Strade di notte

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Qualche giorno fa, a notte fonda, mentre lavoravo in una place Saint-Augustin completamente deserta data l’ora, vidi una macchina, una di quelle che di solito usano i disabili. Era a tre ruote, una poltrona mobile con davanti una sorta di volante: scuotendolo si aziona la catena che lo unisce alle ruote posteriori. La vettura fece il giro dei poligoni luminosi a una lentezza folle, onirica, poi prese per boulevard Haussmann. Mi avvicinai per guardarla meglio; dentro c’era una vecchina tutta imbacuccata; distinsi soltanto un viso scuro e incartapecorito a cui restava ben poco di umano e una mano ossuta dello stesso colore che muoveva a fatica il volante. Li avevo già visti, esseri simili, ma sempre di giorno. Dove poteva andare, di notte, quella vecchietta? Perché era lì, quale poteva essere la ragione di quel suo viaggio notturno? Chi c’era ad attenderla, e dove? La seguii con gli occhi; la compassione, l’impossibilità di cambiare le cose e la curiosità – fortissima, un’esigenza fisica come la sete – mi toglievano il respiro. Non scoprii niente di più di ciò che vidi, è ovvio. Tuttavia la poltrona a rotelle che si allontanava e il suo lento cigolare – nitido nell’aria fredda e immobile della notte – risvegliarono in me quel desiderio mai pago di scoprire e comprendere le vite degli altri che negli ultimi anni non mi aveva dato requie, ma che era rimasto sempre infruttuoso, dal momento che non avevo tempo da dedicargli. Il rimpianto per quei frutti impossibili mi ha accompagnato lungo tutta la vita, eppure riflettendoci in seguito mi scoprii a pensare che tanta curiosità era incomprensibile, condannata com’era a sbattere contro ostacoli pressoché insormontabili dovuti in ugual 5


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misura alle circostanze materiali e ai difetti congeniti del mio cervello. Senza contare che a ulteriore intralcio di qualunque astrazione c’erano ancora i miei sensi e la loro tormentata percezione dell’esistenza. Mi ostinavo a non comprendere passioni e pulsioni che non provavo in prima persona; dovevo compiere ogni volta uno sforzo enorme, per esempio, per non dare degli emeriti scemi indegni di pietà e compatimento a coloro che – spinti da un fuoco cieco e incontrastabile – dilapidavano le proprie sostanze fra carte e alcol. Solo perché, per puro caso, io non reggevo gli alcolici e al tavolo verde mi annoiavo a morte. Allo stesso modo non comprendevo i dongiovanni che passavano la vita saltando da un letto all’altro; in quel caso, però, la ragione era un’altra, e la capii – dopo averla ignorata a lungo – quando ebbi il coraggio di arrivare in fondo alle mie riflessioni e mi accorsi che la mia era invidia, un’invidia che mi stupì non poco, non essendone capace in frangenti diversi. Chissà, forse anche nel caso di altre passioni che non concepivo sarebbe bastato un mutamento minimo e impercettibile per comprenderle, per subirne l’effetto devastante e diventare – a mia volta – oggetto della commiserazione altrui. O forse la mia indifferenza era mero istinto di conservazione, che evidentemente possedevo in misura maggiore rispetto a coloro che perdevano i loro magri guadagni alle corse o se li bevevano al bar. Tuttavia, d’intralcio alla mia curiosità disinteressata verso quanto mi circondava e alla mia barbara ostinazione a capire ogni cosa fino in fondo era, oltre al resto, la mancanza di tempo libero, dovuta – a sua volta – allo stato di profonda indigenza in cui versavo e alla necessità di concentrare tutta la mia attenzione su come procacciarmi il cibo. Questa stessa circostanza, però, mi forniva una discreta messe di impressioni superficiali, sulle quali non avrei potuto contare se la mia vita fosse stata diversa. Non avevo pregiudizi riguardo a ciò che vedevo, cercavo sempre di non generalizzare e di non trarre conclusioni affrettate, eppure, mio malgrado, due erano i sentimenti che provavo, fortissimi: il disprezzo e la pietà. Al ricordo di quella triste esperienza, oggi sono portato a credere che – forse – mi 6


