YOD. Cinema, comunicazione e dialogo tra saperi

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GENNAIO-AGOSTO 2010 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abb. Postale - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB (TORINO) NN°4-5 1-2 | 2010 € 10,00

In caso di mancato recapito inviare a TORINO C.M.P. NORD per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa.

Evento editoriale. Viganò: Dizionario della Comunicazione. Antiseri: oggettività dell’informazione

del

Città del mondo. Giuliano: passeggiando per New York. Incontri. Riccardo Viale, neoDirettore dell’IIC di New York.

Caso editoriale. Luigi Alici: Cielo di Plastica. Spinicci: quando la percezione incontra il dubbio

Colloqui. Randall Kline: San Francisco Jazz Festival & Krono Quartet Lourdes di Jessica Hausner

LUIGI ALICI DARIO ANTISERI PAOLO SPINICCI POL BOUCHER IGOR TAVILLA SERGIO GRMEK GERMANI SILVIO GRASSELLI GUGLIELMO FORGES DAVANZATI RICCARDO REALFONZO ANTONELLA RICCIARDELLI AZZURRA ARGENTIERI IGOR AGOSTINI ENZO NATTA ERNESTO G. LAURA ALESSANDRA PIZZI SERGIO SALVATORE PAOLO PEVERINI VITO COMISO RANDALL KLINE DAVID HARRINGTON MARIALUISA GIULIANO CORRADO PUNZI ALDO CASTO JACOB SCHMUTZ CLAUDIA PEDONE PABLO CHIUMINATTO GIULIA BELGIOIOSO SANDRO MANCINI FABIO MINAZZI LUCIANO CANFORA RICCARDO VIALE DARIO EDOARDO VIGANÒ

DUBITARE


YOD. CINEMA, COMUNICAZIONE E DIALOGO TRA SAPERI www.yodonline.com ANNO II NN. 4-5 GENNAIO - AGOSTO 2010 ISBN 978-88-7402-595-4 Poste Italiane s.p.a. Spedizione in Abb. Postale D.L. 353/2003 - (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, DCB (TORINO) - 1-2/2009 Registrazione Tribunale di Roma n. 567/99 del 1-12-1999 Direttore responsabile Dario Edoardo Viganò vigano@yodonline.com Direttore editoriale Giovanni Scarafile direttore@yodonline.com Direzione Giovanni Scarafile Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Università del Salento Via V.M. Stampacchia - 73100 LECCE Tel. +39.0832.294662 | Fax +39.0832.294626 Proprietà ACEC Presidente ROBERTO BUSTI Segretario Generale FRANCESCO GIRALDO Segreteria Generale acec@acec.it Redazione ACEC Via Nomentana, 251 00161 ROMA Tel. +39.06.4402273 | Fax. +39.06.4402280 redazione@yodonline.com Editore Effatà Editrice Via Tre Denti, 1 10060 Cantalupa (TO) Tel. +39.0121.353452 | Fax +39.0121.353839 info@effata.it | www.effata.it Hanno collaborato: LUIGI ALICI, PAOLO SPINICCI, POL BOUCHER, IGOR TAVILLA, SILVIO GRASSELLI, GUGLIELMO FORGES DAVANZATI, ANTONELLA RICCIARDELLI, AZZURRA ARGENTIERI, IGOR AGOSTINI, ENZO NATTA, ALESSANDRA PIZZI, SERGIO SALVATORE, PAOLO PEVERINI, VITO COMISO, MARIALUISA GIULIANO, CORRADO PUNZI, ALDO CASTO, CLAUDIA PEDONE, SANDRO MANCINI Progetto grafico, impaginazione e illustrazioni Roberta Pizzi grafica@yodonline.com | www.robertapizzi.com Webmaster COSIMO SALICANDRO webmaster@yodonline.com Stampa Publistampa Arti Grafiche s.n.c. di Casagrande Silvio & C. Via Dolomiti 12 | 38057 Pergine Valsugana (TN) Abbonamenti Rivista quadrimestrale – 1 numero € 10,00 Abbonamento annuo ITALIA 3 numeri € 24,00 Numero arretrato € 20,00 Abbonamento annuo ESTERO (Zona 1) 3 numeri € 60,00 Abbonamento annuo ESTERO (Zona 2 e 3) 3 numeri € 78,00 c.c.p. 33955105, intestato ad Effatà Editrice IBAN IT66 X030 6930 7501 0000 0063 668 Crediti fotografici Le immagini e le illustrazioni delle pagg. 1, 19, 105, 159 sono di proprietà di YOD. Per le altre immagini l’editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici, è a disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti. Foto di copertina The Expansive Relationship of Two Individuals as An Independent One | 6 gennaio 2008 | DerrickT / Derrick Tyson | licenza Creative Commons Foto terza di copertina Self-Portrait | 27 novembre 2006 | Jam Adams / Jamie Adams | licenza Creative Commons

Giovanni Scarafile

Marialuisa Giuliano

1 10 14 18 22

Paolo Spinicci

26

Paolo Peverini

32

Pol Boucher

42

Igor Agostini

48

Igor Tavilla

56

Silvio Grasselli

68

Giovanni Scarafile

78

Aldo Casto

86

Corrado Punzi

92

Luigi Alici Giovanni Scarafile

102

Dario E. Viganò Dario Antiseri Sandro Mancini

Editoriale Dentro il comunicare L’oggettività dell’informazione Dubitare, vedere, decidere: lo scetticismo fenomenologico Passeggiando per New York

Il remo spezzato: riflessioni sul dubbio e sulle testimonianze percettive La retorica del dubbio nella pubblicità sociale non convenzionale. Una prospettiva sociosemiotica Il dubbio. Un esempio del suo trattamento da parte dei giuristi del diritto vecchio Il moderno in filosofia: Descartes l’«eroe»

Tenebrosa lanterna. La parabola del dubbio nella cinematografia di Dreyer L’orrore di credere. Il regime del dubbio in Lourdes di J. Hausner Argomentare, vedere, sentire. Sul rapporto tra patico ed aptico nella filosofia del cinema Il medico come artista

Vedi buio, forse è luce. I paradossi dell’opinione pubblica e della democrazia Verso l’alto. Percorsi del senso e idolatrie del contemporaneo Rivamare

Enzo Natta

112

Claudia Pedone

114

Sergio Salvatore

123

Randall Kline Alessandra Pizzi

La lingua che crea e pensa per te. Alcune osservazioni sull’universo linguistico della Germania nazista Dubitare in psicologia per non dubitare della psicologia

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Le note dell’influenza. Gomorra o la questione del genere

Guglielmo Forges Davanzati

142 150 159

Azzurra Argentieri

Vito Comiso

La comunicazione delle teorie economiche La cerimonia del tè


editoriale

Giovanni Scarafile

S

econdo un tradizionale modo di pensare, in realtà abbastanza diffuso, l’aver dubbi è sinonimo di indecisione ed insicurezza. Del dubbio, invece, conviene liberarsi quanto prima per essere finalmente uomini tutto d’un pezzo. È senz’altro vero che possono esistere dimensioni del dubitare che consegnano ad una radicale ambivalenza e questo non è certo positivo. Ma, appunto, si tratta di una eccezione, per quanto significativa. Il dubitare su cui intendiamo riflettere è piuttosto una condizione di verità dell’umano ed esso si traduce in avvertimento della necessità che ogni nostro atto possa essere fondato, cioè radicato nell’autenticità del nostro vivere. Un compito infinito, questo, come la forma verbale scelta per il titolo di questo numero di YOD, quasi a voler suggerire l’inesauribilità di un compito che non può dirsi concluso dopo una qualche sommaria esecuzione. Incamminarsi sulla via del dubitare comporta la scelta di verificare le indubitabili certezze che il senso comune ci consegna in eredità. Un passo non facile. A questo primo passo allude l’immagine di copertina: vedere di meno può, infatti, essere una scelta consapevole quando implica la libertà di sottrarsi alla corrente continua che ci lega al mondo delle cose; quando attiva, proprio in conseguenza della diminuzione della visione, una differente attenzione vigile su quanto ci circonda; quando, infine, ci induce a mettere bene a fuoco quanto ci viene consegnato dalla nuova modalità di visione. Coprire l’occhio può simbolicamente alludere all’attivazione di quello sguardo interiore, riferibile non solo e non tanto ad un oggetto specifico della nostra percezione, ma alla struttura stessa del nostro essere. È questa la radice di quel dubitare inteso come luogo sospeso, ma sempre fungibile, in cui verificare i coefficienti delle cose, al di là di ogni istituita consuetudine. Gli esperti interpellati in questo numero ci aiutano a cogliere il valore del dubbio in diversi ambiti: nel cinema, nella letteratura, nel linguaggio, nella pubblicità, nella giurisprudenza, nella psicologia, nella medicina, nella sociologia, nella filosofia. Mi sembra allora che proprio il tema del dubbio, colto nelle plurime

declinazioni qui ospitate, ci consenta di intravedere non in termini evasivi il guadagno dell’esser disposti all’ascolto del dialogo tra i saperi. Nella pratica di tale attitudine è possibile scorgere un ulteriore possibile significato della foto di copertina in cui è la mano dell’altro a dare inizio al processo del dubitare. Non è un caso che il termine latino dúbium intrattenga una parentela con dúo, sostantivo che indica il numero due. La derivazione etimologica sembra suggerire come non possa darsi alcun dubitare autentico se non all’interno di una dinamica relazionale in cui è l’altro che ci aiuta a vedere bene noi stessi.

*** In questo numero siamo, inoltre, felici di ospitare due esclusive risonanze tematiche, scaturite dal precedente numero di YOD, dedicato alle forme di espressione ibride. Si tratta di un colloquio di Alessandra Pizzi con Randall Kline, direttore del San Francisco Jazz festival e di uno studio di Azzurra Argentieri su Gomorra.

*** L’apertura di questo numero di YOD è però dedicata alla recente pubblicazione del Dizionario della Comunicazione, curato da Dario Edoardo Viganò, dopo un lavoro di quasi due anni che ha coinvolto 106 autori, professori provenienti da più di venti Università italiane e straniere, nonché affermati professionisti del mondo della comunicazione. Pubblichiamo così l’Introduzione del Dizionario e la voce sulla “Oggettività dell’informazione” scritta da uno dei Maestri della filosofia contemporanea, Dario Antiseri.

*** Anche con questo numero di YOD, continua il nostro impegno di offrire una piattaforma di contenuti per la riflessione, lo studio, la professione. Nel salutare i Lettori, desidero ringraziare tutti coloro che in questi mesi hanno inteso manifestare il loro apprezzamento per il nostro lavoro.

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&

indice

contributors

DARIO E. VIGANÒ

Dario Edoardo Viganò è professore ordinario di Comunicazione e preside dell’Istituto Redemptor Hominis, presso la Pontificia Università Lateranense. Insegna Semiologia del cinema e degli audiovisivi alla Luiss“Guido Carli”, dove è anche membro del Comitato direttivo del Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini”. Presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo e direttore della “Rivista del Cinematografo”, è anche membro del Consiglio di amministrazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. Tra i suoi libri: Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico (Roma 2005); Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia (con Ruggero Eugeni, 3 voll., Roma 2006); La Chiesa nel tempo dei media (Roma 2008); La musa impara a digitare. Uomo, media e società (Roma 2009).

DENTRO IL COMUNICARE

Introduzione del Dizionario della Comunicazione.

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DARIO ANTISERI

Già Professore Ordinario di filosofia del linguaggio presso l’Università di Padova, ha successivamente assunto la cattedra di Metodologia delle scienze sociali alla LUISS di Roma per poi ricoprire l’incarico di preside della Facoltà di Scienze politiche della stessa Università tra il 1994 ed il 1998. Nel febbraio del 2002 è stato insignito di una laurea honoris causa presso l’Università Statale di Mosca.

L’OGGETTIVITÀ DELL’INFORMAZIONE

L’oggettività dell’informazione è un mito, un ideale o un compito possibile?

SANDRO MANCINI

Sandro Mancini (Milano 1951) è professore ordinario di Filosofia Morale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo. Ha pubblicato, tra l’altro: “Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espres­sione” (1987, II. ediz. accresciuta: Mimesis, 2001), “Umano e nonumano tra vita e storia. Lévi­-Strauss, Jonas e la ragione dialettica” (Mimesis, 1996), “Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti” (FrancoAngeli, 1996), “La sfera infinita. Identità e differenza nel pensiero di Giordano Bruno” (Mimesis, 2000), “L’orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty, Paci” (Mimesis, 2005).

DUBITARE, VEDERE, DECIDERE: LO SCETTICISMO FENOMENOLOGICO

Riprendendo alcuni motivi riconducibili al pensiero greco e alla fenomenologia di impronta husserliana, si esamina una concezione del dubbio nei confronti della verità concepita come qualcosa e non come qualcuno. Nel ridislocarsi dal registro del ‘che cosa’ a quello del ‘chi’, il dubbio si presenta in tutt’altra luce, ed emerge il suo potenziale risvolto maligno, la malafede che può nascondersi in esso e utilizzarlo come comodo paravento per eludere la decisione e l’impegno.

MARIALUISA GIULIANO

Marialuisa Giuliano è giornalista pubblicista presso il quotidiano America Oggi. Laureata in Economia a Parma, dopo aver frequentato un Master alla Columbia University, vive a e lavora a New York.

PASSEGGIANDO PER NEW YORK

In “Immagini di città”, Benjamin scriveva: “Trovare parole per ciò che si ha dinnanzi agli occhi: quanto può essere difficile. Ma quando esse arrivano allora è come se battessero con dei piccoli colpi di martello contro la superficie del reale, sino a sbalzarne, come da una lastra di rame, la forma”. Quando una passeggiata per le vie di Manhattan può diventare cifra della possibilità che l’anima di un città ci porti a superare ogni diffidenza e dubbio nell’altro. Con un colloquio con Riccardo Viale, nuovo Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York.

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RICCARDO VIALE

Riccardo Viale, nato a Torino nel 1952, è professore ordinario di Logica e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Dal 2002 è Docente Stabile di Politica della Ricerca e dell’Innovazione presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione di Roma. Ha svolto incarichi di insegnamento e ricerca presso varie Università straniere (Oxford; Aix en Provence; Rice, Houston; Fribourg; Federal University of Rio de Janeiro; Santa Barbara). Il prof. Viale è, tra l’altro, Promotore e Membro dell’Associazione Italiana di Scienze Cognitive (dal 2002); Rappresentante nazionale nel Comitato di Programma “Strutturare lo Spazio Europeo della Ricerca” del Sesto Programma Quadro (dal 2002); Socio fondatore della “Italian Cultural Foundation” (FIAC) for North America (2003); Membro del Gruppo di lavoro su “Trasferimento dei risultati della ricerca” del C.N.R. di Roma (dal 2004); Membro dell’International Advisory Panel del New Opportunities for Research Funding Agency Co-operation in Europe (NORFACE) ERA-NET project (dal 2004).

PAOLO SPINICCI

Paolo Spinicci (Milano, 1958) si è laureato nel 1982 con Giovanni Piana sulla fenomenologia della logica in Husserl e attualmente insegna Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi di ricerca vertono sulla filosofia della percezione e in generale dell’esperienza, colta in una prospettiva analitico-fenomenologica. Ha scritto lavori su Husserl e Wittgenstein e ha pubblicato da poco un saggio sulla filosofia delle arti figurative (Simile alle ombre e al sogno. Filosofia dell’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 2008). Attualmente sta lavorando ad un libro sulla filosofia dell’immaginazione.

IL REMO SPEZZATO: RIFLESSIONI SUL DUBBIO E SULLE TESTIMONIANZE PERCETTIVE

Nelle sue Meditazioni, Cartesio ci invita a pensare alla percezione alla luce di due assunti di fondo. Il primo ci riconduce ad una metafora giuridica: se non consideriamo la percezione come un semplice fatto biologicamente utile, dobbiamo pensarla come una testimonianza che asserisce l’essere così del mondo. Il secondo ci invita invece a pensare alla percezione come una relazione mediata: date in una certezza indiscutibile sono le immagini degli oggetti, non la realtà di cui è lecito dubitare. Scopo di queste pagine è mettere in dubbio questi due assunti per mostrare la possibilità di una concezione realistica dell’intenzionalità.

PAOLO PEVERINI

Paolo Peverini insegna Semiotica e Semiotica della Comunicazione Visiva nella facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli di Roma, svolgendo la sua attività di ricerca all’interno del CMCS (Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini”). Tra le sue Pubblicazioni: “Le Immagini raccontano le notizie? Multimedialità e nuove frontiere del fotogiornalismo” (con Marica Spalletta, UCSI-UNISOB, 2007); “Unconventional. Valori, testi, pratiche della pubblicità sociale” (con Marica Spalletta, Meltemi, 2009).

LA RETORICA DEL DUBBIO NELLA PUBBLICITÀ SOCIALE NON CONVENZIONALE UNA PROSPETTIVA SOCIOSEMIOTICA

Nello scenario in continua evoluzione del social advertising un fenomeno si segnala all’attenzione con intensità sempre maggiore: la pubblicità sociale non convenzionale. L’unconventional, nelle sue numerose forme espressive, ricerca il contatto con lo spettatore a prescindere dalle modalità tradizionali di comunicazione pubblicitaria. In una prospettiva sociosemiotica la pubblicità sociale non convenzionale cerca, nei casi più interessanti, di trasformare lo scetticismo del pubblico in una strategia retorica innovativa; Esplorare le logiche comunicative della pubblicità sociale non convenzionale suggerisce inevitabilmente una riflessione sul tema del dubbio

POL BOUCHER

Pol Boucher, dottore in filosofia, ha ricevuto tre premi dall’Académie des Sciences Morales et Politiques per diverse edizioni dei lavori giuridici di Leibniz. Ha curato la pubblicazione dei seguenti testi leibniziani: Doctrina Conditionum (Duchemin, 1998), De Conditionibus (Vrin, 2001), Des cas perplexes (Vrin, 2007). Ha attualmente intrapreso la cura dell’edizione di altri tre lavori di Leibniz (Exemple de questions philosophiques tirées du droit, Nouvelle Méthode pour enseigner le droit et la jurisprudence, De l’art combinatoire). Ha recentemente terminato un lavoro di sintesi sull’utilizzo della dialettica da parte dei giuristi dell’ultima scolastica.

IL DUBBIO UN ESEMPIO DEL SUO TRATTAMENTO DA PARTE DEI GIURISTI DEL DIRITTO VECCHIO

La prima funzione del diritto è di definire norme precise per eliminare i casi incerti e garantire la prevedibilità delle soluzioni. Ma quando i fatti sono talmente ambigui da poter essere definiti in vari modi, l’obbligo di giudicare conduce ad utilizzare le risorse della procedura e delle distinzioni giuridiche, allo scopo di rendere il caso certo dal punto di vista del diritto, senza poterlo rendere certo dal punto di vista dei fatti. Questo è ciò che illustra l’analisi di un celebre duello ad opera di Leibniz.

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IGOR AGOSTINI

Igor Agostini, Dottore di ricerca in filosofia, Ancien pensionnaire étranger dell’Ecole Normale Supérieure di Parigi, è Professore a contratto di Storia della filosofia moderna presso l’Università del Salento, dove svolge la sua attività di ricerca presso il Centro Interdipartimentale su Descartes e il Seicento. È autore del volume L’infinità di Dio. Il dibattito da Suárez a Caterus. 1597-1641 (Roma, Editori Riuniti, 2008) e di numerosi articoli e saggi in italiano, inglese e francese su Descartes e la storia del cartesianismo. È dal 1999 collaboratore del Bulletin cartésien, lo strumento bibliografico di riferimento nell’ambito degli studi cartesiani.

IL MODERNO IN FILOSOFIA: DESCARTES L’«EROE»

La definizione del «moderno» in filosofia passa attraverso la discussione della questione del perché della storia della filosofia moderna Descartes sia considerato il padre. Fra le letture proposte da storici e filosofi, il presente saggio rilancia, richiamandone alcuni aspetti, l’interpretazione «rappresentazionista»: la modernità del pensiero cartesiano e la radice del dubbio sta nella posizione dell’idea quale oggetto immediato della conoscenza. Tale interpretazione trova ampio supporto nel corpus cartesiano e, per quel che concerne la posterità, una base testuale non solo negli autori cosiddetti «razionalisti», ma anche in quelli del filone «empirista».

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GIULIA BELGIOIOSO

Giulia Belgioioso è Professore ordinario di Storia della Filosofia presso l’Università del Salento, dove è Direttore del Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali e Coordinatore del Dottorato Internazionale in Forme e storia dei saperi filosofici. Fondatore del Centro Interdipartimentale di Studi su Descartes e il Seicento, collegato col Centre Descartes dell’Universitè Paris IVSorbonne.

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PABLO CHIUMINATTO

Pablo Chiuminatto (1965), Dottore di ricerca in filosofia, è Professore presso la Facoltà di Lettere della Pontificia Universidad Católica de Chile, dove svolge anche la sua attività di ricerca. Ha conseguito la sua formazione in Cile, Francia ed in Italia, dove ha collaborato con il Centro interdipartimentale di studi su Descartes e il seicento dell’Università del Salento. Dal 2004 è Co-editor della Revista de Arte y Literatura (Vértebra, Santiago del Chile).

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JACOB SCHMUTZ

Jacob Schmutz è attualmente professore associato presso l’Università Paris-IV Sorbonne. Ha consacrato la sua tesi di dottorato alla trattazione delle modalità nella metafisica gesuita spagnola. Lavora a una cartografia della cultura scolastica francese dell’ancien régime (15001789) e segnatamente a un catalogo collettivo di manoscritti accademici.

IGOR TAVILLA

Igor Tavilla (1980), insegna storia e filosofia nella scuola superiore ed è iscritto al Dottorato di ricerca in Antropologia e Filosofia presso l’Università degli Studi di Parma, dove approfondisce il pensiero di Søren Kierkegaard. Nel 2007 ha pubblicato il volume Ordet di Carl Theodor Dreyer. Il miraggio kierkegaardiano. Pisa: ETS, sulle analogie formali esistenti tra il capolavoro del regista danese e lo stile comunicativo di Kierkegaard. Nel 2009 sulla rivista Ciemme. Ricerca e informazione sulla comunicazione di massa 160: 38-49, è apparso un suo contributo dal titolo “Yukio Mishima: il corpo trafitto. Una tanatologia del cinema giapponese”.

TENEBROSA LANTERNA. LA PARABOLA DEL DUBBIO NELLA CINEMATOGRAFIA DI DREYER

Attraverso quali espedienti fotografici Dreyer ha reso presente la problematica del dubbio nel proprio cinema e con quali esiti nei diversi film? Quanto hanno inciso le angosce di orfano e autore emarginato sulle sue scelte espressive? Quale significato riveste il tema del dubbio nella sua opera? Da questi interrogativi il saggio muove alla scoperta della “tenebrosa lanterna”, sorta di proiettore di ombre a cui Dreyer affida la messa a punto di un’atmosfera caliginosa e torbida, cifra cromatica delle proprie incertezze. Attraverso un itinerario religioso, sottoposto alla severa censura del dubbio, Dreyer e i suoi film risorgeranno a nuova luce.

SERGIO GRMEK GERMANI

Sergio Grmek Germani (Trieste 1950). Critico e storico del cinema e autore televisivo (tra gli altri programmi “La regola del gioco” e “Fuori orario” per Rai Tre). E’ stato curatore di retrospettive e rassegne monografiche per vari festival internazionali del Friuli Venezia Giulia (sulle cinematografie jugoslave, sul cinema romeno e su Carl Theodor Dreyer), per la Biennale di Venezia (sull’area balcanica e Andrzej Munk), a Torino (Augusto Genina, Stavros Tornes) e Locarno (Mario Camerini). Svolge ricerche d’archivio per La Cineteca del Friuli, con la quale cura il progetto Cottafavi. Dirige a Trieste il festival “I mille occhi”. Ha fondato e diretto i primi due numeri (il secondo su Dreyer) della rivista “La cosa vista”. Scrive su “Il manifesto” e altri quotidiani e riviste. E’ inoltre autore di volumi monografici, del saggio sul cinema jugoslavo nella “Storia del cinema” edita da Einaudi e di numerose voci (tra cui Dreyer) nel parallelo “Dizionario dei registi”. Ha curato il volume Carl Theodor Dreyer. L’unica grande passione (Udine 2002) e, con G. Placereani, il volume di studi Per Dreyer. Incarnazione del cinema (Il Castoro, 2004).

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SILVIO GRASSELLI

Dottorando in Cinema presso il Di.Co.Spe. dell’Università di Roma Tre, è saggista, critico cinematografico (carta stampata, web, tv) e filmaker. Selezionatore e organizzatore in festival e rassegne. Dal 1998 organizza e conduce seminari teorici e laboratori pratici sul cinema e su tecniche e linguaggi dell’audiovisivo per la scuola media superiore e inferiore.

L’ORRORE DI CREDERE IL REGIME DEL DUBBIO IN LOURDES DI J. HAUSNER

Lourdes non è un film sulla fede ma sull’impossibilità/incapacità di credere; non un’esaltazione del dubbio scettico e neppure una parodia della fede religiosa, un’analisi, piuttosto, del regime di credenza nella contemporaneità. La narrazione cinematografica diventa strumento per l’esplorazione del credere e del non credere e più di tutto delle diverse declinazioni del dubitare, colte in un luogo tipico della contemporaneità, dove il Vero e il Falso sono affiancati e confusi, il Sacro e il Profano si scambiano continuamente di posto. Il (meta)riflesso del cinema, disciolto nel racconto, serve da palinsesto nel quale sistemare una collezione di appunti, ritratti e schizzi che hanno per oggetto “l’orrore di credere”. Con una intervista dell’ufficio stampa del film a Jessica Hausner e Sylvie Testud.

GIOVANNI SCARAFILE

ALDO CASTO

ARGOMENTARE, VEDERE, SENTIRE. SUL RAPPORTO TRA PATICO ED APTICO NELLA FILOSOFIA DEL CINEMA

IL MEDICO COME ARTISTA

Giovanni Scarafile è Professore aggregato di Etica e deontologia della comunicazione nell’Università del Salento. Tra gli scritti, si segnalano: “La vita che si cerca. Lettera ad uno studente sulla felicità dello studio”, Effatà 2005; con Dario E. Viganò, “L’adesso del domani. Rifigurazioni della speranza nel cinema moderno e contemporaneo”, Effatà 2007; “In lotta con il drago. Male e individuo nella teodicea di G.W. Leibniz”, Milella, Lecce 2007; “Paroles entièrement destituées de sens”. Pathic reason in the Theodicee in M. Dascal (Ed.), “Leibniz: What Kind Of Rationalist?”, Spinger 2008.

Che rapporto c’è tra visione e tattilità? A quale facoltà dell’umano bisogna riferirsi per mettere in relazione visibile e tattile? Qual è l’importanza della connessione tra questi due elementi e, soprattutto, in che rapporto si trova una tale connessione con la struttura dell’argomentazione?

Aldo Casto, laureato in medicina e chirurgia, è Specialista in Ortopedia e Traumatologia ed in Medicina Fisica e Riabilitazione. Relatore in diversi congressi nazionali ed internazionali, autore di 13 pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. Ha eseguito diversi Cadaver Lab in Europa e negli Stati Uniti. Sposato con Stefania, che lo sopporta quando anche sulla spiaggia porta con sé testi di medicina da leggere e dalla quale ha avuto una splendida bimba, Giulia, di sette anni. L’autore cerca di descrivere la difficile arte del medico, muovendo dal vissuto interiore a partire dal quale il medico esercita la sua professione. Se nella medicina attuale vengono aggiornandosi continuamente terapie e tecnologia a disposizione, è rimasta invariata la deontologia, la perseveranza nello studio e l’approccio caritatevole al malato che soffre.

CORRADO PUNZI

Laureato in Scienze della comunicazione presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, è dottorando di ricerca in Scienze giuridiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento. Qui ha studiato con il Prof. Raffaele De Giorgi e presso il Centro di Studi sul rischio di Lecce ha approfondito la teoria dei sistemi di Niklas Luhmann e, in particolare, la sua concezione del potere come medium della comunicazione. Nel 2007-2008 ha collaborato con la Fondazione Ente dello Spettacolo per la quale ha scritto diversi saggi, alcuni di questi pubblicati in Viganò, D. (Ed). 2009. Dizionario della Comunicazione. Roma: Carocci.

VEDI BUIO, FORSE È LUCE. I PARADOSSI DELL’OPINIONE PUBBLICA E DELLA DEMOCRAZIA

Cosa si vede quando si osserva la democrazia? Come è possibile capire che ogni verità, e quindi anche quella democratica, è solo un’invenzione di un bugiardo? Chi è, allora, il bugiardo? Qual è la menzogna che si nasconde dietro democrazia? Quale il suo paradosso? Indagare questi problemi non significa risolverli, ma quantomeno vedere di non vedere. Analizzando il principio illuminista della pubblicità del potere è possibile osservare il lato oscuro del processo di democratizzazione, ampliare la complessità, riconsegnare il problema all’agire politico.

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LUCIANO CANFORA

Luciano Canfora è ordinario di Filologia greca e latina presso l’Università di Bari Componente del comitato scientifico della “Society of Classical Tradition” di Boston, della Fondazione Istituto Gramsci di Roma. Dirige la rivista “Quaderni di Storia” e la collana di testi “La città antica”. Fa parte del comitato direttivo di “Historia y critica” (Santiago, Spagna), “Journal of Classical Tradition” (Boston), “Limes” (Roma).

LUIGI ALICI

Luigi Alici è professore ordinario di filosofia morale e Coordinatore del Dottorato di ricerca in Filosofia e teoria delle scienze umane nell’Università di Macerata. Dirige la sezione filosofia della Collana “SUB – strumenti universitari di base” per l’editrice La Scuola di Brescia e la Collana “Percorsi di etica” per l’editrice Aracne di Roma. Tra le sue pubblicazioni, si segnala: L’altro nell’io. In dialogo con Agostino, Città Nuova, Roma 1999; Il terzo escluso, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; La via della speranza. Tracce di futuro possibile, Ave, Roma 2006.

VERSO L’ALTO. PERCORSI DEL SENSO E IDOLATRIE DEL CONTEMPORANEO

Colloquio con Giovanni Scarafile sulle nuove idolatrie contemporanee, a partire dai temi affrontati nell’ultimo libro, Cielo di plastica.

ENZO NATTA

Giornalista, critico cinematografico di “Famiglia Cristiana” e di “Cronache & Opinioni”. Fondatore e direttore responsabile della rivista “Filmcronache”. Direttore della collana “Studi e ricerche” edita dall’Ancci (Associazione nazionale circoli cinematografici italiani). Fra i suoi ultimi libri “Uno sguardo nel buio – Cinema, critica, psicoanalisi” (Effatà Editrice) e “Una poltrona per due – Cinecittà fra pubblico e privato” (Effatà Editrice).

RIVAMARE

Un racconto a ritroso alla ricerca delle origini de Il graffio della regina. Con una introduzione alla collana di Ernesto Laura.

CLAUDIA PEDONE

Claudia Pedone è dottoranda all’Università del Salento, dove frequenta il corso dottorale in Etica e antropologia in cotutela con l’EHESS. Nata a Lecce nel 1985 si è laureata in Storia della filosofia con una tesi in Filosofia teoretica diretta da Fabio Minazzi. Le sue ricerche ruotano principalmente attorno all’opera di Paul Ricœur, di cui ha approfondito l’aspetto epistemologico durante gli studi universitari. A Parigi ha collaborato presso il Fonds Ricœur per l’archiviazione dei testi inediti lì lasciati in eredità dal filosofo francese.

LA LINGUA CHE CREA E PENSA PER TE ALCUNE OSSERVAZIONI SULL’UNIVERSO LINGUISTICO DELLA GERMANIA NAZISTA

Sulla scia dell’analisi filologica di Victor Klemperer si propone una riflessione sulla lingua della Germania nazista. Lo studio delle parola diviene il punto di accesso per la comprensione degli eventi che hanno avuto luogo nel cuore dell’Europa nella metà del Novecento e che hanno condotto all’assassinio di massa di dodici milioni di persone. Qual è il dominio che un potere totalitario può estendere sulla sfera del linguaggio? Quali sono le sue caratteristiche e quali conseguenze comporta? È possibile opporre una resistenza a questa sottile forma di violenza? La testimonianza diretta di Klemperer offre alcune risposte ed apre a nuove domande.

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FABIO MINAZZI

SERGIO SALVATORE

PENSARE AUSCHWITZ?

DUBITARE IN PSICOLOGIA PER NON DUBITARE DELLA PSICOLOGIA

Ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università dell’Insubria, Fabio Minazzi ha insegnato presso l’Università del Salento, l’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana e l’Università di Cordoba. Autore di oltre cinquanta volumi e di circa duecento studi nei quali ha affrontato, tra gli altri, il problema del realismo, la storia del pensiero filosofico italiano del Novecento, il dibattito epistemologico contemporaneo, la rivoluzione scientifica galileiana, il pensiero di Giulio Preti e di Ludovico Geymonat. Il dramma dei campi di sterminio è al centro dello studio svolto nel volume “Filosofia della Shoah” (2006). Una riflessione ai limiti del pensiero sulla possibilità di pensare il male radicale.

Professore ordinario di Psicologia dinamica presso Università del Salento. Co-direttore delle riviste: Integrative Psychological and Behaviour Science, European Journal of School Psychology Psicologia Scolastica. Membro dell’Editorial Board di Culture & Psychology, di International Journal of Idiographic Science, Rivista di Psicologia Clinica. Presidente della Società scientifica italiana di studi e ricerca per lo sviluppo della psicologia in ambito scolastico e formativo (SIRPAS). È autore o co-autore di circa 140 pubblicazioni scientifiche tra libri, curatele, articoli su riviste nazionali o internazionali.

Lo sviluppo della psicologia passa per la revisione delle premesse fondanti la disciplina. La prima parte del lavoro discute una tra le più rilevanti di tali premesse: la nomoteticità dei fenomeni psicologici. La seconda parte del lavoro introduce una distinzione tra due forme di dubbio: il dubbio costruttivo, che opera all’interno delle premesse fondative del proprio oggetto e il dubbio decostruttivo che assume come proprio riferimento tali premesse.

ALESSANDRA PIZZI

Alessandra Pizzi si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Firenze. È direttrice della collana di poesia della casa editrice “Sulla rotta del sole – Giordano Editore”, per la quale ha curato l’edizione di numerosi volumi. Ha collaborato con diverse riviste letterarie, come la «Rassegna Europea della Letteratura Italiana», diretta dal prof. Michelangelo Picone. Ha fondato e dirige, insieme al dott. Angelo Sconosciuto, la rivista letteraria «Rigel». Attualmente collabora in maniera stabile con il quotidiano «La Gazzetta del Mezzogiorno» e insegna italiano e storia nella scuola secondaria superiore di II grado.

DAVID HARRINGTON

David Harrington, trentasei anni fa, nel 1973, fonda il Kronos Quartet, un quartetto d’archi composto dallo stesso Harrington e da John Sherba, Hank Dutt e Jeffrey Zeigler. Ad oggi il Kronos Quartet ha tenuto migliaia di concerti in giro per il mondo; ha inciso più di quaranta cd e ha ricevuto numerosi premi. Il gruppo, fin dalla sua nascita, ha ricercato una visione artistica originale, grazie ad uno spirito ardito di esplorazione e ad una volontà di sperimentazione costanti in tutti i campi musicali. Questi elementi rappresentano la peculiarità del gruppo, considerato uno dei più celebri e autorevoli dei nostri tempi.

LE NOTE DELL’INFLUENZA RANDALL KLINE

Nel 1983 Randall Kline diede vita ad una manifestazione dal titolo Jazz in the City. Nel 1999 da quell’esperienza nacque la SFJazz Organization, un’organizzazione non-profit della quale Kline è fondatore e direttore artistico esecutivo e che comprende il SFJazz Festival, il SFJazz Spring Season, il SFJazz Summerfest, il SFJazz Education Programs e il gruppo musicale SFJazz Collective. Il Festival costituisce oggi una delle manifestazioni più importanti del mondo, con oltre cento tra concerti ed eventi culturali l’anno e più di 100.000 appassionati del jazz ed estimatori che giungono da ogni parte del pianeta per assistere ai concerti.

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AZZURRA ARGENTIERI

Azzurra Argentieri è nata a Brindisi nel 1982. Si è laureata a pieni voti in “Arti e Scienze dello Spettacolo” presso l’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi dal titolo Dentro Gomorra: dal romanzo al film. Quando la realtà si fa cinema. Nel 2006, dopo aver conseguito l’attestato di “Digital Video Director”, ha scritto, diretto e montato un cortometraggio dal titolo “Calma apparente”, in concorso al “Mestre film fest” e al festival “O’ Curt” di Napoli. Ha fondato, insieme ad altri artisti, il gruppo collettivo Molecular Project, con cui è attualmente impegnata nell’allestimento di una mostra dal titolo “Sinestesia” che si terrà a Tsagkarada-Mouresi (Grecia).

GOMORRA O LA QUESTIONE DEL GENERE

Una riflessione su sintonie e distonie tra il libro di Saviano ed il film di Garrone. Con una riflessione di Enzo Natta.

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GUGLIELMOFORGESDAVANZATI

Guglielmo Forges Davanzati (Napoli, 1967) è professore associato di Storia dell’analisi economica e titolare dell’ insegnamento di Giornalismo Economico nell’Università del Salento di Lecce. I suoi interessi di ricerca riguardano le dinamiche del mercato del lavoro, la modellistica postkeynesiana, l’ istituzionalismo, i rapporti fra etica ed economia. Fra le sue più recenti pubblicazioni si segnala la monografia Ethical codes and income distribution: A study of John Bates Clark and Thorstein Veblen. London-New York: Routledge 2006.

LA COMUNICAZIONE DELLE TEORIE ECONOMICHE

Quali sfide l’economia deve affrontare quando voglia porsi il problema della comunicazione?

RICCARDO REALFONZO

Riccardo Realfonzo (Napoli, 1964), economista, professore ordinario, è Direttore del Dipartimento di Analisi dei Sistemi Economici e Sociali dell’Università del Sannio. È autore di numerosi libri e saggi su temi di economia del lavoro, teoria monetaria, storia dell’analisi economica. Recentemente ha curato: L’economia della precarietà (con P. Leon, Manifestolibri, 2008), Qualità del lavoro e politiche per il Mezzogiorno (Franco Angeli, 2008). È Segretario dell’Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico nonché membro dell’editorial board di alcune riviste scientifiche. È membro della consulta economica nazionale della FIOM-CGIL. È coordinatore della rivista online “Economia e politica” (www.economiaepolitica.it).

VITO COMISO

Lucano, fotografo free lance, lavora tra Milano, Barcellona e Tokyo.

LA CERIMONIA DEL TÈ

Prima che tutto accada, l’attimo sospeso tra il qui e ora e l’immediato che deve avvenire, in questo momento sospeso, un incontro può suggerire uno scarto del destino.

ANTONELLA RICCIARDELLI

Antonella Ricciardelli (Varese, 1982) è laureata in Scienze dello Sviluppo presso l’Università del Salento. Attualmente è Cultrice della Materia di Storia dell’analisi economica e di Economia del Lavoro presso la Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio dell’Università del Salento. È inoltre dottoranda del Dipartimento di Studi Storici, Geografici e delle Relazioni Internazionali per l’indirizzo Paesaggio, Ambiente e Territorio tra Gestione delle Risorse Locali e Processi di Integrazione.

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TEORIA XXIX/2009/2

Metamorhoses of Love Mefamorfosi dell’amore

ISSN 1122-1259

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ETS

Metamorphoses of Love Metamorfosi dell’amore

TEORIA Rivista di filosofia fondata da Vittorio Sainati XXIX/2009/2 (Terza serie IV/2)

Edizioni ETS

Collana: Teoria. Rivista di filosofia fondata da Vittorio Sainati (8) Pagine: 216 Prezzo: € 18,00 Anno: 2009 ISBN: 9788846725523 Formato: cm.17x24 Autore: AA.VV. Com’è stato vissuto e pensato ciò che siamo soliti chiamare “amore”? Quali sono le trasformazioni, le metamorfosi, che questo sentimento, ben presto istituzionalizzato, subisce dal mondo antico, attraverso il medio evo e l’età moderna, fino alla riflessione contemporanea? E cosa cambia nella trattazione di esso, a seconda che la prospettiva che lo considera sia primariamente storica, oppure filosofica, letteraria, economica, religiosa? I contributi che vengono raccolti in questo fascicolo di “Teoria”, pubblicati sia in inglese che in italiano, offrono un vero e proprio dizionario dei mutamenti concettuali che questo termine, una volta sottoposto a riflessione, subisce nel corso della storia: da Platone alla dimensione transgender.

Scritti di: Umberto Laffi, Kenneth Seeskin, Robert W. Wallace, Bruno Centrone, Enrico Giaccherini, Gianfranco Fioravanti, Stefano Perfetti, David M. Posner, Regina M. Schwartz, Tiziano Raffaelli, Martin Zelder, Alessandro Balestrino, Cinzia Ciardi , Christine Helmer, Flavia Monceri, Eva De Clercq, Adriano Fabris 9


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EVENTO EDITORIALE

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Dopo due anni di lavoro, con il coinvolgimento di ben 106 autori, di professori provenienti da più di 20 Università italiane e straniere, nonché di affermati professionisti del mondo della comunicazione, arriva nelle librerie il Dizionario della Comunicazione. YOD presenta in esclusiva l’Introduzione del Dizionario, scritta dal curatore Dario Edoardo Viganò e la voce sull’«Oggettività dell’informazione» scritta da Dario Antiseri. Dario E. Viganò

DENTRO IL COMUNICARE 11


Obiettivi e finalità

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Intraprendere il lavoro per la pubblicazione di un Dizionario della comunicazione è impresa titanica. L’obiettivo di tale iniziativa editoriale è quello di realizzare un’opera che coniughi l’esattezza scientifica, il rigore metodologico e una marcata tensione all’approfondimento con la chiarezza espositiva, l’esaustività e l’agevolezza di consultazione proprie di un efficace strumento di formazione. L’opera con tali caratteristiche è concepita anzitutto come sussidio didattico per gli studenti universitari che, nel corso della propria formazione accademica, intendono accostarsi alle scienze della comunicazione, ma anche come valido sup-

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porto informativo e critico per tutti coloro che, a diversi livelli e per motivi differenti, operano nel settore della comunicazione o a questo, più in generale, rivolgono il proprio interesse. Al fine di corrispondere più adeguatamente di un dizionario tradizionale alle rinnovate strategie di costruzione e trasmissione dei saperi derivate all’individuo e alla collettività dall’impiego massivo dei nuovi media, nonché con l’intento di sollecitare nei lettori strategie molteplici, flessibili e personalizzabili di fruizione (dallo studio sistematico, all’aggiornamento, all’approfondimento di temi e prospettive, alla più semplice lettura selettiva), questo lavoro presenta una strutturazione interna moderna e funzionale,

incentrata sulla ripartizione per ambiti disciplinari e sull’organizzazione modulare del materiale informativo. In tal senso, il Dizionario della comunicazione si avvale di interventi propriamente specialistici di natura storico-critica e metodologica e di un’ampia offerta di percorsi tematici e concettuali autonomi (eppure variamente interrelabili).

Articolazione dell’opera La comunicazione è analizzata anzitutto a partire da ambiti disciplinari differenti (Approcci), ciascuno dei quali fornisce un inquadramento generale e sistematico degli argomenti di seguito affrontati, introduce temi e problemi interni o esterni che hanno in prevalenza segnato lo specifico orizzonte interpretativo, definisce i paradigmi teorico-critici e le procedure metodologiche di riferimento, tratteggiando gli sviluppi cronologici e le personalità di spicco della disciplina. Gli autori del saggio di approccio, provenienti dal mondo accademico o specialisti di spicco nel panorama italiano, hanno avuto cura, nel proprio contributo, di individuare e di privilegiare aspetti particolari per attualità o rilevanza. La differente provenienza degli autori contribuisce al disegno di un caleidoscopio di metodiche che arricchiscono l’approccio al mondo della comunicazione. Gli Approcci sono: • Storia della comunicazione, Massimo Baldini (Università luiss “Guido Carli”);


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• Forme della comunicazione mediale, Mariagrazia Fanchi (Università Cattolica di Milano); • Economia e management della comunicazione, Giuseppe Richeri (Università della Svizzera italiana); • Semiotica e scienze dei linguaggi, Ruggero Eugeni (Università Cattolica di Milano); • Sociologia della comunicazione, Marco Accorinti (Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del cnr, Sapienza Università di Roma); • Psicologia della comunicazione, Alessandro Amadori (Istituto Coesis Research, Università degli studi di Padova); • Educazione mediale, Pier Cesare Rivoltella (Università Cattolica di Milano); • Teologia della comunicazione, Dario Edoardo Viganò (Pontificia Università Lateranense); • Etica della comunicazione, Adriano Fabris (Università di Pisa); • Comunicazione e politica, Michele Sorice (Università luiss “Guido Carli”). Ogni Approccio è a sua volta articolato in Ambiti. Si tratta di saggi di taglio spiccatamente informativo, capaci di coniugare completezza e concisione, attraverso i quali vengono presentati, nei loro tratti salienti, argomenti, temi, percorsi e nodi concettuali (già emersi nell’analisi condotta negli Approcci o per la prima volta affrontati nel volume) fondamentali per indagare il mondo della comunicazione a partire dalla prospettiva disciplinare di riferimento. La cura degli Ambiti è stata opportunamente ripartita tra specialisti

di provenienza accademica ed esperti operanti come professionisti nel mondo della comunicazione. Accanto agli Ambiti trovano spazio quelli che qui abbiamo denominato Focus ovvero schede informative che presentano correnti culturali, movimenti di opinione, invenzioni, opere, eventi e fatti di varia natura inerenti il singolo Ambito. Concepito come parte integrante dell’intero volume, strumento essenziale per orientare e riorientare i destinatari nel corso delle diverse occasioni di fruizione dell’opera, è l’Indice dei nomi che conclude il lavoro.

Ringraziamenti Un ringraziamento anzitutto a Massimo Baldini, cui quest’opera è dedicata, per aver accolto da subito e con entusiasmo l’idea di tale progetto editoriale e avviato una serie di rapporti, le cui tracce sono presenti in questo lavoro. Grazie a tutti i professori amici e colleghi e ai professionisti che hanno reso

possibile questa opera mettendo a disposizione specifiche competenze e tempo prezioso. L’Approccio di Massimo Baldini Storia della comunicazione è l’ultimo suo scritto e rappresenta anche il passaggio di testimone al gruppo di giovani ricercatori che con lui hanno condiviso la tenacia della ricerca rigorosa e onesta. Un ringraziamento particolare al Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini” (luiss), luogo di custodia della memoria e di testimonianza dello stile nella ricerca; al Comitato direttivo di cui mi onoro di far parte con i professori David Forgacs, Matthew Hibberd e con gli amici Paolo Peverini (vicedirettore) ed Emiliana De Blasio (coordinatrice). Uno speciale ringraziamento al direttore, il professor Michele Sorice, perché ha voluto confermarmi la stima di Massimo Baldini e per la sincera amicizia. Il volume non avrebbe potuto vedere la luce senza la preziosa, costante e precisa collaborazione redazionale di Sergio Perugini.

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INFORMAZIONE

Dario Antiseri

L’OGGETTIVITÀ DELL’INFORMAZIONE

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L’oggettività dell’informazione è un mito, un ideale o un compito possibile?

n un supplemento dell’“Espresso” del 13 luglio 1969, intitolato Il lavaggio dei lettori, Umberto Eco scriveva che l’obiettività è un “mito”, una «manifestazione di falsa coscienza, ideologia», intesa come «struttura teorica elaborata per coprire altre cose». Per l’Eco di allora «il giornalista non ha un dovere di obiettività. Ha un dovere di testimonianza. Deve testimoniare su ciò che sa e deve testimoniare dicendo come la pensa lui. Compito del giornalista non è quello di convincere il lettore che gli sta dicendo la verità, bensì di avvertirlo che egli sta dicendo la “sua” verità. Ma che ce ne sono anche altre. Il giornalista che rispetta il lettore deve lasciargli il senso dell’alternativa». Il 15 marzo del 1972, al momento di assumere la direzione del “Corriere della Sera”, Piero Ottone nell’articolo di fondo – dal titolo Il nostro compito – dichiarava: «l’informazione libera e obiettiva costituisce il contributo della stampa affinché la società italiana sciolga il dilemma in senso positivo, cioè migliorando il sistema democratico, non rinunciandovi [...]. Nulla è più benefico della verità, anche se amara [...] Il giornale deve essere creduto da tutti, quali che siano i colori politici di chi lo legge». Nel 1978 nel saggio L’obiettività dell’informazione: il dibattito teorico e le trasformazioni della società italiana Eco cambia idea: l’obiettività finisce di essere un mito per diventare un ideale concreto. L’informazione deve configurarsi come «storiografia del presente», come informazione science oriented. Nel 1982 Giovanni Bechelloni, nel Mestiere del giornalista, insiste: «secondo noi [...] l’obiettività deve essere un traguardo a cui mirare costantemente, un obiettivo da perseguire con tenacia. Dietro l’idea dell’obiettività, ci deve stare la consapevolezza che sia possibile dare, teoricamente, un’interpretazione oggettiva di ciò che accade: l’obiettività diventa così un concetto ideal-tipico (nel senso di Max Weber), come tale non esistente ma la cui presenza è riconoscibile: una tensione permanente verso la verità»1. E, infine, nel 1995, Furio Colombo (in Ultime notizie sul giornalismo) fa presente che l’adorazione e il rifiuto dell’obiettività costituiscono due pericolose trappole: l’adorazione dell’obiettività porterebbe «a un progetto impossibile», il rifiuto dell’obiettività condurrebbe «a un progetto sbagliato». La via giusta del giornalismo, afferma Furio Colombo, è «il percorso, onesto e testardo, dei fatti verificati con indipendenza, utilizzando

le fonti per quanto autorevoli solo come uno dei possibili materiali di costruzione della notizia»2. Ecco, dunque, il problema: l’oggettività dell’informazione è un mito, un ideale o un compito possibile? «D’accordo, non tutti i giornalisti italiani mentono. Ma una parte di noi, in epoche diverse, ha sempre mentito. Abbiamo mentito per conto del padrone del giornale, soprattutto quando l’interesse numero uno del padrone non era quello di vendere notizie. Abbiamo mentito per riguardo al potere politico dominante. Abbiamo mentito per favorire l’opposizione. Abbiamo mentito quando ce lo chiedeva qualche club così poco presentabile da esser segreto, come accadde con la Loggia P2. Abbiamo mentito per favorire o contrastare la politica e la magistratura. Abbiamo mentito per tornaconto personale. Abbiamo mentito anche per quelle che ci apparivano nobili ragioni, ragioni alte e forti, ossia per spinta ideologica, per scelta di campo. E talvolta, onore al merito, abbiamo avuto il coraggio di testimoniare l’errore. Con un po’ di ritardo, ma, vivaddio! con sincerità»3. Questo scrive Giampaolo Pansa in Carte false. Dunque: esistono giornalisti asini, giornalisti ciechi, giornalisti venduti, giornalisti opportunisti ecc. ecc. Ma esistono anche giornalisti onesti e perbene, ci dice Pansa. E non c’è ragione per dubitarne. Tanto più che ci sono stati giornalisti che hanno pagato con la vita la loro onestà e il loro coraggio. Ma c’è una domanda che qui non possiamo eludere: è reale – per dirla con Ugo Ronfani – il fetore delle bugie che si leva dalle redazioni; è ben vero cioè che esistono giornalisti che mentono per le ragioni più diverse, ma i giornalisti onesti e perbene sono forse infallibili? Qui, insomma, c’è da distinguere tra obiettività e oggettività. La prima è un predicato delle persone oneste e in buona fede, la seconda è un predicato di proposizioni, teorie, argomentazioni. L’obiettività è una virtù personale; l’oggettività è una questione pubblica, di pubblico controllo. Il prodotto non è il produttore. E una informazione o argomentazione che presume di descrivere e spiegare qualche fatto è oggettiva quando è pubblicamente, cioè intersoggettivamente, controllabile, e quindi falsificabile. Se questo è vero, allora come nella scienza la strada verso più verità o verso una migliore verità è la stessa strada degli errori individuati ed eliminati – cioè come nella scienza l’individuazione dei fatti contrari alle teorie è tra gli ingredienti più importanti della ricerca –

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così nel giornalismo l’individuazione dei fatti e degli argomenti contrari alle tesi esposte dal giornalista dovrebbe essere un punto di orgoglio di ogni giornale serio. Un punto di orgoglio di ogni giornale serio e non un atto di coraggio o un gesto di contrizione (sempre benvenuti) di qualche singolo giornalista.

Il problema delle fonti Se valgono le cose dette sul metodo scientifico da Karl Popper4 e sul procedimento ermeneutico da Hans Georg Gadamer5 – e cioè che: non possiamo mai essere certi di aver raggiunto una teoria o una interpretazione vera; che più idee sono una ricchezza e non una miseria; che l’ipotesi o interpretazione migliore è, di volta in volta, quella che risolve più problemi e che riesce a resistere ai controlli più severi; che la verità non è un possesso – quanto piuttosto un ideale regolativo; che il fatto puro o libero da teoria è una idea che non regge; che la “logica” della ricerca è la “logica” del “dissenso” – della discussione, e su tutto – se valgono, dunque, queste cose, diventano allora comprensibili le considerazioni che, nel secolo scorso, John Stuart Mill ha sviluppato nel suo grande libro Saggio sulla libertà6, specie nel secondo capitolo intitolato: Della libertà di pensiero e di discussione. «Proibire di accogliere un’opinione perché la si reputa falsa, equivale ad affermare che si ha la certezza assoluta, impedire che venga discussa, è una presunzione dell’infallibilità»7. «Ogni uomo sa bene che è fallibile, ma pochi trovano necessario prendere le precauzioni contro la propria fallibilità; pochi ammettono la supposizione che la cosa, sulla quale sono convinti di aver ragione, possa essere uno degli esempi della fallibilità cui si riconoscono soggetti»8. «La libertà illimitata di contraddire e disapprovare è appunto la condizione, senza cui non potremmo mai stabilire un’opinione vera. Un essere umano non ha alcun altro mezzo per assicurarsi razionalmente che trovasi dalla parte del vero»9. Per Mill «la fonte di tutto quanto avvi di rispettabile nell’uomo, sia come essere intellet-

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tuale che come essere morale, è la capacità di correggersi. L’uomo – egli scrive – può rettificare i suoi errori per mezzo della discussione e dell’esperienza. Non della sola esperienza: occorre anche la discussione, per mostrare come l’esperienza debba essere interpretata»10. Gli uomini, il cui giudizio ispira fiducia, sono uomini – afferma Mill – i quali «prestarono attenzione ad ogni critica mossa sulle loro opinioni e sulla loro condotta: si abituarono ad ascoltare pazientemente tutto quello che poteva dirsi contro di loro, e a profittarne in quanto era giusto [...]. La costante abitudine di correggere e di completare le nostre opinioni ponendole a confronto di quelle degli altri, lungi dal generare dubbi e irrisolutezze, è il solo fondamento stabile d’una ragionevole fiducia nelle opinioni medesime»11. Teorie sempre migliori e interpretazioni sempre più adeguate non hanno fonti privilegiate; non sono frutto di editti, esse sono esiti di una costruzione senza sosta. Anche «la più intollerante delle chiese, la Chiesa cattolica romana – dice Mill – ammette e ascolta attentamente l’avvocato del diavolo, persino nei processi per la canonizzazione dei santi. Il più degno dei mortali non è innalzato agli onori postumi, se non viene prima sentito e vagliato tutto quello che il diavolo può dire contro di lui [...]. Le nostre credenze, di qualunque natura, non possono riposare sopra migliore guarentigia, che sopra quest’invito permanente al mondo intero di confutarle e di mostrarne la falsità»12. Se non esistono fonti privilegiate di verità, nemmeno questo o quel giornale può pretendere o può venir visto come una fonte privilegiata di verità. E non esistono giornalisti probi, colti e intelligenti che siano immuni da errori. Per questo non dovrebbe esistere un giornalismo fiduciario; dovrebbe piuttosto esistere un giornalismo responsabile e controllabile: disposto a correggere gli errori diffusi e talvolta anche difesi; e ad accogliere interpretazioni contrapposte. Questo anche in considerazione del fatto che un lettore è lettore, in genere, di un solo giornale. La libertà di stampa è garantita: questa libertà è libertà per la verità, ma permette la menzogna. Chi difende il diritto del cittadino

a essere informato in maniera veritiera? Meglio: come è possibile pensare a una qualche istituzione in grado di difendere questo diritto? Io non vedo altra soluzione che quella adottata dagli stessi scienziati: la discussione tra giornalisti, certo, ma anche – e auspicherei soprattutto – tra il giornalista che espone la teoria (descrizione e spiegazione dei fatti) e quelli che la leggono. E pertanto le lettere di smentita dovrebbero diventare una pagina importantissima del giornale. Si tratta, insomma, di introdurre e favorire un costume in grado di trasformare il giornale da strumento di consenso in organo di costruzione di interpretazioni via via più adeguate dei problemi discussi, in un organo, dunque, nel quale è il “dissenso” a essere la cosa più importante. In un suo saggio dal titolo Il mondo del giornalismo contemporaneo13 Giovanni Santambrogio registra appelli alla responsabilità, inviti a non abdicare alla propria identità, sferzate contro il conformismo, difese dell’indipendenza dai centri di potere politici e finanziari, le difficoltà (che talvolta paiono insormontabili) del giornalista politico, ammonimenti contro il dogmatismo e prese di posizione a favore del pluralismo delle opinioni, insistenze su di una migliore preparazione culturale del giornalista. In ogni caso, l’interrogativo di fondo che ritorna riguarda la natura e le condizioni (psicologiche, istituzionali, politiche ed economiche) dell’informazione giornalistica. Per quel che concerne la natura dell’oggettività dell’informazione giornalistica, Santambrogio nel suo saggio chiede: Obiettività: un mito o un ideale? E nel Problema dell’oggettività dell’informazione giornalistica14 risponde che proprio nella controllabilità delle informazioni si persegue l’oggettività, ovvero l’avvicinamento al vero. La presunzione del sostenitore della teoria cospiratoria della società (secondo cui tutti gli eventi negativi sono frutto di malvagi cospiratori); l’iniezione di ipotesi ad hoc per salvare una teoria in pericolo; la presunta onniscienza dell’“ideologo” – sono tutti fattori che proibiscono il conseguimento dell’oggettività dell’informazione – giacché l’oggettività delle informazioni, dal punto di vista epistemologico, equivale, appunto, alla loro


controllabilità.

Considerazioni di natura epistemologica Di seguito alcune considerazioni conclusive di natura epistemologica. a) In primo luogo, è più che opportuno distinguere tra l’obiettività di una persona e l’oggettività di una informazione o proposizione. Una persona obiettiva è una persona “onesta”, che non vuole ingannare, sincera in quel che dice. L’oggettività di una proposizione equivale, invece, alla sua controllabilità fattuale. In questa prospettiva l’obiettività non è garanzia di oggettività. b) Una descrizione di qualche fatto o evento ovvero una spiegazione di esso è sempre parziale, prospettica, operata da un punto di vista di una teoria. Una informazione, quindi, è sempre parziale. Al pari della smentibilità, la parzialità è il requisito di una informazione. La parzialità non è affatto da confondersi con la faziosità. c) Ogni informazione (descrizione o spiegazione di fatti o eventi) science oriented è, pertanto, sempre parziale e, insieme, controllabile tramite il ricorso a “fatti” ben vagliati. Siffatta controllabilità delle informazioni per mezzo del ricorso ai fatti implica la smentibilità di ogni e qualsiasi informazione: delle ipotesi esplicative come anche di quelle proposizioni che, per quanto se ne possa all’epoca sapere, descrivono fatti o eventi, aspetti di pezzi di realtà. Una informazione per poter essere vera deve poter essere anche falsa. d) Non regge la difesa di chi dice «ogni giornalista propone la propria verità». Qualsiasi giornalista può e deve proporre la propria ipotesi. Ma, nel confronto con le altre idee e con i fatti, deve essere altrettanto pronto ad abbandonare la “propria” verità se questa si rivela falsità e a fare propria la verità “di un altro”. La verità non sopporta padroni. e) Il giornalista nel suo lavoro procede (e non può fare diversamente) nello stesso modo dello scienziato: affronta i suoi problemi avanzando congetture controllabili sui fatti. E i fatti possono confermare come anche

possono smentire, mostrare falsa – cioè falsificare – qualsiasi descrizione e qualsiasi spiegazione. f) Esattamente nella controllabilità – vale a dire nella falsificabilità – delle informazioni consiste la loro oggettività. L’oggettività di un’informazione non equivale alla sua definitività o incontestabilità. g) Né l’oggettività di una informazione può venir confusa con la comprensione totale dell’oggetto o dell’avvenimento indagato: «noi non possiamo conoscere nella sua totalità nemmeno il più piccolo pezzo di mondo» afferma Popper. h) Due informazioni differenti su aspetti diversi di qualche fatto o evento sono compatibili, necessarie per “sapere di più”. Due informazioni differenti sul medesimo aspetto di qualche realtà non possono, invece, convivere: possono essere entrambe false, ma non possono essere entrambe vere. i) Fallibile Isaac Newton, fallibile qualsiasi giornalista – anche il più preparato, il più cauto, il più responsabile. È nella continua discussione che gradualmente si costruisce l’informazione o interpretazione migliore: nel continuo contrasto tra ipotesi e ipotesi, e tra ipotesi e quelli che di volta in volta si pensa essere i fatti. j) È dagli errori individuati e corretti che si impara. E il comportamento più tipicamente umano è esattamente quello di apprendere dai nostri errori. Sbagliano gli scienziati, sbagliano i giornalisti. Niente di strano. E va aggiunto che l’errore giornalistico è tante volte forse più facile di quello dello scienziato: quasi sempre il giornalista ha poco tempo per scrivere l’articolo, non sempre può vagliare con tutta la cautela necessaria le notizie ecc. Tutto questo torna a scusante per il giornalista. Ma il giornale ha canali preziosi per correggere i propri errori – uno di questi canali è costituito dalle opinioni degli altri giornali. Un altro canale sono le lettere di smentita. È penoso vedere pubblicate le lettere di smentita in ultima pagina, in corpo più piccolo e magari con repliche “verificazionistiche” del giornalista. k) Quanto detto non significa affatto che le lettere di smentita siano informazioni dotate di verità certa; significa solo che esse possono rappresentare utili strumenti (chiara-

mente: non incontrovertibili) per una proficua critica per l’avvio o l’ampliamento di una discussione tesa alla scoperta degli errori e al conseguimento di informazioni più solide, maggiormente esplicative. Il giornalista non muore soltanto con l’acquiescenza ai padroni di turno; muore anche a causa della perdita di fiducia generata da una tanto pervicace quanto inutile copertura di errori e menzogne. l) Il grande clinico bolognese Augusto Murri osservava che tra i trattati che si studiano nella facoltà di Medicina mancava (e manca) quello forse più importante: il manuale degli errori. Chiedo: la stessa cosa non dovrebbe valere anche per il giornalismo? Un manuale degli errori (dei tipi di errori) dei giornalisti non dovrebbe forse far parte di una rigorosa e approfondita formazione epistemologica del giornalista? Endnotes

1 G. Bechelloni (a cura di), Il mestiere del giornalista. Sguardo sociologico sulla pratica e sull’ideologia della professione giornalistica, Liguori, Napoli 1982. 2 F. Colombo, Ultime notizie sul giornalismo. Manuale di giornalismo internazionale, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 52. 3 G. Pansa, Carte false, Rizzoli, Milano 1986, pp. 44-5. 4 K. R. Popper, The Logic of Scientific Discovery, Hutchinson, London 1959, trad. it. Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1971. 5 H. G Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzuge einer philosophischen Hermeneutik, Mohr, Tubingern 1965, trad. it. Verità e metodo, Fabbri, Milano 1972. 6 J. Stuart Mill, On Liberty, 1859, trad. it. Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 2002. 7 Ivi, p. 21. 8 Ibid. 9 Ivi, p. 23. 10 Ivi, p. 24. 11 Ivi, pp. 24-5. 12 Ivi, p. 25. 13 Cfr. G. Santambrogio, Il mondo del giornalismo contemporaneo, in AA.VV., Storia del giornalismo italiano, UTET, Torino 1997. 14 Cfr. G. Santambrogio, Il problema dell’oggettività dell’informazione giornalistica, in D. Antiseri, G. Santambrogio (a cura di), Giornali. L’informazione dov’è?, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999.

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FILOSOFIA

Sandro Mancini

Dubitare, vedere, decidere: lo scetticismo fenomenologico

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a funzione insostituibile svolta dal dubbio, quale principio metodico della conoscenza e habitus di ogni pratica teorica e sociale, è una conquista della coscienza laica, stabilmente acquisita. Si prenda uno dei più alti momenti del dubitare scettico, gli imperituri Saggi di Michel de Montaigne, che si dispongono all’alba della modernità: Sergio Solmi, nella nota posta a introduzione della bella traduzione italiana degli Essais curata da Fausta Garavini, ha connotato il dubbio montaignano racchiuso nel celeberrimo motto Que sais-je? (Che cosa so?) come «nulla più di un semplice metodo individuale, quasi si di­ rebbe igienico, di dare aria ai pensieri» (Solmi 1996: XIX); bene, assunto in tale prospettiva, chi potrebbe contestarne la preziosa e insostituibile funzione disintossicante? Tuttavia, se non c’è dubbio sulla validità del dubbio, allora con ciò stesso il dubitare si smentisce nel momento in cui si erge a dubbio ultimativo e insormontabile: per sprigionare le sue potenzialità euristiche e la sua carica antidogmatica, il dubbio esige di essere prolungato in ulteriori movimenti di pensiero, aperti

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proprio dalla sua capacità di introdurre delle cesure nella compatta continuità dei significati consolidati. Inoltre, e più sostanzialmente: se è ancora pertinente l’asserto di Hegel, per cui il pensare muove dall’esercizio preliminare del rendere estraneo il noto, allora anche le vie del dubbio filosofico giunte fino a noi vanno sì accolte come eredità vivente, ma anche problematizzate alla luce delle urgenze del presente che ci interpellano, e che ci chiedono di essere raccolte nelle loro cifre di senso. Diversamente, si rischia di limitarsi a una ricognizione storica al riguardo, peraltro sempre opportuna, ma che si limita a reiterare quanto si è già acquisito. Merleau-Ponty scriveva che nel costituito “la filosofia si annoia”, e che solo il senso nascente, incastonato negli intervalli delle parole, chiama la filosofia a trovare i varchi per esprimerlo. Alla luce del suo invito, tornare a interrogarsi sul dubbio diventa difficile. Limitiamoci allora a uno sguardo panoramico, a volo d’uccello, sull’itinerario filosofico del dubbio scettico, per soffermarci poi su un passaggio privilegiato del dubbio filosofico, l’epochè nella fenomenologia di Husserl, e per concludere indicando il punto d’arresto

del dubbio, oltrepassato il quale esso diventa l’alibi che sottrae alla scelta dell’impegno per l’altro e con l’altro. Che il dubbio sia uno dei principali fili conduttori della ricerca filosofica, da Socrate fino a noi, è cosa che si apprende sui banchi di scuola al liceo, se si ha la fortuna di trovare un buon insegnante, e comunque dalla lettura da un buon libro di storia della filosofia1. Legato nel pensiero greco all’esperienza della meraviglia, in un quadro manifestativo in cui soggetto e oggetto non si sono ancora distaccati e contrapposti, il dubitare svolge una funzione maieutica nell’inscienza socratica, quale sapere di non sapere. Esso quindi si radicalizza in due percorsi paralleli (ricostruiti come tali aposteriori, e strettamente intrecciati nel loro svolgimento storico): su una sponda nel cammino dello scetticismo dell’Accademia, che lo declina efficacemente nel segno del probabilismo, rendendolo compossibile con la fede filosofica promanante – allora come oggi – dall’ispirazione platonica; sull’altra sponda in quello più coerente, ma ultimamente sterile dello scetticismo pirroniano, che nell’approdo finale della impossibile ricerca della verità


include il dubbio stesso, anch’esso risucchiato nel vortice del non sapere. È nota la confutazione di tale esito formulata da Agostino; questi nel Contra Academicos fa leva sul dato esperienziale dell’indubitabilità del sentire e sull’evidenza che chi dubita sa di dubitare. Il guadagno speculativo di Agostino sarà trasmesso lungo tutto il ricco itinerario del platonismo cristiano, che trova il suo vertice nella docta ignorantia di Nicola Cusano, con l’asserto della insormontabile congetturalità di ogni venatio sapientiae. Il motivo agostiniano verrà rinnovato nel dubbio metodico di Cartesio, che nell’esperienza dell’iperbolico dubitare attinge la certezza indistruttibile del Cogito; poi ancora ritornerà agli inizi del Novecento, con il tema dell’epochè nella fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl. Nell’intervallo tra loro si situa una fitta trama di profonde risemantizzazioni delle fonti antiche del dubbio ora abbozzate (l’inscienza socratica, lo scetticismo accademico e pirroniano, il dubbio fenomenologico agostiniano). Hume rinnoverà, moderandolo, lo scetticismo pirroniano; Kant riformulerà il Cogito cartesiano alla luce della svolta trascendentale; Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, insedierà il dubbio nel cuore dell’esperienza, allargata fino a comprendere sia l’integralità del vissuto individuale, sia il percorso collettivo dell’umanità, sia infine lo stesso cammino provvidenziale dell’Assoluto nella storia. Con tale ampliamento del suo campo di applicazione, il dubbio si trasformerà da gnoseologico a esistenziale, fino a configurarsi come un dubbio disperato, in cui nulla più sta saldo: né l’oggetto, né

il sapere dell’oggetto e, da ultimo, neppure il soggetto stesso della conoscenza e dell’azione, anch’esso sempre diverso dalle immagine di sé che si va costruendo. Il dubbio disperato è un filo conduttore di tutta la prima parte del capolavoro hegeliano del 1807. Commentando la complessa figura del “mondo invertito” (die verkehrte Welt) nel capitolo sull’Intelletto, Gadamer rimarca che qui non ne va solo di questa figura, ma vi si palesa qualcosa di più profondo, che contraddistingue l’intera esperienza dell’uomo: tutto accade sempre in modo diverso, anzi rovesciato, rispetto alle aspettative che avevano suscitato l’azione (Marietti 1973). Dalla fenomenologia hegeliana della coscienza traiamo dunque l’insegnamento che è votato allo scacco il tentativo di rinchiudere il cammino dialettico dell’Assoluto nei quadri categoriali, allestiti dall’uomo al fine di rassicurarsi della propria opinata centralità: se vi è una salda certezza categoriale nel cammino di ricerca della verità è appunto questa, per cui allorché crediamo di scoprire in un nuovo scenario di senso un’adeguata corrispondenza tra teoria e prassi, dobbiamo fortemente dubitarne, e ricercare l’occulto fattore di disuguaglianza che spezzerà quella apparente simmetria. La disperazione della coscienza dubitante ritorna al centro della riflessione di Kierkegaard nel Johannes Climacus o De omnibus dubitandum est, del 1843, in una convergenza con l’anima fenomenologica di Hegel. Fu merito di alcuni pensatori francesi, tra gli anni ’20 e gli anni’40 del ‘900 (tra tutti Jean Wahl) l’avvertire tale intreccio fecondo, al di là degli esiti antitetici delle prospettive

hegeliana e kierkegaardiana, la prima sfociante nella trasparenza dell’idea, dunque in un trionfante panlogismo, e la seconda approdante all’antitesi insuperabile insita nel cuore dell’esistenza, dimidiata tra la tensione al finito e quella all’infinito. Ma nel punto di partenza, ossia nell’assunzione dell’esperienza come coinvolgente l’integralità del vissuto, Hegel e Kierkegaard convergono: anche il dubbio tematizzato dal pensatore danese non rimane relegato alla sfera gnoseologica. In quest’ultima, peraltro, esso si mostra come intrinsecamente aporetico; infatti, mentre il dubbio quale inizio del pensare filosofico si configura per il suo contenuto come un principio negativo, esso deve essere posto anche come un principio positivo, prescrivente appunto l’imperativo del dubitare: in tal modo la radicale negatività del dubitare si smentisce da sola. La

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forza del dubbio, per Kierkegaard, non consiste nell’ergersi a principio del filosofare, bensì nel condurre a manifestazione l’esperienza della contraddizione e dell’impossibilità come intimamente costitutiva della coscienza, impossibilitata a sintetizzare le antitesi in cui si dibatte. Heidegger in Essere e tempo e Sartre ne L’essere e il nulla riprenderanno questo snodo kierkegaardiano. Tornano così a intrecciarsi i percorsi di Hegel e di Kierkegaard; ma tra gli uni e gli altri si colloca Edmund Husserl, l’ultimo grande classico della filosofia europea, che con la sua fenomenologia trascendentale svetta sulla scena filosofica della prima metà XX secolo, rinnovando ancora una volta l’ideale della filosofia come scienza rigorosa. In Husserl il percorso della fenomenologia trascendentale è inaugurato dall’operazione preliminare dell’epochè, che sospende il giudizio sull’intero campo di validità del sapere e dà inizio con ciò alla ricerca del senso dell’esperienza. Tale ricerca esige infatti che si metta tra parentesi tutte le datità, per aprire un nuovo spazio di manifestazione alle predatità, ossia alle evidenze aurorali, antepredicative, in cui si schiudono i fenomeni originari dell’esperienza vissuta e nelle quali ogni volta, sempre di nuovo, un senso nascente e sconosciuto zampilla, sorprendendoci e distaccandoci dalle credenze cui fino ad allora si aveva aderito. Ora, per attingere tale dimensione fontale di senso occorre rimodulare lo sguardo ispezionante, ritraendo l’assenso a tutto ciò che pretende di imporsi solo in quanto si presenta come già costituito, in forza della sua mera fattualità: agli apparati come alle credenze e ai saperi. Il dubbio fenomenologico consente appunto di sottrarre al costituito la sua presunta ovvietà, fluidificando ciò che nell’esperienza si presenta come cristallizzato; svolge quindi una funzione maieutica, nel solco ideale dell’inscienza socratica. L’epochè avvia in tal modo il processo di riduzione delle datità categoriali al piano soggiacente dei fenomeni originari. Tuttavia ciò non configura l’esito della riduzione fenomenologica; questa infatti si rilancia in una seconda riduzione, la riduzione eidetica: essa raggiunge le essenze connesse ai fenomeni col variarli immaginativamente, e attraverso

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eliminazioni successive raggiunge il nucleo di invarianza inscritto nei fenomeni, la loro essenza (eidos). La riduzione eidetica non segna però una mera riformulazione del platonismo. In sintonia con Heinrich Rickert da un lato e coi neokantiani della Scuola di Marburgo dall’altro lato Husserl separa, nella determinazione dell’ambito delle idee, i piani dell’essere e della validità: per adempiere alla loro funzione gnoseologica, insomma per valere, le idee non hanno bisogno di consistenza ontologica; anzi, se glielo conferissimo saremmo ricondotti all’insuperabile aporia del principio di individuazione, che riconosce all’individuo una pregnanza ontologica solo nella misura in cui partecipa a superiori entità universali (l’umanità, la natura intelligibile, l’Ente supremo). Di contro, Husserl assume la rigorosa prospettiva monadologica leibniziana, attinta per il tramite di Rudolph H. Lotze, per il quale solo i soggetti concreti, individuali, hanno essere, e lo hanno a motivo della loro singolarità. In questa stessa direzione Husserl non esita a qualificare l’intersoggettività come intermonadicità. Che cosa designino le essenze nel movimento di pensiero husserliano lo ha colto in profondità Merleau-Ponty, nelle folgoranti note che accompagnano la sua ultima e incompiuta opera, Il visibile e l’invisibile. Le idee sono la “fodera invisibile” dei fenomeni il loro risvolto di intemporale validità. Nelle stesse note Merleau-Ponty coglie acutamente una convergenza al riguardo con Proust. Il distacco scettico del Narratore della Recherche dalla vanitas che avvolge la vita dei salotti parigini, descritti nei loro dettagli per denunciarne più efficacemente la vacuità, produce l’effetto di spalancare i reconditi paesaggi della memoria, in cui abitano per sempre i biancospini e i campanili esperiti nel tempo trascorso; in modo analogo la skepsis esercitata dalla fenomenologia sul mondano dischiude uno spazio di manifestazione ai fenomeni originari dell’esperienza insieme alla loro trama eidetica. Ma la riduzione eidetica, che disvela l’interna intelligibilità delle evidenze fenomeniche, la loro intemporale quiddità, non configura l’approdo conclusivo della fenomenologia;

essa infatti si prolunga in una terza e conclusiva tappa, nella quale la riduzione eidetica si eleva alla riduzione trascendentale, attingendo infine nell’io puro l’ultima, indistruttibile fonte di senso. L’io trascendentale è pensato da Husserl non come una funzione anonima e impersonale di conoscenza, ma come un centro monadico di costituzione del senso, universale e al contempo singolare, perché immanente a ogni coscienza individuale (Husserl pensa non solo agli uomini, ma anche agli animali superiori, agli abitanti degli altri mondi e alle possibili intelligenze angeliche). Innalzandosi a questo vertice, l’espressione del senso trova la sua più profonda consistenza veritativa, che travalica la stessa opposizione di essere e non essere, non venendo quindi minata neppure dall’ipotesi dell’irrealtà del mondo. Così le onde del dubbio scettico che avevano sollevato e sospinto l’epochè si frangono sui rocciosi contorni dell’io assoluto, e ciò avviene proprio quando il dubbio si fa più radicale, ponendo tra parentesi la stessa tesi naturale dell’esistenza del mondo: il mondo potrebbe anche essere solo un sogno, una cornice insostanziale dei fenomeni che si presentano alla coscienza, ma l’atto dell’io che esperisce quel campo di relazioni fenomeniche è esso stesso irrelativo e irriducibile: la sua incondizionatezza si impone all’io stesso come il residuo ultimo della riduzione, che non si lascia ulteriormente sospendere, perché coincide con la stessa appercezione trascendentale dell’io, col suo muto autoavvertirsi, in cui tutto si concentra e poi si espande nella sfera delle sue esplicazioni intenzionali. In questa direzione Husserl parla di raggi intenzionali centripeti e centrifughi e nella Krisis tematizza questa seconda fase della riduzione trascendentale come quella in cui le evidenze primigenie del mondo-dellavita (Lebenswelt) si palesano quale regno della soggettività trascendentale2. Non si deve credere che in tal modo la fenomenologia husserliana sfoci, al pari del panlogismo hegeliano, nel trionfo della coscienza sull’inconscio, del volontario sull’involontario. Infatti il senso è tanto senso esplicito, consapevole, quanto, e ancor più pregnantemente, corrente profonda di senso “fungente” (cioè operante a prescindere dal suo essere consape-


vole) al di sotto della coscienza desta. Proprio a motivo della centralità conferita all’intenzionalità fungente Paul Ricoeur ha accostato la fenomenologia husserliana alla psicoanalisi freudiana, pur salvaguardando la distanza che separa i due ambiti ben distinti della filosofia e della psicologia analitica3. Il campo di applicazione della tematica husserliana dell’epochè non è ristretto alla conoscenza, ma investe anche la sfera etica. Anche nella condotta morale la persona deve neutralizzare il principio d’autorità, porre in discussione tutto l’acquisito e convalidarne solo ciò che viene riattinto a titolo di evidenza originaria. Ciò non significa che Husserl ritenga ingenuamente che l’io personale possa neutralizzare il proprio contesto storico e la propria situazione emozionale. Sotto questo profilo, la critica che gli è stata rivolta in tale direzione da parte di Heidegger e poi di Gadamer non centra l’obiettivo. Husserl infatti è ben avvertito che quella dell’epochè è un’operazione incompiuta e proprio per ciò sempre ricominciante, perché è impossibile fare tabula rasa della precomprensione, così come della tonalità emotiva, per dirla con Heidegger: l’epochè non è solo un ideale regolativo kantiano, ma è soprattutto una áskesis, un esercizio di purificazione dello sguardo che ci chiama allo sforzo di abitare i paesaggi quotidiani con gli occhi di un morto che vi ritorni e odori la fragranza del pane che una volta sentiva passando davanti al panificio all’uscita di scuola. Fin qui ci siamo soffermati su quello che c’è dentro la tematica husserliana dell’epochè. Ma bisogna indicare anche quello che rimane fuori, ed è precisamente il motivo del dubbio disperato, che esperisce la vertigine del venir meno del senso nel non senso, nell’urto contro l’impossibilità dell’esistenza ad autofondarsi. Ora, proprio questo motivo, agostiniano quanto kierkegaardiano, è ripreso dall’allievo più grande di Husserl, Martin Heidegger. Si è appena visto la non pertinenza della critica che egli rivolge al suo maestro riguardo all’epochè; ma la sua forza è stata nel riprendere lo stile e il procedimento del pensare husserliano in un’originale ontologia fenomenologica del negativo, lumeggiante la soglia in cui il vissuto esistenziale del dubitare diventa angosciosa

scoperta della colpevole inautenticità dell’essere umano (il Dasein, Esser-ci) che esperisce la propria finitezza e tenta di sottrarvisi col rifugiarsi nella comoda impersonalità dell’anonimo ‘si’. Questa rapidissima incursione in Essere e tempo ci consente, in conclusione, un colpo d’occhio sul versante inautentico del dubbio, anzi sulla vera e propria malignità che si può celare in esso, subdola quanto inavvertita. Infatti, fin qui il dubbio lo abbiamo seguito nel suo esercitarsi sulla verità intesa come un ‘qualcosa’, ma in ben altro aspetto esso si presenta quando la verità risiede non in un ‘che-cosa’, ma in un ‘chi’: sia che si tratti del prossimo, con cui abbiamo contratto vincoli di solidarietà, sia che si tratti di un dio personale, qualora lo si sia incontrato nel nostro cammino, un “Dio umano” proponentisi come nostro “partner” (così appunto Karl Barth qualifica la relazione istituita da Dio con l’uomo entro la storia che egli ha prescelto per la nostra salvezza). Qui il dubbio che si insinua dopo l’accoglimento per fede della grazia non è affatto innocente, ma mira a porgere alla mente e al cuore quegli interrogativi che ci vulnerano nei nostri punti deboli, al fine di farci vacillare nella decisione presa, e di impedirci di continuare a vivere nell’amore ricevuto dall’alto. I Sinottici presentano il dubbio appunto in tale deleteria accezione (Mt 14, 31; 21, 21; 28, 17; Mc 11, 23; Lc 24, 38). Certo, questa possibilità riguarda soltanto colui che si sia posto nel cammino della fede, raggiunto dalla Parola che lo sottrae al suo muro di impossibilità. Ma riguarda invece tutti il dubbio che incrina la fiducia nell’altro e allenta i vincoli di intesa e obbligazione istituiti insieme a lui, o mira a impedire una decisione, inducendo a indugiare in una comoda e compromissoria situazione di inazione. Il dubbio, allora, diventa la maschera della malafede, intesa come l’arte di arrangiare le nostre convinzioni ai nostri interessi. Al torpore di un tale perfido dubitare ci invita a sottrarci l’esempio e il pensiero di Dietrich Bonhoeffer. La scelta, che lo porterà al martirio, di impegnarsi in prima persona per contrastare il nazismo e il suo Führer conseguiva da una preliminare decisione per il senso della vita,

attinto con l’attivare uno sguardo “dal basso” sulla società. Ben venga, insomma, il dubitare catartico e antidogmatico, che sospende l’assenso alle credenze e ai fatti, dubitando che essi siano veri per il solo fatto di imporsi in primo piano sulla scena dell’espressione. Ma quando la decisione ci pone al bivio, se aderire all’idolatria che identifica la verità con la fattualità dell’esistente e si identifica con gli apparati di potere consolidati, oppure alla vita sofferente dei “dannati della terra”, allora il dubbio deve tacere, e lasciare posto alla fede nel senso e alla conseguente decisione per la solidarietà.

