alcune tematiche del pensiero della metafisica classica. L’esperienza mistica, riletta dal Dionigi Areopagita come alcune sue suggestioni sull’indicibilità e l’inconoscenza della Trascendenza offrono l’occasione per riflettere sulla capacità umana di giungere alla conoscenza intellettuale di Dio: la via negationis o la possibilità catafatica. Sia che si percorra l’una o l’altra via, in radice questa conoscenza richiede lo sperimentare “patendo”.
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ARMANDO MATTEO
Nato a Catanzaro (1970), ha studiato filosofia e teologia. Insegna presso l’Istituto Teologico Calabro e presso la Pontificia Università Urbaniana a Roma. È assistente ecclesiastico nazionale della FUCI.
IN CAMMINO VERSO L’INDICIBILE
EUGENIO BORGNA
Eugenio Borgna, nasce nel 1930 a Borgomanero, si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Torino, conseguendo successivamente la specializzazione in Malattie nervose e mentali. Libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali nell’Università di Milano e già direttore dell’Ospedale psichiatrico di Novara, è primario emerito di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara. Contemporaneamente alla sua attività medica, Borgna è venuto affermandosi come uno dei più originali scrittori e saggisti ed i suoi libri, oltre ad aver vinto numerosi riconoscimenti, hanno conosciuto numerosissime edizioni, mettendo d’accordo la critica.
RICOMPORRE L’INTERO
Qual è lo statuto della malattia mentale? Quale ruolo deve avere il terapeuta per ricostruire l’intero di ogni uomo?
GIOVANNI SCARAFILE
Giovanni Scarafile è Professore aggregato di Etica e deontologia della comunicazione nell’Università del Salento. Tra gli scritti, si segnalano: “La vita che si cerca. Lettera ad uno studente sulla felicità dello studio”, Effatà 2005; con Dario E. Viganò, “L’adesso del domani. Rifigurazioni della speranza nel cinema moderno e contemporaneo”, Effatà 2007; “In lotta con il drago. Male e individuo nella teodicea di G.W. Leibniz”, Milella, Lecce 2007; “Paroles entièrement destituées de sens”. Pathic reason in the Theodicee in M. Dascal (Ed.), “Leibniz: What Kind Of Rationalist?”, Spinger 2008.
CON IL CINEMA NEL CUORE HANS HURCH
Hans Hurch (1952) dal 1976 al 1986 è stato caporedattore e giornalista al Falter di Vienna, inviato e collaboratore di varie testate internazionali. Dal 1986 al 2000 è stato aiuto regista per il teatro e il cinema di Jean Marie Straub e Danièle Huillet. Dal 1993 al 1996 ha curato l’“Hundertjahrekino” per il Ministero Federale della Scienza e della Cultura, manifestazione celebrativa per i cento anni del cinema in Austria. Dal 1997 dirige la Viennale, Vienna International Film Festival.
SILVANO AGOSTI
Silvano Agosti (1938) si diploma nel 1962 al Centro Sperimentale di Cinematografia. Dopo aver lavorato con Marco Bellocchio alla sceneggiatura, i dialoghi, il montaggio de I pugni in tasca, nel 1967 esordisce con Il giardino delle delizie. Nel 1975 dirige con Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli Matti da slegare. Dal 1976 al 1978 è docente di montaggio al Centro Sperimentale. Nel 1983 apre a Roma il suo cinema, l’Azzurro Scipioni. Autore di cinema e di letteratura tra i suoi molti titoli anche i due romanzi poi divenuti film Uova di garofano e La ragion pura.
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RUI PEREIRA
Rui Pereira dirige insieme a Miguel Valverde e Nuno Sena l’IndieLisboa Festival Internacional de Cinema Independente
GIUSEPPE CUTRONE
Don Giuseppe Cutrone (1951) ha svolto incarichi pastorali nelle Parrocchie della Diocesi di Bari-Bitonto. è stato docente di religione nei Licei della Città di Bari. Dal 1993 è parroco nella parrocchia “Spirito Santo” in Bari S. Spirito. In questa zona della periferia Nord della città nel 1999 ha realizzato e inaugurato il cinema PICCOLO, sala della comunità. Attualmente è delegato regionale ACEC per la Puglia e la Basilicata.
GIANCARLO GIRAUD
Operatore culturale, si occupa da oltre 30 anni dei programmi del Club Amici del Cinema di Sampierdarena. E’ direttore artistico del Missing Film Festival, e di In mezzo scorre il fiume. E’ presidente regionale dei Cinecircoli Giovanili Socio-Culturali (CGS). Ha curato per Le Mani i volumi Ermanno Olmi – L’esperienza di Ipotesi Cinema(2001) e I giovani di Za – Il mondo e il Cinema di Cesare Zavattini. Conversazioni e pensieri (2006). Collabora dal 1993 alla redazione della rivista “Film D.O.C”.
GABRIELE PEDRINA
Gabriele Pedrina, sacerdote padovano, è attualmente responsabile del Servizio pastorale della comunicazione della sua diocesi. Ha diretto per sette anni Telechiara, emittente televisiva delle diocesi del Nordest ed è docente di Scienze della comunicazione sociale alla Facoltà teologica del Triveneto. Tra i suoi incarichi la direzione del Centro padovano della comunicazione sociale che ha in gestione il Multisala Pio X (Mpx) e programma un circuito di Sale della comunità distribuito nelle province di Padova, Vicenza e Verona.
SILVIO GRASSELLI
Dottorando in Cinema presso il Di.Co.Spe. dell’Università di Roma Tre, è saggista, critico cinematografico (carta stampata, web, tv) e filmaker. Selezionatore e organizzatore in festival e rassegne. Dal 1998 organizza e conduce seminari teorici e laboratori pratici sul cinema e su tecniche e linguaggi dell’audiovisivo per la scuola media superiore e inferiore.
GIANNI AMELIO
Gianni Amelio, dopo aver frequentato il Centro Sperimentale ed essersi laureato in filosofia, debutta dietro la macchina da presa nel 1970 con La fine del gioco. Vincitore del Nastro d’Argento come miglior regista per Porte aperte (1991), Il ladro di bambini (1993), Lamerica (1995), Le chiavi di casa (2005) e del Leone d’Oro per il miglior film a Così ridevano (1998), del David di Donatello come miglior regista per Il ladro di bambini (1992), è Direttore del Torino Film Festival.
LO SPETTATORE ONNIVORO
COSIMO MASSIMO ARGENTIERI
Cosimo Massimo Argentieri (1963), laureato in giurisprudenza, lavora in banca come consulente finanziario ed è inoltre impegnato nel recupero delle tradizioni naturali all’interno dell’azienda agricola da lui costituita. È autore di “Pan paniscus e Prunella Modularis”, romanzo in cui il protagonista vive con disagio la sua esperienza lavorativa; ma sarà proprio questa fatica mentale a restituirgli la sua sfera emotiva. Il suo sistema narrativo si articola attraverso tre stili, riferiti ai tre tipi di lettori secondo l’Enneagramma: istintivi, mentali ed emotivi.
L’ULTIMO SCOGLIO
“Vedi quello scoglio lontano, proprio sotto il paese ormai splendente di luci? Una volta, lì c’era solo la grande scogliera”. In uno stile ibrido, dato dalla oscillazione tra prosa e poesia, prendono vita gli elementi che in riva al mare dicono l’inserzione dell’uomo nella natura.
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Sandro Mancini
A partire da Merleau-Ponty Dallo studio delle essenze all’esistenza concreta, dal rapporto tra letteratura e filosofia alla crisi della civiltà europea. Yod ha incontrato Sandro Mancini, Ordinario di Filosofia Morale nell’Università di Palermo, per conoscere implicazioni e sviluppi del riferimento del filosofo francese alle forme di espressione ibride.
