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EXIT Introduzione di Antonio Bozzo Gian Paolo Ormezzano A cura di Santi Urso

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La mia morte è un romanzo!… di Santi Urso

«L’uomo, il suo passato, il suo avvenire e anche tutto ciò che nasconde l’invisibile complessità, parlano d’infinito, cantano la musica delle sfere», scrive Louis Pauwels ne L’uomo eterno. E rincara: «Il mondo è così bello, che bisognerebbe metterci qualcuno capace di non dormire!», citando Paul Claudel. Sarà perché non ho entusiasmo né fede (sono solo curioso), ma io non ho mai capito questi atteggiamenti. Mi sento andare verso un annientamento irreversibile. Il mio ragionamento è semplice: io penso e riesco a pensare il tempo in cui non penserò più. Sembra niente ma la morale di questa storia è che non accetto la morte con rassegnazione o sottomissione ma la temo con sempre maggior intensità. Il terrore ingigantisce e qualche pensatore (David Cooper, per esempio) potrebbe dire che sono molto amico di questa “parte della mia vita”. Anche lui, comunque, non va oltre il benevolo consiglio di emettere gorgoglii ululanti con l’ultimo respiro. È un palliativo, però io mi alleno con crisi di urla, aspettando quel momento assurdo e inspiegabile. Ho dato vita alla mia morte a diciannove anni, mentre leggevo racconti di Edgar Allan Poe, in edizione Mondadori. Da allora non mi hanno più soddisfatto le “spiegazioni” di morte come sonno, come passaggio, come liberazione, come redenzione, come momento di un ciclo, insomma non sono più riuscito ad allon-

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tanarla in nessuna maniera con la mia immaginazione. Non ho trovato un procedimento magico per trasfigurarla o occultarla. Non riesco neppure a sorridere di frasi come questa: «Il mio morire è sicuro però imprevedibile, o quasi» né a discutere su enunciati come: «La morte mi appare allora come l’impossibile comunicazione di me stesso a me stesso, la mia scomparsa come coscienza». Di quel lontano momento in cui nacque la mia morte m’è rimasta quindi l’inibizione nel comunicare sull’argomento e l’interesse maniacale per le convenzioni, gli stereotipi, cioè il modo come il morire viene raccontato (non a viva voce, perché non lo sopporterei, ma nel silenzio delle pagine scritte). Assisto con sgomento al prevalere dell’elettronica, che fa scolorare la carta, perché temo che mi venga, in futuro, propinata la morte in diretta, che mi terrorizza non per le modalità (che anzi mi interessano) ma per essere quel punto di rottura di cui ho parlato. Questo incrocio di paralisi e di collezionismo ha fatto di me un catalogatore di necrologi letterari, intendo dire che ho raccolto una casistica vastissima sulle pagine di narrativa in cui il corpo diventa, per dirla con Ambroise Bierce, «un prodotto finito», cioè un cadavere (nella mia ossessione anche questo è materiale di transizione). Qui sono raccolte le immagini letterarie della morte (in Occidente): la scelta è ristretta e arbitraria, tranne che per il fatto d’aver escluso gialli, spystories e fantascienza dove si muore per definizione (sono la pornografia del necrofilo). I pochissimi autori di “genere” (come Fleming) che sono stati inseriti dipendono dai personalissimi gusti del curatore che li considera autori di “rilevanza letteraria” (si dice così?) a prescindere dalla loro mancata inclusione in enciclopedie della letteratura. Nella sua eccessiva stringatezza il florilegio rende conto (a chi bada a queste cose) delle modificazioni

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dell’atteggiamento della civiltà occidentale sulla morte. Essendo ogni narrazione un racconto di conflitti, il cambiamento degli atteggiamenti apparirà necessariamente più sfumato, rispetto alle descrizioni saggistiche, poiché anche nelle morti annunciate, patriarcali, prevale la retorica. Un solo autore viene proposto più d’una volta per motivi, diciamo così, affettivi: il papà della mia morte, Edgar Allan Poe. Per chi abbia ancora più fretta di quanta ne conceda una selezione, consiglio la lettura, che è molto agile, dei necrologi nei giornali. Contengono anch’essi storie (le date, la condizione sociale, lo stato civile) e riflessioni. Con le mistificazioni letterarie hanno in comune spesso anche un elemento inquietante: alludono, con pudore, alla volontà di non morire. In forma più stringata d’un romanzo ci mettono di fronte a questo muro su cui ci schiantiamo di colpo, in modo che, come dice Werner Fuchs, «all’improvviso non c’è più un nuovo giorno».