Riferimenti bibliografici Husserl, E. 1961. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Milano: Il Saggiatore. Kierkegaard, S. 1966. Johannes Climacus o De omnibus dubitandum est. Pisa: ETS. Gadamer, H. G. 1996. La dialettica di Hegel. Genova: Marietti. Popkin, R. H. 2008. Storia dello scetticismo. Milano: Mondadori. Ricoeur, P. 1967. Dell’interpretazione. Saggio su Freud. Milano: Il Saggiatore. Solmi, S. 1966. La salute di Montaigne. In M. de Montaigne. Saggi Milano: Adelphi. Endnotes

1 Per una focalizzazione del tema nelle sue matrici classiche e nei suoi sviluppi cf. Popkin 2008. 2 «Se ora […] rientriamo nell’atteggiamento trascendentale, nell’epochè, e consideriamo il mondo della vita da un punto di vista filosoficotrascendentale, esso si trasforma nel mero ‘fenomeno’ trascendentale. Esso rimane, nella sua essenza propria, ciò che era, ma si rivela, per così dire, come una mera “componente” nella concreta soggettività trascendentale; simmetricamente, il suo a-priori si rivela uno “strato” nell’a-priori universale della trascendentalità» (Husserl 1961: 200). 3 «Nessuna filosofia riflessiva si è accostata all’inconscio freudiano quanto la fenomenologia di Husserl e di alcuni continuatori, principalmente Merleau-Ponty e de Waelhens» (Ricœur 1967: 410).

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New York from the Top of the Rock | Tony the Misfit / Tony | licenza Creative Commons

CORRISPONDENZE

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In “Immagini di città”, Benjamin scriveva: “Trovare parole per ciò che si ha dinnanzi agli occhi: quanto può essere difficile. Ma quando esse arrivano allora è come se battessero con dei piccoli colpi di martello contro la superficie del reale, sino a sbalzarne, come da una lastra di rame, la forma”. Quando una passeggiata per le vie di Manhattan può diventare cifra della possibilità che l’anima di un città ci porti a superare ogni diffidenza e dubbio nell’altro.

PASSEGGIANDO PER NEWYORK

Marialuisa Giuliano


New York City skyline | wilhelmja / Wilhelm Joys Andersen | licenza Creative Commons New York. Chelsea Market | Tomás Fano | licenza Creative Commons

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ui niente è impossibile: sei a New York», cantano Jay-Z e Alicia Keys nel nuovo tormentone americano Empire State Of Mind. La scoperta sembra essere all’ordine del giorno. Può succedere di uscire per una passeggiata e poi ritrovarsi a chiacchierare con quattro sconosciuti al tavolo di un bar. Sono le 10 di sabato mattina, esco di casa per fare un giro delle gallerie d’arte di Chelsea, il quartiere di Manhattan punto di partenza dei futuri grandi artisti. Il freddo pungente mi anestetizza la faccia mentre cammino verso la fermata della metropolitana. Ad ogni angolo si sente l’odore speziato dei baracchini di hot dog, per quei turisti alla ricerca dell’America on the road, ma troppo unti per i newyorkesi che preferiscono quelli dei fast food. Salgo sul treno, c’è un ragazzo di colore che sulla musica proveniente da una radiolina scassata si esibisce in una break dance spericolata: salta, gira, ad un certo punto si lancia sul palo di fronte a me. Riesco a scalzarlo per un pelo. Stava per rompermi il naso, mi fa un sorriso, quasi a scusarsi di aver preso male le distanze. Lo perdono perchè è

davvero bravo. Dopo quattro fermate arrivo, sono a Chelsea. Entro nella galleria dove sono esposti i grandi, da Picasso a Richard Serra. Ci sono poi le gallerie d’arte contemporanea. Qui trovi di tutto. Ogni cosa può diventare arte, penso: trovo sculture dalle bizzarre forme geometriche, pezzi di metallo colorato intrecciati con dischi di plastica, tele «tutta una tinta», direbbe mia nonna, fotografie di donne nude in pose sensuali e divertenti (la descrizione sarebbe censurata). Davanti ad una libreria psichedelica, composta da lampade a forma di libri colorati, uno strano personaggio si avvicina e mi chiede se la libreria mi piace. Gli rispondo che mi sembra interessante e lui ribatte che un’opera d’arte può piacere o non piacere, non può essere interessante. Capisco allora che si tratta di un artista: indossa una giacca di tweed verde, jeans attillati, e sciarpa rossa, porta gli occhiali stile Woody Allen. Comincia a disquisire dei suoi gusti artistici, parliamo delle bellezze artistiche dell’Italia, lui è di New York . Dopo quindici minuti, sentendo di cosa stavamo parlando, si avvicinano due ragazze, una

stilista di Tokyo e una personal shopper di Amsterdam, che sarà per il freddo o per una nuova tendenza modaiola, indossa un vestito strappato al di sopra dei pantaloni. Restiamo lì ancora un po’, poi il ragazzo, David, propone di continuare il giro tutti insieme. «Ci sto», rispondiamo in coro. Ripensando a quel preciso momento, mi viene in mente che è come se la paura dell’altro, onnipresente nei giornali, nella tivù, fosse stata superata, come in una folgorazione istantanea, da un sentimento più forte, la fiducia. New York, crogiuolo di culture, di persone, di realtà, quel giorno mi stava regalando una grande lezione di vita: aprirsi all’altro, superare ogni possibile timore e sospetto. E così andiamo, insieme: io cammino avanti con Michelle, la ragazza giapponese, David e Darya ci seguono. Parliamo delle nostre diverse culture, dei differenti tipi di lavoro: gli schermi paranoici cadono. Il dubbio, la paura del nuovo viene spazzato via dal piacere di scoprire e di scoprirsi. E dai discorsi, dai racconti di ognuno di loro, mi sento un po’ americana, un po’ giapponese,


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un po’ olandese, ma in fondo tanto italiana. Diventa più forte in me la convinzione che bisogna cambiare, adeguarsi. Ed è sorprendente quanti e quali ruoli possiamo vivere. Darya racconta di aver da poco finito una storia, e di essersi trasferita a New York per ricominciare da capo. Michelle lavora nello studio di uno stilista di Soho. Anche lei voleva cambiare vita, quando 8 anni fa arrivò nella Grande Mela, e direi che ce l’ha fatta, visto che prima faceva la cameriera d’albergo. Dopo cinque isolati ci ritroviamo di fronte al Chelsea Market, una sorta di centro commerciale in un palazzo che ricorda certi prefabbricati industriali di tanti anni fa. Il bello di New York è anche la capacità e la volontà di trovare nuovi utilizzi per luoghi altrimenti abbandonati a se stessi. Un ragazzo all’entrata ci chiede un quarto di dollaro, aveva dimenticato il portafogli a casa e voleva comprare una bottiglia d’acqua. David gli dà una pacca sulle spalle e gli dice di venire dentro con noi a prendere un caffé. Lui sorride e accetta. Anche questo episodio, che sarebbe un errore considerare insignificante, mi lascia sbalordita: è come se la gentilezza facesse parte del codice genetico di questa città. Dopo circa tre ore ci siamo salutati, augurandoci vicendevolmente buona fortuna. Quella sera, tornando a casa, non potei fare a meno di accorgermi che tutta la gente che incontravo mi sembrava degna di interesse, piacevolmente diversa. Sì, è vero: qui niente è impossibile: sei a New York.

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FIVESTEPSWITH RICCARDO VIALE

| L’eccellenza italiana nel mondo

Ci sono città come New York che per vocazione e forse più di altre sono chiamate ad essere “la casa di tutti”. Cosa succede in un tale contesto quando il sentimento di paura di chi è diverso da te sembra superare la voglia di stare insieme? La paura per il diverso a NY è un fatto contingente che verrà presto digerito dall’alchimia delle mille culture ed identità che scorrono nelle sue arterie e la nutrono. Negli ultimi tempi, vanno crescendo esponenzialmente controlli ed allarmismi a fronte di una accresciuta potenziale minaccia esterna. D’altro canto, il lasciarsi prendere dalla paura non rischia di far venir meno il collante della fiducia, imprescindibile virtù civica? La paura ed il timore della diversità sarebbe la morte di NY. Sarebbe come se NY rinnegasse se stessa ed esaurisse la linfa vitale che la rende così innovativa e creativa oltreché accogliente. Come si pone nei confronti di questa realtà? Come qualcuno che ha da intercettare i suoi umori nascosti ed i suoi fiumi sotterranei che spesso anticipano le tendenze internazionali, ma al contempo come qualcuno che ha da contribuire con la ricchezza della cultura italiana. Lei è stato da poco nominato dal Ministro degli Esteri, Franco Frattini, nuovo Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York. Come pensa di promuovere la cultura italiana in un contesto così prestigioso? Facendo emergere ciò che di speciale ed eccellente l’Italia ha da offrire, senza steccati culturali, senza distinzioni artificiose fra le due culture, scientifica ed umanistica. Quali sono le Sue speranze e aspettative? Grandi speranze di mettere l’Italia sul piedistallo, come primo dei Paesi capace di coinvolgere NY nell’immaginario del suo stile di vita, dei suoi valori estetici e della qualità dell’Italian Behavior. Direttore, cosa farà da grande? Il futuro è incerto ed imprevedibile e, come diceva Jacques Monod, caratterizzato dal caso e dalla necessità. Quindi chissà quale biforcazione mi aspetta fra qualche anno dopo questa esperienza newyorchese (?). Senz’altro continuerà la mia attività di ricerca come epistemologo e studioso di scienze cognitive che cerca di capire come la mente umana sia in grado di conoscere se stessa ed il mondo che la circonda.

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FILOSOFIA | PERCEZIONE

Paolo Spinicci

IL REMO SPEZZATO

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Riflessioni sul dubbio e sulle testimonianze percettive

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1. Una premessa cartesiana Quando ci si interroga sul ruolo del dubbio nella riflessione filosofica è difficile non sentirsi costretti a rendere omaggio al nume tutelare di questo rapporto – a Cartesio che nella prima delle sue Meditazioni metafisiche ci invita ad un dubbio radicale che vorrebbe in linea di principio abbracciare ogni conoscenza che non abbia in se stessa il fondamento della sua indubitabilità. Si tratta di pagine molto belle e molto note, ma per quello che concerne il problema che intendiamo discutere – il dubbio percettivo – sembrerebbe di primo acchito che Cartesio non abbia poi molto di nuovo da insegnarci. Lo si è detto più volte: le Meditazioni recuperano il vecchio armamentario scettico sulla percezione e ci invitano a indugiare ancora una volta sui consueti esempi che la tradizione filosofica ha consacrato – la torre squadrata che da lontano ci appare rotonda, i colossi che, elevati su quelle torri, ci appaiono a riguardarli dal basso piccole statue, il Sole che alto nel cielo non ci sembra più grande di una moneta. E dagli stessi esempi sembra possibile trarre le stesse conclusioni: qualche volta, appunto, la percezione ci inganna e non si può dunque pretendere di fondare sulle sue testimonianze un sapere effettivo. Sarebbe tuttavia un errore credere che le pagine cartesiane non facciano altro che ripetere un copione già scritto e basta riflettere un poco per rendersi conto che il problema è mutato e che gli stessi esempi sono chiamati a sorreggere un peso nuovo. Per lo scetticismo antico, gli errori della percezione dimostravano

che non le è possibile spingersi al di là di ciò che è opinabile, ma negare alla percezione un suo legittimo posto nell’episteme non significa affatto mettere in questione l’esistenza del mondo. Lo scetticismo antico non ritiene in fondo che il filosofo sia costretto dai suoi ragionamenti ad una solitudine metafisica insopportabile: il dubbio, così formulato, non tocca le nostre opinioni e la dimensione ingenua della vita, ma stende la sua ombra solo sulla possibilità della scienza, del sapere effettivo. Per Cartesio la posta in gioco è diversa e, in un certo senso, più inquietante: il fatto che la percezione possa ingannarci non mette infatti in questione soltanto la possibilità della conoscenza, ma è parte di un argomento più ampio che ci costringe a riconoscere che il mondo potrebbe non esserci perché in linea di principio le nostre esperienze sensibili potrebbero rimanere così come sono anche se non vi fosse il mondo di cui crediamo ci parlino. Sono assolutamente certo di esperire così – di avere queste e queste altre immagini mentali – ma posso sempre dubitare che alle percezioni di cui sono consapevole corrisponda un oggetto reale nel mondo: «Non per un giudizio certo e premeditato – scrive Cartesio – ma solo per un cieco e temerario impulso ho creduto esservi cose al di fuori di me». Come è noto, le Meditazioni metafisiche ci propongono una via per abbandonare il terreno del dubbio e per riguadagnare una rinnovata certezza del mondo, ma di questo aspetto così importante della filosofia cartesiana possiamo qui disinteressarci, per riflettere invece sulla natura dell’argomento che Cartesio ci

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deve vagliare la validità. Ma non è così: per Cartesio, le percezioni cui diamo il nostro assenso sono davvero testimonianze e questa convinzione poggia su due assunti su cui vorrei riflettere. Il primo potremmo formularlo così: dire che la percezione è una testimonianza significa intenderla come se fosse necessariamente animata da una pretesa conoscitiva, come se ogni percezione fosse sempre la constatazione di un fatto. Alle sensazioni che hanno una valenza soltanto biologica si contrappongono così le percezioni che pretendono di parlarci del mondo e che possono farlo solo perché sono giudizi impliciti, proposizioni che – come un testimone – rispondono alle domande di un giudice, dicendo ora il vero, ora il falso. Il secondo assunto allude ad un tema che è caratteristico di molte filosofia della percezione:

dire che le percezioni sono testimonianze significa sottolineare il carattere mediato delle percezioni, il loro parlarci del mondo attraverso le immagini che da esso ci giungono, proprio come una testimonianza ci parla di un evento solo attraverso le parole di chi vi ha assistito. Proprio come le testimonianze, anche le percezioni sembrano consentirci di sapere qualcosa del mondo solo per sentito dire ed anche se questo non significa che siano false, ci costringe a porre fin da principio ad interrogarci sulla loro affidabilità. Su questi due assunti vorrei cercare di riflettere, sia pure brevemente e senza troppe pretese, per cercare di chiarire se, al di là delle pagine cartesiane, si può davvero lasciarsi guidare dal concetto di testimonianza per intendere la natura della percezione.

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propone per tacitare quel “temerario impulso” che ci spinge ad affermare l’esistenza del mondo. L’argomento (per il vero: il primo di una batteria di argomenti) suona così: tutto ciò che sappiamo del mondo, lo sappiamo grazie alla percezione; ora la percezione non è sempre veridica, ed è regola di prudenza non fidarsi interamente di chi ci ha già ingannato anche soltanto una volta; ne segue che non abbiamo nessuna fondata ragione per affermare l’esistenza del mondo esterno. Chi legge quest’argomento cartesiano può credere di primo acchito che a determinarne la forma esteriore sia un succedersi di metafore e quindi anche un tributo al gusto seicentesco per le immagini: la ragione è un tribunale al cui giudizio devono essere vagliate le esperienze sensibili che proprio per questo dovranno assumere l’aspetto di testimonianze di cui il soggetto


2. Le percezioni sono, come le testimonianze, constatazioni che ci consentono di accertare un fatto? Un primo modo per chiedersi se le percezioni siano davvero testimonianze ci invita a rammentare la funzione che viene loro attribuita nelle aule del tribunale. Il giudice non sa come sono andate le cose e cerca una verità che sia suffragata da indizi e prove che la rendano sufficientemente solida e per questo si avvale di testimonianze che debbono essere a loro volta vagliate e discusse. C’è una domanda – che cosa è realmente accaduto? – cui si deve rispondere e le testimonianze servono a questo poiché sono per loro natura una risposta a un possibile dubbio. Anche nel caso della percezione talvolta le cose possono andare così: non sono certo che la figura che mi indichi in lontananza sia il rifugio di cui mi parli e per questo guardo bene, per

fugare ogni dubbio. La percezione è chiamata a testimoniare: c’è un dubbio che deve essere tacitato e per farlo chiediamo ai sensi una testimonianza che ci tranquillizzi. Qualche volta il dubbio è esterno alla percezione, qualche volta sorge in seno ad essa, ma in un caso come nell’altro, la percezione è chiamata a testimoniare: le si chiede di sciogliere un dubbio e di pronunciare un verdetto – deve dire «è così!» per mettere da canto gli interrogativi che ci avevano infastidito. Talvolta appunto le cose stanno così, ma possiamo davvero pensare che la percezione sia sempre questo – la risposta ad un dubbio? A questa domanda si deve rispondere negativamente. Un dubbio presuppone molte certezze: posso dubitare che la persona che vedo in lontananza sia l’amico che attendo, ma perché abbia un senso affidare ad una percezione il compito di testimoniare che le cose stanno così, debbo

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fare affidamento sul fatto che le scene percettive che si susseguono sappiano mantenere la presa sullo stesso oggetto, che i movimenti che compio per veder meglio quel viso siano volti nella direzione giusta e io sia certo della scena percettiva entro cui mi muovo e che sorregge il mio tentativo di veder meglio qualcosa che le appartiene. Il remo immerso nell’acqua sembra spezzato, ma il tatto che constata il suo essere integro può testimoniare questa sua verità solo perché non si chiede se sia vera la mano che funge da giudice e perché non mette in questione che ciò che la mano avverte sia proprio ciò che la vista mostra. Per constatare che così stanno le cose sono presupposte molte certezze che non possono essere a loro volta constatate: proprio come non posso misurare il metro di cui mi avvalgo per constatare la lunghezza di un determinato oggetto, così non posso dispormi interamente sul terreno delle constatazioni perché ogni percezione che pretenda di valere come una testimonianza assume uno sfondo di certezze su cui poggia e che funge da metro di ogni sua misurazione. Del resto, un terreno di certezze soltanto percepite e non constatate non è presupposto soltanto dalla possibilità di attribuire alla percezione il valore di una testimonianza, ma anche dalla stessa possibilità di dubitare di ciò che la percezione ci mostra. Il remo sembra spezzato, ma proprio questo dubbio così antico presuppone molte certezze che non possono essere messe da canto perché senza di esse non è possibile formulare il contesto entro il quale il dubbio si pone come un dubbio che verte su un mondo di oggetti, su uno sfondo la cui certezza non chiede di essere affermata perché è comunque presupposta da ogni affermazione. Posso dubitare dell’integrità del remo solo perché vedo che proprio questo remo appare spezzato e proprio qui, in un punto che si colloca in un luogo determinato del mio spazio circostante. Di qui la tesi che vorrei sostenere: non è vero che ogni percezione possa assumere la forma di una testimonianza perché – per poter fungere da testimonianza – una percezione deve poggiare sulla certezza di uno sfondo che non può essere messo a sua volta in discussione e che si costruisce in una molteplicità di percezioni che non sono affatto constatazioni,

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poiché si limitano a rendere presente per noi un mondo, senza pretendere di rispondere a un possibile dubbio. Almeno in questo, dunque, lo scetticismo antico era in fondo mosso da un’intuizione condivisibile: la percezione non si muove fin da principio sul terreno dell’episteme e non può pretendere di contrabbandare i contenuti che ci porge come se fossero credenze vere, testimonianze in cui si esprimono constatazioni che tacitano i nostri dubbi conoscitivi. La conoscenza, sia pure soltanto la conoscenza sensibile, presuppone che ci sia dato un mondo e che sia disponibile per noi, prima di ogni dubbio teorico, ma anche prima di ogni pretesa conoscitiva.

3. Le percezioni sono, come le testimonianze, conoscenze soltanto indirette? Affrontiamo ora il secondo assunto e chiediamoci se si può sostenere che le percezioni, proprio come le testimonianze che ascoltiamo in un processo, ci consentono di venire a sapere qualcosa solo per sentito dire. Il senso di quest’affermazione è chiaro: le percezioni ci parlano del mondo, ma se constano solo di immagini e se queste immagini sono connesse agli oggetti solo in virtù di una qualche relazione causale, allora la percezione non ci apre al mondo, ma ce ne offre un resoconto sulla cui bontà spetta a noi decidere. Alla radice di questa tesi vi è una riflessione che si intreccia strettamente con la possibilità del dubbio. Immergiamo ancora una volta il remo nell’acqua e chiediamoci che cosa propriamente vediamo. A questa domanda si può rispondere nel modo più ovvio: in questo caso diremo semplicemente che vediamo un remo e che lo vediamo in modo indistinto perché l’acqua in cui è immerso rende incerti i contorni. Possiamo rispondere così, ma forse potremmo ragionare diversamente, seguendo un corso di ragionamenti che è, almeno in parte, legittimo. Quando il remo è immerso nell’acqua sembra spezzato, e anche se non vogliamo dire che le cose nel mondo stiano proprio così non per questo ci sembra lecito dubitare del nostro esperire così. Possiamo sbagliarci su come stanno le cose nel mondo – questo è certo, ma possiamo

per questo credere che ci si possa sbagliare anche su ciò che crediamo di percepire? A questa domanda sembra necessario dare una risposta negativa: comunque stiano le cose nella realtà, non posso dubitare del fatto che il remo lo vedo così – che lo vedo come se fosse spezzato. Ora, quest’osservazione sembra condivisibile e ci spinge proprio per questo a formulare le nostre considerazioni in una forma nuova e apparentemente più perspicua: se da un canto non possiamo dubitare di vedere così come vediamo e se dall’altro non siamo certi che le nostre percezioni siano veritiere, ciò accade perché l’oggetto proprio della visione non è il remo che forse esiste nel mondo, ma un oggetto immanente che gli corrisponde e che esiste necessariamente nella nostra mente. Anche quando ci inganniamo, qualcosa vediamo e su questo qualcosa non possiamo ingannarci: il dubbio percettivo che ci costringe a sospendere il giudizio sul mondo ci consente così di accedere a un terreno sicuro in cui non sembra esservi spazio per l’errore. Nella storia della riflessione filosofica le considerazioni che abbiamo proposto hanno dato il nome ad un argomento vero e proprio – l’argomento dell’illusione. Vi sono molte ragioni che sembrano schierarsi a favore di questo argomento. La prima è di carattere psicologiconaturalistico: percepire qualcosa significa essere modificati dalla realtà esterna e questo fatto indiscutibile sembra schierarsi a favore dell’ipotesi di oggetti mentali. Fuori, nel mondo, vi è la causa materiale delle nostre sensazioni, ma in noi – nella nostra mente – non può che esservi una traccia dell’oggetto – una peculiare oggettualità immanente, dunque. A questa prima ragione se ne affianca una seconda. Le percezioni sono testimonianze e parlano del mondo, ma sono innanzitutto eventi che accadono in noi e su cui, proprio per questo, non sembra possibile ingannarsi. Se tuttavia le percezioni sono in quanto tali certe, la possibilità del dubbio percettivo deve valere come una riprova del fatto che gli oggetti reali non appartengono al contenuto descrittivo della mia esperienza: la constatazione della certezza apodittica della sfera del cogito può convivere con il dubbio scettico sul mondo solo se l’esperienza percettiva è una testimonianza indiretta, – solo se ciò che perce-


piamo sono rappresentazioni e non oggetti nel mondo. Qualche volta accade che una riflessione che ci appare convincente e persuasiva sia in realtà il frutto di un intreccio di errori e io credo che così stiano le cose nel caso delle riflessioni che abbiamo appena proposto. Queste riflessioni pretendono infatti di spiegare troppo e ci sottraggono invece proprio per questo ciò di cui abbiamo bisogno. Pretendono di spiegare troppo: all’origine delle riflessioni che culminano nell’argomento dell’illusione vi è, come abbiamo osservato, il desiderio di accordare la dimensione descrittiva dell’esperienza con la dinamica causale dei processi percettivi. Vedo il remo perché fuori di me c’è un remo che causa il mio percepire e questo fatto è certo, per quanti problemi possano poi sorgere quando ci interroghiamo sulla natura reale della causa di cui discorriamo – i remi non sono certo gli oggetti di cui la fisica ci parla! Le difficoltà più rilevanti stanno tuttavia dalla parte degli effetti: la luce che giunge dall’oggetto modifica i miei recettori e produce, come ultimo anello di una catena causale, uno stato cerebrale che, a sua volta, determina il mio percepire così. Il senso della mia percezione, tuttavia, non ha bisogno di essere spiegato causalmente: deve essere invece descritto e descriverlo significa dire ciò che vedo e io vedo un remo che, per fortuna, non è affatto nella mia mente, ma poggia più ragionevolmente sullo scalmo. Interrogarsi sulle cause è importante, ma può essere fuori luogo. È giusto chiedersi quali siano le cause che mi consentono di pensare che 7 e 5 sommati danno 12, ma non ha senso pretendere che la concatenazione di eventi che abbiamo messo in luce ci dica qualcosa sulla natura di quell’operazione: ci sono ragioni, ma non cause per le quali è vero che 7+5 è eguale a 12 e sarebbe curioso dire di questa somma che si trova da qualche parte nel cervello o nella mente. Uno stesso discorso vale per la percezione: ci sono cause del mio vedere proprio ora questo remo sullo scalmo e qualcosa accade nella mia mente (o meglio: nel mio cervello) quando vedo quel remo, ma questo non vuol dire che ciò che vedo sia un accadimento mentale: l’evento della percezione non coincide con il suo valore conoscitivo che, sia detto per inci-

so, non può essere affatto spiegato poiché ogni spiegazione dovrebbe necessariamente fare appello a processi ed eventi che dovremmo avere già conosciuto. Del resto, ricondurre la percezione al possesso di oggetti immanenti vuol dire tentare di spiegare troppo anche per un’altra ragione. Torniamo al nostro remo che, questa volta, ci attende immerso nell’acqua. Il remo sembra spezzato alla vista e integro al tatto, ma questa contraddizione, se la formuliamo nel linguaggio degli oggetti immanenti, deve rivelarsi apparente: ciò che in senso proprio vedo non è ciò che in senso proprio tocco e nulla ci costringe a sostenere che due differenti oggetti mentali debbano essere identici. La spiegazione ci rappacifica e tiene lontano lo spettro della contraddizione – troppo lontano, perché la contraddizione c’è e deve esserci poiché appartiene al senso delle nostre percezioni: se la mano corre a saggiare la forma del remo è proprio per sciogliere un dubbio che sorregge e dà senso ai nostri decorsi percettivi. La contraddizione c’è e non può essere sciolta interpretativamente, poiché spetta alla percezione toglierla in un processo di esperienza il cui senso si dispiega nel mostrarci meglio ciò che abbiamo di fronte a noi. Proprio questo remo è descritto male quando dico che è spezzato e che sia descritto male me lo dice la mano che lo sente integro. L’argomento dell’illusione pretende di spiegare troppo, ma ci nega poi proprio ciò di cui abbiamo bisogno poiché l’apoditticità della sfera del cogito ha come prezzo la negazione del nesso cognitivo che stringe la percezione al mondo. Ci troviamo così in una sorta di paradosso: si sostiene – ed anche per ragioni descrittive – che quando vedo p nulla muta in ciò che mi si manifesta se p esiste realmente o no, ma poi per salvare quest’asserto di natura descrittiva si è costretti ad abbandonare la più evidente delle datità fenomenologiche – la verità del realismo diretto, la certezza di vedere il remo e l’acqua in cui si immerge, e non ombre che esistono nella mente. Da questo paradosso ci si può liberare se si osserva che il senso di una percezione non coincide con ciò che si manifesta. Nella prima delle Lezioni sulle sintesi passive, Husserl scriveva che la percezione racchiude una promessa

che non può essere interamente mantenuta e quest’immagine programmatica è importante perché ci invita a distinguere tra i vissuti che si danno ­all’io e il senso che alla percezione compete – una percezione che non può comunque essere descritta se non indicando l’oggetto reale di cui ci parla. Ciò che si dà alla coscienza è proprio ciò che appare comunque stiano le cose, ma ciò che appare non è ciò che percepisco ed il senso della mia percezione non può essere colto se non nel rimando all’oggetto reale di cui ci parla e che è poi l’unico che può davvero mantenere la promessa cui il percepire ci impegna. Ne segue che il senso della mia percezione non è racchiuso in ciò che appare e che è che è vissuto dalla coscienza, ma dipende dalla presenza reale dell’oggetto: se mi sono ingannato rispetto all’oggetto che la percezione mi prometteva mi sono ingannato anche rispetto a ciò che credevo di aver percepito e il corso delle mie percezioni che mi costringe a venire a patti con una realtà che è diversa da come me la figuravo è insieme una correzione di ciò che credevo di aver percepito. Qualche volta posso ingannarmi e se ciò accade è perché – per usare un’altra espressione di Husserl – la cambiale che la percezione emette sull’intuizione non è mai interamente pagata. Vedo questo libro e lo vedo così, ma potrei ingannarmi perché ciò che vedo mi parla di un oggetto e mi impegna dunque in un rapporto che è innanzitutto un rapporto di dipendenza dal mondo reale e dal suo essere fatto così: che sia davvero un libro ciò che vedo e che sia proprio come lo vedo non è qualcosa che mi sia dato nella sua interezza e che appartenga allo spazio chiuso della coscienza, ma è una tesi che si decide passo dopo passo nelle mie percezioni – è una tesi che viene decisa dal mondo che passo dopo passo esperisco. Qualche volta, dunque, l’esperienza ci inganna e quando ci inganna abbiamo ragione di dubitare anche di ciò che credevamo di avere percepito. Ma non è il caso di lamentarsene troppo: del resto, se possiamo dubitare di ciò che vediamo e se possiamo riconoscere che ci siamo sbagliati è solo perché ora vediamo meglio lo stesso oggetto che prima avevamo colto in modo impreciso.

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PUBBLICITÀ | SEMIOTICA

Paolo Peverini

LA RETORICA DEL DUBBIO NELLA PUBBLICITÀ SOCIALE NON CONVENZIONALE

Una prospettiva sociosemiotica

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Una esplorazione delle nuove strategie di comunicazione seguite dalle pubblicitĂ sociali

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Project 365 #10: 100110 Let’s Play Darts! | comedy_nose / Pete | licenza Creative Commons


L’

tising

evoluzione non convenzionale del social adver-

attività mediatica cha utilizza formati analoghi a quelli della pubblicità commerciale per portare all’attenzione dei suoi lettori o spettatori certi temi urgenti di rilevanza per l’appunto “sociale”, per sollecitare la presa di coscienza della loro importanza, per incoraggiare o scoraggiare comportamenti o atteggiamenti legati a questi temi, per raccogliere finanziamenti a favore delle organizzazioni che se ne occupano (Volli 2005: 117)

I testi e le pratiche pubblicitarie che trovano una collocazione all’interno di questa definizione, se da un lato condividono una logica di base che ne consente facilmente l’identificazione nel panorama caotico delle forme di comunicazione promozionale, dall’altro si differenziano notevolmente in funzione delle strategie testuali impiegate per costruire e rafforzare nel corso del tempo il legame strategico di fiducia con il pubblico. In particolare, i protagonisti della pubblicità sociale sperimentano con un’evidenza sempre maggiore a

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Fear & Loathing in the Smithonian | MattHurst / Matthew Hurst | licenza Creative Commons

Nello scenario complesso e mutevole del discorso pubblicitario il social advertising da tempo si segnala all’attenzione per la capacità di dare forma in modo innovativo e spesso controverso a temi drammatici di rilevanza sociale. Nella prospettiva della semiotica del testo la pubblicità sociale viene concepita come una

livello internazionale strategie non convenzionali di costruzione dei testi e delle iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. L’esigenza di promuovere un valore e non un prodotto, come avviene nel caso della pub-

blicità commerciale, le profonde trasformazioni che investono i consumatori dei testi pubblicitari, sempre più assuefatti ai linguaggi e alla retorica della seduzione, costringono infatti a ripensare profondamente le


logiche della pubblicità sociale. La visibilità del testo pubblicitario e l’intensità drammatica della rappresentazione del tema su cui ruota una campagna da tempo non sono più sufficienti, come sostengono studiosi e numerosi

addetti ai lavori, a garantire la costruzione di un contatto efficace tra emittenti e destinatari, tra l’universo composito delle istituzioni, del non profit, delle ONG e il tessuto sociale dei cittadini. Inevitabilmente, dunque, il social advertising rinnova strategie e tattiche, esce dai confini ristretti dei media tradizionali, tenta di fare presa sulla sensibilità del lettore affidando la propria voce a un vero e proprio arsenale di tecniche. L’espressione unconventional, spesso utilizzata con eccessiva disinvoltura dagli addetti ai lavori nell’ambito pubblicitario e del marketing, designa nella realtà un complesso insieme di variabili che entrano in gioco nell’evoluzione delle forme testuali di promozione. In particolare una definizione sufficientemente larga e condivisa dell’unconventional advertising delinea una serie articolata di caratteristiche relative alla costruzione dei testi, alle logiche della loro diffusione mediale, all’atteggiamento attivo degli spettatori nei confronti della messa in scena dell’azione pubblicitaria. Una campagna unconventional dunque: • seleziona accuratamente il proprio target, ritagliando il profilo di uno spettatore modello alfabetizzato ai linguaggi e alla retorica dei testi pubblicitari canonici; • analizza e cerca di simulare i fenomeni espressivi con i quali il pubblico si identifica, in particolare tenta di riprodurre le dinamiche comunicative spontanee, orizzontali, dal basso;

dissimula la sua presenza e la sua stessa natura. Non si impone all’attenzione del pubblico come una pausa, un’interruzione all’interno di attività in corso, ma si presenta senza preavviso come una provocazione ludica, surreale; • affida la forza della sua voce al passaparola, si innesta all’interno della rete dei social network, richiede la collaborazione attiva del pubblico, il coinvolgimento nel ruolo di emittente delegato; • concepisce l’efficacia dell’iniziativa pubblicitaria non in funzione della quantità immediata degli spettatori raggiunti ma della qualità sociale dei messaggi impiegati per fare presa sull’interesse. Nella ridefinizione del patto di fiducia con il lettore diviene dunque essenziale l’effetto sorpresa, la pubblicità sociale valorizza la forza della propria voce celando a prima vista la sua stessa presenza. Adesivi mimetizzati nel tessuto metropolitano, performance di attivisti nascosti tra i passanti, oggetti fuori posto calati nello spazio d’uso delle città che creano situazioni apparentemente nonsense, spot virali che invadono i territori dei media digitali e i ‘corpi’ che abitano i social network: alla classica modalità del fear arousing appeal, dello shock visivo, subentra con un’evidenza sempre maggiore una dialettica della comunicazione incentrata sul paradosso e sull’ironia. È esattamente in questo

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sociosemiotica passaggio che il tema del dubbio si intreccia inevitabilmente con la logica semiotica delle nuove forme del discorso sociale. La nostra ipotesi infatti è che l’evoluzione del social advertising nella prospettiva del marketing non convenzionale sia il prodotto di un complesso di fenomeni che muovono proprio a partire dalla logica del sospetto. Non si tratta, banalmente, di ragionare solo sulla sfiducia degli spettatori nei confronti delle intenzioni che a monte guidano l’ideazione di una campagna di sensibilizzazione; in questo senso, infatti, è evidente che il social advertising, essendo per natura un genere di discorso disforico, lontano dai toni rassicuranti e dal tone of voice entusiastico della pubblicità commerciale suscita reazioni difensive da parte del pubblico. Piuttosto, mantenendo la presa sui testi, crediamo che l’evoluzione delle forme espressive del social advertising possa essere letta come una risposta sociosemiotica alla disaffezione del pubblico nei confronti della retorica usurata della pubblicità sociale tradizionale. In altri termini, come vedremo, le forme più innovative di social advertising definiscono le proprie strategie a partire dallo scetticismo del pubblico, non semplicemente tentando di sottrarsi al dubbio, ribadendo con veemenza l’autenticità delle buone intenzioni che guidano l’azione comunicativa, ma trasformando lo scetticismo in un’arma retorica, traducendo le logiche del sospetto direttamente in strategie testuali che prendono in contropiede il lettore, rovesciando lo scetticismo di partenza nel piacere inaspettato dell’interpretazione e della scoperta del senso. A ben guardare, dunque, non deve sorprendere che l’ambito della pubblicità sociale si stia trasformando rapidamente in una palestra per la sperimentazione di soluzioni espressive inedite all’interno della sfera discorsiva della pubblicità, poiché il movimento dialettico che lega i soggetti dell’enunciazione ai destinatari delle campagne di comunicazione non solo è particolarmente delicato, ma costituisce un elemento strutturale di questo genere di testi. In questo senso il social advertising non convenzionale è una forma promozionale di comunicazione il cui

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meccanismo generativo prevede e orienta il dubbio interpretativo del proprio pubblico. Ecco dunque che iniziano a delinearsi nella prospettiva sociosemiotica almeno due grandi direzioni attraverso cui esplorare il tema del dubbio nella pubblicità sociale: da un lato l’analisi delle forme di assimilazione/ repulsione dei testi da parte del pubblico (è qui pertinente lo sguardo dell’enunciatario), dall’altro lo studio dei testi pubblicitari che i soggetti dell’enunciazione predispongono per aggirare le ‘difese’ dei propri interlocutori (è pertinente a questo livello l’analisi del livello dell’enunciazione e dell’enunciato). Come appare evidente, sotto la superficie delle numerose forme espressive che compongono il panorama del social advertising, agisce una logica del conflitto che può essere ricostruita ricorrendo a una serie di metafore derivate dal linguaggio militare. In questa prospettiva, infatti, i testi vengono concepiti dai loro stessi autori, committenti, creativi e strateghi del marketing, come ‘armi semiotiche’, strumenti di una tecnica di ‘guerrilla’ che cerca di ‘colpire’ alla sprovvista il ‘target’, con ‘armi leggere’, agendo direttamente sul suo territorio, praticando l’arte del ‘mimetismo’ e dell’ ‘imboscata’, privilegiando il ‘corpo a corpo’ rispetto allo ‘scontro a distanza’. Questo processo complesso e fragile di mosse e contromosse può essere letto interamente come il prodotto sociosemiotico di una logica del dubbio che a monte definisce la relazione tra i soggetti del processo di comunicazione. Pianificare una campagna significa infatti definire in partenza il profilo del proprio lettore, ricostruire le abitudini di consumo dei testi pubblicitari, studiare le pratiche di appropriazione e di rifiuto che definiscono l’atteggiamento interpretativo del pubblico nei confronti di un messaggio sociale. In questi termini, dunque, si chiarisce il presupposto che guida l’ideazione e la realizzazione delle campagne più radicali di social advertising: non rispondere frontalmente allo scetticismo del pubblico con un’offensiva comunicativa su larga scala, dispendiosa in termini economici e fragile dal punto di vista dei risultati, ma aggirare le difese del

destinatario costruendo una situazione discorsiva imprevedibile, una ‘trappola semiotica’ tanto più efficace quanto più in grado di trasformare il dubbio, l’indifferenza e i pregiudizi dei lettori in un gioco dialettico originale che consente di fare emergere con forza la dimensione sociale dei temi e dei valori. Prima di entrare nel merito dell’analisi di alcuni casi specifici di social advertising è importante sottolineare che lo sguardo semiotico sull’architettura dei singoli testi non può prescindere dallo studio delle forme concrete di consumo; una semiotica della pubblicità sociale non convenzionale, nella nostra prospettiva, non può che combinarsi, dunque, con una pragmatica della comunicazione, con l’osservazione delle risposte del pubblico alle azioni di sensibilizzazione. Come è noto, la semiotica concepisce le passioni dei lettori nei confronti dei testi come degli effetti di senso. In quest’ottica le reazioni del destinatario alle sollecitazioni del discorso pubblicitario sono il prodotto di meccanismi interni alle forme espressive, innescati da precise strategie dell’enunciazione. Ed è proprio la teoria dell’enunciazione che ci consente di ripensare analiticamente il tema dell’utilizzo strategico del dubbio nell’ambito del social advertising. Nella prospettiva di una teoria dell’enunciazione, infatti, è possibile ripensare il sospetto dell’enunciatario nei confronti della pubblicità sociale non convenzionale come il prodotto di una strategia della veridizione, vale a dire della capacità dei testi di produrre effetti di realtà e di finzione. In questo senso il social advertising non convenzionale, nelle sue numerose forme, può essere concepito come un universo discorsivo che ricerca e costruisce il contatto con il pubblico coinvolgendo gli spettatori in un gioco di simulazione e svelamento. L’efficacia di una campagna pubblicitaria di sensibilizzazione consiste così nella capacità di svincolare la messa in scena del tema da una serie di stereotipi figurativi e narrativi, rispondendo allo scetticismo dello spettatore con una strategia enunciativa che richiede uno sforzo di cooperazione interpretativa; per ricostruire la coerenza di una situazione


guerrilla comunicativa apparentemente paradossale o insensata, in cui le immagini, gli slogan, la collocazione dell’annuncio nello spazio sembrano privi di logica, lo spettatore è chiamato a misurarsi con la densità di un testo apertamente ambiguo che non si sottrae al dubbio ma, al contrario, lo sollecita con forza, istituendolo come condizione necessaria per attivare la dialettica del processo di comunicazione. Una recente campagna di sensibilizzazione proposta da Calm, una ONG neozelandese, sul tema dei danni provocati dalle mine anti-uomo costituisce un caso esemplare della tattica dell’ambient marketing, una forma di pubblicità non convenzionale che sfrutta i comportamenti abituali dei soggetti all’interno dello spazio per dare forma in maniera imprevedibile e con grande efficacia all’azione di social advertising.

Figg. 1, 2: Nuova Zelanda. Agenzia creativa: Publicis Mojo. Cliente: Calm

All’interno dei contenitori in vetro disposti sui tavoli di alcuni ristoranti sono state inserite delle confezioni monodose di ketchup. Un gesto banale e puramente strumentale come afferrare e aprire la bustina di plastica viene improvvisamente rovesciato in un’azione di pubblicità sociale che si dispiega senza preavviso davanti agli occhi del consumatore. Sulla confezione, infatti, l’immagine del prodotto, il logo e lo slogan dell’azienda che normalmente producono la salsa sono sostituiti dalla fotografia realistica di un paio di gambe. La costruzione del contatto visivo con il consumatore è istantanea, sul piano pragmatico l’ambiguità della figura sollecita l’interesse, attiva una richiesta di senso. In corrispondenza di un piede dell’anonima figura è stata posta la linea tratteggiata che occorre tagliare per fare uscire il ketchup; un gesto che nella realtà quotidiana è desemantizzato, del tutto automatico, viene qui impiegato per dare forza al realismo del racconto pubblicitario. Il consumatore è ormai preso all’interno del meccanismo discorsivo della strategia di sensibilizzazione, dal punto di vista narrativo non può che assumere il ruolo del ‘carnefice’, del responsabile potenziale di una tragedia di vaste proporzioni. Come accade sempre con il social advertising non convenzionale l’efficacia dell’azione comunicativa si articola in due tempi posti in rapida sequenza: una prima fase ‘di attacco’ volta a fare presa sulla sensibilità del pubblico in cui il visual è predominante rispetto alle parole e dunque si sottrae a una comprensione diretta, a cui segue un secondo momento argomentativo in cui sono illustrati l’identità del committente, il tema della campagna, gli obiettivi da raggiungere e il tipo di impegno richiesto al lettore. In questa installazione il retro della confezione di ketchup contiene la risposta agli interrogativi innescati nel momento iniziale del contatto, slogan, body copy e logo dell’organizzazione illustrano infatti il senso dell’operazione: “in 89 countries walking on a mine is still routine”. In una variante della campagna pubblicitaria le gambe sono sostituite dal primo piano di un

ragazzo che attraverso la figura dello sguardo in camera chiama direttamente in causa il punto di vista del lettore; in questo caso la linea tratteggiata da tagliare attraversa direttamente la testa della ‘vittima’, mentre lo slogan chiarisce il senso della provocazione, sciogliendo l’ambiguità semantica del visual: “every 22 minutes someone is injured because of a mine”. Questo esempio aiuta a ripensare la natura non convenzionale del social advertising come il prodotto di una pratica narrativa che ricerca il contatto diretto con lo spettatore, ne raccoglie lo sguardo, provocando la sua intelligenza interpretativa. In questo complesso gioco di posizioni e di sguardi, la forza del testo non consiste nella capacità di imporsi all’attenzione per il grado di realismo, ma al contrario nel rovesciare le attese del pubblico, che viene sollecitato proprio a dubitare della reale natura della situazione comunicativa in cui è coinvolto, mettendo in discussione il livello di realismo e di finzione del racconto pubblicitario. Il dubbio, pianificato a monte dal soggetto dell’enunciazione, è l’effetto di senso che guida l’intera operazione di messa in scena del testo, è il gancio che consente di fare presa sull’indifferenza del passante, innescando il processo di interpretazione. Il social advertising non convenzionale non è un genere di discorso assertivo, perentorio, monolitico, al contrario esso si pone nei confronti del pubblico come un racconto destabilizzante che sollecita interrogativi e perplessità, dissimula le proprie intenzioni, nasconde in un primo momento il proprio obiettivo dietro una strategia retorica in cui immagini, parole e suoni sono utilizzati per rappresentare in modo indiretto, laterale, il tema di fondo. Spostando lo sguardo sul versante della ricezione del testo, è importante evidenziare che un primo effetto di senso decisivo nella costruzione dell’efficacia complessiva della campagna consiste nel costringere lo spettatore a dubitare della verosimiglianza del racconto, come accade regolarmente nelle azioni di ambient marketing. Sul piano della veridizione, la forza delle azio-

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cooperazione interpretativa

ni pubblicitarie sul territorio consiste nel fare ricorso a un ampio arsenale di giochi ottici e prospettici, per restituire l’illusione di una situazione in atto all’interno dello spazio reale in cui si trova il soggetto. Adesivi incollati sul fondo delle piscine che riproducono con assoluta fedeltà scene di annegamento oppure inondazioni metropolitane colpiscono inevitabilmente il pubblico dei bagnanti perché si innestano senza preavviso all’interno delle comuni pratiche di uso degli spazi e al tempo stesso, pur essendo visivamente realistiche non sono logicamente plausibili. Gli adesivi si impongono in maniera improvvisa all’attenzione, ma al tempo stesso nascondono la propria intenzione, relegano la parola ai margini del testo o in secondo piano. La funzione di ancoraggio che le parole svolgono nei confronti delle immagi-

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ni è dosata minuziosamente: la posizione e la dimensione dello slogan, del copy e del logo del committente sono accuratamente misurati per non compromettere la presa visiva del testo sullo spettatore. Il dubbio, infatti, è essenziale per costringere l’enunciatario a misurarsi con le intenzioni dell’enunciatore, il sospetto sulla reale natura del testo è indispensabile per innescare la curiosità che prelude al racconto verbale del problema e della sua possibile soluzione. Il trompe-l’œil è, ovviamente, solo una delle forme testuali che si rivelano efficaci per colpire la sensibilità dello spettatore, in alcuni casi infatti i protagonisti del racconto non sono immagini, ma oggetti reali che entrano in relazione con lo spazio in cui sono inseriti provocando la reazione dei passanti. Estate 2009: un esercito di piccole figure di

ghiaccio che riproducono esseri umani sistemati con ordine sulla scalinata di un edificio pubblico si scioglie inesorabilmente davanti agli occhi dei curiosi. La performance, apparentemente priva di senso, suscita scalpore e curiosità, si sottrae a una comprensione immediata, sollecita l’interesse attivo dei passanti. L’impossibilità di dare un senso a una situazione di grande impatto, di stabilire con sicurezza una connessione diretta tra un piano dell’espressione (le figure con le loro dimensioni, il materiale di cui sono composte, la posizione che occupano nello spazio) e un piano del contenuto a prima vista volutamente ambiguo, innesca il piacere dell’interpretazione. In questa semiosi che si dispiega improvvisamente nello spazio metropolitano, il sospetto irrompe nella routine delle vite quotidiane modificando radicalmen-


unconventional

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te l’orizzonte delle attese dei passanti. Solo il passaggio alla pragmatica della comunicazione consente di sciogliere l’ambiguità di una situazione che in realtà costituisce un vero e proprio testo pubblicitario. Avvicinandosi alle figure di ghiaccio, infatti, è possibile ricostruire la ratio semiotica dell’intera operazione di social advertising. Le sagome silenziose e anonime acquistano improvvisamente una forza di interpellazione notevole, l’installazione si rivela infatti

un’azione di ambient marketing promossa dal WWF per sollecitare in modo non convenzionale il dibattito pubblico sul tema drammatico del riscaldamento globale. Questi primi esempi che hanno riscosso a livello internazionale un notevole successo, attirando anche l’interesse dei media che hanno dato alle iniziative di sensibilizzazione un’ampia copertura, aiutano a comprendere l’evoluzione interna al social advertising che

oggi intrattiene con il pubblico una relazione sempre più confidenziale e dialettica. Se è senz’altro vero, come sostengono numerosi studiosi, che da tempo la pubblicità non vende più prodotti ma stili di vita che prendono forma all’interno di mondi possibili, nelle forme promozionali della comunicazione sociale, l’obiettivo è rinnovare l’interesse del destinatario nei confronti di un tema e di un’iniziativa di sensibilizzazione allestendo situazioni

narrative enigmatiche, testi in cui la scoperta del senso nasce dal sospetto e dall’assemblaggio ludico degli indizi. Esplorare il contesto internazionale fortemente dinamico dell’unconventional social advertising significa dunque ripensare il tema del dubbio in una chiave sociosemiotica, situare la riflessione sulle reazioni del pubblico nei confronti di veri e propri assalti pubblicitari, all’interno di un ragionamento di ampia portata dedicato alle strategie testuali e interpretative su cui si reggono le campagne di comunicazione. In primo luogo, come abbiamo visto, esiste una forma di dubbio che a monte definisce la relazione comunicativa di fondo tra enunciatori e pubblico della pubblicità sociale. Si tratta qui del dubbio che lo spettatore spesso proietta nei confronti delle intenzioni e della credibilità del soggetto dell’enunciazione e delle sue richieste, un atteggiamento di sfiducia con il quale il social advertising è costretto necessariamente a fare i conti. Il dubbio in questa prima accezione è inteso come lo sfondo su cui si innesta la dialettica della comunicazione, è lo scenario con cui deve misurarsi l’intelligenza narrativa e stilistica dei committenti e dei creativi che disegnano la strategia della campagna. Accanto a questa sfiducia che orienta il legame tra i soggetti situati ai due estremi del testo pubblicitario che animano il funzionamento del social advertising, il dubbio si presta a essere analizzato, come si è detto, in un’ottica differente, non più focalizzata sull’enunciazione, ma sull’enunciato,

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pubblicità sociale sull’utilizzo strategico del dubbio inteso come effetto di senso che prende forma nei testi. In questa seconda accezione, il dubbio viene impiegato come strumento di una retorica del discorso pubblicitario non convenzionale che mira ad aggirare le difese del pubblico a partire dalla costruzione di testi sociali ambigui, imprevedibili. Qui il testo si sottrae a una facile e immediata comprensione, la messa a fuoco di tutti gli elementi che entrano in gioco nella costruzione della pubblicità sociale viene volutamente ostacolata, accuratamente ritardata; l’obiettivo che inquadra il senso dell’intera azione pubblicitaria è dilatare il momento dell’interpretazione sfruttando in maniera strategica e innovativa l’incertezza della visione. Con ogni evidenza è qui del tutto legittimo parlare di una retorica del dubbio, dal momento che le azioni di guerrilla marketing messe in campo per attrarre e colpire il pubblico fanno affidamento su un vero e proprio sistema di figure retoriche che agiscono tanto sul piano dell’espressione quanto sul versante dei contenuti. Chiaramente le logiche del dubbio che agiscono a questi due livelli sono tra loro intimamente collegate, dal momento che l’innovazione espressiva della pubblicità sociale non può che essere concepita come il prodotto, in alcuni casi davvero sorprendente, della relazione fragile che lega i protagonisti del sociale ai destinatari delle azioni di comunicazione. Non si può tuttavia concludere una riflessione sulle strategie di rafforzamento del rapporto tra enunciatori e pubblico nel social advertising senza prendere in esame una terza dimensione del dubbio che entra in scena alla fine del processo di comunicazione e che si configura come un giudizio di valore, che molto spesso avvolge le azioni di guerrilla marketing. Parliamo qui del dubbio inteso come dibattito pubblico che chiama in causa il rapporto tra la non convenzionalità del tone of voice, impiegato nella costruzione della campagna, e la drammaticità dei temi rappresentati. Si tratta a ben vedere di una duplice forma di scetticismo che sottopone a una critica

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serrata le strategie di funzionamento della dal punto di vista semiotico nella costrupubblicità sociale più radicale. Da un lato, zione dei testi non corrisponda una reale infatti, alcune campagne di social adverticapacità di modificare idee e abitudini. Si sing divengono argomento di un’accesa ditratta di un passaggio decisivo nel dibattito scussione, che verte sull’equilibrio etico tra che inevitabilmente accompagna le camil linguaggio impiegato nel testo pubblicitapagne di pubblicità sociale più controverrio e il tema portato all’attenzione del pubse e dispendiose sotto il profilo dei costi blico. Molte iniziative di sensibilizzazione, di ideazione e realizzazione. Ovviamente, infatti, sono oggetto di critiche che metconcentrare l’attenzione sulla forza che la tono in discussione la legittimità dei toni pubblicità sociale esercita nei confronti dee delle argomentazioni impiegati nei testi. gli atteggiamenti e dei comportamenti del Nei casi di visual particolarmente imprespubblico è un’operazione che riveste un sionanti e drammatizzanti o di slogan veeruolo di primo piano nel processo di messa menti che si rivolgono al lettore utilizzando a punto di un genere di comunicazione che toni accusatori, viene sollevata la questione per la natura degli obiettivi, dei linguagdell’opportunità etica di rappresentare in gi, dei mezzi e del pubblico non può che modo scioccante temi di rilevanza sociale. ridefinire costantemente le proprie straParallelamente, non sono rari i casi in cui le tegie. Occorre tuttavia stare attenti a non azioni di guerrilla marketing, che nell’ambiinvestire i testi, anche i più originali sotto to del sociale privilegiano l’ironia e il parail profilo della narrazione e della messa in dosso come strumenti di argomentazione, scena, di una funzione e di un potere che vengono criticate per la non conformità tra necessariamente travalichino i confini della ‘leggerezza’ della confezione del testo e la la provocazione pubblicitaria. Il social adtragicità del tema messo in scena. vertising, infatti, non va dimenticato, deve Accanto a questa forma di dubbio ocessere concepito come uno degli elementi corre infine distinguerne una seconda che costitutivi di una strategia del cambiamenriguarda non più il giudizio morale sul rapto sociale, in cui la funzione della sfera poporto che si instaura tra la forma-racconto litica e dell’informazione sono preminenti. della pubblicità sociale e il tema veicolato, Nessuna azione di guerrilla marketing può, ma l’efficacia della strategia di comunicaisolatamente, contribuire a trasformare atzione, il reale funzionamento dell’azione teggiamenti e comportamenti radicati; la di sensibilizzazione sociale. Si tratta qui pubblicità sociale non va intesa come un di mettere in discussione la reale forza di fine, ma come uno strumento di sollecitaimpatto della campagna di social advertizione del pubblico all’interno di un processing nei confronti degli atteggiamenti e dei so dialogico ben più ampio. comportamenti del pubblico coinvolto. Infine, come accade con tutte le forme A questo livello, la discussione chiama in più innovative e, in alcuni casi, controverse causa non le intenzioni degli enunciatori, né la legittimità delle strategie di guerrilla marketing da un punto di vista etico. Piuttosto, il dubbio riguarda le ricadute sul piano pragmatico delle In libreria l’ultimo libro scelte creative di comudi Paolo Peverini nicazione che guidano la realizzazione del testo. Il sospetto, infatti, è che a un’indubbia originalità


di comunicazione, il social advertising non convenzionale rischia di essere vittima delle sue stesse logiche; le soluzioni espressive che rendono efficaci adesivi, sagome, performance metropolitane hanno una durata spesso decisamente contenuta all’interno del sistema dei media, infatti maggiore è il livello di creatività e di diffusione del testo, minore si rivela la capacità di resistere all’usura del senso. A livello internazionale le strategie impiegate nella sensibilizzazione e nel coinvolgimento attivo dell’opinione pubblica sono ricorsive, in molti casi il concept dell’azione pubblicitaria viene mantenuto e si interviene solo nel livello di superficie, modificando alcune caratteristiche del visual e dello slogan. La provocazione, intesa come effetto di senso prodotto dal testo, viene rapidamente indebolita, addomesticata. Il dubbio, legittimo, riguarda la capacità del social advertising non convenzionale di mantenere nel tempo la propria efficacia come discorso e come insieme di pratiche. Le forme di guerrilla marketing, nate dall’arte di sovvertire la retorica della pubblicità tradizionale, sono costrette a una mutazione continua, a un confronto serrato con un rischio inevitabile: quello di scivolare rapidamente nella retorica, in un uso infine convenzionale della provocazione.

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DIRITTO Pol Boucher

IL DUBBIO

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Un esempio del suo trattamento da parte dei giuristi del Diritto Vecchio

Alla metà del ‘600, Vaillac e La Motte, due ufficiali francesi al servizio di Johann Friedrich, duca di Hannover, si sfidano a duello. In assenza di testimoni, però, lo stesso verificarsi del duello diviene oggetto di contesa. Un difficile caso giuridico che affascinò i contemporanei, risolto dal filosofo Leibniz con uno strumento eccezionale: il dubbio. 42


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rattare la nozione di dubbio dal punto di vista giuridico appare difficile a causa della complessità delle sfide e delle implicazioni che entrano in campo. Si offrono risposte diverse in base al punto su cui si pone l’accento: se si pone sulle condizioni di sviluppo del dubbio o sulla determinazione delle conseguenze giuridiche da trarre per risolvere un affare. Le argomentazioni utilizzate, inoltre, saranno differenti in questi due casi, poiché nel primo potranno essere di natura ontologica o epistemologica (quali sono gli elementi che si considerano come incerti e quali sono le argomentazioni che permettono di eliminare il dubbio?), mentre nel secondo caso saranno completamente normative (quali conseguenze giuridiche devono essere tratte dagli elementi incerti in un affare?). Questa complessità è complicata ulteriormente dal fatto che le posizioni antinomiche sembrano essere giustificate. Da un lato, infatti, è impossibile non sottolineare il carattere incerto di una buona parte delle decisioni giuridiche e di non rintracciarne l’origine nell’impossibilità di trattare l’infinita diversità delle situazioni riconducendole alla semplicità delle categorie giuridiche.

Dall’altro lato, è inevitabile non ricordare che l’esigenza di prevedibilità delle soluzioni e la funzione di decisione del diritto impongono di trattare con giustizia i casi di specie, riportandoli ai quadri generali della legge. È quindi necessario collegare i casi di specie a categorie di riferimento, sia ampliandoli sia distinguendone le circostanze, attraverso l’utilizzo di tutte le norme sintattiche e semantiche immaginate dai Glossateurs e dai commentatori del Diritto Vecchio1 nel panorama dell’interpretatio legis. Infine, si deve risolvere la difficile questione delle relazioni tra il fatto e il diritto. Se è possibile giudicare i fatti a partire da una teoria della prova fondata sulla stima dei gradi di probabilità (o di dubbio) della conoscenza dei fatti stessi, bisogna, allo stesso tempo, distinguere i fatti dal diritto, non soltanto perché il principio d’imputazione di Kelsen proibisce di operare la deduzione delle norme a partire dai dati materiali, ma anche perché il diritto contiene procedure come la presunzione e la finzione che permettono di trarre delle conclusioni giuridiche a partire da una conoscenza dei fatti parziale, incerta o anche opposta rispetto alle stesse conclusioni. Tutti questi problemi furono affron-

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duello | prove tati da Leibniz in un testo del 16781679 dedicato alla soluzione di un caso, famoso al suo tempo per il carattere incerto delle soluzioni che erano proposte. Si trattava del duello tra Vaillac e La Motte, due ufficiali francesi al servizio di Johann Friedrich, duca di Hannover, di cui Leibniz stesso era bibliotecario e consigliere. Ecco i tratti principali di questo caso assai aggrovigliato di cui Leibniz determinò la soluzione dopo avere distinto le componenti e valutato le ragioni: dopo avere vinto contro Vaillac al “gioco del palmo”, un antenato del tennis, La Motte festeggiò la vittoria con gli amici, ridendo dello sconfitto. Vaillac venne a conoscenza dell’accaduto ed annunciò alla sua affittacamere e al suo servo di andare a vendicarsi dell’affronto in un duello con La Motte. Si recò a casa di quest’ultimo dove incontrò alcune persone e vide La Motte senza testimoni. Dichiarò in seguito di essere andato nel luogo convenuto per il duello ed avere aspettato La Motte. Questi arrivò poco dopo con il suo servo che fu fatto subito allontanare. Vaillac affermò di essersi allora battuto con La Motte e di essere riuscito a disarmarlo dopo essere stato ferito alla mano ed avere rotto la spada in un attacco. Ne diede per prove la sua ferita, in seguito trattata da un chirurgo, il guanto perforato dalla lama di La Motte e la punta della spada, ritrovata più tardi da un contadino nel posto indicato come luogo del combattimento. Concluse il suo racconto affermando di aver promesso di non raccontare della sconfitta di La Motte. Trascorsero tre mesi durante i quali Vaillac raccontò a quanti glielo chiedessero come aveva sconfitto La Motte. Infine, La Motte venne a conoscenza di questa storia e si presentò al loro superiore, il Maresciallo, per sostenere pubblicamente, in presenza di Vaillac, che non c’era stato alcun combattimento.

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Vaillac lo insultò e gli diede del bugiardo. La Motte si presentò allora dal duca di Hannover e gli chiese giustizia. Entrambi furono arrestati e la questione fu esaminata nei dettagli. Il caso era particolarmente incerto, poiché nessuno dei fatti poteva offrire certezze assolute circa la realtà del duello. Mentre era innegabile che La Motte avesse riso di Vaillac prima del presunto duello e che quest’ultimo avesse fatto lo stesso successivamente, la realtà del duello, o la sua inesistenza, si basava soltanto sulle dichiarazioni verbali dei due protagonisti. Si poteva immaginare che Vaillac volesse vendicarsi delle beffe di La Motte inventando un duello da cui sarebbe uscito vittorioso e si fosse così costruito delle prove relative alla sua volontà di battersi (annuncio alla sua affittacamere e al suo servo), al fatto di esser stato ferito (la mano tagliata e il guanto perforato), e relative infine al luogo dove avrebbe avuto luogo il duello (la sua lama ritrovata dal contadino). Tuttavia, si poteva anche immaginare che il duello avesse effettivamente avuto luogo e che La Motte avesse approfittato dell’assenza di testimoni diretti e della presenza di sole prove indirette per negare un episodio disonorante. D’altra parte, si sa che una serie di prove indirette può dare una forte probabilità, o una quasi-certezza, quando queste sono tra loro concordi. La psicologia dei personaggi, d’altro canto, sarebbe potuta essere una componente importante per la soluzione del caso, poiché l’assenza di una prova diretta e la possibilità di revocare tutte le prove indirette, ipotizzando una cospirazione da entrambe le parti, conducevano l’inquirente a dover misurare il grado di credibilità delle versioni. Ma, come osserva Leibniz, occorrerebbe che Vaillac fosse straordinariamente vile e stupido per inventare tale storia, poiché l’avrebbe confezionata per evitare di battersi con La Motte per riparare ad un

oltraggio, sapendo che il suo vanto dopo la lotta presunta e gli insulti in presenza dal Maresciallo avrebbero inevitabilmente causato il duello temuto. Allo stesso modo, occorrerebbe supporre che La Motte fosse un individuo astuto dotato di una sfrontatezza incredibile, poiché avrebbe approfittato dell’assenza di testimoni a favore di Vaillac per negare la realtà del combattimento e chiedere giustizia al duca. Oltre ad esaminare il grado di probabilità dei fatti per eliminare il dubbio su ogni affermazione, occorre misurare la coerenza delle motivazioni a partire dalla mentalità di ciascuno dei due personaggi e sapere se tutti i fatti, materiali e psicologici, costituiscono uno o più fatti giuridicamente qualificati che legittimano un’azione legale capace di risolvere il caso. Se la questione di fatto deve essere assolutamente distinta dalla questione di diritto, per non confondere i rispettivi settori e non applicare all’una le proprietà dell’altra, ciò non significa che in questo caso si possa separarle completamente. Certo, la natura dubbia delle affermazioni del (presunto) duello di Vaillac contro La Motte può portare ad un vero dubbio ontologico, giustificato dal fatto che la vera natura degli eventi è in gran parte sconosciuta, come forse non era mai accaduto in alcun caso precedentemente esaminato. Ciò non implica, tuttavia, che la natura radicale di questo dubbio ontologico si estenda al settore giuridico e che la sospensione della decisione risultante sia qui applicata. La sospensione del giudizio che si raccomanda nel caso delle conoscenze empiriche è impensabile nel diritto per tre ragioni: le necessità della vita sociale costringono ogni giudice ad affrontare qualsiasi questione gli venga sottoposta, senza potere sostenere che l’oscurità dei


procedure testi o dei fatti lo autorizzi a non rendere giustizia. Inoltre, il requisito della prevedibilità delle soluzioni lo costringe a determinare le categorie di riferimento che permettono di giustificare il trattamento della causa sino in fondo, poiché, contrariamente a ciò che dicevano i Dottori del XVI secolo come Tiraqueau, le vecchie soluzioni dell’estrazione a sorte, della “soluzione per l’amico” o dell’indefinito rinvio del caso, non sono soluzioni giuridicamente accettabili. Infine, un sistema di diritto positivo ha la particolarità di potere essere reso completo, sia in modo restrittivo, dichiarando che tutti i casi incerti o non previsti dalla legge non possono essere affrontati, sia in modo estensivo, considerandoli tutti permessi (e dunque previsti) perché conformi al significato di una legge compresa in senso lato. Ma questa completezza è in parte il risultato di una definizione dei fatti ai quali il diritto conferisce la proprietà di essere certificati da un sistema di prove o di indici, perché manifestazioni di un diritto già riconosciuto. Consideriamo il caso di una persona portatrice di handicap che chiedesse al controllore di essere aiutata a prendere il posto occupato da un’altra persona portatrice di handicap, perché il suo handicap è chiaramente più grave. In mancanza di una disposizione di legge che indichi il livello di handicap sui documenti delle persone handicappate, il controllore dovrebbe limitarsi a ricordare in modo informale la regola romana prior tempore potior jure, assegnando la preferenza al primo occupante. E se il reclamante, a differenza dell’altra parte, non possedesse il suddetto documento, il controllore dovrebbe respingere la sua istanza in modo ancora più radicale, perché agli occhi della legge l’unica persona portatrice di handicap è quella con un documento che attesti il suo deficit. Questo solo fatto giuridico serve a dissi-

pare i dubbi che si possono riscontrare sulla gravità reale dei disabili, perché qui non si tratta di valutare la gravità fisica dei portatori di handicap, ma di riconoscere l’esistenza ufficiale di un handicap, attestato dal fatto materiale e giuridico del possesso di un documento. Con queste affermazioni non si elimina dal settore giuridico la questione del dubbio legata alla valutazione di una realtà empirica in movimento. Neanche volendolo lo si potrebbe fare, perché le istanze che stabiliscono i criteri ufficiali dell’handicap, gli esperti incaricati di valutare gli handicap reali rispetto a questi criteri, i giudici che devono determinare la categoria sussunta a caso di specie, intermedio tra due categorie, ed i giudici le cui decisioni diventano giurisprudenza si confrontano tutti ogni giorno con questo dubbio. Ci si limita soltanto a ricordare che l’esigenza di prevedibilità e di completezza del diritto positivo conduce a definire la natura e la portata delle prove, delle presunzioni, delle congetture e degli indici ammessi nel diritto, in modo che tutto ciò che non ne fa parte e non può essere integrato tramite un’estensione legittima (cioè, una buona parte degli elementi incerti dal punto di vista empirico) ne resti escluso. Si trae dunque la conseguenza che tutte le circostanze materiali che rendono incerto un caso devono integrarsi nel sistema delle prove giuridicamente ammesse o essere considerate inesistenti. Applicata al caso Vaillac contro La Motte, questa conclusione conduce all’idea che una soluzione, elaborata con gli strumenti giuridici del XVII secolo, deve risultare sia dalla ricerca “di prove, presunzioni, congetture ed indici” contenuti nei fatti, sia da una procedura indipendente dalla loro esistenza. Nel primo frangente si procederà come i giureconsulti che esaminavano questi elementi nell’ordine così presen-

tato da Leibniz: [Ci sono prima] le prove intere, o che sono ritenute tali, a partire dalle quali si pronuncia un giudizio, almeno in materia civile, ma rispetto alle quali in alcuni aspetti si mantengono delle riserve in materia criminale; e non è sbagliato chiedere prove più che piene e soprattutto ciò che si chiama corpus delicti, secondo la natura del fatto. Dunque, ci sono prove più che piene e vi sono anche prove piene ordinarie. Poi vi sono le presupposizioni, che sono considerate provvisoriamente come prove intere, finché non è dimostrato il contrario. Ci sono prove più che semipiene (a dire il vero) che permettono a colui che si fonda su esse di giurare per compensarle (si tratta del juramentum suppletorium); ve ne sono altre meno che semi-piene che, al contrario, fanno attribuire il giuramento a colui che nega il fatto, per purgarsi (è il juramentum purgationis). Oltre a questi casi, vi sono molti gradi di congetture e indici. E tutta la forma della procedura nella giustizia non è altro, infatti, che una specie di logica applicata alle questioni di diritto (NE: IV.16.5).

Nel secondo frangente, al contrario, si utilizzeranno le norme di procedura che permettono di esimersi dalle precedenti prove. Nel caso in cui le congetture e gli indici abbondano, però, i fatti riportati restano dubbi, perché non vi è né una prova piena (per assenza di testimone indiscutibile), né una presunzione juris o de jure, né una prova più che semipiena, che permette ad una parte di confermare una dichiarazione per giuramento (poiché ognuno dei due può farlo) e neppure prove meno che semipiene, che permettono ad una parte di confermare una negazione con un giuramento di purgazione (per la stessa ragione). Occorre dunque riferirsi al secondo metodo che, a questo punto, restringe la scelta tra la procedura inquisitoria ex officio judiciis, equivalente a quella del nostro diritto continentale, e la proce-

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Leibniz dura accusatoria o per azione criminale, equivalente a quella del diritto anglosassone. Leibniz dimostra facilmente che la prima ipotesi non può essere applicata, perché il danno è trascurabile ed i fatti sono incerti e/o difficili da scoprire. La massima romana de minimis non curat praetor, proibisce di spendere il denaro pubblico per risolvere casi senza importanza o per risolvere casi i cui elementi sono così incerti che non si può ragionevolmente sperare di ottenere prove dopo un’indagine ex officio judiciis. Quindi, bisogna utilizzare la procedura accusatoria e permettere ad ogni parte di fare valere i suoi diritti e le sue pretese davanti a un giudice che svolge il ruolo d’arbitro. Il caso si riassume allora nei due punti successivi: 1° Vaillac chiede che La Motte sia condannato per diffamazione e La Motte chiede che Vaillac sia obbligato, sia a provare la verità del suo resoconto del duello immaginario (ciò che non può fare in mancanza di prove indubitabili), sia a riconoscere pubblicamente di avere inventato una storia. 2° Gli indici a favore della verosimiglianza del racconto di Vaillac sono più convincenti di quelli a favore del racconto di La Motte, perché la bugia di Vaillac supporrebbe che egli abbia faticato molto per organizzare prove false, mentre la menzogna di La Motte supporrebbe solo che egli non si sia dato questa pena. Le uniche due questioni a cui bisogna rispondere per risolvere il caso sono : 1° se l’esistenza di un difetto di prove o di indici, come quello che influisce sul resoconto di La Motte, sia sufficiente a falsificare il racconto; 2° se per affermare la falsità di una tesi e condannare a morte il suo autore ci si possa fondare sul presupposto che egli, in questo caso Vaillac, non possa provare la veridicità del suo resoconto.

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Leibniz ricorda che esiste una norma “fondata nella ragione ed osservata nella pratica” secondo la quale “nell’azione di ingiuria o in qualsiasi altra accusa, l’accusatore che non riesce a provare interamente la sua intenzione, ma che ha fornito indici considerevoli, non è punito dalla pena di calunnia, anche se l’imputato è assolto dalla sentenza” (Leibniz 1677-1689: 655). In altri termini, abbiamo bisogno di prove piene in materia criminale per condannare una persona, mentre prove non piene bastano ad assolverla. Poiché questa regola può essere estesa ai semplici indici, la differenza di verosimiglianza tra i resoconti di Vaillac e di La Motte non basta a dare ragione al primo ed a condannare il secondo. D’altra parte, come fa osservare Leibniz, è sufficiente immaginare una situazione estrema nella quale si passi da un resoconto che contiene elementi incerti ad un resoconto puramente immaginario per mostrare chiaramente che non è possibile esigere dall’autore una prova di veridicità per non essere condannato per diffamazione. Un resoconto immaginario non è tuttavia un resoconto diffamatorio. La conclusione di questo caso intricato è in ultima analisi molto semplice: ciascuno dei due protagonisti deve essere lasciato libero a vantaggio del dubbio dell’accusa che l’altro formula contro di lui. Il dubbio, in questo modo, non è più l’elemento che sospende la soluzione, ma, al contrario, l’elemento che la determina. Quest’esempio, tipico del modo in cui i giuristi del Diritto Vecchio si muovevano per risolvere i casi in cui i dati fattuali erano vaghi, non rientra ovviamente nei quadri della dottrina ciceroniana della topica, secondo la quale l’accertamento della nostra ignoranza riguardo le vere cause materiali conduce a sottolineare l’imprevedibilità della decisione

giudiziaria e l’importanza della retorica come arte di convinzione. Questo caso dipende dall’atteggiamento opposto che consiste nell’utilizzare le risorse della dialettica per utilizzare il dubbio per fini dimostrativi, in mancanza del potere di eliminarlo. Ed è in questo quadro che il caso trova tutto il suo pieno valore di prototipo.

Riferimenti bibliografici Leibniz, G. W. Nouveaux Essais sur l’entendement humain (NE). __ Leibniz, G. W. 1677-1689. Duel Vaillac contre La Motte. Edition de l’Akademie, Politische Schriften, Dritter band. N.89 (p.655-669). Nouveaux essais sur l’entendement humain. In Sämtliche Schriften und Briefe. Edited since 1923 by various Leibniz Research Centers in Germany. Currently published by Akademie Verlag, Berlin, VI 6; Die Philosophischen Schriften von G. W. Leibniz. Edited by C.I. Gerhardt. Berlin, 1875-1890 (repr. Hildesheim, 1965), V.

