Al dì di Pentecoste

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Al dĂŹ di Pentecoste



Lazar

Giace Srda Kapurova sul gelido piano verde, nuda e cerea, il capo reclinato neanche fosse una damigella che si abbronza il collo su una spiaggia dalmata, e guarda all’indietro, scruta il mondo e la forma che assume quando si è capovolti. Il seno di Srda, due capezzoli minuti da bambina, leggermente irregolari e asimmetrici, le mani sottili e regali con dita lunghe e affusolate, stese oziosamente tra i fianchi e le cosce, e le lunghe gambe da modella, regolari e piene, gambe da pastorella slava come nelle statue di Meštrović: ogni suo particolare è così perfetto che non sembra neanche una donna qualunque, una ragazza, anzi, una bambina, tuttavia, per quanto sia bella e affascinante, una creatura da abbracciare stretta e non mollare mai più, qualcosa del suo corpo svela che di anni ne ha appena tredici, forse quattordici, sicuramente non più di quindici. E non si sa bene cosa sia; ecco, è questa ignoranza a confondere Lazar Hranilović, che da tempo si sforza di vedere in lei un’altra, di certo una donna fatta e matura, magari una sua coetanea, per riuscire a stringerla in un abbraccio e piangere a dirotto. Dentro di sé ha accumulato di tutto, come capita a chiunque nelle sue condizioni. Ma per nessuna ragione vuole farne un dramma. E mentre la osserva così, giocherellando con le dita intorno al suo corpo, lambendole con l’indice il sesso, un triangolo ricoperto da un sottile manto di nera peluria, tanto rada da dare l’impressione che col tempo un po’ ne sia caduta, Lazar ha paura che possa arrivare qualcuno. Paura del tutto immotivata: sono le tre di notte, la pesante porta d’acciaio, pensata come ingresso di un rifugio antiatomico, è chiusa a chiave e sprangata dall’interno, e nessuno – nessuno tranne lui – la può aprire. Eppure Lazar teme i propri gesti mentre gira attorno a Srda, si avvicina al suo seno, lo sovrasta fino ad avere la sensazione, chinandosi, di caderci sopra, per poi sollevarsi di scatto, cingerla con lo sguardo, così bella e candida, e infine, stanco, sedersi sulla seggiola che ha preso in portineria, accendersi una sigaretta e sospirare profondamente, come ogni uomo stanco e peccatore. 7


Allunga le mani verso di lei, con le dita esplora l’aria intorno al suo corpo, ma senza toccarla: Lazar non l’ha toccata una sola volta. Questo sia chiaro! Ora è seduto, lo sguardo indugia sulla pelle grigia come la pietra, poi incontra il mento, quel piccolo mento impertinente rivolto all’insù, che tremolando sotto la luce a singhiozzo del neon gli dà quasi l’impressione di poterla udire, che Srda possa parlare. Vergognati Lazar, sei padre, Lazar, hai una figlia, vergognati almeno per lei, sembra dirgli Srda, e l’imbarazzo lo fa sudare, benché nello stanzone ci sia un freddo terribile. Qui fa sempre così freddo. Nel pieno della calura estiva, in luglio, mentre tutti sono al mare e fuori il termometro segna i quaranta, qui dentro la temperatura raggiunge a malapena i due-tre gradi. Ecco perché è così cerea, Srda. Eh, cara, se solo tu fossi coperta da un piumino – Lazar te ne darebbe uno pesante, uno della Lika – e se in questo silenzio fossi soltanto addormentata, l’alba sarebbe tutta un’altra cosa. La testa di Lazar è affollata da pensieri di ogni sorta. Non sono più me stesso, d’altronde chi potrebbe esserlo dopo quindici anni trascorsi in questo stanzone, fra tanta solitudine. Vedi di tutto, senti voci inesistenti: basterebbe semplicemente stare qui dentro per quindici anni, ogni santa notte, sabato e domenica esclusi, e vegliare dalle dieci di sera alle sei del mattino successivo, per