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Necroelogio

di Antonio Bozzo

«Verrà la morte e avrà i tuoi gnocchi». Così l’umorista Gino Patroni voltava il verso di Pavese – uno che la morte la guardò negli occhi di propria volontà –, e a Quasimodo (il quale se n’ebbe a male) riservò «ed è subito pera», al posto dell’occaso trafiggente che ispirò il poeta. La morte va presa così, con spirito dissacrante, seppellendola di risate: tanto sappiamo che è un balletto momentaneo, alla fine l’avrà vinta lei. Ma mentre affila la lama – certe giornate cupe fanno sì che avvisiamo il fischio della falce fino a provarne insensato terrore – il campo è tutto nostro: divertiamoci. I saggi dicono che quando c’è lei non ci siamo noi, e viceversa. «Chi non more ribes», tanto per celiare a oltranza, stropicciando i calembours. Il libro di cui questa è una postfazione, da interrare in qualche luogo del volume, affronta in maniera sapiente e divertita (guai se no) il gigantesco equivoco del nostro tempo: far come se si fosse eterni, in uno sciocco prolungamento di prevenzioni, riguardi, risparmi di cui morte nostra si fa quattro risate. Bisognerebbe darsi di più alla filosofia, che è sempre consolazione soprattutto quando, se vera, non fa sconti e distrugge le illusioni. «Pensa sempre alla morte, se non vuoi mai temerla», scriveva Seneca a Lucilio, e non si può dire meglio quel che il mondo d’oggi nega. Si comincia a morire dalla nascita, ovvio, e «la massima parte del vivere

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è un appassire» (Leopardi): ma che cosa c’è di male? Lo spettacolo cui partecipiamo, e dal quale presto saremo dimenticati, è l’unico in cartellone: conviene farselo piacere. Era già cominciato prima che la sorte ci gettasse nell’aldiquà, perché mai dovremmo restare fino alla chiusura del sipario, nel caso (assai remoto) vi fosse? Invece è un ronzare di macchine, un affannarsi di infermieri, un traffico di ceffi medicali intorno ai momentaneamente vivi per spostarne la data di consegna alla falciatrice, che peraltro sa aspettare. Un pianeta di moribondi, ecco che cosa promette e prepara la scienza medica di oggi. Il mondo delle due “P”: Prudenza e Pannolone, pratica la prima e raggiungerai la beata età dell’ospizio. Energie e miliardi vengono investiti per prorogare un appuntamento obbligato. Ne vale la pena? No. La vita è spreco, avventura, disarmonia, incertezza, sogni, sfide. Conta il peso specifico, della vita, non la durata. Ogni tanto scovano un ultracentenario, magari in una valle salubre e sperduta; che cosa ha da dirci rispetto a un giovane morto fracassato in un incidente stradale? Nulla. Ci sono esistenze vuote che durano cent’anni, vite piene che ne durano venti. Certo, anche il contrario, perché ogni vita fa a sé, è una storia singolare nel gran giro di nascite e morti: e non affrontiamo qui il tema infinito dell’Aldilà, e delle superne e probabili istanze che ci governano senza che noi possiamo saperne granché, se non per via di fede. Ma visto che la vita la percepiamo comunque come breve, non è giusto rubar tempo al lettore mortale con troppe righe: il libro di cui questa parte è corollario vi piacerà, toccando corde che di solito non suonano. Achille Campanile, con una boutade, disse: «La vita? È la distrazione di un morto». E fa sorridere immaginare noi morti da sempre, fin da prima del Big Bang e dei Faraoni, che ficchiamo il capo, e tutto l’armamentario di corpo e anima, nel teatro «terribile

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e magnificoÂť (papa Montini) per “distrarciâ€? dalla noia della pace eterna. Distraiamoci, dunque, anche con queste pagine paradossalmente vitali.