Endnotes

1 Il Diritto Vecchio a cui si fa riferimento nel presente saggio è il diritto della tradizione giuridica derivata da Bartole (di solito definita il mos italicus per distinguerla dal mos gallicus che caratterizza il metodo d’esposizione tipico dei giuristi francesi). Questa tradizione derivata da Bartole sarà ereditata soprattutto dai giuristi tedeschi, in particolare dalla scuola di Leipzig a cui appartiene Leibniz. Essi, tuttavia, introdurranno la classificazione e l’impiego delle categorie astratte per proporre una dottrina che tende alla codificazione: la dottrina che sintetizza i lavori leibniziani di diritto positivo.


blackboard Georges Didi-Huberman, L’ immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Bruno Mondadori, Milano 2008 Questo libro interroga le relazioni antropologiche cruciali che le immagini intrattengono con il corpo e la carne, al di là delle usuali nozioni di antropomorfismo o di rappresentazione figurativa. Vi sono analizzate le diverse modalità con cui le immagini guardano alla carne, che sia la carne di Afrodite formata dalla schiuma del mare o quella di Cristo sacrificato sulla croce. Paganesimo e cristianesimo, ognuno con i suoi contesti di pensiero, avrebbero, in effetti, entrambi cercato di raggiungere, o forse trasgredire, i limiti dell’imitazione: da una parte le metafore diventano metamorfosi, dall’altra i segni che rappresentano diventano dei sintomi che incarnano. Si scoprirà questa potenza straordinaria dei corpi allorché in essi la carne guarda all’immagine, a esempio nella stigmatizzazione di San Francesco del XIII secolo, la crocifissione dei Convulsionari di San Medardo del XVIII secolo o le “attrazioni” isteriche della Salpétrière del XIX secolo. A. Pinotti, A. Somaini, Teorie dell’immagine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009 Si dice abitualmente che viviamo nella “civiltà delle immagini”, esposti a un flusso di impressioni visive che ci sollecita incessantemente. Ma essere immersi in una dimensione non è la posizione migliore per rendersi conto né della nostra condizione né della natura dell’ambiente che ci avvolge. Sopraffatti dalle immagini, non sappiamo dire più che cosa sia davvero un’immagine, quali siano le sue funzioni e i suoi poteri. Sono dunque necessari strumenti che ci aiutino a interpretare la “cultura visuale” in cui viviamo, senza relegarci nella posizione di spettatori passivi. “Teorie dell’immagine” risponde a questa esigenza. Proseguendo e al contempo trasformando in profondità la tradizione delle indagini intorno all’immagine (arti visive, fotografia, cinema, televisione, nuovi media), dieci saggi degli esponenti più significativi di quel nuovo campo di studi conosciuto sotto i nomi di visual culture studies e Bildwissenschaft presentano al pubblico italiano le più interessanti linee di ricerca su quella che potremmo chiamare Viconosfera contemporanea. M. Colombi, S. Esposito, L’ immagine ripresa in parola. Letteratura, cinema e altre visioni, Meltemi, Roma 2008 Questo volume analizza il lavoro che cinema e letteratura svolgono su e con le immagini. I saggi raccolti nella prima parte - Poetiche del cinema - si occupano di diverse rappresentazioni cinematografiche, riflettendo su come e perché i temi di vari film siano stati strutturati attraverso un certo tipo di immagini. La seconda parte prende in esame un genere particolare di tema letterario e cioè il cinema rappresentato dalla letteratura. La prefazione dei curatori e l’introduzione di Massimo Fusillo suggeriscono percorsi di letteratura fra i diversi saggi e le due sezioni (ad esempio il problema della “realtà”, il corpo, lo spazio, il passaggio da modernismo a postmoderno). F. Muzzarelli, L’ immagine del desiderio. Fotografia di moda tra arte e comunicazione, Bruno Mondadori, Milano 2009. Moda e fotografia sono territori che si sviluppano in osmosi, attingendo l’uno dall’altro suggestioni e idee capaci di alimentare l’immaginario collettivo e influenzare comportamenti sociali, cultura visuale e ricerca artistica. Seguendo l’intrecciarsi di questi mondi, l’autrice racconta i percorsi dell’immagine di moda attraverso l’individuazione di idee chiave che da sempre appartengono all’identità e alla filosofia del fotografico: il recupero della memoria tra album di famiglia e mo-

dalità snapshot, il voyeurismo e il gossip divistico, la fuga fantastica nelle dimensioni filmica e teatrale. Una ricognizione ampia e trasversale in grado di cogliere quegli incroci tra arte, moda e fotografia che costituiscono lo scenario della nostra contemporaneità. C. Saba, Alfred Hitchcock. La finestra sul cortile, Torino, Lindau 2009 “La finestra sul cortile” è un saggio dedicato al racconto cinematografico a suspense. Le relazioni che il suspense intrattiene con la narrazione sono presentate attraverso il racconto del mondo possibile “abitato” dal protagonista, Jeff (James Stewart). La condizione di Jeff, che si trova “in uno stato d’impotenza motrice” - costretto, temporaneamente, su una sedia a rotelle - è ricondotta “a una situazione ottica pura”, assimilabile alla condizione dello spettatore cinematografico, caratterizzata da una “ipomotricità” (immobilità sensomotoria) che si scarica nella “iperattenzione”. Jeff è uno spettatore che vede passare, come fosse un film, sulle finestre-schermo di un appartamento, un ambiguo “racconto per immagini”, di cui intuisce la “storia”. Il film “racconta” le sue mosse interpretative circa il contenuto di quella “storia” virtuale, intuita, sulla cui base egli decide di dare coerenza interpretativa non solo a ciò che vede, ma anche a ciò che non vede. M. Padula, Immersi nei media. Il nuovo modo di essere vivi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. Tra le tante manifestazioni della cultura contemporanea, i mass media esigono una profonda e sempre rinnovata riflessione. È questo il punto di partenza del libro che, attraverso le lenti parallele della sociologia e della mediologia, disamina i comportamenti, le ritualità, gli spazi e i tempi costruiti da vecchi e nuovi media. L’opinione discutibile che i mezzi di comunicazione siano soltanto mere tecnologie viene fagocitata dalla convinzione che essi stiano interpretando il mondo, accompagnandolo in una realtà altro, fatta di nuovi territori ospitanti individui totalmente ridefiniti. Tale interpretazione sfocia nell’ipotesi dell’ambiente mediale, decifrato come quello spazio in cui gli individui sono immersi e nel quale si muovono senza alcun disagio od ostilità. Un ambiente normale, che sta diventando addirittura invisibile agli occhi delle due categorie di uomini che per adesso lo abitano: i nativi e gli immigrati digitali. Lo studio ed il racconto dell’ambiente mediale diventano omnicomprensivi della sua radice temporale e, nello stesso tempo, dei bagliori teorici che hanno illuminato il pensiero sui media. Un’occasione preziosa per guardare con consapevolezza a questo nuovo ambiente. Senza dare nulla per scontato perché i media “sono il nuovo modo di essere vivi”. R. De Gaetano, L’ immagine contemporanea. Cinema e mondo presente, Marsilio 2009 Eyes Wide Shut, Millennium Mambo, Lost in Translation, Elephant, In the Mood for Love, A History of Violence, Kill Bill, Il caimano, sono i film di cui si parla in questo piccolo volume. Partire dalle opere per pensare la contemporaneità, costruirne una mappa concettuale e stilistica, non significa tornare indietro alla questione del testo e dell’autore. Tutt’altro, significa partire dall’espressione, dai segni, perché è solo lì, nel gioco fra prossimità e distanza istituito dal segno, che vediamo e sentiamo l’emergere del contemporaneo. Una cartografia del cinema contemporaneo non può che essere anche una cartografia del mondo contemporaneo, dei sentimenti e delle immagini che lo compongono.

consigli di lettura | cinema, arte e media 47


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FILOSOFIA

Igor Agostini

IL MODERNO IN FILOSOFIA: DESCARTES L’«EROE» René Descartes è un eroe, che ricominciò da capo l’impresa, e restituì alla filosofia quel terreno al quale essa tornò soltanto adesso dopo trascorsi mille anni. Non ci si può rappresentare in modo del tutto adeguato l’azione che quest’uomo esercitò sull’età sua e sulla formazione della filosofia in generale (Hegel 1981: 70).

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\ 1. Premessa La questione oggetto del mio intervento, la modernità di Descartes ed il problema del dubbio, è non solo troppo complessa per poter essere adeguatamente affrontata all’interno dei limiti quantitativi e strutturali di un saggio, ma ancora aperta, troppo aperta, perché su di essa si possa pretendere di dare, in qualsiasi sede, giudizi definitivi. Eppure, mi è parso che ritornare sulla questione potesse essere interessante per almeno due motivi d’attualità scientifica. Il primo è il sempre maggior numero degli studi dedicati, in questi ultimi anni al rapporto di Descartes con la tradizione, in particolare quella scolastica, che l’ha preceduto; il secondo sono i contributi più recenti provenienti sul piano delle edizioni di testi cartesiani. L’ultimo di questi è la pubblicazione, presso l’editore Bompiani, della prima traduzione integrale mondiale di tutte le opere di Descartes, a cura di Giulia Belgioioso, in collaborazione con un gruppo di giovani ricercatori, fra cui il sottoscritto, che svolgono la propria attività presso il Centro Interdipartimentale di studi su Descartes e il Seicento dell’Università del Salento (Belgioioso 2009 a b); edizione che fa seguito a quella, curata dalla stessa équipe per i medesimi tipi, della corrispondenza del filosofo (di cui esce ora, contemporaneamente alle opere, la seconda edizione) (Belgioioso 2009 [2005]). Con queste due pubblicazioni, è adesso a disposizione degli studiosi l’intero corpus di Descartes tradotto in italiano con testo a fronte stabilito sulle edizioni più affidabili1. Lo scopo che mi propongo è quello di evidenziare alcuni aspetti di quella che, dal mio punto di vista, costituisce ancora la griglia ermeneutica più potente per la definizione della modernità di Descartes: l’interpretazione cosiddetta «rappresentazionista» (ma anche, variamente, «fenomenista» o «idealista»), secondo la quale Descartes, appunto, è il padre della filosofia moderna in quanto ha posto nella rappresentazione (idea, nella sua terminologia) l’oggetto immediato della conoscenza. Cercherò di dimostrare la validità di

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PABLO CHIUMINATTO

C’è ancora spazio, nella cultura di oggi, per la filosofia? L’idea di pensare un luogo per la filosofia, a mio avviso, descrive l’isolamento nel quale la filosofia stessa, e le scienze umane in generale, si sono ridotte da sole. Ritornando all’immagine di Platone che pensava l’arte e la poesia espulse, entrambe, dalla città, si può dire che, in un certo senso, oggi, anche la filosofia sia stata ricacciata ai margini. E tuttavia evoco questa metafora proprio per motivare l’obbligo di ritrovare una forma di ascolto, all’interno della pratica filosofica, di tutto ciò che è stato emarginato dalla filosofia stessa. Forse, quel senso di élite creato attorno alla capacità di ragionare, di vedere, di giudicare si è rivoltato contro la filosofia stessa, condannata a una sorta di soliloquio. Quali sono le note che caratterizzano la peculiarità – se, ne riconosce una – della storia della filosofia all’interno dell’attività filosofica? La peculiarità è quella che fonda la catena riflessiva, suscitata dalla meraviglia. Ma sebbene questo atteggiamento originale sia tanto potente da determinare tutti i principi della conoscenza umana, allo stesso tempo sappiamo che è fragile. Basti pensare a cosa ha conseguito questo isolamento vissuto da alcune forme di filosofia che descrivevo prima. Tutti sappiamo che questo atteggiamento aristocratico (ma anche lo sviluppo della filosofia “professionale”), se tenuto lontano da alcuni processi fondamentali della vita umana come la mitologia, le credenze, le immagini, le metafore, la retorica, etc. finisce nell’isolamento. Ha dato il suo contributo all’edizione, a cura di Giulia Belgioioso, delle lettere e delle opere di Descartes: riconosce un valore specifico all’attività di edizione e traduzione dei classici della storia della filosofia? Per me è stata una opportunità incomparabile e indimenticabile. Ci sono aspetti del pensiero del filosofo che troviamo soltanto nelle sue lettere. Il lavoro portato a termine da Adam e Tannery per l’edizione nazionale francese è fondamentale, ma, per un studente madrelingua spagnolo, questa versione in italiano, comprensiva del testo a fronte, dà la possibilità effettiva di discutere su ogni nozione. Questo, soprattutto se consideriamo che, nel contesto ispano-americano, il corpus cartesiano non è ancora integralmente tradotto. Il lavoro dell’equipe di Lecce sarà di stimolo per gli studiosi di tutto il mondo. Pongo le ultime due domande guardando anche allo studioso di estetica che ho avuto il piacere di ascoltare personalmente. La prima, più gravosa ed aperta al rischio di generalizzazione, è a mio avviso cruciale: esiste un elemento comune che consenta di identificare come “moderne” le varie teorie sull’immaginazione proposte dopo Descartes? Secondo me, il problema più complesso nel parlare dell’immaginazione in Descartes è quello di confondere la dottrina cartesiana elaborata nelle opere di metafisica, Meditationes prima fra tutte, con quella di altri scritti come Les Passions e Le Monde. In questo senso c’è ancora molta strada da fare per tornare verso l’opera di Descartes con una nuova lettura aperta a referenti letterari, artistici e scientifici diversi da quelli consueti. Credo, senza volerne negare l’importanza, che la discussione metafisica e teologica non debba determinare tutto il pensiero di un autore come Descartes, in cui si integrano elementi di epistemologia, psicologia, antropologia e, certo, estetica. L’idea di un Descartes fondatore di un pensiero che lo lega ad autori come Leibniz, Wolff, Baumgarten, permette di distinguere la scienza del bello da quella del gusto, quest’ultima determinante nella direzione di Kant, ma lontana dalla tradizione delle poetiche classiche. Il fatto che Baumgarten abbia costruito un sistema estetico fondato sui criteri della chiarezza e della distinzione è indicativo. Per chiudere, una questione più leggera: se dovesse scegliere un titolo – uno solo – di un testo di estetica che meriterebbe di divenire un classico ed ancora non lo è, quale nome farebbe? Certo... il titolo del libro sul quale lavoro: Idea, Concetto e figura: fondamenti di una estetica cartesiana.

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moderno \

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GIULIA BELGIOIOSO

Che posto occupa, per lei, la filosofia nella cultura? Io non credo che la cultura sia da intendere come un contenitore di saperi diversi disposti uno sull’altro, o, peggio ancora, conglobati uno nell’altro. Le graduatorie pongono scale di valori che, soprattutto in questo ambito, mi sembrano fuori luogo. La filosofia (e qui do per scontato ciò che scontato non è, ossia che esista un oggetto unitario chiamato ‘filosofia’), insieme alla letteratura, alla musica, al teatro, alla matematica, alla medicina, alle ‘arti’ e ‘mestieri’, alla politica, alla religione ecc., definisce un’epoca. La cultura è, in questa prospettiva, solo il nome dell’insieme di queste diversificate attività umane. Da sola, non spiega neanche se stessa: è esercizio retorico sterile del quale Descartes (e non è stato il solo) ha sottolineato i paradossali esiti. In cosa consiste la peculiarità, che ho avuto spesso modo di ascoltarla rivendicare, di quella disciplina che è la ‘storia della filosofia’ all’interno del più ampio dominio della ‘filosofia’? Se nella risposta precedente ho avanzato delle perplessità sulla definizione univoca dell’‘oggetto’ ‘filosofia’, qui non capisco bene come possa intendersi una storia della filosofia parte del più ampio dominio della ‘filosofia’. Forse lei intende qualcosa di simile a quanto intendeva Ferdinand Alquié quando affermava che “divenire filosofo e comprendere i filosofi sono una sola e medesima cosa”. Ma questa riduzione della filosofia alla metafisica pone l’esistenza di una philosophia perennis, nega la pluralità delle ‘filosofie’ e, infine, riduce i filosofi ad epifenomeni. Si può forse negare che non solo vi sia una differenza tra una filosofia ed un’altra, ma anche dentro una stessa filosofia? Tale convinzione implica anche il riconoscimento di una specificità del mestiere di ‘storico della filosofia’? Lo storico deve porre una distanza tra sé e il suo oggetto. Solo così farà emergere le peculiarità. Lo hanno detto con molta chiarezza Delio Cantimori, Tullio Gregory ed Henri Gouhier, che si è spinto a dire che non si può fare la storia dei filosofi propri contemporanei. Ma lo storico deve essere capace di adeguare le proprie categorie interpretative al filosofo (di volta in volta diverso) del quale studia la filosofia: Aristotele, ad esempio, richiede conoscenze, competenze, metodologie di approccio non richieste per studiare Vico. Non si studia in astratto la filosofia, ma i filosofi. Questo implica anche il riconoscimento di un’importanza del tutto particolare al lavoro di edizione e traduzione? È un lavoro fondamentale, per lo storico. Consente un approccio (mi viene da dire ‘intimità’) all’autore, e alla sua evoluzione, che passa attraverso il possesso delle sue parole e dei suoi concetti che nessun altro approccio può dare. Consente di correggere interpretazioni consolidate basate su traduzioni sbagliate (o volutamente distorte), di verificare la sua appartenenza ad un linguaggio condiviso al suo tempo, la sua capacità di innovare. Affiancato al lavoro negli archivi, è quello che può restituire immagini non ‘ideologiche’ dei filosofi. Autorevoli storici hanno identificato il carattere distintivo del cosiddetto‘moderno’ in filosofia nell’identificazione, operata da Descartes, dell’oggetto immediato della conoscenza con l’idea. Una tale lettura, con tutta la sua problematicità, resta a mio avviso, ancora oggi, la meno inadeguata griglia ermeneutica per una definizione unitaria di quel composito movimento che è la storia della filosofia moderna. Qual è la sua opinione? Qui sono pienamente d’accordo. La rivoluzione della modernità è stata posta nella sua capacità di mostrare che ‘i sensi’ inducevano in errore: la Terra non è ferma; il Sole non è più piccolo della Terra, ecc. E nel mostrare, contemporaneamente, che gli strumenti per pervenire ad una conoscenza che si potesse definire vera erano mentali. Qui risiede la critica più forte che il pensiero moderno nel suo insieme ha rivolto ad Aristotele; qui risiede anche la critica più forte che Descartes ha rivolto ai ‘critici’ di Aristotele, mostrando che lo Stagirita andava criticato non in quanto filosofo ‘razionale’, ma perché aveva elaborato un programma ‘razionale’ sbagliato.

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questa interpretazione attraverso la ricognizione di alcuni testi che mi pare possano sorreggerla. Concretamente, procederò, dopo le presenti osservazioni di carattere introduttivo, a richiamare i tratti principali dell’interpretazione suddetta (1), per poi riferirmi ai testi di Descartes che la legittimano (2) e, infine, svolgere alcune riflessioni sui suoi successori (3). Metodologicamente, sarebbe stato forse più corretto muovere dall’autore alla sua posterità; ma anche collocare i testi al centro del piccolo trittico che qui presento mi è sembrato sensato; ed alla fine ho scelto così. Consegnerò alcune brevi riflessioni su alcuni dei limiti di questa interpretazione (da me qui sostenuta al di fuori di ogni pretesa di dimostrarla come dotata di una validità incondizionata) all’apposito Eradication file. Proprio non sono riuscito ad affrontare, invece, problemi più generali, ma cruciali per la questione, anche per come storicamente si è di fatto svolta la storia delle interpretazioni (mi viene in mente ­– per restare, una volta tanto per gli studi cartesiani, in Italia – il dibattito fra Eugenio Garin e Gustavo Bontadini2), primo fra tutti, quello del rapporto fra filosofia e storia della filosofia; questo, ed altri ancora, ho però messo a tema nelle domande rivolte agli interlocutori, dove il lettore potrà trovare un approfondimento del mio saggio.

2. L’interpretazione Indicando, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia moderna, le ragioni per le quali in Descartes dovesse essere individuato l’iniziatore della filosofia moderna, Hegel scriveva: In filosofia Cartesio iniziò un indirizzo affatto nuovo: con lui ha cominciamento la nuova età della filosofia, per opera della quale fu dato alla cultura di poter cogliere il principio. Cartesio prese le mosse da questo, che il pensiero doveva procedere dal suo stesso interno; tutto il precedente modo di filosofare, specialmente quello che muoveva dall’autorità della Chiesa,


idea | rappresentazione

fu da allora in poi abbandonato (Hegel 1981: 73).

Oltre un secolo dopo, Bontadini osservava: La situazione in cui la coscienza filosofica si trova con Cartesio, e con l’epoca cartesiana, è […] posizione fenomenistica […]. L’idea assume le caratteristiche proprie del fenomeno – nel senso nuovo o moderno – in quanto è presupposto l’essere formale come suo correlativo estrinseco (Bontadini 1996: 12).

Non è questa la sede per entrare a fondo nella interpretazione hegeliana, né in quella di Bontadini, peraltro divergenti l’una dall’altra sotto molti aspetti. Quel che mi interessa notare, invece, è come siffatte interpretazioni convergano nel riconoscimento della modernità del pensiero di Descartes nell’identificazione dell’idea ad oggetto immediato del pensiero. Che cosa siffatta identificazione significhi concretamente si può desumere, per contrasto, dal confronto con la posizione che Descartes ribalta edificando la propria: quella cosiddetta «aristotelico-tomista», secondo la quale oggetto immediato della conoscenza umana è la realtà extramentale, e non l’idea, o species intellegibilis. Quest’ultima, secondo Tommaso d’Aquino, non è l’id quod, ma l’id quo cognoscitur: «E per questo si deve dire che la specie intelligibile sta, all’intelletto, come ciò mediante cui (quo) l’intelletto conosce» (Tommaso d’Aquino 1988: 412)3. Scendendo appena un po’ di più nei particolari, abbozzando un modello ideale di interpretazione rappresentazionista (nella consapevolezza che anche siffatta operazione è, a sua volta, un’interpretazione, che raccoglie sotto un’etichetta unitaria esegèsi in realtà solo parzialmente convergenti), essa sarebbe connotata dall’attribuzione a Descartes delle due seguenti tesi: 1) L’oggetto immediato della conoscenza umana è il contenuto rappresentativo dell’idea (in termini cartesiani: la «realtà obiettiva»); 2) La realtà extramentale (in termini

EFFRAZIONI L’interpretazione della modernità cartesiana che si è qui proposta, pur largamente condivisa fra gli storici della filosofia, non costituisce certo una verità accettata universalmente. Ridotta ai termini essenziali, la motivazione delle divergenze interpretative è che non si possa effettivamente qualificare : 1) come «non rappresentazionista» tutta la tradizione filosofica precedente a Descartes; ciò che vale non solo per la Scolastica dell’età moderna, ma anche per Tommaso d’Aquino; 2) come «rappresentazionista» la posizione cartesiana. Fra i sostenitori di 2), va almeno ricordato un esimio studioso di Locke: John Yolton. Nel suo Perceptual acquaintance from Descartes to Reid (1984), recuperando, ed estendendo quasi all’intero ciclo della filosofia moderna da Descartes a Hume, le conclusioni stabilite relativamente a Locke in John Locke and the way of ideas (Yolton 1956: 110-111), Yolton sostiene che l’interpretazione rappresentazionista («standard», come la definisce), pur avendo ampio supporto testuale a suo vantaggio, risulta inadeguata a fronte di un esame accurato degli scritti di Locke, di Descartes e dei loro seguaci (Yolton 1984: 5). In questa sede non è possibile entrare in una discussione specifica mirata a una difesa dell’interpretazione rappresentazionista; si potrà tuttavia accennare ad alcuni limiti di essa riscontrabili, per così dire, al suo stesso interno. Se è vero che Descartes è il padre della filosofia moderna perché ha enunciato la tesi secondo la quale oggetto immediato della conoscenza è l’idea, è altresì vero che, nelle modalità in cui tale tesi è da lui enunciata, non possiede quella fisionomia così nitida e, direi, prominente, che sembrerebbe assumere nel seguito della storia della filosofia moderna e che l’interpretazione sopra proposta pretende di fissare rigidamente relativamente a Descartes stesso. Dei molti motivi che inducono ad utilizzare cautela uno è centrale: nelle Meditationes Descartes sembra in più punti far coincidere senz’altro la tesi rappresentazionista col dubbio del dio ingannatore della prima meditazione. Questo avviene, ad esempio, nelle Quartae responsiones rivolte contro le obiezioni di Antoine Arnauld: Fra i dubbi iperbolici che ho avanzato nella prima meditazione uno si spingeva sino a mettere in questione che proprio di questo (cioè che le cose siano in verità tali quali le percepiamo) io potessi esser certo, fino a quando supponevo di ignorare l’autore della mia origine (Belgioioso 2009 a: 987).

In realtà, l’argomento del dio ingannatore aveva solo valore ipotetico: dicendo che un Dio potrebbe far sì che non esistano né cielo né terra, si ipotizza, e nulla più, che quanto è dato alla mente siano solo rappresentazioni. Col che non è escluso, ma solo messo fra parentesi, che tale dato coincida di fatto, superato il dubbio, con la res extramentale; mentre in tale esclusione consiste esattamente l’importo della tesi rappresentazionista, che stabilisce un’opposizio- n e assertoria tra ordine della percezione ed ordine della realtà. Il superamento del dubbio della prima meditazione, e dunque il recupero dell’ordine reale nella quinta e sesta meditazione, non equivale all’eliminazione della tesi rappresentazionista: le cose esterne sono bensì accessibili, ma indirettamente, ossia, come Descartes scriveva a Gibieuf, par l’entremise des idées.

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storia della filosofia \

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JACOB SCHMUTZ

Quale la peculiarità della storia della filosofia rispetto alla ‘filosofia’? Apparentemente, la storia della filosofia ha il solo ruolo di eterna ancilla: per alcuni, apporta argomenti, per altri, più pretenziosi, fa piazza pulita di argomenti, di cui non abbisogna più. Questa seconda sprezzante attitudine è oggi sfortunatamente diffusissima. La storia della filosofia, come quella delle scienze, sarebbe un cimitero di dottrine false e datate, di cui non si avrebbe più bisogno, ma di cui si assapora ancora il valore estetico. Io penso si possa riconoscerne il carattere ancillare, eppure considerarla indispensabile. La storia della filosofia deve finalmente convincerci che non esiste creatio ex nihilo, che ogni idea sorge in qualche dove, in una terra più o meno fertile che lo storico della filosofia deve documentare. Quale la specificità del mestiere di ‘storico della filosofia’? La specificità, se c’è, è appunto di essere il mestiere di uno storico col quale lo storico della filosofia condivide obblighi e difficoltà da cui il “puro” filosofo crede potersi dispensare. Non si può spazzar via in un colpo solo insegnamenti di due secoli di ermeneutica filosofica: noi stessi siamo il risultato di un’evoluzione storica e contempliamo altri esseri storici. La storia della filosofia è scuola di rigore quasi infinito per chi intende praticarla correttamente: questi deve padroneggiare il contesto, la lingua, persino il supporto materiale in cui gli argomenti sono stati formulati. Lo storico della filosofia è il guardiano del tempio, deve battersi affinché si continui ad insegnare e studiare le lingue classiche, la paleografia, l’archivistica, oltre alla storia nel senso più ampio. Il progresso degli ultimi decenni negli studi di scolastica moderna, nei quali lei è unanimemente considerato uno dei massimi esperti, conferma o ridimensiona l’interpretazione per cui la modernità filosofica starebbe nell’identificazione dell’oggetto immediato della conoscenza all’idea? È una questione difficile. Io auspico l’abbandono definitivo di queste «grandi narrazioni» che presumono di spiegare la genesi della modernità nel suo insieme. Hegel, Gilson e poi soprattutto Heidegger elaborarono questa tesi per convincersi della supremazia esplicativa della filosofia su ogni altra disciplina. Per loro studiare storia della filosofia permetterebbe di spiegare il destino dell’occidente (Hegel) oppure la vittoria storica di quanto essi in fondo detestavano: l’«idealismo» di cui parla lei, che condurrebbe all’ateismo (Gilson) o alla tecnica (Heidegger). Non sono sicuro che la filosofia sia la quintessenza di una società o di un’epoca e si debba quindi cercare nei filosofi la fonte delle grandi trasformazioni tecniche, sociali e politiche. Uno studio empirico dettagliato dell’evoluzione delle dottrine filosofiche puó dare un’altra immagine dello sviluppo storico: posso farle decine di esempi di scolastici che, ancora in pieno Settecento, polemizzano convincentemente contro questa riduzione dell’oggetto della conoscenza all’idea. Lo spagnolo Luis de Losada (1681-1748) lo dice altrettanto chiaramente della scuola scozzese del senso comune. La Scolastica, un po’ come la tradizione talmudica, non ha nulla di specificamente «medievale» o «moderno»: è una tecnica argomentativa che può impossessarsi di qualsivoglia questione e sviluppa i propri strumenti tecnici. Quali i limiti di uno studio della scolastica moderna nell’ottica retrospettiva di una definizione dei suoi rapporti con la filosofia moderna? L’agenda della ricerca futura per lo studio della Scolastica va radicalmente modificata. Quella stabilita dal famoso Index scolastico-cartésien (1913!) di Gilson (ma che era già quella di von Hertling, Freudenthal, Bohatec) ha dominato un secolo di ricerca. Ci si interessa ad uno scolastico solo per il suo influsso su un autore canonico come Descartes, Spinoza, Leibniz. Bisogna abbandonare questo modello e, come lei dice, studiare la Scolastica senza alcuna considerazione retrospettiva, con la libertà di lavorare su tradizioni letteralmente morte o senza influssi storici effettivi. Il mio lavoro sulla scuola gesuita d’Alcalá cerca di dimostrarlo: è una tradizione priva d’influsso, ma dalla creatività forse molto superiore a quella della famosa scuola domenicana di Salamanca che tutti conoscono ed un influsso effettivamente l’ha esercitato. È un approccio più democratico alla storia della filosofia, senza più geni, o aristocratici, ma con una molteplicità di uomini e donne che producono argomenti.

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cartesiani: «la realtà formale») non è immediatamente data e, quindi, è soggetta al dubbio. Occorre adesso verificare la base testuale che consente l’attribuzione, a Descartes, di una tale posizione, prendendo le mosse da quella che, delle tre esposizioni pubbliche della sua metafisica, Descartes ha sempre considerato la più importante: le Meditationes de prima philosophia, del 16414.

2. La base testuale All’inizio della terza meditazione, ricapitolando i risultati conseguiti dal meditante sino al punto in cui egli si trova attualmente, vale a dire dopo la scoperta della prima certezza che sola, ancora, si sottrae alle procedure del dubbio messe in atto nella prima meditazione, e cioè l’esistenza dell’io guadagnata attraverso il cogito, Descartes scrive: Prima ho ammesso come del tutto certe e manifeste molte cose che, successivamente, ho tuttavia scoperto essere dubbie. Quali erano, dunque? La Terra, il cielo, le stelle e tutte le altre cose che coglievo con i sensi. Che cosa, però, percepivo chiaramente di esse? Che le idee (ideae), ossia i pensieri (cogitationes), di tali cose (rerum) erano presenti alla mia mente. Ma neppure adesso metto in questione che quelle idee siano in me. Qualcos’altro, invece, era quel che affermavo e che, anche per la consuetudine a credervi, ritenevo di percepire chiaramente e tuttavia in realtà non percepivo: che fuori di me ci fossero cose dalle quali tali idee derivavano, ed alle quali erano in tutto simili. Ed era questo ciò su cui mi ingannavo (Belgioioso 2009 a: 725).

In questo passaggio si riscontrano, in una terminologia che è già tecnica, le due tesi dell’interpretazione rappresentazionista: 1) L’oggetto immediato della conoscenza umana non sono le cose (res), bensì le idee (ideae), o i pensieri (cogitationes) delle cose; 2) Le cose esterne non sono immediatamente date e, quindi, vanno messe in questione, ossia sottoposte al dubbio. Parlando di un «prima» in cui egli aveva ammesso come cer-


immagine | filosofia te e manifeste molte altre cose, Descartes si riferisce alla condizione prefilosofica in cui il meditante si trovava all’inizio dell’iter delle Meditationes, demolita dal dubbio della prima meditazione, ora reiterato. Sennonché, l’identificazione dell’idea a oggetto immediato della conoscenza, se da un lato ricapitola e rilancia i risultati del dubbio della prima meditazione, dall’altro costituisce la pietra angolare della complessa costruzione attraverso la quale il filosofo programma il recupero della realtà extramentale: questa identificazione è infatti, a un tempo, una reificazione dell’idea, in senso tecnico, vale a dire che implica l’attribuzione sul piano rappresentativo all’idea di una vera e propria realtà (obiettiva), indipendente sia da quella della cosa extramenStrumenti Armogathe J.-R., V. Carraud. 2003. Avec la collaboration de M. Devaux, M. Savini, Bibliographie Cartésienne (1960-1996). Lecce: Conte. Bulletin Cartésien, pubblicato annualmente presso la rivista Archives de philosophie (ora disponibile anche on-line presso il sito del Centro Interdipartimentale di studi su Descartes e il Seicento: www.cartesius. net). Sebba, G. 1964. Bibliographia cartesiana. A critical guide to the Descartes literature 1800-1960. The Hague. M. Nijhoff.

PERCORSI

Fonti Ayers, M. Y. (Ed.). 1975. George Berkeley. Philosophical Works. Including the wor-

tale, sia da quella che la stessa idea possiede in quanto atto mentale; e siffatta reificazione è ciò che rende operativa la dimostrazione dell’esistenza di un ente altro dall’io e, con questo, l’uscita dal solipsismo. Limiti di spazio non consentono di riportare il complesso passaggio in cui Descartes opera siffatta dimostrazione (cf. Belgioioso 2009 a: 733-735), la quale può forse, in estrema sintesi, essere così condensata: le idee, considerate quanto al loro contenuto rappresentativo, non sono un nulla, ma hanno una loro realtà (obiettiva); tutto ciò che include realtà necessita di una causa contenente almeno altrettanta realtà; dunque, le idee, considerate quanto al loro contenuto rappresentativo, necessitano di una causa contenente almeno altrettanta realtà di essa. ks on vision. London: Everyman’s Library. Belgioioso, G. (Ed.). 2009 [2005]. René Descartes. Tutte le lettere. Con la collaborazione di I. Agostini, F. Marrone, F. A. Meschini, M. Savini, J.-R Armogathe. Milano: Bompiani. Belgioioso, G. (Ed.). 2009. René Descartes. Opere. 1637-1649. Con la collaborazione di I. Agostini, F. Marrone, M. Savini. Milano. Bompiani. Belgioioso, G. (Ed.). 2009. René Descartes. Opere postume. 1650-2009. Con la collaborazione di I. Agostini, F. Marrone, M. Savini. Milano. Bompiani. Bordoli, R. (Ed.). 1997. René Descartes, Henricus Regius, Il carteggio. Le polemiche. Napoli: Cronopio. Bos, E.-J. (Ed.). 2002. The Correspondence between Descartes and Henricus Regius. Utrecht: Zeno. Kant, I. 2004. Critica della ragion pura. Milano: Bompiani. Hegel, G. W. F. 1981. Lezioni sulla storia della filosofia. 3, II. Firenze: La Nuova Italia. Lecaldano, E. (Ed.). 2008. Hume. Opere filosofiche 1. Trattato sulla natura umana. Bari: Laterza. Locke, J. 1975. An Essay concerning Human understanding. Oxford: University Press. Meo, O. (Ed.). 1990. Immanuel Kant. Epistolario filosofico 1761-1800. Genova: Il Melangolo. Parigi, S. (Ed.). 2007. George Berkeley. Opere filosofiche. UTET: Torino.

L’esistenza, nell’io, dell’idea di Dio dimostra così ipso facto l’esistenza di Dio: perché avendo una realtà obiettiva infinita, tale idea, e solo essa, non potrà che avere una causa infinita, vale a dire Dio realmente esistente. Fra i punti che, sin da subito, risultarono controversi, c’era quello che qui interessa: la dipendenza del valore della prova dal riconoscimento di una realtà obiettiva all’idea. Riconoscimento inaudito: perché, fino a prima di Descartes, nessuno mai aveva sostenuto che il contenuto rappresentativo dell’idea fosse una realtà interna all’idea stessa («idea» come id quod cognoscitur) e non, invece, la realtà extramentale («res» come id quod cognoscitur) rappresentata attraverso l’idea («idea» come id quo cognoscitur). Tutta la gnoseologia aristotelica e, poi, Tommaso d’Aquino. 1988. Summa theologiae. Roma: Editiones Paulinae. Verbeek, T., E.-J. Bos, J. van de Ven (Eds). 2003. The Correspondence of René Descartes. 1643. Utrecht: Zeno. Studi Bontadini, G. 1995 [1971]. Conversazioni di metafisica. 2 voll. Milano: Vita e pensiero. Bontadini, G. 1996 [1966]. Studi di filosofia moderna. Milano: Vita e pensiero. Di Bella, S. 1997. Meditazioni metafisiche. Introduzione alla lettura. Roma: La Nuova Italia Scientifica. Gueroult, M. 1968. Descartes selon l’ordre des raisons. 2 vols. Paris: Aubier. Panaccio. C. 1992. From Mental World to Mental Language. Philosophical Topics 20: 125-147. Panaccio. C. 2001. Aquinas on Representation. In Perler D. (Ed.) Ancient and Medieval Theories of Intentionality. Leiden. Brill. 1992: 185-181. Philonenko. A. 1969. L’œuvre de Kant. 2 vols. Paris: Vrin. Schmutz. J. 2008. Bellum scholasticum. Thomisme et anthitomisme dans les débats doctrinaux modernes. Revue thomiste 108, pp. 131-182. Yolton. J. W. 1984. Perceptual acquaintance from Descartes to Reid. Minneapolis: University of Minnesota Press. Yolton. J. W. 1956. John Locke and the way of ideas. Oxford: Clarendon Press.

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fenomenismo quella tomista, si edificava sul presupposto che oggetto immediato del pensiero fossero le res, non le ideae, considerate un nulla al di fuori della loro realtà psicologica («formale», ma intramentale). Ed il filosofo non dovette attendere molto perché si avessero le prime, scandalizzate, reazioni. Così, il teologo Caterus, che alla tradizione scolastica si era formato, osserverà: A questo punto, però, mi vedo costretto a fermarmi un po’, per non stancarmi troppo. Il mio ingegno, infatti, barcolla ormai da una parte e dall’altra, come l’Euripo fluttuante: affermo, nego, approvo e, di nuovo, disapprovo; non voglio dissentire da quest’uomo, ma non posso assentire. Chiedo infatti: quale causa richiede un’idea? Oppure mi si dica che cosa è un’idea […]. Perché […] ricerco la causa di ciò che non è in atto, di ciò che è una nuda denominazione ed un nulla? (Belgioioso 2009 a: 803).

Descartes, nel rispondergli, non si muoverà di un passo dalla propria posizione; anzi, la espliciterà in modo ancor più netto5. Ma, anche, renderà al suo avversario l’onore delle armi, riconoscendogli esplicitamente d’avere visto nel giusto: Egli […] dopo aver brevemente concesso le cose che ha ritenuto esser state dimostrate in modo sufficientemente chiaro, ed averle così confermate con la sua autorità, ha proceduto ad indagare solo su quella da cui dipende la difficoltà principale: che cosa mai si debba intendere qui col nome di idea, e quale causa una tale idea richieda (Belgioioso 2009 a: 813).

Caterus è il primo degli obiettori: lo scontro fra la filosofia di Descartes e quella tradizionale, nelle Meditationes, si consuma dunque subito. E come la replica a Caterus enfatizza la realtà dell’idea, così altri luoghi delle Responsiones ribadiscono la complementare identificazione di essa ad oggetto immediato della conoscenza. Esemplare è il quinto assioma delle Rationes more geometrico dispositae annesse da Descartes in calce alle Secundae responsiones: Donde sappiamo, infatti, ad esempio,

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che il cielo esiste? Forse perché lo vediamo? Ma questa visione non tocca la mente se non in quanto è un’idea: un’idea, dico, che inerisce alla mente stessa, e non un’immagine dipinta nella fantasia. Ed attraverso questa idea non possiamo giudicare che il cielo esiste se non perché ogni idea deve avere una causa realmente esistente della sua realtà obiettiva; la qual causa giudichiamo essere lo stesso cielo; e così per ogni altra cosa (Belgioioso 2009 a: 899).

Ma, di questa tesi, la formulazione forse più nota non si trova nelle opere a stampa, bensì nella corrispondenza, vale a dire nella lettera al Padre oratoriano Guillaume Gibieuf del 19 gennaio 1642: Infatti, essendo certo di non poter avere alcuna conoscenza di ciò che è fuori di me se non attraverso le idee (par l’entremise des idées) che ne ho, mi guardo bene dal riferire immediatamente i miei giudizi alle cose e dall’attribuire ad esse alcunché di positivo che non abbia prima percepito nelle idee che ne ho; ma credo pure che tutto ciò che si trova in queste idee sia necessariamente nelle cose (Belgioioso 2009 [2005]: 1563).

Dove c’è, in poche righe, tutto l’itinerario che, nelle Meditationes, conduce dal dubbio alla certezza sulle cose esterne: le cose esterne non sono conosciute immediatamente, ma solo attraverso idee; occorre dunque sospendere il giudizio di conformità tra idea e cosa (vale a dire: dubitarne), sino a quando non sia stato individuato un criterio di verità; a quel punto, però, si potrà senz’altro operare la transizione dall’ordine della rappresentazione a quello della realtà. Transizione che non è se non l’operazione compiuta da Descartes nella quinta e nella sesta meditazione (recupero dell’essenza e dell’esistenza delle cose esterne, guadagnata mediante il ricorso della veracità di Dio6) e che costituisce la soluzione specificamente cartesiana al problema posto dal rappresentazionismo: la realtà extramentale è conoscibile mediatamente, par l’entremise des idées.

3. Dopo Descartes La vulgaris divisio con cui i manuali sono soliti presentare il grande ciclo della filosofia moderna è nota: da un lato il razionalismo che, con a capo Descartes, passando per Spinoza, Malebranche e Leibniz, giunge, immediatamente alle spalle di Kant, alla sistematizzazione di Wolff; dall’altro, l’empirismo che, con Locke, preceduto da Bacone ed Hobbes, arriva, passando per Berkeley, alle sue estreme conseguenze, tratte da Hume. Di questa suddivisione, pur così efficace, anch’essa, in ordine ad un’interpretazione complessiva della storia della filosofia moderna, due sono i limiti, ed opposti fra loro. Il primo, invero strutturale, è l’impossibilità di racchiudere in uno schema interpretativo rigido un movimento tanto composito. Il secondo è che essa tende ad oscurare il dato comune nel quale, al di sotto della divergenza relativa al problema dell’origine della conoscenza, convergono senz’altro empiristi e razionalisti: l’identificazione, su cui ho più volte sopra insistito, dell’idea ad oggetto immediato della conoscenza. Perché questa è tesi che si ritrova asserita non solo da Descartes, non solo dai cosiddetti razionalisti, ma anche dagli empiristi. Il quarto libro del Saggio sull’intelletto umano (1690) di Locke, dominato, nel libro primo e secondo, dall’istanza ideogenetica che pone, in contrasto dichiarato con l’innatismo, l’origine di tutte le idee nell’esperienza, è un documento della massima importanza per il modo in cui palesa l’esistenza di una sicura coincidenza con la prospettiva, disegnata da Descartes, secondo la quale l’oggetto immediato della conoscenza umana è da identificarsi all’idea. L’incipit stesso del libro, che cito qui per la sua nettezza anche nell’originale inglese, esprime tutto lo spirito delle pagine che seguiranno: Since the The Mind, in all its Thoughts and Reasonings, hath no other immediate Object but its own Ideas […] it is evident, that our Knowledge is only conversant about them/Poiché la Mente, in tutti i suoi pensieri e ragionamenti, non ha altro oggetto immediato se non le proprie Idee […] è evidente che tutta la nostra


conoscenza ha a che fare solo con esse (Locke 1975:525)7.

L’intero libro è incomprensibile all’infuori di questa prospettiva. E non è di secondaria importanza ricordare quale fu l’orientamento delle primissime reazioni suscitate in terra inglese dall’opera di Locke: di critica nei confronti del presunto idealismo che contaminava l’opera, come, forse con maggior forza d’ogni altro, argomenterà il vescovo Edward Stillingfleet, condannando il new way of ideas inaugurato da Locke in Inghilterra come promiscuo al rappresentazionismo cartesiano. Della posizione di Locke, del resto, prenderà senz’altro atto colui che, nella tradizionale classificazione manualistica dell’empirismo moderno, sempre lo segue, George Berkeley, che, nei suoi Philosophical Commentaries, appunterà, alla lettera (cito ancora dall’inglese dall’agile edizione «Everyman»): «All knowledge about ideas. V. Locke B. 4 c. 1/Ogni conoscenza riguarda idee. Vedi Locke, Libro IV, capitolo 1» (Ayers 1975: 301)8. Con ciò era asserita la piena continuità fra pensiero lockeano e cartesiano, sul punto che qui interessa e che costituisce ciò che si chiama «moderno» in filosofia. Terminologia, in questo caso, tutt’altro che applicata retrospettivamente, ma attestata negli stessi autori dell’epoca a designare esattamente questa concezione dell’idea. Così, ancora in Berkeley, si legge nel Saggio per una nuova teoria della visione: «Prendo la parola ‘idea’ per ogni immediato oggetto del senso o dell’intelletto, nel significato ampio con il quale questo termine viene usato comunemente dai moderni» (Parigi 2007: 110). Dopo Berkeley, farà sua la tesi fenomenista anche David Hume, che, nel suo Trattato sulla natura umana, scriverà: «All’infuori delle percezioni non c’è altro che sia presente alla mente» (Lecaldano 2008: 80). Ma anche il filosofo che tenterà di superare, con la filosofia trascendentale, l’opposizione fra empirismo e razionalismo, e cioè Immanuel Kant, asserirà che «noi abbiamo a che fare soltanto con il molteplice delle nostre rappresentazioni» (Kant 2004: 1215); dove

il termine utilizzato è Vorstellung, data la ripulsione mostrata da Kant nei confronti dell’utilizzazione del termine «idea» operata da Locke, che con esso (la cui dignità obbliga invece, secondo Kant, a restringerne l’uso a Dio, mondo ed anima) designava anche le rappresentazioni aventi contenuto sensibile. La genesi del criticismo è, anzi, legata strutturalmente alla formulazione del problema della corrispondenza fra idee ed oggetto, come risulta dalla lettera a Marcus Herz del 21 febraio 1772: Durante le mie lunghe ricerche metafisiche, io (così come altri) non l’avevo preso in considerazione, ma esso costituisce in realtà la chiave di tutti i misteri della metafisica, che finora è rimasta celata a se stessa. Mi chiesi cioè: su quale fondamento poggia la relazione di ciò che in noi si chiama rappresentazione con l’oggetto (Meo 1990: 65)..

Sennonché, la risoluzione di questo problema implicherà il ribaltamento dei suoi stessi termini: la questione fondamentale del criticismo verrà risolta affermando bensì la corrispondenza fra pensiero ed oggetto, ma concepito senz’altro come fenomeno9. Dal punto di vista dei vecchi (e precritici) termini del problema, la soluzione kantiana, come noto, sarà invece senz’altro negativa, con la negazione della conoscibilità del noumeno. E la conclusione principale della Critica della ragion pura può anche essere vista come l’enunciazione della conseguenza estrema, non tratta da Descartes, della tesi rappresentazionista che proprio quest’ultimo aveva inaugurato: se le cose in se stesse non sono oggetto immediato della nostra conoscenza, che ha a che fare solo con idee, o rappresentazioni, esse non saranno conoscibili neanche indirettamente, ma saranno ipso facto inconoscibili. Resoconto, questo, estremamente semplificante, certo, ma per cui non manca un supporto testuale, come nel seguente passaggio tratto dalla prima edizione dell’opera: Tutte le rappresentazioni possiedono in quanto tali il loro oggetto e possono essere a loro volta esse stesse oggetti di altre rappresentazioni. I fenomeni sono

gli unici oggetti che possono esserci dati immediatamente […] Ora però questi fenomeni non sono cose in se stesse, ma appena delle rappresentazioni (Kant 2004: 1219).

Indubbiamente, altro è il singolo testo, altro è l’interpretazione di un’opera intera; ma è certo estremamente efficace un approccio ermeneutico che, valorizzando questo aspetto, permetta, rispetto alla storia della filosofia che aveva preceduto la prima Critica, di connetterne la riflessione, ben oltre la problematica ideogenetica su cui si consumò la divisione fra empirismo e razionalismo, al presupposto che le due correnti avevano in comune. Un presupposto che dovevano a Descartes.

Endnotes

1 Fra le altre edizioni parziali della corrispondenza cartesiana degli ultimi anni sono da ricordare, almeno, Bordoli 1997 e, soprattutto, Bos 2002, Bos, Ven 2003. 2 Cf. Bontadini 1995: II 328-379. 3 Trad. mia. Per un’interpretazione radicalmente alternativa della posizione di Tommaso, in termini di un rappresentazionista cf. Panaccio 1992, Panaccio 2001. A Jacob Schmutz va il merito di avere mostrato gli antecedenti scolastici di un dibattito sull’effettiva posizione di Tomaso in proposito: cf. Schmutz 2008. 4 Le altre due sono la quarta parte del Discours de la méthode, del 1637, e la prima dei Principia philosophiae, del 1644. Per maggiori ragguagli sulla storia delle Meditationes e sul rapporto con le altre due esposizioni metafisiche, soprattutto la prima, mi permetto di rinviare a Nota Introduttiva a Meditazioni, a cura di G. Belgioioso e del sottoscritto (Belgioioso 2009 a: 661-677). 5 Cf. il testo delle Primae responsiones in Belgioioso 2009 a: 815-817. 6 Si scuserà qui la sintesi estrema in cui ho racchiuso l’itinerario cartesiano. Per un’esposizione analitica delle Meditationes cf., ancora oggi, Gueroult 1968; mentre, fra i contributi più recenti, spicca Di Bella 1997. 7 Trad. mia. 8 Trad. mia. 9 Cf. anche i rilievi, sulla lettera a Herz, in Philonenko 1969.

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CINEMA Attraverso quali espedienti fotografici Dreyer ha reso presente la problematica del dubbio nel proprio cinema e con quali esiti nei diversi film?

Igor Tavilla

TENEBROSA LANTERNA 56


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La parabola del dubbio nella cinematografia di Dreyer


Aut…Aut… Premessa Il nostro contributo intende inscrivere l’opera di Carl Theodor Dreyer (1889-1968) nel cono d’ombra definito dalla problematica del “dubbio”, avendo cura di indagare le soluzioni formali in cui essa si rende visibile, con uno sguardo privilegiato per la componente fotografica dei suoi film. La “messa in luce”, o più correttamente la “messa in ombra”, appare infatti quale momento strategico nell’ ostensione delle alternative spirituali che attestano i dubbi del regista. Passeremo pertanto in rassegna i capisaldi della cinematografia di Dreyer, a partire da La Passion de Jeanne d’Arc (1928) sino ad Ordet (1954) cercando di evidenziare gli esiti cromatici a cui la fotografia dreyeriana perviene e guardando alla vicenda personale del regista come a quel grumo di contraddizioni irrisolvibili da cui ogni scelta espressiva trae alimento. Nella filigrana delle pellicole, infatti, come scrutando l’autore negli occhi, «si intuisce […] la lotta [che egli vive e soffre] per uscire da se stesso, per oltrepassare se stesso, si intuisce la violenta collisione tra il mondo esteriore e quello interiore, si intuiscono le crisi e gli tensioni, il dubbio e la fede» (Ulrichsen 1955: 8)1. Al termine di questa analisi potremo ricondurre proprio al dubbio, quale denominatore comune, l’esperienza personale e artistica di Dreyer. Diremo anzitutto che il dubbio, ovvero l’incertezza psicologica tra due o più alternative, trova nella scala dei grigi, fra bianchi e neri puri, asilo e rappresentanza2. Per Dreyer, come per altri autori accomunati da Deleuze nella categoria dell’«astrazione lirica» (Sternberg e Bresson), l’ombra cessa infatti di connotare lo spazio dell’opposizione, del conflitto, della lotta, come invece avveniva nel cinema espressionista; essa rivela piuttosto che l’«atto dello spirito non è lotta, ma un’alternativa, un “Aut…Aut…” fondamentale» (Deleuze 1984: 136)3.

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1. La mosca su Jeanne: prolegomeni alla presenza del dubbio nella cinematografia di C. Th. Dreyer A voler dunque considerare la parabola del dubbio nel cinema di Dreyer il propagarsi inesorabile di una zona d’ombra che aggredisce il confine esistente tra bianco e nero, la Passion de Jeanne d’Arc può rappresentare solo il prodromo a una presa di coscienza linguistica ed estetica che maturerà e si realizzerà in forma compiuta posteriormente al capolavoro muto del 1928. Alcuni passi topici del copione, tuttavia, ci paiono rivelatori dell’emergenza della questione ed esemplari di quella “patologia” che Dreyer assumerà come costante nella sua pluriennale meditazione del dubbio. È l’Arcivescovo Cauchon a provocare l’incertezza di Jeanne, insinuando che non sia Dio a ispirare la sua condotta bensì il demonio. Un mutamento si è prodotto in Giovanna. Mano mano che Cauchon le parla, ci si rende conto che è in preda ai dubbi – dubbi che le si sono certo costantemente presentati nelle ore della solitudine. Dio le ha promesso di liberarla. Com’è che questa liberazione promessa non arriva? Perché Dio non mantiene la promessa che le ha fatto? Perché la lascia sola contro tutti questi uomini di chiesa, questi dottori sapienti? Dubita fortemente e si domanda se ha il diritto di parlare come parla davanti a tutti questi uomini abili e colti. Sarebbe vero che è piena d’orgoglio? Che fosse proprio il diavolo a ispirarla e a dirle tutto ciò ch’ella credeva provenisse da Dio? (Dreyer 1967: 46).

La lotta interiore che tormenta la protagonista, si conclude in prima battuta con la vittoria di una fede piena e senza macchia: «[…] una luce celestiale rischiara il viso di Giovanna […] il viso le splende di bellezza e chiaroveggenza […]» (Dreyer 1967: 47). Tuttavia, sotto la minaccia di una violenza brutale, la ruota dentata che gira vorticosamente su se stessa, anche una volontà tenace come la sua vacilla. Jeanne cade, priva di coscienza, in preda a un accesso febbrile e si teme per la sua vita. Astutamente i giudici

sopraggiunti al capezzale cercano di persuaderla ad abiurare, promettendole l’estrema unzione a patto che essa rinneghi la propria vocazione guerriera. C’è un’espressione di miseria e d’infelicità sul viso di Giovanna, seduta com’è, malata, in preda alla febbre, vittima dei dubbi. Da una parte vede il sacramento che per lei vale più della vita, dall’altra vede il documento che vuole farle ammettere d’essere l’inviata del demonio (Dreyer 1967: 47).

D’ora innanzi il dubbio sarà sempre accompagnato e al tempo stesso ricondotto da Dreyer a uno stato d’infermità e debolezza, fisica o mentale. Avendo ceduto ai propri inquisitori di fronte alla macabra visione del teschio dissotterrato e roso da un verme, Jeanne è aggredita dai rimorsi, eppure il semplice ricordo del boia la scoraggia, lasciandola «esitante, torturata, la testa fra le mani» (Dreyer 1967: 62). Ma un attimo dopo la decisione è presa, ella ripudia l’abiura e si dispone a subire il martirio, in cui finalmente intravede la tanto attesa liberazione ad opera della Provvidenza. Il lucore della pellicola dissipa l’incertezza di Jeanne e Dreyer sembra risolvere la crisi di coscienza della propria eroina in un “lieto fine” teologico. Il dubbio, una fugace apparizione, effimera come la mosca che per due volte si posa sul volto di Renée Falconetti, viene allontanato da un moto spontaneo dell’animo. Bisognerà attendere anni più cupi nella vita del maestro per vedere l’incertezza spirituale sondata dalla cinepresa con sofferta consapevolezza.

2. Le tenebre dell’inconscio Vampyr (1932) è senz’altro il film più anomalo o «avanguardistico-sperimentale» (Tone 1978: 54) di tutta la cinematografia dreyeriana. Assistito dall’operatore Rudolf Maté, Dreyer approntò una fotografia inedita ai suoi lavori precedenti, soprattutto in palese controtendenza rispetto alla sua ultima creazione, La Passion de Jeanne D’Arc. Scrisse a proposito del diaframma cromatico


Gertrud, 1964

Ordet, 1954

notte oscura dell’anima

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irrazionalità che separa le due pellicole Parrain: Jeanne ha accettato e compiuto la sua missione: se il dubbio s’insinua in lei, altro non è che un’ultima prova, ma sin dalla prima inquadratura ella è avviata sul cammino della salvezza e della verità, seppure di questo cammino non conosca ogni svolta. Perciò tutto il film è orchestrato in bianco. La martire vestirà proprio un abito bianco alla fine, allorché dovrà subire la propria passione per intero e dunque perverrà, al termine del proprio cammino, alla conoscenza diretta della verità. (Parrain 1967: 59).

Il regista allestì Vampyr ricorrendo a capitali estranei ai convenzionali canali di produzione, cercando in questo modo di superare l’emarginazione in cui era stato confinato dopo il clamoroso insuccesso commerciale rappresentato proprio da La Passion de Jeanne D’Arc4. La crisi di Dreyer, come autore, ma non solo, si aprì dunque con Vampyr e si protrasse per ben dieci anni di inattività forzata, culminanti nel ricovero in una clinica psichiatrica (Drouzy 1993: 68-83). Maurice Drouzy, il biografo che ha raccontato con il linguaggio della psicoanalisi la personalità e l’opera del regista, segnate entrambe dal trauma dell’abbandono materno e della successiva adozione, scrisse a proposito di Vampyr: […] quest’ultimo film introduceva un’inquietante novità: le cose non si presentavano più così chiaramente come nei precedenti. Joséphine [madre naturale di Dreyer, morta avvelenata per l’ingestione di capocchie di fiammifero, ritenute abortive, in seguito a una seconda gravidanza indesiderata] non era più la martire completamente innocente, né Marie [madre adottiva] la perfida megera. […] L’universo in bianco e nero in cui aveva vissuto fino a Vampyr non corrispondeva più alla realtà, alla sua realtà. Ora sta scoprendo nel suo intimo contraddizioni inesplicabili (Drouzy 1990: 186).

Dunque Dreyer sperimentò il dubbio angosciante alla radice del proprio sé, nella camera oscura dell’inconscio. Il crepuscolarismo della pellicola, permeata di ambiguità come da una bruma

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caliginosa, conferisce ai personaggi che la popolano le movenze incongruenti dei fantasmi5. Si pensi all’ombra che riproduce al contrario, sovvertendo l’ordine naturale di consequenzialità, i movimenti di un affossatore mentre scava una buca nel terreno; a quella dell’uomo dalla gamba di legno, in apparenza svincolata dal corpo che la proietta e, ancora, all’inquietante valzer di ombre, oscuro riflesso di un altrove inesistente e incorporeo. Le anomalie narrative che affliggono la pellicola vengono accumulate da Dreyer in una studiata ricerca dell’equivoco che rende lo spettatore, tanto quanto il protagonista del film, vittima di logoranti sospetti6. Vampyr è il film delle candele, delle lampade e delle lanterne. Eppure è la notte a dominarlo. I lumi sono inefficaci, non hanno alcun potere sulla tenebra, che anzi incrementa la propria oscurità al loro cospetto7. Da ciò è forse possibile arguire una morale irrazionalista: la ragione è inadeguata a sostenere il confronto con le forze sovrannaturali che la insidiano. Lume che precede l’uomo in senso figurato, essa è debole e pallida, insufficiente a dirigere i suoi passi. Fra «gli uomini-grigi dell’incertezza» Deleuze annoverava, a buon diritto dunque, il protagonista di Vampyr, David Grey (Deleuze 1984: 138). Dotato di un sesto senso che lo porta a vivere situazioni al limite dell’ignoto, David Grey è un individuo aperto alla quinta dimensione dello spirito. Nello stato di dubbio e incertezza in cui il protagonista è sospeso come in un elemento fluido, il confine tra reale e virtuale pare stinto, così come sbiadita è la luce che sorveglia la soglia dell’inconscio. Proprio attraverso quel ingresso, lasciato incustodito dalle forze della rimozione, rifluiscono nella pellicola i fantasmi di Dreyer.

3. I chiaroscuri della scelta etica Se per la padronanza assoluta del bianco e nero e per la vasta gamma di grigi sperimentati dalla sua “tavolozza” Dreyer ottenne in pellicola risultati paragonabili a quelli del

pittore e compatriota Vilhelm Hammershøi, Vredens Dag [Dies Irae] (1943) è sicuramente fra i suoi film «il più curato quanto agli effetti di illuminazione» (Neergaard 1950: 35)8. Scrisse Parrain: «In Dies Irae, Anne deve scegliere tra due strade agli antipodi, il bianco e il nero assoluti si contrappongono senza tregua, lacerandola, costringendola a una scelta» (Parrain 1978: 59). L’alternativa esistente fra i termini estremi della scelta etica, bene e male, non viene comunque appiattita su banali simbolismi: «Il bianco che imprigiona la luce non è più valido del nero, che le resta estraneo. In fin dei conti l’alternativa dello spirito non concerne mai direttamente l’alternanza dei termini, sebbene quest’ultima le serva da base» (Deleuze 1984: 137). L’eroina di Vredens Dag cerca di evadere dall’atmosfera rigida e opprimente del presbiterio, e assecondare la passione che la natura le ispira. La peccaminosa relazione con Martin, figlio di primo letto del suo anziano marito Absalon, è una mescolanza di bianco e di nero che mette apertamente in discussione la dogmatica antitesi di bene e male, su cui riposano le certezze di ogni morale manichea. L’autorità religiosa condanna la promiscuità dei colori. Bianco e nero debbono conservare la loro sterile purezza. Ogni grigio è al bando, a cominciare da Marta di Herlof. L’omogeneità flou della luce nel laboratorio dell’anziana strega contrasta con il geometrismo severo che domina nella canonica, dove lo spazio appare rigorosamente pavimentato e suddiviso in caselle stagne di bianco e di nero (Cf. Deleuze 1984: 137). Anche la natura, nelle sembianze di una vegetazione lussureggiante, ha tanta parte nell’illecita confusione tra luce e ombra, ammiccando all’intimità degli amanti con un chiaroscuro palpitante, ingraziato dalle fronde degli alberi agitate al vento. Dreyer effonde con complicità una velata cortina sulle immagini così che le silhouettes dei due giovani possano celebrare il loro stilizzato erotismo al riparo da una luce troppo indiscreta. In natura, insegna Dreyer, i colori non rispettano mai nessuna gerarchia o conformismo. Così pure, per quanto l’uomo


chiaroscuro si sforzi di tenerli separati, di conservarli riconoscibili e puri, il bene e il male tornano ogni volta a confondersi e a contaminarsi. È dunque Anne il personaggio che veste l’ambiguità e l’incertezza. Nell’«ombra indiscernibile» ella riscopre la propria femminilità avvilita dal «bianco presbiteriano» (Deleuze 1984: 137). Le tenebre profilano e al tempo stesso custodiscono lo sguardo malefico di Anne, potente retaggio della sua defunta madre, strega anch’essa come Marta di Herlof ma protetta in vita dall’omertà di Absalon. Ancora, il viso di Anne è perturbato da un raggio d’ombra capace di invalidare la confessione che Martin le estorce in un primo tempo. Infatti, proprio mentre Anne si dichiara innocente della morte di Absalon, l’ombra proiettata dal suo amante le oblitera la bocca, revocando in dubbio l’autenticità del giuramento. Anche Absalon, come Anne, è personaggio visitato dal chiaroscuro, morale oltre che cromatico. La sua ampia fronte è attraversata da torbidi pensieri, ombre veloci ma ricorrenti, che spengono in lui ogni entusiasmo per il ritorno del figlio alla propria dimora. Così Absalon supplica il soccorso divino: Mio Dio, ti prego con tutto il cuore, vienimi in aiuto in quest’ora di dubbio. Sono un servo fedele e seguo i tuoi comandamenti e adesso mi sento scosso dal dubbio profondo e atroce. Dio, Signore che la tua luce venga affinché io possa trovare la via per uscire dall’oscurità che mi tortura. Ascoltami, in nome di Gesù. Amen9.

Il dubbio che tormenta Absalon è intuito da sua madre Merete: «merete: Verrà il giorno in cui dovrai scegliere… absalon: Scegliere fra che cosa? merete: Fra Dio… e Anna» (Dreyer 1967: 163). Per la verità, Absalon ha già scelto. Era suo dovere condannare anche la madre di Anne, conclamata strega, ma si astenne dal farlo ben sapendo che il processo avrebbe ostacolato le sue seconde nozze. A ciò si aggiunge la consapevolezza, che l’anziano parroco matura solo col ritorno del figlio Martin, della propria senescenza: «Quando li vedo insieme, loro due, per la prima volta mi rendo conto di

quanto io sono vecchio e di quanto lei è giovane» (Dreyer 1967: 178). La caratterologia offerta da Dreyer in questo film trova un compendio nel temperamento altalenante di Martin, combattuto tra l’amore per Anne e la soggezione verso il matriarcato dispotico di Merete, a cui si arrende nel finale. Se la chiave di volta del film risiede dunque nell’intreccio di tonalità fotografiche, psicologiche, morali, è attraverso l’invocazione di Absalon che Dreyer rende manifesto il proprio simbolismo cromatico. C’è nei suoi film una luce, al di là del bianco e del nero, che significa saldezza, fede, dirittura, e un’oscurità che è sinonimo di dubbio, inghiottimento, abisso.

4. Il dubbio e la fede La persistenza della tematica del dubbio si conferma anche nella sceneggiatura del Jesus, l’opera su Cristo che Dreyer considerava il «film della sua vita» ma che, a nostro imperituro rammarico, non riuscì mai a girare10. Proprio in Jesus Dreyer mette a fuoco il carattere ambivalente che il dubbio riveste nell’esperienza religiosa. Quando dubita l’individuo resta aperto all’alternativa della fede o del suo rifiuto. Dubitare è persistere in un equilibrio prossimo alla rottura, la tortuosa gestazione che precede il credere o la rinuncia a farlo, l’anticamera della fede o dello scandalo. Dreyer ha l’occasione di mostrarci tutto questo in Jesus, attraverso alcuni personaggi che passando per il crogiolo del dubbio si sono salvati o si sono persi irrimediabilmente. La prima figura di “dubitante” presentata da Dreyer è Nataele, il futuro apostolo Bartolomeo. filippo: Abbiamo trovato colui di cui scrisse il Profeta. nataele: Chi è colui? filippo: Gesù… (dopo una pausa) di Nazareth. nataele: Di Nazareth? Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth? filippo: Vieni a vedere. Nataele si alza con un’espressione di dubbio sul volto e segue Filippo. […] gesù: Ecco un vero giudeo, in cui non c’è frode. nataele: Da che mi conosci? gesù: Prima che Filippo

ti chiamasse ti ho veduto sotto il fico. I dubbi di Nataele si dissolvono rapidamente. Capisce che mai prima di allora era stato al cospetto di una persona simile. Parla lentamente. nataele: Adesso io credo che tu sei il figlio di Dio. gesù: Tu credi perché io ho detto che ti avevo visto sotto il fico. Tu vedrai cose maggiori di queste (Dreyer 1969: 12).

Se nel caso di Nataele l’esperienza del dubbio è transitoria e coronata dal possesso della fede, nell’apocrifo dreyeriano la figura che illustra in maniera esemplare l’influsso deleterio del dubbio è Giuda. Il Giuda di Dreyer non è il traditore del Cristo, ma l’apostolo che dubita e alla fine perde la fede nel proprio Rabbì. All’inizio nutriva per Gesù fede e devozione sincera. Scettico di natura, dopo qualche tempo incominciò a guardarlo con occhio critico. Interpretava le parole di Gesù alla lettera, senza una apertura spirituale, e aveva notato con dispetto quanto spesso Gesù lo contraddicesse. Nelle discussioni tra Gesù e i farisei era sovente incline a convenire con quest’ultimi piuttosto che con il Maestro, il cui pensiero era al di sopra della sua comprensione. Il dubbio si insinuò nella sua mente (Dreyer 1969: 164).

I dialoghi del film sono disseminati di indizi dai quali è possibile inferire l’irreversibile progredire del dubbio nell’anima di Giuda. Come cancrena, lo scetticismo e l’incredulità si fanno sempre più grandi al cospetto della fede fino a determinarne la paralisi definitiva. «primo fariseo: Sei ancora suo discepolo? Giuda lo guarda sorpreso. primo fariseo: Hai ancora fede in lui? giuda (esitando): Sì… primo fariseo: …e no. Hai dei dubbi? giuda: speravo che fosse colui che avrebbe redento Israele» (Dreyer 1969: 168-169). Giuda si arrenderà all’argomento specioso secondo il quale se Gesù fosse stato davvero il Figlio di Dio non avrebbe certo potuto subire alcun male, nemmeno da parte dei romani che minacciavano di crocifiggerlo11. È pertanto la mancanza di fede a far sì che Giuda si persuada a denunciarlo alle autorità. Non sono dunque evocati

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Dies Irae, 1943

psicoanalisi

i trenta denari della tradizione evangelica. Per Dreyer egli non è traditore, ma uomo di poca fede che pretende dal suo Maestro un segno in cui credere12. Il dubbio costituisce dunque un rischio assoluto per la fede, come appunto dimostrerebbe la vicenda di Giuda, eppure Dreyer non tace del valore propedeutico che il dubbio rappresenta per la fede autentica, in quanto cimento, prova in senso biblico, vaglio, certamente ignoto al manicheismo degli inquisitori, sconosciuto alla fede stereotipata dei farisei ed estraneo al cristianesimo anagrafico dei tiepidi.

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5. La notte oscura dell’anima e la risurrezione della luce Proprio la forza corrosiva e smascheratrice che il dubbio esercita al cospetto delle ipocrisie che nidificano nella vita religiosa è raffigurata nel film Ordet dal personaggio di Johannes. «pastore: Un amore? mikkel: No, no, è stato Søren Kierkegaard. pastore: Come? mikkel: Sì, Johannes studiava teologia. Tutto andava bene in principio, poi è stato tormentato da pensieri, dubbi…» (Dreyer 1956: 35) 13. Johannes è un altro degli

«uomini-grigi» di Dreyer. Alienato, emarginato, debole di mente, come a sottolineare che la dimensione del dubbio, nella quale il personaggio è immerso, corrisponde anzitutto a un’infermità dello spirito14. Eppure il dubbio sembra averlo preservato da una serie di affezioni degenerative ben più gravi, che hanno invece corroso alla radice la fede di coloro che gli stanno attorno: l’ateismo di Mikkel, l’agnosticismo del medico, il settarismo del sarto Peter Skrædder, il dogmatismo di Morten Borgen, l’indifferenza di Anders, la fede burocratica del pastore. Con


zona d’ombra gestualità ieratica Johannes sembra misurare il perimetro dell’incredulità che lo circonda e che tiene reclusa la sua fede in una folle agonia. Egli appoggia due candelabri al davanzale della finestra nell’intento smisurato di rischiarare la notte che sta oltre il vetro. «Io sono la luce del mondo, ma le tenebre non lo capiscono. Sono venuto presso i miei, ma i miei non mi hanno ricevuto» (Dreyer 1967: 224). La notte oscura dell’anima, sede del rapporto dialettico tra l’uomo e Dio, è ritratta in una tonalità sfumata di grigio, tipica del tenebrore boreale. Essa occupa rispetto alla luce solare una durata di gran lunga superiore. In questa perpetua nocte il raggio artificiale proiettato dai fanali dell’automobile sulle pareti di Borgensgaard anima un teatro di ombre vagamente sinistre e premonitrici. Con esse Johannes instaura un contatto extra-visivo da cui prende avvio il paradossale dialogo con il padre Morten, seduto al centro della scena: johannes: Guarda! Non lo vedi? È là! borgen: Chi? johannes: L’uomo con la falce. È venuto per portar via Inger. borgen: Taci, infelice. johannes: Ancora tu mi respingi! borgen: No… no… è follia… eppure… che cosa è follia, e che cosa è ragione?… johannes: Tu ti stai avvicinando a Dio. Non ti costerà che una sola parola. borgen: No, no, vattene! johannes: Cercano uva tra i rovi, e passano avanti alla vigna senza fermarsi. borgen:Vattene, ti dico, o farai impazzire anche me! (Dreyer 1956: 53).

Il dubbio si apre una breccia nella spessa scorza del dogmatismo dell’anziano fattore e risuscita in lui nientemeno che il sentimento della fede autentica, che crede possibile ciò che è assurdo per la ragione. Ma,

EFFRAZIONI Sebbene il tema del dubbio sia stato recepito e trattato sotto molteplici angolature da critici e divulgatori dell’opera di Dreyer, nei diversi contributi si è preferito presentare i rispettivi argomenti a margine di più ampie e altre considerazioni. Pertanto, utilizzare o anche solo censire questa diffusa e variegata presenza nell’ambito della letteratura specifica risulterebbe impresa ardua e dall’esito incerto. Constatata la disponibilità verso una formulazione organica della questione presso alcune forbite eccezioni, purtroppo tanto succinte in ampiezza quanto eminenti in statura (Masoni 1994 e Sémolué 2004), crediamo di potere individuare almeno un paio di circostanze che costituirebbero oggi un deterrente alla messa a fuoco del problema. Da una parte, il “superamento” dell’interpretazione spiritualista di Dreyer. Questa compagine, di lunga e autorevole tradizione, animata da estimatori e critici di provenienza e cultura cattoliche (Agel 1959; Ayfre 1964 e 1969; Baragli 1957; Lucano 1975), sebbene storicamente in antitesi con i fautori di una visione agnostica e materialistica dei film di Dreyer (Amengual 1968; Comolli 1968), ha visto diminuire considerevolmente il proprio prestigio e la propria credibilità con la pubblicazione del dossier di Maurice Drouzy (Drouzy 1990). Col supporto della psicoanalisi il biografo francese avrebbe sconfessato, in una documentata ricostruzione dell’infanzia del regista, il pregiudizio religioso con cui si era soliti corroborare l’interpretazione cristiana del cinema di Dreyer, ovvero la supposta appartenenza della famiglia adottiva del regista, al luteranesimo ultra ortodosso della Indre Mission. In seguito a questa “rivelazione”, il tema del dubbio, subendo un destino comune a quello di altre categorie affini all’esperienza religiosa, verso le quali oggi si registrerebbe nella critica una diminuita sensibilità a favore di una prospettiva psicologista, rischierebbe di essere rimosso dal dibattito. Dall’altra, il “contenutismo” che pretende di discutere temi e problematiche svincolandole dalle forme in cui esse hanno preso corpo. Questo secondo approccio, sebbene originariamente radicato in un preciso orizzonte ideologico, marxista-lukàcsiano, legato alla rivista Cinema Nuovo e alla firma di Guido Aristarco, viene riproposto oggi in una formula “debole” da quelle riflessioni sul cinema di Dreyer che, dedite a indagare le proiezioni filosofiche certamente presenti in esso, perdurano tuttavia nella prassi di discutere le proprie tesi sulla scorta della trama dei film o al massimo di qualche stralcio di copione. Questo approccio ha prodotto risultati pregevoli sotto il profilo dialettico e fecondi dal punto di vista euristico (Modica 2001), ma la profondità analitica di queste interpretazioni si sconta con la disattenzione programmatica verso quelle componenti cinematografiche (inquadrature, movimenti di macchina, montaggio, fotografia, messa in scena, etc.) che conferiscono al film i propri connotati estetici e morali; col rischio, amplificato nella fattispecie dal fatto che Dreyer era solito operare traduzioni cinematografiche di fonti letterarie preesistenti, che il tema in questione, reciso dal suo sostrato filmico, evapori in astratte dispute, estranee a Dreyer in quanto non riconducibili ai coefficienti stilistici in cui risiede tanto l’autenticità dell’artista quanto la peculiare identità dell’opera d’arte.

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“prova” biblica alla fine, a Morten manca il coraggio per osare il salto della fede, perciò soccombe, si scandalizza. I dubbi nei quali Johannes resta avvolto – tale è forse la funzione simbolica del lungo cappotto grigio-scuro che il personaggio dismette solo nel finale – vengono fugati dalla risurrezione della cognata, attraverso la quale Johannes prova concretamente di avere superato l’impotenza dello spirito in cui fino a quel momento era parso relegato. Eppure solo pochi istanti prima constatava amaramente: «Inger, devi marcire perché i tempi sono marci». L’ostilità che si concentra su di lui è tale infatti da rendergli impossibile qualunque taumaturgia15. Può solo attendere che un avvenimento esterno gli venga in Sul dubbio nel cinema di Dreyer si vedano: Masoni, T. 1994. Carl Theodor Dreyer: l’assoluto e il dubbio. Cineforum 339: 14-17. Sémolué, J. 2004. I film di Dreyer: ambiguità e certezze. In S. Grmek Germani e G. Placereani (Eds), Per Dreyer. Incarnazione del cinema. Milano: Il castoro, pp. 21-35.

PERCORSI

Per un confronto tra Dreyer, Bresson e Bergman si vedano: Amengual, B. 1954. Bresson et Dreyer. Image et Son 69: 18. Laura, E. G. 1965. Tre voci spiritualiste del cinema contemporaneo. Bresson, Dreyer, Bergman. Cineforum 45: 356-365. Aristarco, G. 1965. Il dissolvimento della ragione. Milano: Feltrinelli, pp. 541-578.

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soccorso. Ed è appunto la fede di Maren a destarlo dal torpido stato di rassegnazione in cui è sprofondato. Il finale è il «trionfo della luce» (Aprà 1970: 153) in cui «la verità esplode» (Parrain 1967: 60).

La risurrezione che il film mette in scena è al tempo stesso quella del suo regista. Così Deleuze conclude la propria originale concezione dell’alternanza cromatica nei film di Dreyer:

All’evanescente grigiore del Vampyr e al contrasto fortemente chiaroscurale del Dies Irae è succeduta così una luminosità omogenea e compatta. All’immagine finale di David Grey e Gisèle che avanzano fino sull’orlo di una radura verso una luce naturale che traspare oltre un filare di piante, o al fotogramma fissato sul nudo di una immobile croce, è subentrato l’abbraccio vitale di due esseri che respirano e vivono in Dio: e con essi è Dreyer stesso che finalmente ritrova la sua pace (Pesce 1959: 151).

Si era partiti da uno spazio determinato degli stati di cose, fatto da un’alternanza bianco-nero-grigio, bianco-nero-grigio… E si diceva: il bianco segna il nostro dovere, o il nostro potere; il nero, la nostra impotenza, o la nostra sete del male; il grigio, la nostra incertezza, la nostra ricerca o la nostra indifferenza. E ci s’innalzava poi fino all’alternativa dello spirito, c’era da scegliere tra alcuni modi di esistenza: gli uni, bianco, nero o grigio, implicavano il fatto che non avessimo scelta (o che non avessimo più la scelta);

Il rapporto tra il cinema di Dreyer e la filosofia di Kierkegaard è protagonista di una ricca bibliografia. Tra i contributi più recenti sull’argomento si segnalano: Adinolfi, I. (Ed.). 2003. L’arte dello sguardo. Kierkegaard e il cinema. Roma: Città Nuova. Modica, G. 2001. Ordet di Dreyer. Percorsi kierkegaardiani. Giornale di Metafisica 1: 5-34. Tavilla, I. 2007. Ordet di Carl Theodor Dreyer. Il miraggio kierkegaardiano. Pisa: ETS. Sulle analogie tra C. Th. Dreyer e Vilhelm Hammershøi si veda: Ciment, M. 1998. Vilhelm Hammershøi et Carl Dreyer, entretien avec Maurice Drouzy. Positif 445: 73-77. Tybjerg, C. 2006. Carl Th. Dreyers filmkunst og Hammershøis eksempel [Il cinema di C. Th. Dreyer e l’esempio di Hammershøi], København: Ordrupgaard. Le opere dell’artista danese sono consultabili sul sito internet del Dansk Kulturarchiv (http://www.kulturarv.dk/kid/VisKunstner. do?kunstnerId=63). Tra le fonti di ispirazione del cinema di Dreyer sono state riconosciute illustri firme della narrativa irrazionalista: Franz Kafka, Edgar Allan Poe, Pierre Anderzel, Guy Endore e Walter della Mare. A tale proposito si vedano: Ulrichsen, E. 1955. Et come back? [Un ritorno?]. Kosmorama 5: 11. Trolle, B. 1955. Eneren i dansk film [L’ec-

cezione del cinema danese]. Kosmorama 9: 4-11. Non sono mancati neppure accostamenti al decadentismo di D’Annunzio, Huysmans e Swinburne. Si veda a questo proposito: Di Giammatteo, F. 1956. Profili di registi: Dreyer. Comunità 41: 77-80. Il predominio dell’oscurità sulla luce e della notte sul giorno sembra captare nell’Ordet di Dreyer quella peculiare dimensione mistica che Juan de la Cruz designava come notte oscura dell’anima. Si veda pertanto: Giovanni della Croce. 2001. La notte oscura. Milano: San Paolo. Più in generale sul misticismo e la spiritualità dell’opera di Dreyer si vedano: Agel, H. 1959. Les grands cineastes. Paris: Editions Universitaires, pp. 89-94. Ayfre, A. 1964. Conversion aux images? Paris: Les Édition du Cerf, pp. 95-99. Ayfre, A. 1969. Le cinéma et sa vérité. Paris: Les Édition du Cerf, pp. 173-180. Baragli, E. 1957. Il mondo religioso di Dreyer. La Civiltà Cattolica 2557: 49-63. Lucano, A. L. 1975. Cultura e religione nel cinema. Roma: ERI, pp. 241-183. Per l’interpretazione materialistica del cinema di Dreyer si vedano invece: Amengual, B. 1968. Les nuits blanches de l’âme. Cahiers du Cinéma 207: 52-62. Comolli, J. L. 1968. Rhétorique de la Terreur. Cahiers du Cinéma 207: 42-44.


infermità dello spirito ma un altro implicava che scegliessimo di scegliere, o che avessimo coscienza della scelta. Pura luce immanente o spirituale, aldilà del bianco, del nero e del grigio. Appena pervenuti a questa luce essa ci restituisce tutto (Deleuze 1984: 141).

Dunque in Ordet Dreyer archivia l’ombra, lasciandosi definitivamente alle spalle il tunnel dei dubbi esistenziali e le tenebre cinematografiche in cui era disceso trenta anni prima con Vampyr.

6. Il dubbio ovvero la “tenebrosa lanterna” nel cinema di C. Th. Dreyer Nell’ambito di un’intervista radiofonica concessa proprio durante la lavorazione del film Ordet, Dreyer si concesse alcune considerazioni sull’uso dell’illuminazione nel cinema contemporaneo, altrettanto preziose però per chi volesse conoscere la cifra fotografica del suo cinema: In altri tempi l’operatore usava il verbo “illuminare”; oggi dice ancora “illuminare”, ma dice anche “oscurare”; e “oscurare” in realtà è altrettanto importante che “illuminare”. Un volto nell’ombra può essere, in certi casi, più efficace e più espressivo che se fosse completamente illuminato (Dreyer 1967: 409).

