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Gian Conti

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Antefatto

Vagava nel cosmo. Aveva visto nascere stelle, morire galassie. Aveva visto interi sistemi solari ridursi in un attimo a un punto nello spazio. Gli anni passavano per lui come battiti di ciglia, ma non aveva ciglia. Portava energia, ma non trovava modo di spenderla. Possedeva una smisurata quantità di nozioni e segreti, ma non aveva alcuno a cui confidarli. Aveva una probabilità su un miliardo di incontrare un sistema solare. Aveva una probabilità su cento miliardi di finire nell’orbita di un corpo celeste. Aveva una probabilità su mille milioni di miliardi che su quel corpo celeste esistesse la vita, le probabilità di incontrarla erano minime anche per uno che, come lui, era abituato a grandi numeri e lunghissimi tempi. Tuttavia, si sa, ogni evento di questo universo, se lo guardiamo al microscopio, è scomponibile in infiniti microeventi, ciascuno dei quali, singolarmente esaminato, ha infinitesime probabilità di verificarsi e, ancor meno, di coesistere con gli altri. Tuttavia accade. Fu così che il viaggiatore, pur destinato a errare per cammini infiniti, capitò nell’orbita di un pianeta e avvertì il pulsare della vita. Curioso come tutte le menti non ancora sazie, percepì emanazioni sconosciute, ne fu attratto con voluttà e terminò la corsa su un letto di foglie e muschi di un sottobosco del basso Monferrato.

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11 ottobre 1998

Lo sento. Il panico giunge con fronti d’onda sempre più alti. Lo precedono i soliti sintomi: sudorazione abbondante, brividi, perdita d’energie. Incapacità di governare la mente, di ricacciare pensieri che non ho scelto e hanno preso il sopravvento. Tutto a causa di ciò che è successo un paio d’ore fa, verso le cinque, giù nella valle. Continuo a ripetermi che non è vero, che si tratta di un disturbo psicosomatico e, se cambiassi lavoro, scomparirebbe. E finisco per dare la colpa al lavoro, uno di quelli che vengono retribuiti in proporzione al tasso di ansietà che provocano. E la paga è buona. Mi ripeto che è colpa dello stress, è colpa dell’azienda che lo tiene desto con tutti gli strumenti leciti, che inventa mille stimoli e competizioni. Un bravo neurologo mi ha rivelato che l’eccesso di stress può provocare vari stadi di turbe psichiche che, nei casi più gravi, e in Europa ce ne sono stati almeno una dozzina negli ultimi anni, portano al ricovero. Dicono gli storiografi che i massimi livelli della mia azienda sono passati quasi tutti per una certa clinica della Brianza a fare psicoterapia. Di essi, alcuni sono riemersi in condizioni così precarie che l’azienda, per non finire sui giornali, li mantiene a libro paga in condizioni di totale inutilità. Nei casi più blandi si può incappare nella psicoastenia, grazie alla quale le vittime come me lavorano come forzati per tutta la settimana, salvo poi schiantarsi in atarassia per tutto il week-end, disturbo che cessa il lunedì mattina perché si ricomincia a tirare come forzati. La psicoastenia induce ipocondria e quest’ultima, non appena capita il malanno più insignificante, genera il panico. Ma non crea allucinazioni. Ecco, ho razionalizzato il fenomeno. Ma non serve a nulla. Perché le allucinazioni le so riconoscere e posso affermare che non si è trattato di questo. Sdraiato sul divano, davanti al fuoco con la brace ancora calda, senza la forza di riattizzarlo, senza la voglia di accendere il televisore e guardare i gol della domenica, senza pensare a cosa mangiare per cena. Leggere? Non riuscirei a comprendere una parola. Un po’ di musica? Non intenderei una nota. Stato A


