È morto Tito

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Marica Bodrožić

È morto Tito Prefazione di Claudio Magris Traduzione di Giusi Drago



Parole tedesche per dire Jugoslavia di Claudio Magris

«Il respiro» scrive Marica Bodrožić «vive e abita nelle frasi.» Queste ultime vengono sempre dette in una lingua precisa: italiano, inglese o – come nel suo caso – tedesco. Quel respiro, che nasce da profondità ignote alle frasi ma che senza di esse non esisterebbe, è un fondo originario mai del tutto esplicitato nelle parole. Ma quando quel fondo è l’eco di un altro mormorio vitale, legato a un’altra lingua – lingua originaria d’infanzia poi abbandonata per un’altra in cui si è cresciuti, ci si è radicati e si fanno i conti con la propria esistenza – il rapporto fra l’oscuro sentire e la sua espressione si fa ancora più complesso, tortuoso e creativo. È appunto il caso di Marica Bodrožić, nata nel 1973 in Croazia e più precisamente in Dalmazia, trasferitasi a dieci anni in Germania e divenuta una delle più singolari, fresche e originali voci della letteratura tedesca contemporanea. In uno dei suoi ultimi libri, Ereditare stelle, colorare stelle. Il mio approdo alle parole1 – titolo poco felice, che non rende giustizia all’asciutta e laconica intensità del testo – l’autrice si addentra in uno dei più ricchi e complessi territori della letteratura odierna che ha visto (causa gli esodi, le emigrazioni, le dislocazioni di popoli e di Stati di cui è così prodiga la storia recente) molti scrittori scrivere in una lingua che non è quella materna, diventare autori di una letteratura nazionale diversa da quella del loro Paese d’origine. Marica Bodrožić affronta questo tema tante volte studiato con grande originalità, trasformando le riflessioni sul divenire Cfr. M. Bodrožić, Sterne erben, Sterne färben. Meine Ankunft in Wörtern, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2007.

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delle parole e il loro intrecciarsi alla formazione esistenziale in un appena accennato romanzo, nitido ed essenziale, di una complessa e luminosa chiarità. I primi dieci anni la scrittrice li passa nella natia Dalmazia, con zii, cugini e un amatissimo nonno, ma senza i genitori, emigrati in Germania per lavorare, sacrificando la loro giovinezza per assicurare a lei e a suo fratello «quella cosa chiamata futuro», quella cosa così struggente e sfuggente che è il domani. Nonostante le calde presenze famigliari – soprat­tutto quella straordinaria del nonno, quasi discreto e silenzioso coprotagonista nei racconti che compongono la presente raccolta, È morto Tito, prima e assai convincente prova dell’autrice – quegli anni fondamentali sono caratterizzati dalla mancanza di carezze materne, da un’assenza appena accennata, senza alcun’oncia di grasso sentimentale. È nella lingua tedesca – del Paese in cui la bambina va a vivere, che ora è il suo – che quel tempo sepolto riaffiora e assume la sua realtà. Come una corrente subacquea, quel passato obliato diviene parte essenziale della persona, mutando forma ed espressione; forse nasce appena ora, in quell’altra lingua, così come nasce un bambino, dopo nove mesi di esistenza sommersa ma reale. «Solo nella lingua tedesca» scrive Marica Bodrožić «prende voce e diventa concretamente percepibile la mia dimora nel mondo, il luogo e il modo in cui mi sento a casa.» L’ originale poesia della sua scrittura consiste nella simbiosi di timore e tremore e di oggettiva fermezza con cui viene percorso questo itinerario, esente da tutti i luoghi comuni dello sradicamento, del conflitto fra le identità, del pathos della frontiera. Il tiglio che non è più lipa bensì Linde acquista un profumo più intenso, anche se a lavorare nella lingua tedesca è soprattutto l’elemento slavo rimosso, il quale immette nel tedesco la tenerezza dell’infanzia ma trova nel tedesco la libertà nei confronti di quell’infanzia; l’amato e indimenticabile nonno mai uscito dal suo piccolo mondo dalmata viene realmente ricordato in tedesco, lingua in cui confluisce una luce che è dalmata, mediterranea, È morto Tito