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n quale contesto fu scritto il saggio Il romanzo e la metafisica? È possibile ricostruire gli sviluppi che le tesi esposte in quel saggio hanno avuto? «L’articolo in questione fu pubblicato da Merleau-Ponty nel 1945 in “Cahier du Sud” e fu poi raccolto in Sens et non-sens tre anni dopo. Si presenta come un’ampia discussione del primo romanzo dell’amica (la rottura avvenne dieci anni dopo) Simone de Beauvoir, L’invitata, del 1943. In esso l’a. espone la sua posizione sul rapporto tra letteratura e filosofia, su cui in seguito tornerà più volte nell’arco del suo itinerario meditativo (interrotto da una morte improvvisa nel 1961), confermandola e apportando due nuove prospettive, a seguito dell’incontro prima con lo strutturalismo, poi con l’ontologia heideggeriana. L’impianto teorico dell’articolo è quello di Phénoménologie de la perception: l’opera più famosa di Merleau-Ponty, pubblicata nel 1945, fu composta contemporaneamente all’Essere e il nulla di Sartre, ed era già sostanzialmente conclusa nel 1943. Nella premessa del libro è formulata un’originale interpretazione in chiave esistenziale della fenomenologia di Husserl, che ne Il romanzo e la metafisica è sintetizzata come il tentativo “di formulare un’esperienza del mon-
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do, un contatto con il mondo che precede ogni pensiero sul mondo” (SNS, Garzanti 1974, p. 46). Proprio un tale compito – continua Merleau-Ponty – avvicina la filosofia fenomenologica alla letteratura: sia per il romanziere, sia per il filosofo si tratta anzitutto di ridestare l’esperienza antepredicativa, vissuta in prima persona, insieme alla sua tessitura concettuale. In seconda battuta, si tratta di presentarle al lettore senza occultarne lo sfondo originario da cui sono prelevate: sfondo costituito dalla dimensione magmatica e fluida ove senso e non senso sono ambiguamente intrecciati. Tematizzare tale mélange senza appiattirlo sull’univocità della coscienza rappresentativa, imperniata sull’astratta dicotomia di soggetto e oggetto, è appunto lo sforzo costante di Merleau-Ponty, che nell’ultimo testo incompiuto, Le visible et l’invisible, troverà espressione nella nozione di “carne” (chair), denotante l’Essere come una dimensione di promiscuità, intrecci, sopravanzamenti. All’inizio del saggio su L’invitata, MerleauPonty rileva che la narrativa europea, tra la fine ‘800 e gli inizi del ‘900, si è sempre più impregnata di filosofia, e questa a sua volta ha accolto al suo interno l’esperienza vissuta, assumendola come dimensione fontale della ricerca della verità: “Il primo segno di questo avvicinamento [i.e. tra letteratura e filosofia] è la comparsa di modi di espressione ibridi” (SNS, p. 45)». Ripensando al brano di Merleau-Ponty scelto
come leitmotiv di questo numero di YOD, soprattutto nell’allusione alla possibilità di incrociare i generi ai fini di una espressione più perfetta, più adeguata, più consona alla cosa da dire, mi pare si possa cogliere un punto di contatto con quanto lo stesso filosofo francese scriveva nelle pagine iniziali di Fenomenologia della percezione, allorquando osservava che «La fenomenologia è lo studio delle essenze, e per essa tutti i problemi consistono nel definire delle essenze: per esempio, l’essenza della percezione e quella della coscienza. Ma la fenomenologia è anche una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base delle loro fatticità». Cosa pensa in proposito? Lei considera attuali quelle riflessioni? «Merleau-Ponty non appiattisce il tema dell’ambiguità originaria del vissuto in una prospettiva vitalistica che si lasci alle spalle il rapporto tra fenomeno ed essenza, ma lo rimodula, soprattutto nella sua ultima fase, nei termini della reversibilità tra interno ed esterno, tra invisibile e visibile. Il “senso autoctono” conficcato sul suolo delle sensibilità primordiale del mondo-dellavita è declinato dall’ultimo Merleau-Ponty non solo nel registro della pienezza e dell’immanen za, ma anche in quello dell’assenza e della trascendenza. Merleau-Ponty utilizza il termine pli (piega) per indicare la fenditura originaria in cui l’indivisione primordiale della chair si articola nella opposizione di ‘dentro’ e ‘fuori’. Questa
blackboard Donà M.; Toffolo R. (curr.), L’ agenda della filosofia 2010. Un anno per pensare... il corpo, Bompiani L’”Agenda” è dedicata a una questione cruciale per tutto l’Occidente, sin dalle sue origini - è antichissimo, infatti, lo scontro tra prospettive assolutamente antitetiche in relazione a questo concetto. Da una parte, infatti, si cominciò a ipotizzare la sua funzione coercitrice - da cui l’idea del corpo come prigione dell’anima. Dall’altra, invece, il corpo sarebbe stato pensato e vissuto come espressione immediata della verità della cosa o della persona che in esso si manifesta. Certo, per lungo tempo sarebbe rimasto dominante l’anelito dell’anima a liberarsi dalla gravita del corpo; d’altro canto, non va neppure dimenticato che, all’interno della spiritualità cristiana, un ruolo tutt’altro che irrilevante sarebbe stato giocato appunto dall’evento dell’incarnazione (in Cristo, Dio padre s’è fatto carne e corpo). Dopo Nietzsche l’Occidente sarebbe tornato a interrogarsi sul corpo iniziando a tematizzare con forza l’assoluta centralità di tale nozione, senza la quale appare ormai impossibile qualsivoglia comprensione del tormentatissimo Ventesimo secolo. Muraro Luisa, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori Narra un antico testo persiano che quando Giuseppe fu messo in vendita dai suoi fratelli si presentarono molti compratori, tra cui una vecchia che stringeva alcuni gomitoli di lana.”Anima semplice” le disse il sensale “come puoi comprare un simile gioiello di schiavo con i tuoi gomitoli?” “Lo so che non potrò comprarlo” rispose la vecchia “ mi sono messa in fila perché amici e nemici possano dire: anche lei ci ha provato”. La vecchia, spiega Luisa Muraro nelle prime pagine del suo nuovo libro, è un esempio dell’anelito di chi cerca e, pur sapendo che non potrà mai raggiungere lo scopo, non rinuncia ad avvicinarsi. Cosa sarebbe, infatti, la vita senza grandi desideri? Nella cultura che cambia senza andare avanti, in un’economia che si espande ma non fa crescere né la gioia né il senso di sicurezza, nella vita che sembra tutta un mercato, con l’umanità stretta fra il troppo e troppo poco, traspare l’intuizione che il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare, nonostante ci capiti spesso di fare l’esperienza di una loro apparente, reciproca estraneità. Come per la vecchia della lana, ci sono tanti modi di “andare al mercato”, scrive Luisa Muraro, contro la parzialità della ragione e a difesa delle “illusioni” che la poesia e la religione ci aiutano a intrattenere oltrepassando il livello del conformismo, forti nella certezza di essere destinati a qualcosa di grande. Heller Ágnes, La bellezza della persona buona, Diabasis I saggi raccolti nel volume documentano una parte significativa della riflessione più recente della filosofa ungherese. L’elemento di continuità è dato da una progressiva apertura all’alterità. La presenza dell’altro e il rapporto con l’altro sono declinati in un primo tempo nel linguaggio della teoria dei bisogni e poi mediante la categoria della responsabilità. Ciò che si delinea nell’etica della personalità proposta da Heller è così una forma di individualismo che, lungi dal ripiegarsi in se stesso, trova un momento essenziale nell’incontro con l’altro. Sandri Fioroni Giancarla, Il canone Yin Fu Ching. Radice del taoismo filosofico, Zephyro Edizioni Vi sono in commercio molte traduzioni dell’opera che è conosciuta tramandata dal Maestro Lao-tzu, un poco meno per quanto fa riferimento agli scritti del Maestro Chuang-tzu, pochissimo è ciò che si conosce sotto il nome del Maestro Lieh-tzu. Questi tre eminenti Padri del Taoismo primitivo sono considerati come coloro che hanno dato, al Taoismo filosofico, le prime basi scritte. È quasi del tutto ignorato un piccolo canone che ci è pervenuto con il titolo Yin Fu Ching che possiamo tradurre come “Canone dell’invisibile e del visibile”. L’importanza di questo testo è data dal sostantivo “Ching” che nel nostro idioma viene tradotto semplicemente libro, mentre i Cinesi ritengono questi testi espressione di alta e antica tradizione. Per meglio comprendere la loro influenza, massima dopo massima, riporta delle voci riscontrabili nelle opere dei tre Padri del Taoismo, ovvero Lao-tzu, Chuang-tzu e Lieh-tzu. Lo Yin Fu Ching può considerarsi come sintesi dello
I Ching e dello stesso valore, che prima degli scritti dei tre grandi e primitivi Maestri, circolava oralmente. Alici Luigi, Cieli di plastica. L’eclisse dell’infinito nell’epoca delle idolatrie, San Paolo edizioni I “cieli di plastica” sono quegli idoli che promettono felicità, ma ingannano e schiacciano l’uomo: il Piacere, l’Avere, l’Apparire, ma anche la stessa Libertà o l’Amore di sé possono diventare un paradiso artificiale che rischia di trasformarsi in inferno. Vengono smascherati in questo libro due pregiudizi: il contrario della fede non è l’ateismo, ma l’idolatria; lo stereotipo del “crollo delle ideologie” nasconde in realtà il riemergere impetuoso di un’ideologia idolatrica. Il libro si articola in due parti. La prima, più breve, ha un andamento narrativo: due vecchi compagni di liceo, ormai sessantenni, ricevono uno strano invito da un terzo compagno, di cui avevano perso le tracce, entrato da anni in monastero. Si mettono in viaggio per andarlo a trovare e attraverso il viaggio e l’incontro rileggono la propria vita e condividono, da punti di vista opposti, ricordi e disillusioni. Il monaco, che è in fin di vita, promette un piccolo quaderno in cui proverà a mettere in ordine quel che è emerso nel loro colloquio. La seconda parte, più organica e ragionata, è il quaderno che viene inviato ai due amici, concepito come una specie di mappa delle idolatrie dominanti. Per mostrare che nessuno è esente da questo pericolo. Donà Massimo, I ritmi della creazione. Con CD Audio, Bompiani Le cose ci vengono incontro. E noi rispondiamo alla loro chiamata. Ma troppo spesso la nostra unica preoccupazione è quella di aver “ben inteso” che cosa sia quel che ci viene incontro. Una preoccupazione che ci guida anche in rapporto alle cosiddette opere d’arte. Si tratti di poesia, di arte visiva, di musica, ma si tratti anche di un’opera filosofica, o delle pagine di un testo religioso siamo tutti sempre istintivamente preoccupati di capire bene e non fraintendere. Facciamo di tutto per impadronirci del significato e di tenerlo ben a mente. Come se quest’ultimo fosse indipendente dal “modo” del suo presentarsi. E se fosse il caso di imparare a riconoscere, invece e innanzitutto, proprio il “ritmo” con cui l’essente sempre si fa esperire? D’altro canto, quello che siamo soliti chiamare “significato” non potrebbe neppure costituirsi, indipendentemente dal ritmo del suo manifestarsi; ossia, indipendentemente dalle movenze con cui si concede allo sguardo orizzontale dell’intelletto, costringendolo quasi sempre a bruschi volteggiamenti, sospensioni, curvature impreviste, andate e ritorni, obliqui attraversamenti. Troppo a lungo ci siamo accontentati di “comprendere” le cose dell’arte per il tramite di una catalogazione formale e stilistica, che ci ha consentito di rimuovere il fatto che l’opera si dà a noi, anche e innanzitutto, con un ritmo suo proprio e che forse proprio in quest’ultimo è custodito il suo enigma più profondo. (Con un contributo di Achille Bonito Oliva). Bodei Remo, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli Ognuno di noi è il risultato di un corpo ricevuto per eredità biologica e di stampi anonimi (lingua, cultura, istituzioni), le cui impronte rielabora in forma inconfondibilmente personale. A lungo, in Occidente, questi processi d’individuazione sono stati garantiti dalla fede nel loro inamovibile fondamento: l’anima immortale. Con la progressiva erosione di tale sostegno, ha inizio la consapevole costruzione dell’individualità mediante gli strumenti artificiali della politica e dei saperi scientifici. Attraverso tecniche di ingegneria umana, il potere, interiorizzandosi, rende il singolo più facilmente plasmabile, invadendone la coscienza. Nello stesso tempo, la disarticolazione e la scissione del presunto carattere monolitico della personalità permettono una sua diversa ricomposizione entro inediti orizzonti di libertà. Il libro analizza storicamente e teoricamente tali vicende avendo come sfondo il periodo che va dalla fine del Seicento alle soglie del presente, ma come primo piano la fase politica d’incubazione e di sviluppo dei fascismi e quella filosofica, scientifica e letteraria del fiorire di progetti di potenziamento o di negazione dell’individualità e di sviluppo delle scienze della vita.