Ingoio di nascosto la pillola di fiducia e aspetto che faccia effetto. Fingo di non ascoltare Sandra, che legge e a volte anticipa ciò che sento e commenta: «Ci risiamo». Resterà convinta che si tratti di psicoastenia da stress anche se le raccontassi che cosa mi è accaduto. È successo che una settimana fa un paesano mi aveva riferito che il ruscello di fondovalle, ingrossato da tre giorni di piovaschi, aveva fatto affiorare un banco di argilla grigio e sodo da cui spuntavano pezzetti di fossili. Ora, fino a un paio di milioni di anni fa, tutta questa parte di Monferrato era fondo marino poco profondo, caldo e densamente popolato. Trovare conchiglie fossili è facilissimo. Se si scende nell’infernotto, il budello scavato nel tufo dove mio nonno invecchiava il vino, anzi, poiché non spendeva per i tappi, lo mandava in malora, e si grattano le pareti, affiorano le terebratule, specie di cozze col bordo ondulato e un foro in corrispondenza della cerniera. Ma estrarre fossili da un banco d’argilla è assai più allettante perché gli esemplari vi si conservano meglio e, a volte, mantengono i colori originali. Avevo proposto a Sandra di andare laggiù. Io avrei scavato e lei avrebbe cercato funghi lì intorno, chiodini e mazze di tamburo. Le mazze si trovano a colpo sicuro perché sono grandi, crescono sempre negli stessi posti e siamo in pochi a raccoglierle. Una volta una parente ci sorprese con le cappelle calde nei piatti, le guardò con orrore e si mise a urlare che quei funghi erano velenosi e che saremmo morti l’indomani. Pregava e faceva scongiuri. Poiché a noi scappava da ridere, corse in canonica a chiamare il parroco, che arrivò trafelato, si sedette a tavola, mangiò i funghi con noi e volle sapere perché non andavamo a messa. Alle quattro di oggi eravamo alle Basse. Non un fondovalle alpino che si snoda fra i monti, ma una fila di prati e campi a un chilometro e tre curve dal cancello di casa. Una piana di poco incassata fra lievi pendii tappezzati di gaggie. Parcheggiata la Land Rover, ci eravamo incamminati verso il ruscello. Sandra aveva perso tempo ad ammirare un’intera famiglia di amanitae phalloides, alcune aperte, altre nell’ovulo. A volte qualcuno le raccoglie credendo che si tratti di ovuli reali non ancora maturi, le mangia e muore. Alcuni anni fa avevamo letto di un tale che le aveva raccolte, cucinate al funghetto, mangiata la metà e, dopo un’ora, l’avevano dovuto ricoverare d’urgenza all’ospedale, lavanda gastrica, cure intensive in rianimazione, finché era stato dichiarato fuori pericolo e dimesso. Lui era tornato a casa e aveva finito il tegame. Questa volta, all’ospedale, non c’era arrivato. 8

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Il banco di argilla si presentava come un argine alto un paio di metri sopra il livello della corrente. La cerniera di una panopea, il Gulliver delle arselle, spuntava di un paio di centimetri dalla parete grigia, mezzo metro sopra il pelo dell’acqua. «Madonna mia com’era grossa» avevo esclamato. «Che peccato!» aveva fatto eco Sandra, convinta come me che non poteva trattarsi che di un frammento. «Ci provo lo stesso» avevo deciso entrando nell’acqua che sfiorava il bordo degli stivali. Avevo cominciato a scavare attorno alla conchiglia, mentre Sandra mi incoraggiava a ogni centimetro guadagnato, prima scettico, poi fiducioso, poi entusiasta e infine ululante quando la panopea, mano a mano che le portavo via l’argilla di torno, si rivelava sempre più grande e intatta nelle due valve. Per estrarla tutta senza fracassarla avevo dovuto scavare una voragine. Schizzi di argilla mi avevano imbrattato ovunque e l’acqua aveva tracimato dentro gli stivali. Riportato l’esemplare alla macchina, asciugati i piedi e ripulito alla meglio, ci eravamo inoltrati per il sentiero del bosco. Percorsi cento metri Sandra si era fermata: «Lo senti?». «Altroché.» Non era il chiocciare di un merlo, né il grugnito di un cinghiale. Non sollecitava l’orecchio ma il naso. Era la puzza del satirione, un fungo. Non un fungo come gli altri. Sembra quasi che la natura, nel crearlo, abbia voluto rammentare all’uomo che è suo dovere assicurare la riproduzione della specie. Il satirione sboccia da una palla bianca che si nasconde a pelo del muschio o dell’erba e, nel pieno dello sviluppo, assume forma identica in tutto e per tutto a un pene eretto. Non a caso il nome latino è phallus impudicus. Lo spettacolo di un satirione nel vigore dell’erezione è divertente, fa venire in mente storielle del trecento e barzellette pecorecce. Mentre mi scostavo dal sentiero per cercarlo, Sandra aveva proseguito borbottando qualcosa come: «Tanto non sono pezzi di ricambio». Due passi ancora e me l’ero trovato davanti. Non so perché l’inizio di eventi improvvisi e inaspettati richiami un punto. Immagine che non possiamo riferire allo spazio, come Calvino nelle Cosmicomiche, ma al tempo, se pensiamo a un’istantanea della lancetta dei secondi, colta in una certa posizione. È a questo punto, infatti, un secondo di un minuto di un’ora prossima alle cinque, che è successa la cosa. Stato A