Dreyer riscuote così la paternità di un singolare brevetto, la “tenebrosa lanterna”, organo fotosensibile di grigi amletici, dispositivo di illuminazione opportunamente tarato al rovescio, che proietta sui soggetti dell’inquadratura ombre anziché luci. La messa in scacco della ragione, luce illusoria che si contrapponeva alla tenebra “vampiresca” senza sortire alcun effetto, impone al regista di abdicare la propria salvezza alla notte profonda del dubbio, non più oscuro impedimento, ma ventre gravido di verità dalla cui matrice scaturisce la pura luce dello spirito. In questa ricerca di sé per via negativa, dettata da circostanze di ordine biografico, che coinvolsero però magistrali soluzioni in ambito estetico, Dreyer si avvalse sempre, come abbiamo cercato di mostrare, del dubbio ovvero dell’ombra per rendere

testimonianza alla serietà dell’indagine e per certificare l’autenticità degli esiti16.

nuar, pp. 8-9. Endnotes

Riferimenti bibliografici Aprà, A. 1970. Dreyer: artificio, spazio, luce. Cinema & Film 11-12: 144-154. Baumann, R. H. 1897. Hammershøi, Vilhelm. In C. F. Bricka (udgave af ), Dansk biografisk lexicon. Kjøbenhavn: Gyldendalske boghandels forlag, pp. 550-551. Cortese, A. 1976. Nota introduttiva. In S. Kierkegaard, Enten-Eller, vol. 1, Milano: Adelphi, pp. 25-44. Deleuze, G. 1984. L’immagine-movimento. Milano: Ubulibri. Dreyer, C. Th. 1956. La parola. Roma: Bianco e Nero. Dreyer, C. Th. 1967. Cinque film. Torino: Einaudi. Dreyer, C. Th. 1969. Gesù. Racconto di un film. Torino: Einaudi. Drouzy, M. 1990. Carl Th. Dreyer nato Nilsson. Milano: Ubulibri. Drouzy, M. 1993. Les années noires de Dreyer. Cinémathéque francaise 4: 68-83. Kierkegaard, S. 1963. Discorsi cristiani. Torino: Borla. Munk, K. 1993. Ordet. L’Ambra. Rivista di cultura scandinava 2: 7-66. Neergaard, E. 1943. The story of Danish film. Copenhagen: det Danske Selskab. Neergaard, E. 1950. Carl Dreyer. A film director’s work. London: the British film institute. Parrain, P. 1967. Dreyer. Cadre et mouvements. Paris: Minard. Pesce, A. 1959. Da Dies Irae a Ordet: itinerario spirituale di C. Th. Dreyer. Humanitas 2: 147-151. Solmi, A. 1956. Carl Dreyer. In A. Solmi, Tre maestri del cinema. Milano: Vita e Pensiero, pp. 11-73. Tone, P. G. 1978. Carl Theodor Dreyer. Firenze: La Nuova Italia. Ulrichsen, E. 1955. Carl Theodor Dreyers Verden [Il mondo di Carl Theodor Dreyer]. Berlingske tidende, 20 Ja-

1 Nostre le parentesi quadre, ora e in seguito. Sempre nostra la traduzione degli articoli e dei saggi di cui non viene segnalata l’edizione italiana. 2 «L’interpretazione elementare del nero come immagine del male e del bianco come immagine del bene non deve essere rifiutata senz’altro, ma deve essere considerata da un punto di vista metafisico piuttosto che morale: il nero rappresenta le tenebre, l’errore, e il bianco la luce, la verità; fra questi due estremi, il grigio appare come l’incertezza, l’erranza alla ricerca della verità, a volte anche l’indifferenza» (Parrain 1967: 59). 3 In questo passaggio, per altro, Deleuze accrediterebbe Søren Kierkegaard, il filosofo danese che aveva opposto alle categorie hegeliane di mediazione e conciliazione una dialettica qualitativa di alternative irriducibili, quale fonte del cinema di Dreyer. L’esordio letterario di Kierkegaard (1843) porta il titolo Enten-Eller, tradotto alla lettera con «Aut-Aut», ovvero con «o…o». Si veda a tale proposito l’introduzione al primo volume della traduzione italiana dell’opera, a cura di Alessandro Cortese (Cortese 1976: 25-44). Come avremo modo di accertare in seguito, lo stesso Dreyer sembrerebbe legittimare l’ipotesi deleuziana, alludendo esplicitamente alla filosofia di Kierkegaard nella diagnosi del personaggio antonomastico del film Ordet, Johannes. 4 Scriveva Ebbe Neergaard: «Ma cosa è stato di Dreyer? Non vi erano occasioni di impiego per lui. Un destino ironico e crudele fece sì che il film che lo consacrò alla fama mondiale, La Passion de Jeanne d’Arc, allontanasse da lui i produttori cinematografici danesi. Troppo costoso, troppo difficile e troppo sperimentale. Sebbene importanti critici lo supportassero: come sperimentatore poteva andar bene, ma come regista di “film d’uso comune” – Dio li scampasse!» (Neergaard 1943: 71-72). 5 Per ottenere l’effetto luminoso che caratterizza lo stile del film venne applicata all’obiettivo della cinepresa una garza nera. Cf. Solmi 1956: 48. 6 «D’altra parte il regista si ostina quasi con divertimento ad accumulare gli errori che non si devono commettere se non si vuole essere bocciati a un esame di cinema. Moltiplica i falsi raccordi, le immagini soggettive che in realtà non lo sono, i movimenti di macchina che vanno

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dall’alto verso il basso mentre la logica esigerebbe il contrario, i frammenti di dialogo inaudibili, gli accessori bizzarri, i particolari incomprensibili» (Drouzy 1990: 173). 7 «Le tenebre diventano invulnerabili» come recita La storia curiosa dei vampiri di cui David Grey entra in possesso.

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8 Vilhelm Hammershøi (1864-1916). Pittore figurativo danese. «I suoi temi sono assai semplici, spesso si tratta di una donna anziana solitaria vestita di nero e con una mantella bianca oppure una stanza dai mobili frugali, ma che diventano particolarmente attraenti per la colorazione delicata e il trattamento quasi poetico della

FIVESTEPSWITH

SERGIO GRMEK GERMANI

In quale film di Dreyer emerge con più forza il tema del dubbio? «Premetto che apprezzo l’identificazione del dubbio come filo conduttore in un’opera troppo spesso riportata a certezze, pur non avendo usato questo termine nella frequentazione che le ho dedicato. Essendo quella del regista un’opera di crescente intensificazione, non potrei che vedere in Gertrud anche il culmine di questa chiave: dove è lo stesso discorso d’amore che ne costituisce la base (e che muoveva gli esiti di Ordet) a essere osservato nel suo mutare tra forza e vulnerabilità». Nel mio saggio ho cercato di mettere in evidenza gli esiti cromatici scaturiti dalla meditazione dreyeriana sul dubbio. Questo approccio consente di datare al film Vampyr la genesi del dubbio nel cinema di Dreyer. Per una questione di fotografia, lo stesso Parrain nel suo studio su Dreyer (1967) non reputava la vicenda di Giovanna d’Arco assimilabile al travaglio interiore di altri eroi dreyeriani, come David Grey. Cosa pensa a tale proposito? «Avrei qualche dubbio, mi scusi la battuta. Ritengo la fase giovanile dell’opera di Dreyer molto più collegata a quella matura di quanto non si sia rilevato. Non è già Blade af Satans Bog una pratica di dubbio teologico? O Du skal ære din hustru una perlustrazione del dubbio dei sentimenti, come peraltro Michael?». Nella Sua introduzione al volume “Per Dreyer. Incarnazione del cinema” (2004), riguardo al riferirsi di Dreyer alla dimensione religiosa ha scritto che «il cinema di Dreyer è anche tra le testimonianze più considerevoli sulla vicenda cristiana ed ebraica, ma né l’una né l’altra diventano il codice del film. Il suo cinema le ripensa». Bisogna dunque tornare alle pellicole di Dreyer, sospettando di analisi tematiche che rendano il regista danese ostaggio delle presunte fonti culturali e ideologiche del suo cinema? «Ne sono convinto: le fonti culturali e religiose vi sono presenti in tutta la ricchezza ma il cinema di Dreyer arriva a soluzioni che nascono dal suo interno, non applicandovi invece quelle preesistenti». Ritiene che il nodo problematico del dubbio possa giocare un ruolo strategico nel «recuperare quel rapporto con la storia e con il tempo in cui entra l’esperienza religiosa» di Dreyer (cito ancora dalla Sua introduzione)? Penso alla possibilità che il tema del dubbio offre di conciliare il resoconto biografico di Drouzy con la tensione religiosa che traspare in gran parte dell’opera dreyeriana. «Ho in parte risposto alla prima domanda e condivido la sua ultima osservazione: apprezzo Drouzy al di là di ogni apparente eccesso di laicizzazione (comprensibile per chi sa che egli era stato un domenicano che ha scelto lo stato laicale), ritengo che l’acribia biografica del suo studio sappia riferirsi a come la tensione religiosa traspare nell’opera». Il dubbio rappresenta l’ultima parola dei film di Dreyer? «L’ultima parola è, nonostante tutto, «Amor omnia», come Gertrud chiede di scrivere sulla sua tomba».

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luce. La colorazione è a sua volta tanto semplice quanto lo sono i motivi figurativi. Raramente ci si spinge oltre tonalità di bianco, grigio, marrone e nero, ma la loro reciproca relazione è orchestrata con grande maestria» (Baumann 1897: 550551). 9 Della preghiera di Absalon non vi è traccia nella sceneggiatura; essa dovrebbe comunque collocarsi nella scena 228, che si apre, dopo il rogo di Marta di Herlof, con una dissolvenza sul diario di Absalon. Cf. Dreyer 1967: 160. 10 Si veda l’intervista rilasciata a Henrik Stangerup nel giugno 1964. Cf. Dreyer 1967: 447-448. L’idea di girare un film su Cristo risale al biennio 1930-31, ma la stesura definitiva della sceneggiatura fu ultimata nel 1950. Cf. Drouzy 1990: 226-227. 11 Tale argomento sembra riformulare la seconda tentazione del Cristo nel deserto. Cf. Mt 4,5-6 e Lc 4, 9-11. 12 «Per quanto tempo ci lascerai nel dubbio? Se sei il Messia dillo chiaramente» avevano gridato a Gesù. Cf. Dreyer 1969: 169. 13 Anche nell’omonimo dramma di Kaj Munk (1925), da cui il film è stato tratto, si segnala la presenza del dubbio quale stigma del personaggio di Johannes. Cf. Munk 1993: 19. 14 La figura di Johannes dimostra una lontana parentela con l’indemoniato del film Jesus. Dreyer aveva descritto quest’ultimo come un malato di mente in preda ad attacchi isterici. Il suo demonio era la «dualità mentale […]. Da una parte egli è attratto da Gesù e desidera essere guarito. Dall’altra ha un senso di repulsione e non vuole aver nulla a che fare con lui» (Dreyer 1969: 15). L’alienazione delle facoltà psichiche è dunque ricondotta a un’alternativa radicale e lacerante che sconvolge l’esistenza di chi ne è posseduto «perché dubitare, come dice la parola, significa essere in disaccordo con se stesso, significa essere diviso, essere in due» (Kierkegaard 1963: 97). 15 Scrisse Dreyer nella sceneggiatura del Jesusfilm a proposito della resurrezione della figlia di Giairo: «Gesù ha fatto uscire dalla stanza parenti e amici per creare un’atmosfera di fede, eliminando qualsiasi elemento di dubbio e incredulità. Per la stessa ragione solo i suoi tre discepoli più fedeli [Pietro, Giovanni e Giacomo] sono stati ammessi nella camera dell’ammalata» (Dreyer 1969: 50). 16 «Era necessaria questa esperienza dell’ombra, l’affascinamento della notte polare per poter affrontare non teoricamente l’esperienza della luce […]» (Aprà 1970: 153).


blackboard Mazza G.; Perego G. (a cura), Pedagogie della parola. L’emergenza educativa, tra universo biblico e cultura della comunicazione, San Paolo Edizioni 2010 Una semplice ricerca in internet ci rende puntualmente partecipi di quanta rilevanza assuma oggi il tema dell’educazione e - di ritorno, o forse anche per contrasto - di quanta risonanza sia capace il riscontro mediatico di tante (dis)educazioni quotidiane. In un’epoca surriscaldata dai dibattiti sui crocifissi nelle scuole, ci si interroga - ed è un bene che lo si faccia - su quanto si possa davvero educare, su dove lo si debba fare, su chi abbia il diritto di farlo, e perché

vi troviamo l’elogio della stupidità, l’analisi della passione del collezionista, le ragioni per cui una certa epoca genera capolavori, il modo in cui funzionano la memoria e la classificazione di una biblioteca. Veniamo a sapere perché ‘i polli ci hanno messo un secolo per imparare a non attraversare la strada’ e perché ‘la nostra conoscenza del passato è dovuta a dei cretini, degli imbecilli o degli avversari’. Insomma, godiamo della ‘furia letteraria’ di due appassionati che ci trascinano nella loro folle girandola in cui ogni giro sorprende, distrae, insegna. In questi tempi di oscurantismo galoppante, forse è il più bell’omaggio che si possa fare alla cultura e l’antidoto più efficace al disincanto.”

Aime Marco; Severino Emanuele, Il diverso come icona del male, Bollati Boringhieri 2009 L’uomo tende a interpretare tutto quanto non rientra nella propria esperienza diretta o nel cerchio rassicurante della tribù come un pericolo, una minaccia anche mortale. Di qui i suoi atteggiamenti aggressivi, per cui il diverso e l’altro vengono intesi come un nemico potenziale o reale. Un pregiudizio che continua ad alimentare i tanti conflitti che squassano le società contemporanee. (Introduzione di Ernesto Ferrero)

Bianchi Enzo; Kepel Gilles, Dentro il fondamentalismo, Bollati Boringhieri 2008 Il fanatismo è la possibile aberrazione all’origine di ogni credo e di ogni ideologia, un rischio che oggi appare spesso inevitabile. Ci si domanda se nasca da una volontà di semplificazione, da una pigrizia intellettuale, dall’esigenza di organizzare il mondo morale in buoni e cattivi, o se sia la risposta a un’accelerazione della storia e del progresso. Capirne le origini significa indagare il denominatore comune di tanti fenomeni socio-politici della nostra epoca. Introduzione di Alberto Melloni.

Nancy Jean-Luc, Sull’amore, Bollati Boringhieri 2009 Jean-Luc Nancy si interroga sulle modalità di vivere l’amore in un mondo in cui il desiderio sembra mutarsi in obbligo igienico e risorsa commerciale. Inquietudine e irritazione non sono risposte adeguate, sostiene il filosofo: è opportuno riflettere su come la nostra eredità dell’amore sia composta da due patrimoni, quello antico e quello cristiano, che non sono omogenei e che anzi spesso si contraddicono l’un l’altro. Una simile prospettiva di divenire temporale è la sola che può consentirci di comprendere le deformazioni e i limiti delle nostre rappresentazioni dell’amore e di inventare nuove forme per questo sentimento. (Introduzione di Matteo Bonazzi) Petit Philippe; Serra Michele, Credere nel vuoto, Bollati Boringhieri 2008 Il 7 agosto 1974 un giovane funambolo percorre, a quattrocentododici metri di altezza, lo spazio che separava le Torri gemelle dal World Trade Center. Oggi vive in una cattedrale e il decano che lo ospita dice di lui: “Philippe non crede in Dio, ma Dio crede in Philippe”. Il punto di vista di un uomo che percorre il vuoto. Philippe Petit (1949), artista e autodidatta del funambolismo, si esibisce in tutto il mondo da trentacinque anni, più o meno clandestinamente. Oltre a scrivere, tiene seminari sulla creatività e la motivazione, disegna, pratica l’arte dello scasso, è un esperto di vini francesi, ama gli scacchi e padroneggia la tecnica settecentesca della carpenteria in legno. È stato arrestato più di cinquecento volte mentre faceva il giocoliere per strada. Divide il suo tempo fra la Cattedrale di St. John the Divine, dove è Artist in Residence e il suo rifugio nei monti Catskills. Sono stati tradotti in Italia “Trattato di funambolismo” (Ponte alle Grazie 1999), il libro che ha affascinato artisti e intellettuali di tutto il mondo (tra gli altri il regista tedesco Werner Herzog), che ha scritto il testo che appare sulla quarta di copertina, e lo scrittore statunitense Paul Auster, che ha redatto la prefazione) e “Toccare le nuvole” (Ponte alle Grazie 2003). Introduzione di Michele Serra. Eco Umberto; Carrière Jean-Claude, Non sperate di liberarvi dei libri, Bompiani 2009 “La gaia scienza: raramente l’espressione nietzschiana è stata così azzeccata per un libro... un libro sui libri! Dal papiro ai supporti elettronici, percorriamo duemila anni di storia del libro attraverso una discussione contemporaneamente erudita e divertente, colta e personale, filosofica e aneddotica, curiosa e gustosa. Passiamo attraverso tempi diversi e diversi luoghi; incontriamo persone reali insieme a personaggi inventati;

Rorty Richard, Un’etica per i laici, Bollati Boringhieri 2008 In questo libro, le definizioni di etica e laicità non sono poste - come spesso si intende - in un ruolo ancillare rispetto alle religioni, ma in una loro precisa autonomia, come vera e propria risorsa in grado di garantire il futuro spirituale dell’umanità. Una riflessione di grande acutezza e modernità sulla falsariga di quella filosofia della concretezza che ha caratterizzato il pensiero del grande filosofo americano. Introduzione di Gianni Vattimo. Erspamer Francesco, La creazione del passato, Sellerio Editore 2009 “La questione cui questo libro cerca di rispondere, è come mai la cultura nel suo significato d’insieme di convinzioni, usi, mentalità - continui a resistere al cambiamento invece che agevolarlo. Come mai insomma continui a essere così efficace il ricatto hobbesiano dei conservatori - sicurezza morale e gnoseologica in cambio di meno libertà e di meno eguaglianza. Identità invece di coscienza. Colpa della gente? O non piuttosto di una cultura che educa la gente, e abitua le sue élite intellettuali, alla paura del nuovo? In sostanza: come mai la cultura fa il gioco della destra? La mia tesi è che la cultura moderna in quanto istituzione (e cioè non le opere letterarie o artistiche di per sé, ma il sistema e il potere che le organizza e dà loro significato) sia sempre stata conservatrice, per definizione: che sia un apparato di produzione di passato e di valori assoluti, capace di operare con successo all’interno di una struttura in trasformazione quale la modernità ma con finalità antimoderne, una sorta di virus che si adatta all’ambiente della cellula ospite per obbligarla a replicarlo.” Proietti P.; Boccali R. (a cura), Le frontiere dell’alterità, Sellerio Editore 2009 Il prossimo, l’estraneo, l’esotico: sono le tre filiere che circoscrivono, oggi, la contemporaneità del dibattito sull’identità e, per converso, sul multiculturalismo. Ciascuna di esse ha il suo focus nella relazione mutevole, che fonda l’ontologia stessa del rapporto tra un Io immaginario e un Altro immaginario, soggetti e oggetti contestuali di una dialettica aporetica, dove la domanda è fondativa di una risposta muta. Il tessuto connettivo della relazione è la struttura portante di tutto questo discorso: l’Immaginario. Questa ricerca, mettendo a confronto temi ed autori di scuole e di formazioni diverse, offre un panorama equilibrato e aderente allo stato dell’arte della situazione internazionale, pur cosciente della sua “funzione strumentale” rispetto alla complessità della materia.

consigli di lettura | saggistica 67


CINEMA

Lourdes di Jessica Hausner. Quando la narrazione cinematografica diventa strumento per l’esplorazione del credere e del non credere e, più di tutto, delle diverse declinazioni del dubitare, colte in un luogo tipico della contemporaneità, dove il Sacro e il Profano si scambiano continuamente di posto.

IL MIRACOLO DEL DUBBIO 68

Silvio Grasselli


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orizzontale | mistero 1. Introduzione Credere e dubitare sono due momenti non contraddittori del comprendere: senza porre interrogativi sulle cose non posso afferrarne il senso, e senza credere che esse siano dotate di un senso, nemmeno posso credere che esse meritino un’esistenza. Com-prendere il mondo è il più naturale e radicale tentativo dell’uomo per stabilire e mantenere una relazione con esso. Nel 1982 Jean Luc Godard, interrogato da Wim Wenders sul destino della settima arte1, dichiara alla m.d.p.: I film creano delle immagini proprie che noi non vediamo. L’incredibile è questo, quello che non riusciamo a Perché la scelta di Lourdes per ambientare il suo film? Jessica Hausner: Prima di tutto mi è venuta l’idea di girare un film su un miracolo. Il miracolo rappresenta un paradosso, un’incrinatura nella logica che ci conduce verso la morte: l’attesa di un miracolo allude alla speranza che alla fine tutto vada per il meglio e che ci sia qualcuno che veglia su di noi. Ho fatto molte ricerche per trovare il luogo giusto dove ambientare la storia di un miracolo. La mia scelta è caduta su Lourdes perché m’interessava molto il fatto che i pellegrini ci vadano con la speranza di ricevere il miracolo. La prima cosa che viene in mente pensando a un miracolo è che sia una cosa positiva: un paralitico è improvvisamente sanato. Tuttavia, durante le mie ricerche sulle storie di guarigione, mi sono imbattuta in casi in cui la persona guarita, in un secondo tempo, ha subito una ricaduta: I casi in cui il miracolo non è durato. Allora mi sembra che in questo si possa trovare un parallelo con l’arbitrarietà della vita: alcune di quelle cose che sembrano meravigliose, miracolose perfino, finoscono con il diventare orribili o più semplicimente insignificanti. Nel suo film, i miracoli sono associati anche con l’idea del successo J.H.: Certo. Le persone che guariscono miracolosamente spesso finiscono con il chiedersi cosa hanno fatto per ottenere questo “successo”, per essere “premiati” con questo miracolo. È possible essere ambiziosi, comportarsi da buoni Cristiani per ottenere la guarigione, oppure i miracoli avvengono casualmente? Il fatto che, nel mio film, i malati sperino e si comportino coerenetemente rispetto alla loro speranza ma anche che non siano mai certi di ricevere una ricompensa costituisce una contraddizione molto importante. Quando Christine è miracolosamente sanata si chiede subito: “Perché io? – lei per

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vedere. Ciò che non si può vedere è incredibile. Il cinema è mostrare l’incredibile. Mostrare ciò che non si vede, ecco quello che è incredibile (Wenders 1982).

Mostrare quel che non si vede e che perciò sembra incredibile significa porre sulle cose e sul mondo il dubbio circa il senso della loro esistenza. Il cinema (diversamente dall’indistinto e sempre meno distinguibile flusso audiovisivo) è dunque dispositivo del credere e del dubitare insieme, medium della conoscenza. La sessantaseiesima Mostra del Cinema di Venezia ha presentato in concorso Lourdes, lungometraggio di finzione

della giovane austriaca Jessica Hausner. Il film mette in scena la storia (puramente fittizia) di un evento straordinario accaduto a una ragazza nel corso di un pellegrinaggio al santuario mariano del titolo: la narrazione cinematografica diventa strumento per l’esplorazione del credere e del non credere, e più di tutto delle diverse declinazioni del dubitare, colte in un luogo tipico della contemporaneità, dove il Vero e il Falso sono affiancati e confusi, il Sacro e il Profano si scambiano continuamente di posto. Il (meta)riflesso del cinema, disciolto nel racconto, serve da palinsesto nel quale sistemare una collezione di appunti, ritratti e schizzi che hanno per oggetto

di più non è una convinta credente quando arriva a Lourdes. Si domanda se le sia richiesto di fare qualcosa per legittimare il suo miracolo. Il suo film si spinge oltre Lordes e il Cattolicesimo. Che tipo di fede interpella? J.H.: Il film s’interroga su come possiamo dare senso alla vita attraverso i nostri atti. A quest’idea contrappone la paura che il mondo sia freddo e desolato, privo di un senso profondo, e che si nasca per caso e per caso si muoia e che nulla di ciò che si fa el corso della vita abbia alcun peso. È difficile scoprire la verità: la vita è a un tempo meravigliosa e insignificante. Il film si pone in prospettiva più filosofica che religiosa… J.H: Sì, solleva un interrogativo generale. Tuttavia a me interessa l’emozione che accompagna il sentimento religioso. Avere fede significa credere che esiste qualcosa che non si può spiegare e che supera i limiti della comprensione. I credenti lo chiamano dio. La fede consente di accettare che i miracoli possano accadere, è questa l’essenza della fede. Nel mio film il miracolo esiste: accade qualcosa di “miracoloso”, che però in seguito diventa abbastanza banale. Allora ci si rende conto che questo “miracolo” non racchiude necessariamente una morale o un senso… che forse è soltanto un caso. È solo una tappa, poiché nulla è scontato. Lourdes non è il racconto di una guarigione, ma piuttosto una scatola cinese, in cui le scatole si aprono senza lai arrivare la centro… Si può intepretare il miracolo – stile Lazzaro, oppure «Alzati e cammina» - come un tributo al potere della fede? J.H.: No, perché la persona che viene guarita non è dotata di una fede particolarmente forte. Nel mio film il miracolo è meraviglioso, ma è quasi come

Il miracolo, incrinatura nella logica. Colloquio con la regista Jessica Hausner se non avesse una causa, un autore. Il suo stile è contraddistinto da lunghe sequenze molto controllate, spesso statiche, tranne che per le scene di folla. Quali son i motivi di questa scelta? J.H.: Non ci sono solo inquadrature statiche ma anche movimenti di macchina e zoom. Cerco immagini che mostrino come funziona il gruppo. A un certo punto, nel film arriva il momento della foto di gruppo: gli individui sembrano fondersi dentro l’insieme. La composizione della foto dice: sulla sinistra ci sono le donne (dell’Ordine di Malta), al centro i malati e sulla destra i cavalieri. Appena la foto è stata scattata il gruppo si scioglie tornando al disordine. Quuesta piccola sequenza contiene tutto quello che voglio raccontare. Perché mostra le preghiere, le visite alla grotta e I bagni secondo la loro durata e non in modo più elleittico?


credenza | dubbio “l’orrore di credere”.

2. Un motivo, tre movimenti. Christine, la protagonista, è costretta sulla sedia a rotelle da una malattia che ormai le permette di muovere solo la testa. Non è a Lourdes per cercare la guarigione o per coltivare la propria fede, ma perché la via dei pellegrinaggi è l’unica possibilità che le rimane per viaggiare. Seduta e immobile, Christine guarda il mondo scorrerle davanti; turista scopica, Christine allora sembra aderire all’archetipo dello spettatore-flaneur2. Inizialmente immobile e incapace d’interagire attivamente con le cose intorno J.H: Ho mostrato gli elementi del pellegrinaggio: i riti, I luoghi…Le vere ellissi sono altrove dal momento che il film realizza un’economia dell’essenziale: il momento di crisi della logica, il motivo del miracolo. Perché le tende bianche sono così importanti? J.H: Gioco con l’idea che qualcosa sia nascosto dietro la tenda. Che cosa con esattezza? Parlo dell’ignoto, di ciò che sfugge alla nostra razionalità, che ci è emotivamente estraneo. Poi quando si guarda dietro una tenda chiusa si scoprono cose terribilmente banali. Nel mio film Hotel, la protagonista scopre un parcheggio dietro una tenda, e in Lourdes la tenda nasconde solo il rito di purificazione con l’acqua miracolosa. Si tira la tenda ma dietro non si trova alcuna risposta. Ancora una volta il senso ci sfugge.

a sé a causa del proprio scetticismo (lo spettatore seduto davanti allo schermo), Christine gradualmente inizia a muoversi, proiettandosi fuori dalla propria condizione d’impotenza (proprio nel buio e nell’isolamento della sua stanza di notte); contemporaneamente in lei aumenta la fiducia e in breve la ragazza esprime la convinzione di essere protagonista di un miracolo vero. Durante la festa si celebra l’apoteosi: la premiazione sul palco, il discorso alla platea, il ballo con il volontario concupito dalle colleghe sane e belle, ma conquistato da lei, bruttina di nuovo abile all’amore (la proiezione dello sguardo dello spettatore nello schermo, il suo precipitare den-

tro il film). La caduta in mezzo alla sala spezza la certezza e rigetta la ragazza, sospingendola di nuovo nella sua fragile impotenza. Christine si rialza, il suo cavaliere si allontana lasciandola sola; lei, dopo una lunga resistente attesa, torna sulla sua sedia a rotelle. Forse niente è davvero accaduto o forse la caduta è solo un’insignificante incongruenza. Ora però Christine, isolata in una stretta inquadratura, fissa sgomenta oltre il margine del quadro, nel fuoricampo, l’incredulità sospesa riacquista forza e il dubbio affiora rapido, svuotandole lo sguardo. Cécile è la donna che dirige gli acche rifletta questo genere di paradossale ambiguità… Si pottrebbe dire in sintesi che il suo film ruota intorno a un mistero? J.H.: Un miracolo solleva la questione del senso delle cose. Posso influenzare il corso delle cose con le mie buone azioni, o non sono altro che un palloncino nelle mani del caso? Questo contrasto tra il senso e l’arbitrarietà è il cuore della storia. È per questo che dopo essere stata miracolosamente guarita, Christine dice “Spero di essere la persona giusta”.

In alcuni momenti in Lourdes la luce sembra “illuminare” I suoi personaggi senza immergerli in un’atmosfera sacrale J.H.: Ho tentato di evitare in ogni modo che la luce creasse un’atmosfera sacrale o evocasse esseri o forze superiori. Ho anche cercato di evitare di alludere a una forza superiore con l’uso del dolly, per esempio. Preferisco soluzioni simili a quelle scelte da Dreyer nel suo Ordet: quando I fari di un’auto passano su una parete, un pazzo prevede la morte, la famiglia comprende che sta arrivando la macchina del dottore. Il medico arriva, e cinque minuti dopo il pazzo è morto. Nessuno aveva torto: la luce sulla parete era tanto un presagio di morte quanto la traccia dei fari di un’auto. Credo che sia davvero magnifico che un regista riesca a trovare una forma estetica

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Cosa ti ha spinto a interpretare questo ruolo? Sono sempre in cerca di un mondo diverso dagli altri. Ho trovato che la sceneggiatura avesse una certa grazia, una certa aria di “favola scomposta” che non sfida i miracoli a Lourdes, ma sorride appena sulla relazione che ciascuno ha con la religione. Lourdes è in controtendenza rispetto al cinema contemporaneo: non è un attacco frontale alla religione, questo lo trovo molto elegante. Le critiche grossolane non m’interessano – sul piano dell’arte trovo la derisione e l’insolenza molto più interessanti. Per quale motivo il suo personaggio sceglie di andare in pellegrinaggio a Lourdes? Va a Lourdes per distrarsi. Si dice “Andiamo e stiamo a vedere cosa succede”. Quando si ritrova miracolosamente guarita getta tutti nello sgomento. La persona che ha ottenuto il miracolo è l’unica che non va mai a messa. Non c’è giustizia a Lourdes. Succede quel che accade altrove: chi non fuma e non beve, si ammala, un bambino crolla sotto il peso d’un grave malanno…In questo senso il film è tutto sommato giusto. Qual è stato il suo modo di avvicinare questo personaggio che è paralizzato, apparentemente impotente e sottomesso agli altri? Ho proceduto per tappe. Mentre mi preparavo per il film, ho iniziato a conoscere la malattia del mio perso-

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naggio, la sclerosi multipla. Siamo entrambe state molto prese, io e Jessica. Durante le riprese il personaggio si è rivelato veramente complesso. Dopo tutto eravamo a Lourdes – non potevo semplicemente uscire per una sigaretta, non potevo scendere dalla sedia a rotelle davanti agli altri pellegrini o alle comparse che erano veri disabili…Sarebbe stato un insulto, considerando la loro sofferenza. Quando vedi i genitori spingere i figli in sedia a rotelle, non puoi dire, con la scusa di fare cinema: “ Sono come voi” e poi renderlo solo uno gioco. Così sono rimasta nella mia sedia a rotelle per ore. Le persone si spostavano quando passavo con la sedia. Pensavano fossi davvero paralizzata. Ero tesissima ed è stato davvero opprimente… Non ho mai lasciato la sedia a rotelle. Una volta, durante le riprese, qualcuno mi ha parcheggiato accanto alla parete. È in queste situazioni che capisci che le persone paralizzate rimangono dove vengono lasciate, senza nemmeno la possibilità di tornare indietro. È stato durissimo, ho avuto dei momenti di estrema solitudine. Che cosa pensa del fenomeno Lourdes? Quando a Lourdes, vedi nella notte le tante piccole candele dei pellegrini realizzi che la fede ha il potere di unire le persone. È davvero commovente perché è così difficile unirle in nome di qualche altra causa. Allo stesso tempo però è deprimente peché in fondo tutto questo rappresenta una relazione

egoistica con Dio. Lo si invoca qundo se ne ha il bisogno. Lourdes è una città sacra e al contempo un orribile supermercato religioso: con tutte quelle immagini di Cristo crocifisso che apre un occhio, i posaceneri e le matite scolpiti con l’immagine della Madonna… Ho avuto sensazioni contrastanti a Lourdes. Quel luogo può provocare tutto e il suo opposto. Ci sono anche molte cose sorprendenti, come per esempio le persone che sfilano davanti ai medici per vedere convalidato il proprio miracolo. Crede che il film sia più filosofico o religioso? Direi piuttosto che è deliberatalente infantile. Una provocazione come fare una smorfia o la linguaccia a un sacerdote. Il film non nasconde affatto la sua parte irriverente e usa apertamente argomenti lodevoli. Jessica sostanzialmente non fa che evocare la fiaba quando dice “Infatti Cenerentola è brutta, ma dopotutto il suo piede calza perfettamente nella scarpetta”. Il mio miracolo nel film è simile a quello che potrebbe accadere in una favola – Cenerentola col suo piede sporco, e tutto a un tratto il suo piede calza nella scarpetta. Nessuno le aveva concesso alcuna attenzione prima di allora, ma alla fine è lei che sposa il principe. All’inizio il “principe” non è davvero interessato al mio personaggio. Cosa può farsene di una ragazza handycappata? Andare in vacanza? Fare l’amore? Ma quando lei viene guarita inizia ad avere dubbi. Si è interrogata sulla sua fede

mentre interpretava questo ruolo? Mi sono interrogata per così tanto tempo. Ero una ragazza del coro e sono stata sul punto di diventare suora. Ho fatto tutto quell che potevo fino anche non ho capito che questo percorso m’interessava solo relativamente… Avevo 17 anni, i ragazzi comparvero nella mia vita… Nella religione si cerca un modello, una famiglia, l’abbandono di sé. Si ascolta quella musica meravigliosa, si ammirano le chiese e le cattedrali, si resta affascinati dalle vesti del culto, dalle icone e da tutta l’arte sacra. C’è qualcosa di grandioso e pieno di grazia nella religione. Adesso di tanto in tanto affondo le mani nell’acqua benedetta e mi dico “Non si sa mai”. Ma non voglio più saperne della ragione o del torto di credere in qualcosa oppure no. Mi richiede troppi sforzi e mi provoca troppi problemi. Se mi sono sbagliata durante la mia vita chiedo che mi si perdoni quando arriverò lassù.

Lourdes può provocare tutto. E il suo opposto. Colloquio con la protagonista Sylvie Testud


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strati, ma descritti dai racconti incrociati che le due si scambiano. Poi Cécile ha il malore che la conduce in ospedale. La guarigione della sua “sostituta” è graduale (tanto quanto lo è la sua “caduta”), ma il miracolo si manifesta in un momento preciso: nell’oscurità e nel silenzio della notte, Christine si alza dal letto e si dirige verso lo specchio.

2.1 Intorno alla coppia formata da Christine e Cécile gravitano altri tre gruppi di personaggi. Il sacerdote e i due volontari veterani, la coppia di amiche scettiche, e la vecchia che condivide la camera con la protagonista. L’empio terzetto che trascorre appartato i momenti di sosta, dentro la piccola comunità, rappresenta l’Istituzione: i tre dedicano il riposo al gioco delle carte, alle barzellette teologiche, al pettegolezzo, nelle loro parole il birignao di una religione disincarnata e accomodante, l’irrisione del Sacro e del Tragico. Alle destabilizzanti interrogazioni poste dall’Altro, i tre reagiscono con atti di conservazione, farisaicamente ricorrendo al dubbio come strumento non d’analisi ma d’assimilazione, disinnesco del Senso e della Differenza. La coppia di scettiche incarna invece la “religione dell’incredulità”. Nei fitti scambi delle due donne ogni prodigio, ogni evento incomprensibile o stupefacente sembra a un tempo possibile e tuttavia irreale. Le due chiedono a Dio e al Mondo le prove per credere: che Christine si alzi se è guarita, che le gambe sanate del testimone nel documentario mostrato ai pellegrini siano mostrate nell’inquadratura, che ne sia dimostrata evidentemente l’efficienza; che il miracolo capitato alla protagonista sia certificato dalla commissione medica per mutarne la carica interrogativa

Per un’esaustiva trattazione della condizione dello spettatore/flaneur si veda: Friedberg, A. 1991, Les Flaneurs de Mal(l): Cinema and the Postmodern Condition. New York: PMLA, Journal of the Modern Language Association. Per un’analisi della situazione spettatoriale secondo gli strumenti della psicanalisi si veda: Metz, C. 1980. Cinema e psicanalisi. Venezia: Marsilio. Per un’analisi dello stile di R. Bresson e L. Buñuel si veda: Schrader, P. 2002. Il trascendente nel cinema. Roma: Donzelli Cardelli V., De Giusti L. (a cura di) 2001. L’occhio anarchico del cinema. Luis Buñuel. Milano: Il Castoro. Per una trattazione sulla credenza nella società della comunicazione si veda: Perniola, M. 2009. Miracoli e traumi della comunicazione. Torino: Einaudi. Chiaromonte, N. 1971. Credere e non credere. Milano: Bompiani.

Filmografia essenziale sul tema del miracolo: El angel exterminador di L.Buñuel (1962) La voie lactée di L.Buñuel (1967) Gostanza da Libbiano di P. Benvenuti (2000) Il miracolo di E. Winspeare (2003) Ordet di C. T. Dreyer (1955) Procès de Jeanne d’Arc di R. Bresson (1962) Pickpocket di R. Bresson (1959)

PERCORSI

compagnatori – uomini e donne, giovani e adulti che prestano servizio volontario sotto le insegne dell’Ordine di Malta – che assistono i pellegrini durante il soggiorno al santuario. Rigida ed efficiente, la capo-volontaria, fin dalla prima scena e per più della metà del film, attira a sé gli sguardi dell’intera micro-comunità. La donna, la sera del penultimo giorno di pellegrinaggio, si sente male, sciogliendo così il segreto che si cela dietro la sua fin troppo manifesta empatia con i “malati”: un grave morbo la sta invisibilmente divorando. I personaggi di Cécile e Christine sono strettamente e reciprocamente connessi. La prima e l’ultima inquadratura del film costruiscono un gioco di corrispondenze incrociate che preannuncia, conferma e chiarisce la dinamica della relazione che le lega3. La prima sembra quasi vegliare l’arresa passività della seconda, preservandone la dolorosa inerzia fino alla rivoluzione del miracolo. Alla parabola ascendente di Christine, costellata di “segni premonitori”, di piccoli e grandi miracoli s’intreccia quella di Cécile, nella quale invece una serie di graduali cedimenti, di rifiuti discreti e di frustrazioni segrete conduce verso la letterale scomparsa. Il male che distrugge la donna l’estromette dallo schermo, sottraendola alla platea della piccola comunità di pellegrini e volontari, e permette a Christine di prenderne letteralmente il posto4. Non solo le due donne incrociano insistentemente i loro “sguardi diurni”, ma condividono pure le visioni oniriche notturne. Uno stesso sogno simbolico e profetico, preannuncio al miracolo, viene sognato due volte dalle due donne che, nel sonno, assistono alla stessa unica scena (la Madonna che annuncia a Christine la guarigione miracolosa), ciascuna secondo la propria soggettiva. I sogni non sono mo-

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in forza assertiva. La vecchia che condivide la stanza con la protagonista sembra infine occupare l’estremo opposto alle due amiche5. La sua compunta e quasi ininterrotta preghiera, più che dalla fede, sembra alimentata da una convinzione elementare e schematica. Il Credere si lega direttamente all’Avere, senza coinvolgere l’Essere6. Pronta a recepire qualsiasi indicazione, da qualsiasi fonte essa provenga, la donna è in cerca d’un premio ai propri sforzi d’adesione alla norma (religiosa). Per lei come per gli altri, quel che conta non è la Salvezza, ma la conservazione dello status quo; difendere la propria povera inerzia.

3. L’indistinto orizzont(al)e Jessica Hausner per il suo film sembra scegliere uno stile a metà tra la blasfema ironia sacra di Luis Buñuel e il trascendentale realismo materialista di Robert Bresson: come nel caso dei due maestri, l’attenzione della regista austriaca sem-

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bra centrarsi non tanto sulla differenza fra Alto e Basso, né fra dimensione sacra e spazio profano, quanto piuttosto sulla relazione/interazione tra l’inerzia dell’insignificanza e la straordinarietà del Senso. Mentre però nel cinema di Buñuel e in quello di Bresson il “gioco dei materiali” punta alla definizione e distinzione dei due livelli, Hausner sembra voler ottenere una densa amalgama nella quale Senso e non-senso, Sacro e Profano, soggettivo e oggettivo siano versati, dispersi e indistinguibili. Basta pensare alle due lunghe scene che aprono e chiudono il film: nell’incipit un brano di musica sacra7 dal ritmo ieratico introduce l’ingresso nel refettorio e le prosaiche istruzioni di Cécile ai pellegrini; prima della festa che chiude il

film il sacerdote accompagnatore prova il microfono usando una benedizione rituale8 poi il (presunto) miracolo viene premiato sullo stesso palco sul quale, pochi attimi più tardi, un cantante intona il suo repertorio da balera; così, anche nel risveglio miracoloso di Christine, l’oggettività della distanza della m.d.p. sembra ambiguamente alludere alla soggettività del sogno. In uno sguardo ossessivamente orizzontale le cose si mostrano pezzo dopo pezzo, lungo tappe cadenzate. Negli ampi totali la m.d.p si mantiene vistosamente lontana, spingendo i soggetti dentro un’angosciante indistinzione, la visione si fa incerta, le singole figure appena riconoscibili; nei piani più ravvicinati elementi architettonici o la stessa disposizione dei corpi impediscono l’organizzazione, l’esaurimento e l’immediata comprensione degli elementi interni all’inquadratura. Nascondendo e svelando solo per gradi, alludendo alla presenza di un mistero che non si trova mai esplicitato, che non è mai nominato, né mai risolto si produce e si alimen-


ta lungo l’intero arco del film una sottile e costante inquietudine.

4. Il tempo della malafede La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine (Chiaromonte 1971:185). In questo consiste la malafede contemporanea […]: nel tenersi alla forma di quella che fu una credenza autentica senza più assumerne la sostanza, ma solo perché non ce ne è un’altra alla quale ci si possa affidare. Ciò vuol dire che non si crede a nulla, ma ci si lascia andare sul filo degli eventi come su una corrente precipitosa e fatale. (Chiaromonte 1971: 196)

Lourdes non è un film sulla fede ma sull’impossibilità/incapacità di credere; non un’esaltazione del dubbio scettico e neppure una parodia della fede religiosa, un’analisi, piuttosto, del regime di credenza nella contemporaneità.

Tutto sembra giocarsi – come nota Chiaromonte – sullo svuotamento e sul conseguente rovesciamento dell’esperienza. Al presente dell’attimo aperto, dell’attesa e del ricordo, della tridimensionalità temporale agostiniana (cf. Agostino 1984) si sostituisce – prendendone il posto ma conservandone la medesima forma – il “presentismo” nel quale miracoli e casualità, eventi e pseudo-eventi si mescolano e confondono. Più di tutto, credere sembra paradossalmente coincidere – in un vertiginoso slittamento – con il sapere (impossibile); all’opposto il dubitare, invece che produrre uno sbilanciamento dinamico diretto alla comprensione delle cose, è usato come strumento di difesa e controllo, come via alla restaurazione e conservazione di

uno stato di rassegnata indigenza dell’essere, di comoda, stabile incertezza. Anche lo statuto delle immagini intra-diegetiche sembra ripetere lo stesso modello di svuotamento e rovesciamento dell’apparente. Nel film non compaiono altro che poche sculture a tutto tondo, statue e statuette che riproducono la Madonna di Lourdes e una scena della Passione di Cristo nella via crucis presso il santuario mariano. L’icona – l’immagine ispirata che allude, indica e rimanda al divino attraverso il segno stilizzato – non c’è; meglio, essa cambia e si tramuta in oggetto tridimensionale, spazialmente localizzato, fisicamente presente, accessibile al corpo oltre che allo sguardo. L’immagine così regredisce al funzionale perdendo la sua forza e ricchezza, la sua potenza significante; viene meno l’alterità che separa e distingue spazio sacro e spazio profano (quotidiano), soggetto e oggetto dello sguardo; tra essi s’instaura una relazione d’uso. Del resto anche la foto commemorativa scattata più volte (e mai mostrata) al gruppo di pellegrini e la video-intervi-

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conoscere | presente sta mostrata a scopo didattico sembrano condividere un simile ristretto statuto: persa ogni forza (tanto centrifuga quanto centripeta), la loro finalità si riduce all’amplificazione dell’attimo, alla sua dilatazione che giunge fino all’obliterazione del passato e del futuro. Le foto e il video non sono che prove, oggetti testimoniali in un reale caotico e sfuggente, gesti assertivi di certificazione dell’evento (straordinario). Lo sguardo come il pensiero sono appiattiti sull’evidenza dell’hic et nunc, ossessionati dal possesso e dal controllo del mondo attraverso la sua continua verifica. Dubbi, quesiti, tormenti e turbamenti sembrano tutti puntare all’accesso alla Verità e allo stesso tempo negarne l’esistenza. Ma anche in questo caso, dentro un involucro svuotato sta il rovesciamento dell’apparenza esplicita. La verifica dei fatti non coincide mai con la Verità, tra vero e falso non c’è salto qualitativo ma differenza quantitativa: al vero si sostituisce l’evidente, al falso l’enigmatico, l’ambiguo, l’anunivoco, l’incerto, l’interpretabile. Il Mistero diventa grottesco, ridicolo,in quanto inattingibile (e non misurabile) per definizione (cf. Perniola 2009). I fatti sono tutti equivalenti come pure le identità personali, le storie esistenziali. “Perché Christine? Perché non qualcun altro?” la guarigione ormai stabilizzata “vale” tanto quanto l’accidente di una caduta. Il palpabile disagio che la miracolata genera nei compagni di viaggio non si riduce a semplice invidia, la sua (temporanea) felicità desta lo scandalo: l’insostenibile oltraggio, il vulnus fatale al comune senso del pudore Christine lo compie rompendo il tabù dell’incredulità. Credere non è lecito, soprattutto quando la verifica dei fatti sembra concedere le conferme necessarie (attese e mai ottenute dagli altri). Christine conclude la sua parabola tornando a sedere sulla sua sedia. L’im-

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possibile eppure reale (il miracolo) sembra finire per coincidere con il possibile tuttavia irreale. Né l’esperienza-limite della malattia né quella della grazia (l’inspiegabile guarigione) hanno spinto Christine là dove forse arriva a condurla un semplice inciampo. Passata attraverso le due precedenti condizioni senza mai credere fino in fondo né mai davvero dubitare (quando la ragazza cade in mezzo alla sala da ballo in realtà è appena sul punto di credere di poter iniziare a credere), Christine incontra il dubbio nel ritorno allo sguardo da spettatore. Dopo la caduta, appena prima dei titoli il vecchio cavaliere di Malta ammette: “Peccato, c’avevo quasi creduto”. Dietro di lui le due amiche compongono l’ennesimo teorema: “Se non è veramente guarita allora non è un miracolo, e se non è un miracolo allora non è Dio a essere responsabile”. La vecchia signora intanto è già accanto al suo premio, pronta a tornare alla guida della sedia a rotelle. Quando Christine esce dal quadro scomparendo nel fuori campo lo sgomento nei suoi occhi è il segno dell’ultimo nascosto rovesciamento: la vacuità del suo sguardo non viene come tentativo di risposta all’interpellazione che sorge dalle cose. È forse la manifestazione più esplicita del sentimento che apparenta tutti i personaggi del film, l’orrore di credere.

Riferimenti bibliografici Agostino. 1984. Le confessioni. Torino: Paoline. Chiaromonte, N. 1971. Credere e non credere. Milano: Bompiani. Friedberg, A. 1991. Les Flaneurs de Mal(l): Cinema and the Postmodern Condition. New York: PMLA, Journal of the Modern Language Association.

Perniola, M. 2009. Miracoli e traumi della comunicazione. Torino: Einaudi. Wenders, W. 1982. Chambre 666. Francia-Germania. Endnotes

1 L’intervento di Godard è compreso nel documentario Chambre 666, film che Wenders realizza in occasione del Festival di Cannes del 1982, invitando alcuni illustri colleghi a esprimersi sul destino del cinema davanti alla m.d.p. 2 Sulla condizione dello spettatore postmoderno come flaneur cf. Friedberg 1991. 3 Nella prima scena, accompagnata da musica sacra, Cecile occupa il centro del refettorio e parla alla piccola assemblea. Il volontario Kuno le è accanto in qualità di assistente. Nella scena finale, accompagnata dalle canzonette per il ballo, Christine è prima sul palco, dove riceve il premio come miglior pellegrino dell’anno, poi in mezzo al salone, impegnata a danzare con Kuno. 4 All’escursione in montagna prevista per l’ultimo giorno dei pellegrini a Lourdes Christine non potrebbe partecipare perché il suo nome non compare nella lista degli iscritti, dal momento che fino a poche ore prima la ragazza non avrebbe potuto materialmente prendervi parte. Ma Cécile, regolarmente iscritta nella lista, non è più lì, è in ospedale. Così il suo nome viene sostituito con quello della ragazza miracolata. 5 Un’inquadratura nella prima parte del film sintetizza questa opposizione: la vecchia è inginocchiata e assorta in preghiera davanti a una statua della Madonna coronata da un’aureola al neon significativamente simile all’insegna luminosa della vicina vetrina di souvenir; le due amiche, che ammirano la chincaglieria in vetrina, si accorgono dell’orante a terra appena in tempo per non calpestarla e la scansano con sdegno. 6 Il compenso che sembra giungere alle richieste della vecchia non è “materiale”, ma molto concreto: il possesso affettivo della protagonista compagna di stanza. 7 Si tratta dell’Ave Maria di Franz Shubert. 8 Salito sul palco, il religioso dice al microfono: “Il Signore sia con voi” e alla risposta della platea “E con il tuo spirito”, sorride soddisfatto. Le immagini sono tratte dal film Lourdes (Austria, Francia, Germania 2009) di Jessica Hausner.


blackboard Pitteri Daniele; Pellegrino Anna, Advertmarketing: nuove forme di comunicazione d’impresa, Carocci 2010 Come sono cambiati i rapporti fra impresa e mercato nelle società globali? Come si è evoluto il ruolo del consumatore nel suo rapporto con le merci? Come si sono trasformati il marketing e la comunicazione per adeguarsi a tali cambiamenti? Il testo, alla luce delle evoluzioni dell’ultimo decennio, illustra e descrive l’AdvertMarketing, tutte le nuove forme di comunicazione non convenzionale, in cui le attività di marketing, e quindi le strategie di mercato delle imprese, si basano sostanzialmente su processi comunicativi. Cherubini S.; Pattuglia S. (a cura), Co-opetition. Cooperazione e competizione nella comunicazione e nei media, Franco Angeli 2010 Lo sviluppo della comunicazione d’impresa e delle istituzioni, di marketing come finanziaria, globale e locale, stimola gli operatori a fare sempre meglio ma possibilmente a costi contenuti. In questa prospettiva, assai spesso - nel settore della comunicazione e dei media - risulta opportuno sviluppare attività in collaborazione con altri operatori per potenziare l’efficacia, ridurre i costi, aumentare la rapidità e la credibilità. Tali collaborazioni trovano delle difficoltà nel momento in cui è fondamentale scegliere bene i partner, definire i ruoli e i compiti, monitorare l’andamento delle attività anche al di fuori della propria organizzazione. Bisogna sviluppare alcune specifiche skill che partono dalla capacità di capire i vantaggi delle alleanze fino ad arrivare all’attitudine nell’operare lealmente ma senza superare i giusti limiti di riservatezza e interesse aziendale. In altre parole, sviluppare una capacità di co-opetition (cooperation and competition), competenza che sempre più caratterizzerà il mondo delle imprese e delle istituzioni e, nello specifico, quello della comunicazione e dei media, mondi sempre più integrati e convergenti. Questo volume vuole far riflettere, attraverso la presenza di autorevoli esperienze, sulle opportunità, ma anche i rischi, che la co-opetition può presentare. Cristante Stefano, Comunicazione (è) politica. Scritti sull’opinione pubblica e sui media, Bepress 2010 La comunicazione, da quando esistono i mass-media, è diventata veicolo e territorio fondamentale della politica. Ma l’avvento delle strategie comunicative a fini politici non è certo un fatto nuovo nella costruzione del potere. Attraverso una serie di saggi che spaziano dalla preistoria della comunicazione politica ai fatti e alle notizie dei nostri giorni, questo volume intende proporre un terreno d’indagine per lo studio dell’opinione pubblica che proponga sintesi concettuali e modelli operativi, sostenuti dall’analisi di eventi rappresentativi del complicato percorso politico della realtà occidentale e, in particolare, del nostro paese. Il modo di comunicare di leader, istituzioni, partiti, movimenti, sindacati e associazioni viene analizzato in stretto rapporto all’evoluzione dei mezzi di comunicazione tradizionali e digitali, sempre più parte in causa di una doxasfera in cui i diversi attori agiscono determinando convergenze e conflitti che segnano la contemporaneità. Rossi Gina, La comunicazione aziendale, Franco Angeli 2010 Ogni azienda - qualunque sia la sua natura economica, la forma giuridica o l’attività che in essa si svolge - comunica costantemente con i propri interlocutori per reperire i mezzi e le risorse che le consentono di perpetuare le condizioni della propria sopravvivenza. Il carattere pervasivo e la natura sempre più poliedrica e complessa del fenomeno invitano a riflettere su quelli che sono i fini della comunicazione aziendale, i principi ai quali le informazioni trasmesse devono rispondere, i requisiti che esse devono possedere per dimostrarsi utili in relazione agli obiettivi posti. Sono queste le categorie alla luce delle quali va letta la convenienza per l’azienda a colmare le asimmetrie informative che le attribuiscono una posizione di vantaggio rispetto ai suoi interlocutori o a mantenerle e a potenziarle, distorcendo la comunicazione nei suoi aspetti di forma e di

contenuto, al fine di carpire maggiore consenso e legittimazione presso il pubblico sulla base di un rapporto fiduciario falsato. Errante Salvatore; Mancinelli Andrea, Dal brief di agenzia al piano mezzi. Scrivere i documenti della strategia di comunicazione, Franco Angeli 2010 Sulla comunicazione sono stati scritti numerosi trattati da parte di svariate categorie coinvolte, da filosofi a sociologi, da linguisti a esponenti del marketing. Questo libro si differenzia dagli altri testi teorici e vuole essere una concreta alternativa per tutti coloro che intendono sapere cosa scrivere nei documenti della strategia di comunicazione e come scriverlo. Una guida preziosa per il lettore nella stesura dei documenti indispensabili al communication manager, che si sofferma a: individuare gli obiettivi di comunicazione dell’azienda; comprendere la funzione di tutti gli “attori” interni ed esterni; definire le necessarie attività di comunicazione; trasformarle in documenti strategici al servizio dell’azienda; scegliere gli strumenti pratici di azione. Un manuale di rapida e facile lettura, corredato da numerosi esempi pratici, case history, modelli e schemi di riflessione rivolto a tutti coloro che, ai diversi livelli e nelle differenti funzioni aziendali, hanno il compito di comunicare la comunicazione e di condividerla: responsabili marketing e comunicazione, product e brand manager, responsabili relazioni esterne, agenzie di pubblicità ed imprenditori. Mazza G.; Perego G. (a cura), Pedagogie della parola. L’emergenza educativa, tra universo biblico e cultura della comunicazione, San Paolo Edizioni 2010 Una semplice ricerca in internet ci rende puntualmente partecipi di quanta rilevanza assuma oggi il tema mediatico di tante (dis)educazioni quotidiane. In un’epoca surriscaldata dai dibattiti sui crocifissi nelle scuole, ci si interroga - ed è un bene che lo si faccia - su quanto si possa davvero educare, su dove lo si debba fare, su chi abbia il diritto di farlo, e perché. Davide Borrelli, Pensare i media. I classici delle scienze sociali e la comunicazione, Carocci 2010 Se Simmel fosse stato un consumatore di mass media e Weber avesse potuto conoscere lo star system hollywoodiano? Se Benjamin avesse avuto la possibilità di navigare in internet e Mead di partecipare ad una chat online? Se Foucault avesse assistito a una puntata del Grande Fratello e Luhmann all’espansione dei mondi virtuali? Che cosa ne avrebbero potuto scrivere e quali riflessioni ne avrebbero tratto questi grandi maestri delle scienze sociali? Questo libro approfondisce le ragioni dell’attualità dei classici alla luce delle scienze della comunicazione. Battista M. Antonietta, Dal salotto al ring televisivo. Comunicare e interagire in televisione, Rubbettino 2009 Talk show, informazione, intrattenimento e infotainment, sono oggi le arene mediatiche preferite dagli attori politici e più seguite dal pubblico. Le performance dei politici nei diversi programmi televisivi mostrano una politica nuova, trasformata nelle sue storiche funzioni d’integrazione, formazione e rappresentanza, impegnata in una ricerca spasmodica della visibilità e della prevaricazione. Il rapporto tra televisione e politica in questo contesto assume nuove vesti discostandosi dalle logiche del going public per dare spazio a logiche che si avvicinano più ad un going politic. La politica oggi in gran parte è fatta di rissosità e di scontro personale e politico trasformando il palcoscenico televisivo da salotto di conversazione e dibattito in un ring dove prevale l’aggressività a discapito del confronto formativo e informativo. Il libro tratta il tema della comunicazione politica, tracciando in una prima parte un excursus storico dall’Italia del dopoguerra a oggi, e si concentra poi sulla comunicazione televisiva, analizzando le strategie comunicative dei leader politici negli schermi televisivi attraverso le relazioni e le interazioni tra questi, il conduttore e il pubblico.

consigli di lettura | comunicazione 77


ARGO MENTA REVE DERE SENTI RE Giovanni Scarafile

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Sul rapporto tra patico ed aptico nella filosofia del cinema.

Che rapporto c’è tra visione e tattilità? A quale facoltà dell’umano bisogna riferirsi per mettere in relazione visibile e tattile? Una riflessione sul sentiero dischiuso dal dubbio nel cinema a partire dal film Doubt (2008) di John Patrick Shanley 79


argomentazione

Osservare, guardare e poi ancora guardare; il risultato: un essere trasportati dentro l’oggetto osservato. L. Binswanger, Sulla fenomenologia

Ogni visione si effettua in qualche luogo dello spazio tattile. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile

1. L’argomentazione, un fenomeno stratificato Un passaggio tratto dal Trattato dell’argomentazione di Perelman-Tyteca costituisce ai fini delle mie considerazioni un particolare motivo di interesse. Condizione necessaria – scrive Perelman - perché ci sia una argomentazione è che si crei un «contatto tra le menti» (§2), aggiungendo che «Non basta parlare o scrivere, occorre pure essere ascoltati o letti». Inoltre, come a precisare questo concetto, l’autore aggiunge che «la conoscenza dell’uditorio non può essere concepita indipendentemente da quella dei mezzi capaci di agire su di esso, anzi il problema della natura dell’uditorio è legato a quello del suo condizionamento», ribadendo nel §10 che: «un’argomentazione è efficace se riesce ad accrescere questa intensità di adesione in modo da determinare presso gli uditori l’azione voluta» (Perelman 2001:48). Queste parole di Perelman richiamano le parole con cui nella Retorica (III, 1403b) Aristotele introduce il discorso sullo stile dell’argomentazione: «non basta possedere gli argomenti che si devono esporre, ma è anche necessario esporli in modo appropriato». Si danno perciò due distinte ed interagenti componenti all’interno di una argomentazione: la componente di contenuto

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(ciò che viene detto) e la componente di modo (il modo in cui si dice ciò che viene detto). La inestricabilità tra i due momenti dell’argomentazione garantisce dell’effettività dell’argomentare stesso, sancita dal contatto tra oratore e uditorio che «non riguarda soltanto le condizioni preliminari all’argomentazione, ma è essenziale anche per l’intero sviluppo di questa» (Perelman 2001: 20). Ciò che mi propongo di mostrare in queste note, seppure per cenni, è il modo in cui il cinema possa rendere visibile l’inestricabilità tra i due momenti dell’argomentazione appena richiamati. Proverò, inoltre, a raggiungere questo obiettivo in modo induttivo, muovendo da un film, Doubt (2008) di John Patrick Shanley, la cui forza argomentativa può essere rintracciata proprio nel lavoro congiunto tra la componente di contenuto e la componente di modo.

2. Lo spettatore modificato Propedeutico allo sviluppo della tesi precedentemente illustrata è il richiamo ad alcuni aspetti, in verità piuttosto noti, delle riflessioni sul cinema proposti rispettivamente dal regista sovietico Lev Vladimirovič Kulešov (1899 – 1970) e dal critico italiano Ricciotto Canudo (1877 – 1923). 2.1 Aumento di significazione indipendente dal contenuto In un modo forse troppo schematico, ma ammissibile come punto di partenza del discorso, potremmo dire che in ogni film, come in un’argomentazione, possono essere distinti due elementi. Il primo, il più comune da cogliere, concerne ciò che potremmo indicare come contenuto (la sceneggiatura, il plot narrativo, ecc.), mentre il secondo riguarda lo stile attraverso cui si cerca di rappresentare quel medesimo contenuto. Ovviamente in un

film questi elementi si presentano congiuntamente ed essi sono qui indicati separatamente solo per maggiore chiarezza espositiva. Tecnicamente parlando, con riferimento a questi due aspetti, un film non funziona in modo diverso da un romanzo scritto. Questo, allora, significa che non esiste una differenza specifica tra un film e un romanzo? La domanda è ovviamente retorica, dato che non solo una tale differenza esiste, ma essa è proprio ciò che costituisce la specificità del linguaggio filmico. Può essere utile richiamare una tale differenza a partire da uno dei primi luoghi in cui essa diventò manifesta. Mi riferisco al celebre esperimento condotto nel 1918 da Kulešov, narrato da Pudovkin ne La settima arte. Da un film dell’epoca zarista, Kulešov aveva selezionato un’immagine del viso dell’attore principale, non particolarmente espressivo. Successivamente, aveva messo in sequenza questa immagine con altre tre immagini raffiguranti rispettivamente un piatto di minestra, il cadavere di una donna e una donna nuda e proiettato le tre diverse sequenze di fronte ad un pubblico selezionato. La visione delle tre diverse sequenze (1. viso attore-piatto di minestra; 2. viso attore-cadavere donna; 3. viso attore-donna nuda) aveva condotto ad un referto per certi versi inaspettato. Interrogati, infatti, su ciò che avevano effettivamente visto, gli spettatori avevano affermato che nel primo caso gli occhi dell’attore denotavano la fame; nel secondo, una grande tristezza; nel terzo, una grande eccitazione. Non solo, dunque, nessuno si era accorto che l’immagine dell’attore era sempre la stessa, ma tutti si erano incredibilmente detti concordi nel sottolineare l’indubitabile talento dell’attore. Il richiamo dell’esperimento di Kulešov è funzionale agli scopi del presente scritto, dato che in estrema sintesi, esso dimostra,


sentire ad un livello generale, che un determinato contenuto, organizzato secondo una particolare sequenza, può produrre significati diversi. Più in particolare, , la messa in sequenza di immagini diviene responsabile di un aumento di significazione rispetto al semplice dato di partenza. Detto altrimenti, il significato di uno stesso contenuto può variare a seconda del modo in cui è mostrato. È soprattutto in conseguenza di un tale conseguimento cognitivo che gli studi registici hanno dovuto prevedere delle tecniche in grado di padroneggiare e dirigere il più possibile il sopravanzare della significazione rispetto ad un contenuto prestabilito all’interno di un contesto segnato dalla ormai dimostrata interconnessione sistemica tra contenuto e suo modo di presentazione. 2.2 I segni invisibili Un altro interprete su cui vorrei soffermarmi brevemente è Ricciotto Canudo, uno dei primi critici che assistettero alla nascita del cinematografo. Farò riferimento a tre aspetti della sua articolata proposta teorica. 2.2.1. Per Canudo, che vive nei primi anni ’20 del secolo scorso, il cinema rappresenta l’arte assolutamente moderna, adeguata alla nuova epoca. Sarà proprio Canudo ad inventare il neologismo écraniste per riferirsi all’artista che si orienta secondo la nuova arte1. Canudo distingue tra arti del tempo (musica, poesia e, più tardi, anche danza2) ed arti dello spazio (architettura, scultura, pittura). Le prime sono arti mobili e ritmiche, le seconde arti immobili e plastiche. Il cinema va collocato al vertice in quanto riesce a conciliare entrambi i tipi di arte ed è così «arte totale» e spazio-temporale, adeguata al dinamismo ritmico della cultura moderna. 2.2.2 La forza del cinema risiede inol-

tre nella capacità, incarnata dall’ecraniste, di coinvolgere non solo gli intellettuali, ma il più vasto pubblico: «è il desiderio – scrive Canudo – di una Festa nuova, di una nuova umanità gioiosa, realizzata in uno spettacolo, in un luogo dove gli uomini si trovino tutti insieme, dove attingano, in misura più o meno grande, l’oblio della loro individualità isolata» (Canudo 1908: 3). 2.2.3 Il terzo momento è dato dal seguente passaggio, che riporto per intero: «Noi assistiamo alla nascita di questa sesta arte. Una simile affermazione in un’ora crepuscolare come la nostra, ancora mal definita, incerta, come ogni epoca di transizione, ripugna alla nostra mentalità scientifica. […] soltanto occhi esercitati dalla volontà di scoprire i segni invisibili o originari degli esseri e delle cose possono orientarsi in mezzo alla visione offuscata dell’anima mundi. Tuttavia, la sesta arte s’impone allo spirito inquieto e scrutatore. Ed essa sarà la superba conciliazione dei Ritmi dello Spazio (le Arti Plastiche) e dei Ritmi del Tempo (Musica e Poesia)»3 (Barbera – Turigliatto 1978: 15-24). Sintetizzando i riscontri fin qui emersi, potremmo dunque dire che Canudo coglie una specificità del cinema, non riconducibile a nessuna delle arti preesistenti; in ragione di tale specificità è possibile un più ampio coinvolgimento del pubblico; entrambi questi fattori vengono infine ricondotti ad una modalità che, propriamente parlando, accade nello spettatore a fronte di una manifestata disponibilità al superamento del visibile. Nel caso di Kulešov, invece, l’apparente semplicità dell’esperimento condotto in realtà nasconde un risultato importante, riferibile, come già accennato, al guadagno di significazione che accade nello spettatore, indipendentemente da ciò che può essere considerato come contenuto. Entrambi gli autori, per vie diverse,

giungono ad evidenziare un fattore, responsabile di una modificazione operantesi nello spettatore. Se volessimo tentare di ascrivere ad una qualche regione dell’umano un tale accadere, cercando di risalire come dall’effetto alla causa, dovremmo fare riferimento alla «facoltà patica». Sul versante filosofico, quando non sia stato inteso alla stregua di un horridum pudendum, il termine pathos (come pure i suoi equivalenti, affectio, Erlebnis), è chiamato a designare una facoltà, il sentire, che difficilmente può essere messa da parte senza con ciò rinunciare ad una delle condizioni di possibilità del pensare stesso4. E noi potremmo senz’altro ritenere come appartenenti al patico, seppure a diverso titolo, quegli elementi riconducibili al modo contrapposto in un certo senso al contenuto segnalati all’inizio di questo scritto con riferimento alla teoria dell’argomentazione di Perelman, così come negli accennati riscontri di Kulešov e Canudo.

3. Patico ed aptico nel film Doubt Segnalati i momenti costitutivi dell’argomentazione e gli effetti della funzione patica, possiamo ora provare a contestualizzare i riferimenti emersi all’interno del film Doubt5. Bisogna ammettere, infatti, che una volta che la sfera del patico sia stata individuata, non è ancora provata la sua efficacia. Può essere utile, pertanto, provare ad isolare un contesto (un film, nel nostro caso) per verificare efficacia e specificità d’azione di una tale facoltà. La scelta di Doubt non è casuale. Si tratta infatti di una pellicola in cui ciò che all’inizio indicavo come componente di contenuto è molto importante. La ricerca del ruolo del patico all’interno di un impianto filmico fondato su una tale componente

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patico rappresenta un test di per sé significativo per testare la mia ipotesi di lavoro. In Doubt, si narra una vicenda ambientata nel 1964, nel Bronx, nel collegio della Parrocchia di St. Nicholas. Il ’64 è l’anno successivo all’uccisione di Kennedy, la società americana vive ancora il trauma della perdita, ma è anche l’anno in cui si annunciano le novità del Concilio Vaticano II, le aperture della Chiesa finalmente non impaurita di andare incontro al mondo. Se questo è lo sfondo in cui si colloca la vicenda narrata dal film, sono proprio le parole pronunciate durante un’omelia da uno dei protagonisti, Padre Flynn, interpretato da Philip Seymour Hoffman, a fungere da detonatore della intera vicenda. «I want to say to you: Doubt can be a bond as powerful and sustaining as certainty. When you are lost, you are not alone»6. Il dubbio – dice Padre Flynn – può essere un legame comunitario rassicurante quanto la certezza. Si tratta di parole che annunciano un possibile sdoganamento del dubitare stesso, ovvero il venir meno della concezione che identifica il dubbio con un errore da evitare il più possibile. La presenza di una tale idea del dubbio non è appannaggio soltanto degli ambienti religiosi retrivi descritti nel film. Già nel nostro senso comune, il dubbio è considerato alla stregua di una parentesi passeggera, un’ombra da lasciarsi rapidamente alle spalle: non diciamo che le nostre scelte sono effettivamente tali quando non lasciano dubbi? Le parole di Padre Flynn ci consentono di inquadrare visivamente le caratteristiche dell’altro personaggio principale del film, Suor Aloysius, interpretata da Meryl Streep. Proprio durante l’omelia, infatti, Suor Aloysius viene ripresa mentre metodicamente inibisce e autoritariamente reprime la distrazione di alcuni bambini seduti in chiesa. La prima scena del film è, in questo senso, una sineddoche, in

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grado di farci cogliere l’intero film basato sulla contrapposizione tra un atteggiamento non pregiudizialmente chiuso nei confronti della vita, incarnato dal giovane sacerdote, e un atteggiamento di orgogliosa chiusura personificato dalla suora. Un atteggiamento, quest’ultimo, di autosufficienza insulare, consistente nell’essere così radicati nelle proprie posizioni da non desiderare di vedere oltre. In simili situazioni, non solo tutto sembra essere in nostro possesso, addirittura i criteri stessi del vero e del falso, ma su tale rimozione del filtro con il mondo si è esercitata una forma di autogiustificazione assoluta7. Nel film, in mezzo a queste due figure così diverse, si porrà la giovane e forse troppo ingenua Sorella James (Amy Adams), all’apparenza così facilmente influenzabile. Il prosieguo dello sviluppo narrativo del film porterà a dubitare della correttezza dell’atteggiamento di Padre Flynn nei confronti di Donald Miller, l’unico allievo di colore della scuola. Il chiarimento che ne segue, e che riporto dallo Script originale del film, è il teatro in cui si mettono in scena, in occasione dell’accusa mossa al sacerdote di aver molestato il ragazzo, gli stessi atteggiamenti dei protagonisti nei confronti della vita. Flynn: [...] You had a fundamental mistrust of me before this incident! It was you that warned Sister James to be on the lookout, wasn’it? Sister Aloysius: That’s true. Flynn: So you admit it! Sister Aloysius: Certainly Flynn: Why? Sister Aloysius: I know people. Flynn: That’s not good enough! Sister Aloysius: It won’t have to be.8

Nonostante i numerosi motivi di interesse insiti nel violento scambio verbale tra Suor Aloysious e Padre Flynn, mi pare che se noi persistessimo a rivolgere esclusivamente la nostra attenzione su tali caratteri non riusciremmo a cogliere un’altra carat-

teristica del film, collocata piuttosto sul piano profilmico della specifica posizione della spettatore. Come ricorda Barthes, il rapporto spettatore-film è, in un certo senso, un rapporto a doppio canale. Da un lato, deve aver luogo una forma di fascinazione in grado di catturare l’attenzione e di coinvolgere, dall’altro questa caratteristica ha senso nella misura in cui si riesca a prendere le distanze da essa. Bisogna che io sia nella storia (la verosimiglianza mi richiede), ma bisogna anche che io sia altrove. […]. Ciò di cui mi servo per prendere le distanze dall’immagine, ecco, in fin dei conti, ciò che mi affascina: sono ipnotizzato da una distanza; e tale distanza non è critica (intellettuale); è, per così dire, una distanza amorosa (Barthes 1994: 148-150).

Lo scambio di accuse del dialogo precedente tra Padre Flynn e Suor Aloysius risulta di grande interesse perché consente di gettare uno sguardo proprio sulla dinamica che si attiva nella mente dello spettatore con riferimento all’ambito tematico del dubbio. Trova dunque conferma l’inestricabilità tra componente semantica e componente non semantica (prima indicate come componente di contenuto e componente di modo) cui facevo cenno in precedenza a proposito delle caratteristiche dell’argomentazione. È per il tramite della prima che la seconda si afferma. Da questo punto di vista, allora, la distanza temporale che ci separa dalla vicenda specifica raccontata nel film (il 1964, il Bronx, il piccolo collegio della Parrocchia di St. Nicholas), passa in secondo piano. È proprio per mezzo della incarnazione nello spettatore di questa eccedenza della dimensione non semantica sulla dimensione semantica che diventa possibile per lui prendere posizione, cioè non rimanere indifferenti rispetto alle opzioni mostrate sul versante narrativo del film. Nello specifico, in seguito all’attivazione nello spettatore del livello patico, e


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filosofia del cinema

muovendo dallo scambio di battute tra i due protagonisti, risultano più chiare talune caratteristiche dello stesso concetto del dubitare. In altri termini, l’esposizione ad una situazione concreta in cui il dubbio viene rappresentato (nel nostro caso, lo scambio di battute tra i due protagonisti del film riportato sopra), mentre attiva la modalità patica, dà modo allo spettatore stesso di cogliere aspetti essenziali del dubitare, come tali non più episodici o riferibili ad un solo contesto come quello del film. Il film permette di scorgere determinazioni concettuali del dubitare che altrimenti potrebbero rimaner celate ad

una considerazione puramente verbale. In questo senso, potremmo dire che il film permette di vedere meglio. Nel caso specifico, qual è il risultato di questa visione potenziata delle cose? A mio avviso, mi sembra che diventi più chiaro, proprio a livello concettuale, il riferimento alla dinamica dello scegliere. Una scelta infatti si compie quando si è in grado di operare una cernita, di isolare uno scarto: ciò che è scelto è ciò che si è riusciti a separare da quanto rimane non scelto. In questo senso, vi è, in ogni scelta, un’elezione. Non è un caso che proprio il verbo eligere, composto da ex e legere, as-

suma il significato di «scegliere tra». In tal senso, la pro-pensione, ciò che dà avvio ad una scelta, è un processo graduale, si impone gradualmente nella misura in cui un elemento, divenuto più chiaro, viene progressivamente identificandosi, e quindi distinguendosi, rispetto ad uno sfondo di incertezza. È così che scegliere comporta il propendere a favore di una determinata opzione. Tuttavia, anche la scelta più compiuta, se segna una presa di distanza da ciò cui si è rinunciato, non può mai convertirsi in una rinuncia tout court alla stessa possibilità del dubbio, anche eventualmente sullo stesso ambito su cui la

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Canudo scelta originaria sia già stata esercitata. Sia rispetto alla singola scelta, sia rispetto allo scegliere in generale, il dubbio ha una funzione irrinunciabile. Tale istanza rimane invariata a scelta avvenuta, quale fonte di verificazione di quanto scelto. Nello spettatore, il venir meno della distanza da Padre Flynn o Sorella Aloysius è esercitabile nella misura lo spettatore stesso può rivivere ed inverare quei contenuti messi in scena nell’interpretazione dei due attori. È così che, nella «distanza amorosa» (Barthes) propria dello spettatore, assistendo alla rappresentazione dialogata del rapporto tra dubbio e scelta, scopriamo quanto può essere facile essere collocati dentro i propri pregiudizi e quanto difficile e faticoso prendere le distanze da ciò che sembra facile e naturale credere. In altre parole, è come se nel dialogo tra i protagonisti noi potessimo toccare i concetti lì rappresentati. È come se di quei concetti noi avessimo un’esperienza tattile.9 È nel raggiungimento di questo traguardo che noi tocchiamo con mano la potenza dell’argomentazione dischiusa dal dispositivo filmico. Lo spettatore è, dunque, non soltanto chi assiste alla rappresentazione, ma in un certo senso chi ne prende parte. Il cinema, di conseguenza, non è soltanto un momento di evasione o un pre-testo, ma ciò che con una straordinaria forza espressiva proietta noi stessi nei pressi della cosa, come confermato da Gadamer con riferimento all’immagine: L’immagine adempie alla sua funzione di rimando solo attraverso il suo proprio contenuto. Quanto più uno si immerge in essa, tanto più anche è in rapporto con il rappresentato. L’immagine rimanda in quanto trattiene. Quanto più uno si immerge in essa, tanto più anche è in rapporto con il rappresentato (Gadamer 1983: 37).

Guardare due personaggi del film che discutono animatamente di certezza e di dubbio non è un’operazione statica e sen-

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za conseguenze. Lo sguardo ci fa entrare nel mondo del film, ci permette di viverlo non più soltanto a distanza, in un senso che richiama da vicino ciò che solitamente intendiamo con abitare10. Una tale dialettica è stata riscontrata in modo preciso da Didi-Huberman quando si chiede: Che cosa significa abbandonarsi alla cosa? Essere sul posto, di certo. Vedere sapendosi guardati, coinvolti, implicati. E più ancora: restare, rimanere, abitare un certo tempo in quello sguardo, in quell’implicazione. Fare di questa durata un’esperienza. Poi, fare di quest’esperienza una forma, esplicare un’opera visiva. […]. Non solo la conoscenza conosce a sua volta dei momenti d’emozione, ma certe cose – le cose umane – sono inoltre suscettibili d’interpretazione e di esplicazione solo attraverso il percorso necessario di una comprensione implicativa, di una “presa su di sé”, di una prensione quasi tattile dei problemi trattati […] in quel momento, l’oggetto della conoscenza è riconosciuto per essere intimamente all’opera nella costituzione stessa del soggetto che conosce (Didi-Huberman 2009: 254; 260).

Siamo così giunti nel punto in cui il patico si converte in aptico, dove – detto in altri termini – ciò che è visto e sentito può essere toccato: è come se anche noi fossimo in quella stanza dove si svolge il confronto tra Padre Flynn e Suor Aloysius. Una soglia, quella accennata in queste note, già segnalata da Merleau-Ponty quando osservava che «Dobbiamo abituarci a pensare che ogni visibile è ricavato dal tangibile, ogni essere tattile è promesso in un certo qual modo alla visibilità; e che c’è sopravanzamento, sconfinamento, non solo fra il toccato e il toccante, ma anche fra il tangibile e il visibile che è incrostato in esso. […]. Ogni visione si effettua in qualche luogo dello spazio tattile» (Merleau-Ponty 1993: 150-151). Si tratta di una proiezione partecipativa resa ancor più evidente dal dispositivo filmico. Come scrive Giuliana Bruno,

il cinema è un fantasioso giocattolo architettonico, una casa di “trasporti”. È una macchina che espande la nostra capacità di mappare il mondo ampliando il nostro apparato sensorio. Mettendoci a confronto con il nostro ambiente, il cinema offre visioni toccanti e al contempo esplora la relazione tra moto ed emozione, spazio voluttuoso dell’emozione. [...]. Il cinema ha dotato il soggetto moderno di una nuova tattica per orientarsi nello spazio e per dare un “senso” questo movimento, che include il moto delle emozioni. [...]. In quanto dimora delle immagini in movimento, il cinema, come la casa in cui viviamo è profondamente abitabile. [...]. Fa appello alla sua emozione per diffonderla. E lo fa tangibilmente. (Bruno 2002: 183; 227)11.