rendersene conto. Non è una cosa normale! Se lo fosse, il buon Dio disporrebbe che tutti gli esseri umani siano portieri di notte. Non avrebbe neppure creato l’uomo, ma direttamente un portiere, e dalla sua costola una portinaia; allora tutto il mondo se ne andrebbe in giro in uniforme da portiere di notte, con le pistole sbilenche e penzolanti da un fianco. Così parla Lazar Hranilović, se gli vien voglia di lamentarsi un po’ con i suoi o se desidera invece divertirli. E loro ridono, più per un loro tormento interiore che non per sano divertimento. Da cosa saranno mai tormentati? Non importa. Ogni uomo ha la sua pena, e la pena dei Hranilović si aggiunge a quella con cui ciascuno di noi nasce, comune a tutti i membri della stessa razza, e che con il trascorrere degli anni diventa davvero indicibile. Stanotte Lazar si accende anche una seconda sigaretta. Solleva il bavero di finta pelliccia e tira su la mano libera fin dentro la manica, vorrebbe rimanere ancora un po’ con Srda – domani è sabato, per due giorni non la potrà vedere, e due giorni non sono affatto pochi. Osserva, Lazar, un filo ampio e irregolare salire dal ventre minuto su su fino al collo, e disegnare sulla pelle di Srda un pleter, l’antico intreccio Al dì di Pentecoste


ornamentale croato. Qui c’era il taglio, qui l’hanno aperta, poi le hanno messo a soqquadro tutti gli organi per capire in che modo è morta, infine l’hanno ricucita così come si rattoppano i poveri, con quel pleter croato, come se fosse uno stemma, una bandiera o una decorazione presidenziale. Ora il pleter divide il suo corpo in due parti, ugualmente belle, che le dita di Lazar non hanno mai osato violare. Che sia chiaro, e che lo sappiano tutti: lui non l’ha mai nemmeno sfiorata! Da principio quel punto grossolano con cui il medico legale aveva ricucito la pelle gli era parso disgustoso; aveva pensato, Dio mio, che maiale dev’essere quel dottor Weber, per aver deturpato così il meraviglioso corpo di Srda Kapurova. Poi col tempo si è abituato, e ora, dopo quasi un anno e mezzo, l’intreccio sulla pancia e sul seno della ragazza gli sembra quasi bello, bello come ogni dettaglio di lei, e gli sembra che Srda non sia mai esistita senza quell’orribile taglio, senza quel punto cucito rado, senza quel filo spesso che, come sempre, il dottor Weber usa per ricamare il suo fregio croato. Quel fregio Lazar non l’aveva mai visto prima. Nessuno dei quattro portieri l’aveva mai visto. Non lo conoscevano neppure gli autisti, né gli addetti che ogni santo pomeriggio trasportano corpi freschi. Probabilmente non lo conoscevano neppure i due infermieri che lui, Lazar, ha soprannominato Caino e Abele, e che due volte alla settimana vengono per i loro controlli; non dicono una parola, ma si danno tante arie, neanche fossero primari, anziché due nullità quali sono. Nessuno, mai e poi mai, ha visto il dottor Weber qui dentro, tutto ciò che si sa è che si chiama Srdjan e che ha tagliuzzato la maggior parte dei corpi che giacciono in questo luogo. Così sta scritto sulla targhetta appesa al loro capezzale, assieme a nome, cognome e indirizzo in cui abitavano da vivi – indirizzo che tuttavia per la maggior parte di loro è ignoto – mentre per gli stranieri è indicata anche la cittadinanza. Accanto vi è inoltre un numero, simile a quello dei volumi in una biblioteca o dei detenuti in un campo di concentramento, numero con cui, chissà dove in certi registri, il corpo verrà poi catalogato. Per Srda Kapurova sono sconosciuti sia l’indirizzo sia la cittadinanza. Non si sa di chi sia figlia, da dove sia venuta e come. Proprio questo aveva attirato l’attenzione di Lazar, spingendolo a curiosare, per la prima volta, nel cassetto di quel gelido tavolo verde su cui giace Srda, in posa come se stesse cercando di abbronzarsi il collo. Lazar potrebbe giurarlo, Srdjan Weber è un ebreo. Giudeo, proprio così, brale. Giudeo, amico mio. Dunque questi qua non gli possono fare un bel niente! E poi, cosa mai dovrebbero fargli? E in fin dei conti chi sono 8

