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Carlo Cazzola

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Le persone sono ciò che ricordiamo di loro. Quella che chiamiamo vita è, da ultimo, un collage di ricordi di qualcun altro. Con la morte, quel collage si disfa e ci troviamo con frammenti slegati, casuali. Cocci o, se si vuole, istantanee. Iosif Brodskij, In memoria di Stephen Spender

Da qualche minuto due gabbiani stridono nell’aria, in un lento volo circolare. Il loro grido mi sveglia. Apro gli occhi a fatica. Non ci sei. Una scia luminosa filtra dalle persiane socchiuse, sino al punto in cui è assorbita dal pavimento. Gli angoli della camera restano in penombra. La specchiera che sovrasta il cassettone di fronte al letto riflette il chiarore del mattino. Dal soffitto scende un filo elettrico ritorto, che termina in un calice di vetro, rovesciato all’ingiù. Se al mio risveglio ancora dormi, me ne sto in silenzio a osservare la sagoma che il tuo corpo disegna sotto le lenzuola. A quest’ora, ma forse durante tutta la notte, ti rannicchi verso il bordo del letto, con il capo raccolto fra le braccia, la schiena rivolta verso il mio lato. Il movimento lieve del torace, il respiro silenzioso, riposi tranquilla, sembri appena addormentata. Non mi sorprende la tua assenza, anzi ne approfitto. Allungo le gambe in diagonale, le distendo sino a raggiungere il fondo del materasso, dalla parte che hai lasciato vuota. È tiepida. Sposto la gamba sinistra, apro un varco tra le lenzuola, in cerca di un contatto diretto con l’aria. Stiro lentamente i muscoli. La stanchezza aggruma le palpebre, vorrei riprendere il sonno appena interrotto. 6

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Ieri sera, al termine dell’ultimo spettacolo, dopo mezzanotte ci siamo fermati per una granita al bar in piazza, proprio di fronte all’arena. Leccavi lentamente il cucchiaino, le gambe accavallate, seduta sulla sedia di metallo. L’ umidità notturna increspava i tuoi capelli neri. Mi guardavi, a tratti con un’espressione enigmatica, come se fossi in procinto di dirmi qualcosa, qualcosa d’importante. Ci siamo limitati, invece, a ricordare qualche dialogo del film appena visto. A tarda notte abbiamo preso la direzione di casa, mano nella mano. Attorno, in strada, non c’era più nessuno. Indugio nel dormiveglia. Continuo a occupare i quattro lati del letto, infilo un braccio sotto il tuo cuscino. Guardo in direzione della finestra, seguo le strisce luminose che filtrano dalle stecche delle persiane. Voglio riprendere coscienza poco a poco. Allineati con la punta rivolta verso la parete, i tuoi sandali di cuoio assicurano che, a piedi nudi, sei di là, in un’altra stanza. Dopo qualche minuto decido di scendere dal letto e vengo a cercarti in cucina. Alessandro, come al solito in silenzio, è intento a preparare una caffettiera. Giulia sfoglia una rivista. Tua sorella Uqui e Paola non sono mattiniere, saranno ancora a letto, nella loro stanza. Siedo vicino a te a capotavola. Ti guardo e sfioro un braccio. Reagisci con un lieve sorriso. Nel rettangolo di cielo incorniciato dalla finestra sopra il lavello di pietra ondeggia, appena, la cima di un fico maestoso. La luminosità dell’aria annuncia un altro giorno dominato dal caldo, come ieri. Aspetto di riempire la tazzina vuota. Non penso a nulla. Intontito dal sonno, cerco di nuovo i tuoi occhi. Le pupille si stanno dilatando. Con uno spostamento progressivo e quasi impercettibile avvicini il petto al tavolo. Cerchi nel bordo di marmo un sostegno per il corpo che senti vacillare. Lo sguardo smarrito, allunghi il braccio verso di me, stringi la mia mano e tenti di mantenere l’equilibrio. Un deflusso improvviso del sangue ti scolora il viso. Scivoli all’indietro, cadresti a terra se non ci fosse la spalliera della sedia. I lineamenti del volto sono contratti. La respirazione Destierro

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entra in affanno. Le dita della mano destra si sforzano di stringere la fredda lastra calcarea. I muscoli della schiena non ti sorreggono. Alessandro, rivolto ai fornelli, accende il gas sotto la caffettiera napoletana. Giulia rimane assorta nella lettura della rivista di moda. Apri la bocca, come se riemergessi da una prolungata apnea, per facilitare l’ingresso dell’aria nella gola. Respiri a fatica, assecondando in qualche modo la spinta del diaframma. Cerchi di sollevare le spalle. Mi fissi, sorpresa, con la medesima concentrazione dovuta a un fotografo, prima che lo scatto impressioni l’immagine sulla pellicola. Le labbra appena dischiuse, indichi il bicchiere e a mala pena riesci a sussurrare: «Adriano… l’acqua…». È l’ultima parola che pronunci, chiudendo le palpebre. Allunghi la mano verso il bicchiere, ma non riesci a chiuderla attorno al vetro. Te lo avvicino alle labbra, deglutisci un sorso eppure il respiro non migliora. Nessun corpo estraneo, infatti, soffoca la tua gola. Scivoli in avanti sul tavolo proprio nel momento in cui Alessandro si volta verso di noi. Fa appena in tempo a sorreggerti sotto le ascelle, un attimo prima che la tua fronte si rovesci sul marmo. Io afferro il bicchiere che sta cadendo. Alessandro ti trasporta verso la nostra camera, aiutato da Giulia, che chiama tua sorella. Ti distendono di traverso sul letto, supina, le gambe piegate verso il basso, quasi a toccare le mattonelle, le braccia spalancate. Uqui accorre con Paola. Immobile sulla soglia, ti guardo e mi viene in mente la frase che talvolta ripetevi: «¡A cada chancho le llega su San Martín!». Ciascuno ha la sua ora. Chino su di te, Alessandro inizia la respirazione bocca a bocca. Non provo imbarazzo nel vederti sdraiata sul nostro letto, sotto il corpo di un altro uomo. Mentre lui si sforza con i polmoni, l’acqua che hai appena inghiottito ti gorgoglia in gola. Dopo qualche inutile tentativo decidiamo di caricarti sulla Renault 4. Pesi, al punto che le nostre braccia non sembrano adatte a sorreggerti. 8

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