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Buona sera

di Gian Paolo Ormezzano

Non ricordo quale libro raccontasse in una maniera lucida e tremenda dell’uomo anziano che avvertiva il sopraggiungere della morte a piccoli passi regolari, e si immaginava una clessidra che lasciasse rotolare le palline dall’alto verso il basso, continuamente e irreversibilmente. O forse sono molti libri. Non mi sforzo per ricordare, tanto ormai io sono anche clessidra, mi rotolo dentro me stesso, sempre più piano. Ed è interessante, divertente esserlo. Giornalisticamente, poi, la clessidra è un invito al futuro, ad andare col pensiero più velocemente, più avanti delle palline, una volta accertato ed accettato che esse scendono, cadono, cosa che prima, in tempo di gioventù, mica è stata avvertita. Il mio futuro è sicuramente breve, come di chiunque sta arrivando agli ottant’anni, ma se un angelo – o un diavolo, chi se ne frega?, basta che funzioni – mi facesse scegliere fra tornare indietro di vent’anni (uffa, il déjàvu) o andare avanti di venti giorni, sceglierei i venti giorni: sono giornalista assoluto, fondamentalista, e il giornalismo per prima cosa è curiosità, per seconda è pettegolezzo, cioè trasmissione, spargimento di questa curiosità, macché missione. Premessa per dire, se non altro attraverso la disinvoltura – naturale, giuro – nel trattare l’argomento, che non mi ha mai disturbato pensare la morte, parlare della morte, raccontare la morte. Unica remora: sapere a priori di

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fallirla giornalisticamente, nel senso di non riuscire a raccontare, e bene, la morte più interessante, la mia. Mi sono rassegnato a mancare questo reportage o di rimpicciolirlo indegnamente in qualche lamento. Ma mi sono permesso, sempre nell’ambito del mio lavoro anzi del mio mestiere, qualcosa di particolare, una sorta di rivalsa anticipata sullo scoop che non mi verrà concesso. Ho inventato, pubblicato e in larga parte scritto un giornale sulla morte. Roba degli anni novanta, salaparto un terrazzo di una villa di Porto Cervo, Sardegna, con vista su un campo di golf, sport anzi gioco che a mio parere è una morte anticipata, tanto mummifica i suoi praticanti. Chi mi ospitava, un ex corridore ciclista mio amico dal mio primo Giro d’Italia (1959), diventato grande impresario di pompe funebri, mi chiese cosa doveva rispondere a chi gli chiedeva che mestiere facesse: «Becchino non mi va proprio». Gli proposi di dar vita ad una rivista sulla morte e di proclamarsi editore: «Te la faccio io, la finanzi e mi paghi con l’ospitalità qui». Fatto. Mai, altrimenti, avrei fatto altre vacanze di lusso in Costa Smeralda. “La buona sera” uscì in sei numeri, sparpagliati in due anni dal 1994. Il titolo stava da sempre nella mia testolina, come idea fisiologica del trapasso. In copertina, anche un sottotitolo che diceva: «periodico di vita, morte e miracoli». La buona sera, la chiusura serena della giornata chiamata esistenza. La morte come il seguito normale della vita. Illustrazioni monotematiche, ogni numero una ispirazione per chi aveva voglia di collegare le immagini al tema centrale: i labirinti paracimiteriali dei pittori astrattisti, gli orologi strani a dire e dare tutto del tempo che incornicia la vita sino alla morte, i tappeti antichi con i loro nodi che allacciano le epoche e dunque le vite, le acque che scorrono come l’esistenza, una sequenza di porticati che riparano il presente e avviano al futuro, la farfalla che fa il bruco

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e il bruco che fa la seta che veste il tempo… Avevo battezzato il mio amico come “il barista”, perché faceva anche le bare. Editore ideale: mi concesse formato speciale, lungo, e pazienza se la spedizione postale costava di più, carta preziosa, grafica nobile e intanto avanzata, soldi per i collaboratori, ovviamente libertà totale. Nessuna pubblicità, neanche della sua impresa. Diffusione gratuita in Lombardia, territorio di competenza mortuaria dell’editore, invio gratuito a persone mirate. Diecimila copie, se ricordo bene, non in vendita. La morte raccontata nelle sue varie “vite”: senza grevità, senza ironie forzate. Alcuni temi: il linguaggio dei fiori per i defunti, i funerali con musiche e canti, il lessico delle “partecipazioni”, il decesso per incidente nello sport, le funeral houses americane, una Spoon River di oggi, o cimiteri che sono parchi-giochi, le comari che al mercato rionale parlano del trapassato celebre… Feci intervenire Enzo Biagi, don Zega che dirigeva “Famiglia Cristiana”, Michele Serra, persino un professore di tanatologia… Ricevetti un no deciso, con corna sottintese, all’invito mio di almeno sfogliare la rivista e darmi un parere rivolto a due giornalisti eminenti colleghi e ciononostante amici: Giorgio Bocca e Sergio Zavoli, grandi laici superstiziosi. Mi chiamarono a raccontare “La buona sera” in grosse trasmissioni televisive, come Domenica In e Costanzo Show. La rivista finì quando, usata dal barista come accompagnamento eccezionale ai suoi auguri natalizi e mandata dunque a tanto establishment lombardo, mi fece arrivare addosso critiche feroci da parte di colleghi, specie donne, superstiziosi (o invidiosi). «Ma come?, mi è morta da pochi giorni la mamma e mi mandi questo giornale?» «Fai i soldi sul dolore altrui.» E persino: «Stai disonorando la nostra professione». Amen, anzi requiem. Il barista accettò la mia decisione. Per la verità ci fu un tentativo di resurrezione, a