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questi qua? Con un gesto della mano, come a scacciare le mosche, Lazar scuote il capo, non trova risposte a simili domande, ben sapendo che di risposte non c’è nemmeno bisogno. Ogni uomo ha le sue colpe, non si scappa, e verrà infine salvato dalla sua capacità d’ingegnarsi, da un miracolo o dalla fortuna, oppure semplicemente dal suo essere ebreo. La colpa di Lazar ha inizio nell’estate del 1989, all’epoca in cui era milicioner, ossia poliziotto di stanza presso il Centro per il Servizio d’Ordine e Sicurezza in via Petrinjska. Si tratta di un fatto che non ha rilevanza ai fini di questa storia, anzi, è quasi del tutto superfluo, non aggiunge nulla d’importante alla vicenda di Srda Kapurova, ma per far contento Lazar è bene che lo sciagurato episodio di quando era poliziotto venga reso noto, e con esso tutta la sua vita prima di quella dannata estate del 1989. Lazar è nato a Lešće, nella regione della Lika, nel 1960, figlio di Aleksandar, combattente partigiano della prima ora, poi recluso a Goli otok, e di Stoja, casalinga, originaria di Bosanski Petrovac. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza di Lazar, fin quasi al compimento dei suoi vent’anni, il padre tacque. Il figlio non lo sentì mai parlare, nonostante sapesse che non era muto e che, mentre falciava l’erba o raccoglieva la legna nel bosco lontano dagli sguardi altrui, era solito intonare canzoni in una lingua straniera. Lazar si accovacciava dietro un cespuglio e ascoltava, tentando di capire almeno una parola delle canzoni del padre. Niente da fare. Non comprese mai una sola parola. Quando invece Stoja non poteva fare a meno di chiedere qualcosa al marito, questi prendeva carta e matita fornendole la risposta. Allora lei portava il pezzo di carta alla cognata Slavka, che abitava a tre chilometri di distanza, e quella le spiegava cosa aveva detto il marito. Stoja chiedeva, per esempio, quando bisognava portare il piccolo a Gospić per il vaccino, e lui rispondeva: non lo so, domandalo ai vicini. La vita della madre divenne molto più semplice quando Lazar imparò a leggere e scrivere. Il padre non parlava per paura di dire qualcosa di sbagliato e finire di nuovo a Goli otok. O forse non parlava per capriccio, oppure per via del suo brutto carattere. Ormai non è più dato saperlo, né a Lazar importa più di tanto, sono passati molti anni e lui fa di tutto pur di non ricordare. Non potrebbe vivere, se si dedicasse a coltivare i propri ricordi. Nell’autunno del 1975, lo zio di Aleksandar, Stojan Budisavljević, indossò il solenne abito nero da funerale, abito di morte, si appuntò le coccarde partigiane e le medaglie al valor militare che si era guadagnato sul Al dì di Pentecoste


campo, prese il piccolo Lazar per mano e lo portò a Sarajevo, alla Scuola di Polizia. Aspettavano seduti di fronte all’ufficio del direttore, di cui Lazar ricorda soltanto il nome, Osman. Attesero un’ora, due ore, tre ore, finché non gli si parò davanti la segretaria: izvinite, druže, mi perdoni, compagno, ma il direttore Osman oggi non rientrerà più in ufficio. Stojan ribatté che faceva lo stesso, lo avrebbero atteso fino al suo ritorno. «Compagno, per motivi di sicurezza lei non può rimanere qui, è proibito» rispose lei. «Tu bada al tuo lavoro, ragazza, che io bado