La memoria delle libellule

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When spring came, even the false spring, there were no problems except where to be happiest. Ernest Hemingway, A moveable feast

Es tan corto el amor, y es tan largo el olvido. Pablo Neruda, Poemas de amor

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Tutte le citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia Nuova Riveduta 2006, SocietĂ biblica di Ginevra, Ginevra 2008.

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Il treno si muove adagio. Sono seduta in un’ampia carrozza, il cuore mi batte veloce come quello di un animale predato. Batte a doppia velocità, sono ore ormai che batte così veloce. Senza chiedermi il permesso fa di me una preda del cuore. Il treno si ferma al confine tedesco-olandese. A quanto pare è fermo già da un bel po’, senza che io me ne sia resa conto. Ai piedi ho stivali dai tacchi vertiginosi, i più alti che potessi trovare in circolazione. Me li sono comprati per questo viaggio. Ilja verrà a prendermi alla stazione, Ilja, che quando parla si misura sempre con i profeti, pretenderà di raccontarmi tutto del mio futuro, anche se io non gliel’ho chiesto. Ho prenotato un diretto Berlino-Amsterdam. Prima d’ora non mi sarei mai sognata di camminare su tacchi del genere, tanto meno di farci un viaggio all’estero. Da quando conosco Ilja, ho preso le distanze dal mio vecchio modo di vedere le cose. Quando lui mi è accanto, tutto ciò che è folle mi sembra normale e tutto ciò che è normale mi sembra folle. Richiamo alla mente lo sguardo di Ilja, immagino come sarà vederlo lì ad Amsterdam, vedere i suoi occhi, in un Paese straniero, fra gente straniera, e mi sembra così irrimediabilmente ovvio che io indossi i tacchi, che mi sia comprata stivali simili per questo viaggio, pur non sapendo come andrà a finire e se saremo felici oppure no. 9

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Fa caldo sul treno. Provo a leggere. I miei pensieri sono piccoli insetti. Scivolano di volto in volto, di finestrino in finestrino, di valigia in valigia. Poi mi alzo e passo da uno scompartimento all’altro. Per la prima volta il libro non è un amico, non mi aiuta. Mi ridò il rossetto, ancora e poi ancora, come se in questo modo potessi rendere la mia bocca bella per l’eternità. Ma l’unico risultato è una sensazione di appiccicaticcio non appena chiudo le labbra. È come un tempo, quand’ero piccola e mirtilli, more, ribes e lamponi erano per me surrogati del trucco e i baci nient’altro che frutti dell’immaginazione. Ilja ama la mia bocca. Non me lo dice mai con le parole, in modo esplicito, solo quando ci baciamo mi parla così. Morde prima un angolo della bocca, poi l’altro, per farsi strada subito dopo con la lingua in cerca di un varco, nel mezzo, dove la mia lingua già lo aspetta con impazienza. Arrotolo la lingua, la spingo in avanti come una piccola arma appuntita, ancora avanti, e quando lui arriva con le sue labbra al centro della mia bocca la ritraggo, lo attiro dentro, voglio Ilja tutto per me. Ilja arriva, arriva sempre, e io lo lascio entrare nella mia bocca ancora più in profondità, proprio come lui ora attira me dentro di sé. Sudo, sul collo, dietro le orecchie, sotto le ascelle, già in treno immagino come suderò e non sentirò nient’altro che il respiro di Ilja, immagino il momento in cui lui mi sarà accanto, in una stanza mai vista prima, e il suo respiro colmerà le mie orecchie e quella stanza sconosciuta sarà finalmente tutta per noi. Vicinanza di pelle. Vicinanza di bocche. Ilja, giorno e notte. Sono seduta sul treno e aspetto le sue parole, il suo volto, le sue mani, le punte calde delle sue dita, così La memoria delle libellule

