9 788874 026562
ANNO II N. 6
SETTEMBRE - DICEMBRE 2010
SETTEMBRE-DICEMBRE 2010 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abb. Postale - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB (TORINO) N°6 3 | 2010 € 12,00
ARTHUR C. DANTO MASSIMO GIRALDI GHIL’AD ZUCKERMANN JULIANA DE ALBUQUERQUE KATZ KATHRIN H. ROSENFIELD CECILIA ROFENA SILVIA DI PIETRO SILVIO GRASSELLI JOSÉ LUIS GUERIN GIACOMO RAVESI LUCIO ALTARELLI VITO COMISO LEONOR SCLIAR-CABRAL CRISTINA MARRAS MARIALUISA GIULIANO ALESSANDRA FARKAS
BELLEZZA
della
dell’
EROS
YOD. CINEMA, COMUNICAZIONE E DIALOGO TRA SAPERI
Søren Aabye Kierkegaard, Diario di un seduttore
In caso di mancato recapito inviare a TORINO C.M.P. NORD per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa.
Quando si ama non si frequentano le strade maestre [...]. Quando si ama e si vuole cacciare il capo dal proprio guscio, non ci si avvia dalle parti del lago; sebbene sia soltanto una strada di passaggio, è tuttavia battuta e l’amore preferisce aprirsi da sé le sue strade.
Siete pronti a scoprire le novità del 2011?
YOD. CINEMA, COMUNICAZIONE E DIALOGO TRA SAPERI www.yodonline.com ANNO II N. 6 SETTEMBRE - DICEMBRE 2010 ISBN 978-88-7402-656-2 Poste Italiane s.p.a. Spedizione in Abb. Postale D.L. 353/2003 - (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, DCB (TORINO) - 1-2/2009 Registrazione Tribunale di Roma n. 567/99 del 1-12-1999 Direttore responsabile Dario Edoardo Viganò vigano@yodonline.com Direttore editoriale Giovanni Scarafile direttore@yodonline.com Direzione Giovanni Scarafile Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Università del Salento Via V.M. Stampacchia - 73100 LECCE Tel. +39.0832.294662 | Fax +39.0832.294626 Proprietà ACEC Presidente ROBERTO BUSTI Segretario Generale FRANCESCO GIRALDO Segreteria Generale acec@acec.it Redazione ACEC Via Nomentana, 251 00161 ROMA Tel. +39.06.4402273 | Fax. +39.06.4402280 redazione@yodonline.com Editore Effatà Editrice Via Tre Denti, 1 10060 Cantalupa (TO) Tel. +39.0121.353452 | Fax +39.0121.353839 info@effata.it | www.effata.it Hanno collaborato: MASSIMO GIRALDI, GHIL’AD ZUCKERMANN, JULIANA DE ALBUQUERQUE KATZ, CECILIA ROFENA, SILVIA DI PIETRO, SILVIO GRASSELLI, GIACOMO RAVESI, VITO COMISO, LEONOR SCLIAR-CABRAL, CRISTINA MARRAS, MARIALUISA GIULIANO Progetto grafico, impaginazione e illustrazioni Roberta Pizzi grafica@yodonline.com | www.robertapizzi.com Webmaster COSIMO SALICANDRO webmaster@yodonline.com Stampa Publistampa Arti Grafiche s.n.c. di Casagrande Silvio & C. Via Dolomiti 12 | 38057 Pergine Valsugana (TN)
Crediti fotografici Le immagini e le illustrazioni delle pagg. 1, 9, 31, 57, 62 sono di proprietà di YOD. Per le altre immagini l’editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici, è a disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti. Foto di copertina Mystical station | 18 gennaio 2008 | Jsome1 / Feliciano Guimarães | licenza Creative Commons su www.flickr.com | Immagine terza di copertina Blank Page Turning © HaywireMedia #9930724 | fotolia.com
Giovanni Scarafile Leonor Scliar-Cabral
1 5
Ghil’ad Zuckermann
7
Marialuisa Giuliano
10
Juliana de Albuquerque Katz
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Kathrin H. Rosenfield Cristina Marras
17 20
Massimo Giraldi
23
Silvia Di Pietro
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Arthur C. Danto
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Cecilia Rofena
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Silvio Grasselli, Giacomo Ravesi
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Silvio Grasselli
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José Luis Guerin
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Giacomo Ravesi
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Lucio Altarelli
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Vito Comiso
Editoriale Yod
La bellezza della lingua. Dall’Israeliano alla Rinascita delle Lingue Aborigene: lezioni dalla Terra Promessa alla ‘Terra della Cuccagna’ Senza stancarsi mai. New York e la bellezza in un dialogo con Alessandra Farkas Il carnevale brasiliano. Una guida per i perplessi
Intervista a cura di Juliana de Albuquerque Katz Viaggio al centro della terra
Eros e cinema. Il lungo addio Un’estetica collaterale. La filosofia dell’arte di Arthur C. Danto Intervista a cura di Silvia Di Pietro
Chicago. Altrove e prossimità. Imparare dalle differenze Fotogrammi di città. Centro e periferia dello sguardo prima e dopo il cinema Appunti di viaggio su cinema e città. Dal centro al margine e ritorno Lo sguardo e la città. Intervista a cura di Silvio Grasselli Il «post» e l’«oltre» della visione. La metropoli contemporanea e la sperimentazione artistica Intervista a cura di Giacomo Ravesi Indaco
editoriale
Giovanni Scarafile
E
ros e bellezza costituiscono oggi luoghi piuttosto noti, almeno nell’accezione comune. Tale conoscenza è ritenuta talmente scontata che la messa a tema dell’intersezione tra i due elementi rischia di passare come un’operazione inutile e forse ridondante. Che cosa si può dire di più su questi temi che non sia stato già detto? La scelta di riflettere sul connubio tra eros e bellezza scaturisce allora dalla constatazione che proprio tale presumere ha condotto ad una massiva banalizzazione dei termini implicati e ad una loro univoca declinazione sul piano del genitale, ritenuto l’unico ambito di pertinenza scaturente da quell’incontro. È possibile, crediamo, declinare al futuro eros e bellezza se saremo in grado di recuperare nell’originario ciò che oggi sembra smarrito. Nel Simposio di Platone, nel racconto di Socrate dell’erotologia di Diotima, l’eros si configura come il motore dell’animo umano, ciò che sospinge ognuno di noi ad attraversare ambiti dell’esistenza sempre più vasti (dalla contemplazione della bellezza del corpo alla bellezza dell’anima, dalla bellezza delle leggi alla bellezza della conoscenza) per giungere, superato il rischio dell’autosufficienza insulare, alla «visione di un bello per sua natura meraviglioso». Se, nell’accezione comune, l’eros è ciò che interviene a colmare una solitudine, ritenuta primigenia rispetto a qualsiasi incontro con l’altro, l’eros è quella modalità originaria della nostra esistenza che, sancendo l’impossibilità costitutiva di ogni clausura, registra l’incon-
tro tra l’io in quanto trascendenza e la trascendenza dell’altro. Mi sembra che ciò che di attuale rimane di questa voce dell’antica Grecia è probabilmente l’aver, seppur nella forma del mito, saputo mettere in evidenza lo sprone costituito da una dimensione che non consente la possibilità di un arresto definitivo presso alcuna delle contrade dell’umano, esigendo invece che ogni stazionamento, ogni unità minima di senso, sia sempre un conseguimento provvisorio ed esigente nel contempo un’apertura all’inedito. Parlare dell’eros e della bellezza significa, dunque, visitare le molteplicità incarnate da questo anelito. Si tratta di una indicazione di cui abbiamo voluto farci carico in questo numero di YOD: riflettendo sui modi in cui il cinema ha saputo guardare all’eros; considerando le forme assunte dalle incarnazioni dell’eros in uno dei luoghi più simbolici, il carnevale brasiliano; esaminando - nella forma del racconto di viaggio, del saggio e del dialogo –la bellezza assunta dal volto di alcune città (Reykjavik, Chicago, New York) ed anche il modo stesso in cui il cinema ha saputo “vedere” questa bellezza urbana; valutando, insieme ad uno dei massimi filosofi e critici d’arte contemporanei, Arthur Coleman Danto, il senso stesso del bello; auscultando la forza dell’impensato rispetto a cui non si può rimanere indifferenti nel racconto Indaco di Vito Comiso, narratore d’eccezione già altre volte ospitato su YOD. Molti aspetti, dunque ed un’unica zona di confluenza, che Kierkegaard così definiva: «Quando si ama non si frequentano le strade maestre», dato che «l’amore preferisce aprirsi da sé le sue strade».
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&
indice
contributors
GHIL’AD ZUCKERMANN
Ghil’ad Zuckermann, D.Phil. (Oxford), Ph.D. (Cambridge), M.A. (summa cum laude) (Tel Aviv), è professore ordinario all’Università di Adelaide, Australia, e gestisce un fondo conferitogli dal consiglio di ricerca del governo australiano (Australian Research Council) ed un altro dall’Università di Shanghai di Studi Internazionali. In passato ha lavorato come professore all’Università di Queensland (Brisbane), ed in Gran Bretagna, Singapore, USA, Cina, Slovacchia, Israele, e per eminenti incarichi di ricerca a Cambridge (Gran Bretagna), Bellagio (Italia), Melbourne (Australia), Austin (Texas, USA) e Tokyo (Giappone). Tra le sue pubblicazioni (in inglese, ebraico, italiano, yiddish, spagnolo, tedesco, russo e cinese) spiccano i volumi “Israelit Safa Yafa” (“Israeliano – bella lingua”) (Am Oved 2008), “Language Contact and Lexical Enrichment in Israeli Hebrew” (“Contatto linguistico ed arricchimento lessicale nell’ebraico israeliano”) (Palgrave Macmillan 2003) e “Language Revival and Multiple Causation” (Oxford University Press). Il suo sito è http://www.zuckermann.org/
MARIALUISA GIULIANO
Marialuisa Giuliano è giornalista pubblicista presso il quotidiano America Oggi. Laureata in Economia a Parma, dopo aver frequentato un Master alla Columbia University, vive a e lavora a New York.
SENZA STANCARSI MAI
Un colloquio con Alessandra Farkas, corrispondente da New York del Corriere della Sera, sulla bellezza della Grande Mela.
JULIANADEALBUQUERQUEKATZ
Juliana de Albuquerque Katz nel luglio 2009 si è laureata in Legge nell’Università Cattolica di Pernambuco, presentando la monografia “Etica, riconoscimento e ambiguità: un dialogo tra Hegel e Simone de Beauvoir”. Ha inoltre pubblicato il saggio “Tous les hommes sont mortels: un essai au sujet de la dialectique de Maîtrise et Servitude”, nel volume Simone de Beauvoir cent ans après sa naissance: contribuitions interdisciplinaires de cinq continents (TÜBIGEN, Gunther Narr Verlag, 2008). I suoi interessi di ricerca spaziano da Hegel all’idealismo tedesco, dall’esistenzialismo francese alla fenomenologia.
KATHRIN H. ROSENFIELD
Kathrin H. Rosenfield è una Professoressa di Filosofia alla Federal University di Rio Grande do Sul – Brasile. È austriaca di nascita e vive in Brasile dal 1984. La dottoressa Rosenfield ha terminato il dottorato in Letteratura all’Università di Salisburgo. È autrice di libri come “Antigone – Da Sofocle a Hoderlin” e “Desenveredando Rosa”, una pubblicazione sui saggi su Guimarães Rosa, una delle scrittrici brasiliane più apprezzate.
IL CARNEVALE BRASILIANO. UNA GUIDA PER I PERPLESSI
Un breve resoconto del Carnevale brasiliano visto con gli occhi di una studentessa di filosofia che cerca di capire il suo paese e la sua cultura. Combinando narrativa e speculazione filosofica, l’articolo ha come obiettivo di indurre a riflettere sulla discriminazione di genere in Brasile e sulla sua possibile origine.
LA BELLEZZA DELLA LINGUA
I tre princìpi di questa relazione: 1. Se la tua lingua si trova in pericolo, non lasciarla perire! 2. Se la tua lingua comunque é già morta, fermati, rianimala e sopravvivrai! 3. Se fai rivivere la tua lingua, adotta l’ibridità della lingua emergente!
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CRISTINA MARRAS
Cristina Marras, è ricercatrice presso l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee del CNR di Roma e insegna a contratto “Teoria della Comunicazione” presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Sapienza di Roma; si occupa di G. W. Leibniz, di teoria della metafora e di pragmatica della comunicazione, di migrazioni linguistiche e culturali. È segretaria dell’International Association for the Study of Controversies, e socio fondatore e membro del direttivo della Sodalitas Leibiziana. Studi e ricerche l’hanno portata a vivere, soggiornare e scrivere all’estero per lunghi anni: Hannover, Münster, New York, Tel Aviv, Bergen, Strasburgo… Di recente ha pubblicato “Metaphora translata voce” (Olschki, 2010) e “Filosofia nella comunicazione. Quaderno di teorie e pratiche metaforiche” (Lithos, 2010).
VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA
Resoconto di un viaggio a Reykjavík, alla ricerca della bellezza inedita, dell’incanto e della magia della capitale islandese.
MASSIMO GIRALDI
Giornalista e critico cinematografico, collabora con alcune riviste specializzate, titolare della rubrica Cinema sul quotidiano AvvenireRoma 7; è autore di saggi apparsi in volumi miscellanei e di diverse monografie, tra le quali “Giuseppe Bertolucci” (Il Castoro), “Luc Besson” e “I film di Steno” (entrambi per Gremese). Coautore di “100 caratteristi del cinema italiano” (Gremese). Attualmente è Segretario della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana.
EROS E CINEMA. IL LUNGO ADDIO
Nell’ambito del rapporto cinema-eros, si focalizza l’attenzione sul cinema italiano dalla seconda guerra mondiale ad oggi, attraverso cinque film per cinque decenni. Si va da Ossessione (1942) di Visconti a Dolci inganni (1960) di Lattuada, da Identificazione di una donna (1982) di Antonioni a Diario di un vizio (1993) di Ferreri per chiudere con E adesso sesso (2001) di Vanzina. Si comincia con l’erotismo come chiave per scardinare il convenzionale e si finisce con l’eros stereotipo e caricatura di se stesso. Scavalcato a destra, a sinistra e al centro dalla televisione.
SILVIA DI PIETRO
Silvia Di Pietro è nata a Sulmona nel 1982. Si è laureata a pieni voti in filosofia e sudi teorico critici presso l’università La Sapienza di Roma con una tesi specialistica dal titolo Estetica e filosofia dell’arte nella riflessione di Arthur C. Danto. Conclusi gli studi filosofici ha conseguito un master in marketing e comunicazione presso l’università commerciale Luigi Bocconi di Milano. Attualmente vive e lavora a Milano.
UN’ESTETICA COLLATERALE. LA FILOSOFIA DELL’ARTE DI ARTHUR C. DANTO
La speculazione di Arthur Danto è una sintesi originale di filosofia e storia dell’arte volta a delineare un’estetica dei significati capace di rispondere alle esigenze a un panorama artistico “poststorico” e “pluralistico”. Danto esclude l’universo estetico dal discorso artistico poiché la comparsa di opere indiscernibili dai meri oggetti sposta la questione sul piano ontologico. L’analisi dantiana fa della Brillo Box di Warhol un caso emblematico: una volta chiarito che la risposta all’interrogativo posto dagli indiscernibili non è di natura estetica, si stabilisce che ciò che rende un’opera d’arte tale è qualcosa che va afferrato “cognitivamente”, inoltre la comparsa di opere indiscernibili segna la fine della parabola storico-narrativa dell’arte.
ARTHUR C. DANTO
Arthur Coleman Danto è nato ad Ann Arbor nel 1924. Dopo aver studiato arte e storia alla Wayne State University prende il PhD alla Columbia University dove è professore ordinario dal 1966. Danto è stato presidente dell’American Philosophical Association e della American Society for Aesthetics. E’ famoso per la sua attività di critico d’arte per la rivista The Nation oltre ad aver pubblicato numerosi articoli su diverse riviste scientifiche. E’ inoltre autore di numerosi saggi di filosofia dell’arte che rappresenta il suo orizzonte teorico preferito. Nel 2007 l’Università di Torino gli ha conferito la Laurea Honoris Causa in Filosofia.
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CECILIA ROFENA
Cecilia Rofena è Dottore di Ricerca in Filosofia. Si è laureata all’Università di Pisa con R. Bodei e A. G. Gargani, ha conseguito il perfezionamento in Scienze della Cultura, presso la Scuola Internazionale di Alti Studi, Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Ha studiato alla University of Chicago come Visiting Scholar e ha svolto ricerche a Londra ed Oxford.. I suoi interessi di ricerca comprendono la filosofia del linguaggio, l’etica e la storia delle idee. Ha pubblicato diversi saggi. La sua silloge poetica, Agogiche, vincitrice del Premio L. Montano, è pubblicata da Anterem Edizioni, Verona 2007.
CHICAGO. ALTROVE E PROSSIMITÀ. IMPARARE DALLE DIFFERENZE
Quando l’immagine di una città diventa il ritratto di un volto familiare? Scoprirne la bellezza e cominciare ad amarla sono possibilità che si danno nel tempo; ma v’è un preciso istante, un inizio, in cui l’estraneità si dissolve e la distanza si risolve in prossimità. A partire da questa conversione dello sguardo, s’instaura un nuovo equilibrio fra il senso delle narrazioni possibili e la realtà che accettiamo e comprendiamo, nella ridefinizione del perimetro delle nostre azioni. Le attività che c’impegnano, le scelte che definiscono la nostra vocazione sono le condizioni di possibilità di questa apertura, in cui i familiari modelli di lettura del reale devono dimostrare la loro consistenza e tenuta, imparando a cambiare.
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SILVIO GRASSELLI
Dottorando in Cinema presso il Di.Co.Spe. dell’Università di Roma Tre, è saggista, critico cinematografico (carta stampata, web, tv) e filmaker. Selezionatore e organizzatore in festival e rassegne. Dal 1998 organizza e conduce seminari teorici e laboratori pratici sul cinema e su tecniche e linguaggi dell’audiovisivo per la scuola media superiore e inferiore.
APPUNTI DI VIAGGIO SU CINEMA E CITTÀ. DAL CENTRO AL MARGINE E RITORNO
Un viaggio breve tra la fine del secolo e l’inizio del millennio sulle tracce delle pratiche di alcuni cineasti che ritrovano il centro del cinema ai limiti dell’immagine. Dal documentario al cinema sperimentale passando per la narrazione canonica, Honigmann, Bennings, Erice Guerin esercitano un’ascesi dello sguardo ritrovando negli elementi primordiali del dispositivo cinematografico una via al recupero dello sfasamento originario tra immagine e mondo, occhio e città.
JOSÉ LUIS GUERIN
José Luis Guerin è nato a Barcellona. Non ha frequentato scuole di cinema, la sua formazione è avvenuta nei cineclub e nelle cineteche. Ha iniziato la sua carriera di regista dirigendo corti sperimentali dal 1975 al 1983, anno in cui ha diretto il suo primo film lungometraggio, “Los Motivos de Berta”, vincitore del Premio Speciale al Forum di Berlino. Nel 1988, dirige l’episodio spagnolo di “City Life, Eulalia-Marta” che ha ottenuto riconoscimenti ai festival di Berlino, Rotterdam e di Montreal. Nel 1990 dirige “Innisfree”, nel Concorso di Cannes dello stesso anno. Nel 1997, “Tren de Sombras” – anch’esso presentato nel corso del Festival di Cannes – ottiene dalla European Federation of Fantasy Film Festivalsil il Melies d’Oro e quello d’Argento. Nel 2001, viene “En construccion”, premiato a San Sebastian, e nel 2007 “En la ciudad de Sylvia”, selezionato al Festival di Venezia. José Luis Guerin insegna presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona.
GIACOMO RAVESI
Giacomo Ravesi (Roma, 1981) è dottore di ricerca presso il Di.Co. Spe. dell’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi dal titolo Architetture d’immagini. La metropoli contemporanea e la sperimentazione artistica. Si è occupato in prevalenza di cinema e video d’avanguardia e sperimentale. Ha pubblicato saggi sull’opera video di Fabio Massimo Iaquone e sul cinema di Marco Ferreri e Alberto Lattuada. Tiene corsi di Didattica del Linguaggio Cinematografico e Audiovisivo nelle scuole ed è coordinatore artistico del Visioni Fuori Raccordo Film Festival.
IL «POST» E L’«OLTRE» DELLA VISIONE
Una volta i termini «città» e «cinema» evocavano – almeno nel senso comune – un immaginario piuttosto chiaro e consolidato. Ora non più. Figure emblematiche della modernità e dei suoi processi più caratteristici, la città e il cinema si ritrovano in una complessa fase transitoria, che mette in discussione non solo la natura essenziale, ontologica della loro struttura, ma soprattutto il senso della loro trasformazione. In questo panorama la sperimentazione artistica ha precorso i tempi, configurando un territorio interdisciplinare di ricerche fra architettura, arti visive e media, che sembra avvalorare l’ipotesi di un «post» e di un «oltre» della visione nella metropoli contemporanea.
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LUCIO ALTARELLI
Lucio Altarelli insegna Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura “Ludovico Quaroni” dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, dove è anche Responsabile del Laboratorio Architettura degli Interni, Allestimenti e Spazi Espositivi del Dipartimento di Architettura e Presidente dell’Area Didattica 3 (Architettura degli Interni). Ha pubblicato numerosi libri e saggi sui temi della progettazione architettonica ed urbana occupandosi con assiduità della città di Roma. Attualmente la sua attenzione è rivolta al tema degli allestimenti come filtro tematico attraverso il quale analizzare tendenze e linguaggi dell’architettura contemporanea. Tra le sue pubblicazioni più recenti: “Allestire. Attraversamenti, temi, territori, ibridazioni” (2005), “Light City. La città in allestimento” (2006), “Il sublime urbano. Architettura e new media” (2007, con Romolo Ottaviani), “Il mostro di San Lorenzo. Progetti per la Tangenziale Est di Roma” (2008, con Massimo Casavola).
VITO COMISO
Lucano, fotografo free lance, lavora tra Milano, Barcellona e Tokyo.
LEONOR SCLIAR-CABRAL
INDACO
Quando la bellezza permea l’evento.
YOD Un braccio proteso, una mano come una tregua, una lingua contro la sua cartilagine. o papiro che dispiega il suo fogliame per perdere le foglie passo a passo. Un braccio violento sollevato nello spazio, o un’impronta pacificatrice della mano impressa sulla terra, un divieto rigido di passaggio, o un abbraccio arabesco. O le mani in preda alla disperazione, implorando clemenza, segno stesso dell’essere spogliati di tutti i fronzoli, presenti e passati. Un semplice tratto è sufficiente. Così la linea, riflesso delle labbra distese, sulla dura pietra si proietta.
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L. Scliar-Cabral (2009), Sagração do Alfabeto, Scortecci, São Paulo 2009. Transl. Walter Costa (Spanish); Marie-Hélène C. Torres (French); Alexis Levitin (English) and Naama SilvermanForner.
Scritti di: Carlo Marletti, Claudio Cesa, Adriano Fabris, Leonardo Messinese, Massimo Barale, Simonetta Bassi, Stefano Perfetti, Daria Trafeli
TEORIA XXX/2010/2
La figura e il pensiero di Armando Carlini
esto volume di “Teoria” è in gran parte dedicato alla figura e l’opera di Armando Carlini. Carlini (1878-1959) fu un filosoimportante nel panorama italiano, e non privo di riconoscienti sul piano internazionale. Nel suo insegnamento all’UniPisa e nei suoi scritti egli sviluppò una riflessione che vede oreità e nell’esistenza le dimensioni in cui concretamente quello “spirito” (conoscitivo, morale, artistico, religioso) di ano in maniera astratta, all’epoca, i filosofi del neo-idealiad alcuni saggi sul pensiero di Carlini il volume di “Teoria” anche una serie d’interessanti inediti tratti dalle sue carte.
ISSN 1122-1259
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La figura e il pensiero di Armando Carlini
TEORIA Rivista di filosofia fondata da Vittorio Sainati XXX/2010/2 (Terza serie V/2)
€ 18,00
ETS
Edizioni ETS
SCRITTI DI: CARLO MARLETTI, CLAUDIO CESA, ADRIANO FABRIS, LEONARDO MESSINESE, MASSIMO BARALE, SIMONETTA BASSI, STEFANO PERFETTI, DARIA TRAFELI.
Questo volume di “Teoria” è in gran parte dedicato alla figura e all’opera di Armando Carlini. Carlini (1878-1959) fu un filosofo importante nel panorama italiano, e non privo di riconoscimenti sul piano internazionale. Nel suo insegnamento all’Università di Pisa e nei suoi scritti egli sviluppò una riflessione che vede nella corporeità e nell’esistenza le dimensioni in cui concretamente s’incarna quello “spirito” (conoscitivo, morale, artistico, religioso) di cui parlavano in maniera astratta, all’epoca, i filosofi del neo-idealismo. Oltre ad alcuni saggi sul pensiero di Carlini il volume di “Teoria” raccoglie anche una serie d’interessanti inediti tratti dalle sue carte.
Text - latinum HR © arsdigital.de #16669691 | fotolia.com
Ghil’ad Zuckermann
La bellezza della lingua
Dall’Israeliano alla Rinascita delle Lingue Aborigene: lezioni dalla Terra Promessa alla ‘Terra della Cuccagna’
‘Devo studiare politica e scienze militari, per dar la libertà di studiare ai miei figli matematica e filosofia. I miei figli a loro volta hanno il dovere di studiare matematica e filosofia, geografia, scienze naturali, ingegneria navale, scienze della navigazione, commercio ed agricultura affinche’ possano dare a loro volta ai loro figli il diritto di poter studiare disegno, pittura, poesia, musica, architettura, modellatura, tappezzeria e ceramica.’ John Adams, 1735-1826, secondo presidente degli Stati Uniti
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inque ebrei cambiarono il modo di percepire il mondo: Mosé affermó: ‘Tutto consiste nella legge!’ Gesú disse: ‘Tutto consiste nell’amore!’ Marx disse: ‘Tutto consiste nel denaro!’ Freud affermó: ‘Tutto dipende dal sesso!”. Ma dopo venne Einstein e astutamente aggiunse: ‘Tutto é relativo!” Purtroppo in tanti vedono il mondo in termini di bianco e nero. Il giudaismo peró é basato su ‘d’altronde’ e ‘d’altra parte’. Nel famoso play «Violinista sul tetto» (Fiddler on the Roof), dopo che Hodel, la figlia di Tevye, ebbe annunziato al padre il suo fidanzamento con Perchik, che non apparteneva alla fede ebraica, Tevye memorabilmente disse: «Lui ama lei? É una nuova usanza!? D’altra parte anche le nostre vecchie usanze a loro tempo furono nuove, no? D’altra parte, non decisero forse Hodel e Perchik da loro soli?!, indipendentemente dai genitori, senza un sensale dei matrimoni! D’altra parte, ebbero Adamo ed Eva un sensale? Beh! veramente l’ebbero…. e a me sembra che questi due abbiano lo stesso sensale!». Ammetto che piú lingue sappiamo, piú propensi siamo ad abbracciare prospettive diverse. Anche se non abbiamo avuto abbastan-
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za fortuna da diventare poliglotti nel periodo cruciale dell’infanzia, cioé durante i primi dodici anni di vita, non c’é dubbio che il fatto di poter studiare altre lingue straniere ci apporta grandi vantaggi, anche da adulti. Lo scrittore di libri per bambini Russell Hoban, nato nel 1925, disse una volta che «il linguaggio é un veicolo archeologico pieno di riminiscenze di passati sia vivi che altrettanto morti, ossia di civilizzazioni perdute come pure di tecnologie oltrepassate». Dacché il nostro linguaggio non é che un palinsesto (manoscritto in cui la scrittura primitiva é stata raschiata via e sostituita da una nuova), in cui si rispecchia lo sforzo della storia umana. Dal punto di vista dell’eredità culturale, gli sforzi per far risorgere le lingue non piú parlate dovrebbero essere sostenuti, appoggiati, festeggiati e osannati. Tuttavia, dovremmo frenare la tendenza esagerata dei puristi purché non si allontanino troppo dalla realtà in cui s’imbatte ogni bella addormentata nel momento in cui si sveglia. Qualsiasi lingua sonnambulesca è alquanto irreale senza l’incontro inevitabile della madrelingua con la bella addormentata che si sta svegliando. Nella molteplicitá degli aspetti anche linguistici della fine del secolo diciannovesimo nel quale si cominció a parlare ‘l’ebraico contemporaneo’ - che io chiamo ‘israeliano’ - i ‘revivalisti’, come Eliezer Ben-Yehuda, aiutarono e premettero moltissimo per far risuscitare l’ebraico antico, che si trovava in uno stato ‘dormiente’ da 1750 anni. I revivalisti erano affetti da grande ambizione e pedanteria e da motivazioni immerse nel processo di far rivivere la lingua dei profeti. A differenza delle lingue aborigene belle addormentate, l’ebraico aveva una vasta documentazione, per esempio il Vecchio Testamento, e la Mishnah (la scrittura religiosa piú importante in lingua ebraica dopo la Bibbia). Insomma l’Israeliano non é solo una lingua stratificata, ma anche una lingua ricca di sorgenti, intricata da diversi tributi come da parte dell’yiddish, il polacco, il russo, il ladino (giudeo-spagnolo), l’arabo, l’inglese ecc.