Una piccola nuvola di gas, non più lunga di due spanne, mi si è fatta incontro fluttuando in volute allungate, come se la alitassero dolcemente, o come se la stessi attirando. Si muoveva a un palmo da terra, strato sottile a volute concentriche che pulsavano piano, bianca, quasi trasparente e inodore. Mi sono spostato di lato, ma quel piccolo banco di nebbia era giunto a lambire il ginocchio destro. Poi l’ha avvolto e ha iniziato a dissolversi. Si era fatto silenzio. Non sentivo più odori, né sensazioni di caldo o freddo, vedevo bene ma come se fossi distaccato da quanto mi circondava. Mi sentivo torpido, il ginocchio destro era paralizzato, la stessa sensazione si stava estendendo al resto del corpo. Attimi a pensare a uno sbalzo di pressione, speriamo di non svenire, l’ultima volta era successo in chiesa quand’ero ragazzo e mi avevano fatto bere olio di fegato di merluzzo per anni, aiuto, non posso gridare, mi sono allontanato dal sentiero, dov’è Sandra? Mi troverà? Poi la terra e le foglie sulle quali fino a quel momento stavo eretto mi sono salite dolcemente al volto, mentre provavo la stessa sensazione di quando, bambino stanco nel letto, mia madre rimboccava le coperte. L’ultima cosa che ricordo prima di perdere conoscenza è l’estremo lembo di quella nuvoletta che scompariva dentro di me, come risucchiata dal calore del corpo. Ho riaperto gli occhi dopo un po’ con la sensazione di non aver subito danni. Immobile, ho sbirciato con cautela quello che potevo vedere del mio corpo. Mi è parso che non mancasse niente. Ho provato a contrarre le dita della mano sinistra, che giaceva sullo strato di foglie morbide e umide. Hanno ubbidito docili. Piegato il braccio per creare una base di appoggio e sollevarmi, ho cercato di muovere le gambe. Poiché funzionavano anch’esse, ho preso coraggio e mi sono tirato su. Avvertivo solo un po’ d’instabilità, forse emozione, forse la pendenza del terreno. Non erano passati più di venti minuti dallo svenimento. Se Sandra non si era ancora fatta viva, se il bosco non echeggiava il mio nome, è perché non era ancora in allarme. Riguadagnato il sentiero, mi sono avviato nella direzione che aveva preso e l’ho incontrata dopo tre o quattrocento metri, di ritorno con una cesta di chiodini, mentre rimpiangeva tutti quelli che avremmo potuto raccogliere se non mi fossi abbandonato a fantasie micosessuali. Ha detto proprio “micosessuali”, un termine che, se l’avesse pronunciato al suo paese, nessuno l’avrebbe capita. Ma Sandra, in Italia, si è presa due lauree e ogni tanto ne usa una. 10 11