consigli di lettura | filosofia 35
Sainte-Chapelle | 7 maggio 2009 | rwchicago | licenza Creative Commons
Per una genealogia delle forme ibride Carlo Sini
Can’t stop reflecting on Copenhagen | 10 giugno 2009 | Grozz / Imants Gross | licenza Creative Commons
DAN ZAHAVI Riflessioni sul mondo dimenticato Colloquio di Giulia Tossici
Massimiliano Padula
The body is obsolete
Note su ambiente, ibridazione e convergenza mediale 26
È ormai impossibile immaginare l’esistenza della famiglia umana senza [i media]. Nel bene e nel male, sono così incarnati nella vita del mondo, che sembra davvero assurda la posizione di coloro che ne sostengono la neutralità, rivendicandone di conseguenza l’autonomia rispetto alla morale che tocca le persone Benedetto XVI, Caritas in Veritate
Premessa di orizzonte Nel 1999 Roger Silverstone, scriveva che le «tecnologie emerse negli anni recenti […] fanno cose nuove. Offrono nuove possibilità» (Silverstone 2002: 118). Non si trattava di postulare la nascita di un insieme di nuove forme mass mediali, contrapposte ai tradizionali mezzi di comunicazione. Piuttosto si trattava di riconoscere come la digitalizzazione e l’informatizzazione abbiano rivestito l’universo della comunicazione mediata, innescando spinte al mutamento e all’ibridazione che non interessano l’uno o l’altro medium (il web o la televisione, la stampa o la telefonia mobile, ecc.) bensì il campo dei media tout court. Questo processo, che si potrebbe definire media 2.0, è detto altresì convergenza mediale, poiché in esso confluiscono dinamiche di produzione, distribuzione condivisione e consumo di contenuti tecnologicamente diversi e avanzati. Convergenza è però anche sinonimo di fusione linguistica, culturale, sociale. Il tema, beninteso, non è di per sé nuovo, né originale: si parla di convergenza mediale da almeno due decenni. La differenza fondamentale è che i vincoli tecnologici, sociali, economici e culturali che hanno a lungo caratterizzato questa fase di trasformazione tecnomediale non sono più sufficienti a definire una realtà che è in continua (ri)creazione, che si sta (ri) modellando attraverso vie inaspettate. Un
nuovo ambiente sta nascendo e, con esso, nuove identità. Un nuovo territorio sta germogliando nel quale l’individuo vivrà, nascerà, crescerà, si evolverà e morirà. Le tecnologie e gli affluenti socioculturali sono soltanto i frames di questo nuovo ambiente che è, anzitutto ibrido, in quanto frutto di innesti multiformi che riguardano non solo gli apparati tecnici, ma soprattutto l’eterogeneità dei suoi abitanti. Questi ultimi, soprattutto, vivono la fase temporanea e ignota della diaspora: se non vi sono già nati, stanno traghettando a ritmi e velocità diverse nel nuovo ambiente e, come ogni stadio migratorio, devono attivare meccanismi di adattamento, integrazione, assimilazione. L’esplosione di processi e prodotti tecnologici fertilizza il terreno già fecondo di questo nuovo ecosistema creando integrazione o, viceversa contrasto, repulsione. Proprio su questa antinomia tra adattati e sradicati tecnologici si giocheranno le sorti prossime del nuovo ambiente mediale, la sua consistenza ed il suo affrancamento definitivo come nuova condizione sociale determinante. Sostiene Silverstone: Non si può procedere nell’indagine sui media senza considerare la tecnologia, che costituisce ormai la principale interfaccia con il mondo, il mezzo attraverso il quale ci confrontiamo con la realtà. Le tecnologie dei media, riguardando sia il loro lavoro hardware sia quello software, hanno diverse forme e dimensioni, le quali ora stanno rapidamente e sorprendentemente cambiando spingendo molti di noi nel nirvana della cosiddetta era dell’informazione, ma lasciando altri a boccheggiare come vagabondi su un marciapiede, a rovistare nella spazzatura di software ormai obsoleti e sistemi operativi in disuso, o semplicemente ad arrangiarsi con la vecchia telefonia e la trasmissione analogica terrestre (Silverstone 2002: 118).
Il pensiero di Silverstone così come le riflessioni di celebri analisti (Cf. Fidler, 2000) che lo hanno preceduto, non colgono appieno l’essenza della tecnologia e l’impatto effettivo dei media sull’uomo e sul contesto sociale. Non si tratta unicamente di penetrare
il “nirvana dell’era dell’informazione” avendo imparato a digitare, a bloggare o inizializzare. La questione riguarda un fenomeno più insinuante, innervante, che non si limita soltanto ad influenzare costumi e consumi, ma genera nuovi comportamenti e nuove prospettive mentali. Scrive Derrick De Kerckhove: La televisione fornisce una sorta di realtà “mentale” fuori dal corpo e dalla mente. Mentre si guarda la televisione, se i propri pensieri non vagano altrove e se non si tiene in mano il telecomando, le immagini dello schermo sostituiscono le proprie. Si entra a far parte dell’immaginario collettivo e del pensiero anche esso collettivo che mette questo immaginario a disposizione. […] Quando guardiamo la televisione dobbiamo naturalmente trarre dalle immagini un qualche senso, sia pur minimo, sebbene non ci sia molto spazio per altre attività mentali. Il nostro compito consiste nell’interpretare la sequenza di immagini e di suoni come facciamo nella vita quotidiana: dobbiamo dare un senso a quanto avviene secondo per secondo (De Kerckhove 1996: 207).
L’affermazione del massmediologo canadese fa riferimento agli usi sociali del medium televisivo. Questo approccio risulta quanto mai propizio per decifrare la topografia dell’ambiente mediale. Una mappa concettuale da un lato, decisamente reale dall’altro, che vede nel passaggio dal vecchio al nuovo, il crocevia rivoluzionario del rapporto con i mezzi di comunicazione. Scrive La televisione non è più sola. Il nostro rapporto con uno schermo “oggettivo” è finito; i computer hanno introdotto un’intera serie di rapporti – interfacce – fra persone e schermi. Le nostre macchine parlano e si aspettano risposte. Non solo: dato che i computer intensificano e consolidano le relazioni fra tutti i media elettronici, i media elettronici stanno cambiando ed espandendo il terreno della psicologia umana. (De Kerckhove 1996: 207).