Conclusioni Il percorso seguito in queste note è partito, a) dalla considerazione della stratificazione operante all’interno dell’argomentazione in cui possono essere distinti due momenti, piano semantico, relativo ai contenuti, e piano non semantico, riferibile alla presentazione dei contenuti e al loro effetto sull’uditorio. Due aspetti distinti, come si è visto, ma indistricabili. Si è cercato, b) con riferimento ad alcuni momenti specifici della storia del cinema (Kulešov e Canudo) di mostrare la rilevanza delle dimensioni non semantiche operanti nella significazione filmica. Infine, si è provato, c) a verificare, muovendo dal film Doubt, il modo in cui le due dimensioni, semantica e non semantica, interagiscono consentendo l’azione della funzione patica. Mentre si pone come un capitolo di filosofia del cinema, il discorso affrontato in questa sede rinvia, dunque, ad un aspetto più generale di una teoria del conoscere resa possibile per la congiunzione di due aspetti, sentire e capire12. Al di là delle scelte terminologiche, l’universo concettuale richiamato da questo scritto risulta denso di significative


Kulešov attestazioni. Ad una delle più alte testimonianze di questo universo, alle parole di Maria Zambrano, vorrei fare riferimento nel congedarmi dal lettore: Ci dev’essere stato un momento iniziale in cui sentire e capire non erano separati, quel momento iniziale del conoscere che è abbastanza indifferente situare o no in un tempo determinato, in un illo tempore più o meno preciso, dato che ogni inizio è insieme una meta: dove esso si dà in tutta la sua purezza attiva, lì è il luogo della “conoscenza che si cerca”. All’inizio del conoscere, il capire e il sentire non avrebbero potuto vivere separati; e il contrapporli, giocando sulla separazione determinatasi in seguito, dà la misura della distanza che separa chi così si conduce da questa conoscenza che si cerca – e che è presente fin dall’inizio (Zambrano 1992: 93-94).

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1 Contestualmente Louis Delluc conierà con significato analogo ed intenti simili il termine di cinéaste. 2 È questo il motivo per cui all’inizio Canudo parla del cinema come della nuova “sesta” arte. 3 Corsivo mio. Si veda anche (Mossetto 1973).

4 Aggiungerei infatti che senza il ricorso alla paticità non potrebbe esserci esserci l’esperienza (experientia, Erfahrung), colta in uno dei suoi principali significati, nel senso di costituzione di un oggetto, idealità di una rappresentazione. 5 Doubt (USA 2008) di John P. Shanley. Con Meryl Streep, Philiph Seymour Hoffman, Amy Adams, Viola Davis, Lloyd Clay Brown.

6 Script del film Doubt, p. 8. Lo script è rinvenibile all’indirizzo: miramaxhighlights. com/uploads/Doubt_Script%5B1%5D.pdf 7 Un’ulteriore declinazione di questo atteggiamento è rinvenibile nel film The Visitor (USA 2007) di Thomas McCarthy. 8 Script di Doubt, p. 82. 9 La caratterizzazione di una tale esperienza era già intuibile dalla corrispondente spazializzazione delle metafore con cui sono venuto indicando il progressivo avvento della facoltà patica nello spettatore: «prendere posizione», «venir meno della distanza». 10 Del resto, il verbo latino habitare presenta un raccordo con habere, significativo proprio per il fatto di implicare il possesso, l’avere. Si tratta di una dimensione che esplicita quel venir meno della distanza cui alludo in questa parte dello scritto. 11 Il completamento del discorso condotto in questo saggio dovrebbe passare per una interrogazione sullo statuto stesso dell’immagine filmica. Se, infatti, come Barthes aveva avvisato, «L’immagine è lì, davanti a me, per me: coalescente (significante e significato ben fusi insieme). […]» (Barthes 1994: 148), occorre tornare ad interrogarsi sulla valenza e la struttura di una tale coalescenza. Come ho indicato altrove (Scarafile 2004, ma anche 2003), la specificità di funzionamento dell’immagine filmica può essere indagato con profitto richiamando la distinzione tra «segni indicativi», o segnali (Anzeichen) e i «segni espressivi» o espressioni (Ausdrücke) di cui Husserl parla nella Prima della Ricerche logiche. In tal senso, l’immagine fornisce dunque un esempio di percorso necessario per un approccio fondativo di una filosofia del cinema, che pur riconoscendo piena validità al fenomeno ritiene di non potersi soffermare ad esso. L’immagine filmica, dunque, è essa stessa un segno espressivo: perché, mentre mostra la possibilità di una processione oltre il puro dato fenomenico è, essa stessa, prova provata dell’esistenza di un ordine eidetico. 12 Vorrei segnalare che lo stesso tema del patico consente un rinvio alla struttura stessa dell’espressione che, come ha sottolineato Franzini, segna «una sintonia affettiva tra l’essenza del mondo e in sentire precategoriale dei soggetti» (Franzini 2005: 5)

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MEDICINA | TESTIMONIANZA

Aldo Casto

IL MEDICO COME ARTISTA

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«L’

I dubbi del medico. Quando la professione diviene vocazione di ricerca della verità.

età dell’uomo scorre velocemente ed in più è difficile ed incerta, mentre al suo confronto la medicina non ha confini essendo basata completamente su congetture e legata ad elementi instabili», scrisse Plinio. Se la medicina è un’arte, questo non esime il medico dal conoscere il “tutto” di tante discipline, fuggendo dalla prigione costruita dall’abitudine, per tentare sempre, studiando, di migliorare coloro – come sostiene Galeno - «che perdono tempo tergiversando e mettendo in seconda linea l’essenziale». Avrei dovuto conoscere queste citazioni prima di decidere di studiare per diventare un medico: forse avrei cambiato idea ed avrei studiato qualcos’altro. Ma per me iniziare la scuola elementare e voler diventare un medico è stata una azione simultanea. Non sapevo ancora scrivere, ma ho iniziato la scuola elementare con un sogno: diventare un medico. Non so come mi sia venuta questa passione. Ho però la piena consapevolezza che essa è stata alimentata da un sacro fuoco interiore il cui carburante proveniva dal profondo della mia anima. Un fuoco che non si è mai spento, anche quando ho incominciato a guardare il mondo non più con gli innocenti occhi di un bambino, ma con quelli di un adolescente sognatore prima e poi con quelli di un adulto disincantato. Ancora oggi esso arde e riscalda la mia anima, mi sorregge la mente e mantiene caldo il cuore anche quando verrebbe voglia di ritirarsi in silenzio, amareggiati dallo scadimento del rapporto umano e professionale fra medico e paziente. In questi anni, è cambiata in me l’idea che avevo della medicina in qualità di

scienza. Ho sempre pensato, come credo tutti i pazienti immaginano, che la medicina fosse una scienza esatta. Ebbene, non lo è. Mi spiego meglio. Ho sempre creduto che a un corredo sintomatologico corrispondesse una diagnosi e quindi una terapia. Niente di più sbagliato. Esistono svariate malattie che possono manifestarsi con lo stesso sintomo ed esistono numerose modalità di curare una stessa malattia. E poi, il corpo umano, questa meravigliosa e straordinaria macchina, non reagisce in modo uguale allo stesso insulto patologico e ad una medesima terapia. E l’aspetto più divertente di questa scoperta è che io mi ritrovo ad essere non uno scienziato alla Galileo Galilei o alla Isaac Newton, secondo i quali se una mela si stacca da un albero, deve necessariamente cadere al suolo, se siamo sulla terra. Mi ritrovo piuttosto ad essere un artista, tipo un musicista, che ascoltando le note emesse da un essere umano (corredo sintomatologico) deve avere la capacità di comporre uno spartito (fare la diagnosi) che sia orecchiabile (la giusta terapia) ed accattivante (guarigione della malattia). Per me è stato uno shock molto violento aver capito di non poter fondare l’attività di medico sulla certezza di tipo matematico, ma di dover agire costantemente con la metodologia del ragionevole dubbio. Avrei dovuto leggere prima l’opera di Leonardo Botallo, famoso medico astigiano del ‘500 che scriveva «L’Arte è ben riuscita nel suo compito quando per tutto il decorso della malattia non è stato omesso nulla di quanto comanda, o compiuto quanto essa vieta». In un primo momento vi è stata la delusione di non essere uno scienziato, ma

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solo un artista seppur non nell’accezione comune del termine. In seguito si è aggiunta la scoperta di quanto sia stressante l’esercizio dell’Arte Medica. Provate ad immaginare di essere invisibili in modo da poter assistere ad una visita. Poniamo il caso che si presenti in ambulatorio un paziente che ci riferisce della comparsa di un sintomo molto comune come può essere la tosse. Tutti sappiamo che la tosse può essere la spia di una banale faringite, oppure di una bronchite o l’esordio di una neoplasia polmonare o del cavo oro-faringeo. Oppure, peggio ancora per me, il sintomo di una malattia psichica o l’espressione di un disagio psicologico. Bene, di fronte ad un paziente che tossisce, cosa dovrei fare? Visitarlo, è ovvio, raccogliere un’accurata anamnesi, è banale, ma devo prescrivere al paziente tutti gli esami possibili ed immaginabili per escludere o confermare una patologia? Un tale modo di agire sarebbe improponibile. Saremmo infatti la causa di un ulteriore allungamento delle liste di attesa per eseguire un esame. Non mi rimane dunque che cercare di scoprire quale sia l’eziologia della tosse del paziente, dando il via all’apertura di tutti i files della mia memoria. Questo però può non essere sufficiente ed allora via ad aprire i files dei documenti salvati nella galleria-immagini, nella quale abbiamo immagazzinato tutti i volti dei pazienti che abbiamo visitato e che presentavano quello stesso sintomo (esperienza personale diretta). Ma a volte anche questo non basta e allora apriamo altri


è pienamente consapevoli di avere una conoscenza limitata. Questo al paziente non lo si può dire e nel contempo non si può essere così superficiali da tranquillizzare o allarmare inutilmente l’ammalato, che seduto di fronte a te sta osservando ogni minima espressione del tuo viso e ogni inflessione della tua voce, per cercare di capire se sia affetto da una malattia grave o lieve. E mentre l’ammalato ti sta osservando in trepida e speranzosa fiducia nelle tue capacità divinatorie, il medico che è in te piomba nella tragedia nel momento in cui si chiede quanto sia grande e completo il suo sapere. Infatti, la consapevolezza che ogni singolo medico possiede una conoscenza limitata non solo della medicina in toto, ma anche della singola specializzazione che egli possiede plana sulla tua anima e come un’aquila rapace ghermisce la tua baldanzosa sicurezza, raggiungendo l’acme del tormento interiore quando si scopre che la cosiddetta medicina ufficiale non conosce l’eziologia di tutte le malattie né conosce la terapia per ogni malattia. Per chiarire le cose, illustro un esempio che riguarda la mia specializzazione. Le cause del mal di schiena (il cosiddetto low back pain, per chi volesse cimentarsi in una ricerca in internet) sono tante, alcune ben conosciute e che hanno un iter diagnostico terapeutico ben definito e standardizzabile, tale da far ripensare che la medicina potrebbe essere una scienza esatta (ernia del disco, instabilità vertebrali, stenosi del canale vertebrale ecc. ecc.: diagnosi-trattamento-guarigione), ma anche altre cause non conosciute, non documentabili (esami strumentali negativi), non responders alle terapie farmacologiche e fisioterapiche tradizionali. Eppure, queste cause sono poi trattate e guarite da osteopati o agopuntori. Purtroppo oggi si è indotti a credere

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files, quelli della memoria condivisa, tutto ciò che ci si scambia durante la partecipazione a corsi, congressi e stages (esperienza clinica indiretta). Tutto questo lo devo necessariamente eseguire mentre visito l’ammalato, mentre gli parlo e prima che io dica anche soltanto una parola: il paziente vuole una risposta che io devo dare alla fine della visita. Non può tornarsene a casa senza che io abbia formulato un’ipotesi diagnostica. Il paziente deve andare via con una certezza che io potrei ancora non avere. È quello che io chiamo la rappresentazione del dramma della diagnosi: nonostante ci si possa affannare a studiare, a leggere, ad aggiornarsi, si

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Il medico allora deve fare la sua parte, che è quella di studiare, imparare, esercitarsi, sperimentare e confrontarsi con il mondo scientifico. Tutto questo e molto altro deve fare un medico per essere apprezzato e per perfezionarsi nell’esercizio dell’arte medica. Ma il rapporto medico-paziente è influenzato da tante variabili. Riporto un altro passo del Botallo: «Ma neanche è sufficiente che il medico non si perda in frivolezze, che si dedichi ai fondamenti dell’arte e viva rettamente; la sua corretta applicazione richiede ben altre qualità oltre a queste, in modo da essere accolto con fiducia e gratitudine dagli ammalati e da quanti li assistono. Il medico, a sua volta, riesce a procurarsi la fiducia dei pazienti, quando felicemente applica con la sua arte le conoscenze apprese nelle lezioni e nei libri. Ma non sempre l’aver riacquistato la salute fa lodare il medico, né un decesso ne diminuisce il prestigio, ma ambedue - lode e diminuzione di prestigio - possono essere generati sia dall’uno che dall’altro

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esito. Non vi è lode per il medico quando, invece della morte precedentemente pronosticata, sopravvenga la guarigione oppure che una malattia prevista di lunga durata abbia un decorso rapido o che invece di uno breve abbia un lungo decorso e anche quando nessun effetto produca una medicina, oppure sia il malato sia coloro che gli sono vicino ricusino un qualche procedimento curativo che il medico abbia dichiarato essere il solo capace di guarire”. Non mi rimane che descrivere un medico perfetto degli anni 2000 facendolo fare ancora una volta ai maestri del passato: «Il medico saggio, onesto ed esperto, che non cerca facile popolarità, ma saldo prestigio, non solo non deve raccontare frottole, ma cercare con tutte le sue forze di essere franco con parole ed azioni. In tal caso i pazienti e coloro che li assistono gli attribuiranno una meritata fiducia. A far sì che un medico sia perfetto è colui che sbaglia di meno ed esercita nel miglior modo la sua arte non trascurando ciò che solitamente ha influenza sul paziente e cioè il portamento, il modo di parlare, l’aspetto, l’abito, il taglio dei capelli, le unghie, l’odore della persona». Ed ancora «È di per se stessa una ricompensa prestare la propria opera ai derelitti. Puoi considerare povero colui che, pur riconoscendo di dover pagare il medico con otto, tre, una liretta, e anche meno, non abbia sottomano o custodito il denaro per l’onorario e per acquistare ciò che si è prescritto; se questi non è un indigente, consideralo allora un avaro; in

entrambi i casi comunque ti conviene prestare la tua opera senza pensare a qualche vile ricompensa, se non vuoi apparire più povero del povero e più avido di denaro del più sordido avaro».

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che il medico si diventato il Signore della vita e della morte, grazie ai numerosi progressi della biotecnologia. Le molte trasmissioni televisive ci fanno apparire imbattibili ed invincibili, facendoci dimenticare quello che Galeno diceva: «L’età dell’uomo scorre veloce, oltre che ad essere difficile ed incerta, mentre al suo confronto la medicina non ha confini, basata com’è completamente su ipotesi e legata ad elementi instabili, soggetti a numerosi ed improvvisi mutamenti».

Come avevo detto all’inizio, dunque, la figura ideale del medico descritto dal Botallo nel XVI secolo continua ad esercitare il suo fascino per tutti noi, soprattutto quando veniamo a trovarci nella condizione di non essere più in perfetta salute.


blackboard Debenedetti Franco; Pilati Antonio, La guerra dei trent’anni. Politica e televisione in Italia (1975-2008), Einaudi 2009 Quattro quesiti referendari, diciotto sentenze della Corte costituzionale, un paio di crisi di governo: per trent’anni, la questione televisiva si è intrecciata con le vicende politiche italiane. Non è successo in nessun altro Paese occidentale; in nessuno il proprietario di quasi metà dei canali televisivi nazionali si presenta alle elezioni cinque volte in quattordici anni, per tre volte le vince e diventa capo del Governo. Più di trent’anni è durata la “guerra” televisiva. Le sue radici affondano nella critica all’industria culturale. Le sue battaglie sono state parte di un gioco che aveva per posta l’assetto politico del Paese: gli anni Ottanta, l’ascesa del Cavaliere, il formarsi dell’Ulivo e la sua fine con la caduta del Governo Prodi, le leggi Maccanico, Gasparri e Gentiloni, la travagliata esistenza del PD, il naturale alternarsi dei cicli politici. E, ora, i giorni scuri in cui alcuni potrebbero perdere fiducia nel futuro del capitalismo. Da trent’anni la questione televisiva ingombra la scena politica italiana. Può essere piantata come bandiera dell’opposizione al centrodestra berlusconiano. Oppure può essere studiata per capire le cause delle tante anomalie italiane, di cui fa parte. Fazioli Biaggio Erina, Video dipendenti o videointelligenti? Per un uso corretto della televisione, Red Edizioni 2009 La televisione ha invaso le nostre case con una presenza ingombrante, dominante, soprattutto sui bambini. Televisori sempre più tecnologici sono entrati in tutte le stanze e una miriade di canali, digitali e non, fornisce un’offerta praticamente illimitata a ogni ora del giorno. Ma non è detto che sia una sciagura, occorre semplicemente imparare a utilizzarla con intelligenza, senza demonizzarla. Questo libro è un aiuto per impostare un rapporto con la televisione maturo e consapevole partendo da tante situazioni quotidiane diffusissime. È rivolto ai genitori, ma grazie ai disegni può catturare anche l’attenzione dei bambini un po’ più grandi. Oltre ai consigli e alle riflessioni dell’autrice raccoglie citazioni di Anna Oliverio Ferraris, psicologa; Giancarlo Rigon, neuropsichiatra infantile; Vera Slepoj, psicologa; Bruno Bettelheim, psichiatra; Cristina Lastrego e Francesco Testa, scrittori, e molti altri.. Marinozzi Francesco, Lo schermo del quotidiano. Lo spettacolo nella neo-televisione, Effatà 2009 La televisione è, oggi più che mai, un linguaggio spettacolare, una simulazione volta a mettere in scena la vita: l’ordinario, il consueto, il quotidiano, presentato come tale. Nel tentativo di avvicinarsi allo spettatore, dunque, il broadcaster parla con il linguaggio dell’esistenza, cioè porta, riproduce e fa rivivere la vita di tutti i giorni. È questo lo spettacolo nella televisione contemporanea, né più né meno che una “simulazione della quotidianità”. La tv tende a diventare uno strumento di puro intrattenimento, pienamente e felicemente inserito in un regime di concorrenza, in un regime, cioè, dove quasi ogni mezzo è lecito per “rosicare” ascolti all’avversario, dove il divertire dev’essere un servizio a portata di mano, un servizio accessibile in qualunque momento della giornata. Il testo analizza le caratteristiche attuali del medium televisivo a confronto con la tv delle origini, segnata da un forte intento pedagogico. E suggerisce allo spettatore chiavi di lettura e interpretazioni per un utilizzo critico del mezzo.

grammi, degli effetti sui comportamenti sociali, dei rapporti con la politica, del suo impatto su questo o quel fenomeno della vita quotidiana... Pochi sono però i testi che analizzano la televisione come fenomeno di imprese che perseguono obiettivi economici. Che cosa significa gestire un’impresa televisiva? Quali sono le attività e le logiche per fare arrivare sugli schermi quello che vediamo tutti i giorni? Su quali componenti economiche si regge l’attività televisiva e come condizionano i programmi da trasmettere e le relative fasce orarie? Nuova edizione completamente rivista ed aggiornata (anche nel titolo) del primo testo sull’argomento, “L’impresa televisiva”, il volume risponde a queste domande e offre a tutti coloro che studiano, lavorano o sono interessati alla televisione uno sguardo ampio e profondo sulla dimensione economica e manageriale della sua realtà complessa. Ercolani Stefania, Rognoni Carlo, Da mamma Rai alla Tv fai da te. Guida alla televisione di domani, RAI-ERI 2009 C’era una volta la televisione... e sempre ci sarà. Quello che cambia è il modo di vederla. Siamo passati “da mamma Rai alla tv fai da te”, da un consumo passivo a un uso interattivo, dall’idea di un televisore caminetto intorno al quale raccogliere tutta la famiglia a uno schermo in ogni stanza. Di più, alla tv sul computer, sul telefonino, a casa, in ufficio, in mobilità. Se una volta si manteneva solo con il canone e poi con la pubblicità, adesso si nutre e divora milioni di abbonamenti a pagamento. La pay tv, la pay per view, il video on demand raccolgono ormai un terzo di tutte le risorse del sistema radiotelevisivo. È una rivoluzione: che parte dalle tecnologie digitali, dalla convergenza fra tv, telefono e computer, per arrivare a sconvolgere le abitudini, il costume, l’economia degli individui. Non va dimenticato mai che dopo il sonno e il lavoro guardare la tv è ancora oggi in assoluto l’attività che ogni giorno occupa più tempo. Che cosa è e come si costruisce un palinsesto? Perché si parla di meticciato dei generi tv? Che cosa è “la stagione di garanzia” e chi se l’è inventata? Quanto pesa aggiudicarsi i diritti sportivi? Perché nella battaglia degli ascolti la fiction rende di più di un film? Che cosa è un mux? Serve ancora il servizio pubblico e se sì come dovrebbe cambiare la Rai? Siamo sicuri che le leggi che abbiamo siano all’altezza dei nuovi tempi? Perché il rapporto fra partiti e televisione continua a creare problemi? Maio Barbara, La terza golden age della televisione, Edizioni Sabinae 2009 La serialità televisiva, la cosiddetta “fiction”, rappresenta oggi un testo dal valore altissimo in termini di prodotto culturale ed economico. Dal 1996, anno in cui Robert J. Thompson pubblicava “Television’s Second Golden Age”, le produzioni di “tv di qualità” sono sempre più diventate la norma nei palinsesti contemporanei. Questo volume analizza la serialità televisiva contemporanea alla luce di elementi produttivi, autoriali e di cultura popolare in un’era che è possibile definire Terza Golden Age della Televisione.

Sensi Giulio, Informazione, istruzioni per l’uso. Vademecum per un consumo responsabile di giornali, radio e televisioni, Terre di Mezzo 2009 Viviamo il paradosso di una società in cui siamo in grado di raggiungere ogni angolo del pianeta attraverso i mezzi di comunicazione, eppure Demattè Claudio; Perretti Fabrizio, Economia & management siamo sempre meno informati. I grandi mezzi di comunicazione sono in della televisione. Nuova edizione de «L’impresa televisiva», Etas mano a pochi gruppi multinazionali, e dipendono sempre più dalle pubbli2009 cità e dagli inserzionisti. Questa piccola guida spiega come districarsi nel La televisione rappresenta ancora lo strumento di comunicazione panorama dei media, come “difendersi” dall’informazione, ovvero come più diffuso in tutto il mondo, assorbe gran parte del tempo libero delle persone ed è il mezzo di informazione e intrattenimento più utilizzato. Per “leggere” le notizie e come selezionarle, e indica le fonti migliori dove trovaquesto non stupisce il gran numero di libri che ne parlano - dei suoi pro- re quello che giornali e tv trascurano o censurano.

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SOCIOLOGIA Corrado Punzi

VEDI BUIO, FORSE È LUCE

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I paradossi dell’opinione pubblica e della democrazia

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1. José Saramago: una decostruzione allegorica della democrazia «Non fidarti dei tuoi occhi/delle orecchie tue diffida/ vedi buio/ forse è luce» (Brecht 2005: 112). Quando Brecht scrisse questi versi ancora la società non era così complessa come oggi, ancora il mondo si poteva esperire in modo più immediato, ancora la nostra conoscenza della realtà non era così affidata ai media della comunicazione di massa. Brecht, però, probabilmente già pensava che «ciò che conosciamo quando conosciamo la realtà, è tutt’altro che la realtà» (Luhmann 2000: 12). Già pensava che fosse necessario approcciarsi in modo diverso alla realtà, estraniarsi da essa, adottare un altro punto di vista, raggiungere una distanza critica.

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paradossi Probabilmente lo scrittore premio Nobel José Saramago aveva in mente questo verso di Brecht, quando ha pensato agli abitanti di un paese che così, all’improvviso, perdono la vista, a causa di una inspiegabile epidemia di Cecità. Poteva essere nera, come ogni cecità, ma Saramago, non a caso, ha pensato alla luminosità di una cecità bianca: forse proprio perché aveva letto quel verso di Brecht e pensava che nella cecità, paradossalmente, si potesse vedere di più o, quantomeno, vedere di non vedere. Per comprendere appieno il senso di questo libro è però necessario leggere anche la sua continuazione ideale: Saggio sulla Lucidità. Dalla sintesi di queste due allegorie, infatti, si può rintracciare una narrazione degli inganni dell’Illuminismo, del fallimento di un progetto che mirava a democratizzare il potere politico a partire dall’invenzione dell’opinione pubblica, cioè di un nuovo soggetto in grado di vedere il mondo tramite i lumi della ragione. Raccontando la cecità della modernità, Saramago nega l’utopia illuminista di pensare che la critica razionale di ogni cosa consentisse anche la presa su ogni cosa e quindi anche la presa del potere: dalla ragione universale al potere universale, come se la critica e il trasferimento della sovranità al popolo fosse davvero il potere del popolo. Nel secondo libro Saramago riprende i protagonisti di Cecità probabilmente perché, dopo aver criticato le capacità critiche dell’opinione pubblica, sente l’esigenza di criticare le possibilità di partecipazione che sono offerte al popolo dalla democrazia rappresentativa. Raccontando l’assurdo di un intero popolo che va a votare e vota scheda bianca, Saramago vuole dimostrare come il potere dell’opinione pubblica è consentito fino a quando l’opinione pubblica si attiene ad essere funzionale alla conservazione del sistema politico. Invece, la sua utopia eversiva è che tutti partecipino e votino, ma tutti scheda bianca. È come se la cecità bianca avesse consentito a tutti di vedere cosa si nasconde dietro la democrazia e di trovare l’unico modo non violento per rendere evidente il suo paradosso. Questo è il saggio di Sara-

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mago sulla democrazia, il suo Saggio sulla Lucidità. È chiaro che quella descritta dallo scrittore portoghese è una lucidità altamente improbabile, se non impossibile, ma è il suo modo estremo per vedere e far vedere buio. O forse luce. Cosa si vede, allora, quando si osserva democrazia? Come è possibile capire che ogni verità, e quindi anche quella democratica, è solo un’invenzione di un bugiardo? (Von Foerster, Porsken 1994). Chi è allora, il bugiardo? Qual è la menzogna che si nasconde dietro democrazia? Quale il suo paradosso?

2. L’illuminismo sociologico dei paradossi I paradossi sono sempre stati giudicati come ostacolo all’argomentazione, fino a quando una teoria, quella dei sistemi, non li ha utilizzati come piedi di porco per scardinare quella che le dogmatiche chiamano realtà, e per scoprire che dentro, o sotto, non c’è poi niente. O forse c’è tutto, e tutto quello che ogni osservatore ci vuole mettere per conservare il suo potere di auto-legittimare le sue descrizioni e decisioni, come vincolanti. Paradossi sono, pertanto, quei termini che nascondono in sé il contrario di ciò che presentano. Essi vengono accettati solo perché resi delle autoevidenze e quindi non problematizzati. Se si assume, invece, che i concetti non designano significati, ma hanno solo la funzione di ridurre un problema tramite la percezione di chi l’osserva, si comprende come il concetto di democrazia presenti solo l’abbagliante idealità della partecipazione del popolo al potere, ma occulti la fattualità di una partecipazione che è limitata al procedimento elettorale, alla scelta di scelte già pre-selezionate. Osservare i paradossi non significa proporre soluzioni, ma quantomeno vedere di non vedere, capire che ogni descrizione della realtà opera per distinzioni e ogni distinzione prevede un’altra parte che ogni volta viene elusa. Osservare il paradosso significa illuminare l’altra parte e quindi descrivere i paradossi

della democratizzazione vuol dire osservare il lato oscuro di quel processo che ha portato gli uomini dall’obbedienza alla tradizione o al carisma di un sovrano all’obbedienza alle norme poste dalla ragione. Il lato oscuro è quel lato che se fosse stato visto avrebbe inceppato il sistema, bloccato le sue operazioni, perché avrebbe chiarito che le condizioni della possibilità di un’operazione sono contemporaneamente anche le condizioni della sua impossibilità. Osservare il paradosso, pertanto, non significa risolvere un problema, ma ampliarlo, riconsiderarlo nella sua complessità, consegnarsi nuovamente al buio. Il processo di democratizzazione del potere politico occidentale è descrivibile in infiniti modi. Qui, però, presenteremo brevemente soltanto due di questi, perché essi consentono anche di strappare il cielo di carta dietro cui si nasconde il paradosso di questo processo. Il primo modo ci permette di osservare il paradosso del principio illuminista di pubblicità ed è l’analisi dell’evoluzione del rapporto tra il concetto di potere e quello di pubblico; il secondo modo consente invece di descrivere la funzione di controllo attribuita dal potere all’opinione pubblica, a partire da una possibile relazione tra i sistemi politici occidentali e il sistema religioso cristiano. La genealogia della democrazia rappresentativa, cioè, può essere descritta a partire dal momento in cui il pubblico borghese, cioè il pubblico dei privati proprietari, percepisce come problema la sua non-autonomia dal potere del sovrano e percepisce gli arcana imperii come ostacolo all’obiettivo della propria indipendenza. Chi osserva il potere assoluto del sovrano come un problema è quindi la razionalità illuminista del nascente pubblico borghese, che è anche il “bugiardo” che inventa e presenta all’altra parte del pubblico, quella dei non-proprietari, una nuova forma di potere: la democrazia. Con essa, da una parte si concede libertà e sovranità e, dall’altra, imitando i dispositivi della pastorale cristiana, si adottano le discipline affinché il potere concesso resti un potere docile.


democrazia 3. Il paradosso della pubblicità del potere

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A partire dal XVIII secolo, quando i concetti di pubblico e di potere si differenziano, cioè quando pubblico smette di coincidere con potere e di essere un suo attributo, si frantuma la struttura gerarchica del potere e si forma una nuova struttura circolare. Circolarità è possibilità di prevedere giuridicamente non solo un potere del potere politico sul pubblico, ma anche un potere del pubblico sul potere politico, se si indica, con pubblico, «la popolazione considerata dal lato delle sue opinioni, dei suoi modi di fare, dei suoi comportamenti [...]» (Foucault 2005: 66). Un punto di vista introdotto dalla nuova filosofia utilitarista e dal nascente pensiero liberale.

Intorno a questa nuova idea di pubblico, tuttavia, non è stato solo possibile costruire una nuova struttura del potere, o una nuova costruzione normativa, ma anche il cielo di carta che occulta i paradossi delle nascenti democrazie. Da pubblico, infatti, si sono derivati concetti come pubblicità e opinione pubblica che hanno avuto la funzione di presentare la democratizzazione del potere, ma anche di coprire i paradossi della nuova struttura circolare. Pubblicità e opinione pubblica nascondono in sé, cioè, il problema degli arcana e quello della sovranità popolare. La differenziazione tra potere e pubblico, e quindi la democratizzazione del potere, è possibile solo nel momento in cui, in età liberale, la sfera privata, contem-

poraneamente all’economia, guadagna la propria autonomia dalla regolamentazione mercantilistica dello Stato. Nello stesso momento il concetto di pubblico può evolvere semanticamente e funzionalmente, acquisendo anche una nuova referenza, che rende anch’esso autonomo dal potere. Prima, invece, pubblico era un termine che non poteva essere scisso dal concetto di potere. Durante l’assolutismo, infatti, pubblico si riferiva esclusivamente a tutta la sfera che atteneva lo Stato, così come, durante il Medioevo, publicus era addirittura sinonimo di signorile. Solo a partire dal XVIII secolo, con la diffusione della filosofia utilitarista e del pensiero liberale, pubblico smette di coincidere esclusivamente con potere. Pubblico

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opinione pubblica non indica più soltanto il potere statale, ma anche quei privati che, in possesso di proprietà e di cultura, si riuniscono come pubblico letterario prima, e politico poi. Sono questi privati che, in segreto, si riuniscono come pubblico e portano avanti la lotta alla struttura gerarchica del potere. La moderna società civile, presupposto di un potere democratico, è infatti, come sostiene Lessing, frutto della Libera Massoneria, cioè di quelle associazioni segrete di privati che aspirano a frantumare la struttura gerarchica del potere e il particolarismo dei privilegi connessi a quella struttura: «per sua natura, la massoneria è tanto antica quanto la società borghese. Entrambe non potevano che nascere contemporaneamente, se addirittura la società borghese non è un rampollo della massoneria» (Koselleck 1972: 87). Da questa prospettiva, l’opinione pubblica come soggetto storico riesce a imporsi come terzo potere accanto allo Stato e alla Chiesa non grazie alla pubblicità, ma piuttosto grazie

PERCORSI

Per un approfondimento dei temi del saggio si veda: Bernini, L. 2008. Le pecore e il pastore. Napoli: Liguori. Cristante, S. 2009. Comunicazione [è] politica. Lecce: Bepress. Kelsen, H. 1995. La democrazia. Bologna: Il Mulino. Lippmann, W. 2004. L’opinione pubblica. Roma: Donzelli. Luhmannn, N. 1978. Stato di diritto e

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al segreto. L’opinione pubblica, pur criticando i misteri della Chiesa e gli arcana del sovrano, nasce ad imitazione di entrambi, perché anch’essa si fonda sul segreto. Il paradosso è che il principio illuminista della pubblicità, fondato sulla visibilità e l’accessibilità, da un parte si contrapponesse agli arcana imperii e dall’altra fosse professato nelle riunioni segrete di privati: la lotta al segreto, in sostanza, inizia col segreto. Ancor più paradossale è che questi privati, nella costruzione del moderno Stato di diritto, non hanno dimenticato la loro passata esperienza del segreto e anziché distruggere gli arcana imperii, hanno fatto in modo che potessero nascondersi in una forma più moderna e civile, nonché legittima: il segreto di Stato. I privati, una volta divenuti pubblico, hanno potuto, cioè – dietro un sistema di norme – mettere a frutto, la loro passata esperienza del segreto, nella moderna giuridica costruzione paradossale, che include contemporaneamente pubblicità e sistema sociale. Napoli: Guida. Noelle-Neumann, E. 2002. La spirale del silenzio. Roma: Meltemi. Sartori, G. 2004. Homo videns. Bari: Laterza. Sartori, G. 2006. Democrazia: cosa è. Milano: Bur. Watzlawick, P. 1976. La realtà della realtà. Roma: Astrolabio. Letteratura: Borges, J.L. 2005. Finzioni, Torino: Einaudi. Durrenmatt, F. 2007. La panne. Una storia ancora possibile. Torino: Einaudi. Durrenmatt, F. 2005. Giustizia. Milano: Marcos y Marcos. Kafka, F. 2005. Il processo. Torino: Einaudi. Pirandello, L. 2007. Uno, nessuno e centomila. Milano: Garzanti. Saramago, J. 2004. Saggio sulla Lucidità. Torino: Einaudi. Saramago, J. 1998. Cecità. Torino: Einaudi. Film: Indagine su un cittadino al di sopra di

Segreto di Stato, ma che esclude il segreto fuori dallo Stato (arcana seditioniis). Il potere visibile dello Stato ha diritto a rendersi invisibile in base al diritto, invece le nuove associazioni (di privati) non hanno diritto ad essere segrete. La società civile, nata dalla Massoneria, con la costruzione dello Stato di diritto, si difende quindi dal rischio che altri privati, riuniti in segreto - così come essa alla sua origine - possano minacciare il nuovo potere visibile; e, nel frattempo, si autogarantisce di poter ripetere la propria esperienza del segreto, ma questa volta all’interno del nuovo Stato civile. Il potere moderno ha diritto ad essere potere (pubblico), ma ha diritto anche ad essere segreto, nei limiti posti dal diritto, che a sua volta è posto dal potere. Nonostante il principio della pubblicità, quindi, solo le associazioni segrete (dei nuovi privati) sono vietate (art. 18 della Costituzione italiana), mentre gli arcana imperii continuano ad esistere, e legittimamente: ciò che cambia ogni sospetto. Regia di Elio Petri. Con Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan, Orazio Orlando, Gianni Santuccio, Salvo Randone. Italia 1970. L’onda. Regia di Dennis Gansel. Con Jürgen Vogel, Frederick Lau, Max Riemelt, Jennifer Ulrich, Jacob Matschenz. Germania 2008. Pasolini, un delitto italiano. Regia di Marco Tullio Giordana. Con Claudio Amendola, Giulio Scarpati, Nicoletta Braschi. Italia 1995. Piazza delle Cinque Lune. Regia di Renzo Martinelli. Con Donald Sutherland, Stefania Rocca, Giancarlo Giannini, Nicola Di Pinto, F. Murray Abraham. Italia 2003. Quarto potere. Regia di Orson Welles. Con Everett Sloane, Paul Stewart, Joseph Cotten, Alan Ladd, Agnes Moorehead. USA 1941. Sbatti il mostro in prima pagina. Regia di Marco Bellocchio. Con Gian Maria Volonté, Laura Betti, Jacques Herlin, Carla Tatò, Fabio Garriba. Italia 1972. Segreti di Stato. Regia di Paolo Benvenuti. Con Antonio Catania, David Coco, Sergio Graziani, Aldo Puglisi, Francesco Guzzo. Italia 2003.


pubblicità è che il segreto statale non è più connesso all’arbitrarietà del sovrano, ma è regolato da un sistema di norme. La differenza è che ora è possibile stabilire, mediante regole, i casi in cui sia lecito, da parte dello Stato, l’impiego di segreto. L’oscurità degli arcana imperii è sostituita dalla luminosità dei nuovi segreti-pubblici. Un ossimoro che indica la possibilità paradossale del segreto di Stato.

4. La domesticazione cristiana della biopolitica Così come l’idea di pubblicità ha occultato il nuovo diritto al segreto di Stato, allo stesso modo l’opinione pubblica ha reso possibile e legittima l’attribuzione della sovranità al popolo, ma ha nascosto l’artificialità di questa attribuzione e la realtà di un pubblico che non solo non può avere nella sua totalità opinioni su tutti gli affari della res publica, ma soprattutto non ha alcuna sovranità. L’occultamento del paradosso della sovranità popolare è stato reso possibile grazie alla combinazione di due filosofie apparentemente contrastanti: da una parte, la nuova filosofia utilitarista e liberale che ha scoperto visibilità, accesso universale e quindi Libertà e, dall’altra, la vecchia filosofia pastorale cristiana che ha inventato la disciplina. In sostanza, si può ipotizzare che i Lumi abbiano concesso la libertà e il potere al popolo, quando sono stati sufficientemente sicuri che l’acquisizione politica della filosofia pastorale cristiana potesse garantire la docilità politica del popolo, tramite l’adozione di dispositivi disciplinari. Se, in modo formale, il regime rappresentativo permette che direttamente o indirettamente, con o senza sostituzioni, la volontà di tutti formi l’istanza fondamentale della sovranità, le discipline forniscono alla base, la garanzia della sottomissione delle forze e dei corpi. Le discipline reali e corporali hanno costituito il sottosuolo delle libertà formali e giuridiche (Foucault 1993: 242).

Foucault propone l’ipotesi che il potere politico occidentale abbia mutuato le funzioni del potere pastorale cristiano e che quindi la politica occidentale sia sostanzialmente un affare da ovile. A suo avviso, cioè, la nascita di un biopotere che si occupa non solo dell’essere, ma anche del ben-essere della sua popolazione è possibile solo perché esso è contemporaneamente un potere disciplinare che nell’idea del governo degli uomini riproduce l’idea cristiana della condotta delle anime e la figura del pastore che conduce il proprio gregge verso la salvezza. Questo nuovo potere è modesto, se confrontato con i rituali maestosi e gli eccessi trionfanti dello Stato assoluto, ma è permanente e non pensa a distruggere in modo evidente e repentino, ma a manipolare in modo discreto e lento. La sua costanza e la sua attenzione per il dettaglio, inoltre, consentono che la manipolazione dell’individuo possa diventare una vera e propria fabbricazione disciplinare della persona. Questa idea è molto vicina a quella di Elias Canetti della domesticazione del comando, cioè della capacità umana di rendere docili alcune specie animali, in modo da consentire loro l’ingresso nella domus. Paragonando i due approcci analitici completamente differenti, si potrebbe infatti sostenere con maggiore convinzione che Foucault ritenga che la trasformazione del suddito in cittadino, cioè il suo ingresso nella domus della sovranità politica, sia stato possibile a partire dall’invenzione delle discipline e quindi dall’imposizione alle forze del corpo umano dell’utilità economica e soprattutto della docilità politica. Del resto l’ipotesi foucaultiana della trasformazione della politica occidentale in un affare da ovile converge anche in altri punti con l’analisi che Canetti svolge in Massa e potere sul cristianesimo e sull’addomesticamento delle masse religiose, sulla loro trasformazione in «un gregge duttile» (Canetti 2004: 29). Secondo Canetti, caratteristica di ogni massa naturale è il suo desiderio di accrescimento e la sua capacità di costituirsi come un corpo unico, che consente l’abbattimento di tutte le distanze sulle qua-

li si fonda ogni aspetto della vita sociale. Una volta terminato questo accrescimento e raggiunto l’obiettivo prefissato, però, questo tipo di massa aperta, si estingue. Queste masse non hanno un unico luogo di ritrovo e sono caratterizzate da imprevedibilità. È per questo che il cattolicesimo, come religione di condotta, ha preferito sostituirle con masse chiuse, più interessate alla durata che alla crescita: la massa viene istituzionalizzata. Tramite la ripetizione dei riti e dei luoghi (le chiese), è possibile «catturare la massa» ed assicurarle «una sorta di esperienza addomesticata di se stessa» (Canetti 2004: 25): è possibile, cioè, che i fedeli eliminino le distanze tra loro – come avviene in ogni altra massa – evitando il rischio, però, che essi abbiano una condotta autonoma e indipendente dal volere del pastore. La messa ha proprio questo scopo: annullare l’imprevedibilità della massa. Per questo nel cattolicesimo la massa più importante è quella degli angeli e dei beati, cioè la più innocua e mite delle masse: una massa che non ha né obiettivo, né direzione. Il suo stato è definitivo, perché non attende e non vuole nulla. La diffidenza della Chiesa per le masse terrene, però, non deriva solo dalla loro imprevedibilità e facilità ad eccedere, ma soprattutto dalla soppressione delle distanze su cui invece si fonda la gerarchia ecclesiastica. L’addomesticamento della massa religiosa perciò, non deve limitarsi alla sua chiusura in luoghi, tempi e modalità pre-definite, ma anche nella sua gestione da parte di un pastore che non è nella massa, ma è al di sopra della massa, su un altare, a orientare i fedeli verso l’unico obiettivo possibile: la comune venerazione. La massa dei fedeli non agisce, prega. E così alla massa dei fedeli è esclusa anche qualsiasi ipotesi di trasformarsi in massa di rovesciamento, cioè in un tipo di massa rivoluzionaria, un’ipotesi sempre altamente possibile o desiderabile da qualsiasi altra massa terrena. La massa cristiana viene così trasformata in un gregge che non può mai ribellarsi al suo pastore, ma assoggettarsi sempre di più, nell’attesa del raggiungimento dell’obiettivo della massa:

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domesticazione la sua salvezza. La massa religiosa può durare nel tempo perché allontana l’obiettivo nell’aldilà, il solo luogo dove è possibile che gli ultimi diventino i primi; in base a questo principio, anzi, è necessario accettare le spine dei poteri terreni e attendere con la pazienza e l’obbedienza pura degli umili. Si potrebbe sostenere, quindi, che il potere pastorale abbia insegnato al potere politico il modo per mitigare la massa dei cittadini. Le istituzioni statali, allo stesso modo di quelle religiose, tramite i propri rituali politici riescono infatti a fornire alla massa dei cittadini una esperienza addomesticata di se stessa. I tempi, gli spazi e i modi del sistema politico sono le sue procedure, giuridiche ed elettorali. Allo stesso modo del potere pastorale, il potere politico, in primo luogo si accontenta «di una passeggera finzione di eguaglianza tra i [suoi] fedeli, la quale però non è mai realizzata troppo severamente» (Canetti 2004: 30); in secondo luogo, tramite il procedimento crea la «disponibilità generalizzata ad accettare, entro certi limiti di tolleranza, decisioni il cui contenuto sia ancora indeterminato» (Luhmann 1995: 174). In questo modo, anche il sistema politico può durare nel tempo perché, da una parte, legittima il suo potere grazie a promesse elettorali (di “salvezza”) altamente generalizzate e, dall’altra, allontana la loro verifica (e quindi l’obiettivo) in un aldilà terreno. Pertanto, il popolo, come altra parte del potere, è un’invenzione del potere, e può essere sovrano solo come costruzione della politica. Il popolo sovrano è il popolo che non ha più potere, che non può più correre alle armi: è il popolo di singoli che vengono riconosciuti solo come volontà. Grazie alla democratizzazione del potere non si ha quindi un trasferimento di potere dal sovrano al popolo, ma solo delle nuove forme di potere e di legittimazione: si vuole impedire, in sostanza, che la sovranità diventi potere, ma resti invece, solo fonte del potere. La sovranità popolare costituisce, perciò, solo una finzione giuridica che ha la funzione di legittimare il potere politico. È per questo che la democratizzazione del

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EFFRAZIONI Jurgen Habermas è sicuramente uno dei sociologi che meglio ricostruisce la nascita dell’opinione pubblica, ma contemporaneamente la sua idealizzazione. In Storia e critica dell’opinione pubblica, infatti, descrive l’opinione pubblica come quel nuovo soggetto politico, critico e razionale, che ha reso possibile la trasformazione del potere e la costruzione delle democrazie rappresentative parlamentari. Ciò che lo distanzia maggiormente dal cosiddetto post-modernismo è proprio lo scopo della sua ricostruzione: reperire nell’opinione pubblica il sostegno normativo della democrazia. Egli, pertanto, utilizza una descrizione normativa della stessa democrazia, preoccupandosi più di ciò che essa dovrebbe essere e non effettivamente di ciò che essa è. Il suo progetto, d’altra parte, è risollevare la ragione dall’attacco del pensiero post-moderno, tant’è che il suo testo sull’opinione pubblica viene interpretato come una critica nei confronti della Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. Questi ultimi, infatti, contrariamente ad Habermas, rientrano nel postmodernismo poiché manifestano incredulità nei confronti delle metanarrazioni, cioè nell’idea di storia come progresso. Habermas, invece, non ritiene che la modernità abbia fallito, ma che essa rappresenti un progetto incompleto. Il percorso scientifico del sociologo tedesco costituisce quindi un tentativo di comprendere le possibilità di completare quel progetto: esse risiedono nella capacità di salvare la ragione come base della validità del processo di democratizzazione. Tale validità è spiegata a partire dalle procedure di libera concorrenza delle argomentazioni e quindi da un potenziamento del ruolo della comunicazione: solo la forza non coercitiva della migliore argomentazione determina l’individuazione dell’interesse generale. Ciò che in Storia e critica dell’opinione pubblica era una ricostruzione storica diventa una teoria di salvataggio della modernità nella Teoria dell’agire comunicativo (1981) e in Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992). In sintesi, mentre Habermas crede nei valori dell’Illuminismo e intende preservare le promesse auree di quell’epoca, la maggior parte di coloro che si occupano della democrazia in modo descrittivo e non normativo, osservano la dialettica dell’Illuminismo o i suoi paradossi. Ecco perché Foucault, ad esempio, scava nelle ceneri dell’Illuminismo per comprendere, dalla sua prospettiva, ciò che Luhmann chiama il valore del valore e le funzioni latenti di quelle promesse, il buio nascosto dai lumi. Il filosofo francese, infatti, trova nostalgico e anacronistico il tentativo habermasiano di completare il progetto della modernità e legittimare la democrazia partecipativa attraverso il ruolo attivo dell’opinione pubblica. Quello che fa Habermas mi interessa molto, […], ma vi è qualcosa che, per me, resta problematico: quando attribuisce un posto così importante e, soprattutto, una funzione che definirei “utopica” alle relazioni comunicative. Mi sembra che l’idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi di verità potranno circolare senza ostacoli, senza vincoli e senza effetti coercitivi appartenga all’ordine dell’utopia (Foucault 1998: 91).

Secondo Foucault, non solo è impensabile raggiungere il consenso sull’interesse generale tramite la libera concorrenza delle argomentazioni, ma è anche impossibile che le stesse argomentazioni possano essere libere, cioè aliene da giochi di potere. Egli non crede né al valore del consenso, né a quello della libertà, ma non per questo si può ritenere che egli sia contro il consenso, né ovviamente contro la libertà. Infatti, in una delle ultime interviste afferma che «non bisogna essere per la consensualità, ma contro la non-consensualità» (Foucault 2001: 202).


arcana imperii potere non indica alcun incremento della partecipazione popolare al potere. Democrazia è solo partecipazione ai procedimenti elettorali; indica partecipazione senza partecipazione, una nuova forma della platonica teatrocrazia. Tramite il procedimento elettorale è quindi soltanto avvenuta la sostituzione dell’arcaico favor romano degli dei con il moderno favor dell’opinione pubblica. D’altra parte, quando si parla di potere del popolo, è sufficiente anche solo rifarsi alla descrizione classica weberiana del potere come capacità di trovare obbedienza, per comprendere che il popolo non ha alcun potere. Il popolo è stato reso sovrano solo quando il potere è stato sicuro di aver trovato tutti i meccanismi per addomesticarlo. Tramite il procedimento, infatti, il popolo partecipa per escludersi: questo è ciò che si nasconde dentro il concetto di rappresentanza. Partecipando ci si auto-vincola ad accettare il risultato, che rimane sempre aperto durante il procedimento: la funzione del procedimento è principalmente, quindi, quella di assorbire protesta, far partecipare per addomesticare. D’altra parte è troppo difficile la possibilità di dissenso, anche perché tramite l’istituzionalizzazione delle aspettative, operata dal sistema politico, viene presupposto il consenso generale, al punto che, come sostiene Luhmann, «quasi tutti presuppongono che quasi tutti siano d’accordo» (De Giorgi 1998: 232). Su questa carenza di comunicazione tra gli elettori, e sulla loro semplificante presupposizione di consenso generalizzato, il sistema politico stabilizza il suo potere. […] è necessario che il consenso degli altri sia fittizio, presupposto, che “gli altri” non siano determinati, ma restino anonimi, non valutabili, e che non sia possibile interrogarli sulle loro opinioni. Le istituzioni allora si reggono su una sopravvalutazione del consenso effettivamente disponibile nel sistema sociale, e sul fatto che questa sopravvalutazione riesca ad avere successo […] (De Giorgi 1998: 232).

Qual è allora il potere del pubblico?

Che potere hanno le opinioni dell’opinione pubblica? Se democrazia non è, come non è, potere del popolo, è quantomeno – si dice – controllo del popolo sul potere politico. Da questa prospettiva, se la democratizzazione del potere delude le aspettative sul potere del popolo, quantomeno non deluderebbe le aspettative nella capacità del popolo di esercitare una funzione di controllo sul potere politico. Se democrazia non indica una vera sovranità popolare, indicherebbe quantomeno una nuova struttura del potere politico: una struttura circolare. Circolarità, però, dovrebbe essere almeno presenza di un’opinione pubblica capace di esercitare una funzione di controllo sul potere politico. Tuttavia, se si esce da una logica del dover essere e, strappando il cielo di carta normativa, si osserva ciò che sta dietro, si può vedere che anche l’opinione pubblica è una finzione giuridica, che ha la funzione politica di rendere irrilevante l’opinione del singolo, di assorbire la protesta. Il concetto di opinione pubblica è funzionale, perciò, non tanto a fornire legittimità al potere del popolo, ma a fornire al potere politico la possibilità di invocare sempre la volontà dell’opinione pubblica, di rifugiarsi nel dichiararsi suo legittimo rappresentante. Secondo quanto si affanna ripetutamente a ricordare il potere politico, infatti, è l’opinione pubblica a volere il potere del potere politico, cioè le sue decisioni: come se il consenso iniziale fosse esso stesso garanzia di democrazia e presupponesse un consenso per qualsiasi decisione, anche ai confini del quadro costituzionale. La generalizzazione delle aspettative dell’opinione pubblica, infatti, consente al sistema politico di prendere decisioni autonomamente e di rendere auto-evidente la propria legittimità. Adottando una logica riflessiva, però, e chiedendosi qual è l’opinione dell’opinione pubblica o chi fa l’opinione che poi diventa pubblica (Sartori 1995: 182), si può facilmente comprendere – come fa Bourdieu – che l’opinione pubblica non esiste. Qual è allora la funzione di controllo dell’opinione pubblica? Quale il potere del

pubblico?

5. L’opinione pubblica: un sorvegliante sorvegliato. Si dice che i Lumi abbiano scoperto la Libertà e con essa, sulle fondamenta del principio di pubblicità, abbiano costruito la democrazia. Eppure la storia recente italiana, tutta la sua democrazia, più che essere illuminata dal principio di pubblicità, è stata spesso illuminata dai bagliori accecanti di esplosioni che – come lo stesso potere visibile dello Stato ha chiarito senza chiarire – erano la base sanguinaria di una più generale strategia della tensione. Una strategia che il visibile governo statunitense, a partire dal dopoguerra, ha insegnato in apposite scuole militari a tutti gli apprendisti strateghi sudamericani e europei, che aspiravano a difendersi contro il comunismo allora, e l’islamismo oggi: entrambi descritti come nemici e minacce per la salvezza della popolazione, della sua vita biologica, ma anche spirituale, perché ogni nemico esterno o interno è anche un pericolo per la condotta delle anime, un modello di contro-condotta. La costruzione del nemico, d’altra parte, è finalizzata a giustificare o occultare un altro paradosso del biopotere contemporaneo: un potere che da un lato si occupa di proteggere e includere la vita della popolazione, ma dall’altro esclude alcuni individui e disciplina le loro anime e i loro corpi fino a «sospingerli nella morte» (Foucault 1978: 122). Come è possibile, in sintesi, che un potere che ha sostituito gli arcana con la pubblicità, la repressione con la produzione, la morte con la vita, adotti delle tattiche e delle strategie che prevedono le antiche armi del segreto, della disciplina, del supplizio? E’ difficile negare, infatti, che anche nella democratica Italia non sia stato applicato il principio dei teorici della ragion di stato: per rendere giustizia alle cose grandi, bisogna a volte negarla a quelle piccole. Un tema mutuato dal paradosso cristiano della salvezza che porta il pastore a sorvegliare omnes et singulatim,

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tutti e ciascuno, e ad essere disposto a sacrificare se stesso (cioè i suoi principi) per la salvezza di tutte le pecore o anche a sacrificare tutto il gregge per la salvezza della sua parte “migliore”. In uno Stato di diritto, la compatibilità tra servizi segreti statali e democrazia dovrebbe essere possibile tramite il controllo del potere invisibile dei servizi segreti da parte del potere visibile del governo che, a sua volta, deve essere controllato dall’opinione pubblica. Tuttavia, non si può dire che il popolo sovrano italiano, così come tanti altri nel mondo, sappia ciò che è accaduto, o abbia la possibilità di formarsi – come si dice – un’opinione. Né, semmai dovesse accadere, di rendere questa opinione capace di esercitare la sua funzione di controllo. Controllare, del resto, non significa nulla se non può avere una sua effettività, o se può averla, minima, solo ad ogni elezione. E comunque, anche se la maggior parte degli elettori riuscisse ad informarsi – cosa che nell’attuale società mediatica sarebbe, in linea di principio, più semplice – la sua possibilità di azione, e quindi il suo controllo, si ridurrebbe, al limite, solo al rifiuto di quei rappresentanti in carica ritenuti responsabili di un mal governo. Perché, se è vero che l’opinione pubblica può conservare o destituire determinati rappresentanti, è altrettanto vero che il suo controllo è limitato solo all’accettazione o al rifiuto all’interno di possibilità già pre-selezionate dal sistema politico. D’altra parte, in casi eccezionali come quelli delle stragi di Stato, neanche un’opinione pubblica informata può esercitare un vero controllo, se il controllo è limitato alla possibilità di destituire i rappresentanti ritenuti responsabili. Anche la possibilità di cambiamento, infatti, è preselezionata. L’effettivo controllo – quello che è capace di produrre anche un cambiamento effettivo - si ha quando, non solo si determina la caduta di un governo, ma si riesce a provare giuridicamente le sue responsabilità e a modificare anche i meccanismi di potere di quello che Bobbio chiama sottogoverno: quella parte semi-pubblica che continuerebbe ad operare secondo le

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FIVESTEPSWITH

LUCIANO CANFORA

Hans Kelsen ha analizzato il processo a Gesù come simbolo dell’antagonismo tra assolutismo e relativismo. Egli, cioè, ritiene che Gesù, in quanto possessore della verità, sia assolutista, mentre Pilato sia un relativista scettico che, per questo, si affida al procedimento democratico. Lei condivide l’idea kelseniana di una congenialità tra sistema politico democratico e relativismo empirico da un lato, e tra autocrazia e assolutismo metafisico dall’altro? Non ho mai pensato che i personaggi storici siano “simboli”. Lei condivide l’idea foucaultiana che il potere politico occidentale abbia mutuato le funzioni del potere pastorale cristiano e quindi che la politica moderna sia sostanzialmente un affare da ovile? Il potere pastorale è in evidente declino in Occidente mentre cresce nel mondo islamico. Lo scrittore Josè Saramago, nel libro Saggio sulla lucidità, ha immaginato utopicamente e paradossalmente un paese in cui tutti gli elettori si ribellano al potere costituito e votano scheda bianca, provocando un ritorno alla dittatura. Il sociologo tedesco Niklas Luhmann ritiene, invece, che in un sistema democratico sia troppo difficile la possibilità di dissenso perché, tramite l’istituzionalizzazione delle aspettative, viene presupposto il consenso generale, al punto che “quasi tutti presuppongono che quasi tutti siano d’accordo”. A suo avviso, se invece quasi tutti presupponessero che quasi tutti siano in disaccordo, sarebbe possibile il dissenso generalizzato, cioè rendere probabile l’improbabile? Credo che l’ipotesi di Saramago non stia in piedi. È verissimo ciò che scrive Luhmann: “viene presupposto il consenso generale”. Aggiungo che la macchina TV-giornali etc. consolida quotidianamente questo presupposto. La storia della democrazia italiana più che essere illuminata dal principio moderno della pubblicità, è stata accecata dalle esplosioni della strategia della tensione. Tentativi di golpe, stragi politiche e mafiose, presidenti del consiglio iscritti a logge massoniche o processati per associazione mafiosa, finanziamenti illeciti ai partiti: come è possibile non nutrire dubbi su questa forma di governo? Come è possibile credere ancora alla “favola” della funzione di controllo dell’opinione pubblica? Solo chi si era illuso può ora essere deluso. Da Eduard Meyer, a Lenin, a Gramsci, a Pareto, a Michels sono venute per tutto il XX secolo analisi illuminanti contro l’illusione che l’astratta forma delle procedure democratiche comportasse anche dei contenuti democratici. La democrazia, come processo razionale di creazione dell’ordine sociale, prometteva di porre fine all’età delle individualità, a un potere fondato sul riguardo alle persone. In realtà, nella microfisica del potere sembra che continuino a prevalere logiche arcaiche, un sottopotere fondato sulle appartenenze familiari, politiche o economiche. Spesso, infatti, nei concorsi o nei servizi pubblici (ad esempio la prenotazione di una visita o di un ricovero in un ospedale) vigono dinamiche occulte che trascurano il principio dell’impersonalità e delle eguali possibilità di accesso, ricadendo nel familismo amorale. Si può ritenere che prima di risolvere i macroproblemi della sovranità democratica, è necessario occuparsi della democraticità nel sistema del lavoro e, più in generale, degli uffici pubblici? Non saprei. Il legame interpersonale è, per ogni individuo, la realtà più immediata e visibile; e perciò tende a prevalere se non ci sono forti correttivi esterni.


proprie modalità anche dopo un restailing parlamentare. Perché, come aveva già chiarito Weber, gli stessi apparati burocratici, possono servire forme e persone di potere tra loro completamente differenti. Oggi non c’è più nessuno che creda risolto il problema della governabilità per il solo fatto che una coalizione di governo succeda ad un’altra, al posto di una coalizione di due partiti ce ne sia una di tre o quattro o cinque, il ministro di una corrente venga sostituito dal ministro di un’altra. Il segreto della governabilità sta nell’esistenza e nella robusta vitalità del sottogoverno. Il bosco muore senza il sottobosco (Bobbio 1981: 185).

Sapere (l’esistenza del sottobosco) non basta, così come non basta andare a votare sapendo. Un voto informato, così come milioni di voti (idealmente) informati, sono solo dei sì o dei no a scelte operate da altri. In uno Stato di diritto, perché l’opinione pubblica abbia la possibilità di esercitare un controllo effettivo sul governo, è necessario che abbia la possibilità non solo di stabilire una verità soggettiva – ottenibile tramite la faticosa ricerca di informazioni sulla res (più o meno) publica – ma anche di stabilire una verità oggettiva, cosa che in un sistema sociale è possibile soltanto nel sottosistema giuridico, attraverso il procedimento penale che si avvale anche delle prove e quindi della verità prodotta dal sapere, cioè nel sottosistema scientifico. Pierpaolo Pasolini sapeva, e col suo sapere sorvegliava il potere. Ma Pasolini non aveva le prove. E non avendo le prove, come era cosciente, non aveva alcuna possibilità di rendere effettivo il suo controllo e la sua verità. I procedimenti giudiziari hanno la funzione di accertare la verità: eppure, sulle stragi italiane, sui misteri della democrazia, sono stati avviati molti procedimenti, ma la verità è rimasta ancora opaca, come gli schermi televisivi che presumono di trasmetterla, come, purtroppo, la democrazia. Il potere, come medium del sistema politico, ha corrotto i media del sistema del diritto e del sistema della scienza e così i procedimenti hanno avuto solo la funzio-

ne di mascherare la realtà e di continuare a legittimare il sistema politico, la sua parte visibile. Paradossalmente, anche la fine di un uomo che lottava contro i misteri è stata avvolta nel mistero. Nonostante ciò, è difficile negare che Pierpaolo Pasolini sia stato assassinato (anche) perché si era permesso di sorvegliare il sorvegliante. Assassinato per quello che sapeva: e non perché al sapere di un singolo si possa attribuire una temibile funzione di controllo (un voto informato non conta poi nulla); ma perché Pasolini non era uno come gli altri, era un poeta, uno che poteva convincere: un opinion leader, come si dice. E certe cose non si limitava a riferirle al suo gruppo di amici, ma le scriveva sulle prime pagine dei giornali: «Io so, ma non ho le prove» (Pasolini 2001). Pasolini è stato assassinato forse perché, qualcuno, da qualche parte, magari ha potuto temere che un’intera popolazione, vissuta sempre in uno stato di Cecità, potesse improvvisamente imparare, grazie agli occhi di un poeta, a guardare quella che si dice sia la realtà. E, come in un romanzo, acquisire d’improvviso quella Lucidità che consente di vedere di non vedere e di andare a votare, ma di non accettare alcuna pre-selezione. Votare, ma votare tutti, scheda bianca. Spremere la spugna procedurale che ha assorbito protesta, scoprire il paradosso e, da ciechi, vedere, per una volta, che è possibile anche abbandonare le presupposizioni, o invertirle, in modo che quasi tutti possano presupporre che quasi tutti siano in disaccordo. Aspettarsi e rendere probabile l’improbabile. Inventarsi il proprio modo per partecipare senza partecipare, per togliersi la corona di plastica di sovrani e rendere effettiva la propria funzione di controllo.

Riferimenti bibliografici Bobbio, N. 1981. Le ideologie e il potere in crisi. Firenze: Le Monnier. Bobbio, N. 1995. Il futuro della democrazia. Torino: Einaudi.

Bourdieu, P. 1973. L’opinion publique n’existe pas. Les temps modernes 318: 1282-1309. Canetti, E. 1981. Massa e potere. Milano: Adelphi. De Giorgi, R. 1998. Scienza del diritto e legittimazione. Lecce: Pensa Multimedia. Foucault, M. 1978. La volontà di sapere. Milano: Feltrinelli. Foucault, M. 1993. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Torino: Einaudi. Foucault, M. 1997. Microfisica del potere. Torino: Einaudi. Foucault, M. 1998. Archivio Foucault 3. Milano: Feltrinelli. Foucault, M. 2001. Biopolitica e liberalismo. Milano: Medusa. Foucault, M. 2005. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977 1978). Milano: Feltrinelli. Habermas, J. 2002. Storia e critica dell’opinione pubblica. Roma-Bari: Laterza. Koselleck, R. 1972. Critica illuminista e crisi della società borghese. Bologna: Il Mulino Luhmann, N., 1979. Potere e complessità sociale. Milano: Il Saggiatore. Luhmann, N. 1995. Procedimenti giuridici e legittimazione sociale. Milano: Giuffrè. Luhmann, N. 2000. La realtà dei mass media. Bari: Franco Angeli. Luhmann, N. 2002. I diritti fondamentali come istituzione. Bari: Dedalo. Pasolini, P., 2001. Il romanzo delle stragi, in “Scritti corsari”. Milano: Garzanti. Sartori, G. 1987. Elementi di teoria politica. Bologna: Il Mulino, Bologna. Simmel, G. 1992. Il segreto e la società segreta. Milano: Sugarco. Weber, M. 1995. Economia e società voll. I e IV. Milano: Edizioni di comunità.

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CASO LETTERARIO

In Cielo di plastica di Luigi Alici, due uomini, guidati da un prezioso invito, danno inizio ad un viaggio alla scoperta di se stessi, sulla via dell’autenticità, prendendo gradualmente coscienza delle più subdole idolatrie contemporanee. 102


COLLOQUIO LUIGI ALICI | GIOVANNI SCARAFILE

VERSO L’ALTO

PERCORSI DEL SENSO E IDOLATRIE DEL CONTEMPORANEO 103


CASO LETTERARIO

«L’

uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». In queste parole di Paolo VI viene indicata in modo esplicito la distinzione tra una ricerca fine a se stessa ed un approccio intellettuale in grado di rendere testimonianza non solo all’oggetto del proprio sapere, dato che «la critica non è il dissolvimento di ciò che si studia in un’amorfa e dilettevole concettuosità: è, e dev’essere, l’impiego di una verità, d’una conoscenza per valutare, per scoprire altre verità, altre conoscenze. Ruminare non basta; assimilare, vivificare bisogna» (Montini 1982:68). Quando questo obiettivo sia raggiunto o, per lo meno, quando verso di esso ci si incammini, allora la ricerca diventa «carità intellettuale» (Sertillanges 1998:101)1. La testimonianza risiede allora nella capacità di contemplare approfonditamente l’oggetto delle proprie ricerche e, nel contempo, nella capacità di trascendere quel particolare dato, in un approccio per così dire sinfonico in grado di vede-

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re la parte ed il tutto. Si tratta di un movimento niente affatto scontato, se è vero che le due tentazioni ricorrenti consistono o nel sostare in modo perenne nel proprio specialismo o, viceversa, nel fare dell’ascolto della propria stessa voce il fine del cercare, convinti di poter fare a meno dell’inutile fardello della fatica del pensare e così dispensando a buon mercato concetti tanto pensosi quanto ininfluenti. Nel caso del filosofo, come se non bastasse, le cose si complicano. Già nel nome stesso della propria disciplina, infatti, egli trova l’indicazione di un inevitabile abbinamento: da un lato, sophia, sforzo teoretico di esercitare una prensione concettuale sull’esistente, dall’altro philo, un tipo di atteggiamento personale in grado di inverare nella propria vita i coefficienti teorici acquisiti, a partire dall’avvertimento di Platone (Lettera VII, 340d), secondo cui la ricerca filosofica non poteva essere ridotta a «verniciature di formule, come la gente abbronzata dal sole»2. È dunque proprio sulla via di quella non facile conciliazione tra l’ambito delle ricerche, la via del maestro, e la proposta di inveramento dei risultati di quelle ricerche, la via del testimone, che ci imbattiamo in Cielo di plastica (San Paolo Edizioni, 2009) di Luigi Alici, professore ordinario di filosofia morale nell’Università di Macerata. Si tratta di un libro in cui mediante il sapiente uso di risorse narrative, l’Autore rie-

sce nella non facile operazione di conciliare, e per giunta in modo brillante, quei due aspetti accennati poc’anzi. Risulta così interessante provare a capire, ascoltando proprio le parole dell’Autore, come è giunto ad intuire questa speciale forma letteraria, ma anche il modo in cui egli riesca a conciliare l’attività professorale (Alici è, tra l’altro, fra i maggiori esperti di Agostino) con l’impegno di scrittore e di intellettuale, impegnato nel mondo ecclesiale oltre che nella società civile. Dal colloquio viene fuori un intellettuale il cui modello di riferimento è in grado di confutare le parole di Steiner quando in Lesson of the Masters osservava in modo alquanto sconsolato: «Allo stato dei fatti, come sappiamo, la maggioranza di coloro ai quali [...] guardiamo come guida ed esempio nell’accademia, più o meno non sono che amabili becchini» (Steiner 2003: 18). Prof. Alici, il leitmotiv di questo numero di YOD è desunto da un passaggio del De Trinitate di Agostino da cui sembrerebbe emergere un’analogia con Cartesio proprio in merito alla questione della rilevanza del dubbio nella vita di un uomo. Tuttavia, è stato proprio Lei ad avvertire dei rischi insiti in una generica equiparazione tra la posizione di Agostino e quella di Cartesio. Ci può spiegare in che cosa consiste l’originalità della posizione


agostiniana sulla questione del dubbio? Si deve certamente ad Agostino l’attribuzione di una nuova centralità strategica al “paesaggio interiore”, rispetto al mondo esterno, come fonte di quella meraviglia da cui scocca la scintilla della domanda filosofica (e di ogni altra domanda, nel senso più autentico del termine). La possibilità di esplorare i “vasti quartieri” della memoria e dell’interiorità pone la persona umana dinanzi alla scoperta di un’enigmatica e stupefacente capacità riflessiva, di relazione dell’io con se stesso, che non dev’essere oscurata o trascurata dal rapporto tra ego e alter ego, e meno ancora dal rapporto con il cosmo. Queste dimensioni relazionali non sono alternative, né reciprocamente riducibili; la trama complessa della vita personale si tesse piuttosto in un andirivieni incessante fra l’una e l’altra, anche se Agostino è particolarmente affascinato dall’originarietà irriducibile della dimensione interiore. A differenza di ogni altra relazione, la dinamica riflessiva dell’autocoscienza ha una natura del tutto anomala: non solo perché in questo caso il soggetto che interroga e l’oggetto interrogato finiscono per coincidere, ma ancor più perché in questa coincidenza l’io si scopre radicalmente messo in gioco. Factus eram ipse mihi magna quaestio: «Proprio io ero diventato questione a me stesso», si legge nel IV libro delle Confessioni. Prendendo le distanze dalla illusione gnostica

di poter proiettare la radice di ogni conflitto in una lotta cosmica tra due principi opposti, come pure dalla pretesa stoica di stendere un cordone sanitario intorno alla “cittadella dell’anima”, intesa come un rifugio rassicurante e pacificato, Agostino ci invita a riconoscere la radice interiore del conflitto, a misurarci con l’enigma del cor inquietum. In questo modo, per un verso ci mette in guardia contro ogni evasione naturalistica, teorizzando l’impossibilità di risolvere l’insecuritas dell’animo umano negli equilibri esterni del kosmos; per altro verso, introduce una distinzione di principio tra interrogazione filosofica e sapere empirico: quello scarto tra soggetto e oggetto che per la scienza è un irrinunciabile principio metodologico, per la riflessione filosofica è invece un segno inequivocabile di inautenticità. Nella modernità si perde soprattutto il senso di questa tensione tra interiorità e trascendenza: Descartes cerca un punto zero, sterilizzato e asettico, in cui la ragione possa accreditarsi in un atto, assolutamente trasparente, di autoaffermazione. La sconfitta del dubbio si situa invece in Agostino dentro un cammino di riscoperta e di combattimento interiore, che attinge il suo livello più alto quando si apre a un rimando trascendente, al quale la fede attribuisce un volto personale. Per Descartes, invece, la ragione è in grado di autolegittimarsi perfettamente, una volta per tutte, in modo chiaro e distinto. Basterà far

cadere ogni rimando estrinseco a Dio, per mettere il pensiero moderno sui binari dell’immanentismo. Prima di prendere in considerazione alcune tematiche tratte da Cielo di plastica, se permette, vorremmo rivolgerLe una domanda più generale relativa alle sue attività. Scorrendo il Suo curriculum, infatti, si rimane impressionati dal loro numero, dalle pubblicazioni accademiche e

extra accademiche così come dalle attività extra accademiche (non ultimo, l’impegno come Presidente Nazionale dell’Azione Cattolica dal 2005 al 2008). Qual è la Sua idea di intellettuale e, se possiamo essere un po’ indiscreti, quali sono le sue “abitudini” di scrittura? Qualcuno ha detto che la vita di un intellettuale – a maggior ragione se cristiano – è un’altalena incessante fra l’impegno e il disimpegno. Se

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per impegno intendiamo la capacità di coinvolgerci nella storia, in modo cordiale e critico, disinteressato e responsabile, mettendo alla prova le nostre idee e la nostra capacità di contribuire ad un esercizio condiviso di discernimento culturale e di progettualità lungimirante, credo che nessuno possa esimersi da questo dovere; anzi, più che di dovere, mi piacerebbe parlare di riconoscenza nei confronti di chi ci ha preceduto. Il bene comune è, prima di tutto, un bene che ci accomuna – il più delle volte immeritatamente – a chi ci ha lasciato in eredità il panorama naturale e culturale in cui viviamo. Eppure su questo impegno che nasce da un doveroso atto di gratitudine pesa una sorta di riserva critica (che nel cristiano diventa anche riserva escatologica), particolarmente importante per chi riconosce un valore strategico al mondo della cultura. Dinanzi ad ogni impegno, dovremmo sempre poter dire: «Questo è molto importante, ma non è tutto qui. C’è dell’altro». C’è sempre dell’altro: questa testimonianza in favore dell’ulteriorità è un vaccino prezioso contro il virus ideologico, che può attaccare chiunque, per stanchezza o per fanatismo, facendogli prendere la scorciatoia della semplificazione intollerante. Non so se ho abitudini vere e proprie

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di scrittura. Posso dire, però, che il servizio nell’Azione Cattolica in questi ultimi anni mi ha messo a contatto con tanta gente: gente semplice, autentica, esemplare nella testimonianza della fede e nella responsabilità verso il proprio paese. Ho detto una volta che ho iniziato questo servizio come professore e l’ho terminato come allievo. Imparare ad ascoltare tante persone, a saper leggere non solo le parole scritte, ma anche quelle parlate, e ancor più quelle testimoniate con la vita è forse il primo, fondamentale esercizio di scrittura. Scrivere avendo davanti a sé tanti volti e tante storie, volti e storie che la televisione o i giornali di rado riescono a interpretare e raccontare fedelmente, molto meno di cinema e letteratura: ecco il primo passo che c’impedisce di parlare a noi stessi, o alla cerchia esibizionistica dei soliti noti, per restituire la parola a chi ha veramente qualcosa da dire. Per questo, da qualche anno, scrivere è diventato per me sempre più un atto di restituzione, di fedeltà e di gratitudine. La prima cosa che mi ha colpito, leggendo Cielo di plastica, è la struttura del libro, «rileggere – come Lei dice - in chiave narrativa il ‘68», ma anche «tracciare, in chiave espositiva, una mappa

delle tendenze idolatriche dominanti». Non è difficile cogliere proprio nell’elemento narrativo una sorta di filo rosso in grado di collegare Cielo di plastica ad almeno altri Suoi due scritti, Il terzo escluso (San Paolo, 2004) e La via della speranza (Ave, 2006). Nel capitolo Tertium datur de Il terzo escluso si trova una magistrale descrizione narrativa della dialettica pianto/riso nel volto di un bambino, che – a mio avviso – nessuna analisi concettuale avrebbe potuto rendere con pari efficacia, «un istante in cui il tempo e l’eternità si sono miracolosamente incontrati, racchiusi in un grumo irripetibile di elegante bellezza»; inoltre, nella terza parte de La via della speranza, Lei racconta «episodi di vita quotidiana, più o meno immaginari, dentro i quali affiorano tracce di un modo nuovo di porsi dinanzi al futuro». Mi sembra che oggi uno dei primi compiti di un intellettuale consista nel non dare per scontato l’ascolto dell’uditorio cui si rivolge. Questo obiettivo, propedeutico in un certo senso rispetto ad ogni possibile declinazione dell’impegno, può essere perseguito nella misura in cui si sia in grado di raccogliere la sfida di frequentare territori espressivi un tempo ritenuti inconsueti. Lei, che ha


raccolto con successo questa sfida, può illustrarci, a quale esigenza risponde il ricorso a registri stilistici differenti? Ho sempre pensato che la ricerca filosofica debba essere il frutto di un mix arduo e sapiente di rigore e di passione; ricorrendo all’immagine fortunata introdotta da Robert Pirsig in un libro famoso di qualche anno fa (Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta), si potrebbe anche dire che la Qualità deve sempre tenere insieme il paradigma tecnico della manutenzione e quello creativo del brivido della velocità. Negli ultimi decenni, mi pare che l’istituzione universitaria abbia favorito in modo particolare il primo, lasciando morire per asfissia il secondo. Come tenere insieme questi due aspetti, che costituiscono il fascino e la responsabilità dell’impegno speculativo? A volte, leggendo

alcuni libri di giovani ricercatori si ha come l’impressione di una grande perizia metodologica, posta a servizio del nulla. Si scava senza alzare mai la testa; si passa accanto ad un filone d’oro e non lo si vede. Nessuno stupore, nessuna meraviglia, nessuna altezza. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: un’ipertrofia inutile di dotte banalità. I grandi classici c’insegnano invece a coniugare con equilibrio (appunto, un equilibrio classico) i due aspetti, cercando instancabilmente di lavorare anche sulla forma espressiva in cui si incarna la riflessione. Si avverte subito quando la forma si aggiunge dall’esterno al contenuto, come un insopportabile esercizio cosmetico, con cui si chiede alla retorica di mascherare l’età e nascondere le rughe del pensiero. Il linguaggio, come ci ha ricordato anche Wittgenstein, non è mai

un vestito che si fa indossare in modo estrinseco ai propri pensieri, coltivati e maturati fino allo stadio adulto in forma neutra e impersonale. Non si tratta solo di cercare un contatto – il più possibile in presa diretta – con il lettore, ma di attribuire un vero e proprio valore euristico alla scrittura: quello che troviamo nel sottosuolo del pensiero dipende anche dagli strumenti con cui scaviamo. Il badile o la trivella non sono adatti ad ogni terreno… I grandi autori c’invitano a cercare instancabilmente una cifra stilistica personale; quando questo ci risultasse troppo difficile, ci offrono anche esempi altissimi di contaminazione fra generi letterari differenti: basterebbe ricordare, per fare solo qualche esempio, i grandi dialoghi platonici, il modello agostiniano della confessio, i diari di Kierkegaard, i romanzi di Sartre o di Camus… Mo-

delli certamente ineguagliabili, ma che non dobbiamo mai perdere di vista. Luciano Fiorini e Carlo Liberati, due dei tre protagonisti del libro, incarnano atteggiamenti profondamente diversi di fronte alla vita. Tale differenza, tuttavia, non è pregiudiziale rispetto alla ricezione del messaggio di P. Agostino Aureli, il terzo protagonista. Potremmo dire, dunque, che nonostante ogni differenza, la possibilità di «sgonfiare quel cielo di plastica che ci impedisce di allungare lo sguardo» è una possibilità reale per ogni uomo? A cosa allude il cielo di plastica che dà il titolo al libro? Confesso che la scelta del titolo mi è stata suggerita da una delle scene finali di “Truman Show”, quando il protagonista raggiunge in barca il confine estremo di un gigante-

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sco teatro di posa, in cui la sua vita si era svolta sino allora, e sperimenta il momento magico in cui può aprire la porta che gli consente finalmente di uscire all’aperto e non vivere più sotto un cielo di plastica. Ma ognuno di noi ha davvero questa possibilità? Per rispondere, credo sia necessario sdoppiare la domanda, distinguendo fra il piano antropologico e quello etico. Anzitutto, sarebbe una sorta di clamoroso autogol, sul piano antropologico, anche solo ipotizzare che l’apertura all’infinito possa essere un optional facoltativo e ininfluente nella vita di una persona, una sorta di opzione supererogatoria che non toglie e non aggiunge nulla di sostanziale alla vocazione dell’essere umano. Se qualcuno, di fatto, ordina la propria esistenza in rapporto ad un orizzonte trascendente è perché tutti ne hanno la facoltà; se qualcuno può impegnare la propria libertà ai confini tra finito e infinito, è perché tutti possono farlo! Del resto, come poter circoscrivere questa proiezione metafisica, senza con questo declassarla ad una semplice moda culturale, che solo alcuni individui potrebbero sperimentare, come se si trattasse del possesso di una lingua o di una abilità specialistica? Non sarebbe questa, oltre tutto, la forma più odiosa e intollerabile di discriminazione? Eppure, ciò che in linea di diritto appare come un fondamentale antropologico, in linea di fatto si rivela estremamente problematico, chiamando in causa la sfera etica e la lotta incessante fra bene e male che ognuno di noi ingaggia ogni giorno. Se ci spostiamo a questo livello, la risposta si fa problematica e incerta: chi può dire di vivere davvero all’altezza della propria vocazione? Qui siamo rinviati al grande enigma del male, che per definizione è esattamente questo: un deficit di infinito, che si cerca invano di surrogare con un investimento disordinato nell’ordine del finito. L’eccesso idolatrico nasce da qui. È dinanzi all’eccellenza infinita del bene e all’abisso nichilistico del male che si gioca la nostra vita; il cielo di plastica è il misero surrogato con

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cui si vorrebbe disattivare la tensione irriducibile fra finito e infinito. La nostra, Lei sostiene, è una terra di mezzo, sospesa tra finito e infinito. Nel corso del libro, la possibilità di valicare il confine angusto del finito, decidendo di non affidare la propria sorte al caso, è frutto di un invito ad una esplicita adesione all’opzione religiosa cristiana. In realtà, la possibilità di essere artefici del proprio destino, è stata rivendicata anche in molte altre contrade del pensiero. Solo per fare un esempio, nella Oratio de hominis dignitate, composta alla fine del ‘400, Pico sosteneva che l’uomo può dirsi tale perchè può «forgiare il proprio destino». Qual è, per così dire, il valore aggiunto dalla proposta illustrata da P. Agostino? Questo è un aspetto particolarmente delicato e importante dell’intera questione. Ancora una volta, in linea di principio l’appello alla dignità e all’autonomia della persona umana deve trovare consenzienti – e, in una certa misura, alleati – credenti e non credenti. C’è un lato certamente nobile e positivo di quest’appello alla verticalità metafisica e spirituale dell’essere umano; l’importante, tuttavia, è non nascondere dietro tale appello (ma non è il caso di Pico) una celebrazione autoreferenziale del soggetto umano e della sua insuperabile autonomia, perché questo mortificherebbe ogni apertura eteronoma all’infinito, alimentando l’illusione di un autosalvataggio, come nella favola di Raspe, in cui il Barone di Münchausen può uscire incolume dalle sabbie mobili, tirandosi su per i capelli. Su questo punto la lezione di Levinas è particolarmente preziosa: l’infinito filtra nell’incontro con il volto dell’altro, che irrompe sulla scena della nostra vita e in quest’urto inaudito ci fa scendere dal nostro piedistallo. Il valore aggiunto della fede cristiana consiste, per un verso, proprio in questo: nel fatto che essa, prima ancora che una domanda

religiosa di salvezza, è la risposta a un incontro; un incontro che avviene sotto il segno di un’alleanza gratuita e di un riscatto dalle nostre debolezze, che promette cieli nuovi e terra nuova alla nostra fame e sete d’infinito. Per altro verso, anche chi non è cristiano può trovare nel confronto con la rivelazione cristiana degli anticorpi formidabili contro ogni involuzione idolatrica e contro ogni degenerazione prometeica del giusto desiderio di essere artefici del nostro destino. Questo “valore aggiunto”, in fondo, è un invito ad oltrepassare il “cielo di plastica” della nostra autonomia: ogni vero incontro è sempre eteronomo. Per questo, può stupirci o ferirci. La vera sfida, allora, consiste nel riconoscere la natura liberante e non alienante del rapporto fra finito e infinito. L’eteronomia può essere assoluta, quando nasce dal contatto inaudito con il trascendente, senza essere però estrinseca: l’Altro, in questo caso, sta dentro una relazione costitutiva e liberante con l’io, in cui assoluta estraneità e assoluta intimità coincidono. Eteronomia non estrinseca: è questa la possibilità che Nietzsche non ha preso in considerazione. Come dicevamo, il libro contiene una precisa mappatura di alcune tra le più devastanti e subdole idolatrie contemporanee (l’avere senza essere, il potere senza responsabilità, solo per indicarne alcune). Al tempo stesso, determinati atteggiamenti su cui la cultura contemporanea rivolge uno sguardo accondiscendente e benevolo presentano non meno motivi di preoccupazione proprio per la rarefatta percezione dei rischi derivanti dalla loro acritica assunzione. Parlerei forse di quella placida mediocrità, fatta di piccole cose, vissute nella totale assenza di uno sfondo in grado di ridimensionarne il valore: «qualche avventura sentimentale, weekend programmati con cura, la mia boutique preferita, vacanze pianificate con la pignoleria di un contabile, il comfort sempre al primo


posto» (Alici 2009: 66). Il vero rischio sembra essere non tanto la professione di una eterodossia rispetto ad una norma razionalmente accettata quanto l’assenza di ogni ragionamento, il venir meno del senso del senso. Come ci si sottrae ad un tale scenario? È vero: la patologia idolatrica diventa tanto più subdola e pervasiva quando si nasconde, quando cerca di mimetizzarsi, trasformandosi in una forma parassitaria della fede. La rinuncia all’ultimo altera irrimediabilmente anche il nostro rapporto con il penultimo, conferendogli un sovraccarico di senso che il finito non riesce a reggere. Questo cortocircuito non si manifesta necessariamente, però, nelle forme cla-

morose di un titanismo prometeico, ma anche in quelle – solo apparentemente meno disperanti e autodistruttive – della banalità e della routine. C’è una “idolatria al ribasso” che è forse uno degli effetti più immediati dell’indifferenza postmoderna, la quale non

è atea solo perché è molto più che atea. Dostoevskij ha detto che l’ateo assoluto non è troppo lontano dalla fede, poiché condivide con il credente almeno le stesse domande (dando ad esse, tuttavia, una risposta di segno contrario), mentre l’indifferente non ha più nessuna

fede. Non è difficile riscontrare nel vissuto quotidiano questa preoccupante “anestesia” della domanda di senso. Spostando il discorso sul piano religioso, si potrebbe dire che questa è l’essenza stessa del diabolico: spingere la pulsione narcisistica fino al punto estremo in cui essa appare completamente metabolizzata; si è talmente identificata con il nostro ego, che alla fine è diventata invisibile, proprio come un paio di occhiali, che ci fanno vedere senza essere visti. In questo senso, l’occultamento del male è forse la forma estrema del male stesso. Per questo abbiamo bisogno di recuperare una nuova umiltà e una nuova capacità di interlocuzione critica. Non ci può

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essere nessuna progettualità senza discernimento; la rinuncia al futuro va sempre di pari passo con la rinuncia al giudizio critico. La conseguenza è che oggi viviamo tutti abbarbicati al presente (Life is now!) e alle nostre false sicurezze, quasi sempre di natura ideologica, dietro le quali si profila la “malattia mortale” della disperazione, come Kierkegaard magistralmente ci ha insegnato. Il venir meno dell’indifferenza rispetto ai valori, auspicato dalle parole di P. Agostino, sembra richiedere uno specifico terreno di coltura, una sorta di basilare disponibilità a lasciarsi coinvolgere dalle cose. A parti invertite, mi chiedo se proprio tale prerequisito non costituisca il principale limite rispetto alla adozione di una conversione della propria vita. Che cosa è effettivamente in grado di schiodare un uomo dall’adesione all’atteggiamento naturale in cui si trova, ovvero di fare cogliere che esistono dimensioni esistenziali più significative? In altri termini, il riconoscimento del valore è ciò che fa uscire dall’atteggiamento naturale o è ciò che l’uomo trova alla fine del suo cercare? Si potrebbero citare, a questo proposito, le parole di fuoco dell’Apocalisse: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca». Come avviene il salto dal nonsenso dell’indifferenza al senso della differenza? Platone ci ha richiamato all’enigma di Eros per poter dare una risposta, e i Padri hanno raccolto prontamente questa intuizione: non esiste mai un grado zero dell’amore; amare significa esplicitare un legame atematico e implicito, portarlo ad un soglia vincolante di riconoscimento. Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato! Oggi tendiamo invece a concepire ogni relazione secondo

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il modello contrattualistico dominante, come un atto convenzionale, stipulato in uno spazio sterile di perfetto bilanciamento simmetrico: sempre negoziabile, sempre revocabile. Facciamo invece fatica ad accettare – e persino a concepire – la logica del primo passo, figlia di una gratuità oblativa capace di generare una reciprocità di tipo asimmetrico: ogni incontro avviene perché qualcuno, in modo assolutamente gratuito, ci ha detto sì per primo. La mia vita, la vita di tutti è cominciata così. In senso assoluto, il primo passo è un atto infinito che ci precede, a partire dal quale tutto quello che appartiene all’ordine finito dell’esistere comincia. Possiamo sperare ragionevolmente di trovare alla fine solo quello che, da sempre, è all’inizio e che, proprio per questo, da sempre ci interpella e può far scoccare la scintilla della ricerca; il problema è non averne una precomprensione contrattualistica, quasi si trattasse di uno spazio che noi possiamo prefigurare e dominare arbitrariamente. Lo stupore è forse la condizione necessaria – anche se non sufficiente – per riconoscere l’enigma dell’originario; solo se sappiamo liberarci prima di tutto dal velo mortificante dell’ovvietà, possiamo lasciarci toccare dal mistero della trascendenza che ci precede e ci sovrasta. Un’ultima domanda. Il terzo escluso si chiude con le seguenti parole: “La filosofia non può darci il paradiso, ma può dirci se ne abbiamo bisogno e dove non possiamo cercarlo”. A Suo avviso, quali compiti attendono la riflessione filosofica oggi? Questa è una domanda particolarmente impegnativa, che non merita risposte affrettate e superficiali. Dovendo limitarmi a suggerire qualche semplice spunto di riflessione, potrei proprio partire da qui: La filosofia deve tenere a distanza, soprattutto oggi, risposte affrettate e superficiali. Nella nostra cultura sembra che si stia passando dalla perdita delle risposte alla rinuncia

alle domande. Se questo è vero, il primo compito della riflessione filosofica è ritrovare la passione contagiosa per le domande grandi. Sono le domande grandi, in ultima analisi, che rendono grandi le risposte piccole. Questo compito suppone, prima di tutto, una pars destruens, in cui è essenziale ritrovare il potere critico della ragione umana e impegnarlo coraggiosamente in un’opera di radicale demistificazione di tutto gli assoluti terrestri, di tutti i paradisi artificiali. Oggi si ha come l’impressione che la ricerca filosofica si stia disperdendo in mille rivoli analitici, mentre tutti abbiamo bisogno di una scossa forte e salutare. La pars construens esige poi un passo avanti ancora più arduo, che chiama in causa una vera e propria “conversione dell’intelligenza”, da condurre in modo più paziente e meno appariscente, più sistematico e meno estemporaneo. Senza nulla togliere alla genialità del pensatore, che non può essere pianificata a tavolino, dobbiamo però tornare a pianificare a tavolino – questo sì – un progetto alto e condiviso, capace di ricreare uno spazio di rispetto intorno alla ricerca intellettuale (non solo filosofica), predisponendo le condizioni strutturali e istituzionali perché in questo spazio sia possibile un autentico ed esigente dialogo intergenerazionale. Solo una semina lungimirante e generosa, proiettata nei tempi lunghi, senza la pretesa di raccogliere frutti effimeri e prematuri, può salvare la ricerca dalla miopia e dall’insipienza. In questo campo forse è il caso di ricordare ai nostri politici il detto evangelico: “Uno semina e l’altro miete” (Gv 4,37), perché a volte si ha l’impressione sgradevole che si voglia mietere anche là dove non si è seminato. Riferimenti bibliografici Alici, L. 2009. Cielo di plastica. Cinisello Balsamo: San Paolo Edizioni Montini, G.B. 1982. Coscienza universitaria. Roma: Edizioni Studium


Rigobello, A. 2001. Complessità di metodo e pluralismo metodico. In L’estraneità interiore. Roma: Edizioni Studium Sertillanges, A-D. 1998. La vita intellettuale. Roma: Edizioni Studium Steiner, G. 2003. Lesson of the Masters. Harvard: Harvard University Press. Weber, M. 1948. La scienza come professione. Torino: Einaudi Endnotes

1 Continua Sertillanges: «Non deve temere nessun egoismo colui si isola gelosamente [...], Non ascoltate nessuno, né gli amici indiscreti, né i parenti incoscienti, né i passanti. Voi appartenete alla verità: le dovete il vostro culto. Eccetto i casi che non si discutono, niente deve essere per voi più importante della vostra vocazione». 2 Ha significativamente ossercato Rigobello (Rigobello 2001:167): «ciò significa pensare, ragionare, discorrere all’interno di un coinvolgimento esistenziale e non “esistentivo” [...] innalzandoci (o allargandoci) all’universalità, un trascendersi che è tuttavia mosso da una esigenza interna alla concretezza del vissuto in prima persona».