al mio» rispose bruscamente Stojan, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Lo zio doveva aver passato l’ottantina, anno più anno meno, ma si atteggiava a cinquantenne. Portava dei lunghi baffoni alla Vuk Karadžić, neri come la pece, non aveva un solo capello brizzolato, sembrava venisse direttamente da un’altra epoca. Mamma Stoja era solita dire che quel giorno, se non fosse stato ricoperto da capo a piedi di decorazioni e medaglie titine, avrebbe dato l’impressione di uno che è stato spedito a Vienna col generale Borojević per un incarico importantissimo. E dunque quando il nostro Stojan, così agghindato, avanzò urtando la segretaria di Osman e fulminandola con i suoi occhi cerulei, lei fece un balzo improvviso, come se l’avessero sferzata con la frusta sulle dita dei piedi, e scappò subito nel suo ufficio. Non passò un minuto che dallo stesso ufficio in cui, come dire, non doveva esserci, comparve il direttore Osman. «Che vuoi?» tuonò, e la sua voce profonda da basso fece tremare i vetri delle finestre. Una voce uguale a quella di Miroslav Čangalović, una voce che – Lazar lo avrebbe ricordato per sempre – più lui era arrabbiato, più si faceva stentorea. Ristette subito alla vista della medaglia sul petto di Stojan, poi sorrise, come a dire che stava scherzando, che quel suo urlare era stato soltanto una burla. «Compagno, da te non voglio nulla, né accetterei qualunque cosa da gente che si permette di lasciare gli altri ad aspettare per ore davanti a una porta e, come se non bastasse, osa pure mentire, per giunta tramite le sue donnine, mandandole a dire che lì dentro lui non c’è. A gente così Stojan Budisavljević non chiede nulla, ma neppure dà! A ogni modo, ti ho portato questo piccolo,» proseguì afferrando Lazar per il bavero e sollevandolo dalla sedia «affinché tu faccia di lui ciò che ti pare. Suo padre è un combattente della prima ora, proprio come me, solo che lui l’hanno 10 11


spedito due volte a Goli otok, la prima per due e la seconda per sette anni. Era un “nemico del popolo”, secondo la vostra bella espressione, amava Stalin, per lui avrebbe dato la vita, e sai cosa? Lo ama ancora oggi e per questo ha tutto il mio sostegno! È orribile quando il potere costringe il popolo ad amare, ma è molto peggio quando cerca di soffocare ciò che il popolo ama. Te lo dico perché ti sia subito chiara la situazione. Questo piccolo qui è suo figlio, alle scuole militari lo hanno rifiutato, non vogliono neppure farlo diventare un pope, visto che suo padre a quei bei pretonzoli, laggiù nella Lika e in Dalmazia, si divertiva a sbruciacchiare le barbe, e se tu non dovessi prenderlo con te e fare di lui un poliziotto, gli rimarrebbe un’unica strada: diventare un delinquente, oppure un nemico del popolo, esattamente come suo padre. Ora, compagno, vedi un po’ tu quello che si può fare!» Mentre Stojan parlava, a Lazar si raggelò il sangue. Lui, a dire il vero, non sapeva nulla della galera che aveva fatto il babbo, né di Stalin, né tanto meno di Goli otok, e la cosa più semplice che gli saltò in mente fu affermare che zio Stojan diceva fandonie. È un vecchio sfumato, come la grappa lasciata sul davanzale, è fuori di testa. Per ben tre volte si è perso a Otočac, non sapeva nemmeno, poveraccio, dove fosse diretto. In realtà Lazar avrebbe voluto dire tutto questo, giustificandosi in qualche modo e dunque mettendosi in salvo, ma non ci riuscì, perché la paura gli si era come bloccata in gola: gorgogliava e si limitava a sibilare qualcosa, roteando gli occhi come se, Dio mi perdoni, fosse scemo. Dopo aver parlato, Stojan si alzò dalla sedia e fece per dirigersi fuori dall’ufficio. Lazar lo afferrò per