L’espansione e la diffusione dei media digitali incrementa, pertanto, i nessi
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Paris - metro in motion | 4 giugno 2007 | makeshiftlove | licenza Creative Commons
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OLIVIER ABEL Deviazioni di percorso
Il valore euristico della mis-comprensione Colloquio di Claudia Pedone 37
Chimera | 16 marzo 2009 | Viofiddler / Alvin Wong | licenza Creative Commons
Enzo Natta
UN CINEMA DE-GENERE? Presenza ed attualitĂ della ibridazione nel cinema contemporaneo 46
biopic
P
eccato che non siano rimaste carte, testi e sottotesti da leggere fra le righe e da indagare a fondo, ma soltanto ricordi, aneddoti, racconti di pochi fortunati testimoni ammessi al circolo degli “Inklinks”, quando, in monotone serate trascorse nell’austera Oxford degli anni ’50, fra un bicchiere di whisky scozzese e l’altro, John R. R. Tolkien, Clive S. Lewis e pochi intimi si abbandonavano a giochi finemente intellettuali, magari infantili e avventurosi come le favole della tradizione orale da cui erano attratti e che avrebbero raccontato nel Signore degli anelli e nelle Cronache di Narnia, ma estremamente fervidi di inventiva e narrativamente geniali. Gli “Inklinks”, ovvero gli scrittori con le dita sporche di inchiostro, applicavano il metodo storiografico alla letteratura e convivevano con il mito, nel quale vedevano l’alchemica occasione di fondere la storiografia con la letteratura, la critica, la filologia, la glottologia. Nel mito Tolkien e Lewis vedevano la continuità tra il fantastico e il reale, tra il passato remoto e il presente, e nei generi vedevano la continuità dei miti di cui l’uomo si è sempre nutrito, tanto è vero che la letteratura stessa nasce sospesa fra il mito e la realtà se si pensa che Omero, il poeta cieco, non vedeva il mondo ma lo cantava sotto l’ispirazione che gli fornivano gli dei. Auguste Comte, maestro del positivismo, diceva che la società moderna ha sostituito il martello alla spada, il fabbro al guerriero. Tolkien e Lewis ribattevano che il genere, attraverso il mito, ridà dignità al guerriero, per cui gli strumenti tradizionali di indagine critica sono insufficienti e bisogna trovarne altri. Per questo indicarono nel tracciato dei generi un sentiero da seguire (esemplare da questo punto di vista il saggio di Lewis intitolato Tre modi di scrivere per l’infanzia, in appendice alle Cronache di Narnia), perché i sentieri sono spesso scorciatoie. Tutti i generi, per Tolkien e Lewis, sono dunque una moderna cerca del Graal, un viatico per entrare in un mondo fantastico prediletto, intimo e segreto, raccordo ideale per ritornare all’innocenza dell’infanzia, alla
spontaneità, a un’identità non corrotta da sovrastrutture di ogni tipo. Ripetitività ciclica, omogeneità, legame di familiarità con lo spettatore, anche grazie ad attori che interpretano sempre lo stesso personaggio, danno corso alla struttura morfologica del genere, a quelle regole precise che già nella Grecia di 2500 anni fa costituivano la base degli “skémata”, un lessico di formule e di gesti che trasformavano un modello rappresentativo in storie eterne e, in una specie di viaggio di ritorno, lo riconducevano al mito. Nulla è cambiato se pensiamo che nei suoi studi antropologici Claude Levi-Strauss ha equiparato i generi ai miti e André Bazin ha classificato il western come proiezione di un nuovo mezzo di espressione della mitologia. Ma allora, se è vero come sostiene Roberto Campari che “i generi filmici sono andati sempre più perdendo le loro caratteristiche rigide, di classicità, in favore di più eterogenee commistioni”, che ne è stato dei generi cinematografici classicamente intesi? Come sono cambiati? Tzvetan Todorov, maestro dello strutturalismo e autore di La letteratura in pericolo (Garzanti), sostiene che la letteratura nasce sempre dalla letteratura non dalla realtà, e in questo senso si rinnova continuamente. Se è così, come si sono rinnovati o evoluti i generi, in special modo quella larga cerchia di filoni e sottofiloni che nella sua vasta gamma annovera rivisitazioni del melò, del noir, del western e di tanti altri generi ancora? Mentre il genere spettacolare è ormai in disuso (si veda il flop di Australia di Baz Luhrmann, appassito impasto di eros sdolcinato e avventura), anche l’abitudine di mischiare assieme più mazzi di carte e tirare le somme di più addendi (come è successo con The Inglourious Basterds di Quentin Tarantino, che ha mescolato il filone bellico con il “gangster-movie”, il western con l’avventuroso e la commedia picaresca) si fa sempre più raro. Più spesso, e di recente, succede invece che subentrino nuove linee di tendenza, che la maschera si confonda con il volto e che una tesi indossi i panni di un genere assumendone i connotati e adottandone le sembianze in un impasto che consente una
lettura in doppia chiave se non addirittura polisemica. Metodo tutt’altro che nuovo, se si pensa che Ombre rosse di John Ford si ispira a Palla di sego di Maupassant, un racconto dove la diligenza è un microcosmo simbolo del mondo, il viaggio è l’emblema delle prove da affrontare lungo il cammino della vita e lo spazio da percorrere è il faticoso snodarsi dell’esistenza. Questo interscambio di maschera e volto si affacciano sul palcoscenico di Vincere di Marco Bellocchio. Se l’una è il melò di una Madama Butterfly all’italiana, l’altro è un pezzo di storia patria, anch’esso vittima dell’inganno e della seduzione. Prima ancora che in Vincere l’immagine di Mussolini “grande ingannatore” si delinea in Solleone di guerra (Mauro Pagliai editore), racconti dello storico Paolo Buchignani nei quali figura una biografia romanzata di Marcello Gallian, fascista deluso e scrittore emarginato dal regime per il suo radicalismo rivoluzionario. Come Ida Dalser, anche Marcello Gallian fu “sedotto e abbandonato”, ma, proprio come quella sventurata, ripudiata e relegata in un manicomio, non perse mai la fiducia in un ravvedimento del Duce. Al punto da proferire queste parole: “Eppure continuai, continuammo, innamorati pazzi a credere in Mussolini...”. Nel gioco maschera/volto Vincere si sviluppa su due piani, e neppure simmetrici: da una parte, come in un “biopic”, la vicenda storica del politico Mussolini nel suo passaggio dal socialismo neutralista all’interventismo, che conferisce al racconto un taglio “pubblico”; dall’altra la vicenda “privata” della sua burrascosa relazione con Ida Dalser. Generi diversi, messi in scena con linguaggi diversi che creano disarmonia di stile. Infatti, se la parte storica è un omaggio al futurismo attraverso l’uso congiunto di cinegiornali, scritte in sovrimpressione, colori e immagini della modernità mediate dalla pubblicità dell’epoca (proprio come i primi filmini d’avanguardia, anticipo dell’underground, realizzati da Anton Giulio Bragaglia, Bruno Corra, Arnaldo Ginna), la parte privata adotta invece un linguaggio e un “décor” tipicamente teatrali per accentuare
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Pegasus and Bellerophon | 26 novembre 2006 | Mike Zienowicz | licenza Creative Commons
Grazia Paganelli
Di ibrido e contaminazione Le forme dinamiche nel cinema di Werner Herzog 50
Nella sua illuminante ricerca dell’immagine pura, Werner Herzog ha più volte coniugato il concetto di “ibrido”, piegando le multiformi risorse dell’immagine e sfruttando con tutti i mezzi la loro “elasticità”. Se è vero che la forma perfetta non può in alcun modo rappresentare il mondo, allora si può dire che Herzog si aggira ben lontano dalla perfezione, prediligendo le possibilità dinamiche dell’ibrido, forma che senza dubbio gli appartiene e gli deriva da una attenta, anzi, meticolosa osservazione della realtà, ma che è stata fin da subito rielaborata a partire dai più diversi punti di vista, inserendosi in questo modo in una riflessione teorica che è, immediatamente prassi di lavoro. In questo caso il valore di ogni immagine sta nell’alterità cui tende naturalmente il cinema, nella spinta a vedere di più dell’apparenza, a cercare nel caos, ad esaltarlo, per mettere in crisi l’equilibrio che può esistere tra la forma, l’immagine e la rappresentazione in rapporto alla natura circostante. È questo lo scarto compiuto dal regista tedesco fin dai suoi primi film, i cortometraggi che segnano in modo definitivo le linee e gli ambiti della sua futura ricerca. Herakles (1962), Die beispiellose Verteidigung der Festung Deutschkreutz (La difesa esemplare della fortezza Deutschkreutz, 1966), Letzte Worte (Ultime parole, 1968) e Maßnahmen gegen Fanatiker (Provvedimenti contro i fanatici, 1969) esaminano il disordine della forma e impongono al cinema il compito di analizzare la confusione degli elementi eterogenei messi in campo, per trovare una sintesi che, sorprendentemente, sarà tutt’altro che di chiarezza. A Herzog non interessa l’equilibrio bensì il difforme perché non
è la forma finita delle cose a interrogarlo, quanto piuttosto le dissonanze e gli attriti tra l’uomo e il mondo circostante. Elio Franzini, a proposito dell’immagine, scrive: «[...] l’immagine ha un valore simbolico, al di là dei contenuti rappresentati, quando mantiene il suo carattere “ibrido” quando cioè il rapporto in essa tra visibile e invisibile, spirituale e materiale, è ancora ambiguo e allusivo» (Franzini 2001: 109). È questo il tipo di immagine che interessa a Herzog, di queste immagini si nutre il suo cinema fin dagli esordi. [...] Già a fine Settecento, concludendo il Sogno di d’Alembert, Diderot sembra convinto che una forma “perfetta” non possa essere adeguata al movimento spirituale della natura: solo una forma “ibrida” può rinnovare la vita delle forme e delle immagini con cui l’uomo rappresenta la natura che lo circonda e i suoi vari spessori qualitativi. In questa direzione Diderot propone un’idea di metamorfosi all’interno della quale il concetto di forma non è un dato fisso immutabilmente connesso a un’immagine, bensì un elemento dinamico, che segna la mobilità dell’immagine stessa, la sua necessità di ricercare una “alterità”, confini propri per il proprio “apparire”, irriducibili a un’immagine isolata [...] (Franzini 2001: 109).
mostra nella definizione dei generi e nell’uso dei materiali. La finzione, il documentario, il dramma, la fantascienza non hanno più valore di per sé stessi, ma acquistano senso solo nella loro contaminazione. Ecco, allora, che un film come Fata Morgana (1970) che di fatto rappresenta le immagini raccolte da Herzog in viaggio attraverso l’Africa, subisce successive stratificazioni, diventando racconto mitico modellato secondo i criteri della Science-Fiction, diario di viaggio con derive grottesche, documentario sui popoli e sulle vicende ai bordi del deserto del Sahara. L’osservazione vale anche se applicata all’origine delle immagini, alla loro “matrice”. Non è importante chi ha filmato, per esempio, gli orsi di Grizzly Man (2005), ma come servirsi di quelle immagini facendole dialogare con le “sue”. Verità, finzione, realtà, immaginazione e invenzione perdono i loro confini conosciuti e diventano concetti utili solo se rielaborati e, soprattutto, mescolati.