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sbagliavo e che quei sentimenti non avevano ragione d’essere. Eppure niente li ha scalfiti per lunghi anni, ancora oggi nulla posso contro di essi come nulla si può contro la morte, e dunque negarli non avrebbe senso; sarebbe una viltà pari al voler negare che, in fondo al cuore, provavo la voglia indubbia e incomprensibile di uccidere qualcuno, disprezzavo la proprietà altrui ed ero incline al tradimento e alla perversione. L’ abitudine a interessarmi di eventi immaginari che – per una ovvia serie di casi – non erano mai accaduti rendeva quegli stessi eventi ancora più reali di quanto lo sarebbero stati se fossero accaduti davvero; del resto, possedevano un fascino particolare di cui la realtà vera era priva. Spesso, rincasando dopo il turno di notte per le strade morte di Parigi, mi inventavo i dettagli di un omicidio: l’antefatto, le conversazioni, le sfumature della voce, l’espressione degli occhi; e i personaggi dei miei dialoghi immaginari erano conoscenti occasionali, un passante che mi aveva colpito o, magari, io stesso nei panni dell’assassino. Alla fine di quei pensieri di solito giungevo alla stessa deduzione-sensazione: un misto di stizza e dispiacere all’idea di ritrovarmi con una vita tanto inutile e sconfortante in cui un caso assurdo aveva fatto di me un tassista. Tutto quanto – o quasi – c’era di bello al mondo mi era precluso, sbarrato, vietato: ero solo, con il mio desiderio cocciuto di non finire avviluppato dalla bassezza umana infinita e desolante che vedevo ogni giorno e di cui era fatto il mio lavoro. Era ovunque, di rado cedeva il posto a qualcosa di positivo, e quanto a disgusto e orrore, neanche una guerra civile avrebbe retto il confronto con quella che, in fondo, era un’esistenza pacifica. Certo, composta com’era da categorie di individui che natura e mestiere condannano a priori, la popolazione notturna di Parigi era decisamente diversa dalla diurna. Per di più certa gente non ha remore con un tassista: cosa vuoi che me ne freghi, pensano, del giudizio di qualcuno che non vedrò più e che non potrà riferire ai miei conoscenti ciò che gli dico! Dunque vedevo i miei clienti com’erano in realtà, non come volevano sembrare, e da un tale incontro gli sventurati uscivano quasi sempre 7


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con le ossa rotte. Da osservatore spassionato quale ero, avevo notato che si somigliavano tutti, e che in questa equazione poco lusinghiera la signora in abito da sera di avenue Henri Martin poco si distingueva dalla sorella meno fortunata che batteva il marciapiede da un angolo all’altro della strada come una sentinella; che i signori di Passy e Auteuil contrattavano lo sconto sulla corsa tanto quanto gli operai ubriachi di rue de Belleville; e che non c’era da fidarsi di nessuno di loro, come ebbi a convincermi ripetutamente. Un giorno, agli albori della mia carriera di tassista, accostai al marciapiede attirato dai gemiti di una signora distinta sui trentacinque anni col viso gonfio che, appoggiata a un cippo, piangeva e mi faceva segno di avvicinarmi; tra i singhiozzi mi chiese di portarla all’ospedale: si era rotta una gamba. La sollevai, la caricai in macchina, ma una volta arrivati si rifiutò di pagarmi e disse all’uomo in camice bianco presentatosi ad accoglierla che l’avevo investita e che si era rotta la gamba cadendo. Dunque non soltanto ci rimisi la corsa, ma rischiai un’imputazione per – così si chiama – omicidio colposo. Per mia fortuna l’uomo col camice non sembrò troppo convinto di quel che sentì e io tolsi il disturbo di gran carriera. Da quel giorno schiacciai l’acceleratore e passai oltre senza fermarmi ogni volta che a farmi segno erano persone chine su altre persone riverse sul marciapiede. In un’altra occasione un uomo elegantissimo che avevo portato alla Gare de Lyon dall’hotel Claridge mi allungò cento franchi. Io non avevo il resto; lui si infilò dentro la stazione con la scusa di cambiare la banconota e addio, non lo rividi più. Era un tipo rispettabile, con i capelli bianchi e il sigaro, lo si sarebbe detto un direttore di banca. Anzi, è molto probabile che lo fosse. Una notte, erano le due, dopo che l’ennesima cliente era scesa, accesi la luce e vidi sul sedile posteriore un pettinino incrostato di diamanti – molto probabilmente falsi – che però sembrava prezioso. Non avevo voglia di scendere e dissi a me stesso che l’avrei recuperato in seguito. Nel frattempo su uno dei viali adiacenti a Champ de Mars mi fermò una signora in 8


