Erba cedra

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ifuoricollana

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Tutti i diritti riservati © 2014 Emanuela Zandonai Editore, Rovereto (TN) ISBN: 978-88-98255-30-6 L’Editore, espletate tutte le pratiche per l’acquisizione dei diritti dell’immagine di copertina, rimane a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto all’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: segreteria@ aidro.org e sito web: www.aidro.org. Progetto grafico: Francesca Ameglio Pulselli In copertina: Dania Reichmut, Untitled, 2009 © Tutti i diritti riservati www.zandonaieditore.it

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Ugo Morelli

Erba cedra e segreti amori Il terremoto dentro

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Tu sei là perché io vi sono stato Diego Velàzquez Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno. William Shakespeare Solo un segno, una traccia incerta, di un mondo che ha lasciato appena un groviglio di luci e rovine alfine mi porta il fresco sentore dell’erba cedra.

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Alla mia prima cosmologia per Basilio, Pasquale, Marianna, Basilio, Rosaria; per Rosina, Felice, Sarina, Teresina, Pasquale, Nino; per Guido, Pasqualina, Minuccia, Pia; per Luigi, Mariagrazia, Pasquale, Violante, Luigi, Mario; per Giuseppe, Pia, Fiorita, Dino; per Antonio, Chiarina, Cesare, Carlo, Giovannina, Carmine, Annina; per Salvatore, Evelina, Angelina, Fiorita; per Emilio, Leonilde, Costantino, Giuseppina, Amelia; per Costantino, Rosaria, Gennaro, Pia, Costantino, Emilio, Giovannina; per Michelangelo, Filomena, Antonio, Leontina per Manuela, Antonio, Tommaso, Bionda, Manuela; per Martino, Rosaria, Pietrantonio, Noè, Giuseppe, Rosina, Angelina, Rosetta, Martino, Antonio, Luigi; per Olimpio, Nunziante.

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Il vento della passione… Vengo dalla terra dove il vento di ponente, nelle notti invernali di luna piena, spinge le nuvole basse così veloci che sembrano le stelle a muoversi, a correre verso il mare. Una terra di mezzo, tra i due mari, ma terra, terra più che mai, secca e avara, in pochi luoghi generosa; terra violentata dagli uomini che non l’hanno mai amata, prima ancora che dai terremoti che spesso e volentieri l’hanno devastata. Terra lasciata da chi se n’è andato per cercar fortuna; terra rimpianta dai rimorsi se lontana, ma mai apprezzata se vicina. Terra di vergogne e di colpe che ti trascina in un’inguaribile malinconia. Anche io come le nuvole sono stata spinta dal desiderio tutta la vita e come quella terra sono stata violentata. Fino a decidere che l’unica via era usare quelli che approfittavano di me, sottometterli al mio desiderio. Non è che i fiori di biancospino fossero immediatamente accessibili. Avevano questo di bello, che si annunciavano col profumo. Per nasi capaci di sentirli. Solo dopo, tra spine e rovi avrebbero presentato la loro eleganza e la loro costosa geometria. Nessuna portava un cesto in testa alla maniera mia, pieno di ortaggi e carico di malizia come i miei fianchi belli e leggeri. Le malelingue hanno sempre detto che mi mangiavo gli uomini solo a guardarli. Janare invidiose ché gli uomini volevano solo me. E ancora mo’ li vedo perdersi, i 7

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maschi, nei miei occhi mariuoli. Non ho mai capito perché dalle nostre parti si dice che chi tiene la faccia tosta si marita e chi no rimane zita. Di maritarmi non tenevo capa, non ne voleva sapere la mia testa, da quando i miei riccioli cominciarono a fare il solletico ai capezzoli al primo fiore. La nonna aveva ragione: devi essere sempre tu a dire quando un uomo entra ed esce dal tuo letto. Come avevo gli occhi lo sapevo, certo; mi guardavo nel pezzo di specchio rotto che tenevamo nel buco del muro sopra il bacile, e mi piacevo. Mi piaceva mandare lampi guardando chi mi guardava, fissare e spostare gli occhi da un’altra parte, lasciando che dicessero: «guarda com’è cresciuta», «guarda come si è fatta bella», «non è più una bambina», «si è fatta femmina», «e che occhi». Occhi neri infuocati e quei riccioli cadenti, malandrini, a far da decoro. Occhi di strega, come mi disse il Padrone la prima volta, disteso, affranto sul mucchio di fieno appena tagliato, dopo che si era perso nelle mie viscere. Non avrebbe più avuto pace, come e di più di tutti gli altri che si sono abbandonati alla mia carne. Mi hanno chiamato strega per i miei occhi di fuoco e quei riccioli cadenti che ho portato a tirabaci fin da ragazzina. Non ho mai fatto nulla per convincerli del contrario, anzi; mi sono data da fare perché tutti pensassero che strega lo ero davvero e, dal malocchio alla fame di uomini, mi sono fatta rispettare a testa alta tutta la vita. Sapevo bene che le cose non erano mai state come le predicavano e chi poteva faceva quello che voleva. Di corna parlavano tutti, ma sempre e solo di quelle degli altri. Delle proprie voglie e dei difficili incontri per farsele passare al massimo si sussurrava. A me sembrava bene fare prima di tutto quello che sentivo e, comunque, non avrei saputo fare diversamente. Una spinta, una stretta in 8