Evidentemente, in termini un po’ brutali, si puó dire che l’idioma moderno usato oggi a Tel Aviv é molto differente dalla parlata usata a sua volta nella Terra Santa nei tempi biblici. È effettivamente curioso che nonostante questa realtà gli israeliani contemporanei sono tutt’ora indottrinati a credere che parlino oggi la stessa lingua che usava il profeta Isaiah (sebbene con ‘errori’). Presuppongo che sia giunta l’ora d’inculcare agli israeliani che la lingua che usano oggi é molto diversa dall’ebraico antico. Nelle parole di Jerry Seinfeld «non che ci sia un problema con quello!» Dunque, quale lezione ci sarebbe da imparare dalla rinascita, anche se parziale, della lingua nella Terra Promessa riguardo l’eventuale rinascita delle lingue aborigene ormai abbandonate nella terra della cuccagna, il paese fortunato, l’Australia? Sfortunatamente una delle conclusioni emerse dall’inchiesta del National Indigenous Languages Survey Report del 2005 è che la situazione delle lingue aborigene é piuttosto grave! Siamo scesi da 250 a circa 145 lingue indigene parlate ancora oggi. Di queste, 110 sono tutt’ora in pericolo d’estinzione. Esse sono parlate da piccoli gruppi di individui la cui maggioranza si trova al di sopra dei 40 anni. Solamente 18 lingue possono essere considerate solide, nel senso che sono parlate da tutti i gruppi d’età della popolazione: vecchi, adulti e giovani. Ciononostante, tra le 18 lingue, 3 o 4 cominciano a dare segni di pericolo d’estinzione. Inoltre, esistono molte altre lingue che effettivamente non sono parlate affatto da alcun individuo, sebbene alcuni termini o frasi siano ancora usate. Per questo molta parte della nazione riserva numerosi sforzi per salvarle ed ereditarle per mezzo di specifici programmi educativi. Se, tornando al tema della Terra Promessa, constatiamo che i ‘revivalisti’, desiderosi di far riparlare il puro ebraico, seppur agendo con tutta la loro forza, ci riuscirono solo in parte, è allora estramamente difficile imma-
ginare un pieno successo nel far rivivere le lingue aborigene e riportarle alla loro forma originale. La rinascita della lingue aborigene non parlate ormai già da molto tempo, ovvero il riportare queste lingue alla loro purezza – senza includere al loro interno le innumerevoli influenze dall’inglese australiano e dall’inglese aborigeno - costituirebbe una impossibile mission per cui prevedo che, qualsiasi tentativo si faccia, inevitabilmente esso porti ad un miscuglio del nuovo col vecchio, un’ibridazione composta sia dall’inglese australiano, sia dall’inglese aborigeno senza dimenticare la
stessa lingua aborigena resuscitata. Tutto questo non significa che non dobbiamo far rivivere lingue e culture morte. Al contrario! Le mie ricerche sul passaggio dall’ebraico all’israeliano dovrebbero incoraggiare leaders aborigeni e linguisti ‘revivalisti’ ad essere semplicemente piú realisti e ragionevoli riguardo le loro mete, e ad accettare il sincretismo della nuova lingua. Come pure, posso offrire loro le mie conclusioni riguardo i componenti linguistici piú risuscitabili rispetto ad altri. Solo per fare un esempio, le parole e le coniugazioni sono piu facili a farsi rivivere rispetto alle intonazioni,
le associazioni, le connotazioni ed i collegamenti semantici. Alcuni aborigeni distinguono tra usanza e padronanza. Avevo perfino un amico che pretendeva di possedere una sua lingua anche se conosceva solamente una parola, ossia il nome della lingua. Ci imbattiamo in molti aborigeni, i quali non trovano alcuna necessità o importanta nel far risuscitare la loro lingua dormiente e comatosa. Io invece ho sempre creduto nel dictum che si trova sui segnali stradali australiani: «Stop, Revive, Survive!», (Fermati, Rianimati, Sopravvivi!).
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DIALOGHI
Marialuisa Giuliano
New York e la bellezza in un dialogo con Alessandra Farkas
SENZA STANCARSI MAI
New York City, by day | kennymatic / Kenny Louie | licenza Creative Commons su www.flickr.com
Summer’s end in NYC, Sep 2009 – 07 | Ed Yourdon / Ed Yourdon | licenza Creative Commons su www.flickr.com
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oi siamo quello che facciamo: oggi giornalisti, domani chef. Come Alessandra Farkas, corrispondente del Corriere della Sera a New York che dal suo ufficio sulla Fifth Av. sogna di cucinare la mille foglie. A lei il coraggio di cambiare proprio non manca. Ha lasciato il Bel Paese senza ma e senza se, “sbarcando” nella grande Mela ancora ventenne. Capelli rossi, sguardo intenso e modi gentili. Ultimamente è stata bersaglio di critiche (da parte di blogger e lettori) per aver recensito in maniera non proprio esaltante l’iPad Apple. I suoi, comunque, sono tra gli articoli più ciccati del web: insomma parlatene bene o male purché clicchiate. Lei guarda le bellezze di Ny da un osservatorio “privilegiato”, e non solo in quanto giornalista, ma anche perché la sede del Corriere è sulla Quinta Strada, nel centro di Manhattan. L’abbiamo incontrata proprio lì, in uno dei simboli della ricca e bella Ny: tra eleganti edifici che si affacciano su Central Park, re-
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sidenze storiche e musei. Oltre ad essere una delle strade più importanti del mondo per quanto riguarda lo shopping Allora Alessandra come è cominciato tutto: dove ha studiato? Perchè ha deciso di diventare giornalista: è stata una libera scelta o si è trovata già instradata per questa via (essendo stata la sua una famiglia di editori)? “Al liceo linguistico internazionale di Milano e all’Università’ degli Studi di Firenze. Perché mio padre non mi ha permesso di diventare una pittrice come lui. A casa nostra c’erano sempre molti giornali, libri e riviste”. Come nasce l’idea di trasferirsi in America? “Mio padre aveva un appartamento sulla Lexington e dopo l’università’ ho deciso di trascorrervi un periodo che si e’ trasformato in un ‘soggiorno’ di 30 anni. Ho lavorato prima come collaboratrice dell’Europeo, poi, a partire dal 1985, come corrispondente dagli Stati Uniti del Corriere della Sera, per cui scrivo di ogni aspetto della società
americana, dalla politica alla cultura, dalla medicina ai nuovi media”. Quali sono i suoi luoghi imperdibili a NY? “Tutto Central Park, Brooklyn Heights, Harlem”. Qual è la bellezza di questa città? “I suoi cambiamenti continui e incalzanti. Basta tornare dalle vacanze per trovare due nuovi ristoranti e tre nuovi negozi nella tua via”. La bellezza di NY è più riferibile a luoghi specifici o all’interazione “magica” che si crea tra gli abitanti? “Non devi essere un riccone per godere dell’Architettura Art Deco del Rockfeller Center e ai concerti gratuiti a Central Park ci trovi anche VIP e miliardari. Questa e’ la bellezza di New York”. La possibilità di vivere l’eros in una molteplicità di forme, consentita dalla Grande Mela, può paradossalmente essere un disincentivo per l’eros stesso? “La saturazione di immagini, forme, odori e colori può certamente aggredire i
Skyline - New York City, New York at night | Trodel / Jim Trodel | licenza Creative Commons su www.flickr.com Journalists on duty | Yan Arief / Yan Arief Purwanto | licenza Creative Commons su www.flickr.com 20090823-Typewriter-10 | rahego / Raúl Hernández González licenza Creative Commons su www.flickr.com
sensi mandandoli in tilt. Ma quando succede, si può ricorrere alle tante valvole di sfogo, da Central Park, ai Cloisters, al fiume Hudson”. Cosa è per lei la bellezza? Qualcosa di completamente personale di cui non ci si stanca mai. Come le sue origini l’hanno influenzata permettendole di adattarsi in un ambiente come NY? “Non è facile venendo da uno dei paesi più belli al mondo adattarsi a una città che oltre al bello nasconde molta bruttezza”. Che cosa le manca del Bel Paese? “I carciofi e il baccalà fritto, la fettunta e i funghi porcini”. Quanto si sente italiana e quanto statunitense? “Fifty fifty”. Le sembra che negli States vi sia una maggiore accoglienza del diverso rispetto all’Italia? “Non sembra a me: è un dato di fatto. I miei amici sono ebrei, cattolici, protestanti e buddisti e la migliore amica di mia figlia è musulmana”. Che cosa conserva della sua origine ebraica? In che modo la sua origine ebraica influenza la sua visione del mondo? “Ne più ne meno di quanto l’origine cattolica può influenzare lei”. Lei è anche scrittrice, avendo pubblicato “Pranzo di famiglia”, nel 2006. Come nasce l’idea del libro? “Il libro è nato da un diario tenuto a casa di mio padre durante il suo ultimo mese di vita e dal bisogno di rendergli omaggio”. Scrivere quel libro è stato come una terapia per superare il trauma conseguente alla rivelazione avuta da suo padre all’età di 11 anni riguardo le origini ebraiche della sua famiglia? “Scrivere il libro è stata una terapia per superare la morte di mio padre: la persona che più ha influenzato la mia infanzia e quello che sono oggi”. Quanto NY l’ha aiutata a risolvere i conflitti che magari ha vissuto? “Come diceva Frank Sinatra: “If you can make it here, you can make it anywhere” Sta scrivendo qualche altro libro adesso? “Si, una raccolta di racconti brevi”. Se potesse tornare indietro rifarebbe tutto quello che ha fatto? O Cosa cambierebbe? “Farei la chef, non la giornalista e lavorerei di meno”. Cosa farà da grande? “Un corso di cucina al Cordon Bleu di Parigi per imparare a fare prelibatezze quali la mille foglie, il soufflé, le farce”. Per poi magari scrivere un libro di ricette…
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carnival on our hands Š Luis Leonardo #3237816 | fotolia.com
STUDI
Juliana de Albuquerque Katz
Il carnevale brasiliano Una guida per i perplessi
cultura brasiliana | carnevale I È sabato mattina e le strade del centro di Recife sono gremite di gente. Tutti vestono in modo molto diverso dal solito. Invece dei seriosi abiti socialmente accettati, è tempo di togliere la maschera e scegliere di essere se stessi, senza restrizioni. Superman, ballerine, indiani e persino Carlitos1 sembrano invadere le strade. Ci sono uomini vestiti da donne e donne vestite con abiti succinti. Ballano e cantano senza sosta. Ambulanti camminano tra la folla vendendo birre fredde da secchi tenuti in equilibrio sulla testa. Non riesco a trovare moneta nelle mie tasche, così qualcun altro paga per me. Diventiamo immediatamente amici. È una di quelle amicizie eterne del Carnevale, che dura fino all’angolo successivo, quando prendiamo direzione diverse. Mi dirigo al ponte principale, dove un enorme e coloratissimo gallo sta dritto e fermo nonostante la folla che sembra far vibrare l’intera città. Sono dentro il famoso Galo da Madrugada, la sfilata di Carnevale più grande del mondo, che coinvolge almeno tre tradizionali quartieri commerciali della città di Recife. La sfilata comincia nel Bairro de São José, continua per il Bairro de Santo Antônio dove apparentemente raggiunge il suo apice nell’Avenida Guararapes, nonostante la folla invada anche la via principale del centro, già nel Bairro da Boa Vista. In tutto, più di un milione e mezzo di persone seguono la sfilata per i suoi 9 chilometri di percorso. È pazzesco! Il caldo è insopportabile e può essere superato soltanto con la birra. Improvvisamente sembra che tutti siano ubriachi e prende piede l’irriverenza. Uomini afferrano donne per un braccio e le baciano, e senza fare esperienza di rifiuto alcuno, ma di reciprocità. Le persone che guardano la sfilata dall’alto di vecchi edifici iniziano a ballare sul bordo dei loro balconi. Dappertutto si sente odore di dolci, pipì, etere e marijuana. Per i tre giorni successivi non solo Recife, ma l’intero paese rallenterà i suoi ritmi usuali e sarà contagiato da un’atmosfera di consentita trasgressione. A Salvador, in mol-
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tissimi seguono i famosi trios elétricos, macchine modificate con stereo ultra-potenti, sul tetto delle quali artisti come Caetano Veloso, Gilberto Gil e Daniela Mercury cantano e ballano al ritmo della Axé Music. A Rio de Janeiro molta gente guarda le performance delle scuole di samba le sere di domenica e lunedì. Ma le sfilate per strada sono destinate ad animare anche i dintorni di Rio. Infatti, le parate per strada sono la caratteristica principale del Carnevale brasiliano. E tuttavia, anche se sembrano acquistare un sapore diverso in ciascuna delle regioni del paese, a seconda dei diversi gruppi etnici e culturali, la loro essenza è sempre la stessa: la lotta della gente per formare una identità brasiliana libera dalla storica oppressione delle illegittime élites politiche. Perciò l’atmosfera di trasgressione sociale, che è l’immagine più esuberante del livello storicamente rilassato dei valori morali nel popolo brasiliano: una rivoluzione popolare consentita e decadente. Tale caratteristica della popolazione è ben attestata dalla documentazione storica contenuta nel libro História Geral da Civilização Brasileira di Sérgio Buarque. In quest’opera, l’autore cita il resoconto del vescovo Pero Fernandes Sardinha al re del Portogallo «molte più cose devono essere dissimulate piuttosto che punite in una tale nuova terra (…)» (Holanda, 1963:119) Una citazione che può accidentalmente essere collegata con il motivo del XX secolo del Carnevale di Chico Barques, in cui si celebra la mancanza di peccato al di sotto dell’Equatore. II Questo contesto storico di permissività sociale e morale spiega la mia difficoltà a spiegare ai colleghi stranieri come sono costruiti i nostri valori, se i concetti di peccato e, conseguentemente, di redenzione non sembrano avere parte sostanziale nella nostra struttura sociale. Si dovrebbe provare a capire il Brasile come un progetto etico-estetico. Qualcosa
di simile all’idea di Darcy Ribeiro del “Brasil bonito” e, di conseguenza, si dovrebbe avere il coraggio di affrontare la realtà brasiliana. Soltanto allora, il paese e la sua manifestazione diventeranno qualcosa di comprensibile e di cui poter parlare. Mi sono sforzata di analizzare la questione dell’etica brasiliana attraverso la storia di uno scontro estetico tra Civiltà ed Eros. Nella storia del nostro paese, tale scontro affonda le sue radici a 510 anni fa, quando i primi europei arrivarono nella Terra de Vera Cruz appena scoperta, e ai giorni nostri è ben descritto dall’annuale stagione del Carnevale con lo sfruttamento dell’immagine femminile. In questo caso, la storia di tale sfruttamento risale al XVI secolo, quando Pero Vaz de Caminha scrisse in una lettera al re portoghese della meravigliosa terra appena scoperta e dei suoi abitanti – i nativi indiani sudamericani. E quegli indigeni (maschi e femmine), secondo la descrizione che ne fa Caminha, erano di tale bellezza e innocenza, da poter girare nudi alla presenza di estranei senza alcuna vergogna. Non c’è bisogno di dire in quanti passi della lettera Caminha si soffermi a descrivere minuziosamente la bellezza femminile e scriva al re dei corpi torniti e dei graziosi genitali. Sono di una tale bellezza, afferma, che sarebbero motivo di invidia per le dame europee della corte. Ai giorni nostri, comunque, le signore europee della corte hanno ceduto il posto alle donne della middle class che anno dopo anno siedono davanti alla televisione a guardare la pubblicità tradizionale del Carnevale messa in onda su Rede Globo (la maggiore rete televisiva del paese). I miei primi ricordi del Carnevale risalgono proprio a quella pubblicità tradizionale. Dal 1991 il video mostra una mulata che balla sfrenata al ritmo di samba mentre viene spogliata di un coloratissimo trucco così da diventare un po’ più nuda ogni anno. L’invidia che molte donne provano di fronte all’immagine della ragazza mulata è davvero il risultato di una mancanza di au-
FIVESTEPSWITH
KATHRIN H. ROSENFIELD
tostima dell’immagine di sé che la donna media ha e di una dipendenza esagerata dell’immagine del corpo femminile che la società le ha trasmesso durante gli anni formativi, fatto che è stato ben esaminato dallo scritto di Simone de Beauvoir Le Deuxième Sexe. Secondo la filosofa francese, non aver fiducia nel corpo è non aver fiducia in se stessi il che porta a concludere che il corpo andrebbe considerato come l’espressione oggettiva del soggetto (Beauvoir, 1986: 93, vol. II). Una tale teoria era stata tracciata dal concetto husserliano di Leib (corpo), e più tardi adottata da Maurice Merleau-Ponty nel suo lavoro Phénoménologie de la Perception con il concetto di corps vivant (corpo vivente) familiare alla Beauvoir, che lo sviluppò nei suoi scritti, specialmente Le Deuxiéme Sexe e Pour une morale de l’ambigüité. Desidero che il lettore concentri la sua attenzione sulla sola idea del corpo come espressione oggettiva del soggetto. Perché, se questa è valida, cosa può dirsi della situazione delle donne in Brasile, considerato il fatto che il loro corpo è considerato soltanto come un oggetto invece di essere riconosciuto come espressione del loro Io? Ascenso Ferreira (18951963) è un noto poeta brasiliano. Nel suo lavoro presenta temi regionali del Brasile nordorientale. In uno dei suoi versi sul Carnevale dice: «Ho visto il Genio della Razza!/ (Scommetto che pensi parlerò di Rui Barbosa)/ Oh!/ Il Genio della Razza che ho visto era una piccola mulata cioccolato/ al passo del siricongado il martedì di Carnevale!»2. Nella poesia, un uomo si
In una delle prime e-mail che chi siamo scambiate, Lei ha menzionato il carattere clanico del Brasile. Come lo descrive? Ancora, quali difficoltà si incontrano nel compito di vincere la discriminazione di genere nelle nostre manifestazioni nazionali? L’organizzazione clanica della società brasiliana è il tema principale di Instituições Políticas Brasileiras – un saggio molto provocatorio scritto da Oliveira Vianna durante gli anni 40. In esso, Vianna dimostra la permanenza di forme di organizzazione che risalgono al primo periodo coloniale, in cui prevalevano le relazioni feudali claniche. Un tale legame di riconoscimento, mutua protezione e assistenza persisteva nel tempo in virtù di un paese dal territorio molto esteso e con proprietà agricole pressoché autarchiche, di relazioni tra confinanti basate sull’amicizia tra clan, etc... Sia Gilberto Freyre che Sérgio Buarque de Holanda pensavano che la vita urbana che iniziava ad affermarsi all’inizio degli anni ‘40 avrebbe messo fine a queste strutture immaginarie e sociali in cui gli interessi privati prevalevano su quelli pubblici. Tuttavia, come si vede, la vita cittadina, globalizzata e cosmopolita, di per sé non elimina le abitudini radicate e i sentimenti che privilegiano l’amicizia interna a gruppi formati sul modello della grande famiglia brasiliana, con la sua inclinazione ai vicini, parenti e aggregati. Un lato positivo della sensibilità clanica sarebbe una più semplice accettazione della multietnicità e dell’altro. Paulo Prado, Sérgio Buarque de Holanda e Gilberto Freyre hanno analizzato i corollari stilistici e sociali di queste arcaiche strutture di organizzazione – l’ostinato sopravvivere di eloquenza ampollosa e di inclinazioni poetiche ipertrofiche che coesistono con l’analfabetismo e la relazioni generiche di dipendenza. L’arte di Machado de Assis inizia allora a fare il verso e una critica velata della mentalità dei clan. Gerarchie, favori e dipendenze patriarcali si basano si sentimenti privati di amicizia, dipendenza e gratitudine; inducendo reazioni di crescente sottomissione e obbedienza. Interessi e valori dei clan familiari richiedono la soppressione di sentimenti più complessi – e di manifestazioni spontanee di sentimenti – prevenendo lo sviluppo di una differenziazione più precisa su livelli etico ed estetico e danneggiando la forma di espressioni e riflessione sui valori condivisi. Il che denuncia l’eredità clanica della cultura brasiliana che cristallizza vizi storici, per esempio, l’orrore relativo al lavoro (la vergogna di mani sporche e piedi sporchi può essere vista come un ostacolo ad apprezzare il lavoro, che porta a una certa forma di pigrizia socialmente determinata), e l’ignoranza di problemi concreti relativi alla produzione del benessere. Così, si arriva a bloccare l’inventiva e la creatività. Chiunque legge Machado con gli occhi di R. Schwarz riconosce la chiara analisi e il lamento del patriarcato e della cultura dei favori, e anche dell’indifferenza, le cui disastrose conseguenza saranno aspramente criticate da Euclides da Cunha. Per Stanley Cavell “tragedia è rifiuto della conoscenza dell’altro”. Per Kathrin Rosenfield, oltre al Carnevale, a quali altri momenti della cultura popolare brasiliana può applicarsi il concetto di tragedia? E ancora, quando il Carnevale acquista carattere tragico? Ho scritto qualcosa su questo nel mio primo libro su Guimarães Rosa, Os Descaminhos do Demo. Ma a quel tempo, come chi è appena arrivato dall’Europa,
non sapevo che la cultura Luso-Brasiliana non ha nessuna tradizione tragica e ha il suo fulcro invece sulla lirica, il comico e il ridicolo. È stato solo un anno dopo che ho approfondito il problema del tragico e ho scoperto che Rosa ed Euclides da Cunha sono tra i rari casi di scrittori che hanno cercato di impiantare, nella loro cultura, articolazioni tragiche – cioè formulazioni artistiche di conflitto che mostrano (e ci fanno riflettere su) contraddizioni sociali e giuridiche che dovrebbero obbligare a riscrivere costumi, leggi e sentimenti. Dom Casmurro, la storia d’amore scritta da Machado de Assis, è davvero paradigmatica della coscienza pigra di un ragazzo viziato di una famiglia brasiliana, che esercita conflitti, che potrebbero ricevere una formulazione tragica, circa dipendenti che servono come capro espiatorio. Betinho stesso, [il protagonista della storia], stabilisce il paragone con il tragico errore di Otello, ma non per cercare la verità sulla sua situazione. Anzi, per nascondere ciò che davvero succede (le proprie insicurezza e rabbia, abbandono e diffidenza) sotto una prolissa e magniloquente retorica, formule bizzarre, smemoratezza e assurdi ragionamenti la cui sola funzione è di riprodurre con modi “shakespeariani” un banale accesso di invidia, gelosia e impotenza. La mancanza di uno spirito tragico nella cultura brasiliana è percepito anche dalla chiara analisi di Oliveira Vianna quando commenta l’incapacità di creare sentimenti istituzionali e un sentimento brasiliano nazionale. Chi si deve rimproverare per questo? L’autore domanda e subito risponde: “non tanto gli uomini, ma sopratutto la nostra Storia, le condizioni in cui la nostra formazione sociale e politica si sono sviluppate... che hanno svuotato i sentimenti collettivi di una comunità nazionale e impedito la nascita di una mistica nazionale.” Ciò che fondamentalmente manca nella cultura brasiliana è l’incarnazione di danni aggrovigliati che non sono di colpa individuale, ma che nondimeno coinvolgono ogni individuo. La sfida di un tale vicolo cieco ha portato Rosa ed Euclide da Cunha a creare eroi tragici che assumessero i danni endemici come propri. Entrambi gli scrittori offrivano forme fantastiche di interiorizzazione ma sfortunatamente in un momento tardo della Storia in cui nuove forme di socievolezza (mezzi di comunicazione rapidi, industrializzazione e globalizzazione) ne bloccarono l’elaborazione e l’interiorizzazione da parte del pubblico. Ma già una decade prima, scrivendo Os Sertões, Euclides mostra la sua preferenza per l’eroismo tragico e la sua voglia di autentico conflitto, l’onesta franchezza di una lotta in cui gli avversari si espongono con tutto ciò che hanno di più caro: i loro valori, il loro onore, la loro vita. Questa è la ragione che li rende solida roccia su cui il nuovo Brasile dovrebbe essere costruito. Ulteriori informazioni sui temi di questa intervista sono disponibili negli articoli della Prof.ssa Rosenfield “O surgimento do Espírito Trágico na Literatura Brasileira”; “A incompatibilidade do Cordial e do Trágico: a propósito de Machado e Rosa, Musil e Clarice Linspector”.
discriminazione di genere raffigura la donna perfetta come una appetitosa mulata color cioccolato. Il riferimento al cibo per descrivere le caratteristiche principali della donna dovrebbe considerarsi offensivo, se non fosse per gli sforzi poetici di Ferreira. In realtà, un simile paragone non mostra niente di notevole, se non il fatto che conferma l’immagine della donna come un mero oggetto di immediata soddisfazione dell’uomo. Alla luce di quanto detto, le relazioni di genere nelle manifestazioni culturali brasiliane si possono dire piuttosto incerte. Esse sono, infatti, una emulazione di contenuto medievale europeo. E per questo tradiscono l’utopia teoretica di Darcy Ribeiro di una nuova Civiltà Tropicale. III Ora, per capire come sarebbe possibile una Civiltà Tropicale, si dovrebbe capire il fenomeno del Carnevale non come mera trasgressione di valori tradizionali imposti, ma come sintesi di valori e come un adattamento di tutte le altre civiltà che insieme vanno a dare vita ad una mentalità tropicale che accetta e produce esagerazioni. Così, la semplice emulazione di contenuto medievale europeo nelle relazioni di genere nel paese suona come un valore imposto destinato a subire un cambiamento. E un simile cambiamento può essere messo in atto se si reinterpreta il concetto hegeliano di Riconoscimento attraverso l’applicazione di corpo e sessualità come suoi possibili strumenti essenziali – il che porta a confrontarsi con il fatto che il corpo vivente è davvero parte della nostra situazione. Per la mulata della poesia di Ferreira o semplicemente per qualsiasi altra donna brasiliana, questo dovrebbe significare la possibilità di liberarsi e prendere parte veramente al processo sociale e politico di formazione di un paese e di una nuova civiltà tropicale. In questa nuova civiltà tropicale, il Carnevale giocherebbe un ruolo davvero rivoluzionario. Rimodellerebbe le relazioni affettive e il nostro modo di relazionarci con l’altro, che non va visto come una minaccia, o come lo sconosciuto assolutamente diverso; ma come uno come me, che sono in
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grado di amare. Questo sentimento estrapolerebbe relazioni particolari per occupare una funzione etica dando spazio a un riconoscimento universale e alla legittimità delle istituzioni politiche. Lasciamo che il Carnevale sia un invi-
to aperto al riconoscimento dell’altro. Nei precedenti paragrafi ho citato Pero Vaz de Caminha. Si potrebbe leggere la sua lettera con attenzione ed esaminare il modo in cui gli indiani accolsero i viaggiatori portoghesi. Sarà stato forse innocente, ma non naïf: era
riconoscimento sione paranoica e salvazionista del Portogallo e della Spagna (…)»3 avremmo forse il coraggio di sviluppare una civiltà tropicale sin dall’inizio. Questi erano i miei pensieri mentre lasciavo Galo da Madrugada ormai a pomerig-
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un approccio fenomenologico. Erano aperti e pronti ad assistere alla manifestazione dei loro omologhi portoghesi. Se solo i portoghesi avessero messo se stessi nella stessa posizione senza attribuire alla nuova terra e ai suoi abitanti il peso di essere «(…) l’esten-
gio inoltrato, ma scomparvero presto, mentre, perplessa, entravo nella notte a cercare nuove avventure. Riferimenti bibliografici Beauvoir, Simone de. Le deuxième sexe, vol I, II. Éditions Gallimard, Parigi, 1986. Beauvoir, Simone de. Por uma moral da ambigüidade. Nova Fronteira, Rio de Janeiro, 2005. Caminha, Pero Vaz. Carta a El Rei D. Manuel. Dominus, São Paulo, 1963. Grinspum, Isa. Intérpretes do Brasil. Documentary. Brazil, Versátil Home Video, 2002. Hegel, G.W.F. Fenomenologia do Espírito. Editora Vozes, Petrópolis-RJ, 2002. Holanda, Sérgio Buarque de. História Geral da Civilização Brasileira. Difusão Européia de Livros, São Paulo, 1963. Katz, Juliana de Albuquerque. Ética, Reconhecimento e Ambigüidade: um diálogo entre Hegel e Simone de Beauvoir. Universidade Católica de Pernambuco, Centro de Ciências Jurídicas, Recife-BR, 2009. Merleau-Ponty, Maurice. Phenomenology of Perception. Routledge, New York, 2002. Endnotes 1 The Tramp o Charlot: un personaggio di Charlie Chaplin. 2 «Eu vi o Gênio da Raça!!!/(Aposto como vocês estão pensando que eu vou falar de Rui Barbosa.)/Qual!/O Gênio da Raça que eu vi/foi aquela mulatinha chocolate/ fazendo o passo do siricongado/ na terça-feira de carnaval!» 3 Ribeiro, Darcy. in Ferraz, Isa Grinspum. Intérpretes do Brasil. Documentary. Brazil, Versátil Home Video, 2002. Grazie a: Marcelo Dascal, Pedro de Albuquerque e Frederico Jayme Katz per le discussioni e la pazienza. Titolo originale: Brazilian carnival: a guide for the perplexed. Traduzione di Tiziana Vox.