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sortie de bal di zibellino: doveva andare in avenue Foch. Quando scese mi ricordai del pettine e mi girai a controllare. Era sparito: la signora impellicciata l’aveva rubato al pari di una servetta o di una prostituta. Questi pensieri, e molti altri, si affacciavano quasi sempre alle stesse ore del primo mattino. In inverno era ancora buio, in estate giorno fatto, ma per strada non c’era comunque più nessuno; giusto qualche operaio, sagome silenziose che passavano e scomparivano. Io quasi non li guardavo: conoscevo a memoria loro, i quartieri in cui abitavano e quelli in cui non mettevano mai piede. Parigi è divisa in zone chiuse, irrigidite; ricordo un vecchio operaio – lavoravamo insieme alla cartiera vicino a boulevard de la Gare – che mi disse di non essere mai stato sugli Champs-Élysées in quarant’anni di vita a Parigi. Non ci aveva mai lavorato, mi spiegò. Accanto al moderno, senza mescolarvisi e senza nemmeno sfiorarlo, nei quartieri poveri della città persisteva una mentalità antica, trecentesca quasi. E certe volte, finendo in zone di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza, mi scoprivo a pensare che il Medioevo non era ancora scomparso del tutto. Riuscivo di rado, però, a concentrarmi su un determinato pensiero per un certo lasso di tempo, perché dopo l’ennesima sterzata quella che era una stradina diventava un viale stretto fra due ali di palazzi con le porte a vetro e l’ascensore. Tanta fugacità di impressioni stremava la mia attenzione, e allora preferivo chiudere gli occhi e non pensare a niente. Nessuna emozione, nessuna sorpresa poteva durare, nel mio lavoro; solo dopo, in un secondo tempo, provavo a riportare alla memoria e ad analizzare quanto visto nell’ennesima corsa notturna, i particolari di quello strano mondo che è Parigi di notte. E difatti non c’era notte in cui non incontrassi qualche pazzo, gente al limite del manicomio o dell’ospedale, alcolizzati e vagabondi. Sono diverse migliaia, a Parigi. Sapevo a priori che nella tal strada avrei incontrato il tal matto e nel tal quartiere il tal altro. Scoprire qualcosa su di loro era difficilissimo: di solito i discorsi di quella gente non avevano né capo né coda. Ogni tanto, però, ci riuscivo. 9