Lo stesso dinamismo Herzog lo di-
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Samantha Marenzi
AUTORITRATTO Il respiro di Adama | Samantha Marenzi | 2007
Dal dentro del corpo
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Corpo, tempo e immagine Dovremmo dire corpo-tempo, o corpoimmagine, ponendo l’accento sull’elemento vivo di una riflessione sulle forme. Depositario di forze in potenza, campo di energie attive, il corpo su cui posiamo lo sguardo è quel luogo di ricerca di consapevolezza, percettiva e figurativa, indagato in contesti posti talvolta alla periferia del sapere che hanno sperimentato la coincidenza dell’azione e dell’espressione estetica. Il corpo che indaga ed insieme espone se stesso, il suo mistero, i suoi abissi, appare in immagini ed immaginari lontani tra loro legati da una tessitura asimmetrica che insieme li veste e li svela e che conserva nelle sue maglie la presenza del tempo. Analizzando il grande salto compiuto da Aby Warburg nell’ambito della storia dell’arte e della metodologia di indagine sulle immagini nel tempo, Didi-Huberman fornisce la delimitazione del panorama concettuale della nostra riflessione: Warburg […] era sicuro di due cose almeno. La prima è che non siamo davanti all’immagine come davanti a una cosa di cui possiamo tracciare le frontiere esatte. L’insieme delle coordinate positive – autore, data, tecnica, iconografia…- non può ovviamente bastare. Un’immagine, ogni immagine, è il risultato di movimenti provvisoriamente sedimentati o cristallizzati al suo interno. Questi movimenti la attraversano completamente, hanno ciascuno una traiettoria – storica, antropologica, psicologica – partendo da lontano e proseguendo al di là di essa. E ci obbligano a pensarla come un momento energetico o dinamico, per quanto specifico nella sua struttura. […]: noi ci troviamo davanti all’immagine come davanti a un tempo complesso, dinamico, di quegli stessi movimenti (Didi-Huberman, 2002: 39-40).
L’idea di un tempo non cronologico, fatto di zone chiare e di un inconscio che ritorna sotto forme insospettabili, che lascia impronte e segni nel movimento stesso delle immagini, di un divenire plastico, l’idea di un tempo stratificato che mostra le sue sopravvivenze tra le pieghe di forme lontane tra loro per
epoca e stile, fa del tempo un elemento denso, costitutivo del corpo non solo in quanto figura, ma anche come incarnazione di immagini. Il legame tra il livello biologico e quello estetico è evidenziato da Didi-Huberman quando, riferendosi all’eredità nietzschiana del pensiero di Warburg, afferma che «l’artistico (forme e forze della cultura) e l’organico (forme e forze del corpo vivente) si segnalano nella continuità della storia come “forze non storiche”, come sintomi e anacronismi» (Didi-Huberman, 2002: 157). Forme e forze della cultura e forme e forze del corpo vivente, piano biologico e piano estetico, anacronismi della storia intesa come movimento lineare del tempo, si sovrappongono in quelle zone dell’arte, o in quei singoli artisti, che hanno fatto del proprio corpo la sintesi di un immaginario, facendo coincidere l’autore e l’opera, il soggetto e l’oggetto, l’azione e la visione. Qui la stratificazione del tempo è nell’immagine e nel corpo che la produce o la contiene, ed è nella cristallizzazione di un presente talvolta fissato in una registrazione che resiste al suo fluire, talaltra condannato alla futura invisibilità. Le forme dell’arte in cui rintracciare questi momenti sono molteplici. Due in particolare ci sembrano significative nonostante, e forse proprio a ragione, della distanza che le separa. Appartengono al teatro e alla fotografia, territori vasti e abitati da forme molteplici e diverse tra loro, indagati qui negli aspetti che li caratterizzano in relazione alla presenza del corpo. Il teatro, laddove si è posto come territorio del sapere del corpo, è stato un vero laboratorio sulle potenzialità espressive del gesto, della voce, del movimento. Ha spostato l’attenzione sui processi oltre che sui risultati, ha sviluppato una teoria indissociabile dal lavoro pratico, ha dato una forma alle forze del corpo non necessariamente aderente alla comune idea di spettacolo. È nell’ambito e nel linguaggio del teatro, o di un certo teatro, che apprendiamo il senso concreto di un’azione che passa dall’imitazione della realtà alla ricostruzione delle sue dinamiche essenziali, del gesto che si libera del suo automatismo e si fa consapevole, autentico, efficace, credibile per chi lo compie e per chi lo osserva. È qui che si sovrappongono
il piano dell’azione e della rappresentazione, e che si costituisce l’ambito di possibilità della trasformazione dell’immaginazione in immagine attraverso il corpo. Riguardo alla fotografia, di nuovo, è utile distinguere. Mezzo di fedele riproduzione del reale, le derive più sperimentali ne hanno sfidato la condanna alla somiglianza disarticolando gli automatismi dello sguardo e del punto di vista, democratizzando i soggetti, cercando la bellezza dove era impossibile trovarla rispondendo ai canoni prestabiliti, forzando la tecnica fino a metterla in grado di generare un linguaggio che la realtà, piuttosto che limitarsi a riprodurla, la interpretasse attraverso l’occhio, tutto umano, dell’autore. La figura umana ha avuto un ruolo centrale in questo percorso, o in questa decostruzione. Talvolta decisivo, quando si è trattato del corpo proprio. Una condanna all’imitazione, una alla riproduzione. Una forma che svanisce col tempo della rappresentazione, un meccanismo che blocca il tempo rendendo l’immagine immortale. Delle vie di fuga. La disarticolazione degli automatismi del movimento, quella degli automatismi dello sguardo. Dietro le evidenze, tra il tempo che inesorabilmente lo muove cambiandone continuamente la forma e l’immagine che spietatamente lo blocca, il corpo. In alcuni casi, radicali, il corpo proprio.
Il corpo che (è) danza Il Novecento ha visto la radicale riformulazione del senso del fare teatro. Studi, laboratori, grandi maestri, esperienze di gruppo. Il rapporto con lo spazio e con i possibili luoghi della rappresentazione, il lavoro quotidiano dell’attore parallelo alla costruzione dello spettacolo, il suono della voce insieme al senso delle parole, il ritmo e l’autenticità dell’azione al di là del piano mimetico. Tecniche, pedagogie, scritti sul teatro, modalità di trasmissione dell’esperienza che slittano dall’emulazione alla percezione, dallo sguardo verso il fuori all’osservazione delle dinamiche interne del corpo, dell’emozione, del pensiero, della memoria. La sintesi è brutale, ma tratteggia il quadro
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Carlo Formenti
Marx torna in America? Utopie del collettivismo online
1. Può esistere un “collettivismo individualista”? Non molti anni fa, un esponente del top management di Microsoft si scagliò contro il software libero – free software o software open source, secondo le due declinazioni ideologiche del movimento – definendola comunista e anti-americana. L’accusa era motivata dal fatto che i programmatori indipendenti che ne fanno parte cooperano gratuitamente attraverso Internet per creare programmi “amatoriali” (a definirli così era il management Microsoft, in realtà si tratta di prodotti altamente professionali). Questa pratica, da un lato evoca lo spettro dell’utopia marxista (restituire al lavoro la missione di produrre valori d’uso piuttosto che valori di scambio), dall’altro lato rappresenterebbe una sorta di “concorrenza sleale” ai danni delle imprese private, costrette a far pagare i propri prodotti per ammortizzare ingenti investimenti in salari, ricerca e sviluppo, marketing, distribuzione, ecc. Insomma una palese violazione delle “leggi” del libero mercato, e dunque, secondo l’accusa, uno sfregio al fondamento etico della nazione americana. Da allora molte cose sono cambiate: non solo perché la presunta carica “eversiva” del software libero si è ridimensionata a fronte della sua capacità di alimentare nuovi modelli di busi-
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ness (oggi Microsoft collabora con diverse imprese del campo open source), ma anche perché alcuni dei più accreditati “guru” della Nuova Economia si sono nel frattempo impegnati ad esorcizzare l’atavica repulsione americana nei confronti di tutto ciò che odora di collettivismo. Un recente contributo in tal senso viene da Kevin Kelly1, il quale, in un lungo articolo dal titolo “The New Socialism: Global Collectivist Society Is Coming Online”, pubblicato il 22 maggio 2009 dal mensile Wired, spiega agli americani perché non devono più temere la minaccia socialista: il socialismo “cattivo” è morto e sepolto, mentre il suo posto viene occupato da un socialismo “buono”, un “socialismo digitale” che rispecchia i valori dell’american way of life. Da un lato, quando un numero crescente di persone detiene il controllo sui propri mezzi di produzione (che, nel caso della produzione di informazioni e conoscenza, si riducono a un computer e alla connessione Internet), coopera in vista di un obiettivo comune (come fanno appunto gli sviluppatori indipendenti di software open source o i redattori amatoriali dell’enciclopedia online Wikipedia) senza riceverne in cambio un salario, e usufruisce gratuitamente del frutto di tale lavoro collettivo, non possiamo esimerci dal definire tutto ciò socialismo. Dall’altro
lato, è chiaro che questo socialismo ha poco da spartire con quello “classico” come dimostra il fatto che esso non è associato alla lotta di classe né, tantomeno, a tentazioni “stataliste”. Sul tema della lotta di classe torneremo più avanti; per quanto attiene al ruolo dello stato, basti ricordare – come fa puntualmente Kelly - la celeberrima “Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio”, pubblicata negli anni Novanta sul sito del pioniere delle comunità virtuali John Perry Barlow2 – documento che negava in linea di principio ai governi del mondo il diritto di estendere le proprie leggi e i propri poteri istituzionali alla libera comunità cosmopolita dei netizen. Secondo Kelly, insomma, le radici ideologiche del fenomeno non sono “rosse” ma libertarie, anzi libertarian, come ama definirsi una corrente politico-culturale che nella storia recente degli Stati Uniti è venuta assumendo peso e vigore crescenti. Essere libertarian significa rivendicare il pieno diritto degli individui ad associarsi liberamente per perseguire i propri scopi e interessi senza sottostare ad alcuna autorità sovraordinata; significa, anche, rivendicare il valore e il ruolo della proprietà privata e del libero mercato, sostenere la meritocrazia e preferire i modelli di società decentrati a quelli delle società centralizzate e gerarchiche. Cosa c’entra questo miscuglio di liberismo
socialismo digitale economico e anarchismo con il socialismo? Nulla, se restiamo sul terreno del discorso politico; se tuttavia, argomenta Kelly, spostiamo l’attenzione sul terreno economico e culturale, le cose cambiano: è “socialista” la disponibilità, da parte di milioni di prosumer connessi attraverso la Rete, a lavorare gratuitamente al solo scopo di ottenere reputazione, fama, visibilità e riconoscimento sociali, soddisfazione personale, esperienza professionale e altri valori “immateriali”; ed è “socialista” l’incomprimibile pulsione che spinge gli stessi soggetti a condividere ogni genere di conoscenze, idee, servizi e informazioni (fotografie, testi, video, musica, ecc) in barba alle leggi che tutelano la proprietà intellettuale. Questa smania “collettivista” non si fonda sui valori del socialismo classico – solidarietà, uguaglianza, ridistribuzione politica del surplus economico, ecc. – bensì su ciò che i sociologi della Rete chiamano networked individualism: gli individui si associano liberamente in comunità virtuali costruite a partire dalla condivisione di interessi e bisogni personali e non – come avveniva nelle “vecchie” comunità – sulle appartenenze di classe, etnia, condizione professionale, genere, ecc. E ancora: la peer production (la produzione cooperativa fra i pari associati nelle comunità di rete), pur rifiutando l’accentramento e il principio gerarchico, abbraccia senza reticenze il principio meritocratico; i “più bravi” (riconosciuti come tali dal giudizio collettivo delle comunità di appartenenza) godono di privilegi che, in certi casi (vedi i leader del movimento del software libero, Richard Stallman e Linus Torvalds, o il fondatore di Wikipedia, Jimmy Wales), ne fanno dei benevolent dictator. A dare retta a Kelly, dunque, il mondo online sarebbe l’incubatore di una “terza via”, né capitalista né socialista (nel senso che viene tradizionalmente attribuito ai due termini), d’un nuovo modello di relazioni sociali in grado di conciliare collettivismo e individualismo.