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REPORTAGE
Cristina Marras
VIAGGIO AL CENTRO
DELLATERRA
A
rriviamo* sull’isola, all’aeroporto di Keflavik, a metà della notte, ed è ancora giorno. Ci attende Vindur, il vento, che subito si impadronisce di noi: ci accompagnerà per tutta la durata del viaggio, un viaggio nella bellezza estrema della natura che potente e padrona ci avvolgerà e confonderà. Vindur disegna i cieli, le luci e le ombre del paesaggio, decide volubile della pioggia e del sole, decide se il nostro camminare per le strade della città, lungo i sentieri sui fiordi, le spiagge o le immense lunari distese di lava, i deserti, sarà piuttosto un sorvolare, goffo, le vastità dai colori neri e verdi cangianti, i calanchi policromi. Vindur trasforma tutto in un mutevole gioco di luci, talvolta rende i luoghi inaccessibili, talvolta li offre al nostro piacere impaziente. Così si offrono a noi anche i nomi islandesi dalla fonologia inusuale e impronunciabile. Nomi di villaggi, spesso case sparse, come Búdavik, che anche se sole e isolate, ma sicure nelle vaste vallate, fanno comunità; nomi di spiagge nere come Djúpalónssandur; di are geotermali come Kerlingarfjoll e di vulcani e ghiacciai: Snaefellsjokull, Eyjafjallajokull, Langjökull, Hofsjökull. Nomi difficili ma solo apparentemente ostili, duri, per il nostro orecchio mediterraneo, il loro suono riecheggia, scomposto, nei nostri pensieri, si lascia assaporare mentre esita e si dipana a fatica tra la lingua. Bellezza disarmonica. L’incontro con l’Islanda, con la sua gente, i suoi magnifici paesaggi senza alberi, i suoi altopiani, i suoi deserti di lava, è piuttosto un incontro con Ljós, la luce, liquida, densa, trasparente, e con il cielo che, così basso, sembra far da specchio alle splendide, aspre, e inquiete forme della terra e alle sue profondità ribollenti. Ljós ci svela l’essenza primordiale della bellezza. Lasciati i selvaggi tornanti dei fiordi, i dirupi, le piste che si perdono all’orizzonte, gli sguardi abbagliati dai ghiacciai che custodiscono minacciosi vulcani, i gayser che segnano i nostri passi e decidono del nostro camminare, Vintur ci conduce a Reykjavik. La città è bella anche senza monumenti particolari. Non lo è per le chiese, neppure per la slanciata e imponente Hallgrimskirkja
che con le sue altezze e le infinite cartoline che la riproducono, si vede e si ritrova ovunque: essa ci lascia stupiti ad un primo incontro, ma poi notiamo come ceda riluttante il posto alla natura, che prendendo il sopravvento riesce a sovrastare anche il campanile alto e appuntito fino al cielo. Non lo è per le sue case colorate, che stupiscono tanto sono vivacemente colorate ma che, lasciato il centro, diventano sempre più anonime, grige e fredde a dispetto dell’accoglienza vivace dei loro caldi interni. Bellezza e stupore. Reykjavik ha un suo ritmo vibrante, che cresce per le strade attraverso i caffè e i bar colorati pieni di musica, arredati con i rassicuranti mobili della nonna, rivestiti da tappezzeria vintage e pervasi dalla più avanzata tecnologia. La città si offre ai passanti, si lascia conquistare, assaporare. I locali del porto si propongono con i loro sapori forti, violenti per i nostri palati poco avvezzi all’affumicato e ai retrogusti di torba e muschio, hakarl (carne di squalo fatta stagionare sotto terra per molti mesi) l’hangikjot, l’agnello affumicato, il surmatur (frattaglie conservate nel latte acido di agnello o foca); i ristoranti ci invitano con variazioni sulla tradizione con piatti morbidi e cremosi, quasi evanescenti, dai sapori delicati e che, con nostra sorpresa, persistenti, avvolgono i nostri occhi e i nostri palati attraverso il ricordo. Bellezza per l’anima e il corpo. La bellezza di Reykjavik è nel suo essere adagiata con discrezione su un paesaggio al tempo stesso duro e morbido, di lava, di acqua, di vapore. I quattro elementi la sostengono, la incorniciano, la penetrano. La città gode senza stancarsi delle ore di luce estive, spasmodicamente è alla ricerca di una difesa dal vento, e si abbandona ironica agli spruzzi delle onde. La città si rimira e si riflette pettinandosi con il vento sul mare. Bellezza e incanto. Incanta Ljós, che feconda l’acqua con i sui riflessi; filtrata dai colori vivi delle case in legno e lamiera, e dal basalto dell’Alpingi (il parlamento) e della Hallgrímskirkja (i nuovi edifici che spezzano la città), si rifrange sul nero della lava e sul bianco della neve perenne, in lontananza; viene assorbita dal verde del prato della piazza Austurvöllur, e dalle macchie evanescenti di azzurro del cielo specchiato sul laghetto Tjörnin. Ljós, nel suo legame antico con Vintur, non ci ab-
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bandona mai, neanche la notte, neanche il giorno che trascorriamo incantati ad immaginarla d’inverno, nel buio… La bellezza della città non si esprime, o non solo, attraverso le sue forme artistiche. Ci lasciano interdetti le statue dal fascino oscuro di Einar Jónson, ci incuriosisce, ma non ci emoziona, la scultura con la nave vichinga sul lungo mare, Sólfar, la “nave del sole”, sempre pronta a salpare verso il mare Glaciale Artico: quando il cielo diventa cupo, assume un aspetto astratto e metafisico, creando uno spazio vuoto intorno a sè. La passeggiata da un lato all’altro del golfo Faxaflói, affacciato sull’oceano Atlantico, è lunga, e mostra tutti i contrasti di questa città: un avamposto verso i ghiacci dall’anima calda. Così pare volesse sottolineare il suo (presunto) primo colonizzatore, Ingólfur Arnarson, che insieme con l’amico Hjörleifur Hródmarsson approdò dopo esser fuggito dalla Svezia a causa di una faida, sulla “Baia Fumosa”: Reykjavik.
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Reykjavik incorniciata dal monte Esja. Bellezza, incanto e magia. Non conosco le saghe islandesi ma avverto anche in città la presenza del “piccolo popolo” che dimora a Stapafell, tra i muschi delle montagne. Leggo Viaggio al centro della terra, e sento di esserci arrivata al centro, è come starci dentro e in cima, allo stesso tempo. La natura incontaminata, desolata, disabitata anche in città, dà la sensazione di essere giunti sul bordo di una terra piatta, al confine, dolorosa frattura geologica del medio atlantico. Oltre, forse solo la casa di Ljós con le sue lunghe notti, e di Vintur con le sue raffiche sferzanti, furiose, violente. E leggo Leopardi: Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita? Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. Natura. Così fugge lo scoiattolo dal ser-
pente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi. Islandese. La Natura? Natura. Non altri. Islandese. Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere. Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Reykjavik e l’Islanda sono un film sul futuro, sono un reale paesaggio immaginario, sono avanguardia. Un film sulla bellezza dell’essenza della Natura rifugiata alla fine del mondo. Natura che ci ricorda, così come ha fatto di recente con Eyjafjallajokull, che a lei e alla sua bellezza drammatica e sublime l’uomo non può certo sfuggire. * Viaggio in Islanda con Federica Angelucci, esperta e attenta viaggiatrice.
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EROS E CINEMA IL LUNGO ADDIO Massimo Giraldi
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l rapporto fra eros e cinema è ormai concluso. Se aggiungiamo ‘forse concluso’, è solo per conservare quel doveroso margine di imprevedibilità che sarebbe doloroso ammettere di non avere più per il futuro. Non possiamo però fare finta di niente ed illuderci che l’eros possa contribuire a rilanciare nuove modalità espressive del cinema. Bisogna allora partire da una rapida ma sufficiente radiografia sullo stato di salute dei due termini in oggetto. Per l’eros: “Si può e si deve distinguere tra erotismo e pornografia al cinema come negli altri mezzi d’espressione. Senza dimenticare, però, che tra l’uno e l’altra esistono numerose passerelle. Attenzione anche all’argomento del ‘buon gusto’, è una nozione di classe sociale”. Così Morando Morandini nel capitolo Dizionario in “Il sorriso di Dioniso. Cinema e psicoanalisi su erotismo e perversione” (Alinea editrice, 2002). Se il riferimento a ‘nozione di classe sociale’ denota una scelta linguistica di stampo vetero marxista un
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po’ datata ma non del tutto inopportuna, sul resto c’è poco da aggiungere. La differenza tra erotismo e pornografia è un dato sul quale c’è accordo ampio tra critica e industria. E il motivo di questo accordo non è certo contenutistico ma squisitamente commerciale. E’ stato ed è interesse delle due componenti tenere una linea di confine tra i due aspetti soprattutto in vista dello sfruttamento (è il caso di dire così) dei prodotti: in sala fino alla fine degli anni Ottanta, nei VHS, nei DVD, su Internet successivamente. In sostanza il film ‘erotico’ doveva, per necessità diciamo ‘operative’, farsi distinguere da quello ‘pornografico’: altra circolazione, altra distribuzione, altro spettatore. L’esempio più calzante nel cinema italiano resta quello di Tinto Brass. Regista da giovane di bella personalità, dopo alcune provocazioni confuse in anticipo sui tempi, costruisce nel 1983 con La chiave una storia nella quale il rapporto tra segno narrativo e sguardo voyeuristico comincia a perdere di vita il giusto punto di equilibrio. Da lì in
poi quel rapporto penderà sempre più dalla parte del secondo, svuotando progressivamente di senso il racconto e risultando così sempre meno appetibile per uno spettatore in realtà difficile da individuare. E’ molto istruttivo in questo senso andarsi a rivedere le pagine pubblicitarie dei film sui quotidiani tra anni Settanta e Ottanta. I cosiddetti tamburini accompagnavano l’uscita di un film nelle sale con strilli che, per essere convincenti e invoglianti, dovevano puntare sul ‘mai visto prima’ e simili. Frasi e immagini (anzi, disegni) oggi impensabili per quella sorta di autocensura indotta non tanto da una scelta di sensibilità quanto proprio dalla consapevolezza del ‘già visto’. La perdita della dimensione di conquista sostituita dall’apparente facilità di sapere tutto e subito ha restituito un eros quasi depotenziato, espulso dal suo naturale posto nella costruzione della psiche individuale, collocato ai margini rispetto alla spinta che invece infonde in ogni azione umana. Per il cinema, non c’è frattura ma im-
mediata conseguenza. Nel “Bacco e Arianna” datato 1619-1621, Guido Reni esplode in un accordo di nudità tanto plastiche nel corpo quanto incerte nell’espressione; tre secoli dopo in “Interno di mattina”, olio su tela 1931, Fausto Pirandello colloca una donna a seno nudo in uno spazio tanto affollato quanto indifferente : forse l’incontrollato straniarsi della ‘normalità’. Il cinema, si sa, nasce voyeuristico. E non può essere altrimenti: invitati come siamo ad accostarci a storie che non dovrebbero interessarci, permettiamo loro di interpellarci e dopo, ma solo dopo, decidiamo se arrivare o meno fino in fondo. E’ l’atto del guardare ad autorizzare la nostra presenza. Forse solo la differenza tra contemporaneità e distanza temporale può creare qualche scompenso, anche se tendiamo a rapportare su noi stessi i modi e i comportamenti narrati. Se il cinema, anche quando affronta il passato e il futuro, parla d’amore e di sesso, allora l’atteggiamento giusto per capire qualcosa sull’eros è nelle storie in ‘tempo reale’.
Quelle che ci hanno detto, nel momento della realizzazione, cosa succedeva e quali reazioni accadevano. Il cinema italiano ha fatto così, scontando una voglia covata a lungo da origini letterarie e teatrali. L’immagine in movimento ha liberato fantasie e spinto a sfidare l’ignoto: verso la comprensione del segno, prima che verso quello del significato. Cinema italiano, da quando: l’eros accennato e insinuato degli anni Trenta è sviante. Non si tratta infatti di mettere in statistica momenti di donne più o meno discinte, quanto di cogliere spunti di situazioni non del tutto innocenti. Per capirsi, bisogna (ri)vedere le sequenze dell’incontro tra Amedeo Nazzari e Doris Duranti in E’ sbarcato un marinaio di Piero Ballerini (1942). L’anno non è scelto a caso. E’ lo stesso in cui viene realizzato il film che dà il via ad un ideale percorso, dagli anni Quaranta ad oggi, dentro i modi dell’eros nel cinema italiano. Cinque tappe che, attraverso i decenni, cercano di muoversi tra autorialità e
commercio, sempre tenendo in primo piano la capacità di cogliere mutamenti, segnalare spostamenti, anticipare opinioni. Si comincia con Ossessione di Luchino Visconti (1943); si prosegue per i ’50 e i ’60, con Dolci inganni di Alberto Lattuada (1960); per i ’70 e gli ’80, con Identificazione di una donna di Michelangelo Antonioni (1982); per i ’90, con Diario di un vizio di Marco Ferreri (1992). Infine si va a concludere per il primo decennio del Duemila con E adesso sesso di Carlo Vanzina (2001). Da Visconti a Vanzina. Il prevedibile disappunto di chi non gradisce l’accostamento potrebbe trovare immediata smentita nella sincera ammissione che il cinema italiano non sarebbe stato lo stesso se nell’immediato dopoguerra la commedia, traliccio portante del costume nazionale, non fosse intervenuta a salvare i flop al botteghino di quasi tutti i film neorealisti: almeno da quando, al termine della stagione settembre 1948-agosto 1949, lo scatenato I pompieri di Viggiù dell’impeccabile Mario
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Mattoli incassò 397.000.000 e Ladri di biciclette appena 252.000.000 (prezzo medio del biglietto: lire 88,1). Cinque titoli dunque con due autori venerati, e al di sopra di ogni sospetto, Visconti e Antonioni; un regista artigiano di alto livello, Lattuada, capace di districarsi tra vari generi, garante dell’esordio di Fellini in Luci del varietà, scrutatore inquieto di figure femminili nella parte finale della carriera; un non classificabile come Ferreri, caustico cantastorie di amarissime parabole esistenziali; una coppia (Carlo regista, Enrico sceneggiatore) che da oltre trenta anni mette a ferro e fuoco gli evidenti vizi e le nascoste virtù degli italiani, aggiornando al terzo millennio la lucida, piana, implacabile lezione del padre Stefano Vanzina in arte Steno. Da qui passano diverse concezioni dell’eros, che non vogliono dire rappresentazioni più o meno esplicite di incontri ravvicinati ma capacità di rompere la corteccia del quotidiano per entrare sottopelle. E segnare esaltazioni e disagi. OSSESSIONE - Girato, come si sa, dal 15 giugno al 10 novembre 1942 tra Comacchio, Ferrara, Codigoro e Ancona, presentato in una rapida anteprima a Roma nella primavera del 1943, ritirato, riapparso sporadicamente in alcune città, a Milano nel maggio ’44 e finalmente di nuovo a Roma nell’aprile 1945, Ossessione è la seconda versione al cinema del romanzo ‘Il postino suona sempre due volte’ dell’americano James Cain, dopo quella del francese Pierre Chenal del 1939. Possiamo, volendo, provare a dare per acquisita, la conoscenza della trama, che ruota attorno al terzetto Giuseppe Bragana, sua moglie Giovanna e lo sconosciuto Gino. Anche il ruolo del film come capofila del neorealismo è ampiamente definito (stabilire inizio e fine del neorealismo è un affare complesso, passiamo oltre). Andiamo all’essenziale: l’ambiente esterno (i canali della bassa), quello interno (l’osteria), la coppia, il nuovo arrivato (nel 1968 Pasolini riprenderà la situazione in Teorema ma al posto di proletari, ci saranno alti borghesi), l’attrazione.
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Forse è il diverso coagularsi di questi elementi a creare le premesse della novità. L’attrazione comincia infatti subito su un doppio binario: Gino, canottiera sudata, cappello spostato, giacca a mano fronteggia Giovanna, sguardi a tavola, silenzi, occhiate dietro al finestra. Non c’è più solo la ‘lei’ ma anzi ‘lui’ c’è, “senza passato, senza futuro” (dice), fascinoso e spudorato, uomo inevitabile oggetto di desiderio. “Quando ti sei accorto che mi piacevi ?” chiede lei, dopo il primo rapporto. Di cui, è ovvio, non si vede niente, ma non ce n’è bisogno. Si capisce quando arriva la frase, inesorabile: “Così in tre non si può andare avanti”. L’incanto descrittivo di Visconti è nel saper coniugare eros e innamoramento, nel confondere una linea di confine impossibile da tirare. L’amore folle è scappatoia per uscire dal tunnel di una incertezza bellica stupendamente mai esplicitata ma presente nel ‘peso’ delle situazioni. Non c’è la guerra ‘storica’, perché il regista milanese coglie il sentimento come ferita profonda, il rapporto d’amore, la maternità, come spiragli di un futuro rinnovato che però non paga. La purezza debilita, e Giovanna non arriva in fondo. E in genere non ci arriva chi resta prigioniero dell’assoluto naturale posseduto da Gino: una malia che strega in silenzio il timido Spagnolo (Elio Marcuzzo, poi fucilato dai partigiani come collaborazionista). E’ un fatto che, al tirar delle somme, Massimo Girotti possiede un fascino certo più alto di quello di Clara Calamai. Visconti lo sa, e lo fa capire. Per questo Ossessione crea scompiglio nel cinema italiano. Perché lo sguardo vigile del regista esordiente asciuga ogni possibile dispersività, segue i sentieri dell’amore che fa male, che non consola, perlustra gli anfratti della labile commistione tra psicologia, interiorità, incapacità di credere. Liberando l’eros, pur senza avere bisogno di parole ma facendo parlare le immagini, il film diventa un grido appassionato di libertà, senza lieto fine. Libertà di sprigionare le energie dell’uomo e della donna, senza vincoli. Libertà civile e dopo, ma solo dopo, forse anche politica.
DOLCI INGANNI - Quando nel 1960, Dolci inganni esce nelle sale, Alberto Lattuada ha 46 anni e 14 film alle spalle (a partire da Giacomo l’idealista, 1943, e con in più Gli italiani si voltano, 6° episodio de L’amore in città). Il regista milanese è reduce da La tempesta, kolossal internazionale realizzato grazie ai potenti mezzi messi insieme da De Laurentiis. Ma prima di quello c’era stato Guendalina, 1957, ambientato in una Viareggio “silenziosa e malinconica” (Claudio Camerini, Lattuada, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, 1981). Secondo alcuni è dalla Guendalina di Jacqueline Sassard che nasce la Francesca di Catherine Spaak. Di Francesca, sedici anni, vediamo un solo giorno nella vita, ma quello decisivo. Quello in cui decide di compiere il passo che la fa diventare donna. Nei 4’ 26” della sequenza iniziale, il regista riesce magistralmente a descrivere un turbinio di agitazione interiore che potrebbe anche non avere un seguito, tanto è autonomo e compiuto. Se ci sono altri 90’, è solo perché la solitudine è incapace di dare ai moti dell’anima quel completamento portato dagli spostamenti del corpo. Francesca va a scuola, poi nella casa di mode, cammina in città, si aggrega al fratello, arriva a Marino nella villa che Enrico sta restaurando. Enrico ha 37 anni, “Ti amo Enrico, ti giuro che ti amo” dice lei. Vanno a fare spesa dal salumiere, tornano, e la stanza da letto li accoglie. Per Francesca è la prima volta. E dopo “Sei triste?” chiede lui. Non si tratta di tristezza, è diverso…” risponde lei. Tornano a Roma, e lo sguardo della ragazza è interrogativo e meditabondo. Cinquanta anni dopo, Dolci inganni mantiene una grazia e una intensità espressive che si direbbero moderne, se la modernità lo meritasse. Lo smarrimento di Francesca, il suo cercare di capire che cosa le riserverà la vita dopo aver aperto lo scrigno dell’amore rappresentano tremori senza tempo. Lo slancio del corpo, le pulsioni della carne, le ragioni del cuore: una testimonianza decisiva sugli snodi di una difficile stagione del cuore.
IDENTIFICAZIONE DI UNA DONNA – Nel 1982 Antonioni torna a girare in Italia su pellicola dopo quasi venti anni (da Deserto rosso, 1964) ma si tratta di un ritorno quanto mai faticoso. Come si ricorderà, Tomas Milian è Niccolò, un regista colto nel momento di passaggio, ossia quando pensa a quale storia dirigere. Che il ferrarese non abbia le idee tanto chiare lo si capisce da una delle prime battute. Dice Niccolò: “Mi sento a disagio quando non riesco a visualizzare la persona con cui parlo al telefono”. Insomma un problema di comunicazione, nel quale Antonioni vorrebbe sintetizzare la triste eredità dei secondi anni ’70 italiani, terrorismo, brigate rosse, omicidio Moro, dimissioni di Leone. E dice: “Che senso ha una storia d’amore in questo sfacelo ?”: Così arriva dapprima Mavi, e poi Ida, e in mezzo altre ragazze, una quella della piscina, sollecitata da Niccolo, chiarisce: “Mi piace masturbarmi, con una donna è meglio”. Mavi è bella, spigliata, e Niccolò la insegue sull’ampio letto; anche Ida ha poche remore ma il copione le assegna altri luoghi di intimità (in bagno). Mavi e Ida sprigionano erotismo ma sensualità ridotta. O forse è Niccolò/Antonioni a non capire, a guardare senza vedere, a cercare alibi per la storia che non trova. Identificazione di una donna è un film a spinta centripeta: parte dall’esterno e si chiude su stesso. Eppure resta esemplare per dire come la stagione della grande invasione filmica softhard core italiana sia naufragata sulle sponde opposte o di una volgare goliardia o di una asfittica autorialità. Ci sono sequenze forti nel film, si parla senza giri di parole, si fa politica con qualche incertezza; eppure di fronte al tridente sesso-amore-fantasia, Antonioni e i suoi coautori Brach e Tonino Guerra sembrano arrancare, smarriti e dispersi. E a Niccolò non resta che rifugiarsi nella fantascienza. DIARIO DI UN VIZIO – “Buona Pasqua maledetti !”. L’invettiva, disperata, viene gridata da Benito Balducci la sera
quando torna nella stanza che ha in affitto in un modesto appartamento. Ha comprato una colomba, ha speso 25mila lire, e nessuno lo accoglie. Allora comincia a mangiarla da solo, la colomba, e si mette a piangere. E’ il 1992 quando Marco Ferreri gira Diario di un vizio, proveniente, a ritroso, da La carne, La casa del sorriso, Come sono buoni i bianchi, I love you. In quest’ultimo ci sono precedenti diretti, e ancora prima, in L’udienza e in Dillinger è morto. Ferreri è il cantore della difficoltà di convivere, dell’incapacità di esprimersi, dell’impossibilità di relazionarsi con gli altri. Già corteggiata e circuita negli esempi sopra indicati, la solitudine diventa molesta e lubrica protagonista nell’amara parabola esistenziale di Benito. Nella Roma in fase di trasformazione d’inizio decennio, il giovane vive con un subappalto di vendita di detersivi all’ingrosso. Sarebbe un precario, ma la definizione ancora non esiste. Vive in una cameretta, si sposta sui tram, cerca di concludere qualche affare senza crederci troppo. E, soprattutto, a dire il vero, è tutt’altro che solo, perché ha una ragazza fissa, Luigia aspirante attrice, e cerca rapporti carnali con ogni donna che incontra. E tiene un diario di queste esperienze. “Rapporto con Elle all’EUR. Euforia entusiastica meravigliosa. Prima di toccare erezione e venuto con lei”. Il diario è una scelta di sceneggiatura forte e decisiva. Ferreri scombina il rapporto del punto di vista, confonde le prospettive, costruisce alla perfezione il disegno di un disagio che non è ancora follia. La sensualità di Luigia è tutt’uno con la convinzione di Benito che solo il contatto tra i corpi può ritardare la fine. “Sono stufo di questa vita da galeotto” dice in un passaggio, e anche andare a Cinecittà, luogo di sogni, non smuove la sua paura. Scandito dallo sguardo costantemente corrucciato di un inatteso Jerry Calà, il dramma cresce e si fa tanto più profondo, quanto riesce a fare a meno di gridare, urlare, creare scompiglio. Quello di Benito è un vizio assurdo, un male di vivere che si insinua negli interstizi della pelle e blocca ogni reazione. Il copione dà ampio spazio
all’erotismo, ma in funzione tutt’altro che consolatoria. Il pianto strozzato prevale sul riso, e il film diventa la radiografia, spietata e implacabile, di un punto di non ritorno, di una ‘libertà, sessuale e sociale, che non ha portato ma anzi ha negato la felicità promessa all’individuo. Un manifesto per gli anni Novanta di agghiacciante sincerità. E ADESSO SESSO – Il quinto titolo è una commedia. Non solo per le ragioni esposte all’inizio, ma perché esemplarmente riassuntiva di una deformazione espressiva che si appresta a spezzare i legami con il passato. E adesso sesso esce nel 2001, è il film numero 37 firmato da Carlo regista e dal fratello Enrico Vanzina a partire da Luna di miele in tre (1976). Una cronaca puntuale, affettuosa, mai ruffiana dei mutevoli umori italiani, quelli che cambiano, quelli che restano sempre lì: da Vacanze di Natale (1983) a Yuppies, i giovani di successo (1986), da Miliardi (1991) a Selvaggi (1995). Qui si recupera fin dal titolo la parola (sesso) chiave del cinema italiano dal 1968 in poi, e si dà spazio al genere ‘ad episodi’, fortunatissimo nel decennio dei Sessanta, e ora quasi al capolinea. I Vanzina però ne fanno tesoro: 8 episodi, per parlare di giovani e telefonini; fughe d’amore; avventure esotiche senza sbocco; caserecci scambi di coppie; calendari e pallone. C’è tutto, c’è l’Italia del terzo millennio, c’è un Paese timoroso di rimettersi in gioco e di lasciare il certo per la novità. C’è la voglia di erotismo e l’ipocrisia di parlarne. C’è la conferma che all’aprirsi del Duemila, il “far vedere” serve a poco o a nulla. I rapporti tra uomo e donna (o altre combinazioni) stanno per diventare abitudine e quindi depotenziamento di qualunque struttura narrativa. Da li in poi la commedia dei Vanzina torna a dirci che alludere è meglio che dire a chiare lettere. Per non cadere, ad esempio, nelle parti ‘erotiche’ ma a dire il vero solamente didascaliche dell’ultimo film di Silvio Soldini, Cosavogliodipiù. Fra eros e cinema bisogna ricominciare tutto daccapo.
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Silvia Di Pietro
Un’estetica collaterale
La filosofia dell’arte di Arthur C. Danto Warhol Brillo boxes! | richard winchell - richard winchell | licenza Creative Commons su www.flickr.com
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n’estetica collaterale
La vicenda intellettuale di Arthur Danto è una sintesi originale di prospettive diverse. L’iniziale vocazione artistica, si intreccia con studi teorici di stampo analitico e con un costante impegno come critico d’arte. Il complesso rivela la singolare posizione che questo autore occupa all’interno del dibattito estetico-filosofico contemporaneo. Danto ha respirato l’atmosfera artistica newyorkese degli anni Sessanta dello scorso secolo, un’epoca che, più di ogni altra, ha segnato gli sviluppi storici del “fare arte”. Il panorama artistico rivelava un’eterogeneità tale da negare la maggior parte degli insegnamenti teorici tradizionali, come lo stesso Danto confessa: «Nulla di quanto appresi negli autorevoli testi di estetica sembrava, anche solo alla lontana, legato a ciò che stava accadendo in arte» (Danto 2008, 25). L’esigenza di ripensare lo statuto dell’arte, gli è stata dettata dal bisogno di mettere in sintonia la teoria con ciò che si incontrava nei musei americani in quegli anni: la prassi artistica rivelava che il concetto di arte aveva assunto un’estensione tanto ampia quanto problematica. Gli artisti iniziavano a liberarsi dai canoni e dalle convenzioni pittoriche mettendone in discussione l’esistenza stessa, così facendo mettevano in crisi tutti gli imperativi su come dovesse presentarsi un’opera d’arte per essere tale. Non si è trattato di una mera negazione di categorie come quelle di ‘gusto’ o di ‘bello’ bensì di un’emancipazione che confutava una concezione auratica di arte. Basti pensare alle produzioni della Pop art che si appropriava di oggetti, etichette, illustrazioni proprie della grafica pubblicitaria, trasferendo nei musei il linguaggio massificato della società dei consumi. Il risultato era un’estetizzazione dell’immaginario grafico popolare, una “trasfigurazione del banale”. La storia dell’arte stava producendo artefatti innegabilmente somiglianti agli oggetti reali,
tanto da risultare “indiscernibili” da questi, quindi se non fossimo al corrente del loro statuto artistico, diremmo comuni. La speculazione dantiana va letta e inserita all’interno di questo contesto storico-culturale, popolato da oggetti del tutto comuni elevati a prodotti artistici. La “grandiosa portata critica” che egli riconosce al movimento Pop, consiste nell’aver reso impossibile dichiarare, limitandosi alla semplice osservazione delle opere se si tratti di arte o semplicemente di altro. Sapere che qualcosa è un’opera, una copia, un semplice oggetto o qualcosa che sta nel mezzo richiede un riconoscimento diverso, uno sforzo di natura cognitiva piuttosto che percettiva. In tal senso l’incontro con le opere di Andy Warhol alla Stable Gallery nel 1964, rappresenta una sorta di experimentum crucis nel sistema dantiano: un centinaio di scatole Brillo disposte nella sala del museo come nel magazzino di un supermercato, convinsero Danto che si era arrivati a un punto tale che opere e oggetti non differivano esteticamente. Le Brillo Box di Warhol, nella visione dantiana, hanno portato a piena consapevolezza una domanda fondamentale: a quali condizioni si può dire che qualcosa è un’opera d’arte? Porre un simile quesito significa riconoscere, problematicamente, che ciò che segna la differenza tra opere d’arte e oggetti reali non è riconducibile all’universo del visibile, quindi non è indagabile attraverso i sensi. E’ dunque necessario ripensare filosoficamente i confini dell’arte per tracciare un distinguo. Trovare esposti nei musei opere indiscernibili da oggetti quotidiani, diventa l’occasione per ripensare ad una questione filosofica antica e complessa che investe l’ontologia stessa dell’opera d’arte: cosa differenzia le prime dai secondi? Veniva meno l’assunto secondo cui le opere d’arte sono in possesso di una forte identità precostituita, grazie alla quale sono facilmente distinguibili dagli oggetti comuni1. Bisognava dunque ammettere che le
qualità sensoriali, tangibili, materiali di un oggetto d’arte non provocano naturalmente risposte estetiche, quest’ultime, infatti, non sono pensabili indipendentemente dai contesti storico-culturali. Concetti come quello di ‘gusto’ e di ‘bello’ non possiedono un significato distaccato dalla storia, al contrario, sono nozioni profondamente legate a una dimensione storico-temporale che conferisce loro senso e valore. Perciò non si dà alcun apprezzamento estetico delle opere d’arte al di fuor di una consapevolezza storica, capace di collocarle in un preciso contesto storico-culturale. La domanda fondamentale che Danto solleva nei suoi scritti è dunque: come è possibile che un qualcosa sia un’opera d’arte in un determinato momento storico quando non avrebbe avuto affatto quello status in un altro? Il saggio The Artworld, è il primo tentativo di formulare un’ontologia dell’arte volta a chiarire la natura di opere “indiscernibili” dai meri oggetti, poiché condividevano con questi tutte le proprietà aspettuali. Questa bizzarra confusione investe una questione che interessa l’indagine filosofica fin dai tempi di Platone: la possibilità di tracciare una distinzione tra arte e realtà. Ciò che la scatola Brillo sovvertiva era l’insegnamento platonico, secondo cui l’arte non produce vera conoscenza, επιστήμη, dal momento che relega lo sguardo dell’uomo all’universo della πίστισ. Platone riteneva superiore l’operato di un artigiano rispetto a quello di una rappresentazione artistica, intesa come μιμητιχή τέχνη, poiché mentre il primo attinge direttamente all’Idea dell’oggetto, grazie a un rapporto di ‘metessi’, il secondo si arresta a un rapporto di ‘mimesi’, ottenendo una mera riproduzione di immagini. Si segnava così una distinzione tra quelli che sono oggetti e quelle che sono immagini di oggetti; la realtà da un lato, l’apparenza dall’altro2. Il tentativo platonico di tenere rigorosamente divise l’identità dell’arte e della realtà si è rivelato de-
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indiscernibili stituente, poiché ha relegato la prima in una categoria ontologica inferiore che ha stabilito il primato della filosofia sull’arte. Tale impostazione ha permesso di identificare, erroneamente, l’essenza dell’arte con la mimesi e il fine dell’attività artistica con la fedeltà al reale. Tuttavia, secondo Danto, le avanguardie, andavano cancellando proprio tale distinzione, attuando una progressiva “promozione ontologica”, volta a far collassare il divario con la realtà: non era più possibile intendere la loro differenza in termini puramente visivi. Con il termine “visivo” Danto intende, riduttivamente, l’intero ambito estetico-percettivo. L’indiscernibilità non potendo essere dissipata tramite l’osservazione, rimanda a un atto cognitivo capace di cogliere quelle qualità relazionali, invisibili, che rendono un oggetto un’opera d’arte. Per inferire che qualcosa è un’opera d’arte, dunque, la sola osservazione non basta. L’ingresso di opere indiscernibili dai meri oggetti sposta la questione dall’universo aspettuale, percettivo (mimetico-platonico) a quello cognitivo. Il fatto che opere d’arte e meri oggetti siano arrivati a confondersi nelle sale dei musei ha un’altra implicazione importante nella filosofia dantiana: nessun elemento percepibile dell’arte è in grado di far avanzare la storia dell’arte. La storia ha come scopo principale quello di “narrare fatti”, perciò si delinea in termini di “grande narrazione” che va intesa non solo come progressivo succedersi delle produzioni artistiche, ma anche come tentativo di comprendere la natura di tali produzioni. La storia dell’arte si configura quindi come un’indagine sull’identità dell’arte stessa, una ricerca di stampo hegeliano della sua essenza. Tuttavia tale ricerca si è tradotta nella produzione di artefatti indiscernibili dagli oggetti reali e ciò, nella lettura dantiana, segna la fine della ricerca. La domanda fondamentale sull’arte è stata sollevata, dal Pop, questo coincide con un’emancipazione dell’arte dalle strutture filosofiche e storiche. L’esito ultimo è un affrancamento dell’arte dalla filosofia, che smette di essere una forma destituente volta
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a stabilire il compito dell’arte: le opere della contemporaneità dimostravano di aver assorbito al loro interno una riflessione sulla propria essenza e sui propri mezzi di manifestazione. Così si conclude il processo storico che ha visto l’alternarsi dei manifesti delle avanguardie, ciascuno dei quali, alla ricerca dell’ essenza dell’ arte, si risolveva con una pretesa fondazionalista e una conseguente epurazione dell’ ‘altrimenti’. Ogni singolo movimento, infatti, si confrontava sempre più con l’aspetto teorico dell’arte ripensando alle condizioni stesse del rappresentare, così facendo si poneva come l’unica forma d’arte valida. La fine della parabola narrativa dell’arte non implica che il Pop ne rappresenti il telos, dopo l’avvento del pop scrive Danto «Ebbi la strana sensazione che non ci sarebbero più stati passi in avanti a continuare l’ordinato sviluppo dell’arte». Questa rivelazione è un’acquisizione liberatoria: qualunque cosa può divenire un’opera d’arte, significa pluralismo assoluto segno e conseguenza di una libertà artistica mai sperimentata prima. Uno dei punti più delicati della speculazione dantiana è dato dalla volontà di conciliare l’impostazione essenzialista con quella storicista. Il primo aspetto, riconducibile alla formazione analitica, si traduce nella ricerca di una definizione di arte universalmente valida; il secondo è dettato dal bisogno di rispondere a un ambiente teorico che tendeva a separare storia e teoria. Abbiamo quindi da una lato un filosofia analitica dell’arte, dall’altro una filosofia della storia dell’arte. La mossa teorica che connette i due aspetti e allo stesso tempo mette al riparo il tentativo definitorio dalle possibili confutazioni provenienti dai fatti storici, è la ripresa dello storicismo hegeliano. Le Brillo Box confutavano tutte le teorie artistiche precedenti, fra le quali era diffusa l’idea che «la classe delle opere d’arte non è un genere naturale, identificabile sulla base di criteri percettivi» (Danto 1992, 181). L’arte contemporanea, al contrario, ha mostrato che la classe delle opere d’ar-
te non è un genere naturale per questo la distinzione tra opere d’arte e semplici cose non è di natura estetico-percettiva. A Danto interessa dimostrare la non pertinenza dell’estetica al fine di individuare l’essenza dell’arte: in primo luogo perché l’interrogativo sollevato dagli indiscernibili esula dall’ambito estetico, in secondo luogo perché gli attributi estetici sono iscritti storicamente e non naturalmente nella nozione di opera d’arte. L’autore si rifà a un acuto pensiero di Barnett Newman: “L’estetica è per l’arte quello che l’ornitologia è per gli uccelli”, è in questo senso che l’estetica è collaterale rispetto all’arte.