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Torino un paio di anni dopo. Un altro impresario di pompe funebri mi interpellò, gli feci un numero: «La panchina – Tecniche e tattiche per incontrare la morte e uscirne vivi». Panchina come luogo di sosta dei vecchi ma anche come posto sacro a sedere del tecnico di calcio accanto al terreno di gioco. Gli piacque, ma fu un una tantum. Per anni comunque sono stato anche quello del giornale sulla morte, con richieste di interventi assortiti, dal vivo e per iscritto, e persino il coinvolgimento in un documentario televisivo lungo e ricco sul cimitero di Torino, la mia città. Possibile che, con addosso e dentro ben più di mezzo secolo di giornalismo sportivo, sino al conseguimento di un onerosissimo primato mondiale, quello dei Giochi olimpici coperti da inviato (ventiquattro, cifra che potrebbe anche significare rincoglionimento inevitabile), possibile che io passi alla piccola storia che mi concerne anche e soprattutto come quello de “La buona sera”. Niente di male, specie se penso che la morte più o meno è onestamente sempre la stessa, intanto che lo sport è diventato un porcaio. Voglio anzi debbo subito precisare, comunque, che tutto il mio sport, praticato e poi scritto e scritto e scritto, non c’entra niente con la disinvoltura sportiva, quasi gaglioffa con cui diedi vita a quella pubblicazione. Lo sport casomai mi ha insegnato o quanto meno mostrato prudenza, attendismo, furberie, tattiche dilazionatrici, ostruzionismo, recitazione sino alla menzogna, camaleontismo, finta imparzialità, arte del furto, violenza camuffata, settarismo, persino razzismo… Oltre ad avermi offerto sublimi magie, ci mancherebbe. “La buona sera” è nata invece dalla mia smania di fare cose unita alla mia fachiresca (un tempo, almeno) capacità di lavoro, di stralavoro, e poi anche dalla voglia di concretizzare l’affettuosa amicizia fra me e il barista, e poi forse anche da un mio discreto senso giornalistico delle cose che la gente ama,

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amerebbe leggere. “La buona sera” in effetti è stata un successo, ha persino seminato e sono nate, qualcuna figlioletta sua, tante pubblicazioni sulla morte, e pazienza per il mercato dei coralli e il teatrino dei toccamenti. Posso dire che proprio per rispetto delle idee altrui e dubbio costante relativamente alle mie, non ho messo nella pubblicazione, nei suoi sei numeri niente di cosa penso della morte. Sennò avrei probabilmente dovuto scrivere alcune banalità, come è ormai un rito letterario, tese a farci sembrare forti dinanzi al pensiero, al senso del nulla. Per chi, arrivato sin qui, conservi almeno un atomo di interesse per il mio modo di pensare, dico che, siccome credo in Dio, credo nell’uomo e dunque nella sua eternità e dunque nella sua, in qualche modo, immortalità. Insomma, non ci sto a finire quando finisce il battito cardiaco. Tre figli e otto nipoti, tutti affettuosi, mi garantiscono del persistere in qualche modo di qualche ricordo legato a me. Penso che autenticamente si viva, si riviva se qualcuno ti ricorda, e che ci sia un posto, un modo, un tempo in cui tu, o meglio quello che sei diventato, avrai sentore di ciò. Ma siccome io sono giornalista prima di tutto, ed è questo il mio difetto simile davvero ad un peccato grave, mortale, dico che soprattutto, della faccenda chiamata morte, mi intriga il come, il passaggio partendo dalla vita, il mentre, il dopo. Ma non mi intriga da laico, da loico, da credente, da cristiano, da musulmano, da ignorante, da studioso. Mi intriga da giornalista, anzi mi intriga, portandomi quasi alla rabbia, il saper che non potrò fare un reportage del mio trapasso, anche se tutto in quel momento mi sarà chiaro, chiarissimo. Meglio, spero, di quel che occorse ad un personaggio di Jack London, quel Martin Eden che si fece morire cercando insistentemente di sapere tutto della morte, e nell’istante stesso in cui lo seppe cessò di saperlo.

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