2. Teorie dei beni comuni, Kelly ha il pregio del bravo divulgatore, cioè la capacità di sintetizzare in modo chiaro e semplice i concetti complessi, ma ha anche il difetto tipico della categoria, cioè quello di
produrre discorsi di limitato spessore teorico. È quindi il caso di approfondirne il punto di vista sfruttando l’apporto di contributi più “robusti”. Nel suo discorso saltano all’occhio due palesi incongruenze: come si concilia il sacro rispetto dell’ideologia libertarian nei confronti della proprietà privata con la disinvoltura che la peer production manifesta nei confronti dei diritti di proprietà intellettuale? E ancora: si può parlare di “terza via” fra capitalismo e socialismo senza abbozzare un’analisi del nuovo modo di produrre che una simile alternativa necessariamente evoca? Per rispondere seguiremo le tracce di due autori, Yochai Benkler e Lawrence Lessig, che affrontano di petto queste sfide teoriche (si tratta di due studiosi di diritto che hanno ampliato il proprio campo di riflessione all’economia, il che li rende particolarmente adatti ad affrontare l’intreccio fra diritto e dinamiche socio-economiche che i concetti di proprietà e di modo di produzione comportano). In un celebre brano del Manifesto, Marx afferma che se il mulino ad acqua genera il modo di produzione feudale, il mulino a vapore genera il modo di produzione capitalistico. I teorici appena citati sostengono qualcosa di simile che, parafrasando il detto di Marx, suona così: se il macchinario tradizionale genera il capitalismo classico, il computer genera l’economia dell’informazione in rete (Benkler, 2007). L’avvento del computer – ma soprattutto la sua diffusione di massa, favorita dal crollo dei costi di acquisto – ha messo in atto due processi: da un lato, ha accelerato vertiginosamente la produttività nei settori della creazione/distribuzione di informazioni e conoscenze, al punto che essi rappresentano oggi le fonti primarie di valore economico; dall’altro lato, ha consentito a un miliardo di esseri umani di assumere il controllo sui propri mezzi di produzione (computer più connessioni di rete). Gli effetti combinati di questi due processi generano effetti paradossali dal punto di vista della “vecchia” economia di mercato. In primo luogo, vengono esaltate le motivazioni “non commerciali” all’agire economico (ricerca di prestigio, soddisfazione personale, ecc) che da sempre svolgono un ruolo centrale nella produzione di conoscenze
e informazioni. Inoltre l’inedita possibilità da parte di milioni di individui di interconnettersi per sviluppare progetti cooperativi dediti alla produzione “orizzontale” di cultura, mette in crisi i modelli di business – e a volte la stessa sopravvivenza, come dimostra il caso dell’industria discografica – della vecchia economia dell’informazione. La quale reagisce facendo pressione sui governi affinché vengano inasprite le leggi a tutela della proprietà intellettuale. E qui arriviamo al nodo aporetico: come possono autori che rivendicano esplicitamente la propria appartenenza alla tradizione liberale/liberista/libertaria - e quindi attribuiscono valore indiscusso alla proprietà privata – difendere le ragioni di un modo di produrre che ne minaccia gli interessi? Il fatto è che la conoscenza è una peculiare categoria di bene comune (Lessig, 2005). Se per bene comune si intende una risorsa condivisa da un gruppo di persone e soggetta a dilemmi sociali (C. Hess, E. Ostrom, 2009), occorre infatti riconoscere che i dilemmi sociali che accompagnano il bene comune-conoscenza sono diversi da quelli tipici dei commons tradizionali (acque, foreste, parchi e infrastrutture pubblici, ecc), la maggior parte dei quali sono “risorse sottraibili”, soggette cioè alla “tragedia dei beni comuni” (la competizione per l’uso, il free riding, lo sfruttamento eccessivo, ecc. che rischiano di distruggerli). Viceversa la conoscenza, in quanto bene “non sottraibile” che con l’uso si accresce invece di deperire, per cui quanto più viene condivisa tanto più si accrescono i vantaggi per tutti coloro che la condividono, è sottoposta al rischio opposto, vale a dire al sottoutilizzo. Per cogliere il punto, tuttavia, non basta parlare genericamente di conoscenza: ciò che tutti gli autori sin qui convocati (insieme a molti altri) mettono in rilievo è il fatto che, nella misura in cui le motivazioni della produzione non commerciale mobilitano la creatività e le energie di tutte relazioni sociali – potremmo dire della vita quotidiana degli individui e dei gruppi coinvolti –, il nuovo modo di produrre rappresenta una straordinaria opportunità di intercettare tutto quel valore che la proprietà non riesce a catturare (Lessig, 2005). Ecco perché può oggi esistere qualcosa come una critica liberale della
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Paola Coppi e Vittorio Possenti
DIALOGO SULLA MISTICA 72
N
Bellerophon | 13 luglio 2009 | TheoJunior | licenza Creative Commons
el Medioevo, un illustre pensatore, il noto Dionigi Aeropagita, in due delle opere a lui attribuite, Dei nomi divini e Teologia mistica, preparava una versione interessante di chi potesse essere il mistico. Nel primo dei due trattati, Dionigi scrive: «[…] alla Causa di tutte le cose e che è superiore a tutte le cose non si addice nessun nome e si addicono tutti i nomi delle cose che sono» (Dionigi 1983: 262), domandandosi in che senso potessero essere attribuite legittimamente a Dio, a partire dagli stessi nomi che le Scritture Gli rivolgono, dei nomi diversi. Carissimo Professore, sarà d’accordo con me nell’affermare che il problema che Dionigi solleva è di una tale importanza, che non solo viene riargomentato da Tommaso d’Aquino e da Alessandro di Hales, ma che è grazie e a partire da questa speculazione che, (forse per la prima volta?), viene posta, nella storia del pensiero teologico-filosofico, la questione della “indicibilità” di Dio in termini prettamente umani. Lei mi chiederà giustamente cosa intendo dire! Ebbene, se ciò che l’uomo può dire ed esprimere di Dio, attraverso le Scritture, è solo una traduzione, una determinazione umana dell’identità divina, per mezzo dei termini che il linguaggio utilizza, e se è vero che non tutto quello che l’uomo definisce può essere “rinchiuso” in una significazione del soggetto e/o dell’oggetto, conclusiva ed ultima, allora non si potrebbe sostenere che il linguaggio di cui l’uomo dispone presenta indubitabilmente dei limiti, dei deficit di conoscenza della stessa realtà e, in particolar modo, della realtà dell’Essere divino? Se, dunque, Dio risultasse nei termini della ragione assolutamente incomprensibile, in quanto eccedente la ragione stessa, allora non crede che non solo non Lo si potrebbe conoscere, ma che neppure Lo si potrebbe nominare propriamente? Mi convinco sempre più che proprio in quanto solo Dio si conosce, anche quando si rivela all’uomo, la sua manifestazione sia sempre mediata
dalla possibilità di cui il linguaggio umano dispone per esprimerLo in tutta la sua grandezza, in tutta la sua trascendenza, e che dunque il limite, sia insito nelle nostre stesse parole, in questa incapacità di “verbalizzare”, di nominare interamente e adeguatamente l’evento Dio, se non in termini negativi. Mi sembra di aver letto proprio in alcune righe della Teologia mistica Le tenebre diventano invisibili di fronte alla luce, e più ancora di fronte ad una luce abbondante. Le conoscenze annientano l’ignoranza e più ancora le conoscenze abbondanti. Intendendo queste cose per eccesso e non per difetto, ammetti come verità assoluta che l’ignoranza delle cose divine sfugge a quelli che hanno la luce positiva e la conoscenza positiva, e che le tenebre superiori di Dio sono inafferrabili da parte di qualsiasi luce e si sottraggono ad ogni conoscenza. Se uno, avendo visto Dio, ha capito ciò che ha visto, non ha visto Dio, ma qualcuna delle sue opere che esistono e si conoscono. Dio, essendo collocato al di sopra del pensiero e della sostanza di tutto, così che non può affatto essere conosciuto né essere, esiste soprasostanzialmente e viene conosciuto al di là della nostra capacità intellettiva. L’ignoranza assoluta, presa nel senso migliore della parola, ci fa conoscere colui che sorpassa ogni cosa conosciuta (Dionigi: 419-420).