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bianche, il suo umorismo cantilenante, che dissolve ogni tensione in una risata fragorosa. Sono mesi che sogno le mani di Ilja. Non so perché in sogno abbia sempre le sue mani proprio davanti a me, perché mi accompagnino costantemente. Forse è dall’inizio che sogno le mani di Ilja perché so che non rimarranno con me a lungo, tanto meno per sempre. Le mani sognate non sono destinate a restare. Nemmeno le mani reali, però, mi sono rimaste accanto. Ilja ha mani delicate, mani morbide, troppo delicate e troppo morbide per un uomo che è sopravvissuto a una guerra, che era ancora un ragazzo quando nuotare nel fiume e giocare per strada divennero d’un tratto cose pericolosissime. I suoi indici non sono perfettamente lisci, le ossa sporgono in modo strano, e sui polpastrelli del pollice si è impressa un’intera mappa di linee che corrono indissolubilmente legate le une alle altre, come per attirare su di sé lo sguardo oppure proprio con ciò disorientare. Ilja dice di aver preso dal padre, anche lui ha mani così, con tutte quelle linee, sono identiche alle sue le mani del padre, le mani di un marinaio della Jugoslavia unita, dice tirando una boccata alla sigaretta. Solo per vedere Ilja tenere in mano una sigaretta volerei a New York anche per un’ora soltanto, solo per poter vedere le sue mani, gli angoli della sua bocca, le punte delle sue dita e poter parlare un po’ con lui. Ilja è la mia Mosca e la mia Roma e il mio piccolo David. La sua presenza dà luce e colore a un mondo sbiadito. Sento l’odore dei colori, così come si può sentire l’odore del mare o delle arance sbucciate o dell’autunno gravido di vita.

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Ilja naturalmente mi direbbe subito di far Silenzio1, se mi sentisse dire queste cose. Direbbe che sono sciocchezze, che rispecchiano solo me. E avrebbe ragione, sarei io stessa la prima a dire, a urlare persino che sono sciocchezze, se qualcuno mi dicesse cose del genere, se a farlo fosse una persona qualsiasi, non però se lo facesse Ilja. Un pomeriggio passato al bar insieme a Ilja assomiglia a un viaggio in treno verso una qualche località del sud che in quel momento ti appartiene, perché tutto ti appartiene quando ami. Su un treno puoi pensare a qualsiasi cosa. Sin dal mio primo viaggio in treno è stato così. Con lo sferragliare delle ruote i pensieri si fanno più liberi, finché rumore e pensieri diventano un tutt’uno. Sul treno puoi metterti il rossetto quante volte vuoi, puoi guardarti i tacchi e immaginare come ti staranno bene, come sembreranno lunghe le tue gambe quando scenderai dal treno e Ilja dopo averti abbracciata si fermerà ad ammirarle, a rimirare i pantaloni neri attillati e la maglia rossa di angora con le foglie nere cucite sopra. Le foglie sono formate da minuscole perline. Disegnano una ghirlanda sopra i miei seni piccoli e sodi. Mentre immagino come sarà scendere dal treno ad Amsterdam, correre incontro a Ilja su questi tacchi, nel treno reale sul quale mi trovo, fermo a un confine reale, viene fatto per l’ennesima volta un annuncio reale. Non ho neppure fatto caso al nome del paese. Si prosegue con l’autobus, è notte fonda, e io non ho niente a cui potermi reggere. La valigia mi è stata tolta di mano sulla porta. Sull’autobus una specie di capitano con un appariscente berretto giallo-blu in testa dice che in un 1

In italiano nel testo. [N.d.T.]

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paesino olandese dobbiamo prendere un altro treno. Stavolta sudo non per il desiderio di Ilja, ma al pensiero delle mie scarpe, per la fatica che farò a camminare. I miei pensieri si addensano, mi guizzano in testa come insetti. Dopo tre minuti su quelle scarpe, e con quel pullover addosso, sono già così sudata che do l’impressione di appartenere in tutto e per tutto all’elemento acqueo. Se la mia amica Arjeta mi avesse visto in quello stato si sarebbe fatta una bella risata. La maglia rossa di angora l’ho comprata a Parigi, quando Arjeta e io vivevamo lì. Scendevamo sempre dal metrò alla fermata SèvresBabylone e gironzolavamo per ore lungo boulevard Raspail, oppure, quando d’inverno faceva freddo, anche nell’esclusivo grande magazzino Bonmarché, dove ce lo leggevano in faccia che i pochi franchi nelle nostre tasche non sarebbero bastati neppure per un café crème in uno di quei bar raffinati. Trascorrevamo pomeriggi interi dentro a quelle costose boutique senza mai comprare nulla. La nouvelle collection la conoscevamo a memoria. Una volta, mentre stavo attraversando boulevard Raspail dopo uno di quei viaggi per il mondo dell’ultima moda, incontrai in mezzo alla strada lo scrittore Milan Kundera. Si fermò per un breve istante, guardò le mie scarpe da ginnastica rosse – con sopra scritto no name – e disse: che belle scarpe che hai. Grazie, signor Kundera, risposi io; lui mi salutò con un cenno della mano, come si saluta la gente nei film. Credo fosse felice che l’avessi riconosciuto. Aveva l’aria di un uomo attempato e gentile, e anche molto vanitoso naturalmente, come nelle rare immagini che lo ritraggono. Da quel momento in poi ho trattato le mie scarpe da ginnastica rosse come delle divinità. Prima non mi era mai passato per la testa che potessero avere qualcosa di speciale. 12 13