Ora sono qui a farmela sotto nell’attesa che l’ansiolitico faccia effetto e continuo a ripetermi che non c’è da preoccuparsi, che si tratta di ipocondria, che sta per passare. Ma intanto il panico mi afferra la testa e le membra e suggerisce una lunga, tragica serie di ipotesi: epilessia; incipiente sclerosi multipla, ce l’ha anche un mio consanguineo; affezione di origine tropicale all’apparato psicomotorio, questa è una brutta cosa, se l’è beccata il Focacci in Africa dopo che si era bagnato con gli ippopotami e non ne è ancora uscito; e infine tumore al cervello, il sintomo è classico. È vero, le ipotesi sono troppe e per la verità nessuna perfettamente calzante, ma l’ansia non vacilla anzi, più numerose sono le ipotesi, più alta è la probabilità che una di esse sia azzeccata. E quella nebbiolina? Era vapore acqueo condensatosi al calore del corpo? Un miasma da scarichi abusivi? No, in quel bosco non ve ne sono mai stati, e poi non maleodorava. Forse si trattava di un minuscolo banco di nebbia: dopo tutto, la nebbia si trova a banchi. Certo, non avrei mai pensato che esistessero banchi di nebbia così piccoli. Il mio paesello si chiama Prati, conta meno di trecento anime e si trova ai margini del basso Monferrato, quello più vicino a Torino. Fa comune, è dotato perciò di municipio, sindaco, gonfalone concesso dal Presidente della Repubblica – ho scoperto che, se non lo si ha, basta richiederlo ad appositi uffici, che non classificherei fra i più produttivi di questa repubblica, e te ne inventano uno mescolando in uno stemma alberi, quadrupedi, più raramente un pennuto nobile, e quasi sempre mattoni, a configurare torri, campanili o castelli. Prati ha il seggio elettorale dove voto senza mostrare i documenti, l’ufficio postale dove non si fa coda per pagare le tasse, la chiesa, due circoli ricreativi identici e concorrenti fra i quali si sono divisi i pochi maschi adulti del paese, il gioco delle bocce, il castello e due ristoranti specializzati in banchetti. Il centro commerciale è costituito da un negozio che vende un po’ di tutto, compresa La Stampa; se vuoi Repubblica, oppure le medicine o le sigarette, devi andare al paese più vicino che dista tre chilometri. Lo stesso paese dove i bambini di Prati, specie in via di estinzione a causa dell’inurbamento, vengono traslocati tutte le mattine dallo scuolabus. La casa si trova al centro del paese. Apparteneva ai nonni paterni, l’ho rimessa in sesto qualche anno fa ed è diventata il nostro rifugio. Sul fronte c’è un piccolo prato con tre abeti e qualche pianta di fiori ai bordi, una Stato A


cisterna per la raccolta dell’acqua piovana con carrucola e secchio e i resti di un vecchio pozzo che attingeva a una vena d’acqua potabile fresca e cristallina. Finché i più deficienti del paese, dal momento che non c’erano ancora le fogne, decisero di utilizzare quei pozzi come fosse biologiche e inquinarono la falda. Dietro la casa c’è l’orto, una pergola col lungo tavolo di pietra, un fienile, un enorme ciliegio e, in fondo, un basso muretto oltre il quale sfumano, di campanile in castello, le dolci colline di queste terre. La pillola comincia a fare effetto, le forze ritornano, metto legna al fuoco e lo ravvivo, raccolgo un mazzo di rosmarino buono per un bue e lo uso sia per pennellare d’olio la carne prima di posarla sulla griglia, sia come combustibile. Avvolgo due patate nella stagnola e le nascondo sotto la brace. L’effetto della pillola, il caldo del camino, Sandra che mi si è venuta ad allungare accanto facendomi venire i brividi, mezza bottiglia di nebbiolo di pregevole annata, la sensazione di essere fisicamente a posto, mi portano a rapida e completa guarigione. Domani si torna al lavoro: potrò ricominciare a tirare come un forzato per la gloria dell’azienda e il consolidamento del capitalismo.

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