Proprio in quanto nessun essere, se non in modo analogico, può conoscere Dio per ciò che Egli realmente è, allora non Le sembra che di fronte al tentativo di com-prendere il Trascendente siamo tutti «ignoranti», che in questo senso avesse ragione il filosofo N. Cusano quando pensava ad una dotta ignoranza? Carissima, il grande tema affrontato dallo PseudoDionigi è se a Dio si possano attribuire nomi diversi, sia pure quelli applicatiGli nelle Scritture, e dunque se il molteplice può cogliere e dire l’Uno, o se invece Dio, l’Uno soprasostanziale, è assolutamente indicibile da parte dell’uomo.
Nello PseudoDionigi notevole è l’influsso del neoplatonismo e in specie di Plotino, che agirono largamente anche su Agostino. Questi scrive a proposito della conoscenza, o meglio della inconoscenza, di Dio: «se lo comprendi, non è Dio». Ma già tanta parte della Bibbia è intrisa del senso della sua assoluta trascendenza, come emerge nelle esperienze di Mosè che vuol vedere, e non può, la gloria di Dio e il suo volto, e di Elia che percepisce Dio nel fruscio di un vento leggero. Il teismo a base ontologica tiene fermo che la conoscenza di Dio attraverso la ragione sia possibile: Egli ha lasciato sufficienti tracce di sé perché la ragione umana nel suo esercizio naturale e spontaneo lo possa da lontano riconoscere, mentre il cammino dimostrativo è aperto a pochi e difficile da percorrere. La grande teologia e filosofia hanno elaborato tesori di riflessione per dire qualcosa sull’indicibile, per elaborare portata e limiti della conoscenza intellettuale di Dio e dei nomi che Gli possiamo razionalmente attribuire a partire dalla conoscenza dell’essere e del mondo. È l’eterna strada della teologia catafatica o positiva in cui saliamo dalla conoscenza delle perfezioni create a quella delle perfezioni del Creatore, ed a cui si allea necessariamente la via negationis o la teologia apofatica. Ed è di questa conoscenza che Tommaso dirà con un’espressione splendida: in finem nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscimus. Alla fine della nostra ricerca conosciamo Dio come sconosciuto (Cfr. In Boet. de Trinitate, q. 1, a. 2). Sappiamo che è, ma non sappiamo chi sia: non potendo raggiungere la sua essenza che ci rimane ignota, permaniamo nella caligine. Conseguentemente è meno disagevole parlare o nominare Dio in termini negativi: ciò che egli non è, non quanto è. L’analogia entis che ci consente di conoscere qualcosa di Dio, è un’analogia incircoscrittiva, superata dal suo oggetto e incapace di circoscriverlo: Deus sempre maior. In ciò consiste la grandezza e la miseria della teologia naturale che sale a tentoni dalle cose create alla loro origine. Non possiamo
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Memories | 3 dicembre 2006 | Pensiero / Stefano Corso | licenza Creative Commons
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EUGENIO BORGNA
Ricomporre l’intero Colloquio con Giovanni Scarafile
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a cura di Silvio Grasselli
Con il cinema nel cuore Forum su esperienza e significatività dell’impegno per la qualità del cinema
Moonlight cinema audience | 22 febbraio 2006 | owen-jp / Owen Rodda | licenza Creative Commons
Intervengono: Hans Hurch (Vienna), Silvano Agosti (Roma), Rui Pereira (Lisbona), Giuseppe Cutrone (Bari), Giancarlo Giraud (Genova), Gabriele Pedrina (Padova)
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Quando ci si riferisce agli studi sul cinema il senso comune consiglia di andare con la mente alle analisi dei testi e dei contesti: i film, i numeri e le vicende della produzione, la “questione tecnica”, i contesti storici, sociali e culturali. Più difficile ci s’interessi, da lettori ma anche da studiosi, al pubblico, agli spettatori. Proprio per il suo orientamento, la sua filosofia – la scelta di offrirsi nel modo più efficace ed efficiente possibile come strumento a uso e consumo dei lettori – questa rivista è forse il luogo adatto a riflettere su chi il cinema lo guarda, lo “legge” fuori dalla professione ma anche fuori dall’esclusiva ricerca di svago. In tempi di digitalizzazione dei supporti e dei formati, di rivoluzionamento e convergenza dei mezzi di comunicazione (soprattutto e sempre di più audiovisivi), il pubblico della sala cinematografica sembra ormai una specie in via d’estinzione. Mentre gli studi di settore, le ricerche di mercato, le statistiche e le inchieste provano a star dietro a questi epocali mutamenti, eventi difficilmente componibili in un unico quadro coerente punteggiano il sempre più complesso panorama del nuovo “cinema espanso”. Ci siamo chiesti come tentare uno sguardo sintetico e perspicuo sull’inafferrabile universo del pubblico della sala cinematografica di questi anni. La via che abbiamo scelto è stata la meno mediata, la più concreta, quella che meglio potesse produrre piccole e meno piccole puntuali illuminazioni su altrettante specifiche esperienze. Le esperienze di professionisti, di persone appassionate e attente che sul con e per il pubblico spendono le loro energie: direttori di festival e gestori di sale che sulla relazione con il pubblico cinematografico fondano il loro lavoro d’ogni giorno. Gianni Amelio, Hans Hurch, Rui Pereira scrivono della loro esperienza alla direzione di tre dei più vivaci autorevoli e avanzati festival di ricerca in Europa (rispettivamente il Torino Film Festival, la Viennale Vienna International Film Festival e l’IndieLisboa Festival Internacional de Cinema Independente). Silvano Agosti, Giuseppe Cutrone, Giancarlo Giraud e Gabriele Pedrina testimoniano e riflettono invece sulla loro storia di esercenti, di gestori di sale rappresentanti ciascuna un concreto esempio di lotta e di politica culturale in atto. Le testimonianze raccolte, pur dando
conto di pratiche e contesti vari e disomogenei, geograficamente disparati (dalla sala di quartiere al festival di rilevanza internazionale, dalle voci nostrane a quelle provenienti dall’Austria e dal Portogallo) mostrano emergenze comuni, ricorrenze d’osservazioni condivise. Considerazioni che in molti casi offrono l’occasione per meglio comprendere alcuni fenomeni del mercato cinematografico altrimenti inintelligibili. L’esempio migliore riguarda il sempre più critico fenomeno della graduale sparizione delle storiche sale a uno o due schermi accanto al diffuso, inarrestabile e tumultuoso sorgere di nuovi festival cinematografici dalle dimensioni e dalle ispirazioni più varie. Tutti gli interventi raccolti, tutti i testi riprodotti nelle pagine a seguire concordemente sottolineano la speciale e specifica importanza della relazione, dell’incontro. Intorno a questa dimensione si costruisce il pensiero e il lavoro degli ospiti di queste pagine, che con le loro testimonianze gettano forse una luce definitiva su alcuni dei motivi che decidono la fine delle sale meno pronte a recepire la necessità d’un cambiamento, a ripensare la propria attività non limitandola più alla sola offerta di “visioni a pagamento”; motivi che d’altra parte sono all’origine del successo di manifestazioni, come i festival, centrati sulla cultura dell’incontro, sullo scambio “in presenza”, sul dialogo e sul confronto diretto. È forse su questo fronte che la sala cinematografica può pensare e progettare una sua fondata sopravvivenza, recuperando dal passato la forza d’un’alternativa vera all’individualizzazione e all’isolamento dello spettatore (digitale) contemporaneo, evitando però ogni diffidenza e separazione nei confronti del web e dei nuovi formati digitali. Recuperare e coltivare la platea delle giovani generazioni (e non solo di esse) alla consuetudine della sala può di fatto prendere vantaggio dalla globalizzazione degli schermi, dall’inedita possibilità di accedere ad archivi di dati e d’immagini praticamente illimitati e dislocati in ogni angolo del pianeta. Il file sharing, i formati di compressione e i nuovi metodi di trasmissione possono essere gli strumenti più efficaci per la coltivazione e la crescita d’un pubblico attento e consapevole, non solo in grado di aderire a una proposta (intelligente) ma pure di desiderarne una, di maturare aspettative e richieste sue proprie.