1.1 La modularità percettiva. La principale giustificazione del metodo dantiano è costituita dall’argomento degli indiscernibili3, il quale stabilisce che a livello di percezione sensibile, tra la Brillo Box di Warhol e quella del supermercato non c’è alcuna differenza rinvenibile attraverso lo sguardo. La discriminante è di natura ontologica e non ha nulla a che vedere con l’estetica, intesa come teoria della percezione circoscritta un’esperienza sensoriale. La lettura riduzionista dell’estetica si giustifica alla luce di una concezione modulare dell’atto percettivo quale momento prestrutturato e isolato rispetto al cognitivo. Alla luce di ciò si comprende come, secondo Danto, le conoscenze storiche e teoriche non condizionano la visione al punto da farci percepire la realtà in modo diverso da quella che è. La percezione visiva non è un fenomeno storico-culturale bensì biologico, perciò qualsiasi informazione possiamo avere circa un oggetto, questo continuerà ad apparirci sempre nello stesso modo, come dimostra la persistenza di alcune illusioni ottiche4. Danto ammette che c’è un substrato biologicamente immutabile della percezione, grazie al quale il mondo ci appare sempre nello stesso modo poiché il sistema percettivo umano, a livello di funzioni biologiche primarie, non si modifica
FIVESTEPSWITH
ARTHUR C. DANTO
d’arte? The Transfiguration of the commonplace ha cambiato la mia vita. L’opera è stata ampiamente discussa all’interno dei circoli di New York e grazie a questa mi hanno chiesto di scrivere di critica d’arte sulla rivista The Nation. Ho scritto per tale rivista per 25 anni circa. La mia attività di critico d’arte è un’applicazione della mia filosofia. Nella Trasfigurazione ho infatti definito le opere d’arte come ‘significati incorporati’ (embodied meanings) non a caso la mia attività critica consiste nell’identificare il significato delle opere e mostrare come esso sia incorporato in esse. 4 Perché l’arte di Warhol segna la fine della storia dell’arte? Cosa significa in sostanza la definizione “post-storico”? Le Brillo Box di Warhol sono opere d’arte che si presentano identiche ai semplici oggetti. Se le scatole Brillo di Warhol sono opere d’arte allora qualsiasi cosa poteva essere tale. A quel punto nessuno poteva dire con precisione quando qualcosa ha uno status artistico. Ho quindi pensato che questo fatto segnava la fine dell’opera d’arte intesa come oggetto che appare in una determinata maniera. Era la fine dell’arte, e l’arte prodotta in seguito sarebbe stata post-storica.
1 In che periodo storico inizia la sua riflessione estetica? All’inizio ero intenzionato a diventare un’artista. Ebbi un discreto successo come grafico. Tuttavia ero un veterano della seconda guerra mondiale e avevo diritto ad alcuni anni di istruzione gratuiti. Decisi di studiare filosofia alla Columbia University, sebbene divenire filosofo non era la mia massima aspirazione. Ho studiato con Suzanne K. Langer, la quale certamente ha avuto una certa influenza su di me: è rimasta molto colpita da un saggio che avevo scritto sulla terza critica di Kant. Questo fatto mi ha permesso di rendermi conto delle mie capacità filosofiche. Così nel 1949 ho vinto una borsa di studio Fulbright e ho avuto l’occasione di studiare a Parigi. Ho frequentato la Sorbona, ma comunque continuavo a coltivare gli interessi artistici. Ero molto interessato all’espressionismo astratto, un movimento molto interessante a mio parere. In seguito ho avuto una cattedra e di filosofia all’università del Colorado, dove ho avuto occasione di confrontarmi con dei giovani filosofi che mi spiegarono la filosofia analitica, una corrente che si è rivelata parecchio interessante. Così ho iniziato a scrivere degli articoli filosofici e quando sono rientrato a New York ho avuto occasione di fare strada come filosofo. Non ero comunque ancora interessato alle questioni estetiche, il mio interesse era rivolto alla filosofia del linguaggio e alla filosofia della scienza. Di fatto, tra filosofia e arte, non intravedevo delle connessioni che potessero coinvolgermi.
2 Quali sono stati i suoi maestri? Non ho mai incontrato un filosofo estetico, propriamente detto, che mi inspirasse, piuttosto ho conosciuto uno storico dell’architettura, Rudolf Wittkower. I suoi scritti per me sono stati di capitale importanza: imparai come analizzare edifici e ho sviluppato un certo interesse per l’architettura barocca, il suo campo prediletto. Passai un po’ di tempo a Roma a studiare Bernini e Borromini. Mentre ero in Europa ho tuttavia deciso di abbandonare l’arte. Rientrato a New York ho avito modo di conoscere la Pop Art rimanendone colpito. Una mostra di Warhol alla Stable Gallery nel 1964 mi ha permesso di scoprire come connettere l’arte e la filosofia analitica. Quello stesso anno ho scritto l’articolo The Artworld, che ha avuto un forte impatto nel panorama della filosofia estetica. Nel 1965 ho pubblicato due libri: Analytical Philosophy of History e Nietzsche as Philosopher. Ero convinto che la rappresentazione fosse il concetto centrale della filosofia e volevo scrivere un’opera in 5 volumi su tale argomento. Il primo volume sarebbe stato un libro sulla storia, a seguire uno sulla conoscenza, uno sull’azione e uno sull’arte e psicologia. Non ho mai scritto l’ultimo volume anche se lo scritto Connection to the world chiarisce l’intero programma. L’opera The transfiguration of the Commonplace, in realtà, non voleva essere un volume sulla filosofia analitica dell’arte. 3 In che maniera le sue idee filosofiche sono collegate con la sua attività di critico
5 Può brevemente delineare il concetto di “abuso della bellezza”? All’epoca si era convinti che l’arte, per essere tale, dovesse essere bella, questo fino al il 1915 circa. Il movimento Dada, per primo, ha deciso di fare un’arte che non fosse bella. Perché mai gli artisti avrebbero dovuto fare belle opere per una classe politica responsabile del conflitto mondiale? È come se gli artisti da allora fossero entrati in sciopero per quanto concerne la produzione del bello. Da qui il sospetto che un simile concetto non faccia parte dell’essenza dell’arte. 6 Può spiegare i due concetti fondamentali di “modularità della percezione” e “storicità dell’ occhio”? La percezione è modulare nel senso che è autonoma e organata per assorbire informazioni. Storicità dell’occhio, invece, significa che noi non vediamo delle cose come oggetti aventi una storia, solo grazie all’interazione cognitiva sappiamo che essi ne hanno una. 7 Come possiamo pensare oggi la bellezza? Ho provato ad elaborare un senso per cui le opere d’arte si possono definire ‘belle’ se la bellezza è parte del significato di qualcosa. Ho scritto un’opera sull’Abuso della bellezza che spiega perché tanta arte non è bella, ma questa è una lunga questione.
fine della storia «almeno nel senso di una ristrutturazione della capacità umana di riconoscere percettivamente gli oggetti in forza del modo in cui questi appaiono» (Danto 2007, 52). E’ dunque diverso affermare che il contesto storico-culturale può influenzare il contenuto della percezione e credere invece che quello stesso contesto, possa modificare la facoltà percettiva: si tratta di stabilire se assegnare alla percezione un ruolo passivo o costitutivo. Un’immagine può apparire differentemente a seconda dei contesti storico-culturali, ma questo non vuol dire che l’occhio subisce trasformazioni, allo stesso modo le diverse modalità di produzione delle immagini non sono frutto degli effetti della conoscenza sulla percezione bensì di scelte culturali e di possibilità fattuali5. L’interazione tra vedere e rappresentare, è frutto di una relazione causale data dall’interazione di abilità figurative, attitudini e aspettative storicamente e culturalmente diverse. Ciò che si modifica dunque, non è l’occhio, bensì le finalità assegnate all’arte: è una scelta culturale decidere come dipingere ma non come vedere. Per spiegare la visione, quale facoltà filogeneticamente primitiva, Danto distingue due tipi di esperienza: minimale, propria anche degli animali, ed estesa, prerogativa degli uomini. Solo con quest’ultima l’occhio si connette a una rete di credenze e associazioni che variano a seconda delle epoche e dei contesti culturali. Con la prima, invece, c’è accesso solo a ciò che è immediatamente presente nell’oggetto della percezione, trattandosi di una mera competenza figurativa che permette di riconoscere le immagini ma non ciò che rappresentano (is about). Nelle opere d’arte c’è più di quanto la percezione possa spiegare, poiché tutto ciò che è fuori dall’esperienza percettiva primaria va a costituire quel “contenuto invisibile dell’arte visiva”. Considerare due oggetti indiscernibili dal punto di vista di una visione minimale, è fondamentale per affermare che essi sono discernibili sotto il punto di vista interpretativo, proprio di
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una visione estesa e «poiché l’interpretazione non penetra i propri termini, guardare di più non ci porta da nessuna parte»6 (Danto 2007, 122). In tal senso Danto afferma che la percezione si evolve e ha una storia quale frutto del sistema centrale che riveste ciò che vediamo di significati che non hanno completamente a che fare con quanto vediamo poiché sono termini relazionali, invisibili all’occhio. Non è possibile attribuire alla fenomenologia della percezione la capacità di tracciare un distinguo tra opere d’arte e meri oggetti, ecco perché l’estetica davanti al problema degli indiscernibili resta muta. Per tracciare una distinzione tra oggetti indiscernibili e comprendere come qualcosa sia un’opera d’arte, bisogna coglierne il contenuto invisibile, afferrabile solo attraverso un’interpretazione che richiede una mediazione cognitiva. La percezione, al contrario, si arresta semplicemente allo stadio denotativo dell’immagine, l’occhio “innocente” in quanto organo di una funzione biologica primaria come la visione; quest’ultima ha una storia nel senso che le rappresentazioni visive fanno parte di forme di vita storicamente connesse le une alle altre. In ultima analisi Danto concede un’interazione tra percezione e processi cognitivi nella misura in cui noi percepiamo in relazione al nostro sistema di credenze ed’è solo grazie a tale interazione che la storia riguarda la percezione.
1.2 L’avvento dell’epoca poststorica. L’arte contemporanea si è rivelata troppo pluralistica nelle intenzioni e nei mezzi di manifestazione per essere catturata in un’unica dimensione storica capace di ordinare al suo interno, tutte le creazioni artistiche. In seguito alle trasformazioni che hanno investito le condizioni di produzione delle arti visive, la fiducia in un progresso ordinato, lineare e teleologicamente indirizzato, come quello teorizzato da Giorgio Vasari, viene meno. Il modello
narrativo-processuale basato su un’idea di apprendimento cumulativo, che risponde a un imperativo di continuità, è inapplicabile al panorama artistico che si andava delineando negli anni Sessanta. Nella riflessione dantiana, la parabola narrativa vasariana è possibile fin quando a guidarla è un ideale di adeguatezza rappresentativa al reale. Con l’arte contemporanea il paradigma mimetico viene meno, ciò non vuol dire che la narrazione storica s’interrompe, bensì che continua a evolversi su un piano diverso. L’arte contemporanea non segna un semplice mutamento di stile, poiché ha significato una trasformazione filosofica profonda. Le Brillo Box, in tal senso, rappresentano una sorta di “capolinea storico” poiché nel momento in cui l’arte arriva a confondersi con gli oggetti reali, la nozione di progresso storico viene necessariamente meno. La storia dell’arte, nella filosofia dantiana, si configura come un Bildungsroman che ha come protagonista Kunst che, al pari del Geist hegeliano, è alla progressiva ricerca della sua essenza. Una storia di questo tipo termina quando l’essenza si rivela trasformandosi in autoconsapevolezza quale estinzione della distinzione tra soggetto e oggetto. La storia dell’arte ha natura progressiva che non va intesa come susseguirsi di stili bensì come graduale ascesa a un livello di coscienza filosofica. Il modello storicista hegeliano è impiegato da Danto in chiave cognitiva: la storia dell’arte si configura come un processo autoriflessivo grazie al quale l’arte arriva ad afferrare la sua essenza. La Brillo Box è rappresentativa di questo fatto poiché in essa, l’oggetto artistico è talmente intriso di consapevolezza teorica che la distinzione tra soggetto e oggetto risulta del tutto superata. La narrazione storica cui fa riferimento Danto termina allo stesso modo in cui si risolve un romanzo di formazione: non finiscono i personaggi, ma la narrazione degli eventi che li vede come soggetti. Parimenti la storia dell’arte si conclude senza che ciò implichi la scomparsa dei fenomeni storico-artistici. La fine della
EFFRAZIONI storia dell’arte non va letta come una teoria dell’esaurimento, bensì come teoria della coscienza: non è l’oggetto della riflessione, a finire (l’arte), bensì il processo che la vede come soggetto (la storia). L’avvento dell’arte contemporanea ha dimostrato che una visione storica in cui l’arte rivela progressivamente la sua natura, non è ulteriormente perseguibile poiché l’arte ha assimilato una tale capacità autoriflessiva da escludere qualsiasi possibilità di sviluppo ulteriore. La fine non ha quindi nulla a che vedere con l’estinzione dei fenomeni artistici, tantomeno costituisce un giudizio di valore circa le produzioni contemporanee. Ciò che finisce è la narrazione e non il soggetto di quest’ultima. L’argomentazione è chiarita in questi termini: «A causa di un’evoluzione interna all’arte del nostro secolo, la filosofia ha ricevuto un certificato di autenticità (da parte dell’arte stessa), nel senso che la definizione di arte si è rivelata un problema filosofico» (Danto 1992, 179-180). Quando l’arte arriva ad afferrare la sua essenza, la storia smette di evolversi verso un telos, il processo storico che Danto vede concludersi riguarda esclusivamente una struttura narrativa progressiva, che risponde a una legge interna di sviluppo. Non c’è alcuna arbitrarietà nell’affermare la fine della storia dell’arte se la si intende in termini dantiani: si tratta del punto d’arrivo di un cammino evolutivo, di stampo hegeliano, interno all’arte, che giunge a cogliere la sua natura, inglobando al suo interno la distinzione tra arte e realtà. Nella diagnosi dantiana la raggiunta autocoscienza caratterizza l’attuale condizione dell’arte post-storica, una definizione che va letta in termini di possibilità sia logica che fattuale dell’esistenza di opere indiscernibili dalle semplici cose. Queste pur appartenendo ad ambiti notazionali diversi sono percettivamente identiche tanto che l’occhio non riesce a discriminarle. La comparsa di opere indiscernibili, permette di registrare uno slittamento “dall’occhio alla psiche” tanto che, in ambito artistico, affidarsi esclusivamente alla
La questione dell’indiscernibilità, l’esigenza definitoria e le conseguenti condizioni proposte da Danto non sempre risultano prive di contraddizioni. Diversi autori, sia anglofoni che italiani, hanno sollevato delle perplessità sul sistema dantiano. Lo stesso Danto nelle ultime opere sembra rivedere quanto sostenuto con troppa sicurezza nei suoi primi scritti. In ambito anglofono Joseph Margolis sostiene che la modularità percettiva, così come è difesa da Danto, non è sostenibile. La disgiunzione tra percettivo e cognitivo, a suo giudizio, è arbitraria e ha conseguenze paradossali: sarebbe come ammettere che non vediamo mai azioni ma semplici movimenti ai quali, in seguito, attribuiamo un’intenzionalità propria delle azioni umane. Margolis concorda che spesso è necessaria una conoscenza storico-artistica per cogliere un’opera, ma ciò non significa che nel percepire un’opera si aggiunge qualcosa di interamente addizionale ed estraneo alla visione. L’occhio non è vergine poiché la percezione è carica di elementi concettuali. Infine Margolis lancia un’accusa decisiva al presupposto esternalista sostenuto da Danto. Se è vero che un’opera d’arte è tale solo in virtù di un’attribuzione retorica di proprietà relazionali e non discernibili, allora il soggetto di tale attribuzione è un mero oggetto, ossia ciò che l’opera è prima di essere interpretata. Questo significa che non si danno opere d’arte bensì attribuzioni indipendenti, in questo modo viene meno la realtà delle opere in termini di oggetti fisici. Sotto questo punto di vista si potrebbe rinvenire una sorta di platonismo nell’impostazione dantiana, come se esistesse una sorta di “Idea” di artisticità indipendente dalle opere in quanto oggetti concreti, e che non si realizza mai negli oggetti stessi. La distinzione tracciata da Danto sembra avere natura metafisica giacché impercettibile ed esterna agli oggetti. Per sfuggire a una simile impasse Margolis propone di considerare le opere come manifestazioni tangibili, dunque visibili, di proprietà intenzionali. Dubito che il nostro autore sia disposto a concedere tale “modifica” poiché implicherebbe una rinuncia all’impostazione modulare e un’apertura nei confronti dell’estetico che non sembra voler ammettere. Danto crede che le intenzioni dell’artista e i significati delle opere non provochino mutamenti estetici senza che ciò porti a un disinteresse per la materialità delle opere stesse. Danto è convinto di salvare la materialità grazie alla condizione dell’embodiment secondo la quale i significati sono materialmente inscritti negli oggetti che li presentano. Tuttavia la questione dell’incorporazione non riesce a vincolare il significato a qualche aspetto tangibile delle opere stesse. Il metodo degli indiscernibili, sotto questo punto di vista, funziona come un potente correttivo contro qualsiasi proprietà fisica degli oggetti e Danto non accenna a rinunciarvi. Finora la materialità è destinata a restare fuori dalla sua filosofia dell’arte. In ambito italiano invece delle osservazioni molto stringenti sono state sollevate da Stefano Velotti. Egli pone l’accento sulle contraddittorie implicazioni che la questione dell’intenzionalità comporta. Ho avuto personalmente modo di chiedere chiarimenti a Danto stesso ma le sue risposte a riguardo sono state elusive. La letteratura sull’argomento è comunque vasta e aperta perciò non si possono escludere delle novità, Danto potrebbe riservarci ancora delle sorprese. Per approfondire tale questione rimando a: Velotti S., L’opera d’arte: una nozione classificatoria o normativa? Note su Goodman, Danto e Dickie, in «Studi di estetica», 31, 1, 2007, pp. 189-206. Velotti S., La scelta di Danto, in «Rivista di estetica», XLVII, 2007, pp. 357-374. Velotti S., Le proprietà estetiche, in A. Coliva (a cura di), Filosofia analitica. Temi e problemi, Carocci, Roma, 2007, pp. 307-330
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Brillo Box visione diventa una professione di fede più che un atteggiamento praticabile nei fatti. L’indiscernibilità dimostra l’esistenza di una “distinzione senza differenza”, poiché quest’ultima risiede all’esterno e non in qualche proprietà fisica degli oggetti stessi, per questo va indagata filosoficamente. La fine della narrazione storica è sostenibile solo all’interno di un paradigma filosofico hegeliano e giustifica la possibilità di registrare una definizione di arte dal momento che, qualsiasi cosa si presenterà in futuro, non avendo rilevanza filosofica, non potrà invalidare il lavoro analitico di ricerca di una tale definizione. Il disvelarsi dell’essenza dell’arte se da un lato chiude la narrazione storica, dall’altro apre un periodo di assolute libertà, poiché nessuna forma artistica realizza meglio di un’altra l’essenza dell’arte7. Il pluralismo esclude ogni direzionalità e ogni continuità ma allo stesso tempo libera da ogni telos prestabilito, ciò significa che l’arte può manifestarsi ovunque, anche nell’oggetto più imprevisto e banale. Post-storicità significa assenza di limitazioni preventive su come debba presentarsi un’opera per essere tale. Alla luce di quanto detto, è possibile comprendere come l’impostazione essenzialista si sposi senza contraddizioni con quella storicista. Danto assume che l’arte ha un’essenza immutabile e universale, ma allo stesso tempo, afferma che i fenomeni artistici dipendono dal contesto storico di appartenenza. Per chiarire la questione Danto traccia una distinzione tra due possibili modi di pensare l’essenza: estensionale e intensionale. Parlare di essenza in senso estensionale significa, rintracciare induttivamente gli attributi comuni a tutti gli oggetti che costituiscono l’estensione del termine. Questo vuol dire che il concetto di arte, in quanto essenzialista, è senza tempo, ma l’estensione del termine resta fortemente legata a una dimensione storica: ecco perché le condizioni dantiane sono allo stesso tempo universali e connesse alla dimensione storica. La fine prefigurata da Danto non ha nulla a che vedere con la perdita, ha piut-
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tosto a che fare con un’acquisizione. Non bisogna dunque credere che l’arte abbia subito una battuta d’arresto, come sostenuto da Clement Greenberg, o che abbia raggiunto lo stato gassoso, come di recente ha affermato Yves Michaud. La fine non sopraggiunge sempre per via violenta, spesso è frutto di un’accettazione e di una maturazione. La consapevolezza cui è giunta l’arte appartiene esattamente a questo genere di conquista che ne garantisce la libera esistenza alla fine del processo autoriflessivo.
1.3 La questione definitoria. L’interrogativo posto dagli indiscernibili confuta tutte le ipotesi formaliste secondo cui ciò che rende un’opera d’arte tale è immediatamente disponibile e accessibile alla percezione. L’arte contemporanea, nella visione dantiana, ha operato una “spettacolare cancellazione filosofica” che ha reso inapplicabili le precedenti teorie storicoartistiche, spesso basate su attributi estetici, aspettuali, tutte proprietà pragmatiche da sempre considerate necessarie per l’attribuzione di uno status artistico. Danto, al contrario, crede che senza una teoria che lo dica, potremmo non renderci conto che ciò che abbiamo davanti è arte. Bisogna quindi chiedersi cosa abbia permesso il passaggio della Brillo Box dai layout dei supermercati alle stanze della Stable Gallery, e soprattutto come mai le Brillo di Warhol sono opere d’arte mentre quelle ancora oggi prodotte dalla Procter & Gamble no. Per rispondere all’interrogativo, è necessario ridefinire un concetto di arte capace di far emergere le proprietà relazionali che danno vita a simili opere. Tale proposito definitorio andava contro le posizioni dominanti dell’epoca, diversi autori infatti, sulla scia dello scetticismo neo-wittgensteiniano, sostenevano che l’arte non è definibile e nemmeno è necessario che lo sia poiché, a grandi linee, ognuno è in grado di distinguere ciò che è un’opera d’arte da ciò che non lo è. Tra i principali sostenitori di tale posizione, troviamo Morris Weitz,
secondo il quale, definire qualcosa (in termini di condizioni necessarie e sufficienti) porta necessariamente a formulare un concetto ‘chiuso’, potenzialmente confutabile da ogni innovazione artistica. A suo dire ‘arte’ è un concetto empiricamente descrittivo che non arriverà mai a costituire una classe, intesa come insieme omogeneo di membri che condividono un principio omogeneizzante. Danto si sottrae a tale presupposta indefinibilità spostando la questione dal piano estetico-fenomenologico a quello ontologico. È infatti possibile trovare condizioni definitorie che non limitano l’incessante mutevolezza dell’arte dal momento che si tratta di proprietà esterne e non aspettuali. La cifra distintiva dell’arte post-storica è esattamente questa: le proprietà che rendono un’opera tale sono relazionali, perciò invisibili nell’oggetto artistico, esse sono qualcosa che lo “trasfigura” e lo rimanda al di là di esso ad uno spazio che non è quello della percezione, ma quello delle ragioni. Quest’ultimo è da intendere come un insieme di credenze, opinioni e conoscenze storico-critiche. Se l’essenza dell’opera può essere indifferente alle proprietà estetiche allora è possibile analizzare il concetto di arte come nozione autonoma rispetto a quella di estetica. Così agli inizi della sua riflessione Danto al fine di tracciare una distinzione tra meri oggetti e opere d’arte stabilisce, sulla base dell’assunto esternalista, che ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte è al di fuori dell’oggetto stesso. Pertanto concepire l’artisticità della scatola Brillo, significa conoscere la storia e le teorie artistiche di quel periodo. Ciò implica che l’identificazione di un’opera è imprescindibile dalla teoria questa infatti «oltre al distinguere l’arte dal resto, rende l’arte possibile» (Danto 2007, 67). La differenza fra due oggetti indiscernibili è frutto di «un’atmosfera artistica, della conoscenza della storia dell’arte: di un mondo dell’arte» (Danto 2007, 81). Quest’ultimo va inteso come un universo fatto di storia e teoria, che non ha nulla a che vedere con decreti pronunciati da vo-
Kosuth J., Art after Philosophy, Idea Art, Dutton, New York, 1973, L’arte dopo la filosofia, Costa & Nolan, Ancona-Milano, 1987.
PERCORSI
Questo libro rappresenta una sorta di nemesi del pensiero dantiano. Kosuth è uno dei maggiori esponenti dell’arte concettuale oltre a essere uno dei primi artisti a mettere in campo strategie di appropriazione nella produzione delle sue opere. Ne L’arte dopo la filosofia egli ribalta l’insegnamento hegeliano ridefinendo il concetto stesso di oggetto artistico. L’artista statunitense mette in discussione le forme e le pratiche tradizionali dell’ar-
lontà arbitrarie, come sosterrà il padre della teoria istituzionale dell’arte George Dickie, con inevitabili conclusioni proceduraliste. Il significato di un’opera d’arte è dunque esterno all’opera stessa perché è un prodotto intellettuale e non frutto di una decisione istituzionale. L’attribuzione dello statuto artistico, secondo Danto, è sì esterna ma tutt’altro che istituzionale o arbitraria. Le opere sono ontologicamente diverse dai meri oggetti ed è sulla base di questo assunto che Danto crede che le superfici lucide di Fountain di Marcel Duchamp hanno più attributi in comune con le statue di Brancusi che con i comuni orinatoi. Quelle superfici, pur facendo parte dell’opera, non corrispondono con Fountain che è tale perché parte di un contesto storico e teorico non rinvenibile a partire dall’oggetto. La teoria si configura come qualcosa di così potente da ”staccare” gli oggetti dal mondo
te, le teorie a essa connesse aprendo così le possibilità espressive che, come anche Danto sostiene, nella contemporaneità possono essere le più disparate. J. Koons, Balloon Dog (Yellow), 19942000. La produzione dell’artista statunitense attinge direttamente all’immaginario della società contemporanea dalla pubblicità ai mass media ai prodotti di consumo. Le sua produzione rientra a pieno titolo nella descrizione dell’arte post-storica tracciata da Danto per l’utilizzo di tecniche diverse che vanno dalla pittura, alla scultura, alle installazioni alla fotografia. L’opera citata, nello specifico, è emblematica dal momento che riproduce sua ampia scala un palloncino che comunica un senso di rassicurante familiarità tra le cui righe, tuttavia, serpeggia una corrosiva critica delle forme mercificatorie della società globalizzata. K. Stockhousen, Helicopter Quartet, da Das Licht, 1995.