la manica dell’abito, quello ritrasse il braccio, la manica si strappò. Certo, poteva essere riparata, del resto si era lacerata lungo le cuciture, ma non sarebbe stato più un abito da funerale, un abito di morte. Si scrollò il ragazzino di dosso e se ne andò. Lazar rimase da solo con Osman. Il suo volto era rigato di lacrime, non sapeva perché gli stesse capitando tutto ciò, la sua vita si era letteralmente spaccata in due, spalancando un abisso sul quale rimaneva sospeso, e senza alcuna colpa, o almeno così gli sembrava in quel momento. «Va bene bolan, va bene così, ragazzo! Non cedere alla disperazione, non mollare, mio piccolo zar Lazar!» cercava di consolarlo Osman più che poteva, senza avere peraltro una particolare esperienza né di bambini né di consolazioni. Di primo acchito non sapeva che farsene, eppure si era talmente impietosito alla vista di quel bambino, che non volle lasciarlo nel collegio Al dì di Pentecoste


della Scuola di Polizia, così lo portò a casa dalla moglie Nada. Non avevano figli, e neppure lei sapeva da dove cominciare, cosa e come fare con quel ragazzino. Lo fece accomodare a capotavola, al centro dell’enorme sala da pranzo, così zeppa di tappeti e arredi che Lazar aveva la sensazione di trovarsi dentro un museo, quindi gli offrì della torta e del succo di rose. La torta era dura e insapore, come se fosse stata per giorni a rinsecchire nel frigo, il succo era troppo dolce, sicché Lazar scoppiò di nuovo in lacrime. Osman e Nada stavano seduti l’uno accanto all’altra sul divano, come due vecchi tassi, in preda a profondo turbamento, e osservavano il bambino piangere a dirotto. Non sapendo che fare, rimanevano in silenzio, in attesa che tutto passasse e che quello strano, indesiderato ospite scomparisse dalle loro vite allo stesso modo in cui vi era entrato. Quella notte Lazar dormì in un letto enorme – dal quale, una volta coricatisi, era difficile scendere –, proprio sotto un quadro raffigurante un uomo con la sciabola alla cintura e il turbante in testa. È mio nonno, disse Osman con uno di quei suoi toni da basso. Di notte Lazar si svegliò più volte; accendeva la luce e guardava il quadro. Non si era mai sentito così lontano da casa. A ogni buon conto, Osman fece in modo che Lazar Hranilović fosse iscritto alla Scuola di Polizia, trascurando la detenzione del padre a Goli otok e nonostante il ragazzo fosse minuto e denutrito, di una spanna più basso dei suoi coetanei, e, come se non bastasse, timido, taciturno e riservato, dunque neanche lontanamente idoneo a ciò che si richiedeva a un futuro tutore dell’Ordine e della Sicurezza. Non è dato sapere perché Osman avesse intercesso per lui, forse perché gli faceva tenerezza, o perché era sensibile al suo futuro, visto che lui di figli non ne aveva potuti avere, o forse perché si era sentito obbligato alla vista della medaglia al valor militare conquistata dal vecchio Stojan tra le fila del famigerato “reparto della morte” – più precisamente e comprensibilmente chiamato “reparto della sepoltura certa”. Ciò, come detto, non si saprà mai. Resta il fatto che Osman indirizzò la vita di Lazar sulla strada che conduceva verso la sua attuale professione, e grazie a lui Lazar fu felice e infelice al contempo; infatti Osman, senza neanche saperlo, gli aveva salvato la testa allo stesso modo in cui lo aveva portato sulla soglia della povertà e della disperazione, sotto il coltello del nemico e davanti a un plotone di esecuzione. Per questo a Lazar ritornava sempre in mente quel direttore, lo ringraziava e lo malediva molto più spesso di quanto facesse con il proprio padre. 12 13