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Il racconto diYOD L’ultimo scoglio Cosimo Massimo Argentieri Settembre. Riscalda ancora gli ulivi, tra mandorli verdi ricchi di drupe e fichi d’india che adagiano al sole spine e frutti e fiori rossi e gialli ormai secchi: albicocchi. Gli albicocchi non hanno più i frutti arancio dorati e allora un fiore, uno solo ma coloratissimo risale dalla terra e sboccia di nuovo su un ramo. Poi riapre le ali e vola; si ferma, il vento comincia ad alzarsi e lei vola ancora. Adesso passa la terra scura, passa tra i sassi e si perde nel cielo, guardando per l’ultima volta quella roccia che ora discende scoscesa, stretta fra le nere radici dei pini d’Aleppo mossi dal vento ora più fresco; e fra quelle pinete già si sente l’odore possente, il rumore sordo di grotte sotto gli ultimi scogli e poi, solo a volte, la sabbia, solo poche e sottili bianche lingue di sabbia. Infine, forte, implacabile, un ruggito. Il mare. Un mare blu intenso, l’amarissimo mare. Risale lo sguardo. Lì, dove ad un tratto le rosse pareti fiammeggianti ricoperte di pini digradano e si frantumano tra le avide acque turchesi, lì si erge uno scoglio diverso, che si stende come un braccio prensile e maestoso, circondato dall’acqua e da un manto di alghe verdi e fluttuanti, ma orlato di pini senza chioma. Guardingo volteggia e riabbassa gli occhi un gabbiano, un piccolo gabbiano già esperto; guardingo discende e si posa all’Appicco, quell’argine, quel barbacane di pietra che un tempo era stato terra boscosa e ricoperta di mirto e di pini verdi e vivi e poi era franata e si era saldata agli scogli lunga e appuntita come un artiglio nel ventre del mare, vuota e ossuta come un anticipato castigo per la vita di un uomo. Sì, un giorno avrebbe preso una vita, ma sarebbe rimasto uno spirito testardo a guardare sotto l’ultimo scoglio, a vedere le spugne colorate e, fra le gorgonie, i ricci neri dalle punte bianche quasi a ornare le rocce, come a farne un antico saggio marino accarezzato dalle code dei saraghi. Temerario intanto aspetta il gabbiano, e guarda il titano di legno, il trabucco, lì, sull’Appicco, che vigila il mare, pronto a ripetere il rito che si perde nel tempo, ritto tra scogli che sembrano cedere per la forza del vento e dell’acqua; aspetta anche lui. Presto l’uomo, che vede il sole nascere e morire e sente il mare graffiargli la pelle e la salsedine rodergli i tendini e infilarsi nelle ossa spinta dal vento, presto l’uomo verrà a dare il segnale, il segnale di chiuder le reti per imprigionare l’argento dei muggini. E allora la rete imponente, spinta dall’argano e dal contrappeso, salirà d’un colpo e percepirà il terrore sgomento delle creature dell’acqua, vinte non dalla forza, non dal coraggio, ma dall’astuzia dell’uomo. Temeva la fame, la fatica e l’avarizia della terra e dei pascoli; questo temeva l’uomo che discese la rupe e trovò il mare e i pesci che giocavano ignari sotto la costa. Conficcò allora nelle bianche rocce a ridosso delle pinete d’Aleppo un gigante di legno, lo creò
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Lettere a YOD
entile Direttore, la nascita di una nuova rivista è sempre un felice evento editoriale. Ritengo che le parole da lei rivolte ai lettori nel primo editoriale colgano nel segno, perché interpretano una istanza di totalità che anche io avverto presente nel cuore della gente. Tutti coloro che scrivono di società, siano essi interessati a problematiche economiche piuttosto che ai fatti di costume, si appellano di continuo alla categoria di “complessità”; ma troppo spesso si ha l’impressione che sia più un luogo comune dietro cui nascondere la fatica di orientarsi, e poco invece una vera categoria interpretativa del mondo contemporaneo. Dalla mia posizione di educatore, considero una preziosa occasione formativa la possibilità di incontrare qualcuno che ha deciso di cimentarsi nella ricerca di una “intenzione totale” sottesa ad ogni testo, così come lei afferma. È per questo che auguro a lei e ai suoi collaboratori di incontrare il gradimento del pubblico che la rivista merita. Scrivo anche per far presente un aspetto del mondo della comunicazione che, da quel che mi consta, riceve ancora troppa poca attenzione. Mi riferisco alla Televisione. In edicola si può scegliere tra diverse pubblicazioni sul tema, ma, guarda caso, sono tutte semplicemente interessate a mettere un po’ d’ordine negli “scaffali” ingombri di prodotti che il “supermercato dell’immagine” raccoglie da ogni dove. Palinsesti televisivi, volti più o meno famosi, prime visioni... Ma una rivista che si occupi di educare lo spettatore del piccolo schermo a distinguere il buono dal cattivo, arte da spazzatura, così come ormai da anni succede per il grande schermo, ancora non esiste. Volendo usare lo schema classico di forma e materia, a mo’ di esempio mi permetto di suggerire all’attenzione della Rivista due fenomeni legati al mondo televisivo, sui quali sento che i miei strumenti artigianali di interpretazione sono insufficienti. Forma: se vent’anni fa nello spazio di dieci secondi l’inquadratura rimaneva pressoché fissa, oggi, nello stesso arco di tempo, per attirare lo sguardo dello spettatore è necessario variarla più e più volte. Materia: in diverse trasmissioni, i fatti privati si trasformano in pubblico spettacolo e lo spazio del pudore è quasi azzerato. La regola dell’audience rimane l’unico criterio condivisibile per esprimere una valutazione in merito alla bontà di tutto questo? Concludo con un riferimento alla mia esperienza. Io lavoro insegno in una scuola media e incontro quotidianamente dei soggetti molto sensibili ai prodotti dell’industria dello spettacolo. Durante l’Ora di Religione il riferimento e il confronto con le trasmissioni e i personaggi televisivi sono utili ad animare la discussione e a calare i contenuti nel mondo dei ragazzi e delle ragazze preadolescenti. La scommessa che qualche volta riesco a vincere è questa: mi abbasso al registro emotivo che i giovani usano nella fruizione di questi programmi, per condurli a pensare da persone libere, con la mente e il cuore sintonizzati. Sarà possibile che Yod dedichi una sezione al servizio di coloro che, in sintonia con gli intenti che animano la rivista, intendono l’educazione come “introduzione alla realtà totale” e per questo non vogliono rinunciare a scendere in campo anche sul terreno impervio del linguaggio televisivo? Don Michele Canella (Bolzano)
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aro Don Michele, grazie per la sua lettera. L’urgenza che lei ravvisa nei confronti di una educazione all’immagine televisiva credo possa essere estesa ad altre forme di comunicazione, soprattutto quando il nostro riferimento è costituito dagli adolescenti, la cosiddetta digital native generation. Mettere insieme le urgenze, tuttavia, non significa negarne le specificità, sia ben chiaro. Si tratta più in generale di predisporre una sorta di inventario di ciò che è richiesto per farsi carico responsabilmente di un corretto approccio ai media. La mia idea è che la complessità non possa essere soltanto richiamata. Quando ciò accade, quando si diviene avvertiti dei processi dentro cui siamo immersi, è già un passo in avanti. Ma non basta. Chiunque debba interfacciarsi (in una parrocchia, in una scuola o anche in università) con dei giovani, credo debba sapere che la formazione permanente non possa essere dismessa. È un compito che esige un costante aggiornamento delle categorie interpretative o, detto altrimenti, per essere il più chiaro possibile, che presuppone quella sacrosanta fatica del pensare cui oggi sembra così facile rinunciare. Non è però soltanto una operazione teorica, quella cui alludo e di cui sono convinto ci sia bisogno. A me sembra necessario costruire, e percorrere, un ponte che colleghi le analisi teoriche alle esperienze sul campo. Per fare un esempio, Lei troverà diverse ed autorevoli riviste in cui i temi della comunicazione sono affrontati con grande acume teorico, ma nella quasi totalità dei casi si tratterà di riviste specialistiche, scritte da specialisti per specialisti. Io invece sono convinto che debba essere almeno compiuto il tentativo di sdoganare gli specialismi perché quel sapere possa essere, e da subito, partecipato il più possibile. Fare ciò non può però essere frutto solo di buona volontà o di improvvisazioni. Da parte nostra, come lei dimostra di sapere bene, abbiamo ritenuto che potesse essere proprio la specificità del progetto di YOD a costituire una possibile risposta. Portiamo scritto già nel sottotitolo il nostro impegno, laddove “dialogo tra saperi” non allude ad un richiamo, tanto generico quanto infecondo, alla concordia universale, ma ad una via specifica, una sinergia anche tra lettori ed autori, che dà forma ad un progetto altrettanto specifico. Grazie ancora, don Michele, e buon lavoro! Giovanni Scarafile
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IO? YOD!
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La metafisica classica è potuta passare per una specialità in cui la letteratura non avesse a che fare, perché ha funzionato su una base di razionalismo incontestato e perché era persuasa di poter far capire il mondo e la vita umana con una connessione di concetti. Non si trattava tanto d’una esplicitazione quanto d’una spiegazione della vita o di una riflessione su essa. [...] Malgrado i più audaci inizi (per esempio in Cartesio), i filosofi finivano sempre per rappresentarsi la loro propria esistenza o su di un teatro trascendente, o come momento di una dialettica, oppure in concetti, come i primitivi se la rappresentano proiettandola in miti. Il metafisico nell’uomo si sovrapponeva a una robusta natura umana che veniva governata secondo ricette provate e che non era mai messa in questione nei drammi completamente astratti della riflessione. Maurice Merleau-Ponty Il romanzo e la metafisica