String
L’opera costituisce un segmento di Mercoledì, una delle sette parti del ciclo Luce, è l’esito ultimo di una vocazione artistica votata alla sperimentazione musicale. L’opera è
reale e renderli parte di un mondo dell’arte. Sulla scorta di tale assunto le opere si configurano in termini di oggetti complessi, “pensiero cum oggetto”: esse hanno qualità invisibili e molto diverse dalle loro controparti indiscernibili. Parlando di opere come Fountain, Danto afferma di non sapere se abbiano qualche proprietà estetica, mette anche ironicamente in dubbio il fatto di volerne acquistare una, ciò che gli interessa è far emergere che trattandosi di opere concettuali, bisogna apprezzarle per la loro audacia e irriverenza, proprietà non pragmatiche e dunque non afferrabili esteticamente. Quanto detto finora ribadisce un punto cruciale della sua speculazione: le proprietà estetiche non son determinanti al fine di distinguere le opere d’arte dai meri oggetti, poiché appartengono tanto alle une quanto agli altri. Ciò che Danto intende dire è
composta da due violini, una viola e un violoncello del quartetto Arditti. Stockhousen mescola la musica a principi matematici, le sue composizioni sono filtrate con i metodi della linguistica computazionale e con la fonetica del linguaggio. La composizione qui citata, nello specifico, è accompagnata dal rumore di quattro elicotteri in volo, che sono parte integrante dell’opera. Stockhousen, infatti, ha riletto il rapporto tra uomo e macchina scompaginando le tecniche tradizionali delle composizioni musicali. J. L. Godard, Historie(s) du cinéma, 1988-1998. L’opera è una sorta di summa dell’intero percorso artistico di Godard. Essa segna una svolta nella dissoluzione del confine tra cinema e video e tra immagine e critica. Godard scardina le regole del cinema classico rivoluzionandone i tradizionali meccanismi di narrazione, non a caso egli si interroga costantemente sulla funzione stessa del mezzo cinematografico. A suo dire il cinema si intreccia con la Storia, che non è una sola, come rivendica il plurale del titolo, ma sono tante. L’idea-guida di tutte le Histoire(s) è che la storia del cinema non si può immobilizzare in una sola immagine o in una definizione, ma si può continuamente rileggere e ‘rivedere’
che l’opera d’arte non è tale per sua natura, ecco perché «la comprensione estetica è molto più vicina a un’azione intellettuale che a una stimolazione sensoria» (Danto 1992, 46). La lezione hegeliana che Danto fa sua insegna che: «Ciò che in noi è ora suscitato dalle opere d’arte è, oltre il godimento immediato, il nostro giudizio, poiché sottoponiamo alla nostra meditazione il contenuto, i mezzi di manifestazione dell’opera d’arte e l’appropriatezza o meno di entrambi. La scienza dell’arte è perciò nel nostro tempo un bisogno ancora maggiore che nelle epoche in cui l’arte procurava già di per sé un completo soddisfacimento. L’arte ci invita alla meditazione […] per conoscere scientificamente cosa sia l’arte»8 (Hegel 1997, 16).
In questo passo compaiono i presupposti di quelle che saranno le due condizio-
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modularità percettiva ni necessarie e sufficienti poste da Danto al fine di circoscrivere l’essenza dell’arte: l’aboutness e l’embodiment. La funzione “trasfiguratrice” attribuita nel 1964 al mondo dell’arte, nell’opera del 1981 La Trasfigurazione del banale, diviene propria dell’atto interpretativo. Spostando la questione definitoria dalle proprietà manifeste a quelle relazionali, Danto stabilisce che un’opera si differenzia da un mero oggetto perché è in possesso di un “nucleo di referenzialità” indicato con il termine aboutness. Un’opera d’arte per essere tale deve essere sempre “a proposito di” qualcosa, il che significa avere un “contenuto” che non tutte le cose hanno. Gli spettacoli naturali, ad esempio, ne sono privi poiché non essendo a proposito di nulla, non veicolano alcun significato. L’essere a proposito di, giustifica la circostanza per cui solo le opere hanno un titolo, quale elemento capace di desostanziare oggetti banali e recidivi a qualsiasi tipo di defunzionalizzazione come gli orinatoi. L’opera d’arte si configura dunque come una struttura intenzionale, che trasmette un pensiero che le immagini da sole non possono esprimere, in questo modo, essa rimanda a qualcosa che non si risolve e non si esplica nella pura figuratività9. L’aboutness è una proprietà esterna che va colta attraverso un’interpretazione: senza la trasfiguratività propria dell’atto interpretativo non avremmo opere bensì semplici oggetti10, in questo senso l’interpretazione è costitutiva dell’opera. L’atto interpretativo-trasfigurativo è descritto da Danto come un gesto religioso «come procedura trasformativa l’interpretazione analoga a un battesimo, nel senso […] di una nuova identità, di una partecipazione alla comunità degli eletti» (Danto 2008, 152) qual è il mondo dell’arte quale universo di cose trasfigurate. La condizione dell’aboutness è legata a doppio filo alla dimensione storica: la Brillo Box prima del 1964 non avrebbe potuto essere un’opera d’arte. La sua valenza artistica è connessa alla New York degli anni Sessanta, alle identificazioni messe in campo dal suo autore che, a loro volta, sono condi-
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zionate dalle possibilità storico-culturali. Si sono dovute realizzare determinate condizioni per far sì che quella scatola diventasse un’opera d’arte, perciò trasferirla in un momento storico precedente, equivarrebbe a privarla di quei significati esterni, invisibili, che la rendono l’opera che è. Di fatto sono le teorie e le possibilità storiche che supportano la trasfigurazione degli oggetti in opere d’arte. Tuttavia quanto detto fin’ora non differenzia le mere rappresentazioni dalle rappresentazioni artistiche, per questo motivo Danto aggiunge che oltre a essere una “rappresentazione interpretata e storicamente condizionata” l’opera, per essere tale, deve dar corpo adeguatamente ai significati che rappresenta. La seconda condizione posta da Danto è quella dell’embodiment. Le opere d’arte, oltre ad avere un aboutness, si configurano come significati incorporati, embodied meaning, poiché esprimono qualcosa a proposito del loro contenuto.11 In altre parole l’opera deve far avanzare adeguatamente il suo contenuto attraverso la sua struttura materiale. Riemerge la lezione hegeliana secondo cui l’opera d’arte si definisce in termini di “contenuto” e di “adeguatezza” della presentazione di quest’ultimo in un medium12. Interpretare equivale a identificare il significato dell’opera e, in secondo luogo, a rivelare se l’oggetto in questione sia in grado di incarnare adeguatamente quel determinato significato. L’embodiment stabilisce che tra forma e contenuto deve sussistere una relazione adeguata tale da differenziare le rappresentazioni artistiche da quelle che non lo sono oltre che le opere d’arte dai meri oggetti. La differenza è data dal diverso utilizzo del mezzo rappresentativo, le prime infatti non si risolvono nella mera rappresentazione poiché rimandano a qualcos’altro, le seconde invece sono solo denotative. Gli artisti utilizzano retoricamente i mezzi rappresentativi, ecco perché le opere d’arte, nella filosofia dantiana, arrivano ad avere una struttura simile a quella delle metafore: «L’uso che le opere d’arte, in opposizione categoriale alle mere rappresentazioni fan-
no dei mezzi della rappresentazione non è specificato in maniera esaustiva dalla specificazione esaustiva del contenuto rappresentato» (Danto 2008, 179). I diagrammi di Roy Lichtenstein, ad esempio, si differenziano dai semplici diagrammi non perché questi ultimi siano inespressivi ma perché i primi, in quanto opere d’arte, «usano il modo in cui la nonopera d’arte presenta il suo contenuto per affermare qualcosa a proposito del modo in cui quel contenuto viene presentato» (Danto 2008, 178). E’ importante comprendere l’analogia che Danto rintraccia tra la struttura dell’opera d’arte e quella delle metafore. Il diagramma di Lichtenstein gioca un doppio ruolo: rappresenta qualcosa, cosa che fa anche un mero diagramma, ma esprime anche qualcosa. L’espressività non si identifica con il medium ma passa necessariamente attraverso di esso. In questo senso è possibile affermare che «l’opera non è oggetto se non venendo meno ai propri fini» (Danto 2008, 41). L’opera ha una struttura ellittica, metaforica, che non si esaurisce né nella sola forma né nel solo contenuto, una circostanza che si attiva grazie all’utilizzo retorico che gli artisti fanno dei medium. L’opera ha dunque una struttura ellittica e metaforica che, al pari di un sillogismo entimematico, richiede un contributo cognitivo per essere individuata. Le condizioni dell’abountess e dell’embodiment sono state oggetto di molte critiche oltre che di ripensamenti da parte dello stesso autore, che, finora, ne ha solo riconosciuto l’insufficienza. La causa del divorzio tra arte ed estetica resta poiché: «E’ del tutto fuori questione che si possa identificare il contenuto di un’opera sulla base di qualità visive […] giacché è sempre possibile immaginare oggetti indiscernibili» (Danto 2008, 144). L’irrilevanza dell’elemento percettivo è confermata poiché «se così non fosse», spiega Danto, «si assegna all’atto di guardare un ruolo propedeutico in vista di una [..] discriminazione percettiva» (Danto 2008, 53) che invece non si dà a causa della mo-
dularità percettiva e dell’esternalismo. Se non si tratta di prestare attenzione a proprietà già presenti nell’oggetto, dal momento che non riposano nell’oggetto stesso, la paradossale conclusione è che viene meno l’oggetto artistico, almeno prima dell’atto interpretativo che la rende tale. L’esternalismo, infatti, prevede che un’opera sia tale solo in virtù di un’attribuzione retorica di qualità non discernibili, se quindi si sottrae il portato referenziale dall’opera, che solo l’atto interpretativo fa emergere, resta ben poco di artistico nell’oggetto. Questo inoltre farebbe venir meno anche il problema degli indiscernibili dal momento che se così fosse, avremmo davanti due semplici oggetti, cioè ciò che è un’opera prima di un’interpretazione. Alla base del discorso dell’indiscernibilità c’è dunque un necessario “momento postulatorio” che stabilisce, implicitamente, che tra due oggetti indiscernibili uno è un’opera d’arte, mentre l’altro no e che le loro differenze non sono né fenomeniche né estetiche. Per sfuggire a tale conclusione paradossale basterebbe considerare le opere come manifestazioni tangibili di proprietà intenzionali, variazione che Danto finora non sembra voler concedere poiché implicherebbe una rivisitazione della lettura modulare della percezione, oltre che un’apertura nei confronti dell’estetico. Non a caso si è parlato di “eclisse della materialità” nell’ontologia dantiana, giacché le proprietà fenomeniche delle opere continuano a non avere un ruolo all’interno della sua filosofia. Tuttavia è innegabile che nelle opere d’arte, è presente qualcosa di “eccedente” che supera ogni intenzione predefnita e oltre ogni interpretazione. Danto è concentrato su un’idea apparentemente “semplice e persuasiva”: le proprietà di un’opera d’arte non coincidono con quelle dell’oggetto. Tuttavia nel rintracciare un contenuto razionale delle opere finisce per sottovalutare che quando ci accostiamo a esse «non siamo impegnati solamente in un processo cognitivo di ricostruzione interpretativa»13, (Costello 2007, 121) bensì in qualcosa che necessariamente
richiede un momento sensibile, percettivo, in una parola estetico.
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griffe, Bruckmann, München, 1915; trad. it., Concetti fondamentali della storia dell’arte, Tea, Milano, 1994. Tra il 2006 e il 2007 si è tenuto un convegno filosofico on line per celebrare il 25° anniversario de La trasfigurazione del banale, in cui è apparso l’intervento di Danto The Transfiguration Transfigured, in Online Conference in Aesthetics, in (artmind.typepad.com/onlineconference).
Endnotes
1 Clive Bell, uno dei padri dell’estetica analitica, affermava di prestare attenzione alle ragioni intrinseche delle produzioni artistiche piuttosto che al periodo storico in cui erano state prodotte. Il suo interesse andava ai sistemi relazionali e formali. Se si assume che le opere suscitano emozioni universali, l’analisi storica può dirsi trascurabile. 2 Tale credenza investe la grecità tramandataci da Platone. Aristotele ribalta il problema, per lo stagirita la differenza tra arte e realtà ha un radicamento cognitivo frutto della consapevolezza della differenza che c’è tra le due. E’ grazie a tale consapevolezza che, secondo Aristotele, la mimesi non implica l’illusione. Al contrario è basata sulla consapevolezza del medium che in Platone resta invisibile creando l’illusione. Grazie a tale consapevolezza esperiamo che la rappresentazione di cose orribili non è sua volta orribile. 3 Va chiarito che l’indiscernibilità dantiana riguarda l’ambito percettivo e non sostanziale. Non va confusa con l’argomento leibniziano dell’identità degli indiscernibili che rimanda al principio di ragion sufficiente. 4 Esistono due tipologie di illusioni ottiche: quelle che riusciamo a dissolvere grazie alla conoscenza e quelle che nonostante persistono come le linee di Müller Lyer. Ciò dimostrerebbe che la conoscenza non penetra gli oggetti, questi ultimi mantengono immutate le loro qualità sensoriali perciò sapere che Fountain è un’opera d’arte non cambia percettivamente l’orinatoio. 5 Il mondo non appare bidimensionalmente ai cinesi, questi erano in grado di riconoscere la tecnica prospettica, ma la rifiutarono sulla base di diverse concezioni sull’idea del ritrarre. 6 Danto, delineando tanto rigidamente la visione minimale, sembra abbracciare una let-
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tura forte della modularità percettiva che comporta una sorta di “incapsulamento cognitivo”. A suo dire la capacità di riconoscere le immagini , per quanto elastica, possiede “una costanza neurale attraverso il tempo e lo spazio”. 7 E’ bene specificare che il pluralismo sostenuto da Danto non ha nulla a che fare con un relativismo. Esso si riferisce a una condizione di assoluta libertà che implica un’emancipazione radicale da ogni canone artistico: affermare che tutto può essere arte non significa che chiunque può prendere un qualsivoglia oggetto e sentenziare arbitrariamente che quello sia arte. Non si tratta di un semplice nominalismo nel senso che l’artista ha una sorta di potere divino grazie al quale afferma “questa è arte” dando così vita alle opere . “Tutto è possibile” sta a indicare l’aprirsi di uno spazio logico caratterizzato dal superamento di tutte le regole e dei dettami artistici. 8 Hegel parla di giudizio nel senso di un’esigenza di riflessione sul contenuto dell’arte e sui mezzi di rappresentazione dell’opera. Ciò significa che bisogna prestare attenzione sia al contenuto che alla forma , intesa come mezzo di manifestazione. Danto liquida la teoria della mimesi poiché questa guarda solo al contenuto, il medium, infatti, viene supposto trasparente. Allo stesso modo liquida la teoria dell’opacità, di derivazione crociana, che guarda solo alla forma, questi due elementi nell’opera sono inseparabili. 9 Le opere d’arte sono strutture intenzionali ossia artefatti che necessitano dell’intervento di un essere capace di produrre rappresentazioni intenzionalmente. Se dall’esplosione di una cava di marmo uscisse una copia esatta del David non ci troveremmo davanti a un’opera d’arte ma piuttosto a un curioso miracolo statistico senza alcun portato referenziale. 10 Danto mutua il pensiero di Henrich Wölfflin secondo cui “non tutto è possibile in ogni momento storico”.Ciò non rimanda a un’impossibilità fattuale indica piuttosto una condizione tale che, ogni artista, si trova di fronte a determinate possibilità cui è vincolato. Questo significa che un’opera può essere a proposito di qualcosa solo in un determinato momento storico-culturale. 11 Danto fa riferimento all’opera di Lichtenstein Portrait of Madame Cézanne. Questa ricalca i diagrammi che Erle Loran tracciava sulla base delle opere dell’artista francese. I due diagrammi formalmente sembrano una coppia di isomeri tuttavia ciò che li differenzia è il modo in cui il primo esibisce il suo contenuto. Il di-
verso utilizzo del mezzo rappresentativo implica infatti una diversa configurazione della critica d’arte. Il diagramma di Lichtenstein non si risolve nella rappresentazione poiché non solo è a proposito di qualcosa , Madame Cézanne, ma esprime anche qualcosa a proposito del suo contenuto. L’artista fa leva sulle connotazioni che comunemente hanno i diagrammi nella nostra cultura ecco perché l’uso che fa Lichtenstein del diagramma può dirsi retorico. Il diagramma di Lichtenstein fa qualcosa che gli altri diagrammi non fanno: rimanda a qualcos’altro, esso al pari di una metafora rappresenta ed esprime qualcosa allo stesso tempo. Da qui la comunanza tra la struttura delle metafore e quella delle opere d’arte. Ambedue sono attività intenzionali che si rivolgono a esseri dotati di una visione estesa che li rende capaci di partecipare a una procedura di ragione che coinvolge il cognitivo. 12 La nozione di adeguatezza comporta diverse complicazioni, una fra tutte: va contro il proposito dantiano di non voler formulare una definizione di arte normativa o valutativa. Tuttavia il concetto di adeguatezza implica necessariamente un qualche giudizio di valore. Per una trattazione più approfondita dell’argomento rimando a all’articolo di N. Carrol, Arthur Danto. Filosofia dell’arte e attività critica, 2007. 13 Secondo Costello la condizione dell’embodiment non riesce a vincolare il significato in qualche aspetto materiale dell’opera, tanto che la materialità finisce per ridursi a qualcosa di indifferente. A suo dire non è sufficiente rispondere in termini cognitivi alle opere, poiché si deve riportare l’attenzione ai loro processi di produzione, al ‘come’ vengono plasmate e al rapporto che gli artisti intrattengono con i loro materiali. Tale rapporto, nota giustamente Costello, non è mai semplicemente strumentale e orientato verso un obiettivo, infatti, permane un margine di non controllabilità nel processo produttivo delle opere dovuto al modo imprevedibile in cui l’interpretazione dell’artista impatta sul medium. È ragionevole credere che quando l’artista lavora un materiale, interagisce con qualcosa che impatterà a sua volta sulle intenzioni che hanno avviato il processo creativo, ed è qui che subentra qualcosa di ‘eccedente’ rispetto alle intenzioni stesse dell’artista. Ringrazio il dott.re Luca Marchetti, il prof. re Stefano Velotti e il dott.re Oreste Tolone, per la costanza, il sostegno e l’interesse che mi hanno riservato.
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Altrove e prossimitĂ . Imparare dalle differenze
CHICAGO
Cecilia Rofena
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Prospettive e previsioni Chicago è il risultato di molti insiemi e richiede un duplice sguardo: percezione della totalità in atto della forma, in una visione dall’alto, quasi una vista “a volo d’uccello”, e attenzione ai particolari dei ritmi diversi, in un’interpretazione comparativa degli aspetti e dei gesti, in misura direttamente proporzionale ai gradi di differenza degli stili di vita e alla pluralità degli spazi d’azione. La sua perlustrazione inizia da alcune interrogazioni: che cosa possiamo chiamare città, se essa si dice in molti sensi diversi? Dove comincia e dove finisce? Da quale prospettiva guardarla? Dall’esterno, il “fuori” delle vie del Loop, il centro dei grattacieli, lo spazio delle superfici volute dai piani urbanistici e dalle menti degli architetti, o dall’interno del lato segreto delle vite che si intravvedono dai vetri dei palazzi, i volti che si incontrano quotidianamente per le vie, sulla metropolitana, nelle aule universitarie, all’uscita delle scuole, nei suburbs, in quella storia di voci sconosciute che impariamo a conoscere all’interno delle differenti comunità? Attraversiamo e compariamo dimensioni differenti che sono anche tempi differenti, mentre camminiamo e viviamo attraverso una pluralità, fatta di differenze estreme. Si contano livelli e dislivelli: il mondo delle relazioni, segnati dalla qualità dei gesti, sottintende dall’inizio un’endiadi di familiarità ed estraneità, identità ed alterità. Le qualità culturali della città (monumenti, istituzioni, università, banche, biblioteche, scuole) s’intrecciano ai percorsi individuali, ai passi delle qualità sensibili delle percezioni; suoni, colori, luci, ombre,
A pag. 40: Il Loop, una veduta. In questa pagina: 1. University of Chicago_ Hyde Park; 2. Millenium Park; 3. Hyde Park_Campus della University of Chicago; 4. Wright_Robie House; 5. Terracqueo_Chicago River; 6. Prima neve ad Hyde Park; 7. Prospettive; 8. Lake Shore Drive; 9. Autunno ad Hyde Park; 10. Calder Flamingo. A pag. 43: 11. University of Chicago; 12. Calder, Flamingo, dal Post Office. Le immagini di questo articolo sono di Cecilia Rofena.
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città/specchio rumori, lingue, silenzi, quell’esperienza personale che si mescola ai ritmi delle vite che non ci appartengono. V’è una conoscenza implicita racchiusa nelle storie del cinema e in tutte le immagini della città disegnata, ripresa, descritta e narrata (si pensi ai 120 anni raccontati da Nelson Algren in The City on the Make), che anticipano la nostra esperienza e modificano le nostre aspettative. Gli elementi si mescolano in una descrizione densa, dalla quale sorge un primo dubbio epistemologico: quali differenze lasceranno un’impronta indelebile sulla nostra esperienza? Chicago è un luogo dove dimenticare o dove ricordare chi siamo e chi vogliamo diventare? La città origina una rivoluzione prospettica che spinge alla ricerca di libertà realizzabili e motiva, dal punto di vista della persona, una trasformazione delle parti di se stessi cui poco si è lavorato, per costruire i contrafforti delle scelte che abbiamo deciso di sostenere. L’irrinunciabile, l’essenziale, il coraggio di libertà soltanto sperate, sono effetti dell’incontro con la vita della metropoli americana. Vi sono lontananze che possono rivelare un’origine, avvicinandoci a ciò che è più importante da conservare e preservare, come quando si ritrova un oggetto dimenticato in un baule dell’infanzia. Tutti questi aspetti confluiscono nella città come residui di una cangiante forma di vita, alla quale noi apparteniamo nel momento in cui abitiamo la città. Come cerchiamo, ci dice che cosa possiamo cogliere delle forme di un organismo in costante trasformazione. La città risponde all’area delle nostre azioni ed estende il perimetro di decisioni che ogni giorno compiamo, mentre scegliamo luoghi, momenti, incontri, nella misura inattesa dell’imprevedibile e di probabilità incalcolabili.
Città/specchio. Archelogia del futuro La città cresce in mille direzioni, si moltiplica negli specchi dei palazzi, innalzandosi al suo centro come un’unica guglia di cattedrale; è affacciata su un mare, il lago Michigan, come sul punto di salpare: la cit-
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tà piroscafo, metropoli compatta, lucida e brillante; una città senza ruggine, dove nulla invecchia, si direbbe. Ripulire le proprie lenti in questo specchio, in cui non compare polvere del tempo, è un esercizio di limpidezza, che restituisce al corso principale della propria esistenza. Ogni vista ha il tono dello stupore che impegna nella ricerca di somiglianze impossibili: tratteggiamo veloci schizzi da prospettive aeree, raggiunte su ascensori, in un brillare di riflessi e chiarori che sono il risultato di un’energia che ha cancellato il buio e vinto la paura di sfidare i cieli. La luce, il nuovo elemento che l’architettura scopre, rivoluzionando gli spazi chiusi dell’Ottocento borghese, rivela la volontà di una nuova purezza. V’è una segreta ricerca di perfezione ed eternità nel progetto della città/specchio: l’acciaio sopravviverà al suo spettatore, si renderà malleabile, ingrandirà gli spazi abitabili, trasformando gli edifici in nuove città. Ad un primo sguardo, sembra che non vi siano spazi liberi dai grattacieli che costituiscono le mura, il fossato di una fortezza, l’anello di downtown, intorno alla quale, però, si estende ancora un regno di natura, la prairie, una prateria dalla quale un giorno è cresciuto un castello di torri d’acciaio, dove vivono equilibristi del punto più alto. Seguendo il riflesso dello specchio, lungo le direttrici delle altitudini e delle vertigini verticali, si è portati in alto e da lassù si può guardare ciò che è rimasto di noi, come se si potesse sempre di nuovo cominciare daccapo la propria storia. Il fiume si snoda noncurante delle architetture, mentre lungo le sue rive cresceva in origine la pianta che gli indiani chiamavano “chicago”. E’ stata un’intuizione potente, una carezza matematica della natura, ad inventare la bellezza della città. Louis Sullivan arriva a Chicago nel 1873, dopo l’incendio che nel 1871 l’ha distrutta e comincia a disegnare il futuro di una nuova bellezza, in cui l’ornamento è immaginato nell’ordine della funzione (nel suo studio lavora anche Adolph Loos di Ornamento e delitto); la bellezza dell’organismo è il modello da applicare, una proporzione che dialoga con le forme
naturali: il motto della città, “urbs in horto”, ispira il progetto della sua realizzazione. A partire dall’invenzione della verticalità, molti altri luoghi imiteranno lo stesso vettore di spinta in alto, di rivoluzione prospettica, e nuove città su carte bianche aspireranno alla stessa purezza metallica e vitrea. Ma a Chicago vi sono prodigi che nel tempo hanno dato i loro frutti, hanno indirizzato prospettive e diretto temperamenti: la razionalità di Frank Lloyd Wright, l’architettura della Bauhaus di Ludwig Mies van der Rohe che ridisegna il profilo del lago, il Lake Shore Drive tra il 1948-52, costruiscono il tableau sul quale narrare una nuova storia, dando forma al futuro.
Forme e contrappesi Le forme della città trasformano profondamente la nostra percezione, cambiano con un’azione costante, minima ma interminabile, una variazione che non può essere calcolata nelle singole influenze che agiscono come cause naturali. Quando si guardano i cieli costantemente popolati d’ali d’acciaio, si direbbero quasi cause “soprannaturali” che testimoniano un futuro disegnato in angoli separati della creatività e dell’immaginazione. Il simbolo di un passato così giovane chiede d’essere sostenuto dalle azioni, dalle attività che lo giustificano come presente, perché è sempre sul punto di scomparire come il castello delle fiabe, inghiottito dal mistero di una visione improvvisa. Se osservi le facciate perfette degli edifici americani, vedi la prova di una sicurezza che non conosce ferite e pensi che qui gli ebrei costretti alla fuga hanno trovato un rifugio e in questa storia hanno potuto raccontare anche la loro, senza dover mentire. La fortezza del centro sembra inespugnabile e, forse, resta lontana, con i suoi segreti. Passeggiando per il centro, incontri il mosaico delle “quattro stagioni” di Chagall, il ritratto dell’inconscio di Picasso, una Grande Madre di Mirò, e andando a spedire i documenti nell’ufficio postale del centro, ti accorgi che Calder ha saputo fon-
visioni | vocazioni | improvvisazioni dere l’essenza di quelle strutture metalliche in una goccia di sangue: è il suo Flamingo, nella piazza più bella di tutti gli Stati Uniti. Un puro luogo dell’immaginazione. E’ notte quando le persone escono dagli uffici per salire sulla metropolitana, il lavoro afferra tutti freneticamente, mentre alcuni escono dai teatri e in viaggio, lasciano alle loro spalle il centro e le luci in alto: ancora volti, mai uguali, come se non esistessero sincronismi e ripetizioni, come se tutti i suoi abitanti si rigenerassero ogni sera o si mettessero in viaggio per lasciare la città, facendo posto ad altri, venuti da paesi lontani. Diventare una sola nazione da molte, essere la lingua in cui tutte le altre possono essere tradotte e ogni accento possa risuonare liberamente, ogni pronuncia dichiarare la sua origine, è un compito difficile che conosce conflitti e sofferenze, ma proprio questa difficoltà può aprire spazi politici di libertà. Vi sono separazioni che chiedono ancora prove, idee e azioni politiche, perché un equilibrio sicuro non è raggiunto e in modo asintotico ogni tentativo cerca di superare il precedente, correggendo l’errore cui non si è ancora rimediato. La città senza ruggine, a sud, si separa dal quartiere afroamericano, dove la violenza e la povertà hanno potere e dettano leggi proprie. C’è soltanto un contrappeso indiretto: la razionalità con cui sono gestite quelle situazioni, il modo in cui vengono affrontate, senza mistificazioni. Teorizzare il cambiamento attraverso l’impegno e lavorare agli ostacoli, costruendo gli spazi di comunicazione, è un compito al quale dedicare energie ed idee. La statua del patriota Nathan Hale a fianco dell’ingresso del Chicago Tribune richiama il dovere verso la comunità con il suo motto assoluto: “I regret that I have but one life to give to my country”. Cerco vecchie immagini di questa città che sembra nata adulta e contemporanea, cerco la storia del suo cambiamento, l’origine di quella bellezza fantasmagorica: mi ripeto che dai suoi primi giorni è stata così moderna, prima ancora che diventasse il modello e l’ideale di un’ultramodernità.
Trovo una cartolina del 1930: “cruises on the Great Lakes”, un viaggio fra “the inland seas”: nel 1900, con un dollaro, si partiva per una crociera in nave, toccando le città nate sulle coste dei grandi laghi, tutte comunicanti. Sembra impossibile, ma le superfici lisce e brillanti portano già i segni del tempo, raccontano una storia, hanno il volto e l’espressione delle vite che vi sono passate accanto: è il sogno di un’umanità che cammina sulla punta del cielo e forse non si può ancora prevedere che cosa diventerà. Ci si aspetta molto da un genio cresciuto, coltivato nell’immaginazione realizzata, una fiducia che nulla d’intentato e vano debba mai costringere alla rinuncia. Barak Obama proviene da questi luoghi, in cui si è attuata la trasformazione dell’educazione nuova di John Dewey, dell’eredità del pragmatismo, del pensiero di Emerson e Thoreau, fino al ritmo e all’innovazione dell’improvvisazione del Jazz, nella volontà di resistere e superare la fissità delle differenze sociali.