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Ricordo che mi interessai a un omino scialbo con i baffi e un vestito dignitoso che avrei detto un operaio e che vedevo ogni settimana o ogni quindici giorni verso le due di notte nello stesso punto di avenue de Versailles, all’angolo di fronte al Pont de Grenelle. Di solito lo trovavo in mezzo alla strada, vicino al marciapiede, a minacciare qualcuno coi pugni alzati bofonchiando ingiurie. Distinguevo solamente: «Farabutto! Porco!»… Lo conoscevo da diversi anni: era sempre lì, nello stesso posto, alla stessa ora. Alla fine un giorno attaccai discorso e dopo un lungo interrogatorio conobbi la sua storia. Faceva il carpentiere e abitava vicino a Versailles, a dodici chilometri da Parigi, per questo riusciva a venire in città soltanto una volta alla settimana, di sabato. Una sera di sei anni prima aveva litigato col padrone del caffè di fronte, che gli aveva tirato un pugno in faccia. Lui se n’era andato, ma da quella volta lo odiava con tutto se stesso. Veniva a Parigi ogni sabato sera, ma siccome aveva una gran paura di colui che lo aveva picchiato, aspettava nei bistrot vicini che il caffè chiudesse, bevendo per farsi coraggio, e quando – finalmente – l’altro tirava giù la saracinesca e se ne andava, lui si piazzava davanti al locale e minacciava a pugno alzato il suo nemico invisibile, imprecando a mezza voce: era talmente spaventato che non osava neanche urlare. Per tutta la settimana, a Versailles, al lavoro, aspettava impaziente il sabato, e di sabato si infilava il vestito buono e veniva a Parigi per pronunciare – di notte, in una via deserta – le sue ingiurie indistinte a pugno alzato. Restava in avenue de Versailles fino all’alba, poi imboccava Porte de Saint-Cloud fermandosi ogni tanto per voltarsi e alzare il pugno nodoso. Un giorno entrai nel caffè del suo nemico; dietro il bancone trovai una donna fulva e grassa che – come tutti – si lamentava degli affari. Le chiesi se gestiva da molto quel locale; erano tre anni, rispose, da quando il vecchio proprietario era morto di ictus. Verso le quattro del mattino di solito andavo a bermi un bicchiere di latte nel caffè di fronte a una delle stazioni dei treni: conoscevo tutti, lì dentro, dalla proprietaria – una vecchia signora con la dentiera che masticava a fatica un panino – a 10


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una donna anziana vestita di nero che non si staccava mai da una grossa borsa a scacchi di tela cerata. Di solito se ne stava seduta in un angolo, zitta, sempre sola; non riuscivo a capire che cosa ci facesse in giro a quell’ora. Chiesi lumi alla proprietaria del bar; mi rispose che batteva. Da principio ne fui stupito, ma poi scoprii che anche le vecchie sciatte avevano una loro clientela e arrivavano a guadagnare tanto quanto le altre. Alla mia stessa ora compariva anche una vecchia smunta, ubriaca fradicia e senza denti, che entrava nel caffè strillando al cameriere: «Col cavolo!»; quando poi veniva il momento di pagare il bicchiere di bianco che si era scolata, sgranava ogni volta gli occhi e gli diceva: «Chi vuoi fregare?!». Fra me e me avevo stabilito che non sapesse dire altro; del resto erano le uniche frasi che le avevo mai sentito pronunciare. «Arriva Colcavolo» dicevano nel bar appena la vedevano apparire in lontananza. Una volta la sorpresi a parlare con uno straccione sbronzo e malfermo che si reggeva con entrambe le mani al bancone. Gli diceva cose inaudite, in bocca a lei: «Ti giuro che è vero, Roger. Ti amavo. Ma guarda come sei ridotto…». Anche in quel caso fu l’ennesimo «col cavolo!» a troncare definitivamente la conversazione. E dopo un ultimo «col cavolo!» un bel giorno sparì. Chiesi sue notizie, di lì a qualche mese, e mi dissero che era morta. Un paio di volte alla settimana in quello stesso caffè si presentava un uomo con il basco in testa e la pipa che chiamavano “monsieur Martini” perché ordinava sempre un Martini; di solito succedeva fra le dieci e le undici di sera. Alle due di notte era completamente ubriaco e aveva già offerto da bere a tutti; alle tre aveva finito i soldi – un paio di centinaia di franchi, di solito – e chiedeva alla padrona di versargli un ultimo Martini a credito. E veniva puntualmente accompagnato fuori. Lui tornava dentro, i camerieri lo riaccompagnavano fuori e gli impedivano definitivamente di rientrare. Lui si arrabbiava e attaccava rassegnato la sua litania: «È davvero ridicolo. Ridicolo davvero. Non c’è altro da aggiungere». 11


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