Crediti fotografici These Stairs Go All The Way Down | Kevin Lawver | licenza Creative Commons Suspended stairs | ndanger / Dave Gingrich | licenza Creative Commons The Truman show (1998) di P. Weir Our Delxue room @ The world-famous Steigenberger Hotel Frankfurter Hof - Frankfurt/ Main - Germany - The grand dame of the city - one of the best hotels in the country and Europe! 02/2010 - Enjoy!:) | UggBoy ( have fun doing it ) | licenza Creative Commons The Crystal Boat Seafood Restaurant | infomatique / William Murphy | licenza Creative Commons Sunset Party Dancing Girl Silhouette | Pink Sherbet Photography / D. Sharon | licenza Creative Commons

blackboard Terri Mannarini, La cittadinanza attiva. Psicologia sociale della partecipazione pubblica, Il Mulino 2009 Partecipare a un consiglio di quartiere, aderire a un comitato cittadino di tutela del territorio, intervenire in una assemblea dei cittadini su inquinamento e sicurezza sono alcune delle espressioni più comuni della partecipazione pubblica e della cittadinanza attiva. Ma che cosa significa partecipare? Quali sono le motivazioni che spingono le persone verso iniziative pubbliche? Questo volume affronta le principali dimensioni e dinamiche psicologiche implicate nei processi di coinvolgimento dei cittadini in decisioni di interesse collettivo, riassumibili sotto l’etichetta di “partecipazione pubblica”. Dopo una sintetica introduzione che delinea i tratti distintivi della democrazia deliberativa, vengono analizzati gli aspetti fondamentali della partecipazione pubblica: dalle motivazioni ai processi cognitivi, agli ancoraggi alla base della conoscenza di senso comune, fino al ruolo delle disposizioni individuali e agli effetti di alcune forme di influenza sociale sul cambiamento di opinione e di atteggiamento. Cacciatore Giuseppe; D’Anna Giuseppe, Interculturalità. Tra etica e politica, Carocci 2010 Gli orizzonti sociali attuali impongono sempre più all’attenzione della riflessione eticopolitica la questione dell’altro e delle differenze culturali. L’interculturalità sorge dall’esigenza di progettare uno spazio aperto all’interno del quale le differenze tra gli individui e tra le comunità possano trovare un terreno di negoziazione, in cui la possibilità del vivere comune non sfoci né nell’annullamento delle specificità individuali e collettive, né in conflitti insanabili. Questo libro offre una prospettiva ampia e articolata delle tematiche che un pensiero dell’interculturalità si trova a dover affrontare. Il problema della universalità dei valori e delle norme etiche, le questioni di genere, i diritti umani, le forme di governo rappresentano tutti plessi tematici della riflessione sull’interculturalità, che il presente volume affronta anche nella loro specifica natura teorica. Stefano Semplici, Undici tesi di bioetica, Morcelliana 2009 Il progresso della scienza pone interrogativi sempre nuovi sul senso, sui modi del nascere e del morire, mentre il pluralismo delle prospettive morali amplifica la difficoltà di trovare risposte adeguate e condivise. Le undici “tesi” suggeriscono un percorso attraverso i principali capitoli della bioetica - l’aborto, la fecon-dazione in vitro, l’eugenetica, la speri-

mentazione sugli embrioni, l’eutanasia, il testamento biologico - nella consapevolezza che essa è luogo di dubbi, più che di conclusioni. E per questo anche di grandi responsabilità. Per le persone e per la politica. Meccariello Aldo; Baccarini Emilio; Cuomo Vincenzo, La plurivocità del male, Aracne 2009 Il male, sfida o scandalo? Da sempre la filosofia e la teologia hanno dibattuto la questione senza però offrire soluzioni rassicuranti e univoche. Il presente volume, che nasce da un seminario tenutosi a Napoli nella primavera del 2008, organizzato dalla rivista “Kainos” e dedicato a “Le parole del Novecento”, non intende proporre una riflessione metafisica o morale sul tema del male ma piuttosto vuole dare conto dei molteplici luoghi in cui esso tende a manifestarsi. I saggi raccolti tentano, a partire da riflessioni su Bataille, Kracauer, Baudrillard, Wittgenstein e Arendt, un’esplorazione del male nella crisi novecentesca. I testi sono affiancati dagli interventi visivi di sei artisti contemporanei (Luc Fierens, Robin Kahn, Angelo Ricciardi, Anton Roca, Vincenzo Rusciano, Nello Teodori) selezionati da “Codice Ean”, associazione per l’arte contemporanea. Con un saggio introduttivo di Emilio Baccarini. Contributi di: Vincenzo Cuomo, Eleonora de Conciliis, Leonardo V. Distaso, Aldo Meccariello, Felice Ciro Papparo. Adriano Fabris, TeorEtica. Filosofia della relazione, Morcelliana 2010 Il titolo - TeorEtica - allude fin da subito alla posta in gioco: ridefinire i rapporti tra pensiero e azione, tra teoresi ed etica. Se nelle tradizioni filosofiche per lo più queste sfere sono state separate o addirittura opposte, pensandole fino in fondo non si trova un implicarsi reciproco che impone una loro ridefinizione? Di qui la rivisitazione di luoghi classici sui princìpi primi - in Aristotele, Anselmo, Cartesio, Kant, Hegel, Heidegger per mostrare come in essi l’impensato sia proprio il concetto di relazione: il coinvolgimento del soggetto nella teoria e nella decisione morale. Coinvolgimento che significa responsabilità del pensiero perché è sempre, più o meno consapevolmente, scelta di un’azione. La filosofia, in tal modo, è un’”etica della relazione”, dove il filosofare, in quanto offerta di senso, è esso stesso un agire: “da ciò nasce il progetto di una TeorEtica: l’esposizione di un pensiero che si fa nel suo fare coinvolgente”. Una filosofia che - andando oltre gli sterili dualismi di ermeneutica e razionalismo, continentali e analitici - invita il lettore a ripensare il suo abitare il mondo.

consigli di lettura | saperi 111


LETTERATURA | intervista agli autori

Come nasce un libro? L’autore de Il graffio della regina racconta la genesi del suo libro

Enzo Natta

Perast, historical town in Kotor | Senol Demir | licenza Creative Commons

Rivamare L

a storia raccontata nel Il graffio della regina (Iris4Edizioni, Roma. Pagg. 146. € 15,50) è un omaggio al primo “mistery” della storia del romanzo poliziesco. Era il novembre del 1862 quando sul settimanale “Once a Week” apparve la prima puntata di The Notting Hill Mystery, romanzo a puntate di Charles Felix , non firmato e poi raccolto in volume nel 1865. Un delitto

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perfetto, che l’investigatore delle assicurazioni Ralph Henderson riuscirà a svelare, ma non a provare. Il graffio della regina prende le mosse dallo stesso soggetto, ma ha una conclusione diversa, perché questa volta l’investigatore (o meglio gli investigatori, perché gioco di squadra e pluralismo dei soggetti dominano la scena) troverà il modo per inchiodare il colpevole (o meglio i colpevoli). L’intreccio funge però soltanto da cornice,


perché il quadro è multiforme, attraversato da un costante gioco della memoria, dove si confrontano più personaggi, ma soprattutto il protagonista e il suo alter ego che, se da una parte lo completa, dall’altra ne rivela limiti e manchevolezze. Come nel Sosia di Dostoevskij, il protagonista si specchia e si confronta nell’altro fino a vedere meglio se stesso soltanto in questo modo. Un processo che, ovviamente, è sempre accompagnato dal dubbio, dominante di tutto il racconto. Dal dubbio che si accompagna al corso delle indagini, insinuandosi fra un tassello narrativo e l’altro, all’interrogativo che tormenta il protagonista (la sua nomina a Rivamare, ridente cittadina della Riviera ligure di ponente, è un premio o una punizione?), via via fino ad un conflitto di sentimenti che si intrecciano, ora repressi e respinti, ora compromessi e sottoposti a nuove prove. D’altra parte, come diceva Chesterton, che cosa sarebbe il poliziesco senza il dubbio? Già Pirrone di Elide, tre secoli prima di Cristo, sosteneva che a causa del dubbio tutto è relativo e che, nell’impossibilità di pronunciarsi, sia in modo positivo sia in modo negativo, ogni giudizio va sospeso. Porta aperta allo scetticismo, dunque. Ma se nel dubbio Pirrone trovava la pace e la felicità, perché quando nulla ha un valore oggettivo allora tutto risulta indifferente, Cartesio non si accontentò di lavarsi pilatescamente le mani di fronte al problema e si propose di procedere per esclusioni, fino a convincersi che, tutto sommato, il dubbio finale non è poi tanto disprezzabile poiché, se non altro, dà la certezza della propria esistenza. Cartesio utilizzò un’argomentazione che già sant’Agostino aveva rivolto contro gli scettici e se egli vivesse oggi, sosteneva ancora Chesterton, sarebbe il re degli investigatori. Non a caso Padre Brown, il suo personaggio più famoso, nelle indagini si affida puntualmente al metodo cartesiano. Che cos’è infatti il romanzo poliziesco se non un “doubt in progress”, un’esemplificazione del “dubbio metodico” quale strumento di eliminazione di tutte le supposizioni mal fondate? Un “giallo” o un “noir” inizia di solito con un mistero (per lo più un de-

litto) da risolvere. Mentre i più si arrendono di fronte a interrogativi che paiono insolubili, l’eroe di turno (Sherlock Holmes, Nero Wolf, Rex Stout o Montalbano) prende di petto la situazione e, Discorso del metodo alla mano, segue le quattro regole dell’evidenza, dell’analisi, della sintesi e dell’enumerazione. Qual è il detective che nella storia del poliziesco non si sia affidato alle quattro regole cartesiane? Anche nel Graffio della regina il commissario Pollini e la sua squadra eterogenea seguono questo percorso, dove il dubbio invade la scena fin dall’inizio. L’evidenza è il fatto (la morte di una donna), ma come sia avvenuto il fatto non è chiaro. L’analisi passa in rassegna le successive indagini e le cataloga accuratamente. La sintesi valuta le diverse prospettive che si sono delineate e le confronta fra loro per cercare di vedere quale fra tutte si avvicini maggiormente a una soluzione razionale. L’enumerazione cerca di non trascurare nulla e di essere il più completa

possibile, pronta a fissare la sua attenzione su un nuovo indizio che, improvvisamente, si rivela meritevole di interesse. Su queste basi dovrebbe svilupparsi Il graffio della regina. Ma, almeno per quanto riguarda l’autore, resta il dubbio che il metodo abbia funzionato. “Noir” o “giallo”? Anche qui all’inizio regnava il dubbio. Poi, di concerto con l’editore e con il curatore della collana, si è optato per il “noir”. Da non confondersi con lo “splatter” o il “pulp”, efferate e sanguinarie variazioni del “grandguignol”, spettacoli macabri in cui trionfano l’orrore e il raccapriccio del mattatoio. Se il “giallo” è l’indagine su un delitto, il “noir” è qualcosa di più: è una condizione dello spirito, un colore dell’anima; è il buio nel quale sprofonda la coscienza smarrita nei labirinti del male e nei bassifondi della psiche. E proprio di questo status si occupa Il graffio della regina.

Variante del “giallo” tradizionalmente inteso, il “noir” sottende al colore cupo e angoscioso, spesso metafisico, di cui si contorna una realtà ispirata a crimini brutali ed efferati della cronaca nera. Ma il “noir”, nella linea di un interscambio fra letteratura e cinema, fra romanzo sociale francese e “hard boiled” hollywoodiano, è anche una condizione dello spirito. Condizione che emerge dal Graffio della regina di Enzo Natta e dagli altri romanzi della collana “Arcanum” di Iris4Edizioni, Dannati di Giovanna Mulas e Subbuglio in metropoli di Fabio Bernardini. Tre romanzi che hanno in comune storie e destini che si intrecciano in una sequenza di inganni e dubbi, enigmi e misteri che si contrappongono all’affannosa ricerca della verità, eppure profondamente diversi l’uno dall’altro. E infatti, se Dannati è la metafora di un viaggio dove i “dannati” sono le anime di uomini del nostro tempo nell’eterno traghetto di Caronte verso gli Inferi, romanzo sperimentale in cui si condensano i simulacri di tutte le avanguardie del ‘900, Subbuglio in metropoli è un realistico spaccato della Roma d’oggi, dove eroi e e antieroi, carnefici e vittime sono figli della stessa esistenza disillusa. Ernesto G. Laura Direttore della collana Arcanum

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Claudia Pedone

La lingua che crea e pensa per te Osservazioni sull’universo linguistico della Germania nazista

Che tipo di dominio un potere totalitario può estendere sulla sfera del linguaggio? Nella testimonianza offerta dal filologo Victor Klemperer, un modello di resistenza al venir meno del potere del dubbio insito in ogni linguaggio. 114

1. Rubare le parole per far tacere il pensiero Furto di parole. Arbeit macht frei, la scritta che sovrastava l’ingresso del lager di Auschwitz è stata rubata. Pochi giorni dopo la polizia l’ha ritrovata, ma era stata smembrata in tre pezzi. I ladri non sono legati ad ambienti neonazisti e la loro azione è stata motivata da un interesse molto più banale di una qualsivoglia temibile riaffermazione ideologica. Hanno rubato

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LINGUISTICA


linguaggio per poter rivendere la refurtiva ad un collezionista. Un furto che ha lasciato sgomenti per il suo valore simbolico. Eppure, nel suo movente, profondamente banale, banale come il male raccontato da Hanna Arendt durante il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Il furto della scritta supera, nel suo significato, il crimine di profanazione di un luogo di memoria o di sottrazione di un bene culturale. Sono state rubate le parole attraverso le quali si varca la soglia di un mondo che continua, pur sempre, a celare in sé l’inesprimibile. Non è stata trafugata soltanto una targa in ferro battuto: con la scritta che apre le porte di Auschwitz è stato portato via un frammento di documentalità – come affermerebbe Maurizio Ferraris – una pagina del libro della storia dell’umanità, poiché gli eventi diventano storia grazie alle parole scritte che li custodiscono e li trasformano in documenti. Parole rubate e fatte a pezzi. Un episodio d’attualità che illumina i fatti accaduti sotto il regime hitleriano. Ben prima dell’invasione dell’Austria e della Polonia, infatti, un’altra invasione aveva già avuto luogo nella Germania che si preparava a combattere la Seconda Guerra Mondiale: l’invasione della lingua e, attraverso questa, l’invasione del pensiero. E il metodo utilizzato non era differente rispetto a quanto narrato dalla cronaca del furto di Arbeit macht frei: appropriarsi della lingua, farla a pezzi, e restituirla smembrata, deformata nel suo significato, ma celata da un significante innocuo e familiare. Niente di più di ciò che hanno messo in atto i cinque ladri dopo sessantacinque anni dalla liberazione di Auschwitz. Nella rilettura simbolica di queste azioni si fa nuova luce su un passato a cui non è stato posto ancora un punto e che, sempre attuale, si riaffaccia alla nostra riflessione presente. Ecco allora trasparire una particolare possibilità di comprensione dell’orrore che ha fatto irruzione nel cuore della nostra cultura: studiare il fenomeno del nazismo a

partire dal varco aperto dal linguaggio. Perché la tragedia non si esaurisce nel conto a sei zeri del numero delle vittime e nelle sofferenze subite dal popolo ebraico e dagli altri internati nei campi di sterminio. Tentare di comprendere il male, così assoluto e così banale che ha spadroneggiato nel terzo Reich, chiede di ascoltare la voce fioca di chi ha vissuto questi avvenimenti e trova il coraggio di raccontarli, di consultare gli archivi, ma anche di delineare uno studio filologico sulla trasformazione del linguaggio avvenuta in epoca nazista e sul suo impiego, ad opera dei carnefici e delle stesse vittime.

2. Klemperer: testimonianza di un filologo Di fronte alle grandi tragedie dell’umanità il tribunale della storia si attrezza per chiamare fatti e persone al banco degli imputati. Tra i grandi protagonisti chiamati a dividersi meriti e responsabilità degli eventi non si deve dimenticare di chiamare in causa la testimonianza chiave offerta dal linguaggio. È proprio questa l’intuizione di Victor Klemperer. Filologo, vissuto a Dresda negli anni in cui la Germania era dominata dal nazismo, Klemperer soffre in prima persona, sulla propria pelle – e nella propria lingua –, il pervasivo insinuarsi della violenza della dittatura di Hitler. Ebreo, figlio di rabbino, si converte al protestantesimo dopo il matrimonio con Eva Schlemmer. Durante il regime nazista, Klemperer gode della condizione di “privilegiato”, poiché ha contratto matrimonio con una donna ariana. La condizione di “privilegiato” non lo solleverà dalle continue umiliazioni e dalle violenze cui sarà costantemente sottoposto, tuttavia, particolare non da poco, gli permetterà di sfuggire alla deportazione e, grazie ad una serie di fortuiti eventi, di sopravvivere ai terribili anni della guerra. I dodici anni di governo del Führer riducono Klemperer in una situazione di estrema miseria e povertà. Costretto ad ab-

bandonare l’insegnamento e la propria casa, dopo aver gradualmente perduto il possesso di ogni altra proprietà, compresa l’automobile e perfino il gatto, Klemperer deciderà di impedire al nazismo di privarlo anche della propria umanità. In un momento in cui la sua vita era costretta a spogliarsi gradualmente di ogni cosa, la sua professione e il suo animo di filologo diventano l’asta di equilibrio a cui tenersi ben stretto per non cadere giù. L’asta a cui aggrapparsi in un’esistenza continuamente in bilico, sempre sospesa tra la vita e la morte. L’opera filologica cui dedicherà la vita, fino a rischiare di comprometterla, consiste nella registrazione puntuale e meticolosa della lingua parlata nel mondo nazista: le trasformazioni dei significati, le espressioni divenute cliché, la formazione di un codice standardizzato. Il linguaggio dell’oppressore diviene, in tal modo, la finestra da cui affacciarsi per osservare gli eventi che hanno intessuto la trama della storia negli anni della dittatura. Da questa prospettiva, Klemperer offre un’analisi dettagliata dei lemmi maggiormente adoperati e un’interpretazione dei fatti vissuti in prima persona. Una ricerca che focalizza l’attenzione sul linguaggio: strumento apparentemente innocuo, eppure capace di celare un’inaudita pericolosità, perché “come un cavallo di Troia” penetra e distrugge dall’interno. “Come minime dosi di arsenico” non rivela immediatamente il proprio effetto tossico e agisce indisturbato dopo essere stato assunto1. Le vicende biografiche di Klemperer si intersecano coi suoi studi e danno vita ad una minuziosa ricerca filologica. Solo la decisione di compiere un atto eroico può permettere all’ormai ex docente di filologia – destituito dall’insegnamento dal regime – di continuare a vivere in modo dignitoso: testimoniare. Testimoniare fino all’ultimo diverrà la sua personale missione, il suo atto di eroismo2. Il dramma che Klemperer vuole descrivere attraverso l’analisi linguistica non si compone di pochi apocalittici eventi, è la tragedia del quotidiano, del dileguarsi, gior-

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Nazismo

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ebrei era vietato conservare con sé libri e giornali o sostare per strada per leggere lo Stürmer, il quotidiano affisso ai muri delle città. Sebbene l’accesso degli ebrei alla pubblica informazione fosse ostacolato da numerose norme e divieti, Klemperer proseguì nella compilazione degli appunti, pubblicati alla fine della guerra in LTI. Taccuino di un filologo3. Un taccuino della lingua del terzo Reich che offre un ampio materiale, selezionato dalla fine intelligenza di uno specialista, per avviare una riflessione sul tema del linguaggio in epoca nazista.

3.1. LTI: Il linguaggio della menzogna Come il re Mida trasforma in oro tutto ciò che tocca, così il nazismo tramuta in menzogna ogni realtà cui si avvicina, spiega Klemperer esaminando la Sprachregelung.

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no dopo giorno, della normalità della vita. La sua è una «tragedia fatta di particolari», perché «migliaia di punture di zanzara – come spiega nei suoi diari – sono peggio di un colpo sulla testa» (Klemperer 2000: 815) e il dramma di quegli anni non risulta comprensibile restringendo il campo di osservazione ai crimini più efferati, poiché la “soluzione finale” è l’epilogo di una storia più lunga, scritta quotidianamente con parole nuove. Strumento indispensabile in questa lotta: un taccuino. Nascosto con estrema dovizia, poiché il suo ritrovamento si sarebbe trasformato inevitabilmente in una condanna a morte. Infatti, annotare metodicamente la trasformazione della lingua tedesca sul suo taccuino di un filologo non era un’operazione per nulla semplice. I rischi e le difficoltà si registravano assai elevati. E finanche il reperimento del materiale necessario a tale studio risultava un’impresa ardua. Agli

La Sprachregelung è l’insieme di regole linguistiche su cui i nazisti si sono tacitamente accordati, codificando un vero e proprio gergo, un’inattaccabile corazza per difendere se stessi dal contatto con il male cui prendevano parte direttamente in prima persona. Utilizzare il nuovo codice, anziché nominare fatti e cose con il loro significante più consueto, permise alla comunità dei parlanti di assegnare, con maggiore facilità, un nuovo significato ad azioni e valori. Il rapporto tra i fatti e la loro ascrizione ad una dimensione assiologica fu stabilito su basi del tutto nuove, capaci di ribaltare ogni più ovvia definizione di bene e di male: «le cose sono giunte al punto che la bugia ha il suono della verità, e la verità il suono della bugia» (Adorno 1994: 121). Verità e menzogna confondono i loro suoni, si scambiano di posto e si rendono irriconoscibili. La menzogna, in questo contesto, non è


più un’affermazione pronunciata con la consapevolezza di dire una falsità, «il tedesco è una persona che non può dire una bugia senza crederci» (Adorno 1994: 124), la menzogna, allora, altro non è che quella stessa realtà a cui si crede ciecamente. La realtà totalitaria contiene, nel suo stesso essere, un inganno totale. Sfogliando il Taccuino è possibile osservare come il lessico inerente la deportazione e lo sterminio assunse una codificazione del tutto particolare, volta ad attenuare e a nascondere costantemente le atrocità compiute. Bisognava mentire, mentire anche a se stessi, fino a non riconoscere più il confine tra bene e male, tra menzogna e realtà e trasformare così la realtà stessa in una menzogna. Il progetto destinato ad eliminare dalla faccia della terra i nemici del nazismo, e che portò all’uccisione di dodici milioni di persone in una manciata d’anni, assunse l’innocua denominazione di Endlösung, soluzione finale. Un’espressione che non lascia trasparire nulla dell’orrore e della violenza delittuosa del progetto nazista. Il termine Endlösung permette di sottolineare la genialità del provvedimento che permise di risolvere l’annosa questione ebraica che, fino a quel momento, non aveva visto altro che soluzioni provvisorie. Anche le singole azioni che compongono la tragedia della soluzione finale non sfuggono allo stesso mascheramento. Le SS e la Gestapo avevano il potere di “prelevare”, holen, o di chiedere a qualcuno di “presentarsi”, melden, al Comando. Holen e melden, però, sono due verbi che, nella loro consueta

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menzogna

semplicità, celavano l’inizio del dramma della deportazione. Nella richiesta di “presentarsi” o nell’improvviso “essere prelevati” si compiva il primo passo che avviava l’inarrestabile cammino, di sola andata, verso i campi di sterminio. Questi stessi campi della morte conservarono un nome di vecchia data: Konzentrazionslager, campi di concentramento, luoghi già noti alla pubblica opinione e destinati all’incarcerazione di prigionieri politici e di soggetti da rieducare attraverso il lavoro forzato. I campi di sterminio di Auschwitz, Dachau, Mauthausen, Theresienstadt, Treblinka, insieme ad altri, com’è noto, furono adoperati per una finalità ben diversa dalla detenzione, eppure conservarono

lo stesso nome dei precedenti, Konzentrazionslager. L’analisi di Klemperer ci permette di osservare come le più evidenti iniquità potevano essere spacciate per delle inezie. Le SS, infatti, rubando e rapinando, affermavano di star “mettendo al sicuro” i beni sottratti al legittimo proprietario. Allo stesso modo, il divieto governativo che impediva a migliaia di ebrei di svolgere il proprio lavoro non era riconosciuto come una brutale segregazione o una violazione dei diritti perché, utilizzando il linguaggio nazista, si parlava esclusivamente di “pensionamento” o di “esonero dal lavoro”. Seguendo lo stesso procedimento di deformazione del significato attraverso l’incessante,

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violenza | superlativismo insistente e incontestabile iterazione della menzogna, il ghetto diveniva una Judenhause, casa degli ebrei e Hitler poteva ben vantarsi di non essere un dittatore, bensì uno statista capace di aver “semplificato la democrazia”. Il Führer poteva anche aumentare i propri motivi di vanto urlando in radio di non aver “mai cercato il conflitto armato” e di voler ottenere solo “ciò che appartiene alla Germania”. Chi mai avrebbe potuto allarmarsi per la censura che colpiva i mezzi d’informazione? Hitler lo dichiarava senza mezzi termini, la sua azione non aveva nulla a che vedere con la censura, si trattava di un contributo per “disciplinare la stampa”. Chiunque sospettasse che i nazisti commettevano ingiustificati furti e rapine ai danni dei cittadini avrebbe certo dovuto ricredersi: si “mettevano al sicuro” i beni della Germania. Anzi, c’è di più, chiunque osasse riferire, a terzi, simili ‘infondati’ pensieri avrebbe certo corso il rischio di dover rispondere della frequentissima, e altrettanto temibile, accusa di Greuelpropaganda, la propaganda degli orrori, crimine imputabile a chiunque riferisse fatti sgradevoli sul governo.

3.1.1. Il superlativismo: oltre ogni misura Una particolare forma di penetrazione della menzogna nel linguaggio nazista è quella che Klemperer definisce superlativismo. L’uso e l’abuso di forme iperboliche e di espressioni esagerate costituiva il pane quotidiano della parola nazista. È pur vero che un simile uso delle aggettivazioni quantitative, a tratti esasperato, poteva essere rintracciato anche nello stile americano, tuttavia, le finalità proprie dei due universi linguistici si dimostravano profondamente differenti. Alla vanagloria americana, secondo Klemperer, faceva da contraltare l’intenzione del linguaggio nazista di confondere: «privo di scrupoli e con consapevole perfidia, si propone sempre di ingannare e stordire le menti» (Klemperer

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1998: 270). La dismisura scompagina ogni metro di valutazione. E l’assenza di misura nell’uso della lingua fa da specchio e dà forma all’assenza di limite nella ferocia della violenza. Un unico stile accomuna l’universo linguistico e il mondo della prassi, «stando ai resoconti dei testimoni, si torturava e si assassinava senza piacere, e forse proprio perché oltre ogni misura» (Adorno 1994: 115). Il numero di esempi e di situazioni in cui si rileva la presenza del fenomeno del superlativismo è talmente elevato che Klemperer non esita a definirlo «la forma linguistica della LTI più frequentemente usata» (Klemperer 1998: 273). L’uso esasperato del superlativo si evidenzia secondo differenti modalità: numerico-quantitativa, aggettivale-qualitativa e discorsivo-sintagmatica. Si esagera sulla quantità delle conquiste e dei successi in guerra, sugli anni di vita dell’Impero nazista, “eterno” e “millenario”, ma anche sulle straordinarie qualità dei caduti in guerra, le becere meschinità dei nemici e la maestosità di ogni nazista, fino a impregnare ogni discorso ed ogni frase di una ridondanza e di una magniloquenza tale da eliminare ogni parvenza di una normalità espressiva e imporre un punto esclamativo al termine di ogni dichiarazione. Lo stile del nazismo non ammette virgole e punti e a capo, né tantomeno i meditabondi punti e virgola, tipici di una ricerca dell’aurea mediocritas. Solo punti esclamativi, urla imperative che richiamano la forza del fulmine e del tuono, proprio come la stessa grafia adottata per scrivere la sigla delle SS: non due lettere sinuose, ma due fulmini, presi in prestito dall’alfabeto runico e trasformati in simbolo dell’impetuosa forza del corpo paramilitare nazista. Groβ, grande, welt, mondiale, einmalig, unico: tutto ciò che accade nella Germania di metà Novecento è privato di qualsiasi sentore di ordinarietà o banalità per essere ricoperto dalla veste dello straordinario e apparire grandioso, degno di essere citato tra gli avvenimenti annotati negli Annales. Ogni incontro diplomatico e ogni discorso di Hitler sono celebrati come momenti di

importanza storica per il Reich. Nell’impero hitleriano non esiste l’ordinario, nulla può essere ridotto al rango di normalità, tutto deve essere urlato e riecheggiare incessantemente: ogni fatto è un evento, ogni novità una notizia. L’effetto provocato dall’uso di queste forme di esagerazione verbale è devastante. Klemperer non indugia nel denunciare la “maledizione del superlativo”: «è una maledizione che lo segue necessariamente in tutte le lingue. Infatti, dappertutto accade che un’esagerazione permanente porta necessariamente a ulteriori e maggiori esagerazioni, le cui conseguenze inevitabili sono agnosticismo, scetticismo e, infine, incredulità» (Klemperer 1998: 276). Nell’esagerazione, nel superlativismo, il filologo di Dresda rintraccia uno tra i più evidenti strumenti della menzogna che, giorno dopo giorno, urla dopo urla, trasforma il mondo del linguaggio e dell’azione.

3.2. Il linguaggio della violenza e la violenza del linguaggio Quella della violenza appare una categoria capace di abbracciare numerose pagine delle osservazioni e delle annotazioni qui prese in considerazione. La violenza, infatti, attraversa come un fil rouge tutti i dodici anni della storia dell’uomo e del filologo, raccontata da Klemperer come estremo atto per attestare il suo essere ancora vivo. Al linguaggio della violenza, che trova in calci e bastonate alcune delle sue principali argomentazioni, si affianca la violenza del linguaggio, nell’uso spregiudicato di insulti, volgarità e umiliazioni verbali di ogni sorta. Ai pugni assestati in pieno volto durante gli interrogatori e alle nerbate distribuite durante le perquisizioni fa eco un modo di parlare triviale, ricolmo di irrisioni e di offese nei confronti di coloro su cui si abbatteva l’efferatezza della discriminazione. Il sopruso verbale, così come l’oltraggio fisico, era divenuto talmente abituale da rendere assolutamente inconsueta l’elaborazione di un discorso politico privo di


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FIVESTEPSWITH FABIO MINAZZI

denigrazioni a carico degli ebrei e delle altre fasce di popolazione discriminate. Insultare l’ebraismo era divenuta una prassi talmente consueta che, come afferma Klemperer, «non c’è una volta in cui Hitler o Goebbels parlino dell’ebreo senza aggiungere attributi quale scaltro, astuto, imbroglione, vigliacco; né mancano le ingiurie, che la mentalità popolare riferisce all’aspetto fisico: piedipiatti, naso ricurvo, allergico all’acqua» (Klemperer 1998: 226). I diari del filologo di Dresda sono ricolmi di annotazioni riguardanti i ‘fantasiosi’ insulti nei confronti degli ebrei: “profanatori della razza”, “assassini”, “i più schifosi bastardi”, “la razza più stomachevole”, per non annoverare la tassonomia escrementizia divenuta il modo comune, e addirittura ufficiale, per rivolgersi al popolo semita. La martellante ripetizione che gli ebrei sono “sudici”, “scimmie”, “animali”, “infami” demolisce l’immagine dell’altro come uomo e fa procedere a passi spediti verso la ghettizzazione e il definitivo annientamento. Con l’assassinio di massa ciò che non è più visto come uomo viene trasformato in cosa. Cadavere già prima di essere morto, perché annientato e reso inumano nella trasformazione della propria immagine (quella collettivamente riconosciuta e quella di un corpo spogliato e deturpato all’ingresso del Lager). Secondo la cultura ebraica, per appropriarsi di qualcuno o di qualcosa bisogna possederne il nome. Varcata la soglia del campo di sterminio il proprio nome rimaneva soltanto un ricordo di tempi felici. Si veniva spogliati di tutto, anche del nome e, con esso, della propria identità e della propria umanità. Al suo posto un segno di riconoscimento univoco: il numero marchiato in modo indelebile sul braccio. La cancellazione del nome era l’atto finale di un ben più lungo processo di spoliazione, teso a spazzare via ogni traccia d’identità e a trasformare le persone in cose. La privazione del nome e la sua sostituzione con un numero di serie realizza il massimo livello di una forma di violenza già subita, in nuce, da tutti gli ebrei ancora in città, costretti ad abbandonare i propri nomi

| Pensare Auschwitz?

Nel suo libro Filosofia della Shoah lei dichiara, sin dal sottotitolo, l’intenzione di voler pensare Auschwitz. Ma dell’annientamento nazista che cosa può essere effettivamente pensato e che cosa, invece, si pone decisamente al di là di questa possibilità? La sua domanda dà per scontato l’esistenza di un presunto iato metafisico tra “ciò che può essere pensato” e “ciò che non può essere pensato”. Tuttavia, perlomeno a mio avviso, occorre superare criticamente una diffusa ed egemone concezione in nome della quale, quando si parla dei campi di sterminio nazisti, si entrerebbe in un ambito che eccede la pensabilità umana. Ma perché mai? Se i campi di sterminio nazisti sono stati progettati, costruiti e infine gestiti da uomini in carne ed ossa come noi, perché mai non potremmo allora pensare a ciò che è accaduto in quei luoghi? Tra i dati analitici e le testimonianze dirette, tra l’elaborazione concettuale e una sofferta empatia, si pone la delicata questione della didattica della Shoah. In che modo spiegare ai giovani che cosa accadde nei campi di sterminio? Penso che occorra dire ai giovani la verità: nei campi di sterminio nazisti sono stati assassinati circa dodici milioni di uomini, donne e bambini. Per spiegare poi la sorgente originale del complesso processo storico e sociale che ha condotto alla costruzione e gestione di queste “fabbriche della morte” occorre insistere sul nucleo fondante del nazismo: il suo razzismo. La negazione dei diritti inalienabili di ciascun uomo ha infatti costituito la strada maestra che ha portato ad Auschwitz. La riflessione su quanto avvenuto nella Germania del terzo Reich chiede di discernere gli elementi di unicità e di universalità dell’orrore dello sterminio nazista. Lei dove individua questo discrimine? Non penso che gli assassini di massa perpetrati dai nazisti costituiscano un evento “unico” ed irripetibile nell’ambito della storia umana. Certamente le modalità specifiche con le quali i nazisti hanno operato il loro sterminio di massa vanno considerate assai analiticamente nella loro specifica peculiarità storica ed ideologica, tuttavia la storia umana è purtroppo costellata da una innumerevole quantità di altri stermini e di altri svariati crimini contro l’umanità. Lo sterminio perpetuato dai nazisti nel XX secolo, nel cuore dell’Europa, non deve affatto farci dimenticare gli stermini posti in essere da altri movimenti politici in altre situazioni storiche e in altri contesti geo-politici: basterebbe per esempio pensare ai crimini contro l’umanità e agli autentici stermini di massa operati dal colonialismo in Africa ed in Asia. E bisognerebbe ricordare che anche l’Italia ha commesso tali odiosi crimini. L’analisi del linguaggio nazista conduce ad un’attenta disamina dei termini da utilizzare per dare un nome a questo indicibile. Quali sono le parole da lei scelte per parlare di questo drammatico evento? Nel Vangelo si afferma che le nostre parole devono essere «si si, no no», giacché tutto il resto viene dal Maligno. Pertanto per parlare di quanto è successo nei campi di sterminio nazisti penso che occorra usare una sola espressione: assassini di massa. In quei luoghi i nazisti, grazie alle proprie “fabbriche della morte”, hanno assassinato dodici milioni di persone, cancellando dalla faccia della terra tutte le persone che ritenevano, sia pur per molteplici ragioni, razzialmente inferiori, diversi, asociali, oppositori politici, immorali e, comunque, del tutto inadatti al loro regime nazista. Tesi negazionista, processo di beatificazione di Pio XII, furto della scritta all’ingresso di Auschwitz, celebrazione della giornata della memoria, a sessantacinque anni dalla liberazione di Auschwitz l’orrore nazista riecheggia ancora nel nostro quotidiano. Quale la sua attualità? La sua attualità è l’attualità di qualunque tendenza razzista che voglia negare i diritti fondamentali ed inalienabili degli uomini per introdurre differenze razziali ed inique disuguaglianze giuridiche tra gli uomini. Ogni volta che si menomano, in vario modo, i diritti inalienabili ed universali degli uomini ci si colloca sempre su una strada che conduce, passo dopo passo, agli orrori di Auschwitz e allo sterminio dei diversi. Per questo occorre sempre difendere i diritti degli uomini, operando per una loro continua e sistematica diffusione planetaria, estendendoli anche a tutti i viventi (anche quelli non umani), tutelando un delicato e complesso patrimonio di civiltà che costituisce, invero, il nostro bene più prezioso e irrinunciabile.

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aforisma per assumerne altri chiaramente identificabili come nomi ebraici. Tutti gli uomini, pertanto, erano costretti ad anteporre al proprio nome il più ebraico “Israel” e le donne “Sara”. Gli ebrei dovevano essere immediatamente riconoscibili. Il 19 settembre 1941, il giorno in cui fu introdotto l’obbligo per gli ebrei di indossare la stella di David, è ricordato da Klemperer come il giorno più terribile di quei dodici anni: «ogni ebreo con la stella portava con sé il proprio ghetto, come la chiocciola la sua casa» (Klemperer 1998: 214). La classificazione dell’ebreo appare una metodica ossessione nazista. Oltre ad essere immediatamente identificato, l’ebreo doveva trovare anche la sua giusta collocazione in una sorta di griglia di catalogazione. Un ebreo non era solo un ebreo, poteva essere un Weltjude, l’ebreo mondiale, un artfremd, estraneo alla specie, se possedeva il 25% di

sangue non ariano, ma anche un Volljude, ebreo totale o Halbjude, ebreo per metà, un Mischlinge, cioè un misto di primo grado o uno Judenstämmlinge un discendente da ebrei o, ancora, un privilegiato, condizione più vantaggiosa riservata a coloro che avevano contratto un matrimonio misto e i cui figli erano stati educati come tedeschi. Questa è l’occupazione della lingua denunciata da Klemperer. Un’occupazione che permette di esercitare la violenza nazista anche attraverso le parole e che nello stesso tempo esercita su queste parole tutta la violenza propria dell’invasore, manipolando la lingua per i propri scopi, come argomenta Aldo Enzi: È destino di tutte le parole trasformarsi nel volger del tempo secondo una diagonale di forze: da un lato la costanza, o il peso, della tradizione, di questa forza di inerzia dei valori conoscitivi, che agisce nel senso della diacronia, della storia;

Si segnalano, pertanto, solo alcuni titoli particolarmente significativi tra i numerosissimi altrettanto rilevanti: Amèry, J. 2002. Intellettuale a Auschwitz. Torino: Bollati Boringhieri. Padoan, D. 2004. Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne soprav-

Testimonianze Le testimonianze dirette raccolte dal dopoguerra ad oggi sono numerosissime e imponenti archivi custodiscono i racconti dei sopravvissuti e il dramma intimo e individuale da essi subito.

vissute ad Auschwitz. Milano: Bompiani. Springer, E. 1997. Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione. Venezia: Marsilio. Wiesel, E. 2007. La notte. Firenze: La Giuntina.

PERCORSI

Qual è la forma espressiva più adatta per raccontare che cosa accadde nei campi di sterminio? Un intenso confronto si è sviluppato a partire da questa domanda e le diverse risposte hanno dato vita ad una feconda produzione artistica e letteraria.

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Poesia È barbaro scrivere poesie dopo Auschwitz? Le affermazioni del filosofo francofortese trovano nei versi di Umberto Saba e di Paul Celan una valida risposta ai suoi aforismi. Celan, P. 1997. Fuga di morte. In Antologia della poesia tedesca. Milano: Mondadori. Saba, U. 1988. La capra. In Saba, U., Tutte le poesie. Milano: Mondadori. Fumetti La storia di una famiglia e la tragedia della Germania nazista si intrecciano come la trama di immagini e parole che danno vita

dall’altro le spinte laterali di nuove esigenze espressive che agiscono nella contemporaneità, nella sincronia. Però mentre nella vita per così dire democratica del segno linguistico il significato muta, si adegua, si trasforma entro l’ambito di un equilibrio naturalmente determinato da un gioco libero e spontaneo di attività diacronica e di pressione sincronica, e i nuovi valori si originano come da un intimo misterioso intercambio, nella società totalitaria l’equilibrio può spezzarsi sotto l’assalto di una volontà esterna, alienante, di una forzosa interpretazione politica, dando luogo ad una coartazione dei valori simbolici, a una semanticità strumentalizzata. Le parole allora trasformano in eventi le follie ideologiche. […] Dunque la lingua riflette sempre in ritardo le mutazioni semantiche dovute alla evoluzione delle correnti di pensiero; in

ad una storia illustrata. In Maus gli ebrei, rappresentati dai topi, sono in balia della furia dei nazisti, sotto le specie di gatti. Spiegelman, A. 2000. Maus. Torino: Einaudi. Film Gli sguardi dei registi si posano sui campi di sterminio per far vedere che cosa avvenne lì dentro, attraverso punti di vista molto differenti: quello di un bambino, di un documentarista, di chi sogna una storia diversa, di chi impara a conoscere la violenza che anticipa l’epilogo nei Lager. Il nastro bianco. Regia di Michael Haneke. Con Christian Friedel, Leonie Benesch, Ulrich Tukur, Ursina Lardi, Burghart Klaußner, et al. Austria, Francia, Germania 2009. Jona che visse nella balena. Regia di Roberto Faenza. Con Juliet Aubrey, JeanHugues Anglade, Jenner Del Vecchio, Francesca De Sapio. Italia, Francia 1993. Train de vie - Un treno per vivere. Regia di Radu Mihaileanu. Con Agathe De La Fontaine, Lionel Abelanski, Rufus, Clément Harari, Marie José Nat, Bruno Abraham-Kremer, Michel Muller, Johan Leysen. Francia, Belgio, Romania, Germania 1998. Shoah. Regia di Claude Lanzmann. Francia 1985.


Shoah

Auschwitz I (Oświęcim) | ♣ ℓ u m i è r e ♣ / Pablo Nicolás Taibi Cicaré | licenza Creative Commons

altre parole le trasformazioni dei valori simbolici sono sempre in ritardo rispetto agli avvenimenti. Ora, invece, nel nazismo assistiamo a un intervento immediato della potenza politica che inserisce d’autorità significati e parole nuovi nel tessuto sociale, sicché in molte parole si rivela non la motivazione inconscia, ma l’imposizione di un significato provocata da esigenze mistificatrici (Enzi 1971: 2,3).

3.3. Iterazione e aforisma: la morte del dubbio Il totalitarismo annulla in sé ogni possibilità dialettica. L’alterità e la negatività sono dissipate nella totalità strutturata dal sistema. Il pensiero critico è messo al bando, ma si rinforzano i muscoli delle braccia pronte ad operare ciò che è stato ordinato. Per obbedire non serve pensare. Anzi, per obbedire al meglio è di tutto vantaggio esimersi dalla responsabilità di un pensiero proprio. Servono ingranaggi, non sistemi intelligenti. Non bisogna porre domande, si deve agire. La morte della domanda è il primo passo che segna il distacco dall’esercizio della ragione. Nessuna ricerca può essere avviata lì dove la certezza si palesa in tutta la sua integrità. Rimuovere ogni dubbio e cancellare i punti interrogativi. La LTI non offre parole a chi vorrebbe porre domande o intraprendere una ricerca guidato dalla propria coscienza, è la lingua di un fideismo cieco, che rinuncia alla ragione e al discernimento personale e fa appello al sentimento: «non ha senso – protestava una donna al cospetto di Klemperer e delle sue argomentazioni – perché tutte le sue domande provengono dalla ragione […] deve abbandonarsi al sentimento» (Klemperer 1998: 139). Lo stile che contraddistingue il linguaggio nazista è l’estrema povertà. Povero perché continuamente identico a se stesso. Povero perché frutto di un pensiero povero e perché capace di impoverire il pensiero stesso. L’ostinata ripetizione di frasi sempre

uguali e degli stessi identici cliché favorisce il formarsi di un solo sentire comune. La tecnica è quella dello slogan facilmente ripetibile, con un continuo martellamento di teorie semplicistiche e incontestabili. La frequenza della ripetizione delle stesse frasi permette di riconoscere con estrema evidenza l’incontestabile limitatezza di questa lingua, «la sua è una povertà di principio: è come se avesse fatto voto di povertà» (Klemperer 1998: 37). Tutte le persone, di qualunque professione o estrazione sociale, colte o ignoranti, ricche o povere, parlavano in un identico modo. Anche le stesse vittime avevano assimilato e utilizzavano quelle parole che le costringevano ad indossare le lenti del carnefice: «perfino in coloro che erano le vittime più perseguitate […], altrettanto onnipossente quanto povera, resa anzi onnipossente dalla sua povertà, regnava la LTI» (Klemperer 1998: 38). L’arte dell’aforisma accorre a svolgere la sua funzione di freno rispetto al ragiona-

mento e al dialogo. Come insegna Sandro Briosi: [gli aforismi] nascono dal rifiuto del dialogo, dalla paura del logos, da un atto di terrorismo intellettuale. […] Indurre l’ascoltatore a cogliere quella verità per così dire qualche tempo dopo che egli ha compreso il senso primo ed evidente dell’affermazione: e nel frattempo l’autore dell’affermazione si è come allontanato, il dialogo è divenuto impossibile, la verità si impone come un atto di violenza anonima (Briosi 1998: 38).

Il meccanismo delle “frasi fatte” non permette nessuna forma di dialogo. Anche il dialogo con se stessi è arduo di fronte ad un’affermazione aforistica che offe al pensiero un porto sicuro, al riparo della sua necessitante verità. Una verità così mirabilmente forgiata in una frase, che è impossibile mettere in discussione, e come un prezioso gioiello ha solo da essere ammirata ed esibita. Nata in ambito medico con Ippocrate,

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Victor Klemperer allo scopo di riassumere massime comportamentali benefiche per la salute, la storia dell’aforisma si articola in modo assai vario e la sua strumentalizzazione ad opera dei regimi totalitari è solo una particolare ramificazione delle sue complesse vicende. La scrittura aforistica non è certo prerogativa esclusiva dei regimi dittatoriali, tuttavia in tali circostanze si è testata l’evanescenza del suo statuto aletico, a fronte di una forza persuasiva straordinaria, come straordinaria è la sua brevità. Lo stile più adatto a rappresentare una personalità esplosiva ed energica, come quella modellata per l’abito nazista a cui sono invisi gli scrittori flemmatici e sonnacchiosi. Importante strumento conoscitivo, se preso a scatola chiusa per la seduzione della sua forma, «l’aforisma si presenta come l’ultimo rifugio per chi non vuol pensare […] ci dice quello che già credevamo o già desideravamo credere» (Eco 2004: 159). Le pillole di ipse dixit, rassicuranti e ingurgitate senza fatica, durante il dominio nazista hanno decretato la morte della coscienza di un intero popolo. Hanna Arendt ascolta le deposizioni di Adolf Eichmann, osserva lo sgomento che lo assale davanti alla richiesta di rispondere a dei perché: la sua coscienza era come un contenitore vuoto priva di un proprio linguaggio, capace solo di articolare la lingua della ‘società rispettabile’4. Nella Germania di metà Novecento l’appello all’impiego di uno stile aforistico non coincide con la nietzscheana volontà di sottrarsi allo spirito di sistema: il totalitarismo non è totalitario nella sua teorizzazione, predilige il frammento capace di mostrare i muscoli e pretendere ubbidienza5.

3.4. In lingua veritas «Il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza dalla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente» (Klemperer 1998: 32). In queste pagine si è tentato un accenno al modo

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in cui il nazismo si è insinuato nel corpo e nella lingua del popolo tedesco, ma questo esempio particolare, seppur nella sua unicità storica, ci permette di stabilire dei criteri di fondo della trasformazione del linguaggio ad opera dei sistemi dittatoriali. In un contesto storico completamente differente, nella Romania degli anni Settanta-Ottanta, anche il premio Nobel Herta Müller porterà avanti la sua lotta contro la “lingua di legno” del regime comunista di Ceausescu: per resistere, afferma la Müller, per non lasciarsi penetrare dalla violenza della dittatura. Il nostro filologo ci propone un esperimento: provare a sostituire Stalin a Hitler, bolscevismo a nazionalsocialismo e osservare che i discorsi sono esattamente gli stessi Nel controllo del linguaggio si ritrovano le chiavi per il dominio della realtà. Attraverso l’esperienza del totalitarismo è possibile ricomprende il valore squisitamente politico del linguaggio e sviluppare un nuovo orizzonte di pensiero che nel linguaggio nazista e in altre particolari situazioni storiche ritrova delle importanti fucine per una più ampia riflessione. Nella lingua siamo immersi ed essa ci scorre nelle vene, come l’aria che respiriamo entra nel nostro corpo e diventa il nutrimento del nostro sangue. Così la lingua plasma incessantemente la realtà esterna e il mondo interiore. È la lingua, per concludere con Klemperer, che «crea e pensa per te».

Riferimenti bibliografici Arendt, H. 2005. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. Milano: Feltrinelli. Briosi, S. 1998. Simbolo. Firenze: La Nuova Italia. Eco, U. 2004. Note sull’aforisma. Statuto aletico e poetico del detto breve. In G. Ruozzi (ed.), Teoria e storia dell’aforisma. Milano: Mondadori, pp. 152-166. Enzi, A. 1971. Il lessico della violenza nella Germania nazista. Bologna: Riccardo Patron.

Klemperer, V. 1998. LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo. Firenze: La Giuntina. Klemperer, V. 2000. Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945. Milano: Mondadori. Kershaw, I. 2004. Hitler e l’enigma del consenso. Bari: Laterza. Müller, H. 2009. Lo sguardo estraneo. Palermo: Sellerio. Viviani, C. 2004. Note sull’aforisma. Statuto aletico e poetico del detto breve. In G. Ruozzi (ed.), Teoria e storia dell’aforisma. Milano: Mondadori, pp. 149-151. Endnotes

1 Tesi sostenuta in Enzi, A. 1971. Il lessico della violenza nella Germania nazista. Bologna: Riccardo Patron. Aldo Enzi, nell’opera qui citata, offre uno straordinario strumento di ricerca: un vero e proprio glossario dei lemmi coniati e alterati dal nazismo, le sigle utilizzate, i termini militari, le parole e locuzioni popolari e dell’opposizione, per un totale di quasi settemila voci. 2 Il proposito di testimoniare fino alla fine è espresso emblematicamente nel titolo dei diari pubblicati postumi nel 1995 a Berlino: Klemperer, V. 2000. Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945. Milano: Mondadori. 3 Klemperer, V. 1998. LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo. Firenze: La Giuntina. LTI è un titolo canzonatorio per prendersi gioco del vezzo nazista di inventare una quantità esasperata di sigle. LTI, secondo l’invenzione klempereriana, significa Lingua Tertii Imperii, annotazioni sulla lingua del terzo Reich, il cosiddetto “millenario impero tedesco”. 4 La voce della propria coscienza era messa a tacere e sostituita dalla voce del Führer, capace di risuonare nell’intimo di ogni nazista. C’era una volontà più grande di quella del singolo che bisognava realizzare ad ogni costo: la «volontà del Führer» alla luce della quale era d’obbligo operare e interpretare la stessa legge (cf. Kershaw, I. 2004. Hitler e l’enigma del consenso. Bari: Laterza). 5 Viviani, C. 2004. Note sull’aforisma. Statuto aletico e poetico del detto breve. In G. Ruozzi (ed.), Teoria e storia dell’aforisma. Milano: Mondadori, pp. 149-151.


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PSICOLOGIA

Sergio Salvatore

DUBITARE IN PSICOLOGIA PER NON DUBITARE DELLA PSICOLOGIA

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scienza nomotetica

I

ntroduzione

Vi sono molteplici, fondati elementi per esprimere dubbi sulla psicologia, sulla capacità di tale disciplina di generare conoscenza scientifica innovativa, capace di gettare un nuovo sguardo sulle faccende umane. Il tema della crisi della psicologia è ampiamente discusso all’interno del suo stesso campo disciplinare. Molti sono coloro che hanno sottolineato lo stallo in cui si ritrova la ricerca psicologica contemporanea (Smedslund 1987, Valsiner 2009). Si lamentano il debole fondamento teoretico e la frammentazione del linguaggio disciplinare, la sua contiguità con il senso comune, la scissione tra ricerca e teoria, l’incapacità di pervenire a risultati rilevanti. La ricerca psicologica sembra non riuscire ad andare oltre la produzione di conoscenze che sistematizzano e danno fondamento empirico a ciò che già appartiene al patrimonio comune di esperienza e di senso. Tali conoscenze, proprio per la loro coerenza con il senso comune, riescono a trovare spazio sui mass media, a solleticare curiosità nell’opinione pubblica; in alcuni ambiti (ad esempio nel marketing, nel campo dell’intervento clinico) si traducono in criteri operativi e strumenti che hanno mostrato una certa utilità. Tuttavia nulla di tutto ciò è sufficiente per mettere la psicologia al passo con scienze quali la fisica, la chimica, ma anche la linguistica, nel loro potere di costruire la visione che la contemporaneità ha del mondo e di se stessa. A ben vedere, la stessa immagine dello stallo ha una valenza consolatoria. Essa implicitamente qualifica come contingente la situazione a cui si riferisce. Come se fossimo alle prese con una parentesi critica di interruzione di un movimento normale capace di ben altro dinamismo. Il carattere retorico di simile immagine sta nel fatto che di crisi della disciplina se ne parla da quasi due secoli (Teo 2005)! Chi scrive è tra coloro che ritengono che questa situazione di crisi permanente non si risolve continuando ad accumulare

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dati empirici, frutto di ricerche sempre più sofisticate sul piano dei modelli di analisi, ma sempre meno fondati e proiettati su concetti di respiro generale. Ciò che serve è un ripensamento profondo e sistematico degli assunti posti a fondamento della psicologia contemporanea. Soltanto un simile sforzo di riflessione epistemologica e di analisi concettuale può aprire prospettive di sviluppo, permettendo alla disciplina di andare oltre l’empiricismo acefalo in cui versa. Si tratta, in definitiva, di rimettere in discussione assunti che la maggior parte degli psicologi contemporanei dà per acquisiti, per creare lo spazio per nuove opportunità di conoscenza. Questa è la prospettiva che il titolo di questo lavoro richiama: perseguire il dubbio sistematico sui fondamenti disciplinari per evitare che la psicologia sia messa in dubbio come forma di sapere scientifico. Nelle pagine che seguono mi ripropongo di offrire un esempio di analisi critica dei fondamenti. Lo farò in relazione a un aspetto centrale: il modello di conoscenza. D’altra parte, esercitare il dubbio sistematico implica un modello psicologico del dubbio. La seconda parte di questo saggio è dedicata a tracciare i lineamenti di tale modello.

1. Il modello di conoscenza La psicologia contemporanea è identificata con l’immagine di scienza nomotetica (Lamiel 1998 e Salvatore, Valsiner 2010). Tale identificazione si è realizzata tuttavia sulla base di una concezione riduttiva della nomoteticità, che è stata intesa come equivalente alla affermazione del carattere ergodico dei fenomeni psicologici (Molenar 2004 e Molenar, Valsiner 2009). In termini generali, l’ergodicità è la proprietà di un fenomeno in base alla quale la variabilità con cui tale fenomeno si manifesta entro gli individui è strutturalmente identica entro la popolazione di tali individui. Conseguentemente, tale variabilità può essere interpretata come soggetta a mere variazioni casuali che possono dunque essere contrastate at-

traverso procedure statistiche e/o di campionamento. Sulla base dell’assunto dell’ergodicità dei fenomeni di cui si interessa, la psicologia ha realizzato una scissione tra un’ontologia individualista (l’assunto secondo il quale l’oggetto della psicologia è l’individuo nella sua dimensione di processualità psichica) e una metodologia in buona sostanza sociologica, basata sulla nozione fondamentale di popolazione. È la centralità della nozione di popolazione, come fondamento metodologico della costruzione del dato empirico ad aver portato al trionfo dell’empiricismo in psicologia. La stragrande maggioranza delle miriadi di ricerche che si realizzano nei diversi ambiti della disciplina psicologica hanno per obiettivo lo studio di meccanismi in ultima istanza relativi all’individuo (il funzionamento della mente come fenomeno psicologico individuale), ma operano in tal senso attraverso la produzione di dati ricavati da aggregati di soggetti (gruppi, campioni), assunti come rappresentativi di popolazioni. Le popolazioni sono aggregati. A differenza degli essere umani che sono radicati in una corporeità vincolata a specifiche coordinate spazio-temporali, le popolazioni sono macchine concettuali prive di vincoli spazio-temporali, dai confini teorici volatili. Le popolazioni non esistono in natura. Sono piuttosto il prodotto di generalizzazioni: ogni volta che viene definita una proprietà, ipso facto si sta costituendo un insieme di oggetti che sono raggruppabili da tale proprietà. La proprietà assume la funzione logica di criterio distintivo, una classe. I membri della classe possono variare dal punto di vista della quantità della proprietà distintiva, ma il possesso della proprietà in quanto tale è concepito come dato e permanente, in quanto elemento distintivo rispetto alle altre classi-popolazioni. Da qui a definire una certa classe una popolazione il passo è breve. In ultima istanza dipende dalla plausibilità culturale della proprietà assunta a riferimento. Il repertorio di popolazioni che caratterizza la ricerca psicologica sta lì ad indicarlo: uomini, omoses-


generalizzazione induttiva suali, portatori di cultura asiatica, studenti, campo dipendenti, lavoratori, sportivi, figli adottivi, adolescenti, nevrotici, e così via. La “popolarizzazione” della psicologia facilita enormemente – almeno sul piano logico – il compito di produrre dati. È sufficiente assumere un determinato criterio e trattarlo come una essenza, in quanto tale presente in ogni membro della collezione definita da tale criterio. In questo modo la collezione diventa classe e la classe popolazione. A questo punto, si selezionerà un campione da tale popolazione e, sulla base del presupposto che tale insieme di soggetti posseggono per definizione la proprietà di interesse, si assumerà che la conoscenza prodotta su di essi concerne la popolazione nel suo complesso. La nozione di popolazione, dunque, ha offerto alla psicologia la possibilità di adottare la generalizzazione induttiva come modello di conoscenza. Grazie a tale modello, la ricerca psicologica (ovviamente non tutta, ma una parte rilevante di essa) ha potuto saltare a piè pari il problema concettuale e metodologico, mai pienamente risolto, di modellizzare la variabilità intra-individuale, vale a dire la dinamica temporale che caratterizza il singolo soggetto nella propria relazione con il contesto. L’assunzione di ergodicità risolve alla base tale problema concettuale, affermandone sul piano teorico la sua negazione. Si tenga conto che il principio di ergodicità non nega la variabilità intra-individuale sul piano fenomenico. Anche perché a tale variabilità il soggetto può dare due risposte diverse allo stesso stimolo in due momenti diversi considerati in sé non differenzianti. Al contrario, l’ergodicità offre un’interpretazione della variabilità intra-individuale come aspetto contingente, residuale e casuale, distribuito in modo omogeneo tra gli individui della popolazione, privo dunque di valore concettuale (Molenaar, Valsiner 2009). La variabilità intra-individuale viene così trasformata nella quota di errore che accompagna inevitabilmente la variabilità tra i soggetti della popolazione, in quanto tale controllabile attraverso le opportune procedure di analisi dei dati.

Un esempio può aiutare a rendere chiaro il punto. Si pensi ad un ricercatore interessato a comprendere l’effetto di una psicoterapia. Tale ricercatore costruirà un campione della popolazione dei pazienti. In quanto membri di tale popolazione, assumerà che tali soggetti posseggono la “pazientità” come specifica proprietà caratterizzante. A questo punto dividerà i soggetti dotati di “pazientità” in due gruppi, uno sottoposto a psicoterapia e l’altro no. Dal momento che tale divisione è fatta in modo casuale, si assume che mediamente i due gruppi siano uguali. Non perchè siano uguali i singoli individui che li compongono, ma perchè le differenze tra essi si distribuiranno casualmente tra i due gruppi. A questo punto sceglierà un determinato indicatore come misura della variabile che gli interessa studiare (nel nostro caso, un indicatore dell’efficacia della psicoterapia; ad esempio, un indicatore del senso soggettivo di benessere) e misurerà con esso i membri del campione. Se il risultato medio dei pazienti trattati sarà superiore a quello dei pazienti non trattati, allora tale differenza sarà attribuita all’unica differenza che il disegno della ricerca ritiene abbia distinto i due gruppi: l’aver fruito o meno una psicoterapia. Questa logica di costruzione dei dati si basa, a ben vedere, su un assunto tanto forte quanto in genere lasciato implicito e considerato ovvio. L’efficacia della psicoterapia non viene misurata a livello degli individui, ma sul piano aggregato del gruppo, come differenza tra tali aggregati: la sottoclasse dei pazienti in trattamento e dei pazienti non in trattamento. Tale risultato viene poi generalizzato agli individui. Nel fare ciò tuttavia, nessun ricercatore si sognerebbe di affermare che ogni individuo riflette perfettamente il risultato medio. Tale affermazione è del resto smentita sistematicamente dal fatto che all’interno di ciascun gruppo i livelli del parametro variano, spesso anche notevolmente, al punto che non è raro il caso per cui soggetti di un gruppo mostrano valori più vicini a quelli dell’altro gruppo che a quelli del proprio. Ci si

potrà allora chiedere: che cosa autorizza a ritenere il dato aggregato rappresentativo dei singoli soggetti? La risposta è data per l’appunto dall’assunto di ergodicità. Grazie a tale presupposto, il ricercatore può tollerare che i soggetti siano tra loro differenti, in quanto tale differenza in ultima istanza è concepita come espressione della variabilità intra-individuale. Vale a dire: dal momento che i soggetti P appartengono alla stessa popolazione e dunque posseggono la stessa P-ità allo stesso modo, se vi è differenza tra la risposta del soggetto P1 e del soggetto P2, tale differenza è un effetto marginale legato alla contingenza (in termini tecnici: la componente di varianza dovuta all’errore della misura). Tale effetto marginale è dunque concepito come legato al caso, per tale ragione distribuito omogeneamente tra tutti i soggetti della popolazione. Il che equivale a dire che tale variabilità si annulla a livello di valori aggregati. Ecco così che la popolazione diventa la macchina concettuale, prima ancora che artificio tecnico, che permette di assimilare la variabilità intra-individuale a quella inter-individuale e dunque di liquidare la prima attraverso e nei termini del controllo computazionale della seconda. Come abbiamo detto, tale modello di conoscenza ha permesso alla ricerca psicologica di sviluppare una straordinaria capacità di produzione empirica. Ci si potrebbe allora chiedere: se un simile dispositivo funziona così bene e con così grande soddisfazione da parte della maggior parte dei suoi interpreti, perchè metterlo in dubbio? La ragione sta nel fatto che l’ergodicità è una proprietà che mal si adatta alle dimensioni psicologiche. Il che rende impraticabile la generalizzazione induttiva come fondamentale modello della conoscenza psicologica. A prima vista questa affermazione si presta ad essere interpretata come meramente distruttiva. In realtà essa, nel momento in cui pone dei vincoli alla riproduzione dell’ovvio, apre nuove e stimolanti prospettive, nella direzione del recupero di una tradizione di psicologia idiografica (Salvatore, Valsiner 2009 e Salvatore, Val-

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Peirce siner et al. 2010) che la ricerca degli ultimi cinquant’anni ha progressivamente abbandonato. L’orientamento idiografico è un approccio metodologico conseguente ad un’analisi critica dell’oggetto della psicologia e alle implicazioni epistemologiche che da tale analisi scaturiscono. Il punto centrale posto a suo fondamento è dato dal riconoscimento del carattere contestuale dei fenomeni psicologici. La psicologia ha a che fare con fenomeni intrinsecamente contingenti alle condizioni storico-culturali e intersoggettive entro cui si dispiegano. Questa campo-dipendenza dei fenomeni ha una conseguenza rilevante: nessuna occorrenza di un fenomeno psicologico può essere considerata in sé significativa, in quanto va interpretata in ragione del contesto in cui si manifesta, essendo il suo significato funzione di tale relazione. Ma tale affermazione ha una conseguenza di fondamentale rilievo dal punto di vista metodologico: nessuna occorrenza può essere considerata intrinsecamente equivalente ad un’altra, per quanto ampia sia la gamma delle loro caratteristiche comuni. Ciò in quanto tali due occorrenze avranno comunque un numero infinito di ulteriori caratteristiche differenzianti, espressione della diversa relazione che esse intrattengono con i rispettivi contesti. Si pensi ad esempio a due frasi, identiche nelle parole utilizzate. Dal punto di vista dell’evento singolare della loro occorrenza, tali frasi sono identiche. Possiamo dunque affermare che sono effettivamente la stessa frase? Evidentemente no, in quanto il loro significato non risiede nelle parole, ma nel rapporto tra tali parole e il contesto in cui sono state prodotte, in ragione del quale esse si qualificano come atto comunicativo rivolto a qualcuno, dotato di un certo intento in funzione di una determinata regolazione del rapporto. Dal momento che quanto detto a proposito delle frasi vale anche per qualsiasi occorrenza di interesse psicologico, dobbiamo concludere che gli oggetti di interesse di tale disciplina sono intrinsecamente incommensurabili. Dove per incommensurabilità si intende l’im-

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possibilità di assumere la loro somiglianza fenomenica – per quanto estesa essa sia – come condizione necessaria e sufficiente di inclusione nella stessa classe (in altri termini come criterio per considerarli esemplari equivalenti della stessa popolazione). In questo senso, dunque, gli oggetti psicologici sono unici. La conseguenza più immediata del principio idiografico dell’unicità è la impraticabilità del concetto di popolazione in ambito psicologico. Più in generale, tale principio mette in discussione in modo radicale il ruolo della generalizzazione induttiva come fondamentale struttura logica della conoscenza psicologica. Se gli esemplari non sono tra loro commensurabili, non vi può essere attività induttiva, ovverossia la trasformazione di una ridondanza tra gli eventi in una regola generale. Più in particolare, la generalizzazione induttiva funziona nei termini dei seguenti quattro passaggi logici (Valsiner 2009): 1. Un determinato esemplare dell’oggetto di analisi (ad esempio, Giorgio in quanto persona che gioca a scacchi) condivide aspetti rilevanti con altri oggetti simili (altre persone che giocano a scacchi). 2. Dunque Giorgio è un esemplare della classe di tali oggetti (la classe dei soggetti dotati della qualità della “giocatore-di-scacchità”). 3. Dunque Giorgio è dotato della qualità della giocatore-di-scacchità. 4. Dunque analizzando il comportamento di Giorgio si studia il funzionamento della qualità della giocatore-di-scacchità. È interessante osservare come la critica idiografica alla psicologia abbia una propria tradizione in campo psicologico. Tale critica, tuttavia, è stata spesso concepita in chiave meramente destrutturante, come rifiuto – in genere polemico – del carattere nomotetico della ricerca psicologica, in favore di una psicologia del caso singolo. La psicologia idiografica si è storicamente caratterizzata come critica radicale della pretesa della psicologia come progetto scientifico volto alla definizione di conoscenza generale a valore universale. Questa

visione ha così finito per contrapporre ad una premessa assunta in chiave assoluta – l’ergodicità dei fenomeni psicologici – una opposta ma altrettanto assoluta premessa, in definitiva dipendente dalla prima – la non ergodicità – in tal modo creando due campi contrapposti in grado di alimentare la propria autoriproduzione attraverso la reciproca militanza. Quanto sopra osservato rende evidente come l’esercizio del dubbio sistematico è processo differente dall’attacco distruttivo delle premesse fondative del discorso. Al contrario, l’esercizio del dubbio consiste nell’introduzione di un principio di estraneità come luogo intermedio, necessariamente precario e deperibile, tra l’adesione acritica ad una visione scontata del mondo e un rifiuto militante e globale di tale visione, possibile solo a partire ed in funzione di una ulteriore visione, assunta in modo indubutabile. Su questo punto torneremo nel prossimo paragrafo. Torniamo ora all’approccio idiografico. Perchè possa costituirsi come un’innovazione della nomoteticità la psicologia idiografica deve elaborare un modello di generalizzazione alternativo a quello induttivo. Solo in questo caso l’approccio idiografico sarà in grado di portare a sintesi il riconoscimento della incommensurabilità degli oggetti della conoscenza psicologica e la sua vocazione scientifica, cioè il suo fine di disciplina volta a produrre conoscenza generali. Una possibile risposta in tale senso è offerta dall’inferenza abduttiva, così come modellizzata da C. S. Peirce. …ci sono tre elementari modalità di ragionamento. Il primo, che chiamo abduzione (…) consiste nell’esaminare una massa d fatti e permettere che questi fatti suggeriscano una teoria (Peirce 1935, CP 8.209)1. «Deve essere tenuto presente che l’abduzione, per quanto poco vincolata sul piano logico, è comunque una forma di inferenza logica, che asserisce le proprie conclusioni in forma soltanto congetturale o problematica. La verità di ciò non


metodologia idiografica toglie che essa abbia una forma logica perfettamente definita. […] La forma dell’inferenza è la seguente: Il fatto sorprendente, C, è osservato Ma se A fosse vero, allora C sarebbe comprensibile Quindi, c’è ragione per sospettare che A sia vero» (Peirce 1903, CP 5.188-189).