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Vocazioni. Hyde Park Robie House, la casa progettata da Wright, è racchiusa nel verde di Hyde Park, il campus della University of Chicago, e dal 1909 dichiara la sua rivoluzione estetica, lo stile a partire dal quale vuole ridefinire la forma di vita, vissuta secondo l’ordine possibile di un’idea; vi si riflette un nuovo criterio di bellezza: la volontà di rendere lo spazio abitabile a misura di razionalità. Trovo per caso un’immagine del Chicago Club of Philosophy, una fotografia del 1896 in cui è ritratto John Dewey con i suoi colleghi. Ognuno guarda in una direzione diversa e nessuno al fotografo, si direbbe quasi una provocazione filosofica, un gesto di libertà individuale; vi sono molte donne tra i membri del gruppo, un’altra sfida ai tempi e alle relazioni di potere. I discorsi filosofici, da allora, riempiono le aule, risuonano ancora tra i viali del campus. Il rigore delle argomentazioni è esemplare e non lascia nessuna questione indiscussa, è una “questione 12
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futuri possibili di principio”: la precisione della filosofia, la sua esattezza pari alla musica, il confronto con la scienza, la continuità fra laboratori di fisica, linguistica, poetica, matematica sono la prova di un progetto fra mondi comunicanti della grande metropoli. Si appartiene ad un luogo circoscritto, circondati da grandi spazi, i cui confini invece sfumano in lontananze inafferrabili. Quando si entra in un circolo di studio e lavoro, secondo quella parte di sé cui si è dato ascolto, l’identità prende forma, ma ancora molte comunità accolgono, chiedono una partecipazione, includono e non escludono, influenzando le nostre scelte. Entro così alla riunione del workshop di Poetics: le espressioni delle persone sono attente ad ascoltare una poetessa che parla dell’amore per la natura di Wallace Stevens; una dichiarazione di fede nei confronti della bellezza, “io credo nella bellezza e questa è una fede e una volontà di credere”, dice con entusiasmo. La volontà di scovare la bellezza, di andarla a cercare ovunque e nonostante tutto, per dichiararla ad alta voce è ancora un’espressione di un pragmatismo che valuta ogni idea a partire da ciò essa lascia presagire e sperare. Così quelle espressioni, quelle fisionomie, diventano somiglianze da tracciare nell’aria per connettere volti che hanno origini diverse eppure si somigliano così tanto; come la stanza in cui scrivo, in un appartamento di Hyde Park, assomiglia ad altre immerse in angoli della grande Chicago, in cui qualcosa di umile si compie. Qualcuno, anche in questo istante, si alza dai libri che gli hanno restituito molte vite e ritorna a passeggiare sulle rive del lago o nel traffico della città luminosa; pensa fra sé che ogni parola giusta proferita per difendere e proteggere questo mondo umano/naturale, la sua connessione storica così fragile, è valsa il tempo dell’attenzione.
Rapsodia e improvvisazione Arriva la neve, Chicago all’improvviso è bianca. E’ il giorno del Thanksgiving, prima non fa in tempo a posarsi, vola alta fra le
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case, nelle correnti agli incroci, verso il lagomare attirata, con una grande spinta e poi danza a lungo nell’aria, per tornare con più decisione, posandosi su ogni cosa. All’inizio in onde mosse dal vento, asciutta, polverosa, farinosa, anche al primo contatto, ancora intatta, quasi non fosse d’acqua ma di resina cristallina, fatta di polvere siderale. Bianco puro, appena uno strato e poi fitta, come se nulla potesse ostacolarla, neppure la forza del vento. Ha saputo aspettare che non vi fosse più foglia, che l’inverno avesse via libera per manifestare se stessa, tra gli alberi che ora sono diventati disegni e geroglifici di rami: così l’ultimo loro spirito fuoriesce in gocce di linfa trattenuta sulle punte dei rami, perle di luce, come specchi della loro essenza, il raggio che li attraversa, li ravviva, li ferma in immagine di sole, ma è l’ultimo calore che stilla, rafforzato dall’acqua che è trattenuta nelle cortecce. Arriva il freddo di Chicago che fa sperimentare la forza della natura, la sua voce potente. Quando le ombre si allungano in una luce d’oro, mentre il vento porta l’aria del lago, si pensa a quanto di noi resterà in questi luoghi, come se ogni sguardo straniero potesse lasciare la sua orma, come se un’inedita attenzione fosse legata sempre anche ad una nuova promessa segreta. Che cosa sarà di noi? Che cosa è cambiato? Quella domanda sfiorata al primo arrivo, trova ora la sua risposta: Chicago è la città dove ricordare e dove cambiare il passato nella direzione di una comprensione più vera e sicura, prima d’inventare il proprio futuro. Inventando una nuova familiarità della differenza, si risveglia una capacità d’attenzione per tutto quello che si possiede, la parte di vita vissuta che può sempre essere richiamata alla mente, in una nuova descrizione di sé. Pensiamo così alla possibilità di andare oltre noi stessi, oltre il noto e il familiare, acquistando la consapevolezza di ciò che dobbiamo ancora conquistare per diventare proprio noi. Osservare i volti, la forma che danno alle loro esistenze, conoscere le differenze degli sguardi, è il modo di vivere l’espressione della città. Chi prova la lontananza sperimenta i gradi infiniti dell’ap-
profondimento del pensiero, fasce parallele di significati racchiusi dalla cinta della città, livelli che si sovrappongono, come trame possibili che scompongono la fissità apparente del quotidiano. Sono strati, spessori, nella medesima cornice del proprio tempo che ha però cambiato le ascisse e le ordinate del suo spazio. Dal primo momento conoscere e vivere Chicago è entrare in un film: abbiamo già preso la metropolitana che si destreggia alta fra i profili dei grattacieli, le immagini del cinema appartengono già alla nostra memoria. La “windy city”, ma anche l’“october city” di Algren è l’energia e la forza della città che assorbe e rigenera il senso delle possibilità, la volontà di sfidare ancora un compito, una nuova decisione del proprio oggi. Come la città è tutte le città americane e le sintetizza, così raccoglie ogni fase importante della propria vita, illuminando un’esperienza nuova dei ricordi, come se essi trovassero uno spazio più ampio in cui muoversi, una mente più libera, un’attenzione più esercitata nella direzione di una nuova libertà di se stessi, un nuovo esercizio di sé. Lo specchio di questi luoghi invita la mente ad esercitare tutta la pratica dell’attenzione perché qui non si ha mai il senso di un déja-vu, ma soltanto la percezione del puro cominciamento. E’ per questo che cerchiamo di narrare la nostra storia, tutto ciò che ci ha portato fino a qui e che abbiamo conservato fino a questo momento, come immagini di un passato col quale possiamo riconciliarci e dal quale sentiamo provenire uno sguardo di sicurezza, perché è il lato migliore di ogni cosa che si riafferma, quasi a sfidare la novità di ogni percezione. La possibilità d’inventare un diverso senso di noi in luoghi inattesi, dipende dal coraggio di rinunciare alla certezza dei tempi e degli spazi più familiari. Chicago ha volti differenti, contrasti a volte estremi, tanti quanti le vite e le menti degli altri, cui appartiene un mondo diverso, che dobbiamo scoprire e cercare di raccontare. Il luogo si trasforma in paesaggio, come una faccia diventa un volto per noi, nel punto in cui inizia l’esperienza della differenza.
Centro e periferia dello sguardo prima e dopo il cinema
FOTOGRAMMI DI CITTÀ
Silvio Grasselli Giacomo Ravesi
«La città che il cinema ci fa conoscere è finzione più che spettacolo, è più vicina a quella del romanziere che non a quella dell’urbanista, dell’architetto, del sociologo o del dirigente politico: lo strumento cambia il dato. Il cinema non filma il mondo, lo altera in una rappresentazione che lo sfalsa. […] A forza di filmarle il cinema non soltanto rivela qualcosa del destino cinematografico delle città (la genesi urbana del cinema), ma lo cambia: la città filmata si sostituisce a poco a poco a qualsiasi città reale, o piuttosto diventa il reale di ogni città.» (Comolli; 2005:157).
Fin dalle sue origini il cinema sceglie la città come orizzonte privilegiato del suo sguardo. Il cinema è arte tecnicamente e socialmente moderna, macchina industriale, scrittura del movimento e illuminazione tecnologica della scoperta del nuovo tempo industriale e metropolitano. Il cinema però è moderno anche e soprattutto sul piano estetico: riconfigurazione e sintesi delle altre sei, la settima arte scopre nella città – oltre il mero sfruttamento scenografico - la sede specializzata dell’immagine-tempo e dell’immaginemovimento1. Nell’accumulo e nell’intreccio di storie e narrazioni, nel moltiplicarsi e sovrapporsi dei nascondimenti e delle “apparizioni”, dei livelli visivi e sonori il cinema è avanzato, felicemente intrecciando il proprio percorso con quello dell’evoluzione della
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metropoli contemporanea. Ogni conquista tecnica, ogni allargamento delle facoltà del medium ha prodotto una crisi, una fase di ripensamento, contrazione e rilancio non solo delle pratiche produttive ma anche delle forme estetiche e delle formulazioni teoriche. La più recente, forse la più radicale di tutte queste crisi ha investito la natura profonda dell’immagine cinematografica, la sua radice tecnologica, il processo stesso all’origine della sua produzione. L’avvento dell’immagine elettronica ha segnato un fondamentale punto di rottura della storia delle tecniche e delle teorie del cinema. Già nelle prime riflessioni del situazionista Debord – risalenti ai primi anni Cinquanta, momento di svolta nel processo di ampliamento dell’egemonia televisiva - capitalismo, controllo, turismo di massa e “spettacolo” audiovisivo sono legati in un inestricabile totalitarismo visivo sotto il dominio del quale lo sfasamento tra il mondo e la sua riproduzione iconica sembra venir meno, lasciando che la seconda prenda il posto del primo. Alle soglie dell’era digitale Wim Wenders fa di questa crisi uno dei materiali più importanti e fecondi del proprio lavoro, legando a questa inedita “cecità” del cinema una radicale afasia narrativa, quasi che, sulle tracce del flâneur benjaminiano, al vedere coincida o succeda direttamente il raccontare, e che dunque in assenza d’immagini dotate di senso venga meno anche la stessa possibilità d’una narrazione urbana. «All’improvviso, in mezzo alle turbolente strade di Tokyo, mi sono reso conto che l’immagine reale di quella città poteva essere veramente quella elettronica e non solo le mie sacre immagini di celluloide. Il linguaggio della videocamera era del tutto in sintonia con quella città. Ero scioccato. Il linguaggio delle immagini non era più prerogativa unicamente cinematografica. Non bisognava forse ripensare tutto? Tutti i concetti di identità, di linguaggio, di immagine, del ruolo dell’autore? Forse i nostri futuri autori saranno i registi di spot pubblicitari e di video musicali, o i realizzatori di videogiochi o di programmi per i computer2. »
Dopo il primo shock ricevuto nel 19853
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dall’apparizione di una Tokyo profondamente diversa da quella osservata e raccontata da Ozu, in Aufzeichnungen zu Kleidern und Städten [Appunti di viaggio su moda e città, 1989] Wenders costruisce una complessiva riflessione sulla condizione della metropoli e sullo statuto delle immagini in movimento nell’età contemporanea. Secondo il cineasta tedesco, il panorama architettonico e audiovisivo della capitale nipponica si specchia nell’immagine video-cinematografica: risultato di un percorso evolutivo che coinvolge in maniera emblematica tanto la tangibilità dell’architettonico e dell’urbano quanto l’immaterialità dell’immaginario tecnologico e culturale creato dal cinema e dalle arti visive nel corso delle loro storie parallele. Dal buco nero della catastrofe palingenetica che ha condensato e liberato energie nuove per una rigenerazione estetica e teorica dell’immagine in movimento, sono nate vie molteplici e disparate, linee filosofiche, pratiche sperimentali più e meno inedite, ricerche estetiche che hanno tentato di sfruttare queste nuove risorse a disposizione per trovare l’uscita dall’empasse. In fondo, da Benjamin al documentarismo contemporaneo, dal cinema sperimentale alla videoarte, centro e periferia dello sguardo si sono sempre rincorsi nell’idea di una ipo o iper-visione: prima e dopo il cinema, ai margini e oltre l’idea di città. Tra queste innumerevoli traiettorie, cercheremo di seguirne due, strettamente intrecciate tra variazioni e ripetizioni, somiglianze e differenze. Analizzeremo prima il lavoro di alcuni registi che, tra la fine del secolo e l’inizio del millennio, hanno lavorato - ciascuno secondo un distinto e orginalissimo percorso –immaginando la ricostituzione di una “verginità” dello sguardo cinematografico attraverso la ristrutturazione del desiderio nella visione4. Una riattivazione dell’”entropia iconica” attraverso lo squilibrio della sottrazione: raccontare la città osservandone i contorni della forma, registrandone il suono, mostrando l’assenza d’immagine nel centro del “visivo”5. Esperienze cinematografiche difficilmente definibili e ricollegabili a un ‘genere’ che ci
conducono fino alla produzione di José Luis Guerin, regista che resuscita il personaggio/ funzione/sguardo del flaneur attraverso la rimediazione del dispositivo cinematografico e dell’autobiografia. Vedremo poi come nella metropoli contemporanea lo sguardo assuma una nuova “centralità” data dall’onnipresenza e pervasività delle immagini, degli schermi e dei dispositivi di visione presenti nella nostra quotidianità. In questo contesto, le forme della sperimentazione artistica rielaborano in maniera talvolta critica, altre entusiastica, questo cortocircuito di immagini e città, arrivando spesso a prefigurare visioni future dello spazio urbano. Dal cinema delle avanguardie all’underground, dalle arti elettroniche alla Web Art, gli sguardi sulla città scoprono così nuove sinergie e rilocazioni ormai completamente espanse nell’interattività e ibridazione dello spazio artistico e metropolitano contemporaneo. Riferimenti bibliografici Comolli, J.L., 2005, Vedere e potere, Roma, Donzelli Editore. Deleuze, G., 1989, Immagine-movimento, Milano, Ubulibri. Deleuze, G., 1989, Immagine-tempo, Milano,Ubulibri. Debray, R., 1999, Vita e morte dell’immagine: una storia dello sguardo in Occidente, Milano, Editrice Il Castoro. Endnotes
1 Cf. Deleuze, G., 1989, Immagine-movimento, Milano, Ubulibri. e Deleuze, G., 1989, Immagine-tempo, Milano,Ubulibri. 2 Appunti di viaggio su moda e città [Aufzeichnungen zu Kleidern und Städten, 1989] di Wim Wenders 3 Si tratta dell’incontro con la metropoli nipponica documentato e raccontato da Wenders in Tokyo Ga, 1985. 4 Cf. Comolli, J.L., 2005,Vedere e potere, Roma, Donzelli, p. 162. 5 Cf. Debray, R., 1999, Vita e morte dell’immagine: una storia dello sguardo in Occidente, Milano, Editrice Il Castoro, p. 215 e seguenti.
Silvio Grasselli
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Appunti di viaggio su cinema e cittĂ Dal centro al margine e ritorno
1.1. Nel 1986 Gilles Deleuze scrive una lettera a Serge Daney, un testo che poi sarà scelto come introduzione alla raccolta Ciné journal1. In essa il filosofo francese ripercorre i tre “stati” dell’immagine sintetizzando quanto scritto dallo stesso Daney nel precedente La Rampe2. Al terzo stato dell’immagine, secondo il critico riletto dal filosofo, si giunge quando « […] non c’è più nulla da vedere dietro, quando non c’è più granché da vedere sopra né dentro, ma quando l’immagine scivola sempre su un’immagine preesistente, presupposta, quando «il fondo dell’immagine è sempre già un’immagine», all’infinito, ed è appunto questo che bisogna vedere. Si tratta dello stadio dove l’arte non abbellisce più né spiritualizza la Natura, ma entra in competizione con essa: è una perdita di mondo, è il mondo stesso che si è messo a fare “del” cinema, un cinema qualsiasi, ed è ciò che costituisce la televisione, quando il mondo si mette a fare del cinema qualsiasi, e quando, come lei [Daney] dice, «non arriva più nulla agli umani, ma è all’immagine che tutto arriva». Si potrebbe anche dire che la coppia Natura-corpo, o Paesaggio-uomo, ha fatto spazio alla coppia Città-cervello: lo schermo non è più una porta finestra (dietro la quale…), né un quadro-piano (nel quale…), ma una tavola d’informazioni sulla quale scivolano le immagini come dei “dati” » (Deleuze;1999:p. 14).
La frizione e la tensione che fin dalle origini sono state tra immagine e mondo, evento e rappresentazione, fenomeno e re-
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gistrazione sembrano acuirsi con la nascita dell’immagine elettronica, che presto diventerà anche numerica (digitale). Guy Debord, proprio in coincidenza con la diffusione su vasta scala della tele(-) visione, pensa la rottura dell’equilibrio di questa relazione dialettica teorizzando il riassorbimento e la fine di ogni sfasamento, di ogni scarto e frattura. L’annullamento di ogni lacerazione attraverso l’esposizione, il nascondimento di ogni separazione dietro un’immagine che non si riferisce più a nient’altro che a se stessa. Il luogo deputato, la fabbrica dove una nuova società del controllo e dell’economicizzazione costruisce i suoi “spettacoli” è la metropoli. Wim Wenders non è il primo né l’ultimo tra i cineasti e filmmaker nel mondo a incappare in questo catastrofico accecamento3. In lui però, nel suo lavoro di ricerca e nella sua pratica d’autore, sembrano condensarsi e mettersi in relazione numerosi elementi disomogenei, prodursi percezioni e reazioni estetiche diverse al punto da risultare talvolta in opposizione reciproca. Se in Alice in den Stadten [Alice nella città, 1973] la riflessione sul medium è ancora aspecifica, “fare” immagini è ancora possibile ed è la loro aderenza allo sguardo del protagonista, la possibilità di metterle in serie dentro un racconto, a costituire il limite da risolvere, in Lisbon Story [Id., 1995] prima il senso d’ogni sguardo viene negato in favore dell’arretramento all’immagine sonora, alla sola “osservazione acustica” – dall’occhio all’orecchio, dallo spazio-tempo della visione al tempo-spazio dell’ascolto -; poi, si passa al tentativo, estremo e grottesco, di rovesciare la cecità del regista protagonista, dall’occhio che non riesce a vedere, all’immagine che nessuno può guardare. Il recupero dello sguardo cinematografico alla fine viene solo attraverso il ritorno alle origini, l’allontanamento dal contemporaneo in favore della persistenza nell’attimo: alla videocamera si sostituisce una vecchia macchina da presa a pellicola, e alla ripresa “peripatetica” dell’obiettivo cieco che, da dietro le spalle, scorre l’orizzonte della città, il regista sostituisce la riproduzione del
movimento davanti l’obiettivo, tra Vertov e Chaplin. Prima, dopo, contemporaneamente a Wenders in molti hanno provato a guardare la città ricostituendo la possibilità dello shock benjaminiano, tentando di ricostituire la distanza dell’occhio dall’apparizione della metropoli, cercando di riattivare la dinamica del senso attraverso la radicalizzazione o la soppressione degli “organi” del dispositivo filmico, l’insistenza e il gioco sui suoi limiti, la decostruzione e il potenziamento delle sue parti elementari.
1.2. «Trovare parole per ciò che si ha dinnanzi agli occhi: quanto può essere difficile. Ma quando esse arrivano, allora è come se battessero con dei piccoli colpi di martello contro la superficie del reale, sino a sbalzarne, come da una lastra di rame, la forma» (Benjamin; 1971: 165). «E in effetti il risveglio rappresenta il caso esemplare del ricordare: il caso in cui riusciamo a ricordarci di ciò che è più prossimo, più banale, più a portata di mano» (Benjamin; 2000: 433).
Honigmann – regista di lungometraggi a soggetto e documentarista d’origine peruviana con cittadinanza olandese - si ricostruisce una sua personale geografia cinematogrfica della città. Nonostante il cinema di Honigmann si possa dire tipicamente metropolitano4, lo spazio che l’obiettivo inquadra è soprattutto quello “epidermico” dei corpi davanti la m.d.p.. Che si tratti di Amsterdam5 o Lima6, al centro dell’inquadratura c’è la figura umana; il materiale fondamentale del discorso del film è la persona. La città però non è affatto luogo indifferente e inerte. Honigmann lavora sul peggiore dei clichè del cinema documentario - l’intervista - ricostituendone dall’interno una nuova forza. L’obiettivo della macchina da presa insiste sui volti e sui corpi annullandone la forma immediata; lo spazio fisico intorno ai protagonisti diventa
FIVESTEPSWITH
JOSÉ LUIS GUERIN
Lo sguardo e la città Incontro con José Luis Guerin (Lisbona maggio 2008) Ripete spesso di credere nella possibilità che lo sguardo del cinema possa ricostituire una verginità alla realtà, come se le cose fossero guardate per la prima volta. È così. La televisione dà l’idea alle persone che non ci sia la possibilità di sorprendersi più di nulla. Niente è sorprendente. Si è persa la fiducia nello sguardo. Nel cinema, per poter trasmettere una certa intensità, la cosa più importante di tutte è non credere a questa idea, che nulla cioè sia più capace di provocare stupore. Il cinema deve essere sempre stupefacente se vuole mantenere viva la fede nell’immagine. Non solo credo che questo sia ancora possibile ma credo per di più che questo costituisca per noi un obbligo preciso. Quando vedo un buon film torno a provare la felicità del primigenio, la capacità d’astrazione di ricordare tutte le migliaia di volte che ho visto un’immagine e pensare che in quel momento sto davvero facendo la prima immagine. I grandi cineasti sono in grado di darmi questa felicità L’immagine della città, dopo l’avvento dell’immagine elettronica di massa, ha subito un mutamento irreversibile, un’irreversibile implosione. Abbiamo l’illusione di conoscere il mondo attraverso la televisione. L’inganno che azzera ogni differenza di tempo e di spazio dando l’idea di poter vedere tutto, ovunque, contemporanemante. La televisione è soprattutto responsabile di aver omogeneizzato la realtà, esaurendo del tutto la ricchezza della cultura popolare. Sono molto legato alle idee di Pasolini della perdita della purezza, dell’innocenza della cultura popolare e della parallela deformazione della forma della città. Credo che la parte più evidente di questo meccanismo sia la televisione, come grande omogeneizzatore delle mode e dei costumi. La televisione impone i suoi ritmi e i suoi tempi. In El sol del membrillo,
Victor Erice poneva proprio il contrasto tra la Natura - il tempo dell’albero, del melocotogno, il tempo delle stagioni, del giorno e della notte - e quello dell’albero della comunicazione: la gran torre della comunicazione che troneggia in mezzo alla distesa urbana, e le finestre che si accendono al tramonto con le luci dei teleschermi. Nei suoi film sembra quasi che filmare la città voglia dire rintracciarne dimensioni diverse, scoprirne e distinguerne piani differenti. Sylvia è un suono, una parola, com’era Laura per Petrarca: un suono, una parola sulla quale lavorare. È l’unico nome proprio che si pronuncia, e nonostante questo non s’incarna in nessuna donna. Si tratta piuttosto di una presenza che aleggia sui volti di tutte le molte donne del film, negli spazi della città. Una soggettiva che media tra il tempo del cinema, quello della letteratura e quella del luogo reale. In tutti i miei film c’è un tempo passato, mitico e c’è un presente. Tutto si articola in questa tensione dialettica tra questi due tempi. In Unas foto en la ciudad de Sylvia c’è il supposto incontro con una donna, nel passato, poi c’è il presente, infine c’è il mito che gravita nella zona di mezzo tra presente e passato. Victor Erice parlando di Innisfree, un altro mio documentario, mi disse una volta che più che un film avevo realizzato una seduta spiritica per evocare i morti, gli assenti. Quest’idea delle dimenzioni temporali che s’intrecciano, delle storie che si sovrappongo, e degli sguardi che si sedimentano c’è un po’ in tutti I miei film. In En construcción è un po’ diverso perché in questo caso ho usato un registro più realistico. Il passato però diventa anche qui tempo mitologico. Si tratta di un film di fine secolo. En construcción è un film “storico”’, il più storico di tutti i miei film. Mi sembrò che la storia si fosse introdotta nel film in modo molto vivo, seguendo il percorso stesso del film. Filmare il presente. Durante le riprese vivevamo il cambio di secolo. Il Barrio Chino per me è una metafora del XX secolo, un quartiere che nel
film finisce e scompare. Qual’è la dinamica di linguaggio che sta alla base dell’uso ponderato della coppia immagine-suono? Il suono per me è essenziale. Io lo utilizzo sempre per definire uno spazio. Con il suono definiamo le distanze, creiamo gli spazi. Lo stesso vale per i ritmi. Per me è sempre molto importante la relazione che s’instaura tra le informazioni che lo spettatore riceve dalle immagini e quelle che gli vengono dal suono C’è una complementarietà e una ritmica. Io cerco sempre che a prevalere sia uno dei due sensi. Il suono è il modo migliore di arrivare allo spettatore. Lo spettatore è sempre molto attento, è molto critico con l’immagine, ma quasi mai si concentra su quello che sta nella colonna del suono. In En la Ciudad de Sylvia il suono gioca sempre come contrappunto al sogno del protagonista, come prolungamento del punto di vista del sognatore. Per esempio, nella sequenza della terrazzo, c’è un momento nella colonna sonora in cui si sente suonare un violinista, come se fosse un melodramma del cinema muto. Al contrario, in un altro momento, mentre il ragazzo gira per la vie, la colonna sonora sembra alludere a un documentario sulla città completamente indifferente al sogno del protagonista. È un contrappunto della realtà, con parole, dialoghi che non ha nulla a che vedere con il cinema. Si tratta di un lavoro costante sulla definizione del punto di vista attraverso il suono. In che senso e in che modo dunque la città le sembra così adatta per dispiegare la sua idea di cinema? La città esalta le facoltà originarie del cinema di registrare il movimento, di scrivere uno sguardo usando passaggi di tempo. Strasburgo, Barcellona, Firenze, Parigi: sono città molto diverse che si muovono e appaiono in modo diverso. Eppure condividono una delle cose che mi affascina di più della scena cittadina: l’intrecciarsi e il sovrapporsi non solo di dimensioni spazio-temporali diverse, ma anche di lingue, culture, costumi che si mescolano nelle strade. Quel che m’interessa non è cogliere lo spirito d’un luogo, quanto piuttosto lavorare sulla relazione e il contrasto tra oggettivo e soggettivo, realtà e sguardo. Il mio ideale in realtà sarebbe poter disporre di ogni singolo elemento del “paesaggio” della città così come lo immagino. Non potendo permettermi di realizzare quest’utopia, scelgo con cura i luoghi dove girerò e li studio frequentandoli per lungo tempo, da viaggiatore, da osservatore, da passante. Il resto è il lavoro del cinema: la scelta, il taglio e il montaggio dei giusti “pezzi” di spazio-tempo.
margine | dentro fuori la cassa di risonanza dentro la quale la memoria in forma di racconto, le parole del ricordo prendono corpo e riverberano una luce sensuale sugli intervistati/narratori che così “appaiono”. Forever (2005) esplicita e realizza al massimo grado di complessità questo processo. L’orizzonte è il confine estremo, la morte. Il set, il luogo dentro la città dove si ricorda la scomparsa e si celebra l’assenza: Pere Lachaise, il cimitero monumentale di Parigi, la città dei morti. Honigmann come Bennings, come Guerin, ma in modo del tutto differente, centra esplicitamente la Riferimenti filmografici
si veda anche:
Film citati nel testo
di Guy Debord Hurlements en faveur de Sade (1952). Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps (1959) Critique de la séparation (1961). La Société du spectacle (1973). In girum imus noctis et consumimur ignis (1978)
di Heddy Honigmann: Forever (2005) Two minutes silence please (1998) 10 Commandments-Private (2000) Metal and melancoly (1993) El olvido (2008) di James Benning Ruhr (2009) di Victor Erice El sol del membrillo (1992) di José Luis Guerin Souvenir (1986) En construcción (2001) Unas foto en la ciudad de Sylvia (2007) En la ciudad de Sylvia (2007)
PERCORSI
Sull’idea della “scomparsa del mondo”
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focalizzazione del film su di sé, dentro i propri occhi. La ricognizione della m.d.p. diventa la ricognizione della regista che osserva i passanti, immagina le ragioni dei loro gesti, le gioie e i dolori delle loro esistenze. Honigmann interroga la vita dal margine esterno, esplora il tempo iniziando dal suo taglio estremo, poi gioca a mettere in relazione il dentro con il fuori, la stratificazione sincronica dell’hic et nunc con la linearità definitiva del passato. Il luogo è strumento e parte del dispositivo, elemento interno all’inquadratura e rimando al fuori, all’oltre. Parola e immagine si rincorrono
di Wim Wenders Reverse Angle (1982) Tokyo Ga (1985) Appunti di viaggio su moda e città (1989) Lisbon Story (1994) di Werner Herzog Fata Morgana (1971) Wodaabe (1989) Apocalisse nel deserto (1992) Rintocchi dal profondo (1993) The Blue Yonder. L’ignoto spazio profondo (2005) Encounters at the End of the World (2007) Per una lettura essenziale degli scritti più frequentati di Walter Benjamin sulla città si veda: Benjamin, W., I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino, 2000. Benjamin, W., Immagini di città, Einaudi, Torino, 1971. Benjamin, W., Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962. Per un primo approccio al concetto di “apparizione” e di“invisibile” nel cinema e nelle arti visive si veda:
e si scambiano reciprocamente di posto, moltiplicando, come in un gioco di specchi, sottrazioni – che sfondano l’immagine verso l’interno – e indici – che invece la fanno aprire a infinite relazioni con il fuori campo e con il fuori quadro. Il cimitero è una città dentro la città. Un margine posto nel centro. Un luogo pubblico d’intimi dolori. Il punto di rottura – e di sutura – tra visibile e invisibile, presenza e assenza, desiderio e ricordo.