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mezzo alle cosce mi prendeva e ancora mi prende, portandomi dove vuole e, soprattutto, dove la vita chiama. Fu la luna sospesa nei primi aliti dell’estate a portarmi dove volevo. Il Padrone mi aveva messo gli occhi addosso da tempo e il padrone di prima che se n’era accorto rantolava minacce di morte insieme agli affanni della passione. Non capiva che sarei stata io a decidere pur non dandogliela a vedere. Mai mettersi contro. Non conviene. Meglio dargli da pensare, fargli venire dubbi, mettergli tarli nella testa. Ci sarà poi un angolo al profumo di gelsomino dove riprendere in mano il gioco, tra denti stretti e morsi di piacere; finte e soddisfazioni. Tornano insistenti e non resistono. Sennò basta che mandi una civetta una notte, ma può bastare anche un’upupa gentile, o che so io, un cuculo, per mettergli in testa presentimenti che portano i risultati voluti. Intanto che uno si cuoceva di attesa l’altro si raffreddava di noia, di quella noia che la ripetizione prima o poi porta, una sensazione che s’insinua sottile e tu puoi insistere o distaccarti. L’insistenza è volgare ma serve ad allontanare. Il distacco costa ma salva la dignità e la verità e ti fa stare nel piacere, quello che strappa l’anima e contro il quale sei completamente inerme. Di verità ho potuto permettermene poca in tutta la mia vita. Sono alla fine scivolata da un padrone a un altro. La differenza non era poi tanta: le mani di ferro che non conoscono il vento leggero delle carezze, la bocca guasta da evitare con cura, le mosse giuste per chiudere in fretta. Funziona così e li tiene sulla corda.

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…e quello della rovina Come quercia squassata da ponente, violentata in ogni foglia, la terra sobbalzò, scommattuta, poverella, si perse, si squarciò, si aprì, ferita a morte e mostrò i danni irreparabili fatti da intere generazioni di sfruttatori incapaci di sopportarne la bellezza. Come i chichilicanti stavano sulle case, in cima alle colline, e nei posti solatii, scelti dalla sapienza antica per viverci la vita propria e quella dei figli, e dei figli dei figli. Sembravano proprio quelle costruzioni che chiamavamo chichilicanti, fatte con le noci sgagnuliate e mondate con cura, per non rompere neppure un pezzo piccolo del frutto, disposte l’una sull’altra, tre alla base più una sopra, appoggiate in verticale, per giocare da bambini a farle cadere con un soffio. Tremendo fu il soffio quando il mondo tremò: niente trovò più pace. Gli uccelli persero il canto. Gli uomini la via. Non fu più lo stesso il mondo intorno a noi, lo perdemmo per sempre e, oggi, sembra il fantasma di quel che era, somigliante appena appena, solo a guardarlo da lontano. Non se ne capisce più niente. Così come non capimmo niente di cos’era un terremoto, ancora più oscure furono le cose che accaddero dopo. Tutto andò in frantumi, come le lastre delle finestre, lastre di terza scelta con gli “occhi” di fusione, che caddero in pezzi alla prima scossa. Di verità non ce n’era mai stata e, comunque, ce n’era poca da tempo. La gente non aveva capito i cambiamenti e chi era padrone con i Borboni aveva continuato a comandare con l’Italia. Ma dov’era poi l’I10