Il modello abduttivo ha già una specifica tradizione nel campo psicologico e più in generale delle scienze umane (cf. Carli, Paniccia 2005, Ginburg 1992, Lamiell 1998) come forma del ragionamento scientifico maggiormente coerente con lo statuto dei fenomeni oggetto di tale ambito disciplinare. Non è possibile in questa sede approfondire i termini di tale modello di inferenza. Ci limitiamo a richiamare il punto centrale per la nostra discussione. Come l’induzione, l’abduzione parte dai dati empirici. Tuttavia essa non è finalizzata alla induzione di una legge generale, ma alla elaborazione di una regola locale in grado di collegare i fatti oggetto di analisi in un quadro unitario. Si pensi ad un investigatore privato che raccoglie indizi che poi deve mettere insieme in uno scenario sensato, che contemplerà l’identificazione del colpevole. In altri termini, mentre nel caso della generalizzazione induttiva la regola generale è l’assunzione a valore universale di quanto già il fatto contiene (non a caso Peirce definisce l’induzione la formazione di una abitudine), nell’abduzione i fatti sono come tasselli di un puzzle non conosciuto che va scoperto attraverso la combinazione dei tasselli, per dare senso ai tasselli stessi. Il che equivale a dire che la omogeneità tra i fatti non è, come nel caso dell’induzione, un presupposto (che, nel caso della psicologia non è possibile assumere) ma il risultato dell’analisi. In altri termini, l’abduzione non generalizza in ragione della somiglianza tra fenomeni (operazione impedita dalla loro incommensurabilità), ma in termini teorici, attraverso la modellizzazione del fenomeno in termini di una teoria locale (nella terminologia di Peirce, la riconduzione di C ad A), e dunque del confronto non tra i fenomeni, ma tra i modelli locali (le figure del puzzle) di

cui sono espressione. Si prenda ad esempio lo studio della psicoterapia. Secondo l’approccio induttivo, i casi di psicoterapia sono agglomerati in ragione della loro somiglianza fenomenica. Ad esempio, tutti i casi di un terapia psicoanalitica aventi per pazienti soggetti con problemi nevrotici. La logica induttiva implica la possibilità di differenziare progressivamente i fenomeni in categorie più dettagliate (ad esempio pazienti nevrotici di tipo fobico piuttosto che ossessivo); ma il dispositivo dell’aggregazione in classi di somiglianze fondato sul presupposto ergodico della commensurabilità tra gli esemplari in analisi è comunque fondante. Su tale base, i risultati aggregati a livello della classe di casi verranno trattati come un unicum. Gli scarti tra i singoli esemplari sono considerati casuali e dunque marginali, non rilevanti. La metodologia idiografica basata sulla abduzione assume invece il vincolo della incommensurabilità tra i casi. In altri termini, assume l’impossibilità di assimilare gli esemplari in una classe omogenea sulla base della loro somiglianza fenomenica. Studia dunque il singolo caso, cercando un modello formale o comunque concettuale in grado di dare conto della massa di occorrenze in cui esso consiste. Il confronto e l’assimilazione si realizza solo a questo secondo livello, come comparazione, dialettizzazione, combinazione o sviluppo – in una parola: generalizzazione – dei modelli concettuali locali (Salvatore, Valsiner 2010)

2. Dubbio e contemporaneità Le considerazioni pur inevitabilmente sintetiche, sopra svolte in relazione al modello della conoscenza psicologica, offrono lo spunto per sviluppare alcune riflessioni di carattere più generale sul dubbio. Si torni su quanto detto a proposito del movimento della psicologia idiografica, della sua tendenza ad interpretare in modo militante la critica dell’impostazione nomotetica della psicologia contemporanea. Come sottolineato, così impostata, tale critica ha finito

per funzionare da leva della riproduzione della psicologia nomotetica, in ultima istanza trasformando un tema epistemologico e metodologico in una fonte ideologica di identità che si alimentano attraverso la loro contrapposizione. Di contro, al di là del valore di merito della disamina che abbiamo in precedenza proposto, essa mostra come sia possibile interpretare il dubbio sistematico in termini tali da pervenire non a negazioni dell’oggetto su cui si esercita, ma ad un suo sviluppo, nei termini di una sintesi che al contempo lo superi e lo comprenda. La psicologia idiografica, in altri termini, può proporsi come prospettiva di sviluppo per la disciplina nella misura in cui non si limiti a negare la nomoteticità ma la superi integrando nella propria proposta l’esigenza di universalità che essa esprime. Questa possibilità di differente destino a cui ogni pratica del dubbio può esitare non è un fatto accidentale. Al contrario, essa riposa nella caratteristiche stesse della conoscenza e più in generale della significazione. Per tale motivo, è materia essa stessa della scienza psicologica. Recupero di seguito in modo sommario i termini della questione in gioco.

2.1 Sul significato e la significazione Il punto fondamentale da richiamare riguarda il carattere sistemico-dinamico e gerarchico del significato (inter alia, Salvatore, Zittoun 2010). A differenza di quanto si ritenga a livello di senso comune, i significati non sono entità discrete e fisse, immanenti ai segni che li veicolano. Al contrario, i segni (le parole, i gesti, le immagini...) costituiscono dei campi potenziali, vale a dire degli spettri di possibilità di significazione (Salvatore, Tebaldi, Potì 2006/2009) che si attualizzano in una delle forme ammesse in ragione della rete di combinazioni con gli altri segni che si viene a determinare localmente. Sta in ciò il carattere sistemicodinamico della significazione: il significato non è un contenuto statico dei singoli elementi, ma una proprietà emergente delle

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cooperazione contestuale interazioni dinamiche (cioè, dipendenti dal tempo) intrasistemiche – dove per sistema si intende la rete di relazioni tra i segni. A ciò va aggiunto che tali relazioni non si sviluppano su un unico piano, ma implicano una molteplicità di livelli – caratterizzati da differenti gradienti di generalizzazione – ciascuno esercitante una funzione regolativa su quelli inferiori (Valsiner 2007). Lo stereotipo è un esempio evidente di come una rappresentazione generalizzata di un certo oggetto globale (ad esempio i Toscani) orienta e vincola la significazione delle occorrenze specifiche che possono essere fatte rientrare entro la classe generale (Giovanni, nato a Poggibonsi). Va d’altra parte sottolineato che tale processo di regolazione gerarchica tra i livelli della significazione non va inteso come un fatto di mera distorsione, una sorta di patologia del pensiero. Al contrario, è una fondamentale proprietà del linguaggio e della mente, in quanto tale fondante ubiquitariamente la costruzione del significato. Le due fondamentali caratteristiche sopra richiamate (sistemicità-dinamicità e organizzazione gerarchica della significazione) hanno un corollario particolarmente rilevante ai fini del nostro discorso: il prodotto della significazione non si esaurisce – e spesso neanche consiste primariamente – nel contenuto delle affermazioni, in quanto ogni processo di significazione implica ed istantaneizza l’intero sistema di significazione che fonda la sensatezza di tale contenuto. Definiamo tale caratteristica performatività della significazione. Vediamo di spiegarci. Prendiamo il caso dell’occorrenza di un segno qualsiasi, diciamo il segno S. Tale segno ci appare fenomenicamente dotato di un proprio contenuto – diciamo: |s|. Ad esempio, se qualcuno proferisce la parola “pipa”, chiunque partecipi del codice del locutore attribuirà a tale segno il significato di denotare quel determinato utensile usato per bruciare tabacco al fine di aspirarne i fumi. Dunque, quando parliamo, comunichiamo e pensiamo facciamo come se i segni Sx abbiano uno specifico contenuto |sx|. In realtà tale

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connessione non sta a monte della produzione del segno, come una propria proprietà immanente; ma è il prodotto, il primo prodotto, della significazione stessa, emergente dalla rete di connessioni entro cui il segno va ad impiantarsi (Salvatore, Tebaldi, Potì 2006/2009). Il che in definitiva è un modo diverso di riproporre la definizione wittgensteiniana del significato di una parola come equivalente all’uso che di essa si fa entro i giochi linguistici. Definiamo contesto la combinazione di segni la cui contingenza qualifica il significato di ciascuno di essi2. La significazione realizza dunque sempre una doppia operazione. Da un lato, la definizione di un’entità denotante e connotante – se si vuole: la realizzazione di una presenza resa pertinente – ciò che siamo usi considerare il contenuto del segno, il suo significato, appunto. Dall’altro, tuttavia, il complemento di tale contenuto, in altri termini lo scenario semiotico in funzione del quale, attraverso il quale e nei termini del quale l’interpretandum acquista sensatezza. La pantomima si offre come una utile analogia di simile modello bidimensionale della significazione. Il mimo opera dei movimenti [di seguito: S – (sistema di) segni.] Lo spettatore vede in tale movimento una determinata azione (C), che rappresenta l’interpretazione del significato di S, il suo presunto contenuto, per l’appunto. Tuttavia, si cadrebbe in errore se si considerasse C il contenuto di S. S sta per C, e C è il significato di S. Tuttavia, la relazione tra C ed S non è la relazione tra un contenuto e il suo contenitore. Al contrario, è l’osservatore a costruire C come interpretazione di S. E l’osservatore fa ciò integrando S con tutta una serie di dati di immaginazione che operando come complemento di S definiscono la totalità contestuale che rende sensato, cioè pensabile, S. Così, ad esempio, il mimo muove le braccia e le mani in un certo modo, ma l’interpretazione di tale S come l’azione del tirare una fune richiede che l’osservatore completi la gestalt con il dato di immaginazione di un oggetto sottile tra le mani del mimo opponente una certa resistenza allo sforzo del mimo. Se definia-

mo segno-complemento tale integrazione (S_C), arriviamo alla seguente formulazione: CON= (S+S_C) – ovverossia, il contesto è dato dal segno prodotto del mimo e dal segno-complemento con il quale l’osservatore completa la figura in modo da darle qualità di sensatezza. Solo a tale condizione di integrazione operata dallo spettatore S diventa interpretabile come stante per l’azione del tirare una fune. In sintesi, quando l’interpretante significa il movimento del mimo, il suo lavoro ermeneutico non si limita alla rappresentazione con cui qualifica tale movimento. Per fare ciò deve definire un contesto, o meglio un segno-complemento che vada a completare il contesto. È l’introduzione di simile sorta di silicone semiotico che, permettendo la chiusura della gestalt (cioè del contesto) opera da fonte si sensatezza e dunque di interpretabilità del movimento pantomimico. Due ulteriori considerazioni sono necessarie per cogliere la portata di quanto sopra affermato. In primo luogo, abbiamo parlato di sensatezza, non di verità o giustezza o condivisibilità. In gioco, cioè, non vi è un elemento di giudizio connesso ad un qualche criterio normativo. Il processo di significazione si rivolge in primo luogo alla costruzione delle condizioni di pensabilità dell’interpretandum, non al suo contenuto di verità (intendendo tale concetto in senso lato). Ciò in altri termini vuol dire che chi raccoglie un segno attiva comunque un contesto interpretante, indipendentemente dal grado di consenso che può esprimere circa la validità normativa del segno stesso. Anzi, per poter esprimere un disaccordo di merito deve prima acquisire l’interpretandum come plausibile, in modo da assumerlo come pensabile. Solo a tale condizione ed attraverso tale passaggio si può costruire il dissenso. Il che in ultima istanza significa che ogni critica implica una adesione: ogni conflitto di merito una cooperazione contestuale. O ancora, se si vuole: si può essere in disaccordo nel merito, ma non si può non aderire alla dinamica di significazione immanente al linguaggio e alla comunica-


dubbio decostruttivo zione. A quanto ora affermato si collega il secondo punto che merita di essere evidenziato. L’attivazione di ciò che abbiamo definito come cooperazione contestuale non va intesa come un aspetto marginale, una sorta di dimensione volatile del linguaggio che si esaurisce nel momento in cui il contenuto emergente tramite essa si stabilizza. Sarebbe così se la mente operasse in termini esclusivamente sequenziali. In tal caso la collaborazione contestuale funzionerebbe come un cantiere, che rimane aperto fino a quando i lavori di costruzione dell’edificio lo rendono necessario, per poi chiudersi una volta esaurito il proprio compito. In realtà, la mente opera in parallelo: i suoi stati da un alto vengono elaborati e riconfigurati dagli stati che da essi conseguono. Allo stesso tempo, tuttavia, essi persistono nella loro salienza entro lo spazio mentale. Sta in ciò, in ultima istanza, l’idea psicoanalitica di una parte del funzionamento mentale (il processo primario, in genere assimilato al concetto più generico di inconscio; cf. Bucci 1997) impermeabile alla nozione del tempo. Poste tutte queste premesse – vale a dire: il contesto interpretante che chi scrive propone al lettore – siamo ora in grado di tornare sul dubbio e sulla sua funzione semiotica. Partiamo da che cosa si intende, nel linguaggio di senso comune, con espressioni del tipo “mettere in dubbio quanto ho detto”, “dubito che sia effettivamente così”, e così via. Questo tipo di espressioni rivelano come la semantica elementare del concetto di dubbio riguardi la messa in discussione di un determinato contenuto nelle sua valenze di volta in volta di verità, esattezza, condivisione. Tali valenze non vengono tout court negate, ma in un certo qual modo sospese nella loro validità, nel loro grado di certezza. Chi dubita ritira il sostegno alla validità dell’affermazione, senza per questo assumere una posizione opposta. Da questo punto di vista il dubbio esprime l’atteggiamento di autonomia del pensiero, in quanto esercizio di una posi-

zione intermedia che si colloca tra le due opposte euristiche militanti della adesione pregiudiziale (in senso etimologico, di precedente il giudizio) e della altrettanto pregiudiziale negazione. Molta psicologia, così come la teoria psicoanalitica, si è sviluppata assumendo come criterio normativo questa concezione del dubbio come sospensione del pregiudizio. Si pensi, ad esempio, a come entro il setting psicoanalitico l’analista non rinneghi il contenuto di verità del paziente, ma si limiti piuttosto a dubitarne, non aderendo alla sua scontatezza, riflesso dell’adesione ad un canone di significazione (il senso comune) la cui relativizzazione costituisce la fondamentale missione della funzione dell’analisi. Dubitare, in questo senso, significa posizionarsi intersoggettivamente nella regione dell’estraneità, lo spazio intermedio ed angusto, difficile da creare e ancor più da mantenere, dove la disattesa del canone condiviso non si traduce in uscita persecutoria dalla relazione ma assume la funzione di proposta di rapporto (sul concetto di estraneità in ambito psicologico, si rimanda a Carli, Salvatore 2001 e Carli, Paniccia 2005).

2.2 Dubbio costruttivo e dubbio decostruttivo La concezione che stiamo proponendo del dubbio come pratica ermeneutica dell’estraneità, ha una conseguenza rilevante. Da essa discende la necessità di distinguere due modelli, che per comodità di discorso indicherò come dubbio costruttivo e dubbio decostruttivo. Tale distinzione rimanda alla articolazione tra S (segno) e S_C (segno-complemento) operata in precedenza. In corrispondenza con tale articolazione, possiamo differenziare il dubbio relativo a S e il dubbio inerente S_C. Il dubitare del primo tipo è la messa in discussione della validità di S, così come esso è consensualmente interpretato da chi lo ha proposto (di seguito: il proponente) e da chi lo raccoglie, sia pure in forma dubitativa (di seguito: il dubitante). Definiamo tale for-

ma del dubitare come dubbio costruttivo in quanto esso richiede la cogenza di un contesto condiviso tra proponente e dubitante che fonda l’interpretazione consensuale di S in modo da renderla oggetto del dubbio. In questo senso, il dubbio relativo ad S, se a livello superficiale stabilisce un conflitto comunicativo tra proponente e dubitante (vale a dire il conflitto relativo allo statuto di validità del contenuto di S), per altro verso, con il suo stesso porsi, genera una regione latente, più profonda e generalizzata, di commensalità semiotica tra proponente e dubitante relativamente al contesto interpretante. In altri termini, dubitare di S implica istituire la condivisione del segnocomplemento di S. Il che equivale ad affermare che dubitare è sempre l’esercizio di un presupposto indubitato che rende sensato l’atto del dubbio agli interlocutori in gioco. Si prenda la seguente espressione: “Dubito che Fuffi sia un cane”. A livello superficiale il dubitante sta costituendo una situazione di conflitto comunicativo con chi, evidentemente, afferma la caninità di Fuffi. Ci si può chiedere, tuttavia, quale sistema di segni-complemento sono richiesti come condivisi tra il dubitante e il suo interlocutore affinché tale atto dubitativo sia pertinente, sensato e plausibile (indipendentemente dalla sua condivisibilità). Richiamiamo di seguito alcuni dei piani su cui si articola tale sistema di segni-complemento. In primo luogo, dubitare del fatto che Fuffi sia un cane implica che il dubitante consideri rilevante la differenza tra Fuffi cane e Fuffi non cane. Il che assume plausibilità – tanto per il dubitante che per il destinatario del dubbio – nella misura in cui l’opposizione cane/x-non-cane sia inscrivibile in una qualche relazione semantica tale per cui l’affermare uno degli elementi della relazione acquista potere di conoscenza (ad esempio: Fuffi è un gatto!). Se così non fosse, se cioè non si assumesse in premessa una relazione semantica tra cane e x-non-cane, tale opposizione non avrebbe semplicemente senso, configurandosi come assurda – ad esempio, “Dubito che Fuffi sia un cane. Da quanto vedo a me fa venire in mente che

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sia la Toscana”, è una frase tendenzialmente assurda, a meno di non costruire un contesto di plausibilità tale da mettere semanticamente in relazione Toscana e cane. In secondo luogo, per considerare sensato il proprio atto dubitativo il dubitante ha necessità di assumere come pertinente – e non solo esercitabile – la produzione di conoscenza veicolata dal proprio atto. Le persone non dubitano su tutto quanto è potenzialmente dubitabile. Si dubita di ciò che si considera in qualche modo rilevante, o comunque meritevole dell’ attenzione del dubitante e del suo interlocutore. Si pensi, ad esempio, ad una persona che incontra un amico e gli racconta di come la sera prima sia riuscito a prendere per un pelo l’ultima corsa del metro e così facendo ad evitare di rimanere fuori casa per la notte. Si immagini che l’altro, dopo aver ascoltato il racconto affermi qualcosa del genere: “Non sono così convinto che tu abbia acquistato il biglietto del metro con moneta spicciola. Ho elementi per pensare che tu l’abbia acquistato usando una banconota”. Probabilmente il narratore a quel punto guarderebbe l’altro in modo interrogativo, chiedendosi o forse chiedendogli che rilievo possa mai avere nell’economia della vicenda un simile particolare. Il punto, cioè, non è se il dubitante ha ragione o torto. Il punto è perchè pone la questione. Da ciò se ne conclude che il dubitante deve condividere con il proponente il contesto in ragione del quale si risponde a tale interrogativo; in altri termini, il contesto che rende pertinente il dubbio come atto di conoscenza. Aggiungiamo un terzo livello che per brevità ci limitiamo a richiamare sommariamente. La pertinenza non riguarda solo la dimensione epistemica; concerne anche la relazione sociale tra proponente e dubitante. L’atto del dubbio, come qualsiasi altro atto comunicativo, è un processo intrinsecamente sociale. Di conseguenza, praticare un dubbio implica la cogenza condivisa di una mappatura della relazione tra proponente e dubitante tale per cui tali attori possano interpretare l’iniziativa comunicativa del dubitante come l’esercizio

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di un dubbio. Il che equivale a dire che la relazione tra dubbio e dubitante è circolare: se da un lato è il dubitare che qualifica l’attore che veicola tale azione come dubitante, è altrettanto vero che è la qualificazione come dubitante della posizione dell’attore nella relazione con il proponente a rendere un determinato atto comunicativo un esercizio di dubbio. L’esempio più eclatante che viene in proposito alla mente riguarda la connotazione a cui viene oggi sottoposta l’attività inquirente della magistratura nel nostro Paese. Un certo ceto politico non riconosce a tale attore la posizione di dubitante e, di conseguenza, non concepisce le iniziative che da tale attore scaturiscono come un esercizio del dubbio, connotandole piuttosto come un attacco alle persone o come una forma di progetto politico o altro. Rispetto al primo tipo di dubbio, il dubbio decostruttivo si indirizza al contesto interpretante, piuttosto che al segno. In altri termini, si propone non di metter in discussione il contenuto del segno, ma più radicalmente il codice condiviso che rende il segno stesso interpretabile. Da questo punto di vista, il dubbio decostruttivo è la leva ed insieme l’esercizio dell’estraneità, cioè della pratica dell’alterità come metodo e come scopo. Il dubbio decostruttivo non si propone di confliggere con chi comunque rimane all’interno dello stesso orizzonte di senso. Il dubbio decostruttivo, piuttosto, è la rinuncia al mondo di significati istitutiti che fonda la sensatezza e pensabilità dei segni entro un enclave culturale ed al contempo il legame di appartenenza che tale sensatezza nutre. È una posizione al contempo epistemica, metodologica e in senso lato etica, che assume la distanza dall’altro come lo spazio di umanizzazione dei rapporti, in quanto campo aperto generato dalla rinuncia alla assimilazione dell’alterità entro schemi semiotici pre-istituiti. Infine, il dubbio decostruttivo non può che indirizzarsi in termini riflessivi, focallizarsi sulle premesse istituite del dubitante, che nel determinare il contesto interpretante sostanziano l’identità individuale e collettiva, così

facendo vincolando il visibile e il pensabile a specifici posizionamenti intersoggettivi. Il dubbio decostruttivo, in altri termini, deriva dallo spostamento – sottile ma di portata radicale, foriero di conseguenze – dalla (in)validazione dell’oggetto alle premesse di senso condivise sul piano sociale poste a fondamento (ed al contempo a vincolo) della costruzione semiotica dell’oggetto stesso. Un richiamo al campo della psicologia può contribuire a dare il senso di quanto sopra proposto. Un’area disciplinare della psicologia – la psicologia clinica – si interessa di intervento. Il suo scopo fondamentalmente è di attrezzare la professione psicologica di metodi e strumenti per rispondere alla domanda sociale, nei diversi campi in cui essa si manifesta (scuole, sanità, mondo del lavoro, individui, ecc.). In tale area il dubbio è pane quotidiano. La disciplina è attraversata da una quantità ampia di teorie e modelli, ognuno dei quali, nell’affermare una certa concezione, di fatto mette in dubbio le concezioni concorrenti. Il fatto è che tutto questo dubitare si mantiene rigorosamente sul versante rassicurante del costruttivo, esprimendosi come una attività di volta in volta negoziale e conflittuale tra affermazioni inerenti i diversi oggetti disciplinari (come intervenire, come intendere nozioni quali affetti, motivazioni, psicopatologia). E così facendo, di dubbio in dubbio, la disciplina riproduce se stessa, lasciando che le proprie premesse sussistano come invarianti fondanti – ma al contempo costringenti – identità e orizzonte di senso. Quelle premesse che determinano la costruzione degli oggetti disciplinari (costrutti quale emozione, inconscio, sofferenza psichica), il modo di trattarli (ad esempio, nei termini dettati della combinazione tra individualismo ontologico e nomoteticità). E ancor prima: sulla sensatezza e le finalità implicate della idea stessa di una psicologia che da scienza di traduce in contenuto di un sistema professionale. Dubitare a partire da tali premesse, piuttosto che di tali premesse ha ovviamente dei vantaggi sul piano della efficienza locale. Rende tuttavia


impraticabile la possibilità stessa di innovazione paradigmatica, che per realizzarsi richiede di affrontare alla radice le questioni concettuali fondative, che determinano la stessa costruzione dei fenomeni assunti ad oggetto del discorso scientifico. In conclusione, confidare nel dubbio decostruttivo non significa pensare in modo onnipotente di azzerare tale zona inesauribile di con-fusione, ma di proiettarsi nella direzione asintotica della sua sistematica elaborazione e ridefinizione, come sforzo generativo di nuove opportunità di senso. Riferimenti bibliografici Bucci, W. 1997. Psychoanalysis and Cognitive Science. New York: Guilford Press. Carli, R., R. M. Paniccia. 2005. Casi clinici: Il resoconto in psicologia clinica. Bologna: Il Mulino. Carli, R., S. Salvatore. 2001. L’immagine della psicologia: Una ricerca sulla popolazione del Lazio. Roma: Kappa. Ginzburg, G. 1992. Miti emblemi spie. Morfologia e storia. Torino: Einaudi. Lamiell, J. T. 1998. ‘Nomothetic’ and ‘idiographic’: contrasting Windelband’s understanding with contemporary usage. Theory & Psychology 8 :23-38. Molenaar, P.C. 2004. A manifesto on psychology as idiographic science: Bringing the person back into scientific psychology, this time forever. Measurement: Interdisciplinary research and perspectives 2: 201-218. Molenaar, P. C., J. Valsiner. 2008. How Generalization Works through the Single Case: A Simple Idiographic Process Analysis of an Individual Psychotherapy. In S. Salvatore, J. Valsiner, S. Strout, J. Clegg, (Eds), YIS: Yearbook of Idiographic Science Rome: Firera Publishing Group, pp. 1-13. (http:// www.valsiner.com/articles/molenvals.htm) Peirce, C. S. 1935. Collected papers of Charles Sanders Peirce. Cambridge: Harvard University Press. Salvatore, J. Valsiner, S. Strout, J. Clegg,

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(Endnotes)

1 Traduzione mia. 2 Va osservato che il contesto, per come qui definito, si qualifica in ragione di tre fondamentali profili richiesti come condizione di plausibilità per l’interpretazione del segno (di seguito: interpretandum). In primo luogo, come l’insieme delle occorrenze configuranti la circostanza intersoggettiva in ragione della quale l’interpretandum si rende sensato. In altri termini, ogni interpretazione di un segno presuppone e si basa su una concezione delle reciproche posizioni degli attori in gioco. È tale concezione che qualifica una determinato interpretandum come pertinente. Ad esempio, se una persona si presenta ad una partita di calcetto con gli amici in pantaloncini e maglietta, tale occorrenza non trova pertinenza, in quanto ovvia ed attesa. Dunque la sua interpretazione risulterebbe insensata. Se al contrario la stessa persona, con gli stessi amici, andasse a teatro in tale tenuta, susciterebbe un notevole fuoco interpretativo. In secondo luogo, l’organizzazione gerarchica dei livelli della significazione operanti da premessa vincolante la significazione stessa. Il che equivale a dire che ogni interpretazione presuppone una rappresentazione sovraordinata che la regola e la orienta, per esempio nella definizione degli aspetti dell’oggetto su cui focalizzare la tensione interpretativa. Ad esempio, si può parlare di una persona qualificandone le virtù morali, le capacità sportive, l’aspetto estetico, le doti di lavoratore, ecc. La scelta di quale aspetto pertinentizzare dipende dall’organizzazione più generale del discorso, regolativa delle procedure interpretative specifiche. In terzo luogo, la struttura semantica che configura le opportunità della significazione. Va infatti tenuto conto che i contenuti semantici non sono entità individuali, ma relazionali. Il concetto di bianco non esiste in quanto tale, ma in quanto parte di una struttura opposizionale che implica il nero. Di conseguenza, ogni significazione è affermare qualcosa in ragione della contemporanea negazione di qualche altra cosa. Il che equivale a dire che tale “qualche altra cosa” viene comunque attivato a livello di segno-complemento (vedi sotto per la definizione di segno-complemento). Ad esempio, affermare che Fuffi è un cane implica anche attivare il contesto di tutte le altre cose che Fuffi avrebbe potuto essere (vale a dire l’insieme infinito dei significati in relazione semantica con il concetto di cane), tale per cui affermare la sua caninità è fonte di conoscenza.

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Golden Gate Bridge from Baker Beach - San Francisco, California | Trodel / Jim Trodel | licenza Creative Commons

MUSICA | JAZZ | SAN FRANCISCO

Le note dell’influenza

COLLOQUIO ALESSANDRA PIZZI | RANDALL KLINE

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a possibilità di dare vita a creazioni originali e armoniose, nate dalla fusione di elementi diversi, è propria dell’arte e, in particolare, di quelle forme artistiche che agiscono in maniera immediata sui sensi, come la pittura o la musica. Si tratta di realizzazioni istintuali, a volte ricercate inconsapevolmente, con una prerogativa che è tale proprio in quanto scaturita dalla sfera inconscia. La sperimentazione, in questo caso, è una conseguenza ovvia del processo: provare a scoprire cosa può nascere dall’incontro di elementi contrastanti che possono, inaspettatamente, coesistere e dare forma a punti di arrivo originali, armoniosi, non artefatti. Incontriamo Randall Kline nella sua casa di San Francisco, in una mattina d’agosto. Fuori fa freddo e c’è la nebbia, come sempre qui in questo periodo, in casa, invece, respiriamo una piacevole aria familiare che ci riscalda e ci mette a nostro agio. Il padrone di casa ci fa accomodare nell’ampio e luminoso salone della sua abitazione, dove campeggia un grande pianoforte a coda e una foto in bianco e nero di Charlie Parker. Un lungo tavolo pieno di sedie dà l’idea di quanto la famiglia Kline ami la compagnia degli amici. Prima di cominciare a parlare ci viene offerto dell’ottimo caffé, rigorosamente espresso: Kline ci spiega che ha cercato a lungo una macchina che ne facesse uno veramente buono, cremoso e denso come piace a lui. La cosa, chiaramente, ci disegna sul viso un sorriso di sorpresa e, felicemente, accettiamo. Randall Kline si siede di fronte a noi e ci sorride, è un uomo pacato, silenzioso, ma solo fin quando non comincia a rispondere alle nostre domande. Solo allora ci rendiamo conto che potrebbe parlare per ore, che la sua passione per la musica è viva e che per lui, tutto sommato, il lavoro non è un’incombenza, ma una possibilità quotidiana di conoscere e scoprire. Secondo Lei, quando si può parlare di ibrido nella musica ed in particolare nel jazz? Quando studiavo musica avevo un insegnante di teoria che affermava che non si può comprendere la musica senza capire la storia del tempo che l‘ha generata. Facevo parte di una classe di composizione e di teoria musicale e l’insegnante era solito dire che bisognava riuscire a scrivere nello stile del tempo, capire come tecnicamen-

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di percezione dell’ibrido. Ibrido può essere dato dal musicista che, per esempio, nella vita svolge un’altra attività professionale (e così, molto spesso i due mondi finiscono per incontrarsi e compenetrarsi); o da musicisti che fanno musica utilizzando strumenti differenti e unendo al suono dello strumento “rumori” vari, come nel caso dell‘italiano Antonello Salis; o, ancora, da musicisti la cui composizione musicale può avere le caratteristiche dell’ibrido, come nel caso delle esecuzioni jazz che molto spesso richiamano altri brani della musica classica o dello stesso repertorio jazz, per esempio. Partiamo dal primo caso. Credo che sia molto raro che ci siano persone che possano eccellere in due carriere differenti. Perché essere un bravo musicista ritengo si debba studiare molto. Infatti, ci sono pochi casi, come, per esempio, quello di Denny Zeitlin che è un noto psichiatra, ma anche un grande compositore e musicista jazz; o Charles Ives, che era un assicuratore e anche uno dei più importanti compositori americani di musica classica. C’è un altro livello di ibrido, ed è rappresentato da quella categoria di persone che sono manager della musica e che per fare questo lavoro hanno comunque studiato musica per anni, come nel caso di Herb Alpert, che è un uomo d’affari in campo musicale e anche il leader della band Tijuana Brass, Fare il musicista è qualcosa di molto difficile, che richiede una dedizione assoluta, è molto duro. E’ per questo che non ci sono molti esempi di questo tipo.

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te Bach componeva e comporre l’armonia come Bach avrebbe composto, con la stessa tecnica stilistica. Stravinskij realizzò una rivoluzione nella musica classica perché lui era, in quel momento, la persona giusta per farlo, così come, Ornette Coleman fu nel jazz, nel suo periodo, la persona giusta per cambiare le cose. Il jazz in particolare è ibrido perché la sua nascita negli Stati Uniti fu data da una combinazione di differenti culture: la cultura africana, le culture del Bacino caraibico, degli indigeni di quei Paesi (Portorico, Venezuela, Cuba), l’influenza degli schiavi e della loro musica. Tutte queste culture si sono ibridate con gli strumenti a fiato dei coloni tedeschi, francesi, e inglesi, in un’enorme miscela. Il jazz si sviluppa nelle differenti aree seguendo lo stile del periodo. Nella musica è possibile rintracciare frequentemente una serie di influenze che la generano; il jazz nasce sempre quale il frutto di una serie di influenze che si mischiano, tradizioni popolari, antiche e moderne, tutto in una nuova forma. La maniera in cui si sviluppa il blues, per esempio, con la forma di chiamata e risposta: qualcuno che esegue un ritmo o una frase e qualcun altro che risponde con un ritmo o una frase differente, è chiaramente di ascendenza africana e rappresenta una forma di comunicazione. Anche se in altri generi musicali la comunicazione è importante, nel jazz è fondamentale perché nell’improvvisazione è indispensabile ascoltare e capire quello che gli altri componenti del gruppo fanno e la direzione in cui vogliono andare. Esistono differenti livelli

Per quanto riguarda, invece, il secondo caso? In merito posso parlare per la mia esperienza di produzione di musica dal vivo. Mi piace la sperimentazione e quindi io cerco sempre, quando possibile, di mischiare esperienze differenti, di mettere insieme musicisti che vengono da posti differenti. Questo è quello che c’è dietro il San Francisco Jazz Collective, tante persone che hanno background musicali differenti. I componenti che giungono da diversi luoghi e hanno, quindi, le più disparate esperienze musicali. Ci sono musicisti che vengono da Portorico, dal Canada, dalla Nuova Zelanda, dagli US; ci sono musicisti giovani e musicisti anziani. Gente che non aveva mai suonato insieme e che ha una percezione musicale propria e originale. Tutto ciò fa sì che si ascoltino tra loro con sensibilità

differenti. Tutti i musicisti devono fare uno sforzo per allargare la propria percezione e comprendere nuove suggestioni. Anche la possibilità di cambiare il luogo in cui ci si esibisce è importante. Abbiamo organizzato dei concerti del SFJF nella cattedrale neogotica di SF, che ha una storia importante. La Chiesa commissionò, infatti, proprio a Duke Ellington una composizione per consacrare la cattedrale, nel 1975. Egli scrisse un pezzo che richiedeva la partecipazione della sua big band, di ballerini di tip tap, cantanti di gospel, coro gospel. La sua composizione è diventata il primo concerto sacro. La cattedrale si imbevve dell’essenza del jazz, che era la musica del periodo. Quando andai per la prima volta nella cattedrale per organizzare i concerti, il maestro d’or-


gano, che era anche il direttore musicale della chiesa, mi parlò di un concerto di Frans BrŸggen, uno dei più grandi musicisti di flauto dolce del mondo. Bruggen cercava, prima del concerto, di trovare il modo di suonare lo strumento inserendo il suono nel contesto del luogo e lo faceva provando a suonare in diverse posizioni all’interno della cattedrale: sull’altare, vicino al fonte battesimale, nel posto dove si posizionava il coro, dove era l’organo. Cominciai allora a riflettere su come si potessero realizzare dei concerti jazz in un luogo del genere, su come i musicisti jazz si sarebbero potuti inserire in quell‘ambiente. Dovevamo organizzare molti concerti cercando di inserirci, cercare di creare un tutt’uno con la cattedrale, con il luogo. I problemi erano sia di carattere estetico, poiché quello era un ambiente inusuale per un

concerto jazz, ma anche di carattere acustico, c’era, infatti, un’eco molto elevata, di sette secondi, (il concerto di Bruggen fu molto bello perché fu eseguito da un solo strumento. Far suonare insieme tanti strumenti con un’eco così avrebbe generato confusione, e sarebbe stato difficile da ascoltare). Abbiamo pensato, così, di fare concerti per uno, al massimo due musicisti. Hanno suonato in quel luogo Roy Hargrove e James Carter; Jackie Mc Lean e Steve Lacy, Greg Osby e Joe Lovano, Joe Henderson e Zakir Hussain. Persone che facevano musica differente e che si sono incontrate, fuse tra loro e con il luogo, con la cattedrale; qualche volta con risultati eccellenti, altre meno. Roy Hargrove e James Carter, che si conoscono dal tempo del liceo, hanno chiuso il concerto con una canzone tradizionale “Let it shine” cominciando a suona-

re sull’altare e camminando poi con la tromba e il sax per la cattedrale. Si sono separati lungo le navate per poi ritrovarsi insieme sull‘altare. Si è creata un’atmosfera molto particolare. Tutte queste cose sono molto semplici, ma la situazione, la musica, la cattedrale, il pubblico, i musicisti hanno reso il momento memorabile e, nella mia professione, quando questo accade, è impagabile. Quando riesci a mettere insieme gli ingredienti, sperando che siano quelli giusti, qualche volta funziona molto bene, altre volte meno… Tornando al mio lavoro, cerchiamo di estendere la definizione di jazz. Sono sempre alla ricerca sperimentazioni che sono influenzate dal jazz, estendendone i confini. Il Kronos Quartet è una formazione con la quale lavoriamo molto ed è un gruppo molto innovativo, che ha modificato l’immagine del quartetto d’archi dedicato alla musica contemporanea. Essi hanno cercato di rendere questo tipo di formazione e la musica classica contemporanea accessibili al pubblico. Sia con la loro immagine sul palco, sia con la musica che suonano, cercano sempre di allargare i loro orizzonti. Il primo concerto che abbiamo fatto con loro era con musiche di Thelonious Monk. Noi abbiamo anche commissionato al batterista jazz Tony Williams un pezzo che avrebbe suonato insieme al Kronos Quartet. Williams era un ottimo compositore e l’idea che un batterista jazz componesse un pezzo per un quartetto d’archi di musica contemporanea era qualcosa di innovativo. Negli anni abbiamo fatto molti concerti con il Kronos Quartet, con differenti generi musicali, dalla musica minimalista di Terry Riley, al jazz di

Joe Henderson e Denny Zeitlin. E veniamo alla terza eventualità Ci sono tanti tipi di ibridazione nel jazz: il jazz rock, la fusione con la musica classica, negli ultimi tempi anche jazz e hip hop. Ma oltre ai differenti ibridi in questo senso c’è da dire che nel tempo ci sono state ibridazioni di strumenti musicali introdotti da altri contesti nel jazz, come l’organo a canne, che veniva utilizzato per commentare le immagini nei film muti degli anni ’20, e che fu introdotto da Fats Waller nel jazz. Con l’invenzione dell’Hammond, un organo portatile, questo strumento subì una vera rivoluzione diventando uno strumento orientato verso il blues e quindi ci fu un passaggio dall’organo da chiesa all’organo da palco. Questo passaggio costituisce a mio avviso una sorta di ibridazione sia della musica che dello strumento. Adesso una nuova, interessante influenza nel jazz è quella del jazz europeo su quello americano. Per anni i migliori jazzisti sono stati i musicisti americani. Oggi, però, in Europa in particolare, ci sono ottimi musicisti che vengono dalla Norvegia, dalla Francia, dall’Italia, dalla Spagna. L’Europa e il Giappone erano i posti dove i jazzisti americani lavoravano di più, ma ora non è più così. Anzi, addirittura, i musicisti europei che prima si lasciavano influenzare dagli artisti americani, adesso portano le loro nuove idee in US, creando un flusso inverso. Per esempio Chano Dominguez, pianista spagnolo, mette insieme il piano con il flamenco, oppure come Astor Piazzolla che ha unito il tango argentino con il jazz e la musica contemporanea.

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Per un’idea generale sul Kronos Quartet è possibile ascoltare: 2009, Foodplain, Nonesuch, 2008, Terry Riley: The Cusp of Magic, Nonesuch, 1995, Kronos Quartet Performs Philip Glass, Nonesuch; 1992, Pieces of Africa, Nonesuch; 1989, Kronos Quartet Plays Terry Riley: Salome Dances for Peace, Nonesuch; 1991, Five tango sensations, con Astor Piazzolla, Nonesuch; 1986, Music of Bill Evans, Landmark; 1985, Monk Suite: Kronos Quartet Plays Music of Thelonious Monk, Landmark; Alcune tra le colonne sonore eseguite dal Kronos Quartet: 2000, Requiem for a Dream, Regia di Darren Aronofsky, Musiche di Clint Mansell, Nonesuch; 1999, Dracula, Regia di Tod Browning, Musiche di Philip Glass, Nonesuch; 1985, Mishima: A Life in Four Chapters, Regia di Paul Schrader, Musiche di Philip Glass, Nonesuch

PERCORSI

In merito agli autori citati nel corso delle interviste sono riportati solo alcuni riferimenti tra i più recenti Bregovic G., 2009, Alkohol. Sljivovica & Champagne, Mercury; Bregovic G., 2007, Karmen, Mercury; Carter J., 2008, Present Tense, Emarcy; Carter J., 2007, Out of Nowhere Live at Blue Note, Half Note; Coleman O., 2007, Ornette Coleman Anthology, Intakt, 2 vol.; Coleman O., 2007, Tomorrow is the question, Concord; Coleman O., 2005, Song X (20th Anniversary Edition), con Pat Metheny, Nonesuch;

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Davis M., 1957, Birth of the Cool, Capitol; Davis M., 1959, Kind of Blue, Columbia; Davis M., 1968, Nefertiti, Columbia; Davis M., 1986, Tutu, Warner records; Dominguez C., 2006, Acercate Mas, Karonte; Dominguez C., 2004, Chano Dominguez 1993-2003, Karonte, 2 vol.; Ellington D., 1956, Ellington at Newport, Columbia; Ellington D., 1962, Duke Ellington & John Coltrane, Impulse; Ellington D., 1967, Fitzgerald E., Ella and Duke at the Cote D’Azur, Verve; Hargrove R., 2009, Emergence, Emarcy; Hargrove R., 2008, Earfood, Emarcy; Henderson J., 2008, Monterey Jazz Festival Live 1966 & 1994, Concord; Henderson J., 2007, Relaxin’at Camarillo, Concord; Hussain Z., 2007, Best of Zakir Hussain, ARC; Hussain Z., 1999, Venu, Ryko; Ives C., 2008, American classics. Charles Ives; Emi; Ives C., 2009, Songs, Naxos, 4 vol.; Lacy S., 2009, Soprano Sax – Reflections 1957-1958, Fresh Sound; Lacy S., 2009, Duets. Associates, Felmay; Lovano J.- Osby J., 1999, Friendly Fire, Blue Note; McLean J., 2009, Bluesnick (Rudy van Gelder), Blue Note; McLean J., 2009, One Sep Beyond (Rudy van Gelder), Blue Note; Monk T., 1956, Straight, No Chaser, Columbia; Monk T., 1957, Thelonious Monk/John Coltrane - The Complete 1957 Riverside Recordings, Riverside; Monk T., 1959, Thelonious Alone In San Francisco, Riverside; Riley T., 2008, Keyboard Studies, n. 1, n. 2, Stradivarius; Riley T., 2008, The Harp of New Albion, Celestial Armonies, 2 vol.; Tijuana Brass, 2005, The Beat of the Brass, Cadiz distr. Ird; Tijuana Brass, 2005, Ninth, Cadiz distr. Ird; Waller F., 2009, Keepin’ out of mischief now, Noble Jazz; Waller F., 2009, Complete recordings 1938-1940, JSP, 5 vol.; Zeitlin D., 2005, Solo Voyage, Max Jazz; Zeitlin D., 2004, Slick Rock, Max Jazz.

“Senza trasformazione non ci può essere sviluppo” diceva Ovidio. Possiamo trasporre in musica questa affermazione? Per rispondere a questa domanda è necessario pensare a quali fattori si combinano insieme per creare un momento di trasformazione. In tutte le arti si cercano dei momenti di mutazione, dalle arti visuali alla musica. Qual è la combinazione di cose che rende possibili tali momenti? Molto probabilmente i musicisti e gli ascoltatori. Essi cercano sempre, nella musica, la possibilità di essere trasportati, di abbandonarsi alla musica. Ma quello che accade durante questi momenti in cui si attua un tentativo di trasformazione riguarda soprattutto la comunicazione. Quando i musicisti suonano tra di loro per molto tempo e si conoscono molto bene, è molto facile che ci siano frequenti casi in cui si riesce a dare vita a qualcosa di nuovo, ad evolvere. Più le persone riescono a comunicare più si creano i presupposti per la trasformazione. Un esempio può essere il gruppo di Keith Jarrett che suona insieme da 25 anni. Può succedere, però, che si giunga a suggestivi momenti di trasformazione anche in gruppi che durano molto meno, come quelli che avevano come leader Miles Davis, composti da musicisti eccezionali ma che duravano al massimo quattro o cinque anni e poi venivano rinnovati. Sembra che questi processi somiglino molto alla comunicazione in un rapporto di coppia: quando dura da molto tempo si può giungere a momenti di intesa molto forti, lo stesso può accadere, però, se il rapporto è nato da poco, le emozioni forti sono sempre nuove ed originali, e possono generare un’evoluzione intima in chi la vive. A volte dipende tutto dalle circostanze e dall’ambiente, da come il pubblico recepisce, da come i musicisti sentono in quel momento. Tutto ciò non si può prevedere. Capita spesso che le situazioni, durante una performance, cambino. I musicisti riescono subito a capire lo spirito del pubblico che partecipa alla esecuzione. Poi può succedere anche che dapprima ci si trovi davanti ad un pubblico che sembra freddo e distaccato, e che nel corso della performance, poi, cambi ed entri in contatto con i musicisti. Molto spesso è il feedback che modifica l’andamento di una esecuzione: ciò che i musicisti percepiscono dall’audience. Nel nuovo teatro che stiamo costruendo a San Francisco è proprio questo che stiamo cercando di ottenere,


il massimo scambio tra palco e platea. Non c’è niente di peggio, per un musicista, non percepire la partecipazione del pubblico. Si è da poco tenuto un concerto con Goran Bregovic. Da prima del concerto si sentiva già la forte eccitazione del pubblico. Quando gli ho chiesto se pensava che avrebbe avuto un buon concerto quella sera lui ha risposto che ne era sicuro. E infatti, di tutta la tournee di Bregovic in America, quella è stata la serata più entusiasmante, proprio per la presenza di un pubblico partecipe, che aveva voglia di comunicare il proprio calore. L’ibrido tra l’artista, il pubblico e l’ambiente aiuta a trovare il modo di creare dei momenti di trasformazione. Ben Ratliff, critico del New York Times per il jazz, ha scritto un articolo nel quale sostiene che, dei due o tre concerti che ogni gruppo jazz tiene ogni sera nei club di New York, il migliore è sempre l’ultimo, per vari motivi, i musicisti sono più rilassati, il pubblico più disposto all’ascolto, l’ambiente più tranquillo. Il “midnight set” è quindi il concerto che dovreste prenotare per avere le maggiori possibilità di ascoltare un concerto memorabile nei jazz club. Nel mio lavoro ho sempre cercato e continuo a cercare di combinare elementi diversi ma complementari (a volte ovvi solo a me), nel tentativo di creare un contesto per un “momento trasformativo”. Perché ciò possa avvenire sia il pubblico che il musicista dovrebbero essere rilassati ma allo stesso tempo un po’ tesi ed eccitati (un ibrido in se stesso); ci dovrebbe essere un senso di aspettativa coesistente con un senso di confort. La possibilità di trasformare molto spesso provoca un certo disagio, ma la “crescita” è, in un certo senso, sempre un po’ disagevole.

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FIVESTEPSWITH

DAVID HARRINGTON

Elementi eterogenei e discordanti, che si uniscono, teoricamente dovrebbero mal coesistere. Ma non sempre è così, soprattutto in alcune forme artistiche. In che senso si può parlare di ibrido in musica secondo Lei? Pensando al mio lavoro ritengo che tutto o niente di ciò che ho fatto e che faccio sia stato e sia un ibrido. Nel senso che potrebbe essere considerato ibrido anche il concetto stesso di quartetto d’archi, il contrasto tra strumenti differenti che suonano insieme o due violini suonati da due persone, perché lo spazio che hanno le interpretazioni è enorme. Ma per entrare nello specifico di come lavora il Kronos posso dirti che quello che ho voluto fare è stato rinnovare il concetto originario di quartetto della Vienna di metà Settecento e di cercare di portare, in un certo senso, tutto il mondo all’interno del quartetto; di scardinare l’idea dell’ensemble composto da due violini, una viola e un violoncello e del repertorio classico che questa formazione esegue solitamente. La domanda che poni è interessante e non so se ho risposte perché io non penso che le nostre orecchie riescano a recepire tutto ciò che sentono: tutti i ritmi, le sfumature. Il mondo dei suoni e della musica esiste indipendentemente dalle culture, dalle persone. È un processo istintuale più che cognitivo. Penso che ogni ascoltatore sia una collezione di tutta la musica e i suoni uditi nella propria vita. Fin dalla nascita ascoltiamo. Alcuni di questi suoni diventano speciali perché ci attraggono. Ogni individuo è predisposto ad essere attratto da determinati suoni e, dunque, li ricerca. Le vostre peculiarità sono la sperimentazione e la ricerca. Negli anni avete collezionato numerose collaborazioni. Come nasce il processo creativo secondo la Sua esperienza? È molto interessante pensare a come avvenga il processo creativo. Molte delle migliori idee le ho avute in posti e tempi differenti. Leggendo, conversando. Leggo o ascolto un’affermazione e le mie idee vanno in una direzione nuova. Nasce così l’idea di proporre la stesura di un pezzo a un compositore che non è mai appartenuto concettualmente al mondo del Kronos prima di allora. Recentemente ho ascoltato un gruppo palestinese su MySpace, i RamallahUnderground. Non avevo mai ascoltato musica che suonasse in questa maniera. Mi sono messo in contatto con loro e, nel nostro ultimo album, abbiamo inserito uno dei loro pezzi. Tutti i circa 650 pezzi scritti per il Kronos hanno seguito questo processo. Il desiderio è quello trovare qualcosa di originale e di bello, che io ritenga tanto entusiasmante da poter essere trasposto nel mondo del Kronos. È un po’ come pensare ad un tessuto di esperienze significative che tutte insieme

contribuiscono ad arricchire il tuo senso di creatività. Quindi la vostra musica nasce all’esterno. Io cerco di tenere le orecchie aperte ventiquattr’ore al giorno: guardando la televisione, ascoltando produzioni musicali di tutto il mondo. Ogni tanto, raramente, qualcosa mi attrae. Ho completa fiducia nel processo che consiste nell’essere totalmente affascinato dall’esperienza di ascolto; esperienza che poi stimola il mio processo creativo. Non succede spesso e devo essere completamente convinto per decidere di coinvolgere il Kronos. Non è una capacità comune essere così aperti e ricettivi. Penso che l’ascolto richieda esercizio, pratica. Avere le orecchie aperte e lasciare che le influenze, dalle varie componenti dello spettro di cui è composta la musica, entrino nella tua vita sia come una disposizione spirituale. Senti che la musica ti porta dove lei vuole andare. Certe volte può accadere lavorando con un costruttore di strumenti musicali che ne realizzi uno particolare, nuovo; altre volte si può giungere ad un suono originale trovando un nuovo modo di suonare gli strumenti. Credo che sia ciò che accade ad un pittore: quando vede un nuovo colore, mai visto prima, o un tipo di luce diversa, egli desidera ritrovarli, portarli sulla propria tavolozza. Trovare un suono nuovo, come avete fatto nelle vostre numerose esperienze con gli artisti più disparati, come Tanya Tagaq, una throat singer; o Alin Qasimov, un cantante azerbaijano.Le vostre collaborazioni e sperimentazioni hanno un respiro globale. Il mondo della musica è estremamente frammentato, c’è l’opera, c’è la pop music, l’heavy metal, il folk. Credo che la mia responsabilità sia quella di cercare di abbracciare tutte queste esperienze. Desidero che quando una persona ascolta una nostra registrazione, o viene ad un nostro concerto, possa avere esperienza musicale globale. Ci vogliono differenti punti di vista per creare un mondo di musica. È questo che mi guida. Il dipinto non è mai finito, si forma e si modifica continuamente: è l’essenza dell’ispirazione musicale. La musica è come una sostanza vivente che si trasforma e si reinventa e che poi scompare. Il suono è un’entità effimera: quando finisce è perso per sempre, tranne che nella nostra memoria. Il lavoro di noi musicisti è quello di realizzare esperienze che rimangano nella memoria di chi le ascolta.

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Musica e cinema Forme di un incontro Claudia Pedone


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usica sinfonica nel Cinema muto Sebbene comunemente si ritenga che esista una cosiddetta “epoca muta” del cinema, la musica, in realtà, fa parte della storia del cinema sin dalla sua nascita. The Jazz Singer (USA, 1927) è il primo “film sonoro” della storia del cinema, ma anche prima della sua uscita la visione di un film era accompagnata dalla costante presenza della musica. Durante le proiezioni, prima dell’invenzione della registrazione del suono sulla pellicola, le immagini erano accompagnate da un’esecuzione musicale in diretta, il più delle volte ad opera di un pianista che lavorava di fantasia, improvvisando e inserendo citazioni di un repertorio noto. Una musica che offriva un’indispensabile vivacità alla visione del film, sottolineando il carico emotivo delle diverse scene con il variare delle sonorità. Secondo alcune ipotesi più semplificatrici, la musica, nel cinema muto, svolgeva un compito strettamente funzionale: serviva per coprire il rumore del videoproiettore. Tuttavia, è stata ampiamente riconosciuta la sua fondamentale importanza nel favorire la visione di un film muto, sottolineando il ritmo del montaggio, intensificando il contenuto emotivo delle immagini e destando l’attenzione del pubblico. Il movimento, senza componente sonora, sembra avere un aspetto spettrale, insostenibile, mentre la musica conferisce all’immagine bidimensionale una terza dimensione, altrimenti irrecuperabile. I film di Charles Chaplin sono un mirabile esempio di “film muto”. Riedito in forma sonora con un commento scritto in un secondo tempo dallo stesso Chaplin, The Gold Rush (USA, 1925) è uno dei capolavori del maestro del muto, a cui i primi spettatori assistettero deliziati da improvvisate esecuzioni di pianoforte. Una pellicola tragicomica che narra le vicende di The Tramp (o come lo conosciamo in Italia, di Charlotte), l’omino vagabondo alle prese con un’avventura in Alaska. Scene divertenti, alcune divenute celeberrime, si intrecciano con momenti più drammatici che toccano i

temi della solitudine e della sopravvivenza. Indimenticabili la scena dello scarpone, quale unica prelibatezza cucinata per il cenone di Natale, la scena della danza coi panini, la scazzottata nel bar e le allucinazioni di Giacomone provocate dalla fame. L’omino, in Alaska, affronta una pericolosa tempesta di neve, soffre la fame e patisce dolorose pene d’amore, ma il tutto avviene all’insegna di un happy end. Le scene di La febbre dell’oro non sono accompagnate da effetti sonori, che permetterebbero di sottolineare le sfumature dell’azione in corso. È per questo motivo che gli attori si esprimono con grandi gesti, molto accentuati, perché il corpo deve parlare in modo chiaro ed esplicito. Alla mimica del corpo è affidato l’intero compito comunicativo, senza l’ausilio di parole e suoni. La musica offre così un ulteriore rafforzamento a quella mimica evidente con cui Chaplin si esprime mettendo in gioco tutto il corpo, dalla mimica facciale alla tipica camminata. Nonostante ciò, la musica, nei primi anni di vita del cinema, non poteva ancora fare parte a pieno titolo dell’opera cinematografica, poiché rimaneva soggetta alle condizioni variabili dell’esecuzione dal vivo. Musica colta minimalista contemporanea. Per una colonna sonora da disco d’oro Composta come colonna sonora di Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain (Francia, 2001), la musica di Yann Tiersen ha raggiunto in pochi mesi il doppio disco d’oro, con oltre duecentomila copie vendute. Le sue sonorità, nate per offrire una particolare dimensione musicale alle vicende di Amélie, hanno continuato a viaggiare anche in completa autonomia, separate dalle immagini del film che racconta di questa deliziosa ragazza francese. Accolto dal pubblico e dalla critica con grande favore, il film, campione di incassi del 2001, ha goduto di un ampissimo successo, raggiungendo ben cinque candidature all’Oscar. Il rapporto tra musica e cinema lascia trasparire nella musica da colonna sonora tutta la sua particolarità e complessità: mu-

sica e film, nel loro insieme, sono stati coautori di un medesimo successo che, tuttavia, non ha impedito alla colonna sonora di rendersi autonoma dalle immagini accompagnate sulla scena ed essere quindi anche commercializzata separatamente dal film. Al musicista di Brest, Yann Tiersen, è stato affidato il compito di dare l’anima alla storia del regista Jean-Pierre Jeunette. Tiersen è uno dei massimi artisti francesi contemporanei e nella colonna sonora di Amélie ricompone una vera e propria antologia della sua esperienza musicale, a cui ha affiancato la composizione di nuove tracce appositamente per l’occasione. Violino, pianoforte, e fisarmonica sono i protagonisti di questo magistrale assaggio di musica colta contemporanea di cui Tiersen se ne fa ideatore e interprete, attraverso il suo stile minimalista. Musica, immagini, azione, colori e movimenti di macchina si sposano magistralmente per creare un’atmosfera trasognata e rarefatta, ma al contempo densa di un fascino del tutto particolare. La storia narrata dal film è quella di una ragazza a cui piacciono le piccole cose: voltarsi nel cinema al buio e guardare le facce degli spettatori, cogliere particolari che nessuno noterà mai, rompere la crosta della crème brûlée col cucchiaino, tuffare la mano in un sacco di legumi e far rimbalzare i sassi nel canale Saint-Martin. La storia di Amélie è una ribellione alla malattia dell’indifferenza allo scopo di rendere felice la vita degli altri e, pian piano, accettare di lasciare entrare la felicità anche nella propria vita. Una galleria di personaggi costruiscono il tessuto della vita della protagonista, un pesciolino suicida, un impiegato dei treni in pensione che oblitera le foglie delle piante, un pittore che falsifica ogni anno un quadro di Renoir, il padre severo, la portiera vedova, un fruttivendolo presuntuoso, i clienti e i colleghi del bistrot in cui lavora, un collezionista di fototessere. Tra questi personaggi si muove Amélie, rimettendo a posto le cose che non vanno nelle loro vite, attraverso piccoli gesti, fantasiosi e divertenti, che permettono di ritrovare la felicità perduta, o nascosta troppo tempo addietro sotto qual-

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che mattone. Il sound degli anni Trenta e da bistrot parigino, le musiche malinconiche e i suoni del folk bretone, valzer e suoni crepuscolari si alternano sulla scena, conferendo una tonalità del tutto particolare alle atmosfere de Il Favoloso Mondo di Amélie e alla protagonista. Entrambe minimaliste: Amélie e la colonna sonora compongono insieme una perfetta armonia di caratteri. La musica che dà vita alle immagini. Sebastiano Arturo Luciani, un musicologo, capovolge nell’esposizione delle sue teorie il rapporto tra musica e immagini. Luciani ipotizza un ribaltamento dei rapporti, liberando la musica dalla subordinazione a cui si era assuefatta: non è la musica che accompagna le immagini, ma è il film che funge da “commento” alla musica. Fantasia (USA, 1940) è un film d’animazione interamente ideato secondo questo principio. Le immagini nascono dai suoni e li esaltano, rappresentando dove è possibile la narrazione ad essi sottesa. Fantasia, nato da un’idea di Walt Disney, debuttò nel 1940 sul grande schermo e nel 1990, in occasione del suo mezzo secolo di vita, fu restaurato per la versione home video. La storia di questo esperimento cinematografico, però, non si è fermata lì, raggiungendo anche il nuovo millennio con il sequel Fantasia 2000. Si apre il sipario e sullo schermo compaiono le ombre degli orchestrali che prendono posto sul palco e che, con i loro strumenti, illumineranno di colori e immagini la fantasia degli spettatori. Tre tipi di musiche sono preannunciate dalla voce fuori campo: musica che racconta storie, musica che suggerisce immagini, musica fine a se stessa. Toccata e fuga in re minore di Johann Sebastian Bach, il primo brano, appartiene proprio a questa terza categoria: pura musica priva di pretese narrative. Ombre e luci giocano con le note di Bach e con gli strumenti dell’orchestra, moltiplicandone le ombre e restituendo con i diversi colori i differenti effetti timbrici delle varie parti dell’orchestra. Sull’intreccio delle differenti linee melodiche si forma un intreccio di li-

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nee e forme astratte: musica pura che gioca con colori e forme. Lo schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij, il secondo brano, è un episodio che suggerisce immagini. Fatine, pesci, funghi e fiori danzanti animano la scena di questo balletto di disegni. A Lo schiaccianoci segue un altro balletto, quello de La sagra della primavera di Igor Stravinskij. In questo brano Stravinskij descrive il rito pagano che festeggia l’arrivo della primavera, mentre Walt Disney si serve del pezzo musicale per raccontare la storia della formazione del nostro pianeta: dalla rinascita della vita in primavera dopo la morte dell’inverno, che ispirava Stravinskij, alla nascita primordiale della vita sulla Terra e l’estinzione dei dinosauri, che prende forma nel film. Un’immersione nella mitologia dell’antica Grecia accompagna le note della Sinfonia n. 6 di Ludwig van Beethoven. Giovani centauri, ninfe, unicorni, satiri, cavalli alati e putti abitano una natura fantastica in cui fanno la loro apparizione anche alcune divinità del monte Olimpo. Bacco e i suoi baccanali, i fulmini lanciati da Zeus, Eolo che soffia sulla Terra, il ritorno del sereno con l’arcobaleno disegnato da Iris, il carro di fuoco di Apollo, l’oscurità sopraggiunta con Morfeo e le stelle illuminate dalle frecce di Diana. Questo brano di Beethoven celebra una vita campestre dal sapore arcadico, traducendo in musica le sensazione che la natura suscitava nel compositore. Danza delle ore di Amilcare Ponchielli, è un segmento contenente un comico balletto di struzzi, ippopotami, elefanti e coccodrilli che evocano le ore dell’aurora, le ore del giorno, della sera e della notte in un’animazione molto vivace che cede il passo all’oscurità di Una notte sul Monte Calvo di Modest Petrovič Musorgskij. Chernabog è il protagonista di quest’episodio, un demone che compare nella profonda notte di un villaggio e richiama a sé spiriti maligni, streghe, arpie, risvegliando anche i fantasmi del cimitero. Scene infernali, alte fiamme e creature mostruose sono ispirate al sabba delle streghe. Al culmine dell’orgia suona una campana che fa disperdere gli spiriti maligni. Il finale

è riservato all’Ave Maria di Franz Schubert che dall’oscurità delle tenebre riconduce agli splendori dell’alba di un nuovo giorno. Il valore diegetico della musica. Mozart e Čajkovskij La particolarità della musica diegetica nel film consiste nel suo provenire direttamente da una fonte sonora interna al film. Essa è udita dagli spettatori, ma in primo luogo dagli stessi personaggi della storia. A differenza della musica extra-diegetica, percepita dal solo spettatore, in quanto proveniente da una fonte esterna al racconto, la musica diegetica non appartiene in senso stretto alla “musica da film”, ma rappresenta un’interessante modalità d’incontro tra musica e film. I personaggi di alcuni tra i più bei film della storia del cinema ascoltano e commentano la musica. La musica accompagna le loro azioni, la musica spinge all’azione e alla riflessione gli stessi personaggi. È questo il ruolo del “Signor Mozart” in Le ali della libertà (titolo originale The Shawshank Redemption, USA, 1994). Nel carcere di Shawshank si svolge la storia di Andy Dufresne, un innocente ingiustamente condannato all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso la moglie e il suo amante. Nonostante i soprusi e le violenze subite nella situazione di costrizione carceraria, Dufresne afferma con forza che c’è qualcosa che mai gli potrà essere portato via, qualcosa che nessuno potrà toccare o togliergli senza il suo permesso, è la speranza. È nel mantenere vivo il ricordo di questa speranza che la musica acquista il suo senso più elevato e il signor Mozart, come la chiama Dufresne, può essere un grande compagno anche “nel buco”, la cella di isolamento di Shawshank, perché lo si può portare con sé anche nel luogo di massimo isolamento, custodendolo nel cuore e nella testa. Uno dei momenti più alti del film è la scena in cui Dufresne trova un vinile che fa risuonare dai microfoni del carcere. Le note di Mozart non possono essere fermate dalle sbarre. Un momento di libertà regalato a tutti i prigionieri che il protagonista pagherà a caro prezzo. Il librarsi del canto de


Le nozze di Figaro nell’aria aveva fatto dissolvere per un istante la gabbia in cui erano tutti rinchiusi, regalando un prezioso – e inammissibile – istante di libertà. Anche in V for Vendetta (USA-Germania 2005) la musica udita dai personaggi del film trasporta sulla sua melodia il tema della libertà. Sulle note di Čajkovskij è ricercata la libertà da un sistema dittatoriale, perfido e corrotto che governa un’immaginaria Londra del futuro. Il film entra nel vivo della storia con l’Ouverture solennelle “1812” op. 49 che risuona per tutta la capitale contemporaneamente all’esplosione di Old Bailey, la Central Criminal Court che ha sede nel cuore di Londra. Un’esplosione orchestrata da V, il misterioso protagonista mascherato che, sulla scia della memoria della Congiura delle polveri, decide di liberare il suo paese dal potere costituito, autoritario e intollerante. L’Ouverture segna l’inizio e la fine della vicenda di V: due ouvertures, due aperture. Il film termina con un nuovo inizio, quello della libertà dalla dittatura. La distruzione dei palazzi del potere va a braccetto con la costruzione di una nuova storia, con l’inizio di un nuovo corso. Il virtuosismo orchestrale di Čajkovskij trova il culmine nella trionfale conclusione, coronata da colpi di cannone e festosi rintocchi di campane che fanno dell’Ouverture “1812” la musica che accompagna e spinge al cambiamento e alla conquista della libertà e non un sottofondo sonoro funzionale alla partecipazione degli spettatori. La musica in funzione diegetica può essere considerata un personaggio del film, che insieme con gli altri intesse la trama e interagisce con le azioni dei protagonisti. Il Musical alla ribalta con la Musica Pop. Il pop diventa musical. È quanto avviene in Moulin Rouge (Australia, 2001). Da Broadway il musical approda in una Parigi da belle époque per narrare la storia di Christian, uno scrittore squattrinato, e del suo osteggiato e appassionato amore per Satine, la star del Moulin Rouge. Canzoni e musiche da ballo, nel genere

cinematografico del musical, sono funzionali alla storia ed esplicativi della psicologia dei personaggi. Nati come adattamento per pellicola degli spettacoli in scena nei teatri di New York, i musical sono arrivati ai nostri giorni sempre al grido di “all talking all singing, all dancing”. La coralità della partecipazione a canti e danze sembra cancellare i confini spazio temporali e amplificare le vitalità fisiche ed emotive in gioco sulla scena. La storia d’amore tra Christian e Satin, ambientata a Parigi nel 1899, è narrata in Moulin Rouge attraverso alcune tra le più celebri musiche pop del secolo successivo. I classici di fine Novecento perdono nel film la semplicità delle sonorità pop per essere trasformati in canti corali, interpretati con pathos e accompagnati da un ricco ensemble strumentale. Nella versione originale di Your song le dita di Elton John danzano da sole sul pianoforte. Lo stesso brano assume ben altri caratteri nel film, dapprima sussurrato e poi cantato a piena voce, accompagnato da un’intera orchestra, si concede anche qualche accenno lirico e un finale trionfale. Roxanne, di Sting, diviene un tango cantato con una voce graffiante. Con Roxanne la tensione sale alle stelle e si dà il via ad una danza quasi convulsa, con un incrocio di voci e scene che si svolgono contemporaneamente in luoghi diversi, ricongiunti dal grido esasperato che si leva da ogni parte. In Moulin Rouge c’è spazio anche per Madonna e il suo Like a virgin che dà vita ad un grottesco balletto con Zidler, l’impresario del teatro, che si traveste da donna pia, mentre Satine lotta contro la malattia che la porterà alla morte sulle note del capolavoro dei Queen, The show must go on. Musica come soggetto. La biografia del re del Soul e la preparazione del più grande evento Rock Tra i molteplici rapporti intrattenuti tra musica e cinema, riserviamo un accenno finale alla presenza della musica quale soggetto trattato da un’opera cinematografica. Della musica si può parlare e raccontare anche attraverso un film.

È questo, ad esempio, il caso di Ray (USA, 2004) che narra la vita di Ray Charles, il musicista che ha cambiato la musica nera e non solo. Dalla nascita ad Albany fino alla firma di un contratto con la Atlantic e l’ascesa di una carriera leggendaria. La vita privata si intreccia con il palcoscenico e la storia del musicista con la storia di un uomo: un ragazzino afroamericano alle prese col razzismo sud statunitense, la cecità, i vent’anni di dipendenza dall’eroina, il rapporto con la famiglia e le infedeltà coniugali. I lati oscuri della vita privata si intrecciano con le prime luci del successo e la sempre più brillante carriera, iniziata sull’onda del Gospel e del Country e culminata in una vera e propria rivoluzione musicale. In Taking Woodstock (USA 2009) la musica come evento sociale diviene il soggetto del film. La cinepresa di Motel Woodstock – titolo italiano – non è rivolta verso il palco su cui avrà luogo il più grande concerto rock della storia, ma verso la tenuta che ospita il concerto: i veri protagonisti sono gli spettatori e, ancor di più, gli organizzatori. Tutti, per caso, al centro di un momento che diventerà un evento simbolo. Niente chitarre e microfoni, il regista Ang Lee non vuole raccontare il concerto, ma l’evento musicale: un grande evento collettivo capace di descrivere uno spaccato della società che ha visto l’uomo sbarcare sulla luna ed era ancora solo a metà della disastrosa guerra in Vietnam. Il valore culturale della musica, la sua forza di smuovere masse e comunicare un messaggio al mondo intero, capovolgendo il rapporto tra musicisti e spettatori, in Motel Woodstock si segna la differenza tra brano musicale ed evento musicale. Il film è ispirato ai diari di Elliot Tiber, un giovane che coglie l’occasione del concerto per risanare le finanza dell’indebitatissimo motel dei suoi genitori, vedendo in Woodstock un’opportunità personale, prima di rendersi conto del valore che quei tre giorni avrebbero rappresentato in seguito.

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CINEMA

Ăˆ possibile istituire un confronto tra il libro di Saviano ed il film di Garrone? Azzurra Argentieri

GOMORRA O LA QUESTIONE DEL GENERE 142


1. Gomorra e la “questione del genere” Quando si parla di Gomorra, che si tratti del libro o della sua trasposizione cinematografica, ci si trova sempre di fronte alla difficoltà di inquadrarli entro un preciso genere letterario o cinematografico; a dover fare i conti con l’irriducibilità delle due opere a canoni stilistici definiti. Questo disagio deriva in gran parte dalla sua natura ibrida. Wu Ming 1 nel suo denso saggio sulla New Italian Epic, scrive che Gomorra libro è “UNO’’, acronimo di “Unidentified Narrative Object’’, oggetto narrativo non identificato; infatti appena uscito è stato subito messo al centro di una disputa singolare, a momenti anche grottesca, su come dovesse definirsi: se “romanzo” (come dichiarano alcuni scrittori e critici, nonché, sarcasticamente, alcuni camorristi) o “testimonianza-reportage”, se racconto epico o inchiesta, se opera “di finzione” o racconto “vero”. Per Wu Ming 1, Gomorra non è niente di tutto questo, ma «roba nuova» (Wu Ming 1 2008). Carla Benedetti, critica e saggista letteraria, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Pisa, sottolinea questo aspetto in maniera approfondita: È capitato qualche volta che dei libri di grande tiratura abbiano acceso discussioni di tipo valutativo (grande libro oppure grande bluff’?), di tipo sociologico (perché tanti lo leggono?), ma mai di tipo nominalistico. Invece nel caso di Gomorra la diatriba ha preso proprio questo andamento: “che genere di cosa è questa”? (Benedetti 2008).

Il fatto stesso che il libro sia uscito nella collana “Strade Blu’’ Mondadori, ha provocato da subito confusione fra lettori e critici, incerti se ascrivere Gomorra alla “fiction’’ o alla “non fiction’’. Nonostante il libro presenti innegabilmente un respiro da reportage, da inchiesta giornalistica sulla camorra, la sua peculiarità e ricchezza fanno sì che nessuna categoria possa contenerlo veramente. Il coinvolgimento personale dell’autore nelle vicende narrate poi, avvicina il libro più alla testimonianza che all’inchiesta vera e propria, al pari, per esempio, di Se questo è un uomo di Primo Levi. Saviano instaura un nuovo tipo di rapporto con la realtà, mediato da un linguaggio che

non è di mera fantasia, ma che fa riferimento ai dati; la sua è una letteratura documentale in cui le parole diventano strumenti, armi, attraverso cui descrivere la realtà. Saviano sceglie di raccontarla rimanendo lontano da qualsiasi genere convenzionalizzato, come il noir, per esempio, considerato il più adatto a raccontare l’Italia di oggi e che, negli ultimi anni, ha garantito un buon successo di mercato alle case editrici. Saviano, invece, preferisce non imboccare una strada già percorsa da altri, ma tracciarne una nuova e personale. Anche Pasolini, in una sua lettera a Moravia, a proposito di Petrolio, scriveva: In queste pagine mi sono rivolto al lettore direttamente e non convenzionalmente. Ciò vuol dire che non ho fatto del mio romanzo un ‘oggetto’, una ‘forma’, obbedendo quindi alle leggi di un linguaggio che ne assicurasse la necessaria distanza da me, [...] quasi addirittura abolendomi, […] assumendo unilateralmente le vesti di un narratore uguale a tutti gli altri narratori. No: io ho parlato al lettore in quanto io stesso, in carne e ossa, come scrivo a te questa lettera. (Pasolini 1992: 544).

Allo stesso modo, Saviano decide di rivolgersi “direttamente’’ al lettore e la sua scelta si rivela fondamentale; se invece avesse deciso di parlare attraverso la convenzione di un genere narrativo, sarebbe venuto meno quel patto stabilito con i lettori, in virtù del quale si è sicuri della veridicità di quanto è scritto e che per Saviano doveva necessariamente essere scritto. «Chi scrive un noir (o sceglie un qualsiasi altro genere fortemente convenzionale) non ha bisogno di legittimare la propria parola. Pensa già a tutto il genere» (Benedetti 2008); ma si tratta appunto di una legittimità (di parola) concessa per convenzione e non conquistata; la conseguenza è che, fin quando lo scrittore rimane legato a dei vincoli “convenzionali’’, il proprio atto di parola non potrà mai essere percepito come qualcosa di significativo in sé, come una ribellione o una sfida. Ogni scrittura di genere porta con sé il limite di un patto di lettura altamente convenzionalizzato, in cui la posizione di chi parla non è in gioco, non è problematica, ma è in parte annullata. Al di là dell’essere o meno finzione, o dell’appartenere a un genere narrativo piuttosto

che a un altro, il merito di Gomorra è di possedere la forza agente della letteratura: forza eversiva, di verità attraverso la parola e di riuscire a comunicare una realtà così irraccontabile ricorrendo all’unione di elementi semanticamente eterogenei, eccedendo ogni genere e, allo stesso tempo, contenendoli tutti. A prescindere dalla questione dei generi, comunque significativa, la riflessione deve concentrarsi sui modi della rappresentazione, sui dispositivi narrativi riattivati con Gomorra.

1.1 Gomorra film: novità di linguaggio Anche guardando il film, diretto da Matteo Garrone, si fatica a collocarlo all’interno di un genere immediatamente riconoscibile. È un film “politicamente schierato’’, “socialmente impegnato’’ come quelli di Rosi? Molte soluzioni metodologico-linguistiche non apparentano forse il film al Neorealismo, in particolare al cinema di Rossellini? O è semplicemente un film a episodi, che ricorda, «per il modo di alternare le storie in una struttura narrativa, i film di Altman»1? O meglio, di Inarritu, con il suo Babel (altra citazione biblica) e soprattutto Amores perros? E non ha forse il ritmo e il respiro di un film di Scorsese? Quella di Garrone è una vera e propria sfida stilistica. Egli stesso dichiara di volersi «misurare con altri generi, come il gangster movie, in cui ci sono sparatorie e scene d’azione, utilizzando però sempre una regia molto semplice, cercando di rendere invisibile la macchina da presa» (Bernacchioni 2008), «ricorrendo per almeno il 70% del film alla camera a spalla, come un reportage di guerra, al fine di accrescere l’impatto emotivo» (Marrese 2008). L’attrazione del regista per storie che possano essere riconducibili a «strutture di genere» (De Sanctis 2008: 15) inizia già con L’imbalsamatore che ricorda il «melodramma noir», prosegue con una sterzata quasi «horror» con Primo amore, fino al gangster-movie di Gomorra. Come il libro, quindi, anche il film sfugge ogni definizione o categoria precostruita perché, molto semplicemente, è un’altra cosa. Gomorra è un film ibrido, perché non rimane intrappolato in un unico genere, ma riesce ad alternarli, a mescolarli tutti: il film ha una struttura a episodi, ma il metodo di lavorazio-

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fiction/non fiction ne e la ricerca di un’idea figurativa sono supportati da un linguaggio documentaristico. Sin dai suoi primi film, Garrone ridefinisce i confini fra documentario e finzione, facendo appello a quest’ultima per soccorrere la realtà fino ad integrarla; Garrone arriva alla finzione – alle emozioni, ai sentimenti – attraverso il reportage, il documento schietto e sincero e

PERCORSI

Per ritrovare, all’interno del panorama letterario, altri romanzi che riescono ad abbracciare più generi narrativi, superando ogni categoria imposta dalle ‘’convenzioni del genere’’, si segnalano: Saramago, J. 2003. L’uomo duplicato. Torino: Einaudi. Il romanzo, dall’atmosfera onirico-surreale, ha una struttura narrativa che vede due uomini assolutamente identici incontrarsi. L’espediente utilizzato, il topos letterario del doppio, già presente nella letteratura greca come in quella fantascientifica, è tipico anche della letteratura tout court. Saramago, J. 1998. Cecità. Torino: Einaudi. Qui l’espediente narrativo è l’idea del contagio, tema già presente nell’Eneide di Virgilio, quando il poeta parla del diffondersi della fame, così come ne I promessi Sposi, in cui Manzoni racconta l’epidemia di peste che colpì Milano, fino ad arrivare a L’ombra dello scorpione di Stephen King, horror che racconta la diffusione, per contagio, di un virus mortale. Mentre gli scrittori citati scrivono attenendosi alle convenzioni di un genere ben riconoscibile, Saramago lo fa all’interno del genere Letteratura, eludendo (e giocando con) ogni specificità legata a un genere facilmente identificabile.

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lo fa sempre conservando un solido impianto narrativo, eliminando ogni elemento di spettacolarizzazione, descrivendo la realtà con onestà, sempre alla ricerca della verità attraverso il potere espressivo delle immagini; inoltre, la predilezione del piano-sequenza (e il conseguente uso della macchina da presa a spalla), l’abitudine a girare in strade e case vere e non ricostruite in Si consiglia, inoltre, un romanzo che affronta sempre il tema della camorra ma che, diversamente da Gomorra, si presenta come un flusso ininterrotto di esperienze e riflessioni: Balestrini, N. 2004. Sandokan, una storia di camorra. Torino: Einaudi. Un romanzo che racconta la criminalità, mescolando elementi di finzione a riferimenti reali, di non fiction, è De Cataldo, G. 2002. Romanzo Criminale. Torino: Einaudi. Per approfondimenti sul Neorealismo e per capire nello specifico quali aspetti permettono di considerare Gomorra un film neorealista, si raccomandano due testi imprescindibili: Deleuze, G. 1983. Cinéma 1. L’imagemouvement. Paris: Ed. du Minuit; trad. it. 1984. Cinema 1. L’immagine- movimento. Milano: Ubulibri. Deleuze G. 1985. Cinéma 2. L’imagetemps. Paris: Ed. du Minuit; trad. it. 1989. Cinema 2. L’immagine-tempo. Milano: Ubulibri. In queste due opere Deleuze dedica molta attenzione al Neorealismo italiano che egli definisce cinema del ‘’veggente’’, dove il protagonista è consegnato ad una visione piuttosto che essere impegnato in un’azione. Il personaggio neorealista, in questo senso, ha la funzione di personaggio-registratore: si limita ad osservare, a registrare la realtà intorno, senza riuscire ad intervenirvi. Per quanto riguarda la cinematografia neorealista, un film che, per la sua struttura a episodi e per lo scenario di guerra rappresentato, ha influenzato particolarmente Gomorra di Garrone è Paisà. Regia di Roberto Rossellini. Con William Tubbs, Harriet White, Gar Moore, Carmela Sazio, Dots M. Johnson, Dale Edmunds, Giulietta Masina. Italia 1946. Spesso i protagonisti dei film di Rossellini o di De Sica sono dei bambini, secondo Deleuze i più capaci di vedere e sentire perché

studio, così come il ricorrere spesso all’improvvisazione, avvicinano Gomorra alla tradizione cinematografica neorealista2.