Vernet, M., Figure dell’assenza, Torino, 2008. Chion, M., La voce nel cinema, Pratiche, Parma, 1991. Debray, R., Vita e morte dell’immagine: una storia dello sguardo in Occidente, Editrice Il Castoro Milano, 1999. Kristeva, J., La testa senza il corpo: il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Daonzelli, Roma, 2009. AA.VV., La tentazione di credere, Edizioni Fondazione Ente Spettacolo, Roma, 2006. Didi-Huberman, G., Phasmes. Essais sur l’apparition, Les Editions de minuti, Paris, 1998. Wajcman, G., L’objet du siecle, Verdier, Paris, 1998. Per una prima ricognizione delle teorie che si sono occupate della crisi dello sguardo e della proliferazione visiva si veda: Daney, S., La Rampe, Gallimard-Cahiers du Cinéma, Paris,1983. Daney, S., Lo sguardo ostinato, Editrice Il Castoro, Milano, 1995. Daney, S., Il cinema e oltre. Diari 19881991, Editrice Il Castoro, 1997. Daney, S., Ciné-journal, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Marsilio, Venezia, 1999. Comolli, J.L., Vedere e potere, Dinzelli, Roma, 2005. Debord, G., La società dello spettacolo, Stampa Alternativa, Viterbo, 1995. Debord, G. Opere cinematografiche, Bompiani, Milano, 2004. Debray, R., Vita e morte dell’immagine: una storia dello sguardo in Occidente, Editrice Il Castoro Milano, 1999. Virilio, P., L’arte dell’accecamento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007.
apparizione | movimento 1.3. «Di fronte alla città dominante oggi, quella dei pubblicitari, dei turisti, della sorveglianza generalizzata, non resterebbe al cinema che ritrovare la città del guerrillero come l’ha girata Robert Kramer (Ice, 1970): la città che sfugge allo spettacolo, che si disvela all’improvviso, la città mentale. Il contrario delle visioni dominanti dall’alto dei poteri. Direi che questa città invisibile è quella del cinema documentario, la città che rimane in disparte, ai margini dell’inquadratura, che non si consegna agli sguardi, che si sottrae alla ripresa». (Comolli J.L.; 2005: 162)
James Benning lavora, al contrario di Heddy Honigmann, sullo sguardo impersonale, sul cinema “non-umano”. Ruhr, il suo primo lungometraggio in alta definizione digitale, ripete uno schema sperimentato e perfezionato già altrove con i mezzi analogici: la camera, fissa, registra impassibile una scena apparentemente immobile per interminabili minuti. Il film è diviso in due parti. 1. è una serie di sei piani da dieci minuti ciascuno, scorci della regione del titolo – uno degli agglomerati urbani più vasti d’Europa -; 2. invece è un unico piano che dura sessanta minuti, nel quale Benning condensa – accelerando impercettibilmente il tempo della riproduzione di una ripresa lunga un’ora e mezza – l’osservazione della ciminiera di uno stabilimento carbonifero che sbuffa - nel cielo azzurro - fumate di vapore, a intervalli regolari, dal pomeriggio fino alla notte. Un anonimo tunnel stradale, la strada di un altrettanto anonimo quartiere residenziale, il ventre meccanico e infernale di una grande fabbrica, la foresta vicina a un aeroporto: sono tutti luoghi deserti, privi della presenza umana ma pure animati dal movimento che l’uomo ha originato. Non il movimento “organico”, ma quello impersonale e ripetitivo della macchina. Unico ambiente abitato è l’interno di una moschea, dove l’assemblea dei fedeli - la folla senza nome e senza volto – copre, secondo i tempi cadenzati del rito comunitario, l’obiet-
tivo della camera, posta in basso, in mezzo agli oranti. Niente volti, solo corpi, solo la variazione e la ripetizione, il fuori campo che irrompe inatteso dentro l’inquadratura e, viceversa, la sparizione dei corpi in movimento fuori dai bordi dello schermo. Qui il rapporto tra uomo e città si trova invertito, restando valido il principio di fondo che regola la costruzione del film: in Ruhr è la figura umana ad essere appena visibile, ma è la sua presenza efficiente a illuminare lo spazio vuoto, provocando la metamorfosi di quello che potrebbe essere un video di sorveglianza in “apparizione” dello spazio metropolitano. Di nuovo suono e immagine si rincorrono e rimpiazzano reciprocamente, preannunciandosi l’un l’altro o segnalando la sparizione reciproca. La drastica riduzione del “volume espressivo” serve ad aumentare la potenza dei singoli elementi nel gioco del testo. Fuori dalla Storia e da ogni tridimensionalità cronologica, Ruhr espande a dismisura l’attimo presente dell’”osservatore ozioso”7 del quale Benning prende implicitamente il posto. Nell’assentarsi, la città si avvicina, si rende presente. Il “passaggio” benjaminiano è affermato e ritrovato nella sua negazione apparente. È solo il tempo qui che passa; dentro di esso il cinema scopre le variazioni appena percettibili che rompono e aprono il movimento della ripetizione. Se per tutta la prima parte sembra che l’obiettivo rincorra il mondo voltato di spalle, nella seconda è il mondo che si ferma a guardare dentro l’obiettivo.
1.4. «Il cinema privilegia la città in quanto è uno dei principali modi d’iscrizione dell’invisibile. L’invisibile: è ciò che esiste senza essere ancora reperibile, ciò che non è diventato sguardo, che non è diventato spettacolo; e, per esempio, ciò che passa, che è passato, che non smette di passare, il tempo e il suo corteo di fantasmi, il flusso temporale che rende ogni città un intreccio di movimenti,
il luogo di tutti i luoghi e il tempo di tutti i tempi: passaggio». (Comolli J.L.; 2005: 158)
Nel 1992 lo spagnolo Victor Erice dirige il documentario El sol del membrillo. Un pittore – Antonio López – tenta di fissare col suo pennello l’attimo eterno di un melocotogno. Il film “dura” un anno nel corso del quale il cortile viene visitato da amici e colleghi, le stagioni cambiano e si alternano portando pioggia e vento, sole e nubi; la voce della radio racconta l’accadere del mondo, la città si muove senza sosta e l’alberello marcisce e sboccia secondo il ciclo della vita naturale. Come il segno lasciato sulla tela da una cornice che non c’è più, così la città scorre ai margini del film, segnandolo con la sua incombente assenza. Fuori dal laboratorio e dal cortile del pittore scorre il flusso diffuso e compatto della città che splende perenne, di notte e di giorno, illuminando il buio con il baluginare dei teleschermi che occhieggiano dalle finestre, con treni che entrano ed escono dalle bocche dei tunnel, con i grattacieli che brillano a intermittenza; frammenti dinamici, superfici multiple, pezzi separati che si fondono nel “brulichio metropolitano”, nell’immagine della città. Dentro il recinto dove lavora Lopez invece gli sguardi della m.d.p. del pittore e dei suoi ospiti non fanno che moltiplicarsi l’un l’altro, segnando e rafforzando la discontinuità tra soggetto e oggetto, dispositivo “d’imbalsamazione” e realtà, sgranando gli infinitesimi intervalli del tempo, le impercettibili variazioni della luce e dei colori, rompendo la cronologia dell’indifferente e “sfondando” il piano del presente in modo tale che il sogno del passato lo invada con le sue immagini.
1.5. «La strada conduce il flaneur attraverso un tempo scomparso. Per lui ogni strada è scoscesa, lo conduce in basso, se non proprio alle Madri, tuttavia in un passato, che può tanto più ammaliare in
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ricordo | sogno | desiderio quanto non è il passato suo proprio, privato. Eppure esso resta sempre il tempo di un’infanzia. Ma, perché, quello della sua vita vissuta? Sull’asfalto, dove egli cammina, i suoi passi destano una sorprendente risonanza. Il lampione che illumina il selciato getta una luce ambigua su questo doppio fondo». (Benjamin W.; 2000: 465) «Chi cammina a lungo per le strade senza meta viene colto da un’ebbrezza. A ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; ma seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo di strada. […] Come un animale ascetico si aggira per i quartieri sconosciuti, finché sfinito crolla nella sua camera, che lo accoglie estranea e fredda». (Benjamin W.; 2000: 466)
Negli stessi anni e in luoghi vicini, José Luis Guerin sembra – indirettamente - raccogliere la sfida lanciata al cinema da Wenders, proseguendo sulla strada aperta dal maestro Erice. Viaggiatore camminatore, osservatore nostalgico e malinconico, Guerin produce la rivitalizzazione del flaneur nel suo proprio sguardo prima che nei suoi film. In Souvenir8 – uno dei suoi primi cortometraggi – il regista catalano mette in scena se stesso come viaggiatore nello spazio e nel tempo. Il film, muto, si apre con una didascalia chiaramente ispirata da una forte fascinazione per il cinema del passato, e, in fondo, del passato tout court: «Blancas nubecillas pasaban tras Notre-Dame en un viejo film de Jean Renoir. Y yo me digo, así es que esas nubecillas cruzaron por ahí hace más de 50 años»9. È la prima e l’ultima volta che Guerin entra con il proprio corpo nell’inquadratura, che mette in scena il proprio “personaggio cinematografico”. Vent’anni più tardi lo sguardo del regista coincide con quello della videocamera che esplora con uguale intensità scorci urbani e volti di donna. Il filo che sottende il viaggio e la ricerca è il ricordo.
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«E, se è vero che gli americani si sono serviti del video per andare ancora piò veloce (e controllare le alte velocità), come restituire il video alla lentezza che sfugge al controllo e che conserva, come insegnargli ad andare lentamente, secondo un “consiglio di Godard o Coppola?»(Deleuze, G.; 1999: 16)
Unas fotos en la ciudad de Sylvia (2007) è saggio e diario di viaggio, poema e appunto scarabocchiato sopra un notes elettronico, ricerca e dispersione, cammino interminabile dell’occhio sulle tracce di una donna che esiste solo nel ricordo, o forse nel sogno, e neppure in quello. Dalla letteratura al cinema, da Dante e Petrarca a Proust, da Sylvia a Laura e da Firenze a Strasburgo, il “cineocchio” di Guerin cerca e trova relazioni invisibili e segrete tra luoghi e tempi separati e distanti l’uno dall’altro, tracce e segni che spingono la ricerca sempre oltre. Il lungometraggio è completamente muto, e composto per intero di quelle che sembrano istantanee in bianco e nero. Si tratta in realtà di still estratti dalle riprese registrate da una piccola videocamera commerciale. Un modo, forse, per operare un primo rovesciamento del flusso video, un tentativo – riuscito – di far “andare lentamente” e rimediare anche l’immediata immagine digitale. Un’operazione radicale ed elementare, nuova ma primitiva, quasi rudimentale. En la ciudad de Sylvia (2007) è la letterale ri-animazione del film precedente. Un lungometraggio di finzione nel quale l’immagine della città – Strasburgo – ritrova il movimento e anche l’obiettivo della m.d.p. si sposta di continuo, da dentro a fuori la soggettiva del protagonista. Non è Guerin a percorrere a piedi le vie di Strasburgo – stavolta anche sonore e a colori -, a sedere al bar prendendo appunti e disegnando volti in attesa di scoprire, nella folla, il volto dell’amata: al suo posto c’è un attore. Così il regista pone un’altra mediazione, aggiunge altra distanza tra sé e la città che vuole penetrare fino a scovare - nascosto nei vicoli o al di là d’una finestra, dietro un tram o in mezzo ai tavoli d’un ristorante - il volto di Sylvia.
Sogno e ricordo si confondono, come si confondono i tratti somatici di Sylvia, coperti e confusi da quelli di altri volti, di altri occhi, di altri sorrisi. Il desiderio spinge avanti la ricerca. Come in preda a sonnambulismo, il protagonista inizia a vagare per le strade e i vicoli, attratto da un dettaglio, dal colore di un vestito, dal gesto di una mano, all’inseguimento di una donna misteriosa di cui non vede che le spalle e non riconosce che il movimento. Nel labirinto animato delle strade della città il protagonista si perde. Poi, d’improvviso, all’immagine si sostituisce il suono. Tra i rumori delle vie, dentro il sovrapporsi delle ombre sonore di gesti ed eventi vicini e lontani, da una finestra aperta si diffonde una melodia. Forse oltre quella soglia Sylvia si sta lavando, si sta spogliando o si sta spazzolando i capelli. Una sagoma tiene fisso l’occhio del viandante che cerca di superare il buio dentro l’appartamento. Poi riprende la marcia, dietro un corpo inafferrabile, mosso dal desiderio e dal ricordo. E così si ripetono le vie, le scritte sui muri, il passaggio davanti ai negozi, l’attraversamento di archi, di piazze, di cantoni in ombra; e si ripete ostinatamente lo sguardo che cerca e scruta, scorre e aspetta. Fino al punto che sembra quasi che insieme al corpo in moto perpetuo della donna, il viandante cerchi di cogliere le differenze nella configurazione della via: l’ombra che sposta il suo taglio sugli edifici, i passanti che si alternano indaffarati per la strada, il tintinnio d’una bottiglia che rotola via, lo scampanio che viene da lontano e si riverbera sulle pareti degli edifici. Il film che più di tutti si concentra sulla città come luogo di sintesi e cambiamento, di desiderio e ricordo, di distruzione e salvezza è En construcción (2001). Girato proprio in coincidenza con la fine del secolo XX, il documentario mostra i mesi durante i quali il Barrio Chino, storico quartiere popolare di Barcellona, viene letteralmente abbattuto e ricostruito per ospitare nuova borghesia benestante. L’autobiografismo si riduce ad anonima soggettività scopica. L’inquadratura si
flâneur | invisibile frantuma e riorganizza accogliendo al suo interno la fantasmagoria urbana, la proliferazione delle finestre e delle soglie, l’intreccio degli sguardi e la comunicazione degli ambienti. Un fremito di elementi discreti, di sguardi unitari, di spazi contigui e corpi alieni sembra attraversare l’immagine, dentro la quale tutto si trova in relazione con tutto. Dalla terra riaffiorano i resti del passato – antiche sepolture di epoca romana -: in pochi mesi sopra di essi sorgerà il nuovo ordine del capitale. Alla fine del secolo il Barrio Chino diventa laboratorio dell’annientamento del Mito, della normalizzazione del ritmo selvaggio del passato. Campo e controcampo. En la ciudad de Sylvia si chiude sull’amara scoperta che il volto della donna inseguita non è quello dell’amata, sulla constatazione che in fondo è nell’immaginazione l’unica salvezza. Che il movimento verso l’”immagine immaginata” non può che alimentarsi del desiderio, della distanza incolmabile, della prossimità rigettata e sempre respinta in avanti. En construcción affida l’epilogo alla giovane protagonista – una prostituta che dalla sua finestra contempla, desiderante, i corpi degli operai che lavorano sui tetti vicini; che con il suo corpo e il suo sguardo abita le vie del circondario, sempre sul punto di ricevere lo sfratto, di sparire anche lei insieme al suo quartiere. La m.d.p. arretra in linea retta fissando la ragazza che avanza lungo la via, carica del peso del compagno che porta sulle spalle. La ripresa è frontale. La giovane procede senza mai fissare lo sguardo in macchina, nonostante l’obiettivo insista a fronteggiarla, fino a quando, sfinita, rinuncia, fa scendere il ragazzo dalle spalle e sparisce per un breve istante dal margine destro dell’inquadratura, quasi superando la m.d.p., entrando nell’al di qua, dentro il quadrato dell’invisibile10. Chiede pietà a chi la sta riprendendo: la sua forza ha un limite. Quando ricompare nell’inquadratura fa appena a tempo a salire sulla schiena del compagno prima che il quadro nero prenda il suo posto.
Riferimenti bibliografici Benjamin, W., 2000, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi. Benjamin, W., Immagini di città, Einaudi, Torino, 1971. Comolli, J.L., 2005, Vedere e potere, Roma, Donzelli. Deleuze, G., Ottimismo, pessimismo e viaggio. Lettera a Serge Daney, in Daney, S., Ciné-journal, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Marsilio, Venezia, 1999. Daney, S., 1999, Ciné-journal, Venezia, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Marsilio. Virilio, P., 2007, L’arte dell’accecamento, Milano, Raffaello Cortina Editore. Vernet, M., 2008, Figure dell’assenza. L’invisibile al cinema, Torino, Kaplan. Endnotes
1 Deleuze, G., 1985, Ottimismo, pessimismo e viaggio. Lettera a Serge Daney, in Daney, S., 1999, Ciné-journal, Venezia, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Marsilio. 2 Daney, S., 1983, La Rampe, Paris, Gallimard-Cahiers du Cinéma. 3 Cf. Virilio, P., 2007, L’arte dell’accecamento, Milano, Raffaello Cortina Editore. 4 Perché metropolitani sono i personaggi e le situazioni che la regista sceglie per i suoi film: dai taxisti di Lima (Metal and Melacholy) ai musicanti del Metro di Parigi (The Underground Orchestra), dalla sofferta relazione d’una solitaria cittadina innamorata (Au revoir) al racconto di una comunità raccolta intorno a una celebrazione nazionale contesa (Two Minutes Silence Please). 5 Città che compare per esempio in Two minutes silence please (1998) e in 10 Commandments-Private (2000) 6 Città chiave nella filmografia della regista peruviana. Cfr. Metal and melancoly (1993) e El olvido (2008). 7 Cfr. Benjamin, W., 2000, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi, pp. 869-878 e in particolare p.877. 8 Souvenir, di J.L. Guerin, 1986 9 «In un vecchio film di Jean Renoir piccole nuvole bianche passavano dietro NotreDame. Mi dico allora, è così che quelle nubi passarono lassù più di cinquanta anni fa.» [Trad. mia] 10 Cfr. Vernet, M., 2008, Figure dell’assenza. L’invisibile al cinema, Torino, Kaplan, pp. 34-63.
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Giacomo Ravesi
IL «POST» E L’«OLTRE» DELLAVISIONE La metropoli contemporanea e la sperimentazione artistica
U
na volta si diceva «città» e tanto bastava. Una volta si diceva «cinema» e tanto bastava. I due termini, pur nella possibilità evidente di una eterogeneità d’interpretazione, evocavano – almeno nel senso comune – un immaginario piuttosto chiaro e consolidato. Ora non più. Figure
sperimentazione | intermedialità emblematiche della modernità e dei suoi processi più caratteristici, la città ed il cinema si ritrovano oggi in una complessa fase transitoria, che mette in discussione non solo la natura essenziale, ontologica della loro struttura, ma soprattutto il senso della loro trasformazione. Così, se un tempo la città tradizionale svaniva nella metropoli, abbandonando molte delle proprietà che storicamente l’avevano caratterizzata, oggi la metropoli si espande nel territorio, imponendosi come un continuum urbano tendenzialmente senza soluzione di continuità, che ingloba entro di sé larghi spazi di ciò che le sta intorno e nello stesso tempo si «ramifica» nei flussi delle reti informatiche, delle infrastrutture della comunicazione mediatica, nel sempre più diffuso rilievo dell’immagine audiovisiva. Ci troviamo di fronte a una «città infinita» (Bonomi, Abruzzese (eds.) 2004), in una condizione che già molti definiscono della post-metropoli, o del post-urbano, sempre più pervasiva rispetto ai gesti e ai riti della nostra vita quotidiana, sia a livello locale che planetario. E cosa succede contemporaneamente al cinema? Dopo essere stato «l’occhio del Novecento» (Casetti 2005), vale a dire il profeta, il testimone, la guida del suo tempo e dei suoi cambiamenti, si ritrova oggi, nella tarda modernità – o postmodernità che dir si voglia –, inevitabilmente ad una svolta epocale, coinvolto in un salto di paradigma, che caratterizza tanto l’orizzonte culturale, quanto quello economico, la trasformazione tecnologica quanto quella sociale, lo statuto epistemologico quanto quello ontologico. In una parola, come ha sentenziato Francesco Casetti, vediamo un nuovo cinema, «da non essere più lo stesso, ma altra cosa. Cinema due, se volete» (Casetti 2005: 29). La necessità di un superamento delle consuete categorie di definizione ed interpretazione dell’immagine cinematografica e dello spazio metropolitano ha portato artisti visivi, cineasti, architetti e studiosi a interessarsi, con sempre maggior convinzione, delle possibilità e potenzialità di un dopo del cinema e della città. Un dopo che li ha necessaria-
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mente condotti a (ri)considerare tutta una serie di ricerche, sperimentazioni e teorie tese a forzare i limiti definitori e a spingere l’idea di cinema e di città oltre se stessa. L’idea di un oltre del cinema e della città esprime infatti il tentativo dell’immagine audiovisiva da una parte, e della metropoli contemporanea dall’altra, di accompagnare e rielaborare criticamente quella trasformazione incessante – resasi sempre più evidente negli ultimi decenni – che ha inesorabilmente mutato teorie e terminologie dello spazio metropolitano e delle arti visive. Ecco perché oggi è sempre più la dimensione del post e dell’oltre ad assumere una rilevanza fondamentale negli studi di cinema, arti visive e architettura urbana. Basta guardare semplicemente le terminologie più diffuse nella riflessione sullo spazio urbano contemporaneo per accorgersi che è tutto un coacervo di «metropoli e oltre», «post-metropoli», «divenire metropolitano», «semiotiche post-urbane», «iper-città». Contemporaneamente si sono sviluppate sempre di più teorie sull’oltre del cinema, che hanno aperto un’indagine accurata sulle possibilità di quel «future cinema» (Shaw, Weibel (eds.) 2003) sempre più «espanso» oltre il film, nel video, nelle arti elettroniche e digitali, nelle immagini di sintesi, nella rete. Ma anche – perfettamente in linea con le sinergie tra arti visive e architettura contemporanea – dislocato nei nuovi spazi della metropoli contemporanea: negli schermi-pelle dei media building, nel continuo gioco di specchi, trompe-l’œil e mise en abyme delle vetrine, delle illuminazioni artificiali, dei videowall e delle video-registrazioni a circuito chiuso; nei parchi a tema, nei centri di divertimento e negli shopping mall, dove lo spettacolo cinematografico riversa le sue forme più propriamente attrazionali, di environment e di simulazione. Questa nuova imagerie cinematografica definisce inedite forme della visione filmica sempre più ri-locate oltre la sala: dall’avvento degli individual media alle forme expanded dell’esperienza metropolitana quotidiana. La metropoli odierna, insomma, sembra realizzare le profezie di una «società traspa-
rente» (Vattimo 2000), diventando un’enorme immagine audiovisiva mass-mediale, un’installazione interattiva, un «ambiente sensibile»1. In questo senso le ricerche sulla metropoli contemporanea condotte nell’ambito di quella che – dopo la convergenza digitale – ormai in molti amano definire la sperimentazione audiovisiva, risultano essere quanto mai rilevanti. La sperimentazione audiovisiva ha colto – forse prima di altre forme audiovisive anche più consolidate – la sempre più profonda interrelazione e ibridazione del sistema delle arti e dei media. Se la cultura postmoderna ci ha ormai abituato a una circolarità nel riciclaggio di motivi, figure e stilemi, che transitano liberamente nell’universo cross-mediale degli audiovisivi (dal cinema al videogame, da Internet alla letteratura, dalla videoarte al music video, dalla tv all’arte contemporanea), tentare di indagare lo sviluppo delle forme espressive sperimentali può risultare estremamente chiarificatore per comprendere quanto tali linguaggi, una volta considerati esclusivamente élitari e inaccessibili al grande pubblico, abbiano in realtà anticipato – se non preconizzato – la rivoluzione intermediale degli audiovisivi e la «cultura convergente» (Jenkins 2007) che stiamo vivendo oggi. D’altronde è possibile individuare tutta una linea di pensiero – a partire dai grandi “filosofi della metropoli” della modernità di fine Ottocento e inizio Novecento2, come Simmel, Benjamin e Kracauer, fino ad alcuni settori del pensiero critico contemporaneo – che si è lungamente interessata alle relazioni tra la «cultura dell’immagine» e lo spazio urbano, attraverso l’analisi di tutti quei dispositivi audiovisivi, estetici e mercantili, spettacolari e tecnologici, che sempre più affollano l’orizzonte metropolitano. I led, i multiscreen al plasma, i monitor a LCD, le videoproiezioni, la cartellonistica semovente, i media building, i fasci luminosi, i raggi laser, gli showlight della «Light City» (Altarelli 2006) del xxi secolo hanno ormai definitivamente amplificato e rinnovato quella «fantasmagoria» dell’illuminazione artificiale, delle Esposizioni Universali, delle vetrine,
FIVESTEPSWITH
LUCIO ALTARELLI
I suoi studi più recenti si concentrano sugli allestimenti e le installazioni nella città contemporanea. Perché ritiene che questi motivi architettonici e infrastrutturali abbiano acquisito una centralità così decisiva nelle pratiche urbane più recenti e che cosa le differenzia dalle esperienze precedenti? L’effimero ha sempre affiancato la densità marmorea di piazze e monumenti, conformando un mondo antipolare rispetto ai temi della permanenza. Nella contemporaneità allestimenti & installazioni sono diffusamente presenti negli spazi urbani per attività connesse all’arte, alla cultura, allo spettacolo e alla comunicazione. La loro azione, debole ma diffusa, ha prodotto una modificazione forte della città esistente, più di qualsiasi strumento di previsione urbana, come quello del p.r.g. [Piano Regolatore Generale], connesso ai tempi di lunga durata e, quindi, largamente ineffettuale. Il linguaggio degli allestimenti, grazie alla sua impermanenza, si pone, inoltre, in assonanza con la fine delle grandi mappe e narrazioni del Moderno e con gli statuti deboli ed evenemenziali della contemporaneità.
Il tema della trasparenza e dei riflessi e, quindi, in ultima analisi quelli del doppio, hanno sempre indirizzato l’immaginario dell’arte, della letteratura e dell’architettura. Nell’architettura contemporanea il tema della trasparenza riveste un grado di maggiore ambiguità, rispetto, per esempio, la trasparenza fredda che ha contraddistinto le rigide stereometrie dei primi grattacieli, da quelli del Moderno fino a quelli dell’International Style. Da un lato questo avviene a seguito della odierna disponibilità tecnica di diversi prodotti industriali; vetri sabbiati, acidati, serigrafati, interattivi o multimediali producono una gamma pressoché illimitata di trasparenze e riflessi. Dall’altro si registra un elemento di natura più concettuale; le dissolvenze incrociate delle vetrine urbane e dei courtain wall della contemporaneità agiscono come i layer dell’elettronica, trovando in questa loro attualità un intrinseco valore aggiunto. Per Jean Nouvel la trasparenza della Fondazione Cartier, con il suo palinsesto di riflessi ed opalescenze, costituisce un salutare ed ambiguo “territorio di destabilizzazione”. Sottoscrivo pienamente questa annotazione.
Le pratiche dell’allestimento nello spazio urbano vivono della contaminazione dell’architettura con le altre arti e i media (il cinema, la videoarte, la moda, il design, la pubblicità, ecc.). In che modo il carattere intermediale del sistema delle arti contemporanee influenza l’architettura? La città contemporanea è una città multitasking caratterizzata da una radicale trasversalità di linguaggi. A questa permeabilità disciplinare vanno aggiunti i diversi palinsesti di reale e virtuale introdotti dai new media. Nell’era del digitale e dell’elettronica lo statuto dell’architettura si confronta con l’altro da sé: con l’immaterialità dell’elettronica e con l’invisibilità della rete. Tema contrastato della contemporaneità: per alcuni un rischio, per altri una opportunità, una realtà accresciuta o una stereorealtà, come afferma Paul Virilio in assonanza con gli apparati della stereofonia.
Nella città contemporanea l’individuo entra in contatto con una gran varietà d’immagini: monitor di sorveglianza, videowall, insegne pubblicitarie, media bulding, ecc. In che modo la configurazione “ipermediale” dello spazio urbano riscrive le mappe sensoriali e percettive del cittadino già indagate da Simmel e Benjamin agli inizi del Novecento? La città contemporanea è una città relazionale. L’uso di cellulari, di sms, di email e di social network descrive la mappa di una nuova geografia comportamentale che aggiorna quella della città esistente, individuando forme alternative di usi & consumi dei suoi spazi. Grazie a queste pratiche di relazione ci si incontra per pranzi collettivi, per aperitivi di gruppo, per ingaggiare scontri con cuscini di tutte le forme e colori oppure per ballare negli atri delle stazioni, ciascuno però, al ritmo del proprio iPod. Nell’era dell’elettronica la fisicità di corpi e architetture si sovrappone all’invisibilità della rete, determinando un unico palinsesto. Nella città relazionale il flâneur della contemporaneità, abbandonati definitivamente i passages e i boulevards di Walter Benjamin, apprende, attraverso il suo iPhone, l’arte di smarrirsi nella foresta della rete.
Il motivo della trasparenza rappresenta un mito caratteristico sia della metropoli moderna di fine Ottocento e inizio Novecento, sia di quella contemporanea. In che modo l’architettura contemporanea può farsi espressione di un’estetica dello sguardo e della visione?
Alla luce delle trasformazioni tecnologiche ed epistemologiche contemporanee, lei parla di smaterializzazione dell’opera d’arte, di architettura immateriale, di fluidità e virtualità dell’esperienza urbana. Che peso hanno le innovazioni tecnologiche nella costruzione della città del futuro? Non sono in grado di fare previsioni per il futuro. Rimanendo al presente noto che esiste un filo rosso che lega Moderno e contemporaneo attraverso il tema del vuoto e della smaterializzazione. Una parte consistente del Moderno e delle avanguardie storiche sono legate ad un
comune processo di sottrazione tendente ad un grado zero di scrittura, ad approssimarsi al quasi nulla, al celebre beinahe nichts di Mies van der Rohe. Quest’ansia di smaterializzazione trova nella contemporaneità un ulteriore rafforzamento nei processi di derealizzazione e di smaterializzazione introdotti dal paradigma elettronico. Non è un caso che molti architetti ed artisti mettano in scena materiali immateriali, quali luce, fumi e vapori. Dal Blur Building di Diller + Scofidio alle performance urbane della giapponese Fujiko Nakaya che si definisce “artista della nebbia”. Questi processi di sfocatura, particolarmente evidenti in architettura, dalla Blurring architecture di Toyo Ito al Cosmic Egg, architettura a “gravità zero” di Rem Koolhaas, segnano l’urgenza di passare da una urbanistica del pieno ad una urbanistica del vuoto.
post-cinema | post-metropoli
Nuovo libro (Nowa ksiazka, 1975) Zbigniew Rybczynski; Megalopoli (2000) Studio Azzurro; Sleepwalkers (2007) Doug Aitken. Sulle relazioni tra architettura contemporanea e new media si vedano le opere architettoniche: Torre dei Venti (1986) Toyo Ito; Istituto del Mondo Arabo (1987) Jean Nouvel; Fondazione Cartier (1994) Jean Nouvel; Euralille (1995) Jean Nouvel; Edificio Andel (2002) Jean Nouvel. Sui legami tra ambient music e spazio urbano si vedano gli album musicali: Eno, B. 1978. Music For Airports. EG Records. Eno, B. 1982. On Land. EG Records. Per un’analisi interrelata dei cambiamenti occorsi nel sistema degli audiovisivi e nella metropoli contemporanea si veda: Arcagni, S. 2010. Oltre il cinema. Metropoli e media. Torino: Kaplan.
PERCORSI
Per un resoconto delle contaminazioni tra metropoli e arte contemporanea si vedano: Di Capua, M., Iovane, G., Mattarella, L. (eds.). 2006. Metropolitanscape. Paesaggi urbani nell’arte contemporanea. Cinisello Balsamo-Milano: Silvana Editoriale.