Se non ci fosse stato Osman, lui non si sarebbe mai trovato davanti al volto di Srda Kapurova. Il primo anno a Sarajevo per Lazar fu un vero supplizio. Già alla fine di ottobre sulla città era calata una nebbia fitta e torbida, da tutte le parti si sentiva l’odore della polvere di carbone. L’ insegnante di educazione fisica, un certo Udatny, costringeva i ragazzi a correre per l’intera mattinata dai piedi del monte fin su la cima, e quelli, durante la discesa, rotolavano a terra, sul suolo fangoso, mentre lui se la rideva e non appena tentavano di sollevarsi li ricacciava nella melma. Seguivano poi le lezioni di matematica, di geografia, di biologia; seduto sul banco di scuola Lazar tremava per la febbre. D’inverno, dopo il ritorno dalla corsa, gli veniva sempre la febbre, e senza dire nulla a nessuno, teneva duro stoicamente finché non fosse passata da sé. Il direttore Osman si aggirava spesso per i corridoi e le aule della scuola, controllava il rendimento di ciascuno, sorprendeva gli allievi a fumare nei gabinetti, tuonando ogni volta con quella sua terribile voce. Tutti lo temevano, benché lui non avesse mai punito nessuno. La paura sembrava derivare dal fatto che il direttore, almeno a quanto dava a vedere ai ragazzi, non aveva mai abbozzato un solo sorriso. «Non mollare, non mollare zar Lazar!» diceva battendogli sulla spalla. In questo modo Lazar si era guadagnato la stima dei compagni. Il direttore si rivolgeva soltanto a lui, e poi in che modo… Nessuno sapeva il motivo di siffatto onore, né che tipo di legame Lazar avesse con lui, ma tutti stavano ben attenti a non fargli qualche torto. Neppure Udatny lo spingeva più con il piede nel fango, soprattutto dopo che ebbe sentito Osman pronunciare le seguenti parole: «Non mollare, non cedere alla disperazione, zar Lazar!». Così, più per combinazione che per reale rendimento, Lazar Hranilović aveva superato la prima classe della Scuola di Polizia di Sarajevo. Tornato a Lešće per le vacanze, i suoi quasi non lo riconobbero. Non perché si fosse fatto alto e robusto – cosa del resto innegabile, era cresciuto infatti come una pianta acquatica – ma perché era diventato un tipo brusco, addirittura prepotente, un vero poliziotto, insomma. Per giunta gli si era appiccicata in bocca quella tipica parlata sarajevese, circonfusa di un tono di vaga minaccia e di non palesata viltà, da farlo sembrare già una guardia a tutti gli effetti, pronta a dare il cambio al vecchio e ormai sordo Djuka Pribanić, il quale, così almeno si vociferava nelle osterie di Gospić e di Otočac, usava spifferare a chi di dovere i nomi di coloro che parlavano bene di Stalin, e riusciva a riconoscere dallo sguardo – pure questo Al dì di Pentecoste


dicevano, forse esagerando un poco – se uno stava dalla parte di Stalin o di Tito. Non aveva bisogno d’altro, dicevano, che di vedere la luce nei loro occhi: stalinista o titoista. Allo stesso modo, quando nacque il figlio di Jozo Orešković, Djuka apparve nel giorno delle visite alla puerpera, mise un ducato sotto il cuscino, fissò gli occhi del neonato e disse: «Questo qua ti finisce dritto a Goli, vedrai… Dagli occhi gli sbuca Mikojan in persona… Insomma, caro Jozo, ti conviene soffocarlo subito come un gattino, piuttosto che aver rogne un domani». Orešković tacque, non proferì una sola parola, e aspettò che Djuka Pribanić se ne andasse per la propria strada. Nessuno, infatti, osava controbattergli. Se poi fosse stato lui o qualcun altro a rivelare il nome di Aleksandar Hranilović oramai non aveva più importanza, del resto in quei tempi durissimi, tempi di lacrime e sangue, Aleksandar era solito inneggiare ai sovietici e troppo spesso, nelle compagnie più disparate, trovava da ridire sulla