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talia e cos’era? Sulle porte delle stalle e dei pagliai la “Stella e Corona”, simbolo di una nostalgia monarchica senza fondamenti, era ancora ben in vista e così rimase dopo le ferite del terremoto dell’agosto millenovecentosessantadue. Pure se c’era l’insistenza dei preti, la loro tenacia e le loro minacce dell’inferno per sostenere i Sullo e i De Mita di turno, era rimasta nella memoria di tutti l’esclamazione di rifiuto di zio Luigi fatta a Padre Mancini dei Mercedari di Carpignano, in perfetta enfasi da combattente del Carso: «meglio deviare il sole dal suo corso che noi dalla “Stella e Corona”». Strana vocazione della gente piegata e tenace dei campi di qui, di consegnarsi allo sfruttatore di turno. I soliti noti erano stati nazionalisti, poi si erano vestiti d’orbace con superbia e strafottenza che si sarebbe rivelata vigliacca molto presto, come certi farmacisti e presidi di scuola, per divenire poi democristiani di ferro. I soliti prestatori a usura e esattori delle tasse erano divenuti possessori dei soldi e della finanza e medici poco attendibili, padroni di ospedali, sindaci e presidenti di squadre di calcio, consiglieri provinciali e geometri detti ingegneri; disponevano come sempre di corpi e di anime sotto l’ala maleodorante della “balena bianca”. Li sentivi arrivare nelle campagne in tempi di elezioni, con il loro tanfo di brillantina Linetti, e non ti facevano voglia, loro no: erano falsi e finti e non li avresti più visti fino alle prossime elezioni. Quando la terra tremò piovve sul bagnato. Ferite su ferite nelle notti a dormire nei pagliai, da agosto all’inverno, mentre si contavano le crepe, si abbandonavano case rese inabitabili da perizie più scalcinate dei muri e si iniziava a sentir dire una parola che sarebbe divenuta un ritornello attraente e misterioso: il “decreto” che sarebbe arrivato o no solo grazie all’intercessione dei soliti noti. 11

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Sempre loro si erano messi in mezzo, tra la gente e il terremoto: il “decreto”, parte per il tutto, era il documento che portava i soldi per la ricostruzione o per riparare le case che non erano da abbattere, poche per la verità, perché si capì da subito che per arraffare meglio conveniva buttare giù tutto e fare case nuove. Si avviò il confronto: ma tu con chi stai? Con l’ingegnere Tizio o con Caio? Tizio se la fa con l’assessore Tale che ti fa mettere la domanda in cima alla pila, ma sai com’è, bisogna ungere la ruota. Fu l’epopea dei geometri che divennero, sulla botta, ingegneri. E non era più questione di roba, prosciutti, polli, salami. Un segno che si vedeva, concreto, di quel cambiamento fu che ora ci volevano soldi. Solo soldi volevano e niente che non fossero soldi. E non bastavano mai; ce ne volevano per tutti i passaggi per i quali le parole mai sentite non si contavano: nulla osta, autorizzazione, delibera, approvazione. I geometri avviarono l’incasso delle mazzette per pagarsi la propria incapacità; si allearono con i politicanti di sempre che divennero pure banchieri; molti che non avevano né arte né parte si fecero muratori e costruttori; con la complicità dei diseredati della storia e della memoria, quasi tutti, depredarono il mondo che li aveva generati fino a distrarlo per sempre dalla sua via. Tremava ancora la terra, che, tra le urla, i pianti e la carne dilaniata dalle pietre antiche, già si stavano accordando su come fare il grande sacco. Le ruspe erano già in moto e le tresche non si erano mai interrotte. Mentre facevano discorsi ai funerale, grondanti di falsità contrita, accompagnata da lacrime, false pure esse, come diceva il professore che faceva il preside, ma di lui devo parlare dopo, sempre loro stavano trattando sotto banco come distruggere campagne, terre e coltivazioni, rovinare per sempre i profili dei paesi e della 12

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storia, creare case finte in serie e vendere e comprare anime e cose. E la gente, tutta la gente, volentieri vendette e ancora vende l’anima al miglior offerente cedendo, come la talpa, gli occhi per un centimetro di coda. Con il tempo e con la paglia maturano le nespole. Chi ha saputo usare il tempo per far maturare i propri affari ha lasciato agli altri solo quel vago sapore di marcio che avevano le mele annurche toccate dal tempo quando si andava a prenderle nella paglia. Quelle buone erano per il mercato e le toccate si potevano mangiare. Ma lasciavano in bocca un senso di marcio misto a quello che avrebbe potuto essere il loro sapore se fossero state sane. Le mele buone se le mangiarono in pochi dopo il terremoto. Quelli di sempre e alcuni che si erano improvvisati impresari, ingegneri o muratori. Non tantissimi furono a riempirsi le proprie casse, ma lo fecero bene, con una maestria per il malaffare che mise in moto le reti clientelari e politiche che durano per generazioni, verso una nuova avventura. La copertura politica, sempre ben celata e protetta, giunse a creare banche e mutue, fino a far emergere una nuova categoria di persone, con comportamenti mai visti e una altrettanto sconosciuta arroganza. Quelli che erano stati i compari della domenica divennero i nuovi ricchi e intorno a loro si crearono conventicole di aiutanti e portaborse che, per quanto si trattasse di briciole, mangiavano pure loro. I territori, le campagne, i paesi e la forma delle case, le case dell’uomo, furono i bersagli della loro principale aggressione. Se la presero col territorio di quel mondo tutto intero e con i modi di costruire le case mostrarono la loro fame senza fine e la loro volgarità interessata. Stavano seppellendo per sempre sotto le loro pance cadenti il mondo di ieri. 13

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