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spettatorialità delle insegne pubblicitarie, dell’affiche, della segnaletica stradale e della toponomastica urbana caratteristica della Groβstadt, la grande città del xix e xx secolo. Le stesse proiezioni su schermi giganti, i labirinti delle meraviglie dell’immagine in movimento, i Sensorama, pur se attuati (per motivi di investimenti e di costi) in situazioni come le esposizioni universali – e oggi i parchi a tema, le «Géodes», le megasale spettacolari – possono pur sempre offrire quello shock, quella esperienza percettiva nuova che adesso manca allo spettatore comune, metterlo di fronte a una sorta di esplosione del quadro e della cornice, scuoterlo, liberarlo dalla visione bidimensionale, sottoporlo a una percezione complessa, ricca, fatta di simultaneità e di associazioni (Lischi 2004: 71-72).
Allo stesso modo la pratica continua dello «shock» benjaminiano (Benjamin 2000) e l’«intensificazione della vita nervosa» di Simmel (Simmel 1995) si sono oggi estese nell’«iperrealtà» e «desertificazione siderale» dello spazio metropolitano di Baudrillard (Baudrillard 2000) e nelle idee di una territorialità e temporalità «liquida» nell’era del «capitalismo software e della modernità leggera» di Bauman (Bauman 2006). Queste riflessioni – pur nell’ovvia diversità concettuale e di condizione – rivendicano tutte un aggiornamento, se non una rifondazione, delle tradizionali teorie e pratiche estetico-interpretative, alla luce delle nuove forme esperienziali e sensoriali, percettive e performative che il tessuto metropolitano ha prodotto e produce nella vita quotidiana individuale. Secondo il critico e storico dell’arte e dell’architettura, Anthony Vidler, le modificazioni epistemologiche e gnoseologiche prodotte nell’esperienza metropolitana attuale sono il risultato di un percorso di ricerca trasversale e interdisciplinare fra le arti e i media che interessa in maniera radicale il ruolo ricoperto dall’immagine e l’espansione delle pratiche di visione nell’ambiente urbano contemporaneo.
L’inevitabile conflitto fra diversi mezzi di comunicazione – cinema, fotografia, arte, architettura – che spezza i confini fra generi e arti differenti, rispondendo alla necessità di accostarsi alla rappresentazione dello spazio in una maniera inedita. Anziché estendere semplicemente i propri riferimenti al tridimensionale, gli artisti affrontano le problematiche dell’architettura integrandole nelle loro installazioni e cercando di attaccare gli elementi tradizionali dell’arte. Parallelamente, gli architetti esplorano i processi e le forme dell’arte, spesso dal punto di vista offerto dagli artisti stessi, per sfuggire alla rigidità dei canoni funzionalisti e formalisti. Quest’incontro ha generato una sorta di “arte intermedia” costituita da oggetti che, apparentemente situati in una pratica artistica, richiedono gli strumenti interpretativi di un’altra per essere spiegati. La relazione fra i due tipi di deformazione, psicologica e artistica, è stabilita dal terreno comune di tutte le pratiche artistiche e architettoniche moderne: lo spazio della metropoli, nelle sue differenti forme e identificazioni culturali, dalla Vienna e dalla Berlino di fine Ottocento alla Los Angeles di fine Novecento (Vidler 2009: 8).
Oggi sono, del resto, gli stessi artisti e architetti a creare opere che tra loro si richiamano, rimandando spesso ad uno stesso immaginario audio-visivo. Emblematico è quanto accade in Nuovo libro (Nowa ksiazka, 1975): opera sperimentale dell’artista polacco Zbigniew Rybczynski, dove la scomposizione dell’inquadratura cinematografica in nove riquadri promuove un’idea di città ipertestuale, modulare e sincronica. Il film si compone di nove piani-sequenza affiancati, che costruiscono una temporalità simultanea ed uno spazio illusorio. Le micro-azioni dei singoli spazi si svolgono contemporaneamente e i luoghi, se pur idealmente separati dalle “finestre” (e, per giunta, filmati in tre città diverse: Lòdz, Lowicz e Pabiance) risultano contigui, visto che i personaggi passano da un riquadro all’altro lasciando intuire che si trovano a poca distanza. In questo modo
Rybczynski obbliga lo spettatore a ripensare completamente i modi di lettura della messa in scena audiovisiva e dello spazio-tempo metropolitano. Fin dal titolo l’artista polacco indica un’inedita concezione del testo e della sua fruizione, che oltrepassa le tradizionali categorie estetiche di causalità, linearità e consequenzialità narrativa. Il proposito di superare la forma libro e le sue modalità fruitive è, tra l’altro, perfettamente in linea con diverse ricerche che attraversano tanto la storia del cinema quanto quella delle arti visive. Come non ricordare, ad esempio, il «libro a forma di sfera» ipotizzato nel 1929 da Ejzenštejn (Ejzenštejn 1986), o il libro con vinile, Non libro più disco, proposto nel 1970 da Cesare Zavattini (Zavattini 2009), o anche tutte le ricerche condotte da quegli artisti visivi e performativi che, attorno agli anni ’60, hanno concepito «il libro come lavoro d’arte»: da John Cage al gruppo Fluxus, da Piero Manzoni a Michelangelo Pistoletto, dalla pop e visual art alla conceptual art3, fino ai più recenti ipertesti narrativi concepiti per il web da Michael Joyce4. L’opera di Rybczynski, dunque, mette – o rimette – in discussione molte delle questioni estetiche e percettive legate alle trasformazioni occorse nell’ambiente metropolitano e nel sistema degli audiovisivi contemporanei: dall’idea di città collage, patchwork e ipermediale utilizzata dagli studiosi di sociologia urbana per analizzare la metropoli postmoderna (Amendola 2007) al superamento della nozione di montaggio in favore di una coesistenza dei punti di vista. Anche se il supporto è ancora cinematografico (pellicola 35mm), Nuovo libro si rivela essere, da un punto di vista estetico e concettuale, un’opera già completamente elettronica, se non digitale. E dunque perfettamente pronta e proiettata a interpretare la metropoli del futuro. Una metropoli del futuro oggi più che mai figlia delle forme della videoinstallazione e delle pratiche di creazione artistica digitale e informatica. È letteralmente un muro di schermi metropolitani l’enorme videoinstallazione sincronizzata Megalopoli che il collettivo di artisti Studio Azzurro ha presentato nel
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contemporaneità 2000 alla vii Biennale Architettura a Venezia. Trentanove schermi installati su un muro lungo 286 metri e alto 5, video-proiettano immagini raccolte da diverse metropoli del mondo: dalle discariche di Manila ai neon colorati delle insegne di Las Vegas, dalle demolizioni degli enormi grattacieli di Shanghai alle favelas di San Paolo, dalle biciclette degli operai di Hong Kong al proliferare degli schermi televisivi a Mosca. Sono forme urbane differenti che, moltiplicate identiche dagli schermi o assemblate in un’unica grande figura, compongono un enorme mosaico elettronico dell’urbanistica e dell’architettura metropolitana contemporanea, ma soprattutto delle contraddizioni sociali che l’idea di mega (o iper) città mondiale produce. In alcuni casi limite, è persino lo stesso spazio metropolitano a presentarsi come un enorme museo d’arte contemporanea all’aperto: sede architettonico-espositiva di videoproiezioni a grandezza ciclopica. È quanto avvenuto nel gennaio e febbraio del 2007 a una parte della città di New York attraverso la suggestiva videoinstallazione Sleepwalkers (2007) realizzata dal videoartista Doug Aitken. L’opera è composta di cinque video della durata di tredici minuti ciascuno, pensati per essere proiettati simultaneamente nelle ore serali (tra le cinque e le dieci) su otto porzioni delle facciate del Museum of Modern Art nella zona compresa tra la 53a e la 54a Street e tra la 5a e la 6a Avenue. Ogni video segue le ordinarie attività di un lavoratore notturno che si sveglia al finire della giornata e svolge le sue mansioni di corriere, elettricista, impiegato postale, uomo d’affari, funzionario. Ogni personaggio è interpretato da un attore o musicista noto (Ryan Donowho, Sue Jorge, Chan Marshall alias Cat Power, Donald Sutherland e Tilda Swinton) che viene prevalentemente filmato attraverso primi piani e dettagli rigidamente formalizzati a livello compositivo e illuminotecnico. Ogni gesto abituale compiuto dall’attore assume così un’intensità profonda, al tempo stesso misteriosa ed evocativa: specchio di una condizione di solitudine universale. Seppur la multi-proiezione è un dispositivo nor-
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malmente utilizzato nelle opere di Aitken, in Sleepwalkers il ricorso alla grande scala rende l’opera una megainstallazione urbana integrata con i ritmi e i tempi di vita della città di New York. Nella videoinstallazione è in particolar modo il sovradimensionamento spaziale e architettonico dell’immagine a configurare una rinegoziazione dell’identità temporale. È come se l’ingrandimento fisico dell’immagine producesse una sorta di “spazializzazione del tempo”: un blow-up del vettore temporale nello spazio, opposto e contrario ai processi largamente diffusi nei video d’artista contemporanei di congelamento e rallentamento dell’immagine. In Sleepwalkers la spazializzazione su scala urbana delle immagini configura il panorama della città come un’architettura audiovisiva che, oltre a trasfigurare la dimensione temporale degli eventi, riscrive la consueta dicotomia tra spazio interno ed esterno. Esposte sulle facciate degli edifici, le intimità quotidiane dei protagonisti dei video ribaltano le funzionalità caratteristiche dello spazio pubblico. I giganti sonnambuli di Aitken si muovono nelle loro gigantesche stanze – entrano, escono, si spostano, ma non c’è un “dentro” abbastanza capiente da poterli ospitare. Per contro, il fuori, lo “spazio urbano” come si diceva una volta – che ormai di urbano ha ben poco, assalito com’è non più solo da segni (almeno quelli permanenti, solidi, come cartelli, indicazioni, insegne pubblicitarie ecc.), ma anche da sogni, proiezioni, megaschermi ecc. – sembra diminuire di scala, si rimpicciolisce, diventa esso stesso un dentro di cui quegli interni presunti costituiscono l’esteriorità immaginaria (Senaldi 2008: 68).
Se per Benjamin già «con l’osservazione dei passages sorge una nuova prospettiva spaziale» dove «la strada si dà a conoscere come l’intérieur ammobiliato e vissuto dalle masse» (Benjamin 2007: 900 e 965), nella metropoli contemporanea il percorso di rivalutazione dello spazio pubblico in privato è ormai pienamente completato. Come di-
mostra Sleepwalkers l’urbano è divenuto domestico, tanto quanto l’individuale si è reso collettivo. In linea con le più avanzate proposte teoriche dell’architettura contemporanea – dalla «città dei bits» di William J. Mitchell (Mitchell 1997) all’«architettura dell’intelligenza» di Derrick de Kerckhove (De Kerckhove 2001), dallo «junkspace» di Rem Koolhaas (Koolhaas 2006) all’«estetica della sparizione» di Paul Virilio (Virilio 1992) – oggi è la stessa architettura a guardare con curiosità alla sperimentazione audiovisiva, sviluppando precetti e dispositivi estetici e tecnologici assimilabili. Come non pensare, ad esempio, guardando la Torre dei Venti dell’architetto giapponese Toyo Ito, realizzata nel 1986 nei pressi della stazione di Yokohama, alle ricerche sull’interattività, la sensorialità espansa e la riconversione dei concetti di autore, opera e spettatore promosse da tanta videoarte nel corso della sua storia? La torre, avvolta in un cilindro di allumino perforato e circondata da dodici anelli al neon rivestiti da lastre riflettenti in materiale acrilico, modifica l’immagine del suo prospetto tramite 1280 piccole lampade sensibili all’intensità e alla variazione del vento, della luce, della temperatura e al numero dei decibel prodotti dal traffico urbano. Come in un ambiente sensibile di Studio Azzurro o in un’installazione interattiva di Jeffrey Shaw, la torre, attraverso dei sensori elettronici e informatici – in tutto simili a quelli sperimentati dagli stessi artisti visivi – “reagisce” alla presenza del flusso urbano e ambientale. Come un’installazione, essa modifica la sua condizione di stand by in rapporto al suo fruitore. In egual misura osservando l’edificio multifunzionale Andel nel quartiere Schmikov a Praga e il centro commerciale Euralille a Lille, entrambi realizzati dall’architetto francese Jean Nouvel, rispettivamente nel 2002 e nel 1995, è facile pensare alle pratiche e alle riflessioni teoriche – promosse in particolar modo agli esordi della videoarte – sullo spaesamento percettivo spaziale e temporale dello spettatore nelle videoinstallazioni a circuito chiuso di Bruce Nauman, o in quelle
– in maniera ancora più direttamente legate alle problematiche architettoniche e di intervento urbano – di Dan Graham. Nouvel ricorre, infatti, a tre file parallele di prospetti in vetro, secondo una modalità costruttiva già utilizzata nelle note costruzioni della Fondazione Cartier (1994) e dell’Istituto del Mondo Arabo (1987) di Parigi. Sulle tre file sono impresse, oltre alle consuete insegne pubblicitarie, testi, immagini serigrafiche e ologrammi, che rinviano, non solo ad una semplice architettura «di supporto» tipica del media building, ma ad una messa in crisi delle consuete coordinate spazio-temporali della geometria euclidea, della visione prospettica e della linearità temporale. Investito da una trasformazione epistemologica più generale, è lo stesso architetto a rivendicare la necessità di una nuova sensibilità estetica, percettiva e conoscitiva dello spazio urbano contemporaneo, sulla base anche delle conversioni attuali dell’universo degli audiovisivi. I miei edifici cercano di giocare su effetti di virtualità, di apparenze; ci si chiede se la materia è presente oppure no, si creano immagini virtuali, ambiguità. Un edificio può giocare sulla trasparenza, ma vi sarà una relazione anche con il gioco del riflesso. Nel caso della Fondazione Cartier, non si sa mai se si vede il cielo oppure il riflesso del cielo; in generale si vedono entrambi ed è quest’ambiguità a creare un gioco di apparenze molteplici. Allo stesso tempo, l’edificio gioca anche sulla funzione più triviale della trasparenza in rapporto allo spazio espositivo: ciò che viene esposto al suo interno cambierà la natura dell’edificio, o almeno la sua percezione – ma questo è il suo scopo (Baudrillard, Nouvel 2003: 62-63).
Uno spazio dunque “aperto”, fluido e potenziale come le immagini dei new media, istantaneamente pronte ad una ri-semantizzazione e ri-funzionalizzazione costitutiva dell’ambiente urbano. Rapportare problematicamente le acquisizioni pratiche e teoriche prodotte dall’architettura e dalle arti visive contem-
poranee permette di indagare con successo la percezione nella metropoli contemporanea dell’eccesso di stimoli, dei punti di vista e delle informazioni. E allo stesso tempo consente di ripensare e rilanciare il binomio immagini in movimento-città nelle storie del “cinema” e delle arti per tentare di intravedere i loro possibili percorsi futuri. Riferimenti bibliografici Altarelli, L. 2006. Light City. La città in allestimento. Roma: Meltemi. Amendola, G. 2007. La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea. Roma-Bari: Laterza. Baudrillard, J. 2000. America. Milano: SE. Baudrillard, J., Nouvel J. 2003. Architettura e nulla. Oggetti singolari. Electa: Milano. Bauman, Z. 2006. Modernità liquida. Roma-Bari: Laterza. Benjamin, W. 2000. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi. Benjamin, W. 2007. I «passages» di Parigi. a cura di Rolf Tiedemann. Torino: Einaudi. Bonomi, A., Abruzzese, A. (eds.). 2004. La città infinita. Milano: Bruno Mondadori. Casetti, F. 2005. L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità. Milano: Bompiani. Celant, G. 2008. Artmix. Flussi tra arte, architettura, cinema, design, moda, musica e televisione. Milano: Feltrinelli. De Kerckhove, D. 2001. L’architettura dell’intelligenza. Torino: Testo&Immagine. Di Marino, B. (ed.). 2007. Studio Azzurro. Videoambienti, ambienti sensibili e altre esperienze tra arte, cinema, teatro e musica. Milano: Feltrinelli. Ejzenštejn, S. M. 1986. Drammaturgia della forma cinematografica. In Id. Il montaggio. a cura di Pietro Montani. Venezia: Marsilio. Eno, B. 1997. Futuri impensabili. Diario, racconti, saggi, Firenze: Giunti. Jenkins, H. 2007. Cultura convergente. Milano: Apogeo.
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1 Il termine «ambiente sensibile» è legato al collettivo di artisti italiani Studio Azzurro. Cf. Di Marino (ed.) 2007. In ogni caso, per loro stessa ammissione, il termine risente delle ricerche sull’ambient music e l’ambient video condotte tra gli anni ’70 ed ’80 dal musicista e videoartista Brian Eno. Cf. Eno 1997. 2 Per una riconsiderazione recente di questo panorama di studi cf. Vegetti (ed.) 2009. 3 Per una disamina storico-teorica di queste esperienze artistiche cf. Celant 2008. 4 Sull’opera di Michael Joyce cf. i siti http://www.eastgate.com e http://iberia.vassar. edu/˜mijoyce/.
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Il racconto diYOD Indaco Vito Comiso
M
arita dormiva nella stazione centrale. Camminava avanzando lentamente mentre spingeva un carrello della spesa ingombro di tutto quello che era la sua casa e la sua vita in mezzo ai viaggiatori di ogni giorno, pendolari, studenti, lavoratori e turisti, che attraversavano le banchine ad ondate successive come una mareggiata a singhiozzo. Non ricordava più qual era il suo vero nome, non ricordava più nulla del suo passato. Quel nome glielo aveva dato Renzino, il controllore che faceva il turno di notte. Una volta l’aveva chiamata più volte a spintoni senza riuscire a svegliarla e infine quando lei aveva appena socchiuso gli occhi le aveva chiesto come si chiamasse. Lei non aveva capito la domanda, tanto più che quella domanda per lei non aveva senso. In quel momento le era tornata alla mente da chissà dove, il ricordo di un prato e dei tanti fiori che lo coloravano. Il suo ricordo si era coagulato attorno ad una piccola margherita. Con la bocca impastata dal sonno e dall’alcol della notte aveva risposto a Renzino mugugnando un “margherita”, ma le era venuto fuori un “ma..a..rit”. Così era stata ribattezzata Marita. Lei aveva preso questo nome come prendeva ogni sorgere di sole al
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mattino, così come era venuto. E da quel giorno era stata Marita per tutti. Viveva fusa con la speciale natura che la circondava, fatta di ferraglia e sbuffi di vapore, di persone, di passi sui marciapiedi, degli echi delle voci dei tramvieri e degli spazzini la mattina presto. Si lavava al mattino alla fontanella della banchina di sinistra, perché lì vicino l’ufficio della polizia ferroviaria era aperto e l’impiegato di turno le offriva sempre una sigaretta. Si lavava mettendo la punta delle dita sotto l’acqua fredda, poi si passava sugli occhi quel fresco. Così cominciava la giornata. Andava a pisciare in fondo ai binari, dietro i vagoni merci fermi per la notte. Sollevava un poco il vestito, come per un non precisato senso di riguardo, e la faceva in piedi. Il calore del piscio le scaldava le gambe. Era grassa di una grassezza appesa, le gambe gonfie come zampe di elefante, il doppio mento una pappagorgia imponente. I pochi capelli grigi appiccicati alle tempie e divisi sulla fronte come una tendina di paglia sporca. Faceva colazione nel cestino dei rifiuti del bar, dove trovava spesso dei mezzi cornetti addentati e gettati via in un involto di carta unta, oppure dei bicchieri di plastica col fondo di un qualche succo di frutta. Alcune volte la ragazza del bar le dava a pranzo di nascosto quello che rimaneva dalle colazioni del mattino, oppure un caffè lungo nel bicchiere della coca-cola. Trascorreva il resto della giornata spingendo indolente il carrello, fermandosi al sole o seduta su qualche panchina libera. La sera si gettava sulle spalle una coperta bucherellata dai mozziconi di sigaretta, e dormiva nella sala d’aspetto fino all’orario di chiusura. Poi durante la notte si spostava sotto i vagoni merci o vagava per le stradine vicine alla stazione, appoggiandosi alle pareti e sonnecchiando in piedi.
Quando qualcuno le gettava qualche spicciolo se lo beveva subito tutto in birra. Gabriele percorreva ogni giorno la stessa strada, la mattina per andare a scuola e alle due per tornare a casa. Alla stazione scendeva da un treno e attendeva la coincidenza sull’altro binario per tornare a casa. A volte vedeva la vecchia barbona seduta su una panchina al sole, addormentata col mento poggiato sul petto e la bocca semiaperta. Altre volte l’aveva vista vagare per le banchine mentre spingeva pesantemente il suo carrello arrugginito, intorpidita dal sopore alcolico della birra. Quella mattina stava appoggiata con una spalla contro un pilastro della tettoia. Ondeggiava, gli occhi chiusi, come se stesse per cadere da un momento all’altro e all’ultimo vi fosse una qualche molla che riuscisse per miracolo a sostenerla. Ad un certo punto l’ondeggiamento sembrò più ampio. Gabriele si spaventò pensando allo schianto che poteva fare se fosse rovinata al suolo. Padre Riccardo gli diceva sempre che un buon cristiano aiuta sempre il prossimo, anche e soprattutto quando il prossimo non chiede aiuto ma sembra averne bisogno. Quello sembrava proprio il caso descritto da padre Riccardo. Guardò l’orologio, ormai mancavano pochi minuti per la coincidenza. Quel pomeriggio voleva andare a casa di Andrea e giocare con la sua nuova Playstation. Poi avrebbero fatto insieme una corsa fino a casa sua, Andrea lo avrebbe riaccompagnato in bici mentre lui in piedi sul portapacchi avrebbe sentito l’aria fresca della sera pizzicargli le guance. Guardò di nuovo Marita che ora sembrava immobile, la testa solo più reclinata sul petto e i pochi capelli sporchi a farle ombra sul volto. All’improvviso
riprese ad oscillare pericolosamente e Gabriele spaventato si lanciò verso di lei. Non l’aveva mai vista da vicino. Una zaffata di puzzo di piscio rancido gli prese lo stomaco e lo fece vacillare. Esitò mentre sentiva salire in gola i primi segnali di un vomito impellente. Strinse i pugni e serrò la bocca per non respirare quella puzza. Fece un altro passo e le passò un braccio sotto le ascelle per sorreggerla, mentre Marita aveva preso un ultimo più ampio ondeggiamento e stava davvero cadendo. Faticò non poco perché era pesante, ma riuscì ad accompagnarla alla panchina più vicina. La fece sedere con cautela e si assicurò che fosse al sicuro da altri rischi di cadute, quindi le si sedette affianco. La sua coincidenza arrivò e ripartì con un fischio prolungato. Il cielo si stava oscurando mentre il sole tramontava. Le luci della stazione erano tutte accese. Chissà quanto tempo era passato adesso. Da dove era seduto non riusciva a vedere l’orologio della stazione. La mamma si sarebbe certamente arrabbiata non vedendolo tornare all’ora solita. Le avrebbe raccontato di avere perso la coincidenza e di essersi fermato da Giuliano a fare i compiti. Marita cominciò a russare rumorosamente. Puzzava anche di birra. Gabriele si chiese da quanto tempo non si lavava. In fondo ai binari la stazione era semibuia. Era uno di quei momenti in cui non ci sono treni in partenza né in arrivo e la stazione sembra un posto fuori dal mondo. Nel buio in alto dietro le tettoie si accese il neon dell’albergo “Rosetta”. Lampeggiò un minuto prima di fissarsi. Nel tempo che ci aveva messo ad accendersi aveva avuto un colore tra l’azzurro e il viola. Doveva essere quel colore che Gabriele non riusciva mai a trovare nelle confezioni dei pennarelli.
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Potevamo scegliere molte parole per raccontare quanto realizzato in due anni di lavoro.
Preferiamo ricordare quanti hanno voluto condividere con noi la passione di un impegno per orientarsi sempre meglio nelle difficili sfide poste dai problemi della comunicazione nel mondo contemporaneo. OLIVIER ABEL • SILVANO AGOSTI • IGOR AGOSTINI • LUIGI ALICI • LUCIO ALTARELLI • GIANNI AMELIO • DARIO ANTISERI • ADRIANO APRÀ • AZZURRA ARGENTIERI • COSIMO MASSIMO ARGENTIERI • EMILIO BACCARINI • GIULIA BELGIOIOSO • EDOARDO BONCINELLI • EUGENIO BORGNA • POL BOUCHER • FRANCESCO BUTTURINI • LUCIANO CANFORA • GIANRICO CAROFIGLIO • ALDO CASTO • PABLO CHIUMINATTO • VITO COMISO • PAOLA COPPI • GIUSEPPE CUTRONE • MARIA PIA D’ORAZI • ARTHUR C.DANTO • MARCELO DASCAL • VARDA DASCAL • JULIANA DE ALBUQUERQUE KATZ • PAOLO DE BENEDETTI • SILVIA DI PIETRO • ALESSANDRA FARKAS • GUGLIELMO FORGES DAVANZATI • CARLO FORMENTI • MASSIMO GIRALDI • GIANCARLO GIRAUD • MARIALUISA GIULIANO • SILVIO GRASSELLI • SERGIO GRMEK GERMANI • JOSÉ LUIS GUERIN • JUAN GUZMÁN • DAVID HARRINGTON • WERNER HERZOG • HANS HURCH • RANDALL KLINE • ERNESTO G. LAURA • SANDRO MANCINI • SAMANTHA MARENZI • ARMANDO MATTEO • ENRICO MENDUNI • NICOLETTA MICHELI • CLAUDIA MILANI • FABIO MINAZZI • PAOLA MOSCARDINO • ENZO NATTA • PEPPINO ORTOLEVA • MASSIMILIANO PADULA • GRAZIA PAGANELLI • CLAUDIA PEDONE • GABRIELE PEDRINA • RUI PEREIRA • PAOLO PERRONE • PAOLO PEVERINI • ALESSANDRA PIZZI • VITTORIO POSSENTI • CORRADO PUNZI • GIACOMO RAVESI • RICCARDO REALFONZO • ANTONELLA RICCIARDELLI • STEFANO RODOTÀ • KATHRIN H.ROSENFIELD • SERGIO SALVATORE • JACOB SCHMUTZ • LEONOR SCLIARCABRAL • MARIO SIGNORE • CARLO SINI • PAOLO SPINICCI • IGOR TAVILLA • GIULIA TOSSICI • RICCARDO VIALE • DARIO EDOARDO VIGANÒ • MARTA VIGNOLA • DAN ZAHAVI • GABRIELLA ZAMMILLO • GHIL’AD ZUCKERMANN
A questi nomi, bisogna aggiungerne uno. Il tuo.
Siete pronti a scoprire le novità del 2011?
YOD. CINEMA, COMUNICAZIONE E DIALOGO TRA SAPERI www.yodonline.com ANNO II N. 6 SETTEMBRE - DICEMBRE 2010 ISBN 978-88-7402-656-2 Poste Italiane s.p.a. Spedizione in Abb. Postale D.L. 353/2003 - (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, DCB (TORINO) - 1-2/2009 Registrazione Tribunale di Roma n. 567/99 del 1-12-1999 Direttore responsabile Dario Edoardo Viganò vigano@yodonline.com Direttore editoriale Giovanni Scarafile direttore@yodonline.com Direzione Giovanni Scarafile Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Università del Salento Via V.M. Stampacchia - 73100 LECCE Tel. +39.0832.294662 | Fax +39.0832.294626 Proprietà ACEC Presidente ROBERTO BUSTI Segretario Generale FRANCESCO GIRALDO Segreteria Generale acec@acec.it Redazione ACEC Via Nomentana, 251 00161 ROMA Tel. +39.06.4402273 | Fax. +39.06.4402280 redazione@yodonline.com Editore Effatà Editrice Via Tre Denti, 1 10060 Cantalupa (TO) Tel. +39.0121.353452 | Fax +39.0121.353839 info@effata.it | www.effata.it Hanno collaborato: MASSIMO GIRALDI, GHIL’AD ZUCKERMANN, JULIANA DE ALBUQUERQUE KATZ, CECILIA ROFENA, SILVIA DI PIETRO, SILVIO GRASSELLI, GIACOMO RAVESI, VITO COMISO, LEONOR SCLIAR-CABRAL, CRISTINA MARRAS, MARIALUISA GIULIANO Progetto grafico, impaginazione e illustrazioni Roberta Pizzi grafica@yodonline.com | www.robertapizzi.com Webmaster COSIMO SALICANDRO webmaster@yodonline.com Stampa Publistampa Arti Grafiche s.n.c. di Casagrande Silvio & C. Via Dolomiti 12 | 38057 Pergine Valsugana (TN)
Crediti fotografici Le immagini e le illustrazioni delle pagg. 1, 9, 31, 57, 62 sono di proprietà di YOD. Per le altre immagini l’editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici, è a disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti. Foto di copertina Mystical station | 18 gennaio 2008 | Jsome1 / Feliciano Guimarães | licenza Creative Commons su www.flickr.com | Immagine terza di copertina Blank Page Turning © HaywireMedia #9930724 | fotolia.com
Giovanni Scarafile Leonor Scliar-Cabral
1 5
Ghil’ad Zuckermann
7
Marialuisa Giuliano
10
Juliana de Albuquerque Katz
14
Kathrin H. Rosenfield Cristina Marras
17 20
Massimo Giraldi
23
Silvia Di Pietro
28
Arthur C. Danto
31
Cecilia Rofena
40
Silvio Grasselli, Giacomo Ravesi
45
Silvio Grasselli
47
José Luis Guerin
49
Giacomo Ravesi
54
Lucio Altarelli
57 62
Vito Comiso
Editoriale Yod
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9 788874 026562
ANNO II N. 6
SETTEMBRE - DICEMBRE 2010
SETTEMBRE-DICEMBRE 2010 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abb. Postale - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB (TORINO) N°6 3 | 2010 € 12,00
ARTHUR C. DANTO MASSIMO GIRALDI GHIL’AD ZUCKERMANN JULIANA DE ALBUQUERQUE KATZ KATHRIN H. ROSENFIELD CECILIA ROFENA SILVIA DI PIETRO SILVIO GRASSELLI JOSÉ LUIS GUERIN GIACOMO RAVESI LUCIO ALTARELLI VITO COMISO LEONOR SCLIAR-CABRAL CRISTINA MARRAS MARIALUISA GIULIANO ALESSANDRA FARKAS
BELLEZZA
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dell’
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Søren Aabye Kierkegaard, Diario di un seduttore
In caso di mancato recapito inviare a TORINO C.M.P. NORD per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa.
Quando si ama non si frequentano le strade maestre [...]. Quando si ama e si vuole cacciare il capo dal proprio guscio, non ci si avvia dalle parti del lago; sebbene sia soltanto una strada di passaggio, è tuttavia battuta e l’amore preferisce aprirsi da sé le sue strade.