linea del nostro Partito, che senza un motivo preciso era andato contro la grande e giusta Mosca. Tuttavia, quando era venuto alla luce suo figlio – che dopo il primo anno di scuola era spiccicato nei modi a Djuka Pribanić –, Aleksandar si era immalinconito. Si era fatto musone e aveva deciso di ritirarsi nella stalla. Non aveva osato nemmeno avvicinarlo, nemmeno dargli una carezza sino alla fine dell’estate. Probabilmente provò un certo sollievo quando Lazar fece ritorno a Sarajevo. Là, nel corridoio della scuola, subito accanto alla sala dei docenti, stavano ritti a far la guardia due allievi in uniforme da parata. Tra loro un tavolo ricoperto da un drappo nero con sopra un vaso di fiori e una foto listata a lutto. Il direttore Osman stava tornando dal mare con la moglie, si era addormentato al volante ed era finito direttamente nella Neretva. Tutti e due morti sul colpo. Lo stesso giorno, e senza motivo alcuno, l’allievo Davor Alebić, nativo di Klis, spinse Lazar giù dalla cima della scalinata. E mentre questi rotolava, sfracellandosi sui gradini, svelò un perfido sorriso, uno di quelli mai mostrati prima. Coloro che avrebbero potuto fermarlo o sostenerlo nella caduta non fecero altro che scansarsi, lasciando che rovinasse a terra. Alla fine della scalinata sbatté la testa contro il muro e svenne. Una volta ripresosi, non trovò nessuno intorno a sé. Da quel momento e fino a quando non ebbe imparato a difendersi, o per meglio dire, finché non ebbe imparato ad aggredire prima di essere aggredito, a Lazar sputarono addosso in continuazione e non gli risparmiarono botte e violenze di ogni tipo; di solito erano in due a tenerlo 14 15


mentre il terzo, un certo Fljorin Hajrulahu, kosovaro di Djakovica, gli spegneva la cicca sul sedere nudo; inoltre, non appena era stato lavato il pavimento del corridoio, gli buttavano addosso il secchio d’acqua sporca, oppure gli spingevano la testa nel buco del cesso, o ancora lo scaraventavano dalla finestra del primo piano giù nella neve, senza permettergli di rientrare e lasciandolo lì seminudo e rattrappito dal freddo. A scuola correva voce che Lazar Hranilović fosse il figlio bastardo del direttore Osman e che proprio per questo lui lo proteggeva. Poi anche questa diceria scomparve insieme a tutto il resto, visto che Lazar aveva imparato a difendersi, a partire dal momento in cui, senza alcun motivo apparente e fissandolo direttamente negli occhi, aveva versato l’olio con cui avevano fritto le cotolette, ancora bollente, sulle gambe di quell’Alebić. Dove fosse finito in seguito a quell’episodio, precisamente dove il diavolo l’avesse portato, non è dato sapere, in ogni caso Davor Alebić a scuola non si vide mai più. Inutili furono le sue rimostranze e le affermazioni a sostegno della tesi secondo la quale Lazar gli aveva rovesciato apposta dell’olio bollente addosso. Tutto era successo in presenza di trenta allievi più il cuoco, ognuno aveva visto e confermato che l’olio era caduto per caso, anzi, che Lazar Hranilović si era mostrato un vero compagno, accorrendo per primo in soccorso di Alebić. Nonostante questi andasse in giro accusandolo, era risaputo che quanto diceva non aveva alcun legame con la verità. Con ogni probabilità il poveraccio si tormentava perché era rimasto invalido, e quella personale disgrazia doveva pur imputarla a qualcuno. Quell’anno Lazar fu proclamato il miglior allievo della sua classe d’età. Quello che seguì, sino alla fine della scuola a Sarajevo e per ulteriori sedici mesi trascorsi presso il Servizio di Sicurezza dello Stato, quando passeggiava ogni giorno dalla Banca popolare fino alla Baščaršija, fu il periodo più bello della vita