1.2 Strategie narrative Non è certo la prima volta che in un testo ancora incapaci di agire, di reagire. I bambini uccidono e muoiono di ciò che sentono e di ciò che vedono. In Gomorra accade qualcosa di simile col personaggio di Totò che, per la sua incapacità di opporsi all’agguato teso a Maria e per la posizione spettatoriale assunta rispetto agli eventi, incarna la tipica storia rosselliniana e neorealista. Per i dovuti raffronti, quindi, si vedano: Germania anno zero. Regia di Roberto Rossellini. Con Franz Kruger, Edmund Moeschke, Barbara Hintze. Italia 1947. Europa ’51. Regia di Roberto Rossellini. Con Alexander Knox, Giulietta Masina, Ingrid Bergman, Carlo Hintermann, Ettore Giannini. Italia 1952. Sciuscià. Regia di Vittorio De Sica. Con Franco Interlenghi, Rinaldo Smordoni, Maria Campi, Aniello Mele, Enrico Cigoli. Italia 1946. Gomorra ha completamente stravolto l’immaginario cinematografico e l’iconografia ‘’glamour’’ legati alla mafia e propri della cinematografia americana. Si rimanda, a tal proposito, ai seguenti film: Quei bravi ragazzi. Regia di Martin Scorsese. Con Robert De Niro, Ray Liotta, Joe Pesci, Lorraine Bracco, Paul Sorvino. USA 1990. Il Padrino. Regia di Francis Ford Coppola. Con Marlon Brando, James Caan, Al Pacino, Robert Duvall, Diane Keaton. USA 1972. Scarface. Regia di Brian De Palma. Con Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, Mary Elizabeth Mastrantonio, F. Murray Abraham. Sceneggiatura di Oliver Stone. USA 1983. Per indagare invece la ‘’nostra’’ criminalità, quella dei quartieri popolari, fatta di povertà e disperazione, si veda Accattone. Regia di Pier Paolo Pasolini. Con Franco Citti, Franca Pasut, Adriana Asti, Silvana Corsini, Paola Guidi. Italia 1961. Gomorra è stato rappresentato anche a teatro, per la regia di Mario Gelardi e dello stesso Saviano.


innesti inserti prelievi letterario si ricorre alla mescolanza di generi, anzi, è una componente essenziale del narrare, ma in Gomorra accade qualcosa di diverso, di inedito. Saviano ricorre ad una strategia narrativa complicata da vari gradi di simulazione e dissimulazione che produce, a partire da un vissuto reale, personaggi e situazioni di natura, invece, “testuale’’, facendo di Gomorra, attraverso l’immedesimazione, qualcosa di più di un reportage, di più vicino alla letteratura che non al giornalismo d’inchiesta. È necessario, quindi, operare una «riflessione non tanto sui generi letterari, quanto sui modi della rappresentazione, proprio perché ogni opera instaura un rapporto col mondo, col fuori, e soprattutto col mutamento dei suoi significati» (Chimenti 2009). L’uso che nel romanzo si fa dei documenti storici è il primo supporto, sia materiale che simbolico, della capacità dell’autore di catturare il reale e testualizzarlo, rendendolo materia letteraria. Saviano ricorre a una serie di dispositivi narrativi e di retoriche che permettono al romanzo di “agganciare’’ la Storia e testualizzarla. La realtà raccontata si presenta nei testi attraverso dei riferimenti ad un terzo che è esterno al testo ma che garantisce per il testo stesso: si pensi, ad esempio, ai documenti giudiziari, agli articoli di giornale, o agli stessi film citati in Gomorra. È abbastanza ovvio che non è necessario che il testo garantisca per questo universo storico, perché l’autore fa continuamente riferimento ad una realtà, ad un mondo extratestuale presuntivamente già noti al pubblico. Il problema sorge quando Saviano inserisce nella narrazione personaggi e storie come quelle di Pasquale e Mariano. Il testo, in questo caso, non può garantire per la loro esistenza. Entrambi possono essere considerati dei personaggi finzionali, non perché non esistano nella realtà – quasi sicuramente le loro esperienze appartengono ad individui reali – ma perché ciò che li sostanzia non è la stessa materia documentale di cui sono fatti i personaggi reali, testimoniati da fonti terze e ufficiali (giornali, libri, cronache, biografie) come Francesco Schiavone o Cosimo Di Lauro. Saviano rende così ancor più difficile la posizione del lettore, “costretto” ad accettare questo patto narrativo in cui gli si chiede, attraverso le continue sovrapposizioni tra dimensione testuale e campo del reale, di scegliere, da cittadi-

no, oltre che da lettore, se farsi carico o meno di questa rappresentazione della realtà. Ma quali sono, allora, le modalità operative, gli espedienti narrativi attraverso cui Gomorra, da una parte cattura una porzione di realtà e dall’altra la restituisce all’universo culturale con un sovraccarico di senso?

1.3 Innesti, prelievi e inserti: possibili chiavi interpretative. Marco Dinoi, giovane docente di teoria cinematografica recentemente scomparso, nel suo libro Lo sguardo e l’evento (2008), ha cercato di articolare una «tipologia empirica delle tracce del passato storico che un testo filmico può utilizzare al suo interno» (Dinoi, 2008: 176). Avvalendosi degli studi compiuti da Dinoi nell’ambito cinematografico, si può capire come spesso Saviano, per Gomorra, si sia servito di alcune figure, rintracciate da Dinoi in determinati film, che permettono ad un testo di catturare il passato storico ed installarvisi: l’innesto, il prelievo e l’inserto. Certo, si tratta di una tassonomia parziale e, soprattutto, concepita per un discorso cinematografico, ma se si sposta l’attenzione sul piano strettamente narrativo e si considerano le categorie proposte come una vera e propria tipologia retorica, molte differenze tendono a scomparire, rendendo queste categorie estremamente utili per la lettura di Gomorra, nel disvelamento della sua natura ibrida.

1.3.1 L’innesto Tra quelle proposte, è la figura più ricorrente perché appartiene alla tradizione del romanzo storico in generale, in cui è consueto ritrovare episodi della realtà storica, riadattati al contesto letterario e connessi a elementi di fiction. Spesso l’elemento di fiction è semplicemente nel punto di vista adottato, come ad esempio in quello di Renzo Tramaglino (personaggio di invenzione) che, nella Milano del 1628, assiste all’assalto ai forni (evento storicamente accaduto). Manzoni ricorre ad un personaggio finzionale, per raccontare un fatto reale. L’utilizzo dell’innesto in Gomorra si avvicina spesso a quanto appena descritto: l’elemento

di fiction è in quell’io narrante “sovraccarico” e onnipresente, che permette a Saviano di collocare il proprio sguardo laddove esso non può essere, descrivendo veri eventi di cronaca da punti di vista “ideali”, per ottenere l’effetto desiderato. Ancor prima del vissuto dei suoi personaggi, è proprio Saviano, o meglio il suo simulacro testuale, ad essere innestato sotto forma di un io narrante ubiquo: è come se Saviano si moltiplicasse e assumesse lo sguardo di mille persone diverse, dal giornalista presente sul luogo dell’omicidio, al carabiniere che ne redige il verbale3. Gli innesti sono eventi ed esistenti che provengono da un campo extratestuale e che sono sottomessi da subito all’operazione di messa in scena del film, da cui sono ricontestualizzati in vista di effetti di scrittura specifici e più in generale con il risultato di narrare una storia diversa da quella ufficiale (Dinoi 2008: 178).

In Gomorra non ha rilevanza se il materiale innestato sia frutto dell’immaginazione dello scrittore, del suo vissuto personale oppure di ricerche fatte sul campo (di solito è una miscela di tutte queste cose insieme). « È importante invece che sulla narrazione di eventi ed esistenti agiscano delle sequenze narrative, costruite per via puramente testuale» (Chimenti 2009). Nel capitolo “Kalashnikov”, per esempio, Mariano fa da spola tra il bar, che è un luogo testuale e la casa di Mikhail Kalashnikov che è, almeno presuntivamente, un luogo reale. Ma per dissimulare l’innesto, Mariano viene ridotto a personaggio registratore; è un puro sguardo che può essere staccato dal suo portatore e sul quale possiamo installarci a nostra volta. Non sono infatti le parole di Mariano a descriverci la casa di Kalashnikov, ma la sbobinatura del video che ha girato con la sua telecamera. Il lettore, quindi, non potrà mai sapere se le pareti della casa di Kalashnikov siano davvero così come Saviano le descrive: «la casa della famiglia Kalashnikov aveva le pareti tappezzate di riproduzioni di Vermeer e i mobili erano stracolmi di gingilli in cristallo e legno[…]» (Saviano 2006: 192); così come non saprà mai se Mariano ha mangiato davvero le mozzarelle di bufala col generale.

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io narrante 1.3.2 L’inserto. L’analisi appena fatta sull’incontro tra Mariano e Kalashnikov, permette di introdurre la seconda figura teorizzata da Dinoi, l’inserto: L’inserto appartiene ad eventi o esistenti direttamente riconducibili alla storia ufficiale, cronologica, ma a differenza del prelievo, è direttamente manipolabile dal testo filmico[…]. Può essere la testata di un quotidiano che tuttavia mostra tra le notizie “vere” anche quelle finzionali che hanno a che vedere con la diegesi del film – tutte occorrenze rinvenibili in Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis, che può essere considerato l’esempio paradigmatico di questo tipo di operazioni (Dinoi 2008: 177).

«L’inserto è un oggetto che, pur richiamandosi alla storia ufficiale, non preesiste alla narrazione» (Chimenti 2009). A differenza dell’innesto, l’inserto manipola gli eventi direttamente dall’interno del testo stesso. In altre parole, si può dire che l’inserto introduce sempre un personaggio o un elemento finzionale, che “serve” al testo per poter articolare il racconto e renderlo avvincente: benché il video girato da Mariano presenti le stesse modalità con cui sarebbe stato prodotto nella realtà extratestuale, esso contiene al suo interno elementi diegeticonarrativi che sono invece creati appositamente all’interno del testo. È lo stesso Mariano, infatti, un personaggio finzionale perché piegato alle esigenze narrative del romanzo, che entra letteralmente nel quadro e si mette a tavola a mangiare assieme a Kalashnikov.

1.3.3 Il prelievo Si tratta a questo punto di individuare la terza e ultima figura in gioco, il prelievo: È l’oggetto tale e quale si presenta nella realtà extratestuale e come tale, presuntivamente riconoscibile dallo spettatore[…]. Può essere, per esempio, in Buongiorno, notte, il telegiornale che annuncia il sequestro di Moro, i giornali dell’epoca…Il prelievo si offre in questo senso come documento del passato, traccia o residuo archeologico che aggancia il testo a una situazione storica (Dinoi 2008: 178).

Con tale termine sono da intendersi tut-

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ti quegli oggetti che si presentano tali e quali sono nella Storia: sono i documenti autonomi dalla narrazione, immediatamente riconoscibili in quanto tali dal lettore, come le lettere di Don Peppino Diana, gli articoli di giornale, i verbali degli interrogatori, le intercettazioni. Il prelievo, contrariamente all’inserto, «non manipola il documento inserendovi oggetti, personaggi o eventi finzionali» (Chimenti 2009). I documenti si presentano spesso nella loro integrità, oppure vengono sottoposti ad un’operazione di montaggio; comunque sono sempre separati e riconoscibili dal resto del testo attraverso una virgolettatura, una sospensione o uno spazio. Saviano, per esempio, riesce ad inserire perfettamente all’interno della narrazione la breve sequenza di sms che si scambiano il giovane Francesco Venosa, affiliato al clan degli Spagnoli e la sua fidanzata; i testi degli sms, da un lato funzionano come documento, perché informano su alcune dinamiche interne ai clan, dall’altro raccontano la vicenda, attuale e archetipica, di un giovane che sa di non poter sfuggire ad un destino per lui già segnato. Un documento diviene prelievo solo quando viene fatto interagire con elementi testuali che ne garantiscono lo svolgimento e l’ampliamento dei significati. È grazie a questo intreccio che il prelievo, pur mantenendo la letteralità del documento, si apre all’interazione simbolica col testo (Chimenti 2009).

È evidente che la distinzione tra innesto, prelievo e inserto è di natura puramente formale. Spesso è proprio da un prelievo che prende origine un innesto. È il caso, per esempio, dell’intercettazione telefonica in cui si parla di provare il taglio dell’eroina su delle cavie umane. Saviano riesce a sviluppare una delle sequenze più riuscite del libro, quella in cui il protagonista assiste ad uno di questi test fatti sugli eroinomani, sui tossici, chiamati “Visitors’’. Anche in questo caso la presenza sul posto di Saviano non può essere garantita al di là del testo, ma l’effetto di realtà è comunque amplificato dal fatto che il passaggio dal piano documentale a quello narrativo-testuale è dissimulato dalla prossimità in cui vengono a trovarsi prelievo (l’intercettazione telefonica) e innesto (la scena dei Visitors), rendendo assolutamente verosimile la scena.

In definitiva, la particolarità e il merito di Gomorra-libro sono di riuscire a rendere “letterario’’ un documento, sia esso un’intercettazione telefonica, una registrazione o un articolo di giornale, ricorrendo a espedienti squisitamente narrativi. Saviano cerca di ancorare il testo ad un mondo storico, conferendo ai documenti una funzione cognitiva che essi prima non avevano. Inoltre, quando Gomorra preleva dei documenti, li trasforma e «trasferisce loro un connotato tipico dei testi artistici, la rileggibilità: rileggere Gomorra è infatti un’occupazione molto più naturale che rileggere le fonti usate da Saviano» (Chimenti 2009). Questa trasformazione però non comporta certo uno stravolgimento di senso o di contenuto dei documenti riportati; tutt’altro. Spesso è proprio attraverso l’uso dell’immaginazione, della creazione letteraria che Saviano riesce a rendere partecipe il lettore di una realtà tanto complessa, ricorrendo talvolta a personaggi finzionali, la cui esistenza, a differenza dei boss, è garantita solo all’interno della scrittura e di cui l’autore si serve per svelare dinamiche e fatti ben precisi.

1.4 La fiction come documento Il film non cerca di ripetere o inseguire a tutti i costi ciò che è accaduto veramente, ma semmai di tradurre in visione la materia incandescente del libro attraverso una sua reinvenzione. Garrone arriva ad una rappresentazione della realtà dove ciò che è importante non è se i ragazzini si fanno sparare realmente su dei giubbotti antiproiettile, se Pasquale si nasconda davvero nel portabagagli di un auto, o se dei bambini guidino dei tir, perché ciò che conta è la verosimiglianza, è ridare quel senso di invenzione continua che è alla base della realtà e che non significa raccontare falsità, ma anzi servirsi della “fiction’’ per rendere la realtà più vera del vero, attraverso il prisma dell’arte. Non è certo la prima volta che un’opera letteraria viene trasposta in pellicola, ma in Gomorra l’aspetto più affascinante, nonché il più difficile di questo processo, era riuscire a ricavare un film da un testo che si presentava già in partenza come ibrido. Nel passaggio dal libro al film, c’era il rischio di confondersi nel flusso degli eventi narrati, perdendo la visione generale di un fenomeno così esteso e tentacolare.


dispositivi narrativi La soluzione di Garrone è stata di scarnificare il libro, puntando tutto su cinque storie. Per la sua densità narrativa e ricchezza descrittiva, infatti, Gomorra avrebbe potuto dar vita a decine di storie diverse, ma Garrone attua un sapiente lavoro di manipolazione del testo: non copia Saviano, ma ne mutua suggerimenti e segmenti; sceglie solo alcune tracce del libro, cercando di non tradire il procedimento a quadri slegati e indipendenti tra loro. Come nel romanzo i fatti narrati non seguono un ordine lineare, con un inizio, uno svolgimento e una fine, così nel suo film Garrone cerca di assecondare quello stesso metodo casuale di sviluppo delle storie, facendo una scelta ben precisa, eliminando già in fase di sceneggiatura personaggi come Francesco Schiavone o Cosimo Di Lauro, solo per citarne alcuni. Il criterio seguito nella selezione delle storie è quello di «privilegiare solo alcuni episodi di personaggi minori: non protagonisti della storia con la “s” maiuscola, ma al contrario un po’ vittime, figure di secondo piano» (De Sanctis 2008: 122). Garrone sceglie storie e temi della manovalanza e non quelle dei boss, dei piani alti. Mancano insomma tutti i riferimenti alla cronaca e alla documentalità che si trovano invece in Saviano. Ma è importante sottolineare che, pur privilegiando l’aspetto figurativo su quello di denuncia, Garrone non tradisce lo spirito del libro inchiesta di Saviano facendone un’operazione di puro intento stilistico. Tutt’altro. La violenza viene raccontata senza glamour, senza mai mostrare, come dice Garrone, gli ‘’dèi’’, i boss, senza mai esaltare quel mondo. Qui siamo in guerra, in piena furia scissionista e la manovalanza del crimine è tutt’altro che monumentalizzata; sono esseri umani chiusi in un ingranaggio da cui solo pochi hanno il coraggio e la voglia di evadere. Possiamo condividere l’analisi di Luca Mastrantonio quando dice che Gomorra non è un film d’impegno nel senso didascalico del termine. È epico, ma non ha eroi, semmai una folla di anti-eroi [...]. Qui non ci sono i cattivi tradizionali, quelli che si contrappongono ai buoni. Il film non dice quello che si deve o non si deve fare, quello che va e quello che non va fatto […]. Non c’è inferno o paradiso, ma gironi[…] (Mastrantonio 2008).

La denuncia, allora, sempre per usare un’espressione di Mastrantonio, si fa «architettonica, in senso fisico: le Vele» (Mastrantonio 2008). Garrone con un campo lungo che si allarga sulle terrazze delle Vele, ci mostra un gruppo di ragazzini che si diverte in piscina mentre due metri sotto o si spara o si spaccia. Semplicemente, in un’unica, potente inquadratura, ci ha raccontato un mondo, quel mondo. Garrone apre degli squarci che a volte risultano essere più eloquenti delle stesse parole sulla pagina. la sequenza in cui Marco e Ciro, in mutande e scarpe da ginnastica, si divertono a provare in un fiume le armi appena rubate, è un’immagine che da sola condensa, sul piano figurativo, la cruda brutalità espressa ovunque nel libro. La denuncia, in definitiva, non è assente, ma è interna alle stesse scelte di linguaggio, risultando, paradossalmente, più forte e autentica, anche perché, il raccontare un personaggio piuttosto che un altro, impone comunque un problema morale4.

1.5 L’io narrante e il punto di vista: chi parla nel libro? Chi guarda nel film? Il lavoro di creazione, di re-invenzione, quindi, ha in Gomorra un ruolo fondamentale; è necessario per riuscire a costruire coerentemente un mondo. È grazie all’immaginazione che Saviano può dire di essere anche laddove non se ne può dare certezza assoluta e Garrone può girare il film riuscendo a «rendere incredibilmente vero quel mondo incredibile, cancellando ogni traccia di messa in scena» (Ferzetti 2008). Nel libro tutto è mediato dal racconto in prima persona dello scrittore: c’è il suo corpo, il suo respiro, i suoi moti di rabbia e disperazione che schermano e filtrano la realtà accesa davanti agli occhi del lettore. Tra le sue pagine ci sono i nomi dei carnefici e delle vittime, i dati dell’espansione dell’attività criminale, i numeri che misurano il volume di affari del traffico della droga e dello sversamento di rifiuti tossici nelle terre campane. Niente rimane nascosto tra le righe: tantomeno la voce e il corpo dello scrittore, sempre presente negli eventi raccontati attraverso un io narrante che

si riproduce ogni volta in un nuovo personaggio; ma è come se Saviano lo facesse per proteggere il lettore: nella perlustrazione della realtà lo tiene a distanza di sicurezza, in modo da fargli vedere e capire il sistema senza esporlo direttamente al rischio di ferirsi. Nel film invece non c’è modo di tenersi al riparo: il corpo di Saviano e la sua forza d’interposizione scompaiono e lo spettatore rimane solo e disarmato davanti alla lava di violenza e sangue che sgorga dallo schermo. Così, se nel libro il lettore può aderire al modello emotivo di Saviano, trovando rifugio dietro il suo corpo, guardando la realtà attraverso i suoi occhi, con il film tutto cambia e lo spettatore è costretto ad assorbire le radiazioni della realtà in totale solitudine: il film elimina la figura di Saviano come occhio attraverso cui osservare gli eventi, operando un passaggio dalla prima alla terza persona, in cui lo spettatore è l’unico testimone a farsi carico dello sguardo della camera. La differenza fondamentale fra il testo letterario e quello cinematografico è che nel film non c’è traccia del “personaggio Roberto Saviano’’ che attraversa con la sua vespa i vari episodi del romanzo; come sottolinea Massimo Gaudioso, nella trasposizione cinematografica non si voleva «assolutamente replicare lo stesso espediente narrativo utilizzato dallo scrittore» (Gaudioso 2008: 122). Ma chi parla in Gomorra-libro? Di chi è il suo sguardo? È solo quello dell’autore? L’io narrante è sì l’autore, ma non soltanto e non sempre. L’io che racconta dell’economia cinese in Campania non è lo stesso che insegue don Ciro nelle sue lunghe camminate per distribuire la ‘’mesata’’ alle famiglie dei detenuti: Saviano lo dice, sì, di averlo conosciuto, ma lo dice en passant, non ci facciamo troppo caso perché stiamo già appresso a don Ciro, gli andiamo dietro mentre si infila nei vicoli stretti, sale scale, percorre pianerottoli, ascolta lamentele. Partecipiamo al suo giro […], poi arrivano tre parole ( “mentre gli parlavo’’) e scopriamo che Saviano cammina con noi, anzi, che noi siamo lui. Tutto questo in due pagine. (Wu Ming 1 2008: 16).

È sempre “Roberto Saviano’’ a raccontare, ma egli non è altro che una sintesi, un «flusso immaginativo che rimbalza da un cervello all’altro, prende in prestito il punto di vista di

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FIVESTEPSWITH

ENZO NATTA

Quali sono le differenze tra il libro di Roberto Saviano e il film di Matteo Garrone? Il testo di Roberto Saviano è una via di mezzo fra l’indagine giudiziaria e quel giornalismo investigativo tipico del giornalismo americano. Si pensi a Carl Bernstein e Bob Woodward, i due cronisti del “Washington Post” che smascherarono la responsabilità di Richard Nixon nel caso Watergate. Un testo caratterizzato da uno scrupolo maniacale nella registrazione e nella documentazione dei fatti (proprio come lo erano i servizi firmati da Bernstein e Woodward). Il metodo di lavoro di Saviano segue infatti i canoni della stampa quotidiana che, perseguendo un obiettivo, dedica a un argomento specifico una serie di articoli arricchiti di volta in volta dagli sviluppi conseguenti a nuovi fatti accertati. A mano a mano che si procede, sunti e sintesi di fatti già esposti in precedenza sono necessari per ricordare al lettore le necessarie premesse. Quando poi, a inchiesta ultimata, questi servizi giornalistici sono raccolti in un libro (come si è verificato nel caso di Saviano) il pericolo dietro l’angolo consiste in una ripetitività costantemente in agguato. Cosa che se si nota con una certa frequenza nel libro di Saviano, nel film di Garrone è evitata grazie a quel prosciugamento del testo letterario che la riduzione cinematografica abitualmente comporta. Questo significa che il libro di Saviano è più “impegnato” rispetto al film di Garrone? È nota la posizione di Roberto Saviano per quel che riguarda la funzione dello scrittore, considerato l’intellettuale organico di gramsciana memoria che si pone in un rapporto di confronto diretto con la parte di mondo presa in esame. Per Saviano la letteratura deve essere al servizio della società e non assolve il suo compito se è separata dall’impegno. Visione storicistica, che rispecchia nella forma letteraria le contraddizioni della società e che attraverso la denuncia ne combatte le deformazioni. Il film non è così diretto e martellante come il testo letterario, anche perché isola cinque storie cucite assieme dal comune denominatore del crimine organizzato, ma “l’impegno” è sempre e comunque presente nonostante il diversivo dello spettacolo rischi di metterlo in ombra di fronte a letture poco attente. E qui torna in ballo la “questione del genere”. Perché dobbiamo incasellarli per forza, libro o film che siano, in un genere dai contorni precisi? Matteo Garrone è un autore, non un metteur en scène, e come tale vede le cose con il suo sguardo, del tutto personale, anziché con le lenti del genere. E infatti ha ragione Wu Ming quando parla di “oggetto narrativo non identificato”, di “roba nuova”. Allo stesso modo perché cercare parentele o discendenze con altri autori, con Rosi, Rossellini, Iñárritu? Si farebbe un torto a Garrone e a tutto il suo cinema precedente, soprattutto alla sua produzione iniziale, a film come Terra di mezzo, Ospiti, Estate romana, tutte opere in cui la povertà di risorse finanziarie e di mezzi era compensata da una ricchezza poetica e da una libertà espressiva straordinarie. In Gomorra Garrone trasforma il reportage in drammaturgia e la non-fiction in fiction, conservando però l’autenticità e lo spirito del testo originario in una narrazione estremamente realistica, così intensa da chiudere il cerchio riconducendola all’inchiesta giornalistica da cui era partita. Questo significa che siamo di fronte a una fusione di cronaca e affabulazione, dove i fatti sono tessuti con l’ordito della narratologia? Mi sembra quanto mai pertinente l’osservazione di tradurre in visione la materia incandescente del libro attraverso una sua reinvenzione. Osservazione del tutto in linea con le ultime tendenze storiografiche in materia, da François Furet, per il quale la storia è una disciplina in cui c’è il 50% dei fatti e il 50% di immaginazione, a Antony Beever, sostenitore dell’histo-tainment (storia più intrattenimento), che vede sgretolarsi la barriera tra fatti e finzione al punto che le categorie storiche devono sempre più spesso appoggiarsi al bastone della fiction. L’io narrante è la conseguenza di questa reinvenzione creativa, non il protagonista ma il testimone che ha assorbito le vicende narrate fino a farsene il custode più attendibile.

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un molteplice» (Wu Ming 1 2006: 16). Questo non significa che l’autore non abbia vissuto tutte le storie che racconta; le ha vissute tutte e ciascuna gli ha lasciato un livido enorme. Ma un’attenta lettura del testo permette di distinguere i diversi gradi di prossimità: a volte Saviano è dentro una storia dall’inizio alla fine, è protagonista riconoscibile della vicenda narrata. Quell’io è senza dubbio l’autore, testimone oculare dei fatti. Altre volte, invece, «si immedesima e dà dell’io a qualcun altro» (Wu Ming 1 2006: 16) senza rivelarne la vera identità. Ciò che Wu Ming 1 individua è un vero e proprio processo di sovraccarico dello sguardo che Saviano riesce a mettere in campo; spesso leggendo il libro non si riesce a capire subito se il punto di vista attraverso cui si percepiscono gli eventi narrati sia filtrato dalla percezione di un personaggio, dall’autore o da un narratore esterno. La prima pagina di Gomorra pone immediatamente il lettore in questo stato di incertezza, in cui si evidenzia l’inassegnabilità del punto di vista. Inizialmente si potrebbe credere che sia quello di un narratore onnisciente o, per dirla in termini cinematografici, quello di un’inquadratura oggettiva, ma poco dopo si legge: «quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita» (Saviano 2006: 11). Quello che Saviano racconta nella prima pagina è quindi una testimonianza che lui raccoglie, ma questo lo si scopre soltanto dopo; nella nostra percezione di lettori ha funzionato invece come una narrazione diretta, una testimonianza che il lettore ha la sensazione di vedere con i propri occhi. Già a partire dalla prima pagina del primo capitolo, quindi, Saviano gioca a nascondere l’io narrante, suscitando nel lettore sempre la stessa domanda: chi è che dice “io” in Gomorra? È sempre e soltanto l’autore? E non ha forse a che fare con l’inafferrabilità di quest’io narrante la capacità di Saviano di passare da un genere all’altro, anche nell’arco di pochissime pagine? Quella di Gomorra è allora una voce collettiva, un coro di voci attraverso cui urlare. È politicamente importante interrogarsi su com’è costruito il libro, a cominciare proprio dalla natura cangiante dell’io che narra. Al contempo, l’analisi del film evidenzia la


punto di vista medesima difficoltà, sul piano filmico, nell’attribuire il punto di vista della macchina da presa. Garrone attua un lavoro mimetico sulla percezione; i movimenti della macchina da presa sono delle soggettive che però non si possono ancorare a nessun personaggio in campo, presentandosi come inassegnabili. Nella sequenza in cui Totò è in macchina, per esempio, lo sguardo della macchina da presa corrisponde a quello di un terzo passeggero seduto sul sedile posteriore; la macchina da presa non si limita ad inquadrare il personaggio che prende la battuta, anzi, spesso la battuta viene detta quando questo non è inquadrato; i movimenti della macchina da presa diventano quelli di un personaggio dotato di una psicologia propria: quel terzo passeggero siamo noi spettatori. Nel film capita spesso che ci siano delle combinazioni di punti di vista in cui l’io, il tu e l’egli non sono assegnabili a nessuno sguardo in campo. Garrone sceglie di mettere in scena la soggettiva dello spettatore, affidandogli il ruolo di testimone e protagonista inconsapevole di quello che accade intorno. Quello che interessa a Garrone del libroGomorra è la “poetica dello sguardo’’ che si può rintracciare nelle sue pagine, ma rispetto al libro, sceglie di affidare il punto di vista ad un occhio senza corpo, che porta lo spettatore a credere di essere veramente dove si pretende di essere. In conclusione, entrambe le opere, libro e film, utilizzano gli stessi dispositivi narrativi, con la differenza che alle “tecniche letterarie’’ dell’una corrispondono le “tecniche cinematografiche’’ dell’altra. Saviano ricorre a tutta una serie di retoriche che gli permettono di costruire la narrazione evitando ogni rigore di genere. Pur riconoscendo la fortissima “letterarietà’’ del libro, pur individuando alcuni stratagemmi, pur rinvenendo le retoriche, nemmeno per un istante si dubita che quanto racconta Saviano non sia vero. Gomorra è costruito su fonti primarie, scritte e orali, atti di istruttorie, verbali di interrogatori, carte di polizia, intercettazioni, che permettono di conoscere e capire i meccanismi interni al sistema. Garrone, invece, porta lo spettatore ad una consapevolezza visiva, che passa attraverso la forza delle immagini, privilegiando l’aspetto emotivo, espressivo e non quello informativo, di denuncia; Garrone ci racconta l’orrore di Scampia catapultando

lo spettatore direttamente dentro quella realtà, conducendolo nelle viscere delle Vele, nei suoi sottoportici acquitrinosi, facendogli sentire l’odore di quei posti, facendolo sentire bersaglio ogni qual volta si impugna una pistola, facendogli mancare l’aria ogni volta che si entra in una stanza o in una casa. La lettura di Gomorra-libro e la visione di Gomorra-film possono essere quindi considerate come due esperienze a sé stanti, indipendenti tra loro; vedendo il film, in un certo senso, si dimentica il libro, quasi che l’uno possa vivere senza l’altro. Il film non tradisce lo spirito del libro, ma riesce a brillare di luce propria, è un’altra cosa rispetto al libro e allo stesso tempo ne è complementare, laddove entrambe le opere permettono di conoscere quel mondo dall’interno, sortendo l’effetto di due terremoti distinti che si propagano da un epicentro comune.

Riferimenti bibliografici De Sanctis, P., D. Monetti, L. Pallanch (Ed.). 2008. Non solo Gomorra, tutto il cinema di Matteo Garrone. Rieti: Edizioni Sabinae. Dinoi, M. 2008. Lo sguardo e l’evento, i media, la memoria, il cinema. Firenze: Le Lettere. Wu Ming 1. 2008. New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro. Torino: Einaudi. Pasolini, P. 1992. Petrolio. Torino: Einaudi. Bernacchioni C. Dietro Gomorra. Left: 9 maggio 2008. Crespi A. Gomorra, spiacenti ma è l’Italia. L’Unità: 13 maggio 2008. Donadio R. Underworld. New York Times: 25 novembre2007. Ferzetti F. Gratta l’Italia e trovi Gomorra. Il Messaggero: 16 maggio 2008. Marrese E. Così hanno girato il film a Scampia, con i pass forniti dalla Camorra. Il Venerdì di Repubblica: 16 maggio 2008. Mastrantonio L. Non è un film di impegno civile e Saviano è nei titoli di coda. Il Riformista: 17 maggio 2008. L’intervento di Dimitri Chimenti, realizzato in

occasione del ciclo di seminari di ricerca Lo sguardo e l’evento. Letture incrociate. Appunti per una tipologia retorica: inserti, prelievi, innesti in Gomorra di Roberto Saviano, (Siena, Facoltà di Lettere e Filosofia, 3 Febbraio 2009), è consultabile su www.associazionelevel5.com Centro Studi Marco Dinoi. Benedetti C. 2008. Le quattro forze di Gomorra, in www.ilprimoamore.com. Parte del saggio è stato pubblicato sulla rivista «Allegoria» nella sezione “Il libro dell’anno’’ dedicata a Gomorra. www.wumingfoundation.com www.carmillaonline.com

Endnotes

1 «Vogliamo ribattezzarlo Campania Oggi?» scrive Alberto Crespi nel suo Gomorra, spiacenti ma è l’Italia, «L’Unità», 13 Maggio 2008. 2 Da un punto di vista linguistico, effettivamente, molte soluzioni metodologiche adottate da Garrone possono essere messe in relazione, per esempio, con il cinema di Rossellini, che nel ricorrere puntualmente alla tecnica di riscrittura dei copioni in base ai sentimenti e alle storie personali degli attori, ci riporta al sentire di Garrone. L’importante è che questi facili accostamenti non conducano a deduzioni troppo scontate. Pensare che Gomorra sia un film esclusivamente neorealista è sbagliato, oltre che riduttivo. Garrone quando inquadra i protagonisti annulla la profondità di campo, stringe sui volti, per fermarne la rabbia, catturarne la disperazione; ciò che è a due metri è indistinto, ingovernabile, e mette lo spettatore in una condizione di forzata miopia. Il Neorealismo, invece, si accompagna sempre alla profondità di campo, che deriva dall’uso di una focale corta e dalla relazione che l’occhio dello spettatore può stabilire con gli elementi di realtà del profilmico. 3 Scrive Saviano in Gomorra: «al funerale di Emanuele c’ero stato», «al porto ci andavo per mangiare il pesce», «frequentavo Secondigliano da tempo», «stavo per andarmene dal luogo dell’agguato a Carmela Attrice» e così via. 4 Non a caso Garrone decide di ritrarre quei personaggi che si trovano a vivere, loro malgrado, in una condizione di non scelta, in cui si agisce all’interno di un contesto di cui non si è responsabili.

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ECONOMIA

Guglielmo Forges Davanzati

La comunicazione delle teorie economiche Quali sono le sfide che l’economia deve affrontare quando voglia porsi il problema della comunicazione? 150


Keynes Se tutti gli economisti si stendessero uno in fila all’altro non raggiungerebbero una conclusione. (J.B.Shaw) Un economista è qualcuno che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nulla. (Oscar Wilde) Un economista è un esperto che saprà domani perché le cose che ha predetto ieri non si sono avverate oggi. (L.J.Peter) Le idee degli economisti e dei filosofi politici, quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si pensa. In realtà il mondo è governato da poche cose all’infuori di quelle… Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. (John Maynard Keynes)

1 – Introduzione Con estrema schematizzazione, si può affermare che esistono due modi di concepire la teoria economica e, conseguentemente, due modi per comunicarne i contenuti. Secondo un primo orientamento, che, seguendo Sen (2002, cap.1) definiremo ingegneristico, e che ha le sue radici nella tradizione neoclassico-liberista1, l’economia è una scienza senza aggettivi, che si dà uno statuto epistemologico analogo alle scienze hard e alla fisica teorica in particolare2. Affinché sia possibile costruire in modo scientifico il discorso economico, occorre sostanzialmente concordare su due assunti: a) l’agire economico è un agire ‘razionale’, secondo un criterio di razionalità strumentale in base al quale ciascun operatore massimizza una funzione-obiettivo dati i vincoli di moneta e tempo3; b) i presupposti e le conseguenze di queste azioni prescindono da condizionamenti di natura storica, sociale, istituzionale. Sul piano epistemo-

logico, ciò porta a ritenere scientifica una teoria economica se, oltre a soddisfare il requisito della coerenza interna, soddisfa anche la condizione di falsificabilità4. A ciò si aggiunge una visione cumulativa della conoscenza, stando alla quale le idee di oggi sono superiori alle idee di ieri o, detto diversamente, la scienza economica procede per progressiva eliminazione di errori e dunque per progressiva approssimazione alla realtà. Letta in quest’ottica, vi è ben poco spazio per la comunicazione in ambito economico e, se vi è, è per così dire ristretta alla mera informazione delle più recenti scoperte degli economisti; dal momento che non è dato costruire un dibattito intorno a una verità scientifica utilizzando le medesime categorie che hanno portato a questa verità. Il secondo orientamento, che è prassi definire lato sensu ‘critico’ e che è comunque fin qui minoritario in ambito accademico, si può costruire a contrario rispetto al primo. Esso si fonda sul rifiuto del duplice assioma della sovra-

nità del consumatore e della scarsità delle risorse, a favore di un approccio ‘olistico’ o di ‘macrofondazioni della microeconomia’, stando al quale il comportamento economico dei singoli operatori è condizionato dalla storia individuale e collettiva, dall’assetto istituzionale nel quale tale comportamento si esercita e, non da ultimo, dall’affiliazione a gruppi (o classi) sociali. In quanto segue, a partire dalla considerazione che è solo accogliendo questo secondo orientamento che si rende possibile il dibattito economico e dunque la sua comunicazione5, si argomenterà a favore della tesi stando alla quale non si dà comunicazione in ambito economico se non presupponendo una ‘scelta di campo’ di natura – in senso lato – politica. In tal senso, e ferme restando alcune necessarie precisazioni deontologiche, si accoglie qui la tesi secondo cui la comunicazione in ambito economico riflette – in via diretta o indiretta – interessi sociali specifici. L’esposizione è organizzata come

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comunicazione competitiva

segue. La sezione 2 presenta lo schema teorico di riferimento per un comunicazione in ambito economico di ordine competitivo. La sezione 3 fornisce illustrazioni di casi che rientrano in questa modalità di comunicazione, la sezione 4 affronta il problema della determinazione delle posizioni teoriche dominanti e nella sezione 5 vengono proposte alcune considerazioni conclusive.

2 – Un modello di comunicazione competitiva Che il tema della comunicazione in Economia sia della massima rilevanza può testimoniarlo il fatto che il maggior economista del Novecento – John Maynard Keynes – abbia dedicato molte delle sue energie alla persuasione e abbia scelto come titolo di una raccolta di suoi saggi Essays in persuasion,

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con la seguente precisazione che si legge nella Prefazione: Here are collected the croakings of twelve years -the croakings of a Cassandra who could never influence the course of events in time. The volume might have been entitled «Essays in Prophecy and Persuasion», for the Prophecy, un­ fortunately, has been more successful than the Persuasion. But it was in a spirit of persuasion that most of these essays were written, in an attempt to influence opinion (Keynes 1932: 5).

Va detto che gli economisti ben di rado si sono occupati del modo in cui trasmettono le loro idee e più diffusamente hanno semmai praticato la persuasione. La riflessione sulla comunicazione in Economia, in linea schematica, fa riferimento a due orientamenti.

1) L’economia come “retorica”. Il più autorevole esponente di questa posizione è Donald McCloskey, autore di un celebre volume dal titolo La retorica dell’economia (McCloskey 1988). Come annota Augusto Graziani, nella Introduzione all’edizione italiana, si tratta di «un manifesto contro la logica e un appello in favore della retorica, ossia dell’arte del persuadere» (McCloskey 1988: IX). Il principale argomento di McCloskey è che la ricerca in ambito economico non ha a che vedere con lo sforzo del ricercatore di individuare le cause di problemi (disoccupazione, inflazione), ma semmai con lo sforzo di convincere i propri colleghi. Questo meccanismo è amplificato dal massiccio uso della matematica, così che: Nel corso della loro conversione a un modo di esprimersi matematico, gli economisti si sono fatti prendere dalla fede di chi partecipa a una crociata, aderendo a un insieme di dottrine filosofiche che li rende, ora, inclini al fanatismo e all’intolleranza (MacCloskey 1988: 17).

Va detto che questa considerazione è in larga misura vera se si considera l’Economia come un corpus unificato: in tal senso, si può condividere l’affermazione secondo cui la gran parte degli economisti matematici è intollerante, il che è peraltro ‘giustificato’ dal fatto che chi crede che l’economia sia una scienza esatta, resa tale dagli strumenti formali di analisi e in quanto tale portatrice di verità scientifiche, non può conseguentemente accettare critiche6. E tuttavia,


economics la posizione di McCloskey è criticabile alla luce delle seguenti osservazioni: i) esiste un’ampia platea di economisti, sebbene minoritaria in Accademia, che non ritiene di poter produrre verità scientifiche e non ritiene di poter fornire previsioni corrette. In tal senso, l’accusa dell’autore può essere semmai rivolta a quella che si è definita l’Economia ingegneristica. ii) Come osserva Graziani (MacCloskey 1988: XIV), la convinzione di McCloskey secondo la quale una teoria viene battezzata come scientifica se vi è il “consenso degli esperti” lascia irrisolto il problema della selezione degli esperti stessi e non chiarisce che, di norma, il processo non è solo interno alla comunità scientifica, non essendo esenti ‘incursioni’ di “interessi organizzati”. iii) Riccardo Bellofiore (Marzola, Silva 1990) fa rilevare che la posizione di McCloskey non è per nulla neutrale. Sintetizzata nella teoria “tutto è concesso perché nulla conta”, essa costituisce, ad avviso dell’autore, il tentativo di condurre il discorso economico nell’alveo di una precisa posizione filosofica – il post-moderno – che espelle da tutto ciò che è possibile definire scienza la Storia e soprattutto la dimensione politica. 2) La persuasione finalizzata alla politica. Keynes – come osserva Bellofiore «La strategia retorica di Keynes rivendica l’obiettivo di convincere il destinatario come mezzo per trasformare la realtà» (Marzola, Silva 1990: 107). Più in dettaglio, Keynes distingue fra inside opinion e outside opinion, dove la prima attiene al circuito della riproduzione del sapere e, dunque, sostanzialmente, all’opinione degli ‘addetti ai lavori’ e degli economisti di professione, e la seconda riguarda il circuito della diffusione delle idee economiche attraverso i media e, dunque, i loro fruitori. Scrivendo in un contesto storico nel quale l’urgenza è dettata dall’impostazione della Pace di Versailles (e, dunque, secondo Keynes, dalla ricerca di una soluzione che non penalizzi eccessivamente la Germania sconfitta nella prima guerra mondiale), Keynes ritiene che sia innanzitutto l’opinione esterna a essere oggetto di persuasione: ed è questa convinzione che caratterizza – nelle

sue linee generali – l’impostazione di Keynes e degli economisti keynesiani in materia di comunicazione/divulgazione delle idee economiche. Una questione che si pone a latere dell’impostazione keynesiana – e che attiene alla persuasione della inside opinion – riguarda la maggiore incisività delle critiche ‘esterne’ rispetto alle critiche ‘interne’. Le prime riguardano la costruzione di modelli economici alternativi rispetto a quelli dominanti; le seconde riguardano l’individuazione di incongruenze logiche ed empiriche delle tesi prevalenti7. Anche all’interno dell’Economia Politica ‘critica’, non vi è unanime consenso sulla prevalenza dell’una o dell’altra strategia, e non si esclude che possano coesistere. Si può osservare, a riguardo, che la tradizione keynesiana ha generalmente fatto propria la prima impostazione. Uno fra i suoi più autorevoli esponenti, Augusto Graziani ha motivato questa scelta come segue: … risulta debole la posizione di coloro che, volendo combattere l’una o l’altra visione, si sforzano di scoprire un errore nella costruzione logica della scuola nemica. Debole perché arriva quasi ad ammettere che, se gli errori potessero essere eliminati, la costruzione teorica che si intende criticare risulterebbe accettabile; mentre, trattandosi di visioni contrapposte, ciascuna delle due, anche se riportata alla sua formulazione più rigorosa, deve risultare incompatibile con l’altra (Graziani 1997: 17).

In sostanza, e ferma restando quest’ultima questione, il discrimen fra le due posizioni (McCloskey versus Keynes) verte intorno alla questione se la persuasione in Economia sia, nei fatti, destinata a uso interno, e, dunque, faccia proprio il ricorso a espedienti retorici che avvantaggiano solo chi comunica, per propri specifici fini attinenti alla sua professione o, per contro, se la persuasione abbia finalità generali, ovvero sia pensata per incidere sugli indirizzi della politica economica. Al di là delle motivazioni che sono alla base dell’uso di strumenti retorici in Economia, ciò che maggiormente conta – ai fini del nostro discorso – è che la

prima posizione, su un piano squisitamente normativo, è inaccettabile per chi ritiene che la teoria economica abbia una qualche utilità sociale. Riprendendo quanto qui stabilito inizialmente, solo se si accoglie l’idea che esistano teorie economiche contrastanti, tutte di pari dignità scientifica, ha senso porsi la domanda che dà il titolo a questo contributo, ovvero “come comunicare l’economia?”, se per comunicazione non si intenda la mera informazione relativa alle nuove verità della scienza economica, o il loro aggiornamento. La tesi che si intende qui sostenere può riassumersi nei seguenti punti. 1. La teoria economica è un campo nel quale si esercita il confronto fra posizioni contrastanti. Tali posizioni, seguendo Schumpeter (1990), riflettono la “visione pre-analitica” dell’autore e, in quanto attengono alla sua ‘visione del mondo’, riflettono anche la visione in senso lato politica di chi elabora teorie economiche. A titolo esemplificativo, una teoria economica che ‘dimostri’ che la flessibilità del lavoro crea occupazione non è affatto neutrale rispetto a giudizi di valore, laddove presuppone che chi si è impegnato a ‘dimostrare’ questa proposizione fa proprio – sebbene, di norma, implicitamente – un orientamento teoricopolitico di matrice liberista. A ciò si può aggiungere che, soprattutto nei contesti istituzionali nei quali la ricerca è direttamente finanziata da imprese private, si manifesta (implicita o esplicita) una domanda politica di idee economiche, che con ogni evidenza non può confliggere con gli interessi dei quali quelle imprese sono portatrici. 2. Se una teoria economica viene elaborata (anche) per influenzare le scelte di politica economica, e il meccanismo di trasmissione dalla teoria alla policy passa mediante la comunicazione, la teoria cessa di essere oggetto di disputa sulle riviste accademiche ed entra nel dibattito pubblico. Una volta resosi possibile questo passaggio, si attivano meccanismi di persuasione nei confronti dei ‘non addetti ai lavori’ che, per grandi linee, si articolano sulla base delle traiettorie

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teoria neoclassica descritte in fig.1. Sia A una data proposizione e B una proposizione di segno contrario. Ciascuna delle due proposizioni è già suffragata da argomenti (x , y nel primo caso; α e β nel secondo). Si assuma di riconoscersi nella posizione B. Un modello di comunicazione competitiva impone di persuadere circa la ‘falsità’ della proposizione A. Il che può essere fatto sostanzialmente in due modi. Il primo (1) attiene all’individuazione di fallacie di ordine teorico e/o empirico eventualmente presenti nella tesi A. Il secondo (2) attiene all’individuazione di nuovi argomenti (γ, δ etc.) a sostegno della tesi che si vuole accreditare. TESI A - argomenti x,y (1)

(2)

Fig. 1 - Un modello di comunicazione economica ‘competitiva’

Si osservi che il principale vincolo deontologico che occorre rispettare, in questa prospettiva, ovvero quello più immediatamente proprio della comunicazione economica, attiene alla corretta indicazione delle fonti dalle quali si attingono i dati per confutare la tesi A. Questo vincolo, oltre ad avere natura ‘etica’, è esso stesso funzionale alla riproduzione della ‘gara’, dal momento che – laddove il vincolo non fosse rispettato – il sostenitore della tesi A non sarebbe posto nella condizione di replicare. Inoltre, il rispetto del vincolo è anche funzionale ad accreditare la propria tesi, dal momento che si può ragionevolmente supporre che maggiore è l’autorevolezza della fonte citata maggiore è la capacità di persuasione. È agevolmente comprensibile che un dato riportato dall’ISTAT ha maggiore valore persuasivo rispetto a un dato riportato da un centro di ricerca non ufficiale e meno noto. A riguardo, e incidentalmente, occorre soffermarsi sul ruolo della Statistica ai fini dell’argomentazione economica. È cosa ben nota ai commentatori economici – e ov-

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FIVESTEPSWITH

RICCARDO REALFONZO

Intervista a Riccardo Realfonzo a cura di Antonella Ricciardelli Ritieni che esistano verità economiche? Il discorso delle “verità” non può essere affrontato nel campo dell’economia con le categorie delle scienze esatte. E ciò per il semplice fatto che l’economia politica rientra nel novero delle scienze sociali, le quali, in sostanza, non ammettono la “prova” sperimentale. Ciò significa che inesorabilmente i fatti economici possono essere interpretati in base alle diverse teorie di cui disponiamo e quindi, in sostanza, in base ai diversi interessi politico-sociali che quelle teorie inesorabilmente finiscono per sottendere. Qual è (o quali sono) la modalità di comunicazione, in ambito economico, che consideri più efficace? In fin dei conti dipende dagli obiettivi. Si possono scegliere modalità di comunicazione diverse anche quando si fa semplicemente il proprio mestiere di docente universitario. Su larga scala la modalità di comunicazione che io ho scelto di privilegiare è internet. A questo scopo sono stato promotore, tra l’altro, della rivista online www.economiaepolitica.it che parla al grande pubblico proponendo una lettura non neoclassica delle vicende economiche che interessano l’Italia e il Mondo. La rivista, attraverso l’azione coordinata di economisti critici, ha l’intento di rendere i lettori più “smaliziati” di fronte alle scelte di politica economica intraprese dai governi dei nostri tempi. Accade spesso, infatti, che si considerino alcune analisi come “leggi naturali dell’economia”. Lo sforzo compiuto dagli economisti che collaborano alla rivista è invece quello di fornire strumenti critici e scientifici ai propri lettori ponendo attenzione alla duplice esigenza dell’approfondimento e dell’accessibilità. A tuo avviso, ad oggi, esiste un monopolio della comunicazione economica del neo-liberismo? Non c’è dubbio che il neo-liberismo esercita una influenza enorme sulla comunicazione economica. Non proprio un monopolio, ma ci siamo vicini. A cosa è dovuta questa egemonia? L’egemonia neo-liberista dipende naturalmente dal fatto che i fautori delle logiche di mercato, e dunque i sostenitori del neo-liberismo, sono naturalmente quelli che il mercato riescono a orientarlo. Insomma il neo-liberismo ha il potere economico dalla sua parte. Per queste ragioni ritengo che vada oggi privilegiato uno strumento come internet. Per creare un canale televisivo servono investimenti da capogiro; per aprire un sito online molto meno. Internet può essere uno strumento straordinario per la difesa del pluralismo. Secondo quali parametri, in linea generale, andrebbe valutata la ricerca in ambito economico? Certo non in base ai parametri dell’impact factor, che sono stati creati da una società privata a scopi commerciali. In fondo io credo che l’analisi nel merito di ciascun risultato della ricerca sia in fondo insostituibile. Ad ogni buon conto, in ambito economico, un processo di valutazione serio, che prenda ad oggetto la rilevanza della “sede” in cui si è pubblicato il prodotto della ricerca, non può prescindere dal fatto che le diverse scuole di pensiero privilegiano diverse riviste e diverse case editrici. Occorrerebbe pertanto considerare ciò e non assumere come riferimenti validi per tutti le indicazioni di una unica scuola, che sia quella neo-liberista o un’altra.


metodologia economica viamente agli statistici – che i dati possono essere ‘manipolati’ al punto da far dire loro ciò che conviene che essi dicano: è questo il senso dell’affermazione ricorrente fra gli ‘addetti ai lavori’ secondo la quale “usiamo le statistiche come gli ubriachi usano i lampioni: non a scopo di illuminazione, ma a scopo di sostegno”. Il che può essere mostrato con un semplice esempio. Se si intende dimostrare che i cittadini italiani sono sensibili all’igiene dei servizi pubblici, alla domanda “Lei è disposto a pagare per avere servizi pubblici puliti?” si sostituisce la domanda “Lei ritiene che i servizi pubblici debbano essere puliti?”. I risultati dei questionari somministrati daranno verosimilmente una elevata percentuale di risposte positive; il che induce a ritenere che i cittadini italiani – come si voleva dimostrare – sono attenti alle condizioni igieniche8.

3 – Esemplificazioni del modello In questa sezione si dà conto di alcune possibili esemplificazioni di comunicazione competitiva in ambito economico, traendo spunto dalla contingenza del dibattito sui grandi temi della politica economica del 2009. E il grande tema sul quale si sono esercitati i commentatori nel corso dell’ultimo anno è la crisi economica. Schematicamente, il dibattito si snoda all’interno delle seguenti posizioni. In ambito liberista, la posizione dominante fa propria la convinzione che la crisi dipenda, in ultima analisi, dal greed di banchieri e speculatori, ovvero dalla loro avidità e dal perseguimento ‘esagerato’ di rendimenti crescenti delle loro attività finanziarie. Sul fronte opposto, si ritiene che la crisi sia imputabile alla caduta dei salari e al connesso crescente indebitamento privato, che ha dato luogo – in condizioni nelle quali esso è stato finanziato anche in assenza di garanzie reali (i cosiddetti mutui subprime) – a crescenti insolvenze da parte dei risparmiatori e, a catena, a crescenti sofferenze bancarie, riduzioni dell’offerta di moneta, dunque della produzione e dell’occupazione9. In tal senso, si può affermare

che, nel primo caso, la crisi ha origini nella sfera finanziaria, mentre nel secondo caso la causa ultima va rintracciata nelle dinamiche

dell’economia reale e, in particolare, del mercato del lavoro. Al di là dei contenuti specifici del dibat-

EFFRAZIONI Léon Walras (1834-1910) rappresenta l’esponente tipico del meccanicismo positivista in economia, disciplina per lui volta all’individuazione dei prezzi e delle quantità che consentono l’equilibrio – l’eguaglianza fra domanda e offerta – in ogni mercato (il c.d. equilibrio economico generale). Nella sua opera principale, Elementi di Economia Politica Pura (1874), Walras concepisce l’Economia come un ambito scientifico a pieno titolo, che occupa quindi un posto nella classificazione delle scienze. Egli distingue in particolare tre tipi di scienze: a) la scienze pura; b) la scienze applicata; c) la scienza sociale. Il passaggio dall’economia come scienza pura (indipendente dal contesto istituzionale) all’economia come scienza applicata comporta, secondo questa visione, di assumere come criterio prevalente l’ulite e aderire al criterio del giusto. Da qui deriva la giustificazione all’utilizzo di strumenti matematici a sostegno dell’analisi economica. Questo approccio, successivamente definito “ingegneristico” dal Premio Nobel Amartya Sen, si basa sul duplice assioma della scarsità naturale delle risorse e della sovranità del consumatore (che orienta, date le sue preferenze, le decisioni di produzione delle imprese). Le attività economiche diventano quindi attività razionali e il metodo sarà quello matematico, inteso come espressione massima della razionalità. Nella sua teoria Walras distingue i “fatti” matematici in due categorie. I “fatti” esterni, che accadono all’infuori dell’individuo. Questi appaiono a tutti allo stesso modo. Vi è, quindi per essi, un’unità, una grandezza obiettiva per misurarli. E i “fatti” intimi che, accadendo all’interno dell’individuo, sono percepiti soggettivamente. Questi ultimi, anche se confrontabili tra loro dal punto di vista dell’intensità o della grandezza, sono comunque soggetti ad una comparazione soggettiva. L’approccio di Warlas, atto ad interpretare e spiegare i “fatti” attraverso gli strumenti matematici, lo porta ad ammettere la comunicazione ed il confronto solo tra studiosi che abbiano compreso che le scienze economiche sono in realtà matematiche, proprio perché trattano di quantità. «[...] Coi primi (gli economisti non-matematici, n.d.a) sarebbe ozioso discutere: loro e noi non parliamo la stessa lingua. Ma coi matematici è diverso: possiamo spiegarci e forse capirci» (Walras 1909 : 313). In un ulteriore passaggio tratto da Elementi di Economia Politica Pura, Walras sostiene: «È chiaro che, quanto agli effetti delle forze naturali, non c’è altro da fare che riconoscerli, constatarli, spiegarli e che invece quanto agli effetti della volontà umana occorre prima riconoscerli, constatarli e spiegarli, in seguito governarli» (Walras 1974: 149). Si evince così che l’economia ha il compito di spiegare i “fatti”. Non è invece sottoposta a critiche. Poiché alla scienza appartiene tutto ciò che non dipende dalla libera volontà, essa non può essere oggetto di valutazione di ordine morale e politico. Inoltre, poiché quantificabile con il supporto del- l e scienze matematiche, non è assoggettabile ad alcun giudizio di valore. L’economia diventa, in questo modo, mezzo per la divulgazione di saperi esatti. Negli anni successivi, per opera di Alfred Marshall, l’Economia Politica diventerà Economics, per sottolinearne la natura propriamente scientifica, espellendo la dimensione politica, sociale e istituzionale dal discorso economico. a cura di Antonella Ricciardelli

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tito, che evidentemente come ogni dibattito di politica economica ha natura strettamente contingente, occorre rimarcare che, anche in questo caso, la direzione di causalità del polemos va dalla posizione critica a quella liberista, nel senso che – dato l’ampio spazio riservato agli esponenti di quest’ultimo orientamento – i primi sono costretti, per così dire, a ‘rincorrere’ criticamente l’orientamento dominante10. Nel dettaglio, la critica alla tesi del greed sta nella constatazione che la presunta avidità dei banchieri e degli speculatori si sarebbe manifestata, in primo luogo, nel pieno rispetto della legalità e, in secondo luogo, si fa rilevare che non è chiarito per quale ragione, d’un colpo, questi

Cinema The Bank Regia: Robert Connolly Produzione:Austria, 2001 Storia di un giovane matematico che utilizzando la teoria del caos e la geometria frattale, cerca di elaborare una formula che consenta di prevedere gli andamenti di borsa e i crolli di mercato azionario, con l’obiettivo di fare ingenti speculazioni. Si evidenzia in questo caso la ricerca di una razionalità economica attraverso il supporto delle scienze matematiche.

PERCORSI

Letteratura Goethe J. W., Faust, ed. it. Versione di V. Errante, in Goethe, Opere, a cura di L. Mazzucchetti, Firenze (1952) Nella seconda parte del Faust, Goethe utilizza la scena della mascherata a palazzo

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operatori sarebbero diventati maggiormente propensi al rischio, secondo la direzione (1a) dello schema 111. Ciò che, in questa sede, merita di essere discusso è soprattutto il fondamento ultimo del confronto. Evitando di addentrarsi in questioni di ordine tecnico relative al funzionamento dei mercati azionari, può essere sufficiente considerare che l’implicazione di politica economica che discende dalla tesi dell’avidità consiste in una maggiore regolamentazione dei mercati finanziari ed esclude, di conseguenza, la possibilità di interventi dello Stato per migliorare l’assetto distributivo. Per contro, è precisamente quest’ultima opzione che viene invocata da-

come metafora dell’economia moderna (capitalismo) che lui stesso considera “un grande ballo in maschera”. In particolare la critica di Goethe è mossa nei confronti dell’introduzione della carta moneta portata dal capitalismo. Saggistica Domenighetti (a c. di), Con felice esattezza. Economia e Diritto tra lingua e Letteratura, Bellinzona, Casagrande, 1998 Saggio che descrive il modo in cui le teorie e la comunicazione economica abbiano influenzato la letteratura e di conseguenza i sui fruitori. Gadda C. E. Meditazione Milanese, Garzanti Libri (2001) Si tratta di un dialogo sul metodo, un testo che aiuta a comprendere le istanze teoretiche sottese alle invenzioni narrative gaddiane. Gadda, sempre attento alla componente economica dei fatti reali e affascinato dalla particolare evidenza che nel mondo economico ha il gioco delle relazioni («La realtà economica – scrive nella Meditazione milanese – è quella “che più prontamente reagisce all’errore”»), accoglie in questo saggio la visione Paretiana. Narrativa Piccolo E., Bloomsbury, Il Raggio Verde (2006) L’autrice fa rivivere nella versione romanzata delle vicende legate in particolare a due protagonisti del Bloomsbury Group: la scrit-

gli economisti qui definiti critici: in quanto la crisi ha origine nella diseguale distribuzione del reddito e, in particolare, nella caduta dei salari reali, occorre che lo Stato si faccia carico di accrescere la domanda mediante interventi di ridistribuzione del reddito a vantaggio delle fasce sociali più deboli. Nell’ambito del dibattito sulla crisi, viene ripresa la controversia relativa agli effetti della ‘flessibilità del lavoro’ sull’occupazione. A fronte della vulgata liberista secondo la quale “solo sapendo di poter licenziare le imprese assumono”, gli economisti di orientamento critico fanno osservare che ciò non accade per almeno due ragioni. In primo luogo, la flessibilità riduce la propensione al

trice Virginia Wolf e l’economista John Maynard Keynes, il cui pensiero ha fortemente influenzato le diverse espressioni artistiche nate all’interno di questo gruppo Teatro Brecht Berthold - Santa Giovanna dei Macelli Opera nata in seguito al crollo della borsa di New York (1929). Brecht prova qui a demistificare i meccanismi che portano alle crisi per perpetuare l’accumulazione capitalistica, mettendo a confronto tre classi sociali nelle loro articolazioni: i proprietari, il proletariato, gli intellettuali, che fanno da mediatori fra le due categorie. In questo caso la figura degli intellettuali (tra i quali è possibile considerare gli economisti) è vista come il medium comunicativo tra le due classi. Arte Shapiro M., Natura dell’Arte Astratta, in Marxist Quarterly (1937) Il critico d’arte Mayer Shapiro in questo articolo pubblicato sulla rivista Marxists Quarterly presenta l’arte astratta in connessione alla storia della società. Secondo il critico non esiste “arte pura” non condizionata dall’esperienza. Qualsiasi produzione artistica risente delle condizioni sociali, economiche ed ideologiche della società in cui vive, e a ciò non si sottrae l’avanguardia, produttrice sì di nuove forme, ma anche di nuovi contenuti di vita e cultura. a cura di Antonella Ricciardelli


consumo dei lavoratori, perché a fronte della possibilità di mancato rinnovo del contratto, e dunque, della maggiore incertezza sui redditi futuri, i lavoratori reagiscono proteggendosi dal rischio di disoccupazione, dunque riducendo i consumi. D’altra parte, per l’operare dell’effetto di disciplina, la ‘minaccia’ di licenziamento aumenta l’intensità del lavoro. L’aumento della produttività e la contestuale caduta della domanda, per effetto della compressione della propensione al consumo, determina, in ultima analisi, la riduzione dell’occupazione. A ciò si aggiunge che l’adozione di contratti flessibili, e in generale le politiche di compressione dei costi, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese. Come rilevava Keynes: «se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale» (Keynes, 1983: 5) (cf. Forges Davanzati 2005). In più, stando ai dati ufficiali (OCSE, in particolare), l’evidenza empirica mostra che nei Paesi nei quali l’indice di protezione dei lavoratori è più alto sono più alti i salari e, di norma, è maggiore il tasso di occupazione. Stando allo schema 1, la critica muove lungo le direttrici 1a, 1b e 2 e, tuttavia, per le ragioni esposte a seguire, l’opinione dominante – non solo in ambito accademico, ma anche fra i policymaker – continua a essere derivata dall’impostazione neoclassico-liberista.

4 – Come si determinano le posizioni teoriche dominanti Le esemplificazioni qui proposte costituiscono un chiaro esempio del fatto che la comunicazione in ambito economico ha natura competitiva dal momento che riflette ‘visioni pre-analitiche’ (e, dunque, lato sensu politiche) inconciliabili. Il problema che ne deriva attiene all’individuazione dei fattori che portano al successo dell’una o dell’altra visione, intendendo per successo

l’adesione alla tesi A (o B) del massimo numero di lettori e, soprattutto, la traduzione dell’una o dell’altra tesi in provvedimenti di politica economica. In altri termini, ciò che occorre rilevare è il meccanismo che porta alla determinazione delle posizioni teoriche rilevanti. A riguardo, possono essere rappresentati due scenari: a) La comunicazione in regime di alta alfabetizzazione economica. In questo scenario, in larga misura ipotetico nel quale si può supporre che coloro che ricevono le informazioni siano in grado di valutarne la correttezza scientifica, la prevalenza della tesi A dovrebbe teoricamente dipendere dal giudizio puramente scientifico formulato da chi ne viene a conoscenza. Questo esito è meramente ipotetico, dal momento che – per le medesime ragioni esposte supra – così come chi comunica lo fa sulla base di visioni pre-analitiche, chi riceve la comunicazione ne valuta i contenuti sulla base di ‘visioni pre-analitiche’. In tal senso, si può affermare che, in uno scenario di questo tipo, è maggiore – rispetto a quello descritto a seguire – la probabilità che vengano individuati possibili errori o incongruenze in una o nell’altra tesi, ma ciò non appare dirimente ai fini dell’esito della controversia. b) La comunicazione in regime di bassa alfabetizzazione economica. In questo scenario, ciò che cambia rispetto al caso precedentemente descritto attiene alla minore probabilità che eventuali errori, imprecisioni, incongruenze vengano individuate dai destinatari del messaggio. In tal senso, il secondo scenario lo si può intendere come meno ‘democratico’ rispetto al primo, dal momento che la comunicazione, anche di natura competitiva, è meno soggetta a valutazione da parte di terzi. In altri termini, è relativamente più semplice – in questo scenario – imporre come vere teorie economiche suscettibili di confutazione. Gli scenari ora delineati fanno riferimento al modo in cui l’esito della ‘gara’ può essere eventualmente modificato da interventi ‘dal basso’. Non si esclude, e appare anzi di massima rilevanza, che l’intervento dal basso possa tradursi in modifiche negli

orientamenti di voto, dal momento che – sulla base di quanto fin qui esposto – gli indirizzi di politica economica sono parte integrante (e di rilevanza crescente) degli indirizzi di politica generale. Realisticamente, tuttavia, occorre riconoscere che – nel panorama contemporaneo, e non solo italiano – la dialettica prevalente assume un segno diverso: in estrema sintesi, ‘vince’ chi ha più spazio nell’arena comunicativa e lo spazio disponibile è strettamente correlato con le risorse disponibili. Sebbene questa conclusione possa apparire sotto molti aspetti di buon senso, essa poggia su un meccanismo di riproduzione del sapere più complesso, che solo in un secondo momento diventa comunicazione-divulgazione. In altri termini, la disponibilità di risorse è condizione necessaria ma non sufficiente per acquisire egemonia: anche grandi spazi di comunicazione disponibili possono generare esiti inefficaci ai fini della persuasione, se non sono ‘riempiti’ da efficaci contenuti della comunicazione. L’efficacia dei contenuti dovrebbe rispondere a un duplice requisito: i) le teorie divulgate devono avere un adeguato sostegno teorico ed empirico; ii) devono essere sufficientemente semplici o almeno facilmente semplificabili, e tanto più semplificabili quanto più il contesto nel quale ci si muove è un contesto di bassa alfabetizzazione economica. Il problema diventa, allora, l’individuazione delle ragioni che rendono (o hanno reso fin qui) dominante la teoria economica neoclassico-liberista. La Rivista italiana degli economisti, organo ufficiale della S.I.E. (Società italiana degli economisti) ha dedicato ampio spazio a riflessioni su questi temi. In estrema sintesi, anche in queste sedi, si confrontano due posizioni conflittuali. Da un lato, vi è il richiamo ad un maggior pluralismo nella ricerca economica; dall’altro, vi è la convinzione che il pluralismo in Economia porta a difendere – per usare un’espressione di Guido Tabellini – “specie in via di estinzione” (Porta 2007). In questa sede, ci si può limitare a individuare due cause dell’egemonia del pensiero liberista: i) quello che viene definito il “riflesso pantale-

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oniano” (Porta 2007: 309), ovvero la convinzione – tratta dall’economista italiano Maffeo Pantaloni, attivo gli inizi del Novecento – che non esistano teorie economiche alternative, ma una sola verità economica (così che l’Economia si dividerebbe in due scuole: chi la conosce e chi la ignora); ii) la maggiore rispondenza delle implicazioni di policy del mainstream rispetto agli interessi materiali in campo12. Viene così a configurarsi il seguente circuito di riproduzione del sapere e della relativa comunicazione in ambito economico: 1. Il maggiore finanziamento alla ricerca mainstream genera la maggiore numerosità di studiosi impegnati in quell’ambito; 2. Il che produce una maggiore numerosità di ricerche di orientamento neoclassico-liberista; 3. Il che consente, in sede di divulgazione, di disporre di una più ampia mole di materiale teorico ed empirico a cui attingere per persuadere.

5 – Considerazioni conclusive In questo saggio, si è affrontato il modo in cui gli economisti comunicano le proprie teorie ai ‘non addetti ai lavori’. Assunto che l’Economia politica non è una scienza esatta, si è mostrato come sul suo terreno si confrontino teorie alternative e configgenti, che riflettono ‘visioni pre-analitiche’ contrastanti. Ciò comporta che la comunicazione in ambito economico non può non essere di natura competitiva e che, dunque, ciò che viene comunicato/divulgato non è meramente la scoperta di una nuova verità scientifica, ma una teoria che, in quanto tale, è sempre suscettibile di essere respinta e alla quale, comunque e di norma, si contrappone una teoria alternativa. Si è mostrato come l’acquisizione di posizioni dominanti passi innanzitutto attraverso il canale della comunicazione nell’ambito propriamente scientifico e come, in questo stesso ambito, esistano meccanismi di natura lato sensu politica che condizionano la natura e gli indirizzi della produzione scientifica.

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Endnotes

1 Per un inquadramento storico-teorico di questo paradigma, cf., fra gli altri, Roncaglia (2001). 2 Ciò è reso possibile essenzialmente dall’assioma stando al quale esiste un’unica motivazione dell’agire economico, che attiene alla cosiddetta razionalità strumentale: la massimizzazione di una data funzione-obiettivo, dati i vincoli di moneta e di tempo, ovvero la ricerca – su

basi individuali – della scelta più conveniente, in condizioni di informazione perfetta e completa. 3 Si osservi che questo assunto incorpora gli assiomi della ‘sovranità del consumatore’ – stando al quale la scala e la composizione merceologica dell’output riflette le preferenze esogene dei consumatori stessi (il che attiene, a sua volta, all’individualismo metodologico ed etico) e della scarsità esogena delle risorse, secondo il quale tutte le risorse disponibili sono scarse relativamente ai bisogni per un vincolo di natura esclusivamente naturale. 4 Come è noto, secondo questa posizione, una teoria è scientifica non quando è vera ma quando contiene elementi che possono essere oggetto di falsificazione. Il più accreditato esponente di questa posizione in Economia è stato Milton Friedman. 5 In quanto segue, si intenderà per riceventi coloro che non sono economisti di professione, con particolare riferimento all’opinione pubblica, comunque la si voglia intendere, e i responsabili della politica economica. 6 È possibile anche che l’autore esageri nell’attribuire agli economisti matematici una consapevole visione filosofica. 7 Questa demarcazione riflette la logica del modello di comunicazione competitiva (v. infra, fig.1): il primo ordine di critica riguarda la traiettoria (2), mentre il secondo ordine di critica è riflesso nella traiettoria (1). 8 Ringrazio il collega Enrico Ciavolino per avermi segnalato questo esempio. 9 Per una ricostruzione analitica di questa posizione, si rinvia a Brancaccio (2009). 10 Stando alle considerazioni relative al dominio del mainstream nei media che verranno svolte a seguire, si può ragionevolmente affermare che – ad oggi, e non solo nel panorama mediatico italiano – il dibattito è fortemente asimmetrico, a danno delle posizioni ‘critiche’. 11 Il tema è trattato, in particolare, da E. Brancaccio, Un’ombra in fondo al tunnel, www.economiaepolitica.it, al quale si rinvia per approfondimenti. 12 A ciò si può aggiungere il fatto che i finanziamenti della ricerca, o anche la sola reputazione del ricercatore, in Economia sono calibrati sulla base di indicatori (in primis, l’“Impact Factor”) che premiano le riviste più lette che, a loro volta, sono le riviste che godono di maggiori finanziamenti. Per una critica a questa impostazione si rinvia a Realfonzo (2007).


Il racconto diYOD La cerimonia Vito delComiso tè «Seduto lontano dal mondo, all’unisono con i ritmi della natura, liberato dai vincoli del mondo materiale e dalle comodità corporali, purificato e sensibile all’essenza sacra di tutto ciò che lo circonda, colui che prepara e beve il tè in contemplazione si avvicina ad uno stadio di sublime serenità.» «Trovare una serenità duratura in noi stessi in compagnia d’altri: questo è il paradosso.» Soshitsu Sen XV. Chado: The japanese way of tea. Tokyo, 1979. Chado, Lo Zen nell’arte del tè. Torino, Promolibri edizioni, 1986, pag. 21.

Erano passati ormai già tre mesi da quando la battaglia aveva avuto inizio. Haruki si svegliò poco prima dell’alba. Contemplò le spesse nuvole scure che ricoprivano il cielo in quei primi giorni di ottobre. Non aveva riposato ma era pronto a continuare la battaglia, non si sarebbe risparmiato. Sentiva il peso del valore degli avversari che aveva sconfitto e ucciso premergli sul petto. Erano stati guerrieri valorosi, e si sentiva onorato di averli sconfitti. La sua armatura era ricoperta di fango, polvere e sangue. Il suo volto era irriconoscibile, una maschera di ferite, grumi di sangue rappreso e terra. Le callosità delle mani lacerate dall’uso ininterrotto della spada. Quanto a lungo ancora sarebbe durato l’assedio? Sapeva di avere scorte a sufficienza. Il nemico lì fuori invece doveva essere oramai allo stremo delle forze. Come avrebbe fatto a procurasi altri soldati e altre provviste dalla posizione in cui si trovava? Non c’erano vie di fuga, il territorio era interamente controllato dalle sue truppe, i nemici erano accerchiati, eppure continuavano a combattere come il primo giorno, con la stessa intensità e rabbia. Il cielo iniziava a rischiararsi. Haruki si preparò al nuovo giorno di battaglia. Si lavò il viso e le mani, indossò l’armatura, legò la spada alla cintura. Il chiarore dell’alba iniziava ad irraggiare il giardino dietro la casa. Avrebbe fatto una visita al tempio, prima di ogni altra cosa. Rivedere Mamoru e parlargli sarebbe stato di buon auspicio. Si soffermò alcuni minuti davanti alla porta. Doveva placare l’animo. Si inginocchiò e con il viso rivolto all’ingresso e gli occhi chiusi, respirò lentamente e profondamente finché non avvertì il pro-

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prio respiro rallentare come prima del sonno. Solo allora sciolse la spada dal fianco, tolse i sandali, si spogliò dell’armatura, e vestito del semplice kimono di tela grezza, si chinò per passare attraverso la stretta e bassa porticina. L’aria era ferma. La scarsa luce che filtrava dalle finestre oscurate illuminava appena il piccolo ambiente del tutto spoglio, al centro del quale un capace bollitore collocato in una apertura nel pavimento, teneva l’acqua alla giusta temperatura. Le pareti di legno erano nude. Su un lato era appeso un quadro con una scrittura, una poesia, e un piccolo vaso con un solo fiore. L’odore intenso del legno penetrava profondamente nei polmoni, pervadeva ogni piccola particella di essere. L’unico suono era lo sfrigolio dei carboni e il lieve borbottare dell’acqua nella pentola. Mamoru comparve dopo poco, attendeva la visita dell’amico di sempre. La stagione dell’autunno ha la sua disperata bellezza. Tutto si chiude in se stesso, si avvolge e richiude come per proteggersi da un nemico invisibile e invincibile, contro cui ha l’amara consapevolezza di perdere comunque. L’ultimo anelito al cielo azzurro è narrato dai piccoli fiori e dai prati di erbe selvatiche che assorbono gli ultimi tepori prima delle rigidità invernali. Anche gli uomini raccolgono le proprie cose, mettono da parte le scorte per i mesi in arrivo, raccolgono i pensieri. Si guardarono negli occhi ritrovando in quelle oscure profondità delle pupille il volto dell’amico. Quel semplice sguardo diretto e deciso era sufficiente a capire lo stato d’animo dell’altro. L’acqua dello stagno nel giardino è limpida e fredda. Le carpe scivolano lente sotto lo specchio immobile. Solo una foglia ingiallita, staccandosi dal grande albero di canfora, plana lieve e increspa appena la superficie di quel piccolo universo silenzioso. L’armonia è in tutte le cose, dalle più grandi alle più semplici. In ogni piccola foglia di albero di canfora è la perfezione. In ogni mutamento di sfumatura nei colori dell’alba

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è il respiro universale delle cose. Ogni petalo di fiore di ciliegio è perfetto in sé, diverso da tutti gli altri, come si dice siano i cristalli di neve, e nonostante questa sua unicità è perfetto, perché ha in sé la ragione di tutti i petali di tutti i ciliegi di tutte le stagioni. All’uomo basta contemplare questi segni per sentire di essere parte di un grande tutto, per sentire il respiro del mondo e sapere che il proprio respiro è consonante, ha lo stesso ritmo lento e inarrestabile della natura, delle piante e degli animali e degli altri uomini, amici e nemici. Anche solo osservare il moto pigro delle carpe nello stagno ti dice che anche tu sei parte di questo tutto, e senti il palpitare unico dell’insieme di tutti gli esseri viventi, il movimento incessante costante universale della vita. Haruki non capiva perché Mamoru gli parlasse proprio ora di cose così distanti, il momento della battaglia era imminente e sentiva il bisogno di essere incoraggiato dall’amico, spronato alla lotta, sostenuto nell’azione. Avvertiva il pulsare del sangue sotto la pelle, i muscoli contratti e già pronti allo scatto del corpo a corpo, il pugno stretto come avesse tra le dita l’elsa della sua fidata katana. Attese che l’amico tornasse al silenzio dei gesti rituali della cerimonia, e prese dalle sue mani la coppa fumante che gli porgeva. Abbassò lo sguardo al piccolo specchio tondo del tè nella tazza e vide sul fondo un piccolo fiore che si schiudeva al calore dell’acqua. Bevve il denso profumo che si sprigionava dalla piccola coppa e assaporò il gusto forte della bevanda. La cerimonia si concluse senza altre parole. Solo prima di ritirarsi Mamoru fece una cosa insolita e del tutto inattesa. Si accostò ad Haruki e lo abbracciò. Quindi senza dire altro chiuse dietro di sé il pannello scorrevole che divideva gli ambienti, e lasciò l’amico da solo. Haruki inspirò profondamente, raccolse i lembi del kimono, ed uscì dalla stanza. Fuori l’aria era fredda. Indossò l’armatura e raccolte le armi si diresse verso la polvere e il sangue del campo. Quell’inverno l’acqua dello stagno gelò.

La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo. Albert Camus

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Gli uomini hanno dubitato se attribuire la facoltà di vivere, ricordare, comprendere, volere, pensare, sapere, giudicare all’aria o al fuoco o al cervello o al sangue o agli atomi o a un quinto ignoto elemento corporeo al di fuori dei quattro elementi conosciuti, oppure se tutte quelle operazioni le possa compiere la struttura e l’armonia del nostro corpo; chi si è sforzato di ricordare, di sostenere un’opinione, chi un’altra. Di vivere, tuttavia, di ricordare, di comprendere, di volere, di pensare, di sapere e giudicare, chi potrebbe dubitare? Poiché, anche se dubita, vive; se dubita, ricorda donde provenga il suo dubbio; se dubita, comprende di dubitare; se dubita, vuole arrivare alla certezza; se dubita, pensa; se dubita, sa di non sapere; se dubita, giudica che non deve dare il suo consenso alla leggera. Perciò chiunque dubiti di altre cose, non deve dubitare di tutte queste, perché, se non esistessero, non potrebbe dubitare di nessun cosa. [...] Lo spirito si conosce anche quando si cerca. Agostino, De Trinitate


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