marina. Le parole, le stesse lettere dell’alfabeto hanno sfumature, irradiazioni, colori diversi; dicono la vita ma anche la creano, diventano i lineamenti di chi scrive. L’ atroce e insensata guerra che distrugge la Jugoslavia arriva a Marica in tedesco; sono tedesche le parole con le quali lei fa esperienza dei cannoni, dei bombardamenti, delle stragi che devastano l’humus dal quale lei è cresciuta – guardando certo in alto, come i rami di un albero, e non regressivamente in basso verso le radici, ma nutrendosi di quelle linfe e delle loro trasformazioni. Ereditare stelle, colorare stelle è, per esempio, un forte ritratto – dall’esterno e dall’interno, indistinguibili – della tragedia jugoslava, di quelle genti che d’un tratto a casa loro (e di Marica) si massacrano ma all’estero (in Germania, a casa di Marica) cantano insieme le canzoni jugoslave e si sentono “fra noi”, ambiguo, indistruttibile e paradossale sentimento che trova in questo libro una potente espressione. Noi siamo le nostre radici ma queste non sono cupe e pure propaggini rivolte al buio, bensì – come ha scritto il grande scrittore antillano Édouard Glissant, parlando della civiltà creola – braccia che si protendono e si allargano in superficie incontrandone e stringendone altre, senza rinnegare l’origine, ma facendola continuamente vivere e dunque mutare nell’incontro con l’altro. Marica Bodrožić non è nostalgica della Jugoslavia, ma sa che non si può fingere che essa non sia esistita o sia stata solo una finzione. Anche il suo sanguinoso crollo sposta parole (serbo-croato, croatoserbo, croato, serbo-bosniaco, serbo) che sono vite concrete. Croata, Marica Bodrožić è una scrittrice tedesca. Ma forse entrambe le definizioni sono riduttive; un mondo più vasto (più europeo?) anche se geograficamente più piccolo è quello che si apre quando lei, costretta a malincuore a dichiarare la sua identità, risponde: «Sono nata in Dalmazia».

VI VII


È morto Tito

In paese da giorni non si parlava d’altro. Il televisore era incandescente, e il nonno non capiva perché mai un uomo appena morto e già sottoterra corresse di qua e di là sullo schermo. Cosa gli passasse per la testa, al nonno, se confinasse quest’apparizione di Tito nel regno della magia, degli angeli e del demonio o la percepisse come un mistero del mondo moderno, non lo saprò mai. So soltanto che le immagini tremolanti lo irritavano. In special modo le famose scene d’amore nei film americani, quelle lo travolgevano con la forza sibillina di una cascata. Per lui una scena con bacio sullo schermo era reale, tanto che imprecava contro la sfrontatezza delle donne a cui non importava nulla che lui le vedesse mentre baciavano. Ai suoi occhi quelle dannate labbra che sembravano non volersi più staccare equivalevano a una profanazione. Le mie risatine a singhiozzo sull’ignoranza del nonno cessarono ben presto. Alla sua domanda, che cos’altro siano le immagini se non la verità stessa, non seppi trovare risposta. Una scena con bacio poteva dunque significare qualcos’altro? Avanzava forse pretese di verità, laddove invece non manteneva la promessa? Quel giorno i baci all’americana erano scomparsi dal video, sostituiti da garofani rossi, da generali e annunciatori televisivi vestiti di nero, da bambini che recitavano poesie per il signor Josip sollevando con grazia le testoline davanti a migliaia di telecamere. Colme d’orgoglio, le madri piangevano e si soffiavano all’unisono i nasi, quasi piagati a causa del continuo strofinare. La morte del compagno le aveva gettate – aveva gettato noi tutti – in un profondo lutto. 5


Josip Broz Tito era morto: l’uomo dai giganteschi occhiali rotondi appeso nella mia classe, il volto ritratto sulla spilla che avevo ricevuto, insieme al berrettino da partigiano, alla stella rossa e al fazzoletto pure rosso, durante la cerimonia di ingresso nei Pionieri. Il suo sguardo penetrante ornava ogni minuscola bottega da calzolaio, ogni macelleria per quanto sanguinolenta, ogni polverosa sala insegnanti di qualsiasi paesino di montagna dimenticato dal mondo, ogni spaccio, ogni ufficio e ogni aula scolastica. Nessuno doveva dimenticare le gloriose battaglie dei “nostri uomini” che si erano valorosamente contrapposti al nemico e lo avevano vinto non solo con le armi bensì con il cuore, pretendendo impavidi la morte del fascismo e la libertà del popolo. Il nonno lo apprese dal notiziario del mattino e mi chiamò in tinello. Tito era su tutti i canali. Nell’arco di poche ore era divenuto l’unica immagine della nazione; visi smunti e addolorati ne costituivano il passe-partout. Agli eventi reagì anche la radio: il mio programma preferito saltò. Al suo posto dovettero mandare in onda uno speciale sulla vita e le gesta di Tito, proprio di domenica, il giorno in cui ascoltavo Dediche e saluti, la trasmissione – per me sacrosanta – dei marinai e navigatori dalmati. Così le belle canzoni al mandolino quel pomeriggio andarono irrimediabilmente perdute. Con un occhio cieco e uno vedente il nonno fissava incantato il video. Era inquieto e si tolse più volte il berretto, per rimetterselo in testa subito dopo. Continuava a emettere un breve, quasi sibilante tss-tss. Adesso il diavolo avrebbe messo in ginocchio l’intera dannata umanità e tutto sarebbe stato inutile. Inutile come la zuppa che durante la seconda guerra mondiale lui preparava per i soldati pensando che quella sarebbe stata l’ultima guerra, almeno per i successivi cent’anni. Fu allora che un soldato semplice, assegnato alla stessa compagnia del nonno, si rifiutò di fucilare venti uomini, comparsi di colpo dal nulla. Non ho mai capito a quale fronte appartenessero né l’ho mai chiesto, perché la semplice idea della loro esecuzione prendeva il sopravÈ morto Tito


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