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A Ilja non piace Kundera, non gli crede. Ilja dice che Kundera è un pessimo scrittore. Trova insopportabile persino L’insostenibile leggerezza dell’essere, il suo libro più noto. Ma in realtà ce l’ha con lui perché ha cambiato la sua lingua letteraria, perché ha abbandonato il ceco per il francese e così facendo lo ha tradito. Ilja invece non è capace di recidere le proprie radici. E lo riconosce anche – so che non sono un albero, dice, eppure le mie radici continuano a crescere a Sarajevo dovunque io vada, continuano a crescere lì dove sono nato. Sa che non può più recuperare l’età dell’oro – così chiama la sua infanzia perduta –, sa che è finita per sempre. Ma pronuncia quella grande parola come niente fosse, come si pronuncia la parola campo di calcio o comignolo. Dice quella parola per nascondervisi dietro. È il suo modo di esprimere la nostalgia, questo, il suo modo di trattare Paesi e persone. Odia gli addii e fa di tutto per tendere loro delle trappole. A volte lo aiuta la rabbia, a volte l’avversione nei confronti di coloro che scrivono in un’altra lingua, nella loro seconda, terza lingua. Mi piace il modo di pensare di Kundera. È folle come Vladimir Nabokov, folle in modo diverso, ma pur sempre folle. Tutte queste persone folli che scrivono libri o magari li leggono soltanto hanno qualcosa dei bambini di paese. Non fa differenza che scrivano, leggano, vivano nella loro prima o seconda lingua materna. Mi piacciono tutti quelli che diventano estranei a se stessi parlando lingue straniere, fino a quando quelle lingue straniere diventano le loro lingue, fino a quando tutto diventa estraneo, in ogni suo dettaglio, perché è la natura umana di per sé, nel suo insieme e in ogni suo dettaglio, l’estraneo. Che uno sia scrittore o giardiniere non ha alcuna importanza. La pioggia cade su tutti noi in modo ugualmente delicato e aspro. Non è così? La memoria delle libellule

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Nell’autobus l’aria è soffocante. Quando passiamo davanti a una stazione di servizio illuminata, sulla mia maglia le belle perle nere sopra al seno mandano bagliori. Il giorno dopo aver visto Nastassja Kinski con una maglia rossa di angora nel film di Wim Wenders Paris, Texas dissi ad Arjeta: ho bisogno anch’io di un rosso così. Abbiamo rivoltato Parigi da cima a fondo. Siamo state nelle boutique più costose per trovare qualcosa di simile alla maglia del film di Wenders. Ero ormai decisa a comprare qualcosa di Yves Saint Laurent rovinandomi economicamente. Ma alla fine ho trovato la maglia con il ricamo a Montmartre, in un negozietto di vestiti di seconda mano tutto malandato, da una biondina che puzzava di grappa. Feci subito vedere la maglia al mio compagno di pranzo Christophe in un ristorantino vegetariano in rue de Trois frères, dove lui aveva preso un appartamento in affitto. All’epoca né Ilja né io sapevamo di vivere entrambi a Parigi. Lui abitava nel decimo arrondissement, io nell’undicesimo. Spesso andava a fare due passi in rue Saint Maur, a volte andava anche a ballare con gli amici al Charbon, che al tempo era una discoteca, nel quartier branché. La sera era di moda uscire in rue Saint Maur e in rue Oberkampf. L’unica camera a un prezzo abbordabile che ero riuscita a trovare in tutta la città si trovava proprio di fronte al Charbon, ma per fortuna dava sul cortile interno, così ogni tanto la notte riuscivo anche a farmi una bella dormita. A quanto pareva la gioventù parigina al gran completo andava a ballare proprio lì, il fine settimana, e il baccano che si insinuava in ogni angolo non mi lasciava altra scelta che passare le notti sulla mia tesi di dottorato. 14 15

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