di Lazar. Dopo aver versato, in un accesso d’ira, l’olio bollente su Alebić, e osservato le sue gambe trasformarsi in un fitto arcipelago di piaghe che pian piano si dilatavano e si congiungevano l’una con l’altra fino alla punta dei piedi, fino all’alluce e all’indice, carezzevolmente separati dalla striscia di gomma di quei sandali infradito che l’avevano, sulle prime, oltremodo commosso, dopo aver dunque compiuto quel gesto ed essersi conquistato la stima degli altri allievi per aver saputo spedire il proprio nemico direttamente nel reparto di Chirurgia plastica dell’ospedale di Belgrado, Lazar Hranilović si era trasformato in un uomo pronto a tutto, disposto persino a rimanere lì per altri dieci anni, ancor più pericoloso dello stesso Djuka Pribanić, poiché quest’ultimo cercava e Al dì di Pentecoste


scovava i nemici intorno a sé, convinto di far del bene alla patria e all’intero sistema comunista, mentre Lazar non credeva in nulla, né mai sentì il bisogno – un solo giorno, un solo istante, un secondo soltanto – di credere in alcunché. Fosse dipeso da lui, molto probabilmente sarebbe rimasto a Sarajevo, dove tutti gli volevano bene e lo temevano: era uno della Lika, dunque un uomo forte e insidioso, che non rideva mai quando tutti gli altri ridevano, né raccontava barzellette a sfondo politico o di qualsiasi altro tenore. Quelli che raccontano barzellette sono sempre tipi sospetti, insegnava Lazar a quanti stavano ad ascoltarlo in silenzio – che parlino della volpe e del coniglietto oppure della testa di cavolo e della carota non importa, perché chi racconta a tutti di cavoli e carote, divertendosi a far ridere gli altri, è capace, una volta tra i suoi, di raccontare barzellette su Tito e Kardelj. È così, lo sanno tutti che è così, ma ecco, fanno finta che non lo sia. Eh, porco cane, Lazar Hranilović non si comporterà mai in questo modo, bensì – lo giuro su mia madre – sorveglierà il nemico sin dal momento in cui indugia sul cavolo e sulla carota, quando cioè Tito e Kardelj non gli passano neppure per la mente. Sbatteva il pugno sul tavolo, mentre i bosniaci lo guardavano meravigliati. Ma lo sbatteva anche davanti ai suoi superiori, e questi non avevano nulla da obiettare, anzi, lo osservavano anch’essi sbalorditi. Seminava paura intorno a sé, senza che i superiori ne capissero il motivo, perché mai cioè riuscisse a incutere così tanto spavento persino in assenza di coloro che per primi avrebbero dovuto essere spaventati. Mentre sta seduto accanto al tavolo verde sul quale giace Srda Kapurova e le braccia gli si gelano nelle maniche della giacca – non vuole andare via prima di averla guardata a sazietà –, Lazar non riesce a ricordare i tempi in cui era stato un personaggio terribile. In verità ricorda ogni minimo dettaglio, ogni volto sarajevese, ricorda quello che gli dicevano e quello che lui diceva agli altri, ricorda bene i momenti in cui sbatteva il pugno sul tavolo, ma ogni particolare è reale quanto un sogno tornato alla memoria dopo tanto tempo, perché Lazar semplicemente non ricorda quanto la gente lo temesse, e dunque non ricorda nemmeno coloro ai quali non avrebbe mai potuto far nulla, e che tuttavia, mano sul cuore, avevano pur sempre un motivo per temerlo. L’ estate si era prolungata oltre il consueto, era quella che chiamano “l’estate delle streghe”, neppure una coltre di nebbia era ancora scesa su Sarajevo, le terrazze dei ristoranti funzionavano a pieno ritmo benché fosse già la fine di ottobre. I cattolici comperavano fiori e, quasi a scopo dimostrativo, visitavano le tombe dei loro cari – gente strana, i cattolici: 16 17


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